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1^ GIORNATA 2014/15 LA CESSIONE E L’AFFITTO D’AZIENDA Sessione di approfondimento

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1^ GIORNATA

2014/15

LA CESSIONE E L’AFFITTO D’AZIENDA

Sessione di approfondimento

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INDICE

Contributi di approfondimento

6 CESSIONE DI AZIENDA: L’AVVIAMENTO a cura di Lelio Cacciapaglia

16 CESSIONE DI AZIENDA: LA TASSAZIONE DELLE PLUSVALENZE a cura di Lelio Cacciapaglia

25 CESSIONE DI AZIENDA E CONGUAGLI DI PREZZI a cura di Lelio Cacciapaglia

28 CESSIONE D’AZIENDA: APPLICAZIONE DELL’IMPOSTA DI REGISTRO a cura di Sandro Cerato

38 CESSIONE DI AZIENDA: VALORE E CORRISPETTIVO

a cura di Giovanni Valcarenghi

48 CESSIONE DI AZIENDA E RESPONSABILITÀ FISCALI

a cura di Giovanni Valcarenghi

55 AFFITTO DI AZIENDA E DIFFERENZE INVENTARIALI

a cura di Claudio Ceradini

62 AFFITTO DI AZIENDA: PARTICOLARI DISPOSIZIONI FISCALI

a cura di Lelio Cacciapaglia

79 AFFITTO DI AZIENDA: L’IMPOSTA DI REGISTRO

a cura di Sandro Cerato

91 AFFITTO D’AZIENDA: PROBLEMATICHE IVA

a cura di Fabio Garrini

100 AFFITTO D’AZIENDA COME STRUMENTO DI RISOLUZIONE DELLA CRISI

a cura di Claudio Ceradini Sulla Professional Library ulteriore approfondimento: • FAC SIMILE DI CONTRATTO

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Schemi operativi di sintesi

109 LA CESSIONE D’AZIENDA E LE IMPOSTE DIRETTE a cura di Lelio Cacciapaglia

118 LA CESSIONE D’AZIENDA E L’IMPOSTA DI REGISTRO a cura di Sandro Cerato

121 VALORE DI AVVIAMENTO: LA CORRELAZIONE TRA REGISTRO E IMPOSTE DIRETTE a cura di Giovanni Valcarenghi

123 CESSIONE DI AZIENDA E RESPONSABILITÀ TRIBUTARIE a cura di Giovanni Valcarenghi

125 AFFITTO D’AZIENDA E DIFFERENZE INVENTARIALI a cura di Claudio Ceradini

127 AFFITTO D’AZIENDA E PROBLEMATICHE AI FINI DELLE IMPOSTE DIRETTE a cura di Lelio Cacciapaglia

132 AFFITTO D’AZIENDA E PROBLEMATICHE AI FINI DELL’IMPOSTA DI REGISTRO a cura di Sandro Cerato

136 AFFITTO D’AZIENDA E PROBLEMATICHE AI FINI DELL’IVA a cura di Fabio Garrini

139 AFFITTO D’AZIENDA E CRISI DI IMPRESA a cura di Claudio Ceradini

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Contributi di approfondimento

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CESSIONE DI AZIENDA: L’AVVIAMENTO

a cura di Lelio Cacciapaglia

La cessione di azienda è un istituto spesso utilizzato per il trasferimento di piccole realtà di natura produttiva o commerciale e, negli ultimi anni, ha pesantemente subito la “concorrenza” di altre operazioni, quali il conferimento. La perdita di appeal è principalmente dovuta alla frequenza con cui viene accertata l’operazione, con frequente contestazione dei valori di avviamento dichiarati. L’avviamento è “un valore dai confini incerti che non può essere individuato con una semplice operazione aritmetica di calcolo”. In questo passaggio della decisione della CT Provinciale di Milano, Sez. III, n. 548/03/2010 del 29/11/2010 è racchiusa l’intera filosofia del metodo di calcolo dell’avviamento e degli elementi utili per la difesa in caso di accertamento dell’Ufficio.

1. Premessa

Il problema principale del contratto di cessione di azienda è certamente quello relativo alla possibilità concessa all’Agenzia delle Entrate di effettuare un accertamento in merito ai valori dichiarati; seguendo le procedure interne connesse ai termini di decadenza, l’iter usuale prevede, dapprima, un interessamento del Fisco relativamente al comparto dell’imposta di registro e, successivamente, una possibile estensione a quello delle imposte dirette. Proprio sui legami esistenti tra le due tipologie di controllo è bene svolgere alcune riflessioni, partendo dalle seguenti considerazioni: • l’accertamento ai fini del registro – che ha come obiettivo quello di stabilire il valore dell’azienda

– normalmente non raggiunge valori esorbitanti ed interessa (in via immediata) l’acquirente; pertanto, solitamente si valuta la possibilità di una definizione bonaria;

• l’accertamento ai fini delle imposte dirette rappresenta, invece, una variabile più preoccupante, avendo ad oggetto l’ammontare della eventuale plusvalenza dichiarata dal venditore che, secondo le regole dettate dal Tuir discende direttamente dal corrispettivo.

Pur essendo chiara la delimitazione esistente tra i due comparti (così come è chiara la differenza esistente tra il concetto di valore e quello di corrispettivo), la giurisprudenza degli ultimi anni ha sostanzialmente affermato la possibilità, per l’Agenzia, di considerare quale corrispettivo della cessione il valore definito ai fini del registro, salva la possibilità di fornire la prova contraria da parte del contribuente. 2. Il panorama normativo di riferimento

Il D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 ha abrogato il codificato (e assai criticato) metodo di calcolo dell’avviamento a suo tempo introdotto dal D.P.R. 31 luglio 1996, n. 460 (d’accertamento con adesione ai fini delle imposte di successione, donazione e registro).

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Cessione di azienda: l’avviamento

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La si riporta a seguire, poiché, come si vedrà gli Uffici talvolta fanno ancora pieno affidamento su tale metodologia di calcolo e anche recente giurisprudenza ha avvalorato tale metodologia adottata dall’Ufficio.

Art. 2, comma 4, del D.P.R. 31 luglio 1996, n. 460 (disposizione non più vigente)

Regolamento per l’attuazione delle disposizioni previste in materia di accertamento con adesione, con riferimento alle imposte sulle successioni e donazioni, di registro, ipotecaria, catastale e comunale sull’incremento di valore degli immobili

4. Per le aziende e per i diritti reali su di esse il valore di avviamento è determinato sulla base degli elementi desunti dagli studi di settore o, in difetto, sulla base della percentuale di redditività applicata alla media dei ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi d’imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, moltiplicata per 3. La percentuale di redditività non può essere inferiore al rapporto tra il reddito d’impresa e i ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle stesse imposte e nel medesimo periodo. Il moltiplicatore è ridotto a 2 nel caso in cui emergano elementi validamente documentati e, comunque, nel caso in cui ricorra almeno una delle seguenti situazioni: a) l’attività sia stata iniziata entro i tre periodi d’imposta precedenti a quello in cui è intervenuto

il trasferimento; b) l’attività non sia stata esercitata, nell’ultimo periodo precedente a quello in cui è intervenuto

il trasferimento, per almeno la metà del normale periodo di svolgimento della attività stessa; c) la durata residua del contratto di locazione dei locali, nei quali è svolta l’attività, sia inferiore a

dodici mesi.

3. Il metodo del soppresso decreto resta un punto di riferimento per gli Uffici

Ebbene, il soppresso D.P.R. 460/1996, individua l’avviamento derivante dalla cessione d’azienda moltiplicando i seguenti 3 elementi:

% redditività X ricavi medi triennio precedente X coefficiente fisso

Laddove: 1. % redditività: è non inferiore al rapporto tra reddito d’impresa e ricavi dichiarati o accertati; 2. ricavi medi triennio precedente: sono i ricavi dichiarati o accertati nei tre periodi d’imposta che

precedono la cessione dell’azienda; 3. coefficiente fisso di rischiosità: 2 o 3 a seconda dei casi. In particolare 2 se l’attività è iniziata da

meno di tre anni, se è esercitata parzialmente, o se la durata del contratto di locazione dei locali in cui è esercitata l’attività è inferiore a 12 mesi.

Allo stato dei fatti, dunque, l’Ufficio (e il contribuente) può determinare il valore dell’avviamento nel modo che ritiene più idoneo, caso per caso, fermo restando che, evidentemente, deve indicare nell’avviso di accertamento le motivazioni che l’hanno indotto a disconoscere le risultanze dell’atto di cessione e sostanziare il metodo utilizzato per effettuare l’accertamento di maggior valore.

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Corte di Cassazione: • Sentenza del 10 aprile 1990, n. 3014; • Sentenza del 17 agosto 1990, n. 8354

È inesistente l’avviso di accertamento che indica solo il maggior valore del bene senza fornire indicazioni del perché si è disconosciuto il valore contrattuale.

Come già detto, nonostante l’abrogazione della norma de qua, l’Amministrazione Finanziaria con la comunicazione n. 52 del 5 marzo 2003, ha fatto presente che il contribuente può continuare a fare riferimento a questo metodo per il calcolo dell’avviamento. Allo stesso modo tale metodo viene utilizzato talvolta dagli Uffici per individuare il valore dell’avviamento che, ove dichiarato in misura inferiore, è fatto oggetto di accertamento. Sul punto la sentenza 9 gennaio 2002, n. 96, C.T.R. Lazio, Sez. XXVII ha stabilito che “il riferimento al volume d’affari dichiarato dal cedente nel triennio antecedente la cessione è certamente un parametro obiettivo, non arbitrario o presunto”. Peraltro, ancorché riferibile al calcolo dell’avviamento ai fini dell’imposta di registro va annotata la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 9149 del 23/4/14 la quale ha statuito che ai fini della liquidazione dell’imposta di registro dovuta per la cessione dell’azienda, l’entità dell’avviamento può essere determinata in base ai criteri previsti dal D.P.R. 460/1996, ossia sulla base dei redditi imponibili e del volume d’affari relativi al triennio precedente alla cessione d’azienda, dati dichiarati dalla stessa società cedente nelle dichiarazioni degli ultimi 3 anni antecedenti alla cessione dell’azienda, anche se tali criteri sono indicati in una disposizione regolamentare che non sarebbe direttamente applicabile, in quanto concernente la disciplina dell’accertamento con adesione, e che è stata adottata in virtù di una norma di legge ormai abrogata. Tali dati devono ritenersi attendibili, prosegue la sentenza, giacché dichiarati dalla stessa società contribuente. La sentenza appare criticabile solo laddove la società non abbia fornito elementi utili per individuare il diverso valore dell’avviamento indicato nell’atto di cessione d’azienda. Questo, tuttavia, non significa che l’Ufficio non possa (o non debba) determinare con altro metodo l’avviamento se si dimostra che vi siano metodologie che meglio colgano le caratteristiche dell’azienda ceduta.

4. Gli ulteriori elementi utili per la stima dell’avviamento

Anzi, è proprio la Circolare del ministero delle finanze 24 febbraio 1993, n. 28/11945, parte I, che invita gli Uffici a determinare l’avviamento dopo aver acquisito elementi in ordine a: • ubicazione dei locali di vendita; • stato e titolo di possesso dei locali; • numero delle vetrine e dei locali adibiti a esposizione; • numero degli ingressi di cui fruisce la clientela; • tipo di clientela; • numero degli addetti all’attività; • attrezzature, arredi e loro stato di conservazione; • quant’altro possa essere ritenuto utile ai fini della valutazione dell’azienda. Peraltro, va sottolineato che, altre pronunce (Cfr. sentenza 20 settembre 1996, n. 8397, Corte di Cassazione) hanno stabilito che l’ammontare dell’avviamento:

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Cessione di azienda: l’avviamento

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• debba essere “desunto dalla capacità di profitto dell’azienda apprezzabile sulla base di indici o criteri valutativi tra i quali rientrano elementi quali la felice ubicazione del punto vendita, il tipo di attività svolta, il prestigioso nome dell’azienda”;

• ovvero che l’avviamento è “un valore dai confini incerti che non può essere individuato con una semplice operazione aritmetica di calcolo”.

5. I punti deboli della metodologia di valutazione dell’Ufficio

La metodologia prevista dal soppresso art. 2, quarto comma del D.P.R. 460/1991 costituisce l’unico punto di riferimento, caratterizzato peraltro da notevoli incertezze concettuali, posto che nell’ambito della sopra indicata formula non si comprende: • se per determinare la percentuale di redditività, il reddito da porre a raffronto con il fatturato debba

essere quello del periodo d’imposta in cui avviene la cessione o quello precedente; • fino a che punto la percentuale di redditività (2 o 3) possa subire “rialzi” in presenza di elementi

giustificativi addotti dall’Ufficio. Ed è questo un altro aspetto critico posto che gli Uffici per argomentare meglio i propri avvisi di accertamento, al metodo di calcolo previsto dall’art. 2, comma 4, del D.P.R. 460/1996, hanno aggiunto nuovi metodi apparentemente più raffinati, ma che ripropongono un automatismo applicativo che attribuisce valori di avviamento comunque fondati sull’utilizzazione di dati discutibili quali, come vedremo, un forfetario indice di rischiosità. 6. La giurisprudenza prevalente sui criteri di stima dell’avviamento

La giurisprudenza sino ad oggi per lo più ha riconosciuto non idonei metodi forfetari per la individuazione dell’avviamento, talché si può sinteticamente affermare che in caso di contenzioso prevale chi fornisce gli elementi più convincenti per individuare il corretto valore dell’avviamento e, in definitiva, più è articolata e complessa la valutazione dell’avviamento relativo all’azienda o al ramo d’azienda oggetto di cessione e, se avvalorato il valore in base a perizia di un tecnico abilitato, più l’Ufficio si troverà in difficoltà nel sostenere il metodo approssimativo utilizzato facendo affidamento sul soppresso D.P.R. 31 luglio 1996, n. 460.

La giurisprudenza sulla determinazione dell’avviamento

CT 1° grado di Latina, decisione del 17 dicembre 1987, n. 507

Il valore dell’avviamento indicato nell’atto di cessione è frutto della libera contrattazione tra le parti e, in questo caso, coincide con il valore che scaturisce utilizzando il metodo del sovra reddito.

CT 2° grado di Trieste, Sez. II, decisione del 1° marzo 1988, n. 97

Non è condivisibile l’operato dell’Ufficio, che si limita a considerare l’avviamento pari al 20% del volume d’affari medio del triennio 1979/1981. Non è condivisibile neanche il metodo del contribuente che determina l’avviamento in base al reddito al netto delle imposte: le imposte, infatti, rappresentano un prelievo dal reddito prodotto, e non un costo di produzione di detto reddito.

CTC, Sez. XXI, decisione del 21 giugno 1990, n. 4857

È da escludersi che nella determinazione dell’avviamento si possa qualificare adottando formule astratte e generali senza tenere conto delle concrete particolari caratteristiche della singola azienda.

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Corte d’appello di Venezia, sentenza del 21 gennaio 1993

L’avviamento va stabilito non sulla base di parametri generici e di affermazioni riferite a indeterminate fonti di convincimento ma tenuto conto della effettiva consistenza dell’azienda e della sua potenzialità reddituale, che non può mai prescindere da un esame dei libri contabili. Il volume d’affari annuo ha un valore solo se comparato ai costi e alle altre componenti della gestione altrimenti esso finisce per corrispondere ad un parametro di stile del tutto inconsistente.

CTC, Sez. VI, decisione del 16 novembre 1995, n. 3707

Per determinare il valore dell’avviamento deve farsi riferimento al reddito dichiarato ai fini dell’imposta personale e non al volume d’affari ai fini IVA.

CT 1° grado di Sondrio, decisione del 14 marzo 1996 n. 13

È inidonea e non corretta la modalità di determinazione dell’avviamento che tenga conto solo del volume d’affari della ditta cedente. Nella valutazione dell’avviamento non è possibile prescindere dal reddito d’impresa.

CTR Lombardia sez. XXII, sent. 111/98 del luglio 1998

Il reddito e il volume d’affari non possono essere gli unici parametri su cui basare le valutazioni dell’avviamento poiché occorre tenere conto anche dei costi e degli altri componenti della gestione.

CT Provinciale di Milano, Sez. XXXIII, sentenza del 9 luglio 1999, n. 348/23/99

Poiché ogni azienda ha una sua peculiarità da considerare attentamente caso per caso, per determinare il valore dell’avviamento non vanno sopravvalutati i risultati dei metodi storici più disparati, basati su mere formule matematiche. Piuttosto è necessaria un’equa valutazione degli elementi concreti dell’azienda, quali il tipo di attività e l’ubicazione.

Cassazione, sentenza del 20 settembre 1996, n. 8387

L’avviamento non può essere determinato sulla base di parametri generici o affermazioni apodittiche o con riferimento ad indeterminate fonti di convincimento, ma deve basarsi sulla effettiva consistenza dell’azienda e della sua capacità reddituale non prescindendo dall’esame delle scritture contabili.

CT Regionale del Lazio, Sez. IV, sentenza del 9/11/2010, n. 11/04/11

La quantificazione dell’avviamento di un esercizio commerciale è operazione difficile e delicata, anche e soprattutto per la mancanza di una compiuta disciplina giuridica sull’argomento. La giurisprudenza ha ritenuto nullo l’accertamento basato esclusivamente sul criterio basato sul (soppresso) D.P.R. 460/1996. L’Ufficio ha basato il proprio accertamento senza alcun riferimento alle concrete caratteristiche particolari dell’azienda.

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Cessione di azienda: l’avviamento

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7. Una esemplificazione pratica di verifica dell’Ufficio

Nel prosieguo si propone un caso concreto di determinazione del valore dell’avviamento da parte dell’Ufficio. Cessione di azienda effettuata nei primi mesi del 2014, la cui situazione reddituale ed il cui inventario di cessione sono riepilogati nei seguenti prospetti:

INVENTARIO DI CESSIONE

BENI IMPORTI

MOBILI ED ARREDI € 15.000,00

ATTREZZATURE € 25.000,00

MERCI € 38.00,00

TOTALE € 78.000,00

ANNO RICAVI REDDITI

2011 € 600.000,00 € 45.000,00

2012 € 680.000,00 € 48.000,00

2013 € 650.000,00 € 40.000,00

TOTALI € 1.930.000,00 € 133.000,00

MEDIA € 643.330,00 € 44.333,00

In base al criterio del soppresso D.P.R. 460/1996 lo sviluppo dei calcoli sarebbe:

Reddito medio del triennio x 100

Ricavi medi del triennio

COEFFICIENTE = 44.333,00 x 100 = 6,89% 643.330,00

AVVIAMENTO = 643.330,00 x 6,89% = = 44.325,00 x 3 (coefficiente fisso) = euro 132.976,00 In definitiva il valore dell’avviamento individuato dall’Ufficio attraverso il conteggio è l’ammontare medio dei redditi dell’ultimo triennio. Ciò fornirebbe, secondo l’Ufficio e una parte della giurisprudenza (minoritaria) una chiave logica e coerente del risultato, si sottolinea sin d’ora, del tutto autoreferenziato.

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7.1 Gli ulteriori elementi utilizzati dall’Ufficio

Tuttavia, detto metodo non considera i variegati, articolati e riconosciuti fattori che, nella realtà, secondo la tecnica aziendalistica influiscono in modo significativo sul valore di un’azienda. Nel caso oggetto di esemplificazione, l’Ufficio è andato un po’ oltre, introducendo alcuni elementi tratti dalla tecnica aziendalistica per la cessione delle aziende individuali di piccole dimensioni. Posto che il valore di un’azienda è individuabile come direttamente proporzionale alla sua capacità di produrre un flusso di reddito nonché alla probabilità che detto flusso risulti costante negli anni successivi,1 l’Agenzia delle Entrate ha cercato una stima maggiormente idonea per individuare il valore dell’azienda ceduta, utilizzando un metodo di tipo sintetico-patrimoniale (quello della capitalizzazione del reddito prospettico), correggendolo poi mediante la separazione teorica tra le remunerazioni attese per due distinti fattori produttivi. 7.2 Il reddito medio prospettico

Secondo l’Ufficio nelle aziende di piccole dimensioni è ragionevole affermare che il reddito medio prospettico atteso deriva da due distinti e separati fattori produttivi: • il lavoro del titolare all’interno dell’azienda; • il capitale da questi nella stessa investito. Entrambi, ovviamente, devono essere opportunamente remunerati dai redditi attesi affinché ci sia una convenienza all’acquisto dell’azienda. Per procedere alla stima dei valori, l’Ufficio ha, quindi, scisso idealmente in due parti il rendimento atteso da tali aziende, che, in condizione di normalità dei mercati, è stato fatto comunque pari al “reddito medio” desunto nel triennio precedente all’anno in cui avviene la cessione: • remunerazione del lavoro: una prima parte destinata a remunerare il lavoro che il nuovo titolare

avrebbe apportato nell’azienda; • remunerazione del capitale: l’altra parte rappresentante la remunerazione che avrebbe dovuto

avere il capitale da questi investito. La quantificazione del primo di questi due componenti (rendimento del lavoro), denominato in dottrina “stipendio direzionale”, è stata fatta desumendo dalle tabelle reddituali, allegate ai C.C.N.L., il compenso che andrebbe a percepire un lavoratore dipendente che venisse a ricoprire nell’azienda un posto di responsabilità, dando per dimostrato che un imprenditore che intenda subentrare nella gestione di un’azienda proferirebbe in essa il suo lavoro e che, per tale impegno, si attenderà un compenso che sia almeno pari a quello che potrebbe percepire qualora andasse ad occupare, in qualità di dipendente, una posizione di responsabilità all’interno di un’azienda similare appartenente ad altro soggetto. Dall’esame dei CCNL applicabili nell’anno in cui è avvenuta la cessione è stata desunta la seguente posizione retributiva:

Livello Quadro A

Stipendio mensile € 1.858,36

N° mensilità 14

Stipendio direzionale € 26.017,04

1Peraltro, nel formulare il (soppresso) co. 4, dell’art. 2 del D.P.R. 460/1996, n. 460, il legislatore ha indicato proprio il reddito come principale valore di riferimento.

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Cessione di azienda: l’avviamento

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7.3 La remunerazione del capitale investito

Il secondo componente, cioè la remunerazione che avrebbe dovuto avere il capitale investito, è stato stimato utilizzando la formula della “capitalizzazione della rendita perpetua”:

V = C / i

Dove: • “V” è il valore capitalizzato; • “C” il capitale investito; • “i” il tasso unitario di capitalizzazione.

Nell’avviso di accertamento è stata utilizzata la corrispondente formula in cui il tasso di capitalizzazione è espresso come tasso percentuale (indicato con r):

V = [(C / r) * 100]

Come l’Ufficio ha individuato il tasso di capitalizzazione “i”

+ Rendimento medio

Rappresenta il rendimento di investimenti alternativi privi di rischio: si acquisisce il tasso medio di rendimento dei titoli di Stato a lunga scadenza.

+ Indice di rischiosità

Trattasi delle sintesi di tutti i fattori interni ed esterni all’azienda che possono influenzarne la redditività e che, in ultima analisi, ne misurano le variabili. Esempi di fattori legati alla specifica rischiosità dell’azienda: ubicazione del punto vendita; prospettive future di incremento della concorrenza; trend economico generale dell’economia; andamento del settore merceologico di appartenenza. Tale indice in modo apodittico è stato quantificato con un valore doppio rispetto all’indice precedente, assumendo che tale indice sia ragionevolmente indicabile in tale entità.

= TOTALE TASSO DI CAPITALIZZAZIONE

Da ultimo, per individuare con maggior attendibilità i risultati conseguiti, i redditi degli anni precedenti sono stati depurati dall’effetto dell’inflazione ISTAT determinando il loro valore reale alla data di cessione:

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ATTUALIZZAZIONE IMPORTI

ANNO REDDITI ORIGINARI INFLAZIONE

(dati di fantasia) REDDITI ATTUALIZZATI

2012 € 45.000,00 1,0273 € 46.228,50

2013 € 48.000,00 1,0310 € 49.488,00

2014 € 40.000,00 1,0150 € 40.600,00

A questo punto il valore dell’azienda è stato così determinato:

A UTILE MEDIO TRIENNIO PRECEDENTE € 45.348,83

B STIPENDIO DIREZIONALE € 26.017,04

C (A-B) € 19.421,79

D RENDIMENTI RISCHIO ZERO 3%

E MAGGIORAZIONE RISCHIO AZIENDALE 6%

F RENDIMENTO MEDIO ATTESO (D+E) 9%

G VALORE DELL’AZIENDA (C/F * 100) € 215.797,70

7.4 La sintesi dei valori

Conseguentemente, il valore dell’avviamento è stato così accertato:

Determinazione valore avviamento

A MOBILI ED ARREDI € 15.000,00

B ATTREZZATURE € 25.000,00

C MERCI € 38.00,00

D TOTALE BENI CEDUTI € 78.000,00

E AVVIAMENTO (F-D)

(215.797,70- 78.000,00) € 137.797,70

F VALORE DI CESSIONE € 215.797,70

8. Gli elementi per smontare la tesi dell’Ufficio

Ciò posto, il punto contestabile di tale metodologia di individuazione del valore dell’azienda è costituito dal coefficiente di rischiosità aziendale, elemento in cui le stime sono altamente discrezionali.

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Cessione di azienda: l’avviamento

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Nel caso esemplificato, il coefficiente è individuato in misura pari al doppio del rendimento dei titoli di stato, senza però fornire alcuna argomentazione al riguardo. Anche aumentare o ridurre di poco il valore avrebbe condotto a risultati anche molto diversi. In sede di accertamento con adesione, dunque, il contribuente, laddove riesca, potrebbe produrre elementi per modificare a proprio vantaggio l’indice di rischiosità introducendo nel procedimento tutte le specifiche conoscenze ed informazioni sui fattori che influenzano la specifica rischiosità aziendale e giungere, così, ad un eventuale accordo con l’Ufficio. Si segnala al riguardo che esistono stime di rischiosità per tasso che vengono periodicamente aggiornate da organismi tecnici. Ad esempio, i tassi di capitalizzazione più frequentemente assunti negli ultimi anni nella esperienza di alcuni Paesi europei sono contenuti nei seguenti limiti: • per l’industria, dal 6 al 10% (valori tipici: 7-8%); • per il commercio, dall’8 al 15% (valori tipici: 10-12%); • per la banca ed il parabancario, dal 6 all’8%; • per le società immobiliari, dal 4% al 6%; • per le assicurazioni, dal 5% al 7% e così via. È bene sottolineare che l’eventuale accordo con l’Ufficio deve essere valutato anche con riferimento alla possibilità che quest’ultimo utilizzi il valore pattuito anche per la determinazione della plusvalenza ai fini delle imposte sui redditi.

In breve: 1. La cessione di azienda è un accordo frequentemente utilizzato nel passato per la sua duttilità

e semplicità, prestandosi molto bene ad essere utilizzato per il trasferimento di piccole realtà commerciali e produttive

2. A decorrere dal 2004, è lo stesso Legislatore che indirizza il contribuente ad utilizzare il conferimento come metodologia per trasferire l’azienda, con la successiva cessione delle partecipazioni, eventualmente beneficiando della Pex

3. L’accertamento degli atti di cessione d’azienda porta spesso gli Uffici a contestare la misura dell’avviamento pattuito tra le parti

4. La determinazione dell’avviamento appare una operazione dai confini alquanto labili, essendo soggetta a molteplici valutazioni di natura altamente soggettiva

5. Legare la misura dell’avviamento a meri calcoli matematici, come faceva l’Agenzia delle Entrate nel passato, significa svilire il significato della dottrina aziendalistica cha ha elaborato nel tempo numerose metodologie per addivenire alla quantificazione del parametro

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CESSIONE DI AZIENDA: LA TASSAZIONE DELLE PLUSVALENZE

a cura di Lelio Cacciapaglia

La cessione dell’azienda o di ramo d’azienda dà luogo a realizzo di plusvalenza (o minusvalenza) rilevante ai fini delle imposte sui redditi. La determinazione della plusvalenza avviene contrapponendo il corrispettivo della cessione al netto degli oneri accessori al costo fiscalmente riconosciuto dell’azienda. Se il metodo di determinazione è codificato, i criteri di tassazione si diversificano a seconda che il soggetto cedente sia un impresa individuale, un soggetto Ires, ovvero una società di persone in attività o in liquidazione. Chi intende utilizzare tale accordo, anche per volontà della parte avente causa, farà bene a pianificare tale conteggio per minimizzare il carico fiscale connesso all’operazione.

1. Inquadramento normativo della tassazione delle plusvalenze

Attualmente, a seguito della riforma Ires (D.Lgs. del 12 dicembre 2003, n. 344) in vigore dal 1° gennaio 2004, le plusvalenze derivanti dalla cessione d’azienda sono classificate in due articoli: • art. 86 rubricato “Plusvalenze patrimoniali” che disciplina la determinazione della stessa in

ambito Ires (vale a dire società di capitali, cooperative, enti commerciali); • art. 58 rubricato “Plusvalenze” che determina le modalità di concorrenza al reddito della

plusvalenza nell’ambito delle imprese individuali e delle società di persone.

Art. 86, comma 4, Tuir Art. 58, comma 1, Tuir

4. Concorrono alla formazione del reddito anche le plusvalenze delle aziende, compreso il valore di avviamento, realizzate unitariamente mediante cessione a titolo oneroso. Se il corrispettivo della cessione è costituito esclusivamente da beni ammortizzabili, anche se costituenti un complesso o ramo aziendale, e questi vengono complessivamente iscritti in bilancio allo stesso valore al quale vi erano iscritti i beni ceduti, si considera plusvalenza soltanto il conguaglio in denaro eventualmente pattuito.

1. Per le plusvalenze derivanti da cessione delle aziende, le disposizioni del comma 4 dell’articolo 86 non si applicano quando è richiesta la tassazione separata a norma del comma 2 dell’articolo 17.

Le minusvalenze sono disciplinate invece nell’art. 101 del Tuir.

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Cessione di azienda: la tassazione delle plusvalenze

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Art. 101 del Tuir

1. Le minusvalenze dei beni relativi all’impresa, diversi da quelli indicati negli articoli 85, comma 1 e 87, determinate con gli stessi criteri stabiliti per la determinazione delle plusvalenze, sono deducibili se realizzate ai sensi dell’articolo 86, commi 1, lettere a) e b) e 2.

Dunque, per via del richiamo al comma 2 dell’art. 86 sono deducibili anche le minusvalenze relative alla cessione di aziende. 2. La plusvalenza da cessione azienda è unitaria

In relazione alla operazione di cessione d’azienda la plusvalenza (o minusvalenza), in considerazione del carattere unitario dell’azienda stessa, è riferita all’intero compendio e non ai singoli beni (materiali e immateriali), crediti, debiti e fondi che la compongono. Ciò in quanto l’azienda è una universitas rerum ancorché composta da singoli beni (R.M. 8 febbraio 1979 n. 9/199). In relazione al concetto unitario di plusvalenza/minusvalenza è importante segnalare che nella Circ. 6/2006 (risposta a quesito 5.2), l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che, se viene ceduta una azienda che comprende partecipazioni che si qualificano per l’esenzione ai sensi dell’art. 87 (Pex), la plusvalenza non può essere scorporata bensì concorrerà a determinare la componente straordinaria di reddito riferibile all’intero complesso aziendale e sarà assoggettata a tassazione secondo le ordinarie regole previste dall’art. 86 e non con le favorevoli disposizioni della Pex. Laddove, nel bilancio del soggetto cedente, dovesse essere presente un avviamento per l’acquisto riferito all’azienda oggetto di cessione, il costo fiscale residuo concorrerebbe per il cedente medesimo a formare il costo complessivo dell’azienda ceduta da contrapporre al corrispettivo della cessione. In tal senso depone la circolare del 18 maggio 2000, n. 98 che affronta la problematica della fusione di Alfa in Beta con emersione di disavanzo di fusione riconducibile ad un avviamento della società incorporata con successiva cessione a terzi dell’unico ramo aziendale pervenuto a seguito dell’incorporazione. Il quesito verteva sulla destinazione dell’avviamento acquisito a seguito della incorporazione e fiscalmente rilevante poiché era stata pagata l’imposta sostitutiva prevista dal D.Lgs. 358/1997: nello specifico, l’istante chiese se l’avviamento dovesse rimanere nella incorporante Beta o se diversamente dovesse essere trasferito al soggetto terzo che acquistava l’azienda. La risposta fu che l’avviamento è un componente del ramo d’azienda ceduto e conseguentemente non può essere mantenuto nel bilancio di Beta, poiché esso nei fatti è trasferito all’acquirente. 3. Il costo fiscalmente riconosciuto dell’azienda ceduta

Per determinare la plusvalenza (o minusvalenza) derivante dalla cessione dell’azienda, occorre individuare tutti i valori fiscali dei singoli beni, crediti e debiti che compongono l’azienda al momento della cessione, posto che andranno contrapposti al prezzo di cessione. Questa analisi si basa evidentemente sulle scritture contabili che vanno aggiornate sino al momento in cui si sottoscrive l’atto di compravendita notarile.

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L’aggiornamento della contabilità, necessario per acquisire detti elementi, non deve necessariamente essere eseguito nel giorno della stipula, posto che la plusvalenza è assoggettata a tassazione in dichiarazione dei redditi, quindi il tempo tecnico per determinare la plusvalenza è certamente congruo. Più complesso risulta stabilire il prezzo di cessione che, quanto meno per la componente patrimoniale dell’azienda ceduta (crediti/debiti) necessita di una situazione la più aggiornata possibile. Da qui, talvolta, la formula di indicare nell’atto che il corrispettivo della cessione indicato è soggetto a conguaglio sulla base dei dati definitivi di bilancio riferiti al giorno del passaggio di proprietà. Il costo non ammortizzato dei beni facenti parte l’azienda deve essere inteso ai fini dell’applicazione della disposizione tributaria come “costo fiscalmente riconosciuto” ed è determinato dal costo d’acquisto, al netto di eventuali contributi ricevuti per l’acquisto, compresi eventuali oneri accessori di diretta imputazione (ai sensi dell’art. 110 del Tuir), meno gli ammortamenti fiscali già dedotti. In particolare gli ammortamenti dei beni materiali e immateriali devono essere calcolati pro-rata temporis e, pertanto, nel periodo d’imposta in cui avviene la cessione il venditore determinerà l’ammortamento per il lasso di tempo “inizio del periodo d’imposta - data della cessione”. A tali conclusioni si deve pervenire in base alla risoluzione 12 febbraio 2002 n. 41/E che, nell’ambito delle operazioni di conferimento per la determinazione del reddito imponibile del conferente (ma la fattispecie è pacificamente utilizzabile anche nel caso di cessione d’azienda), ha chiarito che le quote di ammortamento relative ai beni facenti parte dell’azienda conferita debbono essere calcolate ragguagliando la quota ordinaria ai giorni che intercorrono tra l’inizio del periodo d’imposta e la data del conferimento, sempre che tale scelta sia applicata in modo uniforme a tutti i beni dismessi o alienati nel corso dell’esercizio. Appare evidente che per individuare il costo fiscalmente riconosciuto dei singoli beni e valori che compongono l’azienda non si può fare affidamento solo sulle scritture contabili (libro giornale e libro inventari) che, per quanto sia, costituiscono comunque il punto di partenza, ma occorrerà anche effettuare una ricognizione del libro cespiti ammortizzabili (posto che potrebbero essere stati calcolati ammortamenti superiori a quelli fiscalmente consentiti) nonché le dichiarazioni dei redditi degli anni in cui sono stati dedotti gli ammortamenti. Per l’imprenditore in contabilità semplificata, mancando il libro giornale e il libro degli inventari, si farà riferimento al libro cespiti ammortizzabili ai libri IVA e ad eventuali altri documenti rappresentativi. Dunque, pur potendo divergere tra loro, sia contabilmente, sia fiscalmente, la plusvalenza è unitaria, vale a dire riferita cumulativamente a tutto il complesso aziendale ceduto, e non frazionata sui singoli beni che lo compongono. Merita di essere segnalato che raramente nell’azienda s’include la consistenza in cassa e le disponibilità presenti sui conti correnti bancari che restano di pertinenza del cedente. Tutto ciò, indubbiamente, agevola la gestione operativa del trasferimento dell’azienda. 4. Il corrispettivo della cessione è al netto degli oneri la cessione

La plusvalenza, come detto, in base al comma 2 dell’art. 86 del Tuir “è costituita dalla differenza fra il corrispettivo …(omissis)…, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, e il costo non ammortizzato”. Tra gli oneri accessori di diretta imputazione, da poter dedurre dal corrispettivo conseguito, possono annoverarsi, a titolo esemplificativo, i compensi di mediazione, le spese legali, le spese di perizia e quant’altro è in diretto riferimento all’operazione di vendita e alla quantificazione del corrispettivo, come peraltro chiarito dalla Agenzia delle Entrate nella circolare del 4 agosto 2004, n. 36, paragrafo 3. La vicenda, chiara nei principi, di fatto può comportare problemi operativi notevoli.

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Cessione di azienda: la tassazione delle plusvalenze

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La questione non di secondaria importanza, è data dal fatto che taluni costi potrebbero essere sostenuti nell’esercizio precedente la vendita e, in quanto accessori, dovrebbero essere sospesi dalla partecipazione al reddito dell’anno e, per il principio di correlazione e accessorietà, dovrebbero essere ribaltati nell’esercizio successivo in cui la cessione della suddetta azienda si perfeziona; in quell’anno verrebbe così determinata la corretta plusvalenza fiscale. Con riferimento a quanto precede, l’Agenzia delle Entrate nella circ. n. 36/E del 4 agosto 2004 (paragrafo3) ha esemplificato i “costi specificamente inerenti alla cessione”: • negli oneri accessori sostenuti in occasione della cessione della partecipazione (e perché no,

dell’azienda), quali, ad esempio, le spese notarili, quelle per le perizie tecniche ed estimative, le provvigioni dovute agli intermediari;

• in altri eventuali oneri che siano specificamente e non solo “indistintamente” collegati alla realizzazione della plusvalenza.

Ebbene, suscita perplessità in chi scrive aver ritenuto accessori alla vendita le perizie tecniche ed estimative, che non sembra possano essere considerate accessorie alla cessione dell’azienda bensì, al limite, propedeutiche alla cessione medesima. La questione è stata oggetto di approfondimento anche da parte di Assonime che, nella circ. n. 38 del 6 luglio 2005, senza giungere ad una presa di posizione definitiva, ha ritenuto di non poter identificare dei parametri per distinguere fra la categoria degli oneri accessori, che concorrono direttamente alla determinazione delle plusvalenze, e quelli che concettualmente se ne differenzierebbero, pur rimanendo spese collegate alla realizzazione delle plusvalenze stesse. Di valido ausilio alla soluzione della problematica appare, invece, la sent. 225/37/2011, depositata il 27 settembre 2011, della Commissione tributaria regionale del Lazio, Sezione XXXVII, che si è occupata del regime di deducibilità di alcuni costi connessi alla cessione di partecipazioni, sostenuti da una società controllante per le consulenze professionali relative alla vendita di una partecipazione detenuta in una società controllata, affermando che detti costi sono pienamente deducibili, sebbene quest’ultima sia dotata delle condizioni richieste dal legislatore per accedere al regime della Pex. Ed infatti, chiarisce la sentenza, i costi che fiscalmente devono essere sterilizzati e non dedotti sono solamente gli oneri accessori sostenuti in occasione della cessione e collegati specificamente alla realizzazione della plusvalenza, quali ad esempio, le spese notarili, le provvigioni a mediatori e simili. Tra gli stessi non si possono, pertanto, annoverare i costi sostenuti per tutte le attività preparatorie alla cessione, quali le spese per consulenze propedeutiche alla cessione stessa. Questi ultimi costi non possono considerarsi “oneri accessori” della cessione, non essendo stati sostenuti in occasione della cessione, ma solo quale presupposto in fase preliminare di studio e analisi della medesima all’assistenza nella predisposizione dei contratti. Le conclusioni sono di valido conforto per consentire la deduzione del costo della perizia nel periodo d’imposta in cui la stessa viene consegnata dal perito all’impresa. 5. La cessione d’azienda dell’imprenditore individuale

L’art. 58, comma 1, Tuir (che riguarda solo le imprese individuali) stabilisce che il frazionamento della plusvalenza derivante dalla cessione d’azienda (o ramo d’azienda), non si applica quando si fa richiesta di assoggettare detta plusvalenza a tassazione separata, a norma dell’ art. 17, comma 2, del Tuir il quale alla lett. g) dispone che le plusvalenze, compreso il valore d’avviamento, realizzate mediante cessione a titolo oneroso di aziende possedute dall’imprenditore individuale da più di cinque anni possono fruire della tassazione separata.

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È bene far presente che la tassazione separata non incide in alcun modo sulla determinazione della plusvalenza derivante dalla cessione dell’azienda, bensì esclusivamente sulla quantificazione dell’imposta. Dunque, l’imprenditore individuale, in deroga al regime di tassazione ordinario (ovvero, ricorrendone i presupposti di possesso temporale dell’azienda a quello di ripartizione in un periodo massimo di cinque anni della plusvalenza), può assoggettare la relativa plusvalenza a tassazione separata, mediante apposita compilazione del quadro RM di Unico. In detta sede occorre versare un acconto pari al 20% dell’ammontare imponibile, mentre per la differenza perverrà apposito conguaglio con cartella da parte dell’Agenzia. Tale regime, infatti, prevede che l’Irpef non è determinata dal contribuente in autotassazione, ma è liquidata a conguaglio dall’Agenzia delle Entrate che comunica al contribuente il versamento da effettuare appunto mediante apposita cartella esattoriale. La scelta per la tassazione separata, ovvero ordinaria, attiene a valutazione di fatto, posto che la tassazione separata non risulta sempre maggiormente conveniente rispetto a quella ordinaria. Il confronto risente della situazione reddituale complessiva del contribuente. Laddove l’imprenditore individuale dovesse cedere l’unica azienda perdendo in tal modo lo status di imprenditore, questi non potrà fruire della rateizzazione della plusvalenza in un massimo di 5 anni, ma potrà comunque avvalersi, in alternativa, della tassazione separata di cui al citato art. 17, comma 2 del predetto Tuir, ricorrendone i presupposti sopra indicati. Il Ministero delle finanze (C.M. 18 dicembre 1997, n. 320/E) ha chiarito che ai fini della verifica del possesso quinquennale necessario per accedere alla tassazione separata, si computa anche l’eventuale periodo in cui l’azienda è stata concessa dal proprietario in usufrutto o in affitto. La disposizione di cui trattasi non deve riguardare necessariamente l’unica azienda posseduta dall’imprenditore individuale, posto che quest’ultimo può anche cedere solo una delle varie aziende che possiede. 6. Determinazione dell’imposta sostitutiva

La determinazione dell’imposta sostitutiva è disciplinata dall’art. 21 del Tuir. Il calcolo avviene applicando all’intero importo della plusvalenza l’aliquota corrispondente alla metà del reddito complessivo netto del contribuente nel biennio anteriore all’anno in cui la plusvalenza è stata conseguita (principio di competenza temporale). Ad ogni modo: • se in uno dei due anni anteriori all’anno in cui si è realizzata la plusvalenza non vi è stato reddito

imponibile, si deve applicare l’aliquota corrispondente alla metà del reddito complessivo netto dell’altro anno;

• se non vi è stato reddito imponibile in alcuno dei due anni, si applica l’aliquota stabilita all’articolo 13 del Tuir per il primo scaglione di reddito.

Posto che per operare la scelta della tassazione separata occorre effettuare un calcolo di convenienza si propone la relativa formula da utilizzare:

Determinazione dell’aliquota in base al reddito medio del biennio precedente

Reddito 1° anno prec. + Reddito 2° anno prec. =

Reddito medio biennio precedente 2

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Cessione di azienda: la tassazione delle plusvalenze

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Si determinerà dunque l’IRPEF sul predetto Reddito medio applicando gli scaglioni di reddito e, successivamente, dividendo la suddetta IRPEF per il citato reddito medio si individuerà “l’aliquota media”. Alla plusvalenza derivante dalla cessione d’azienda l’Amministrazione finanziaria applicherà, quindi, la suddetta aliquota media, detraendo come detto l’acconto del 20% versato dal contribuente in dichiarazione. 7. Regime dei minimi e problematiche connesse con l’acquisto e la cessione d’azienda

L’attuale regime dei minimi è disciplinato dall’articolo 27 del Decreto Legge n. 98 del 6 luglio 2011, in vigore dal 2012, caratterizzato dal versamento di una imposta sostitutiva del 5% sul reddito dichiarato. Tra i requisiti da rispettare vi è quello che la persona fisica interessata (nel nostro caso imprenditore) non abbia effettuato acquisti di beni strumentali per un ammontare complessivo superiore a euro 15.000, tenendo conto, altresì, dei beni acquisiti mediante contratti di appalto o di locazione, compresa quella finanziaria. Il requisito relativo ai beni strumentali è valutato sulla base degli acquisti effettuati nel triennio solare precedente. Tanto premesso, si osserva che nell’ipotesi in cui un soggetto minimo acquisisca una azienda ai fini del limite di euro 15.000 di beni strumentali l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che non rileva l’eventuale avviamento pagato in occasione dell’acquisto dell’azienda medesima.

Circolare n. 7 del 28 gennaio 2008 h) Quesito Ai fini del limite dei 15.000 euro per i beni strumentali rileva l’eventuale prezzo corrisposto per l’avviamento? Risposta Il comma 96 della Finanziaria 2008, stabilisce che una delle condizioni per rientrare nel regime dei contribuenti minimi consiste nel non aver effettuato nel triennio solare precedente acquisti di beni strumentali per un ammontare complessivo superiore a 15.000 euro. Il riferimento contenuto nella norma alla nozione di strumentalità dei beni da prendere in considerazione induce a ritenere che non debbano essere presi in considerazione taluni costi riferibili ad attività immateriali, come quello sostenuto per l’avviamento o altri elementi immateriali comunque riferibili all’attività, che non si caratterizzano per il loro concreto utilizzo nell’ambito dell’attività d’impresa o di lavoro autonomo.

In definitiva, quel che rileva ai fini del limite di 15.000 euro sono solo i beni strumentali materiali ovvero i beni strumentali immateriali (ad esempio il marchio) oggetto di tutela legale. Con riferimento alla plusvalenza generata a seguito della cessione da parte di un contribuente minimo di un ramo di azienda, si rileva che la Circolare 73/E/07 precisa che la verifica del limite di ricavi di importo massimo di 30.000 euro per poter rimanere nel regime agevolato va effettuata avendo a riguardo unicamente i ricavi e compensi richiamati rispettivamente agli articoli 57 e 85 del Tuir. La determinazione della plusvalenza relativa alla cessione di ramo d’azienda è, invece, disciplinata dall’art. 86 del Tuir. Di conseguenza, fermo restando la tassazione della stessa, ai fini della verifica dei requisiti per la permanenza nel regime dei minimi, si ritiene corretto non ricomprendere la predetta plusvalenza nel calcolo del limite annuo di ricavi.

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8. Cessione d’azienda mortis causa

Se l’azienda cade in successione, la normativa prevede, al ricorrere di specifici presupposti, la esclusione da tassazione anche ai fini delle imposte sul reddito, laddove questa venga trasmessa al coniuge e/o ai discendenti (figli e nipoti). Analoga disposizione vige in caso di donazione d’azienda. Occorre, tuttavia, rispettare alcuni presupposti e adoperare alcune cautele. Il comma 1, secondo periodo dell'art. 58 del Tuir dispone la non imponibilità della plusvalenza in capo all'eredità, costituita dalla eccedenza del valore normale (cfr. art. 9 del Tuir per individuazione del valore normale) dell'azienda trasferita mortis causa (successione ereditaria) rispetto al costo fiscalmente riconosciuto della stessa (in breve, costo storico al netto degli ammortamenti dedotti). La plusvalenza in parola resta quindi allo stato latente - in quanto i beni costituenti l'azienda vengono assunti dall'erede (che possono essere familiari, oppure dei perfetti estranei) in neutralità, vale a dire al costo fiscalmente riconosciuto che essi avevano in capo al de cuius - e sarà tassata solo all'atto della cessione da parte dell’erede della stessa (o dei singoli beni che la compongono se questi saranno ceduti singolarmente). La circostanza che la norma intenda, in sostanza, agevolare il passaggio generazionale dell'azienda garantendo la continuità dell'azienda medesima, lascia propendere per l'iscrizione dei valori dei singoli beni costituenti l'azienda in capo all'erede (che proseguono l'attività d'impresa) a saldi aperti, ossia trasferendo tutte le componenti fiscali dell'azienda, come avviene nei conferimenti neutrali di cui all'art. 176. In definitiva sembra logico e coerente con lo spirito dell'agevolazione che, ad esempio: • i cespiti ammortizzabili siano iscritti al costo e in contropartita venga iscritto il relativo fondo di

ammortamento costituitosi in capo al de cuius o donante, e che entrambi vengano assunti in base al loro valore fiscale;

• il fondo rischi su crediti o fondo svalutazione crediti fiscalmente riconosciuto venga trasferito al donatario o erede;

• le riserve in sospensione d'imposta devono essere ricostruite nella contabilità dell'erede o donatario e conservano la loro prerogativa di non tassabilità sino al loro utilizzo.

Va sottolineato nuovamente che l'agevolazione di cui trattasi, opera a prescindere dal grado di parentela che il soggetto assegnatario dell'azienda mortis causa possedeva con il de cuius, potendo addirittura essere un chiamato all'eredità che non ha alcun rapporto di parentela con il de cuius. Peraltro anche nella donazione d’azienda vigono le stesse regole. La DRE Basilicata del 2 ottobre 2005, ha chiarito che, se da un lato è pacifico che la cessione a titolo gratuito non comporta alcuna tassazione di plusvalenza in capo al donante/erede, dall'altro ciò comporta una sopravvenienza attiva in capo all’erede se questo è imprenditore, posto che l'acquisizione in neutralità prevista dall'art. 58, competerebbe solo nell'ipotesi in cui l’erede è una mera persona fisica e non quando l’erede recepisce l'azienda in qualità di imprenditore (nel caso di specie, dunque, sarebbe esclusa l’agevolazione per gli eredi imprenditori individuali ovvero soggetti societari ed enti commerciali). Tali conclusioni, non sono convincenti, almeno per quanto riguarda l’erede imprenditore individuale, posto che l’acquisizione dell’azienda da parte dell’erede (ancorché imprenditore individuale) è da ritenersi acquisita a titolo di “privato” e non certo di soggetto imprenditore. Seppure l’azienda di cui trattasi venga poi assorbita nell’ambito dell’attività d’impresa già precedentemente svolta dall’erede è da ritenersi che ciò possa configurarsi come un apposto dalla sfera privata a quella imprenditoriale, anch’essa irrilevante fiscalmente.

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Cessione di azienda: la tassazione delle plusvalenze

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9. Lo scioglimento della società costituita tra eredi

Il comma 1 dell'art. 58 del Tuir precisa che i criteri agevolativi di cui trattasi si applicano anche qualora a seguito dello scioglimento, entro 5 anni dall'apertura della successione, della società costituita tra gli eredi, la predetta azienda resti acquisita ad uno solo di essi. È bene sottolineare che il legislatore ha previsto l'applicazione dell'agevolazione in esame solo nell'ipotesi in cui l'azienda resti (anche) ad uno solo degli eredi, poiché in permanenza di un soggetto societario (presenza di più coeredi) va da sé che detto soggetto resti comunque destinatario dell'agevolazione di cui trattasi. 10. La cessione d’azienda ricevuta dall’erede e mai attivata

La lett. h-bis) dell’art. 67 del Tuir, stabilisce la tassazione in base alla normativa dei redditi diversi delle plusvalenze realizzate in occasione di successiva cessione, anche parziale, delle aziende acquisite ai sensi dell’art. 58 del Tuir (ossia in neutralità fiscale – vedi sopra), il quale contempla l’ipotesi dell’acquisizione dell’azienda sia per donazione sia per successione ereditaria. La disposizione contenuta nel citato art. 67 è rivolta al donatario o erede persona fisica che, nel ricevere l’azienda nell’ambito della propria sfera personale, non la attivano aprendo una partita IVA, ovvero non la inglobano nella propria preesistente ditta (se sono già imprenditori), bensì la cedono senza preventivamente attrarla all’attività d’impresa. Tale cessione, sia totale sia parziale, è fiscalmente rilevante. La relativa plusvalenza è costituita dalla differenza tra il corrispettivo incassato e il costo fiscalmente riconosciuto che l’azienda o la parte di essa oggetto di cessione, aveva preso il de cuius. Vige il criterio di cassa e non quello di competenza. E’ anche possibile che l’azienda dopo essere pervenuta alla persona fisica o alle persone fisiche nella sfera privata non viene, né ceduta, né attivata, bensì viene “autoconsumata” vale a dire i singoli beni che la compongono sono utilizzati per fini personali dal donatario o erede. Al riguardo sorgono dubbi circa l’eventuale realizzo di plusvalenze tassabili posto che l’ipotesi di autoconsumo riguarda l’imprenditore e il lavoratore autonomo e non la persona fisica. 11. La plusvalenza da cessione d’azienda nelle società di persone in liquidazione

La determinazione della plusvalenza da cessione d’azienda non si diversifica in nulla rispetto a quella dei soggetti Ires posto che i criteri sono quelli stabiliti nell’articolo 86 del Tuir. Tuttavia, posto che la cessione d’azienda implica quasi sempre per questi soggetti la conclusione dell’attività aziendale e la messa in liquidazione, vale la pena fornire qualche indicazione al riguardo. Ebbene, la disciplina fiscale della liquidazione delle società di persone è contenuta nell’articolo 182 del Tuir il quale stabilisce che alla data di effetto della messa in liquidazione il periodo d’imposta si spezza in periodo ante liquidazione e primo periodo di liquidazione. Inoltre, se la liquidazione si prolunga oltre il periodo d’imposta in cui ha avuto inizio, il reddito relativo alla residua frazione di tale esercizio, e a ciascun successivo esercizio intermedio, è determinato in via provvisoria in base al rispettivo bilancio salvo conguaglio in base al bilancio finale. Tuttavia, se la liquidazione non va oltre tre periodi d’imposta, compreso il primo periodo di liquidazione, l’intero periodo di liquidazione è considerato un unico periodo d’imposta. Viceversa, se la liquidazione si protrae per più di tre periodi d’imposta, compreso quello in cui ha avuto inizio, oppure è omessa la presentazione del bilancio finale (obbligatorio anche per i soggetti in contabilità semplificata) che nelle società di persone non va comunque depositato al registro imprese, i redditi così determinati per ogni singolo esercizio, si considerano definitivi.

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Ebbene, occorre ricordare che se la società è stata costituita da oltre cinque anni rispetto al momento di inizio della liquidazione il socio può optare per la tassazione separata limitatamente al (solo) reddito di liquidazione (Tuir, art. 17, comma 1, lett. l). Nel reddito di liquidazione è ricompresa anche la plusvalenza derivante dalla cessione d’azienda. Va da se che, allora, è utile che la cessione d’azienda con realizzo di plusvalenza avvenga quando la società è stata già posta in liquidazione per non perdere la rilevante opportunità della tassazione separata. 12. La minusvalenza da cessione d’azienda nelle società di persone in liquidazione

Diverse sono le conclusioni laddove la cessione d’azienda si presenta minusvalente. Come noto le perdite imputate ai soci precedentemente l’inizio della liquidazione, possono da questi essere utilizzate a scomputo dei redditi del periodo di liquidazione, chiaramente se la società è in contabilità ordinaria, diversamente le perdite della società di persone in semplificata imputate al socio ante liquidazione possono essere utilizzate dal medesimo solo nello stesso periodo d’imposta. Diversamente le perdite maturate durante il periodo di liquidazione non possono esser utilizzate dai soci per abbattere i redditi di liquidazione ma possono essere imputate agli stessi solo al termine della procedura di liquidazione. Questo principio, in modo assai nebuloso è da ritenersi affidato all’ultimo periodo del citato comma 2 del predetto art. 182 Tuir, laddove prevede che “Se la liquidazione si chiude in perdita si applicano le disposizioni dell’articolo 8.”, con la conseguenza, appunto, che l’imputazione delle perdite ai soci si ha solo quando la liquidazione si conclude. Il legislatore sul punto, senza una ragione plausibile ha penalizzato notevolmente le liquidazioni delle società di persone posto che i redditi prodotti durante la liquidazione sono sempre tassati in capo ai soci, eventualmente con modalità separata in presenza dei relativi presupposti, mentre le perdite sono scomputabili solo al termine della liquidazione. La possibilità di conguaglio redditi/perdite si ha solo se la liquidazione si chiude entro tre periodi d’imposta, mentre se questa si protrae oltre, tutti i redditi sono definitivi. Peraltro sono immaginabili le difficoltà della compensazione delle perdite da conguaglio nell’ipotesi in cui i redditi dei primi anni di liquidazione sono stati tassati con modalità separata.

In breve: 1. La plusvalenza (o minusvalenza) derivante dalla cessione si determina in modo unitario e non

avendo riguardo alle caratteristiche dei singoli beni che compongono il compendio trasferito 2. Le modalità di tassazione della plusvalenza variano a seconda della natura giuridica del

soggetto cedente, del periodo di tempo in cui è stata condotta l’azienda e della circostanza che l’azienda ceduta sia l’unica posseduta dall’imprenditore individuale, oppure solo un ramo di azienda

3. La plusvalenza, ove conseguita in regime di impresa, può essere tassata integralmente nell’anno, oppure frazionata in cinque quote costanti

4. La tassazione sul soggetto IRPEF può avvenire non in modo ordinario, oppure applicando la tassazione separata, al ricorrere dei requisiti imposti dalla norma

5. Particolari regole sono previste per la tassazione dei redditi conseguiti dalla cessione di aziende pervenute al cedente mortis causa

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CESSIONE DI AZIENDA E CONGUAGLI DI PREZZI

a cura di Lelio Cacciapaglia

Non sempre il corrispettivo pattuito per il trasferimento di azienda risulta del tutto definito dalle parti nelle fasi antecedenti l’atto di trasferimento. Può infatti accadere che si pattuisca di tenere conto di eventuali mutamenti delle consistenze del patrimonio, intervenute nel periodo tra la fissazione degli accordi (data di riferimento) e la stipula dell’atto. Ma, sovente, si vincola la dimensione quantitativa dell’avviamento all’evolversi di determinati parametri commerciali, qualitativi o quantitativi, riscontrati ed osservati in un determinato lasso temporale. In tal modo, si ha modo di meglio valutare il compendio trasferito. Si tratta, allora, di comprendere quale sia il trattamento fiscale da riservare a queste variazioni di valori.

1. Premessa

Può verificarsi che il corrispettivo della cessione di un’azienda venga stabilito basandosi sulla situazione reddituale/patrimoniale a disposizione in un momento che precede la stipula dell’atto di cessione. Tuttavia, nell’atto notarile viene stabilito che il prezzo di vendita è soggetto a conguaglio in relazione ai valori definitivi al momento dell’atto del trasferimento della proprietà dell’azienda o anche in base a codificati eventi che potrebbero verificarsi in un delimitato range temporale. In definitiva, il valore dell’azienda è stabilito nei criteri ma soggetto a conguaglio. La fattispecie in parola può avere ripercussioni: • in materia di imposta di registro; • ai fini della determinazione della plusvalenza da assoggettare alle imposte sui redditi. In definitiva è possibile distinguere la problematica concernente la definizione del prezzo a posteriori in due tipologie: 1. il prezzo finale è determinato, come prima ipotizzato, in base ai valori patrimoniali definitivi alla

data di passaggio di proprietà dell’azienda; 2. il prezzo finale è determinato, oltre che in base ai valori del patrimonio netto rettificato, al valore

di mercato, anche sulla base di un valore di avviamento che, tuttavia, è determinato sulla base di valori aziendali o extra aziendali in un prefissato periodo temporale di riferimento successivo alla cessione dell’azienda.

Si tratta, ad esempio: • del valore medio del fatturato aziendale del triennio successivo; • del valore di crescita del PIL in un periodo prefissato; • dei dati della produzione industriale del settore di riferimento; • etc.

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2. Il conguaglio di prezzo – impatti ai fini dell’imposta di registro

In particolare, ai fini dell’imposta di registro: • se, a posteriori, il patrimonio di cessione si modifica nei suoi elementi ma resta immutato nel suo

ammontare e nei suoi elementi costitutivi (immobili da un lato e altri beni dall’altro) non si hanno effetti ai fini dell’imposta di registro;

• se, diversamente, il patrimonio di cessione si modifica nel suo ammontare per l’ingresso di nuovi elementi (attività o passività) non inclusi nell’inventario iniziale, ciò comporta un “ricalcolo” dell’imposta di registro.

Art. 35 del D.P.R. 131/1986 - Contratti a prezzo indeterminato

1. Se il corrispettivo deve essere determinato posteriormente alla stipulazione di un contratto, l’imposta è applicata in base al valore dichiarato dalla parte che richiede la registrazione, salvo conguaglio o rimborso dopo la determinazione definitiva del corrispettivo, da denunciare a norma dell’art. 19.

In quest’ultimo caso, l’inventario definitivo (frutto della ricognizione post cessione) debitamente sottoscritto dalle parti, deve essere registrato entro 20 giorni presso l’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate e l’acquirente dovrà a seconda dei casi: • conguagliare l’imposta precedentemente versata se il corrispettivo definitivo risulta superiore a

quello originariamente stabilito; • richiede, entro 3 anni dal giorno del pagamento, il rimborso di quanto pagato in più. Ora, laddove si faccia riferimento al valore patrimoniale dell’azienda al giorno del trasferimento rispetto a quello fissato presuntivamente nei giorni precedenti la stipula, pur non dovendosi necessariamente modificare il patrimonio netto di cessione, lo stesso potrebbe essere composto diversamente dalle previsioni iniziali. S’immagini, ad esempio, di incassare dei crediti e con il ricavato pagare dei debiti. Ebbene, se nell’azienda sono compresi degli immobili, tale circostanza inciderà sul calcolo dell’imposta di registro posto che le passività (ridottesi rispetto alle previsioni iniziali) sono proporzionalmente attribuite agli immobili e alle restanti attività. In questo caso l’imposta da versare potrebbe risultare maggiore a causa dei minori debiti da scomputare dagli immobili. Nel secondo caso (assenza di immobili) il maggior o minor valore sarà interamente riferito all’avviamento e, conseguentemente, sconterà o ridurrà l’imposta di registro del 3%. 3. Il conguaglio di prezzo: impatti ai fini del calcolo della plusvalenza

In questa sede sembra utile riportare alcuni passaggi dell’Assonime (circolare del 6 luglio 2005, n. 38) che seppure con riferimento alla determinazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni connotate dalla Pex, ha affermato: “Analoga soluzione riteniamo si debba accogliere per le operazioni di cessione che…(omissis)… subiscono “ex post” - a seguito del funzionamento del sinallagma contrattuale - una variazione, in un senso o nell’altro, dei corrispettivi sottoposti ad imposizione nel pregresso regime: si consideri, ad esempio, il caso dei contratti nei quali il corrispettivo è commisurato all’andamento di determinati parametri oggettivi quali, in ipotesi, le performance, in

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Cessione di azienda e conguagli di prezzi

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un arco di tempo successivo alla cessione, delle quotazioni dei titoli ceduti o dell’azienda della società emittente tali titoli.” L’associazione si esprime con riferimento alla problematica del passaggio di regime frutto della riforma Ires, dalla piena imponibilità alla imponibilità parziale delle plusvalenze da partecipazioni Pex, arrivando alla conclusione che, se il corrispettivo di una cessione ante riforma (quando la Pex non esisteva) si modifica al rialzo, dopo la riforma (in cui è entrata in vigore la Pex) la plusvalenza va rideterminata e assoggettata pienamente a tassazione. In definitiva, sembra di poter concludere che la rideterminazione del corrispettivo comporterà una maggiore o minore plusvalenza (ovvero minusvalenza) che, per la parte rideterminata sarà fiscalmente rilevante nel periodo d’imposta in cui si è verificata la variazione, ma seguirà le regole (se mai fossero diverse) del periodo d’imposta in cui è avvenuta la cessione. Ad ulteriore conforto il Decreto 2 aprile 2008 ove, nel disciplinare le modifiche della quota di plusvalenza tassata (dal 40% al 49,72%) derivante dalla cessione di partecipazione qualificata, ha ritenuto di dover prevedere che la vecchia aliquota del 40% si applica anche alla plusvalenza derivante da cessioni effettuate entro il 31.12.08, ancorché l’incasso del corrispettivo avvenga in data successiva. Nello stesso senso l’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 184 del 13 luglio 2009 ha chiarito che “La componente positiva che viene rilevata nel bilancio relativo all’esercizio (...) deve essere assoggettato alla medesima disciplina fiscale che ha regolato il concorso alla formazione del reddito della componente che la stima va ad integrare. In particolare, il componente positivo in esame sarà da considerare interamente imponibile, al pari della plusvalenza realizzata”.

In breve: 1. Non sempre i parametri numerici per la determinazione della plusvalenza vengono stabiliti in

modo oggettivo e fisso dalle parti 2. Talvolta, le variazioni dipendono dal mutamento temporale delle consistenze qualitative e

quantitative dei valori che compongono l’azienda, tra la data di fissazione dei parametri e quella di materiale stipula dell’atto

3. In altri casi, le variazioni dipendono da clausole di aggiustamento, solitamente riferibili all’avviamento, in dipendenza del riscontro (o del mancato riscontro) del raggiungimento di particolari target prefissati nell’atto

4. Secondo la migliore dottrina, le eventuali maggiori o minori componenti redditualmente rilevanti saranno da imputare al periodo di imposta in cui si avverano le condizioni, pur dovendosi seguire le regole di tassazione previste nel periodo di stipula dell’atto, ove le medesime fossero variate nel tempo

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CESSIONE D’AZIENDA: APPLICAZIONE DELL’IMPOSTA DI REGISTRO

a cura di Sandro Cerato

La cessione d’azienda, o di un ramo di essa, in quanto operazione esclusa da IVA per carenza del presupposto oggettivo, è soggetta all’imposta di registro proporzionale, come previsto dagli artt. 2 e 3 del D.P.R. 131/86 (Testo Unico Imposta di Registro). Le aliquote applicabili sono variabili in funzione della tipologia dei beni che compongono l’azienda, ed è opportuno che nell’atto di trasferimento dell’azienda il prezzo sia distinto per ciascun bene trasferito, ovvero per categorie degli stessi. In tal modo, ad ogni categoria di beni è applicata l’aliquota propria indicata nella Tariffa allegata al D.P.R. 131/86, evitando che sull’intero prezzo pattuito sia applicata l’aliquota più elevata in funzione dei singoli beni trasferiti.

1. Premessa

Ai sensi degli artt. 2 e 3 co. 1 lett. b) del D.P.R. 131/86, gli atti aventi per oggetto il trasferimento di aziende esistenti nel territorio dello Stato italiano sono soggetti all’imposta di registro (sia che siano redatti in forma scritta, sia in presenza di un accordo verbale). E’ appena il caso di sottolineare che le ipotesi in cui un contratto relativo al trasferimento di un’azienda possa in concreto essere stipulato in forma verbale sono per altro assai limitate, posto che l’art. 2556 del codice civile prevede espressamente il soddisfacimento del requisito della forma scritta ad probationem tutte le volte in cui il trasferimento sia relativo ad imprese soggette a iscrizione nel registro delle imprese, ai sensi dell’art. 2195 del Codice Civile. Posto che, ai sensi dell’art. 2 co. 3 lett. b) del D.P.R. 633/72, le cessioni d’azienda a titolo oneroso costituiscono operazioni che non rientrano nel campo di applicazione dell’IVA, i relativi atti scontano l’imposta di registro in misura proporzionale.

2. Aliquote applicabili

Pur costituendo un complesso avente destinazione unitaria, l’azienda è comunque un coacervo di singoli beni che, nel contesto di una cessione d’azienda, vengono trasferiti a terzi con un medesimo atto. L’art. 23 del D.P.R. 131/86 stabilisce che quando un atto ha per oggetto più beni o diritti si applicasull’intero valore dell’atto, l’aliquota più elevata tra quelle applicabili ai singoli beni o diritti in esso racchiusi, a meno che nell’atto vengano previsti corrispettivi distinti per i singoli beni o diritti, nel qual caso è possibile applicare in corrispondenza di ciascuno l’aliquota espressamente prevista.

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Cessione d’azienda: applicazione dell’imposta di registro

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Le aliquote applicabili sui beni e diritti immobiliari sono recate dall’art. 1 della Tariffa allegata al D.P.R. 131/86, nella versione in vigore dal 1° gennaio 2014 (modifiche introdotte dall’art. 10, co. 1, lett. a), del D.Lgs. n. 23 del 14/3/2011, e dall’art. 1, co. 609, della Legge n. 147 del 27/12/2013). Sui fabbricati e relative pertinenze: − 9% in linea generale (compresi terreni agricoli trasferiti a coltivatori diretti o imprenditori agricoli

professionali iscritti nella relativa gestione previdenziale); − 2% se trattasi di case di abitazione “non di lusso” (immobili abitativi non classificati nelle categorie

catastali A/1, A/8 e A/9); − 12% se trattasi di terreni agricoli e relative pertinenze trasferiti a soggetti diversi dai coltivatori

diretti o imprenditori agricoli professionali). È bene sottolineare che l’aliquota del 9% si rende applicabile anche in relazione al corrispettivo pattuito per il trasferimento di immobili strumentali inseriti all’interno dell’azienda ceduta, anche se gli stessi ceduti singolarmente da soggetti IVA rientrano nel novero delle operazioni esenti, di cui all’art. 10, n. 8-ter), del D.P.R. 633/72. Come noto, infatti, le cessioni di immobili strumentali sono soggette in ogni caso (anche se soggetti ad IVA per opzione o per regime naturale) all’imposta di registro in misura fissa (pari ad euro 200) ed alle imposte ipotecarie e catastali nella misura del 4%. Tuttavia, tale regime di tassazione si applica solamente nella fattispecie di trasferimento del bene immobile singolarmente, mentre laddove lo stesso sia compreso nell’azienda ceduta il regime fiscale è quello connesso al trasferimento dell’azienda (aliquota del 9%). L’operazione di cessione d’azienda, infatti, è esclusa (e non esente) dal campo di applicazione dell’IVA. Sui beni e i diritti diversi da quelli immobiliari si applica invece l’aliquota del 3%, di cui all’art. 9 della Tariffa allegata al D.P.R. 131/86 (tale aliquota trova applicazione anche con riferimento all’avviamento dell’azienda). Ne consegue, dunque, che nel caso in cui nella cessione d’azienda siano compresi uno o più beni o diritti immobiliari diviene quanto mai opportuno redigere l’atto evidenziando separatamente la parte di corrispettivo pattuita riferibile, se non ai singoli beni e diritti, quanto meno alle “categorie” di beni raggruppate in funzione dell’aliquota di imposta di registro applicabile (con separata indicazione della parte di corrispettivo riconosciuta a titolo di avviamento).

ALIQUOTE APPLICABILI SUI BENI E DIRITTI COMPRESI NELL’AZIENDA CEDUTA

Se nell’atto viene evidenziata separatamente la quota di corrispettivo pattuito riferibile a ciascuna categoria Avviamento dell’azienda 3% Fabbricati e relative pertinenze 9% Fabbricati a destinazione abitativa “non di lusso” (non rientranti nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9)

2%

Terreni edificabili 9% Terreni agricoli (acquirente diverso da coltivatore diretto o IAP iscritto nella gestione previdenziale agricola)

12%

Terreni agricoli (acquirente coltivatore diretto o IAP iscritto nella gestione previdenziale agricola)

9%

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Se nell’atto non viene evidenziata separatamente la quota di corrispettivo pattuito riferibile a ciascuna categoria Avviamento dell’azienda (se evidenziato separatamente nell’atto, altrimenti su di esso rileva l’aliquota unica applicabile su tutti i beni e i diritti)

3%

Altri beni e diritti

3% Se nel complesso aziendale ceduto: non sono compresi beni

immobili 9% Se nel complesso aziendale ceduto: è compreso almeno un

fabbricato cui non si applica l’aliquota ridotta del 2%;

nessun terreno agricolo trasferito a soggetto diverso da coltivatore diretto o IAP

12% Se nel complesso aziendale ceduto: è compreso almeno un

terreno agricoli ceduto a soggetto diverso da coltivatore diretto o IAP

Di seguito si propongono alcuni esempi di calcolo dell’imposta di registro, volti in particolare ad evidenziare i benefici derivanti da una evidenziazione analitica nell’atto dei valori di cessione delle singole componenti del complesso aziendale in presenza di beni o diritti appartenenti a categorie per le quali si rendono applicabili aliquote distinte ai fini dell’imposta di registro. Casi pratici Composizione del complesso aziendale oggetto di cessione a fronte del quale viene pattuito un corrispettivo di 100.000, di cui 20.000 a titolo di avviamento: • Crediti verso clienti; • Attività finanziarie; • Attrezzature; • Marchio; • Un immobile abitativo non di lusso; • Un terreno agricolo (acquirente azienda diverso da coltivatore diretto o IAP); Caso n. 1 – Nel contratto di cessione viene indicato il corrispettivo pattuito senza ulteriori specificazioni L’imposta di registro si applica: • con aliquota del 3% su 20.000 (avviamento);

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Cessione d’azienda: applicazione dell’imposta di registro

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• con aliquota del 12% su 80.000 (ossia su tutto l’importo con l’aliquota prevista per i terreni agricoli trasferiti a soggetti diversi dai coltivatori diretti o IAP).

L’imposta di registro dovuta ammonta a 10.200 (= 20.000 x 0,03 + 80.000 x 0,12). Caso n. 2 – Nel contratto di cessione viene indicato il corrispettivo pattuito distinguendo analiticamente tra tutti i beni con aliquote diverse Viene evidenziato che la parte di corrispettivo di 80.000 si riferisce: • Per 55.000 ai beni immobili, di cui: − 30.000 per l’immobile abitativo non di lusso; − 25.000 per il terreno agricolo; • Per 25.000 agli altri beni (crediti, attività finanziarie, attrezzature, marchio). L’imposta di registro si applica: • con aliquota del 3% su 20.000 (avviamento); • con aliquota del 3% su 25.000 (altri beni); • con aliquota del 2% su 30.000 (immobile abitativo non di lusso); • con aliquota del 12% su 25.000 (terreno agricolo)). L’imposta di registro dovuta ammonta a 4.950 (= 45.000 x 0,03 + 30.000 x 0,02 + 25.000 x 0,12). Per quanto riguarda le imposte ipotecarie e catastali applicabili agli immobili trasferiti unitamente con l’azienda, è necessario tener conto delle già citate modifiche apportate dal 1° gennaio 2014 in materia di imposta di registro. Tali modifiche, infatti, hanno riguardato anche le imposte ipo-catastali, per le quali si rende applicabile in ogni caso l’imposta nella misura di euro 50 ciascuna. 3. Base imponibile

Ai sensi dell’art. 51 co. 4 del D.P.R. 131/86, nel caso di atti di cessione d’azienda a titolo oneroso la base imponibile ai fini dell’imposta di registro è determinata con riferimento al valore complessivo dei singoli beni materiali e immateriali che compongono l’azienda, compreso l’avviamento, al netto delle passività esistenti al momento del trasferimento, risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa anteriore alla cessione. L’art. 23 co. 4 dello stesso D.P.R. 131/86 stabilisce inoltre che, nel caso in cui nell’atto le parti abbiano (opportunamente) evidenziato separatamente il valore di trasferimento attribuito alle singole attività nell’ambito della cessione d’azienda, ai fini dell’applicazione delle diverse aliquote le passività vanno imputate ai diversi beni, sia mobili che immobili, in proporzione del loro rispettivo valore. Nell’imputazione proporzionale delle passività aziendali incluse nel trasferimento d’azienda non rileva il valore dell’avviamento, posto che trattasi comunque di criterio forfetario che mira a ricondurre le passività alle voci dell’attivo cui ineriscono e, chiaramente, tale “connessione diretta” è esclusa a priori con riferimento all’avviamento. Casi pratici Composizione del complesso aziendale oggetto di cessione a fronte del quale viene pattuito un corrispettivo di 140.000, di cui 20.000 a titolo di avviamento, per attività valutate in 200.000 al netto di passività accollate dal cessionario per 80.000: • Crediti verso clienti; • Attività finanziarie; • Attrezzature;

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• Marchio; • Un immobile abitativo; • Un terreno agricolo (acquirente diverso da coltivatore diretto o IAP); Caso n. 1 – Nel contratto di cessione viene indicato il corrispettivo pattuito senza ulteriori specificazioni L’imposta di registro si applica: • Con aliquota del 3% su 20.000 (avviamento); • Con aliquota del 12% su 200.000 - 80.000 (ossia su tutte le attività al netto delle passività con

l’aliquota prevista per i terreni agricoli trasferiti a soggetti diversi dai coltivatori diretti o IAP). Caso n. 2 – Nel contratto di cessione viene indicato il corrispettivo pattuito distinguendo analiticamente tra tutti i beni con aliquote diverse Viene evidenziato che la valutazione di 200.000 delle attività aziendali si riferisce: • Per 125.000 ai beni immobili, di cui: − 60.000 per il terreno agricolo; − 65.000 per l’immobile abitativo; • Per 75.000 agli altri beni (crediti, attività finanziarie, attrezzature, marchio). Le passività aziendali accollate dal cessionario in misura pari a 80.000 vanno poste in diminuzione: • del valore del terreno agricolo per 24.000 (= 80.000 x 60.000 / 200.000); • del valore dell’immobile abitativo per 26.000 (= 80.000 x 65.000 / 200.000); • del valore dei beni diversi da quelli immobili per 30.000 (= 80.000 x 75.000 / 200.000). L’imposta di registro si applica: • con aliquota del 3% su 20.000 (avviamento); • con aliquota del 3% su 45.000 = 75.000 – 30.000 (altri beni); • con aliquota del 12% su 36.000 = 60.000 – 24.000 (terreno edificabile); • con aliquota del 2% su 39.000 = 65.000 – 26.000 (fabbricato vincolato); L’imposta di registro dovuta ammonta a 7.050 (= 65.000 x 0,03 + 36.000 x 0,12 + 39.000 x 0,02).

3.1 Determinazione dell’avviamento

Come è noto, l’imposta di registro è un tributo che colpisce l’atto, piuttosto che la pattuizione tra le parti ad esso sottostante. Da ciò consegue il fatto che la base imponibile dell’imposta non è costituita dai valori attribuiti e concordati dalle parti, quanto piuttosto dall’effettivo valore dei beni e dei diritti compresi nell’atto soggetto a imposta di registro. In particolare, l’art. 51 co. 2 del D.P.R. 131/86 stabilisce che per gli atti che hanno per oggetto aziende o diritti reali su di esse la base imponibile ai fini dell’imposta di registro è costituita dal valore venale in comune commercio. Ne consegue, dunque, che gli Uffici Finanziari possono rettificare, nell’ambito della loro attività di controllo, i valori attribuiti dalle parti nell’atto di cessione d’azienda ai singoli beni e diritti trasferiti, ivi compreso il valore attribuito all’avviamento, rideterminando in tale modo la base imponibile e la corrispondente imposta di registro dovuta (chiaramente con corredo di sanzioni e interessi). Nella prassi, la quasi totalità degli accertamenti e dei successivi eventuali contenziosi aperti, con riferimento alla determinazione dell’imposta di registro dovuta su trasferimenti di complessi aziendali, interessa l’aspetto legato alla determinazione dell’avviamento.

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Cessione d’azienda: applicazione dell’imposta di registro

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Si tratta chiaramente di una questione assai complessa, in considerazione dell’alea che inevitabilmente non può che accompagnare il processo di valorizzazione di una simile voce (basti pensare che già con riferimento ai beni immobili, che pure sono dei beni tangibili, il legislatore ha avvertito la necessità di prevedere un meccanismo di valutazione automatico che consenta ai contribuenti di determinare un valore minimo non rettificabile dall’amministrazione finanziaria, svincolando la determinazione della base imponibile dall’alea tipica delle valutazioni di tipo estimativo). Nel silenzio normativo il Ministero delle Finanze (in particolare l’allora Ispettorato compartimentale di Napoli), con la Circolare n. 10 del 19/02/1980, ha definito un metodo di determinazione di tale componente aziendale basato sulla capitalizzazione, per tre anni, dell’utile lordo (fermo restando che gli Uffici, se dispongono di altri elementi idonei, possono comunque avvalersi di differenti criteri di valutazione). In base a tale metodologia il valore attribuito all’avviamento in sede di cessione d’azienda deve essere, ai fini dell’imposta di registro, non inferiore al doppio della media degli utili conseguiti negli ultimi tre esercizi. Esempio di determinazione dell’avviamento secondo i criteri individuati dalla C.M. 10/80 Moltiplicazione per due della media degli utili conseguiti negli ultimi tre esercizi: • Utile di esercizio 2000 = 1.000 • Utile di esercizio 2001 = 5.000 • Utile di esercizio 2002 = 3.000 Valore dell’avviamento ai fini dell’imposta di registro = (1.000 + 5.000 + 3.000) / 3 x 2 = 6.000 L’unico intervento di tipo normativo sulla questione è rappresentato dal disposto del D.P.R. n. 460 del 31/07/1996, provvedimento con il quale erano state fissate le modalità di applicazione dell’accertamento con adesione in materia di imposta di registro. In particolare, l’art. 2 co. 4 del predetto decreto prevedeva che il valore di avviamento delle aziende fosse determinato, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, sulla base degli elementi desunti dagli studi di settore o, in difetto, sulla base della percentuale di redditività applicata sulla media dei ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi di imposta anteriori a quello in cui è intervenuta la cessione, moltiplicata per tre, fermo restando che: • la percentuale di redditività non poteva essere inferiore al rapporto tra il reddito di impresa e i ricavi

accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle stesse imposte e nel medesimo periodo; • il moltiplicatore doveva essere ridotto da tre a due nei casi in cui ricorreva ameno una delle seguenti

situazioni: − l’attività fosse iniziata entro i tre periodi di imposta precedenti a quello in cui è intervenuto il

trasferimento; − l’attività non fosse stata esercitata, per almeno la metà del normale periodo di svolgimento,

nell’ultimo periodo precedente a quello in cui è intervenuto il trasferimento; − qualora l’attività fosse svolta presso locali condotti in locazione, la durata residua del relativo

contratto di locazione risultasse inferiore a dodici mesi.

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Esempio di determinazione dell’avviamento secondo i criteri individuati dal D.Lgs. 460/96 Calcolo del triplo (salvo i casi particolari in cui il moltiplicatore è ridotto a due) della media degli ultimi tre esercizi antecedenti a quello di cessione della redditività dei ricavi moltiplicata per la media dei ricavi medesimi (posto che la redditività dei ricavi di un dato periodo non può mai essere inferiore a quella calcolata sul reddito di impresa ne consegue che per ciascun periodo la redditività dei ricavi deve essere calcolata sul maggiore importo tra utile civilistico e reddito di impresa): • Anno “n”: − Ricavi = 10.000 − Utile di esercizio = 1.000 − Reddito di impresa = 1.000 − Percentuale di redditività = 1.000 / 10.000 = 10% • Anno “n+1”: − Ricavi = 15.000 − Utile di esercizio = 4.500 − Reddito di impresa = 3.800 − Percentuale di redditività = = 4.500 / 15.000 = 30% • Anno “n+2”: − Ricavi = 20.000 − Utile di esercizio = 4.000 − Reddito di impresa = 5.000 − Percentuale di redditività = 4.000 / 20.000 = 20% Calcolo della redditività media del triennio = (10 + 20 + 30) / 3 = 20% Calcolo della media dei ricavi del triennio = (10.000 + 15.000 + 20.000) = 15.000 Valore dell’avviamento ai fini dell’imposta di registro = (15.000 x 20%) x 3 = 9.000 A tale proposito giova comunque sottolineare che la Corte di Cassazione, già con una “vecchia” Sentenza n. 8387 del 20/09/1996, ha affermato che: • il valore dell’avviamento non deve essere stabilito sulla base di parametri generici e di affermazioni

apodittiche o con riferimento a indeterminate fonti di convincimento, ma tenendo in considerazione l’effettiva consistenza dell’azienda e della sua concreta potenzialità reddituale, che non può mai prescindere da un esame dei libri contabili, come del resto prevede la legge;

• l’elemento del giro d’affari annuo può essere decisivo parametro di valutazione dell’avviamento, ma solo se indicato in modo specifico sotto il profilo quantitativo e solo se comparato ai costi e alle componenti della gestione, altrimenti finisce per perdere del tutto la propria rilevanza.

Inoltre, pur meritando la massima attenzione in considerazione del fatto che costituisce l’unico intervento con il quale è stato ad oggi affrontato sul piano normativo il tema della valorizzazione dell’avviamento ai fini dell’imposta di registro, va ricordato che anche ai fini di tale imposta l’istituto dell’accertamento con adesione è attualmente disciplinato dal D.Lgs. n. 218 del 19/06/1997 nel quale il meccanismo di calcolo di cui all’art. 2 co. 4 del D.P.R. 460/96 non è stato riprodotto. Anche tralasciando i dubbi che da tale circostanza derivano sulla persistenza dell’applicabilità del disposto del citato art. 2 co. 4, è comunque doveroso richiamare l’attenzione sul fatto che tale norma

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Cessione d’azienda: applicazione dell’imposta di registro

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è stata introdotta con la finalità di individuare con criteri sistematici un “punto di incontro” tra amministrazione finanziaria e contribuente nell’ambito di una procedura conciliatoria quale l’accertamento con adesione, ossia consentire al contribuente di determinare sulla base di parametri certi un valore in corrispondenza del quale l’Ufficio è tenuto ad accettarne la proposta di adesione. Resta dunque ferma la possibilità per i contribuenti di stimare il valore dell’avviamento in sede di cessione d’azienda a titolo oneroso sulla base di stime e percorsi valutativi affatto differenti ed ottenere comunque piena soddisfazione in contenzioso, qualora l’Ufficio in sede di accertamento non convenisse con le valutazioni effettuate, ferma restando la bontà delle argomentazioni e dei procedimenti logici di stima effettuati, nonché della documentazione probatoria prodotta a sostegno. A maggior ragione le precedenti considerazioni valgono con riferimento alla metodologia di calcolo del valore dell’avviamento proposta dalla C.M. 10/80, in quanto mero provvedimento interno all’amministrazione finanziaria e privo di forza cogente nei confronti dei contribuenti. Ecco quindi che i meccanismi di calcolo sopra evidenziati devono senz’altro costituire un importante punto di riferimento per il cedente e il cessionario nella stima dell’avviamento nel contratto di cessione d’azienda, al fine di individuare se il valore individuato è sostanzialmente congruo in rapporto a quello che sarebbe determinabile applicando meccanismi empirici, ma di facile applicazione, cui sovente ricorrono gli Uffici Finanziari, fermo restando tuttavia che i procedimenti di stima (e il conseguente risultato) possono prescindere dai medesimi. E’ chiaro che, soprattutto laddove la predetta congruità sembri difettare, si rende opportuno in sede di cessione d’azienda documentare opportunamente i processi di stima utilizzati per la determinazione dell’avviamento, al fine di rafforzare la propria posizione in vista di un eventuale contenzioso. A completamento dell’analisi descritta, nella tabella che segue si illustra il contenuto di alcune sentenze, sia di merito che di legittimità, che si sono pronunciate in relazione alla tematica della determinazione dell’avviamento in sede di cessione d’azienda.

Estremi sentenza Contenuto

C.T.P. Milano 28/03/2003, n. 31

Nella rettifica del valore dell’avviamento, gli Uffici devono giustificare il percorso logico seguito per la determinazione del parametro di riferimento per il calcolo della redditività. In caso contrario, qualora tale carenza sia constatata durante il contraddittorio, ovvero in sede di autotutela, l’Ufficio stesso può essere chiamato al risarcimento del danno subito dal contribuente per lite temeraria.

C.T.P. Roma 2/03/2006, n. 50

L’utilizzo del metodo “forfetario” previsto dal D.P.R. 460/96 non offre alcuna garanzia di fondatezza del valore dell’avviamento, poiché costituisce semplicemente “la strada più semplice a fronte dell’esperimento di azioni dirette all’analisi concreta delle singole realtà aziendali”. Tale procedimento trascura del tutto le reali condizioni di mercato dell’azienda e la posizione di mercato della stessa, forfetizzando il valore dell’avviamento in base ad un moltiplicatore immotivato. E’ quindi non corretto applicare tout court la metodologia per tutte le realtà aziendali, senza tener conto della peculiarità di ciascuna di esse, che possono differenziare ogni realtà in modo peculiare, con conseguente diversa stima dell’avviamento.

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C.T.P. Macerata 24/05/2006, n. 44

L’utilizzo di una metodologia matematica, quale quella prevista dal D.P.R. 460/96 per la determinazione dell’avviamento, è di per sé legittima, ma deve essere supportata da ulteriori elementi che si riferiscono all’effettiva e concreta situazione dell’azienda e della sua potenziale redditività, che non può mai prescindere da un esame della situazione contabile.

C.T.P. Massa Carrara 8/06/2009, n. 211

Nella determinazione del valore dell’avviamento il giudice è legittimato ad utilizzare i criteri individuati nella disciplina dell’accertamento con adesione, poiché la quantificazione del valore venale si baserebbe su fattori di natura soggettiva, e come tali discrezionali.

C.T.P. Vercelli 22/04/2009, n. 21 La determinazione del valore di avviamento dell’azienda deve essere frutto della redditività aziendale, dei costi di produzione e dell’utile medio annuo.

C.T.P. Enna 4/06/2010, n. 318 La rettifica dell’avviamento non può basarsi esclusivamente su metodi matematici, poiché è necessario riferirsi alla realtà economica dell’azienda.

C.T.R. Roma 25/01/2007, n. 205

L’utilizzo di una metodologia forfettaria non è di per sé illegittimo, ma in ogni caso deve essere supportata da elementi aggiuntivi che possano supportare la pretesa dell’Ufficio.

C.T.R. Milano 18/07/2007, n. 75

Nella determinazione del valore di avviamento accertato, non è possibile decurtare l’emolumento percepito dal titolare dell’azienda individuale. Il ricorrente intendeva ridurre il valore dell’avviamento poiché in alternativa avrebbe dovuto assumere personale dipendente.

C.T.R. Roma 16/01/2008, n. 131

La valutazione del valore di avviamento da parte degli Uffici deve tener conto dell’attività svolta dall’impresa e della situazione del mercato in cui essa opera. Deve ritenersi quindi fondata la richiesta di riduzione dei valori accertati da parte di esercenti al dettaglio che hanno visto ridursi il volume d’affari per effetto della presenza nel territorio della grande distribuzione.

C.T.R. Roma 22/04/2008, n. 34

L’utilizzo di un criterio matematico per la determinazione del valore di avviamento, consistente nell’applicazione di un coefficiente di redditività al volume d’affari dell’ultimo triennio, è un procedimento viziato poiché può tornate a risultati diversi in funzione dell’incidenza dell’utile sui ricavi.

Cass. 13/01/2006, n. 613

L’utilizzo di criteri diversi da quelli previsti dal D.P.R. 460/96 per la determinazione del valore di avviamento da parte dell’Ufficio in sede di accertamento costringe il contribuente a dover dimostrare l’erroneità della valutazione operata dai verificatori.

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Cessione d’azienda: applicazione dell’imposta di registro

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Cass. 21/01/2008, n. 1170

L’utilizzo di una metodologia matematica per la determinazione dell’avviamento non è di per sé illegittima, anche se il calcolo è avvenuto in base ad una disposizione di legge abrogata. Infatti, i metodi di calcolo o le formule matematiche lasciano in ogni caso un certo margine di discrezionalità come qualsiasi altro modello valutativo.

Cass. 23/07/2008, n. 20280

Il contribuente accertato in base alla formula contenuta nel D.P.R. 460/96 non può limitarsi a contestare la legittimità del metodo stesso, ma deve fornire valide motivazioni a supporto della correttezza del valore dell’avviamento indicato nell’atto.

In breve: 1. La cessione d’azienda è operazione eslcusa da IVA e soggetta ad imposta proporzionale di

registro 2. L’applicazione dell’imposta avviene con differenti aliquote sui singoli beni, se nell’atto il

prezzo è distinto in funzione delle differenti categorie di beni 3. L’accertamento di maggior valore da parte dell’Amministrazione Finanziaria riguarda

principalmente la valutazione dell’avviamento 4. La giurisprudenza che si è pronunciata sulla rettifica del valore di avviamento non esclude

metodi forfetari, ma richiede che tali metodi siano applicabili nella realtà concreta dell’azienda, da valutare caso per caso

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CESSIONE DI AZIENDA: VALORE E CORRISPETTIVO

a cura di Giovanni Valcarenghi

Il numero degli atti di cessione di azienda che sono posti in essere negli ultimi anni è veramente limitato. Le motivazioni possono essere ascritte alla maggiore “attrattività” fiscale del conferimento, al fatto che dall’atto possono derivare responsabilità tributarie per l’acquirente e, non ultimo, alla elevata probabilità che l’atto sia sottoposto al controllo da parte degli Uffici. In caso di contestazione sorge subito un problema ai fini dell’imposta di registro, qualora l’Ufficio dovesse contestare il valore dell’avviamento dichiarato; la definizione di tali atti è certamente gradita all’acquirente che, con poco dispendio di risorse, definisce solitamente la pratica in adesione.Il soggetto cedente, invece, deve allertarsi in tali casi, poiché è ormai abitudine di molti Uffici utilizzare il valore definito nel comparto del registro per contestare una maggior plusvalenza ai fini delle imposte sui redditi. Tale modus operandi è stato sostanzialmente avvalorato dalla Cassazione, specialmente negli ultimi anni; le Commissioni di merito, invece, sovente preferiscono le ragioni del contribuente, sostenendo che gli Uffici non si possano limitare ad una contestazione fondata unicamente sul riscontro del valore definito ai fini del registro. Nei casi in cui il corrispettivo dovesse essere manifestamente inferiore al valore dell’azienda, sarà consigliabile premunirsi con delle valide giustificazioni oggettive, in modo da poter contrastare la eventuale successiva pretesa tributaria.

1. Premessa

Il problema principale del contratto di cessione di azienda è certamente quello relativo alla possibilità concessa all’Agenzia delle Entrate di effettuare un accertamento in merito ai valori dichiarati; seguendo le procedure interne connesse ai termini di decadenza, l’iter usuale prevede, dapprima, un interessamento del Fisco relativamente al comparto dell’imposta di registro e, successivamente, una possibile estensione a quello delle imposte dirette. Proprio sui legami esistenti tra le due tipologie di controllo è bene svolgere alcune riflessioni, partendo dalle seguenti considerazioni: • l’accertamento ai fini del registro – che ha come obiettivo quello di stabilire il valore dell’azienda -

normalmente non raggiunge valori esorbitanti ed interessa (in via immediata) l’acquirente; pertanto, solitamente si valuta la possibilità di una definizione bonaria;

• l’accertamento ai fini delle imposte dirette rappresenta, invece, una variabile più preoccupante, avendo ad oggetto l’ammontare della eventuale plusvalenza dichiarata dal venditore che, secondo le regole dettate dal Tuir discende direttamente dal corrispettivo.

Pur essendo chiara la delimitazione esistente tra i due comparti (così come è chiara la differenza esistente tra il concetto di valore e quello di corrispettivo), la giurisprudenza degli ultimi anni ha sostanzialmente affermato la possibilità, per l’Agenzia, di considerare quale corrispettivo della

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Cessione d’azienda: valore e corrispettivo

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cessione il valore definito ai fini del registro, salva la possibilità di fornire la prova contraria da parte del contribuente. 2. I due sfidanti sul ring: valore e corrispettivo

La teorica “sfida” di cui stiamo parlando non appare nuova, tanto che in dottrina da tempo ha stimolato analisi e riflessioni; infatti, già nell’ottobre 2008 l’AiDC, sezione di Milano, emanando la norma di comportamento 171 ha avuto modo di affermare che in caso di cessione di azienda la definizione di un maggior valore ai fini dell'imposta di registro non assume automatica efficacia ai fini delle imposte dirette. Infatti: • secondo i commi 1 e 2 dell'art. 51 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, in caso di cessione d'azienda la

base imponibile per il calcolo dell'imposta di registro è determinata dal valore venale in comune commercio, ossia il prezzo che, in normali condizioni di mercato, il cessionario sarebbe disposto a pagare per l'acquisto dell'azienda. Il successivo comma 4 dell'art. 51 prevede che l'Ufficio competente controlli il valore sul quale è stata determinata l'imposta di registro considerando il valore complessivo dei beni che compongono l'azienda ceduta, compreso l'avviamento;

• in base al comma 2 dell'art. 86 del D.P.R. 917/1986, concorrono alla formazione del reddito anche le plusvalenze derivanti dalla cessione di aziende, compreso il loro valore di avviamento, realizzate unitariamente a titolo oneroso; in tale ipotesi, la plusvalenza è costituita dalla differenza fra il corrispettivo conseguito e il costo non ammortizzato. La rilevanza del corrispettivo è indirettamente confermata anche dal successivo comma 3, ove si prevede l'utilizzo del valore normale nelle sole ipotesi di assegnazione dei beni ai soci o di destinazione a finalità estranee all'esercizio dell'impresa.

Pertanto, i principi relativi alla determinazione del valore di un'azienda che viene trasferita a titolo oneroso sono diversi a seconda dell'imposta che si applica: ai fini dell'imposta di registro si ha riguardo al valore di mercato del bene, mentre con riferimento alle imposte dirette, la plusvalenza è costituita dalla differenza realizzata tra il prezzo di cessione convenuto dalle parti nell'esercizio della loro autonomia negoziale e il costo non ammortizzato. Ne deriva che, considerata la diversità dei presupposti per la determinazione dell'imposta nella cessione d'azienda ai fini della applicazione dell'imposta di registro e delle imposte dirette, la definizione di un accertamento ai fini dell'imposta di registro non ha automatica efficacia ai fini di un accertamento delle imposte sul reddito effettuato sia ai sensi dell'art. 39, primo comma, lettera c) e d), sia ai sensi del secondo comma del medesimo articolo del D.P.R. 600/1973. I molteplici elementi presi a base dell'accertamento ai fini dell'imposta di registro concernono il valore e non il corrispettivo percepito e possono, quindi, rappresentare solamente una presunzione semplice che deve essere integrata con elementi aggiuntivi. In conclusione, nel caso di cessione d'azienda, la prova del fondamento della pretesa tributaria grava sull'Amministrazione Finanziaria e deve essere motivata ed adeguata alla disciplina della specifica imposta. Non è dunque sufficiente, a costituire la motivazione, la sola indicazione dell'importo definito ai fini dell'imposta di registro, senza ulteriori elementi di prova in relazione al maggior prezzo di realizzo che l'Amministrazione Finanziaria assume come conseguito. Resta ovviamente salva la possibilità in capo all'Amministrazione Finanziaria di provare l'eventuale occultamento di una parte del corrispettivo utilizzando i poteri di verifica e controllo messi a sua disposizione dalla legge, ivi compresa la possibilità di effettuare indagini finanziarie.

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Il ragionamento applicato alle aziende vale anche per altre casistiche simili, ove oggetto della transazione sia un bene semplice (ad esempio, un immobile) anziché un bene complesso, come l’azienda. Su tale sponda di “ricostruzione tecnica” si sono registrati anche altri contributi dottrinari2 che constatano come i diversi contesti normativi non consentano di applicare al caso della cessione a titolo oneroso di immobili o di aziende la quantificazione “a valore normale” dei beni trasferiti, che invece si applica nel contesto dell’imposta di registro. Peraltro, all’interno del reddito di impresa il concetto di “valore normale” viene utilizzato nell’ambito del reddito di impresa solo in limitate circostanze, e mai nell’ambito delle operazioni che intervengono tra parti non correlate. Il motivo di tale impostazione può essere ascritto al fatto che il prezzo concordato tra parti non correlate è “per definizione” un valore normale; in sostanza, quando non vi siano legami sospetti e pericolosi appare del tutto inutile porre in essere una verifica tesa a testare se il prezzo definito sia o meno accettabile dal punto di vista fiscale. Limitando il ragionamento ad una analisi sistematica, si tratta di verificare se abbia un senso, dal punto di vista tecnico, utilizzare nel comparto delle dirette un valore rilevante per il registro. La risposta non può che essere negativa per i seguenti motivi: 1) l’imposta di registro è un’imposta d’atto, la cui applicazione si esaurisce sulla transazione

effettuata e non comporta altre conseguenze nella sfera patrimoniale dell’acquirente o del venditore. Manca, in definitiva, il legame tra tale imposta e il principio della “capacità contributiva” che invece domina il campo delle imposte sui redditi;

2) le disposizioni normative si accompagnano perfettamente alla considerazione del punto precedente: valore per il registro (salvo un maggiore corrispettivo), corrispettivo per le imposte sui redditi (a prescindere dal valore);

3) le disposizioni tecniche sulla individuazione del valore normale sono alquanto lacunose e, normalmente, finiscono per tradursi in una meschina contrattazione tra contribuente ed Ufficio; applicare tale approccio alla materia del reddito risulta con evidenza una forzatura non tollerabile.

3. Un cenno di archeologia fiscale

La questione in analisi è stata oggetto di approfondimento nella datata risoluzione ministeriale 01/07/1980 n. 9/1437; a mezzo di apposita istanza, un professionista ha chiesto la conferma che la definizione, anche per concordato, ai fini dell'imposta di registro non abbia effetto ai fini dell'imposizione diretta. Il quesito ipotizza cessioni di beni patrimoniali relativi ad imprese per le quali, a fronte del prezzo di realizzo contabilizzato, sia intervenuta rettifica d'ufficio per l'accertamento del maggior valore ai fini dell'imposta di registro, accertamento divenuto definitivo nell'originaria misura per acquiescenza del contribuente ovvero nella misura concordata in via di adesione. Si afferma, allora, che la definizione dell'accertamento ai fini dell'imposta di registro non possa esplicare una efficacia automatica ai fini delle imposte dirette, atteso che, per queste ultime, la determinazione del reddito d'impresa va fatta mediante la contrapposizione di costi e ricavi nella loro effettiva misura, mentre, com'è noto, l'imposta di registro colpisce non già il prezzo bensì il valore dei beni oggetto di trasferimento. In particolare, in sede di accertamento analitico del reddito di impresa, rimane salva e impregiudicabile l'azione dell'Ufficio per la rettifica del prezzo di vendita contabilizzato in presenza di fatti certi (diversi

2 Si segnalano, tra gli altri, T. Carroli, Plusvalenze da cessione d’azienda e rilevanza del valore “concordato” ai fini dell’imposta di registro, in Rassegna Tributaria n. 4/2010, pag. 1143 a commento della sentenza n. 202/2010; A. Buscema, Art. 54 del Tuir. Il valore venale può costituire presunzione? In Il Fisco n. 9/2001, fascicolo n. 1, pag. 3613 a commento della sentenza n. 14448/2000.

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Cessione d’azienda: valore e corrispettivo

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dalla definizione ai fini dell'imposta di registro) o di presunzioni gravi, precise e concordanti, per cui la definizione relativamente alle imposte indirette non può neppure costituire un limite alla ripresa fiscale per gli stessi motivi per i quali prima ne è stata esclusa l' automatica efficacia. Ciò stante, la definizione ai fini dell'imposta di registro non può, di per sé, spiegare automatica efficacia anche ai fini delle imposte dirette in quanto intervenuta sul "valore" del bene; ma non può escludersi che essa possa avere non meno rilevanza presuntiva in concorso con altri elementi. Nonostante questa conclusione e nonostante il fatto che la prassi interna costituisca elemento assimilabile alla norma per gli Uffici, risultano numerosi gli accertamenti strutturati su una sorta di automatica applicabilità del valore definito ai fini del registro nel comparto delle imposte dirette. 4. Gli approdi della giurisprudenza: le tesi favorevoli al Fisco

Esiste, al riguardo e più di recente, un pensiero dominante nella giurisprudenza di legittimità? La risposta è positiva e, vale subito la pena precisare che si tratta di una posizione che condivide l’operato degli Uffici in sede di accertamento. Per riassumere l’approdo, possiamo utilizzare la motivazione di una delle pronunce più recenti, ad esempio quella contenuta nella sentenza 22143, depositata dalla Cassazione il 27/09/2013. Nel citato documento si ha modo di leggere quanto segue. Per costante e condivisa giurisprudenza di questa Corte, invero, "I principi relativi alla determinazione del valore di un bene che viene trasferito sono diversi a seconda dell'imposta che si deve applicare, sicché quando si discute di imposta di registro si ha riguardo al valore di mercato del bene, mentre quando si discute di una plusvalenza realizzata nell'ambito di un'impresa occorre verificare la differenza realizzata tra il prezzo di acquisto e il prezzo di cessione. Ciò premesso (anche considerando che, in tema di accertamento, ai fini IRPEF, delle plusvalenze realizzate a seguito di trasferimento di azienda, il valore dell'avviamento resosi definitivo ai fini dell'imposta di registro, assume carattere vincolante, per l'Amministrazione finanziaria), l'indicazione, nel bilancio del soggetto economico (nella specie, titolare di impresa individuale relativa ad azienda oggetto di cessione), di un'entrata derivante dalla vendita di un bene, inferiore rispetto a quella accertata ai fini dell'imposta di registro, legittima di per sé l'Amministrazione a procedere ad accertamento induttivo mediante integrazione o correzione della relativa imposizione, mentre spetta al contribuente che deduca l'inesattezza di una tale correzione di superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato rispetto al valore di mercato, dimostrando (anche con il ricorso ad elementi indiziari) di avere in concreto venduto proprio al prezzo (inferiore) indicato in bilancio. Peraltro l'Ufficio, abilitato dalla legge ad avvalersi di presunzioni, può anche utilizzare una seconda volta gli stessi elementi probatori già utilizzati in precedenza e idonei secondo l'ordinamento a provare il fatto posto a base dell'accertamento". Si citano anche, a suffragare l’affermazione, numerosi precedenti di Cassazione, tra i quali: 23608/2011; 27989/2011; 19548/2005; 792/2003; 4117/2002; 14581/2001. Tornando poi al caso specifico della citata sentenza 22143/2013, gli stessi Giudici notano che la CTR, ritenendo che il valore determinato ai fini dell'imposta di registro non poteva essere assunto ai fini IRPEF quale prezzo di vendita (maggiore valore dell'avviamento) e, ponendo l'onere della prova contraria a carico dell'Ufficio, non ha fatto corretto uso del detto principio, sicché, l'impugnata sentenza va cassata, con rinvio alla CTR Campania, diversa composizione, che provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità. In forza di tale orientamento maggioritario, sembrerebbe esservi poco spazio per giungere a conclusioni differenti, con la conseguente difficoltà per i giudici di merito nel discostarsi dal solco già tracciato.

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Si badi, peraltro, che in altre sentenze (come ad esempio la Cassazione 5070 del 02/03/2011), la Corte ha anche delineato quale possa essere l’atteggiamento del contribuente; infatti, “… l'Amministrazione è bensì legittimata a porre il valore definito per l'imposta di registro a base dell'accertamento della plusvalenza soggetta ad Irpef, ma che tale presunzione di identità delle due basi di calcolo può essere vinta dal contribuente con la prova che, nella specie, il valore di mercato della azienda ceduta non è stato interamente realizzato”(in tal senso anche le sentenze nn. 19548/2005, 21055/2005 e 4057/2007). Nella specie, peraltro, “… la sentenza impugnata non ha motivato il convincimento che il valore di mercato dell'azienda ceduta non fosse stato interamente realizzato. Dando rilievo alle risultanze di causa concernenti "la contabilità dell'azienda ceduta", e la "capacità reddituale della stessa", ha ritenuto raggiunta la prova che il valore di mercato dell'azienda fosse diverso ed inferiore a quello definito ai fini dell'imposta di registro: come doveva viceversa ritenersi fra le parti definitivamente accertato”. Sembra, dunque, che la sfida sopra evocata sia destinata a vedere sempre vittorioso il medesimo soggetto, vale a dire il Fisco. Tuttavia, esistono anche voci fuori dal coro. 5. Gli approdi della giurisprudenza: le tesi favorevoli al contribuente

Va tenuto presente che l’atteggiamento della Cassazione non è sempre stato univocamente orientato verso le conclusioni esposte in precedenza; infatti, si registrano pronunciamenti (invero più datati) tesi ad esprimere un differente concetto. Infatti, tanto nell’ambito della cessione di azienda che in quello dei trasferimenti immobiliari, è stata anche sostenuta la non utilizzabilità della suddetta presunzione. Infatti: • Cassazione 16700 del 2005: trattasi di un avviso di accertamento nel quale l’Ufficio contestava ad

una azienda una maggiore plusvalenza ai fini delle imposte sul reddito, in quanto la cessione di un capannone era stata contestata e definita ai fini del registro. In particolare, “… il giudice a quo, oltre all'accertamento del valore venale, non ha indicato nessun altro elemento, proposto dal l'Ufficio, idoneo (per gravità precisione e concordanza) a far fondatamente ritenere, prima, che la contabilità formalmente regolare in realtà fosse inattendibile e, poi, che il corrispettivo ricavato fosse diverso da quello denunziato ma pari a quello del valore venale per cui il punto in questione della decisione impugnata deve essere cassato perché fondato su errata interpretazione delle specifiche norme delle quali il contribuente ha denunziato la violazione e falsa applicazione”;

• Cassazione 10049 del 01/08/2000: trattasi di avviso di accertamento nel quale l’Ufficio contestava una maggiore plusvalenza ai fini delle imposte sul reddito, in quanto la cessione di un capannone era avvenuta a corrispettivo inferiore rispetto al valore stimato dall’UTE. Affermano i Giudici che “… se è vero infatti che l'Amministrazione finanziaria può utilizzare, ai fini della rettifica del reddito d'impresa, ai sensi dell'art. 39 D.P.R. 29.9.1973 n. 600, anche la valutazione espressa dall'UTE sul valore degli immobili compravenduti (Cass. 12594/95), è vero anche che la decisione circa la legittimità della rettifica, intervenuta in presenza di documentazione contabile formalmente regolare, non può fondarsi esclusivamente sull'attendibilità della stima UTE, di per sé non assistita da presunzione assoluta di legittimità, costituendo la predetta stima, ai fini dell'accertamento di imposte dirette, soltanto un indizio idoneo a porre in dubbio il valore di un immobile, come dichiarato in sede di compravendita, indizio che non può però di per sé solo assurgere alla dignità di presunzione grave, precisa e concordante", in assenza di ulteriori riscontri atti ad inficiare le risultanze contabili. Altra deve, infatti, ritenersi la valenza della stima UTE in sede di valutazione di

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un immobile ai fini dell'applicazione all'atto di trasferimento delle imposte indirette, altra l'utilizzazione di tale stima in sede di imposte sul reddito, in cui un reddito complessivamente imputato ad un soggetto (nella specie risultante da scritture contabili non contestate), è tassabile se e in quanto effettivamente percepito. Nella fattispecie, dunque, in cui una stima dell'UTE è stata realizzata per rettificare, ai fini ILOR, un reddito d'impresa, la valutazione amministrativa non può rappresentare da sola elemento sufficiente a giustificare tale rettifica in contrasto con le risultanze contabili, dovendo semmai essere vagliata nel contesto della situazione contabile ed economica dell'impresa, in presenza di altre concordanti indicazioni documentali o anche presuntive (Cass. 3352/99)”.

Non ci si lasci ingannare dal fatto che le richiamate sentenze appaiono datate nel tempo e sempre ancorate alle risultanze delle stime UTE del valore degli immobili, che hanno peraltro perduto la loro importanza nel tempo. La posizione continua, infatti, ad essere “coltivata” nelle sentenze di merito, anche recentissime che, pur conoscendo il parere della Cassazione, continuano a mantenere ferme le proprie convinzioni. A titolo esemplificativo, possiamo ricordare in questa sede: • C.T.R. Torino, 3/10/2013 n. 122/1/13: L'Amministrazione Finanziaria ha utilizzato il valore

dell'Azienda, dichiarato o rettificato ai fini dell'imposta di Registro per accertare a carico del cedente maggiori plusvalenze rispetto a quelle dichiarate, ai fini delle imposte sui redditi, sulla base del prezzo conseguito nella cessione facendo coincidere valore dell'azienda e prezzo di cessione. Nella fattispecie il valore è stato calcolato secondo le regole riguardanti l'imposizione indiretta nell'ambito dell'accertamento dell'imposta di Registro. Senonché il risultato della cessione è determinato con criteri completamente diversi rispetto alla base imponibile ai fini dell'imposta di registro. Tale interpretazione è stata affermata dalla Corte di Cassazione con Sentenza n. 16700/2005 dove si legge che i principi relativi alla determinazione del valore di un bene che viene trasferito sono diversi a seconda dell'imposta che si deve applicare perché quando si discute di imposta di Registro si ha riguardo al valore di mercato del bene, mentre quando si discute, come nella specie, di una plusvalenza realizzata nell'ambito di una impresa, occorre verificare la differenza fra il prezzo di acquisto e il prezzo di cessione, salvo poi ricredersi in qualche misura giudicando elemento indiziario sufficiente sotto il profilo probatorio il valore venale determinato ai fini dell'imposta di Registro. Nel caso in esame l'inapplicabilità del valore venale è confermata dal fatto che né il prezzo realizzato con la cessione è risultato di gran lunga inferiore in quanto l'acquirente l'ha pagato soltanto € 10.000,00 anziché il prezzo pattuito. Ritiene la Commissione che il valore definito ai fini dell'imposta di Registro non possa essere utilizzato per determinare la misura del prezzo di cessione ai fini della determinazione del reddito;

• C.T.R. Milano, 6/06/2013 n. 93/29/13: trattasi di accertamento sulla plusvalenza derivante dalla cessione di un terreno, il cui valore è stato contestato ai fini del registro; il contribuente si opponeva documentando le proprie ragioni con le movimentazioni bancarie ed una perizia asseverata. “La Commissione osserva in primo luogo che la prova offerta dall'appellata del pagamento ricevuto dalla società acquirente, corrispondente al prezzo indicato in atto, non può essere né sottovalutata specie se in concorso con altri positivi elementi, né tanto meno di per sé disattesa sulla base di una mera presunzione dell'Ufficio di pagamento in nero della differenza di valore dell'immobile, presunzione che in ogni caso i primi giudici hanno ritenuto superata proprio dalla prova contraria offerta dalla [Omissis] costituita dalla suddetta documentazione bancaria inerente il pagamento del prezzo indicato nell'atto di vendita. A tale documentazione deve aggiungersi anche la deliberazione in data 1-7-04 dell'assemblea della società acquirente che autorizzava l'acquisto al suddetto prezzo. Tale presunzione invocata dall'appellante non trova poi

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alcuna base per poter essere formulata nel caso di specie, non potendo essa fondarsi sulla diffusa e generalizzata convinzione dell'Ufficio dell'occultamento del reale prezzo di cessione ottenuto con mezzi di pagamento diversi o con conti intestati a terzi, elementi della cui esistenza in specie non sussiste alcun indizio idoneo a giustificare detta presunzione. Tanto più che la prova del pagamento effettivo del (solo) ammontare del prezzo indicato in atto trova piena conferma e riscontro nei valori di cui alla perizia di stima asseverata … Tale perizia non può essere definita, come riduttivamente indicato dall'Ufficio appellante, una mera perizia di parte. A tal proposito, non può infatti trascurarsi di considerare che la suddetta perizia, peraltro mai contestata dall'Ufficio, per il suo oggetto ed i suoi fini, riveste un ruolo fondamentale nell'ambito del rapporto fiduciario tra il cittadino contribuente e l'Amministrazione finanziaria, sul piano della certezza contributiva, sulla base di valori imponibili accertati con il suddetto procedimento peritale asseverato previsto dalla legge e come tali condivisi ed accettati dalla stessa amministrazione. Pertanto, … , è consentito all'Ufficio di stabilire un diverso valore dei beni rispetto alla perizia giurata … solo in presenza di motivati ed oggettivi presupposti atti a giustificare tale scostamento”.

• C.T.R. Lombardia, Sede di Brescia, 13/02/2012, n. 50: … tuttavia l'Agenzia si è basata unicamente sul valore resosi definitivo ai fini dell'imposta di registro, per determinare la plusvalenza imponibile nell'ambito delle imposte dirette; detto modo di operare è valido invece unicamente ai fini della determinazione delle imposte indirette, nel caso dell'imposta di registro, applicabile con riferimento al valore venale di comune commercio dell'immobile. Per di più l'organo accertatore ha considerato quale valore certo quello accertato e resosi definitivo, in sede di determinazione dell'imposta di registro, mediante definizione del medesimo con la parte acquirente, soggetto terzo nella presente causa. Al contrario l'azione accertatrice nell'ambito delle imposte dirette deve essere fondata non sul valore venale di comune commercio valido per imposte indirette, quale è l'imposta di registro, bensì sul corrispettivo effettivamente corrisposto e percepito, cioè sul prezzo pagato ed incassato dal venditore, quindi nella fattispecie l'Agenzia delle Entrate doveva provare che il prezzo effettivamente corrisposto al contribuente fosse stato quello accertato ai fini dell'imposta di registro. Tale prova non è stata prodotta, pertanto le tesi dell'appellante vanno accolte.

Potremmo dunque affermare che la giurisprudenza di merito sembra favorevolmente attestarsi su posizioni che sono vicine alle istanze del contribuente, anche se non può essere trascurato, quando si imposta il contenzioso, quale sia il normale esito delle vicende nel successivo grado di Cassazione. E, su tale versante, abbiamo prima visto come vi sia una sorta di “stallo” del parere dei supremi Giudici. 6. Se la definizione è operata dall’acquirente, il dato può essere utilizzato contro il

cedente?

Se, come visto in precedenza, non può essere trascurato l’eventuale valore definito ai fini del registro, non possiamo non constatare che il primo soggetto interessato dalla vicenda sarà l’acquirente, fermo il fatto che le parti della transazione sono solidalmente responsabili nei confronti del fisco. Si sprigiona, allora, un evidente contrasto di interessi nella gestione della pratica, tenuto conto che l’acquirente può approcciare la definizione (magari beneficiando delle riduzioni del contraddittorio) valutando esclusivamente il puro costo di maggiore imposta ed interessi; viceversa, il venditore (accorto) metterà sul piatto della bilancia anche l’eventuale interrelazione con il comparto delle imposte dirette. Andando con ordine, dobbiamo innanzitutto constatare che: 1) ciascuna parte è libera di agire come meglio crede, non potendo vincolarsi le decisioni dell’una al

valore dell’altra;

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2) nel caso in cui una parte addivenga all’adesione con il fisco sul registro, la vicenda si intende cristallizzata anche per l’altra, a prescindere che la medesima abbia partecipato attivamente e condiviso la scelta, oppure l’abbia osteggiate, oppure ancora non abbia nemmeno partecipato al confronto.

Al fine di rendere più forte la posizione del venditore, allora, si potrebbe affermare che: • conviene sempre partecipare al contraddittorio con l’Ufficio, al limite anche solo per affermare la

propria contrarietà alla definizione del maggior valore dell’azienda, in quanto il medesimo deve coincidere con il corrispettivo dichiarato;

• per poter avere “diritto” a tale partecipazione, appare conveniente inserire una apposita clausola nell’atto di cessione, affinché si crei, almeno a livello obbligatorio, una opportuna comunicazione e gestione condivisa della eventuale pratica di accertamento ai fini del registro.

Anche la Cassazione si è occupata della vicenda in questione, con l’Ordinanza 12632 del 20/07/2012, sempre relativa alla transazione di un’area edificabile. In particolare, senza nemmeno che si rendesse necessaria una discussione, viene affermato quanto segue: • la CTR riteneva illegittimo il riferimento operato dall'Ufficio, ai fini dell'accertamento del maggior

reddito derivante ai venditori dalla cessione di un'area edificabile, al valore accertato per adesione ai fini dell'imposta di registro, essendo stato tale valore concordato, non con i contribuenti, ma solo con la parte acquirente del bene;

• secondo il costante insegnamento di questa Corte, in tema di accertamento del reddito d'impresa, il valore di mercato determinato in via definitiva in sede di applicazione dell'imposta di registro può essere legittimamente utilizzato dall'Amministrazione finanziaria come dato presuntivo ai fini dell'accertamento di una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di azienda;

• in tale ipotesi resta, pertanto, a carico del contribuente l'onere di provare un diverso valore, anche dimostrando di non aver interamente realizzato, in concreto, il valore di mercato dell'azienda ceduta (cfr. Cass. 4057/07, 19830/08, 5070/11);

• il valore stabilito in sede di applicazione dell'imposta di registro deve essere considerato, quindi, come un dato obiettivo idoneo, di per sé, a fondare l'accertamento della plusvalenza da cessione, a prescindere dalle modalità con le quali esso sia stato determinato, e fatta salva la possibilità di prova contraria da parte del contribuente;

• ove si tratti di determinazione del valore per adesione si deve prescindere dai soggetti tra i quali l'atto di adesione sia intervenuto, essendo rilevante esclusivamente il dato oggettivo costituito dal valore definitivamente determinato in sede di applicazione dell'imposta di registro.

7. Un tentativo di raccordo di troppi elementi eterogenei

Alla luce di tutto quanto sopra rappresentato, a parere di chi scrive non si può che affermare che il parere della Cassazione in merito alla utilizzabilità del valore definito ai fini del registro quale parametro per la determinazione della plusvalenza del cedente: • non possa essere definito come conclusione di natura tecnico – normativa, ma sia unicamente il

riconoscimento della sostenibilità di una presunzione che, sotto un certo punto di vista, può avere una propria autoconsistenza;

• il consolidamento di tale filone giurisprudenziale determina l’abitudine dell’Agenzia a contestare automaticamente la maggiore plusvalenza ai fini delle imposte dirette, nei casi in cui sia stata chiusa la pratica in accertamento con adesione; ciò determina di fatto una inversione dell’onere della prova a carico del contribuente;

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• il ragionamento, pertanto, si sposta dal versante della legittimità del ragionamento svolto dall’Ufficio (che non sussiste) a quello della ragionevolezza della presunzione utilizzata dall’Amministrazione;

• poiché la presunzione è di natura semplice, il contribuente avrà tutta la possibilità di dimostrare che il corrispettivo pattuito è reale e non sussiste alcuna quota occultata;

• ove possibile, l’esistenza di perizie con data certa aiuta certamente la fase difensiva, in quanto viene acquisita la attestazione di un soggetto terzo, qualificato ed indipendente in merito alla coerenza del corrispettivo;

• ove si voglia spostare il ragionamento sulla legittimità di un corrispettivo inferiore al valore, occorrerà documentare in modo certo il motivo per cui le parti hanno deciso di scambiarsi un bene di un determinato valore ad un corrispettivo inferiore. Affinché tale impostazione possa reggere nel confronto con l’Agenzia (e, successivamente, possa essere apprezzata dal Giudice), appare necessario che le considerazioni svolte siano cristallizzate in documenti con data certa;

• possibili motivazioni di un corrispettivo inferiore al valore dovranno essere riferite, normalmente, alla specifica situazione del venditore, al suo stato di bisogno impellente di liquidità, alla impossibilità di trovare più acquirenti interessati in modo da poter giocare al “rialzo” sul prezzo, ecc.;

• nel caso delle aziende, oggetto di specifico approfondimento in questo contributo, una variabile assolutamente rilevante oltre, ovviamente, alle condizioni soggettive del cedente, è costituita dall’avviamento, poiché tale voce risente della soggettività di colui che opera la stima, delle prospettive di continuazione dell’attività nel tempo, della particolare tipologia di attività, dello stato della concorrenza nella specifica zona;

• qualora non sussistano elementi oggettivi secondo quanto sopra rammentato, oppure i medesimi non siano facilmente dimostrabili, sarà indispensabile gestire con la massima cautela la fase del contraddittorio, di talché risulti agli atti che la posizione dell’acquirente (che intende definire l’atto in adesione) sia totalmente divergente rispetto a quella del cedente (che non concorda affatto). Ottimo sarebbe l’inserimento negli atti di adesione della affermazione secondo cui si addiviene all’accordo per il solo motivo di evitare una eventuale fase contenziosa, dall’esito incerto e dal costo certo. In tal modo, rimane agli atti che la parte non concorda sul valore proposto dall’Ufficio, ma accondiscende alla definizione al solo scopo di evitare il contenzioso;

• in tale modo, ove l’Agenzia decidesse di utilizzare il medesimo valore ai fini dell’accertamento della plusvalenza, avrà difficoltà nel richiamare l’adesione stessa, dalla quale risulterà che il valore non era condiviso dalle parti che, pure, hanno provveduto alla chiusura al solo scopo di evitare la fase contenziosa.

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Cessione d’azienda: valore e corrispettivo

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In breve: 1. L’atto di cessione di azienda può essere oggetto di controlli e censure da parte dell’Agenzia

che ha la possibilità di contestare, prioritariamente ai fini dell’imposta di registro, che il valore su cui è dovuto il tributo sia superiore rispetto al corrispettivo tassato

2. La contestazione ai fini del registro può essere vantaggiosamente definita in adesione, dal compratore o da qualsiasi altra parte direttamente interessata o obbligata in solido. Il ragionamento che sottende tale definizione è spesso di pura convenienza economica: costa meno definire che non rischiare un contenzioso

3. Spesso gli Uffici utilizzano il valore definito ai fini del registro per contestare una maggiore plusvalenza in capo al soggetto cedente, nonostante differente sia l’oggetto di tassazione: valore per il registro, corrispettivo effettivo per le imposte dirette

4. La giurisprudenza di legittimità è prevalentemente orientata a riconoscere la correttezza di tale modus operandi, sostenendo che è legittimo ritenere (presunzione semplice) che difficilmente, ad esempio, si possa cedere ad 80 un bene dal valore di 100

5. La stessa Cassazione ritiene possibile la difesa del contribuente che, tuttavia, avrà l’onere di dimostrare che il corrispettivo effettivo è pari a quello indicato nell’atto

6. In caso di inerzia, la presunzione di cui sopra regge al test della giurisprudenza 7. Vi sono numerose pronunce, anche recenti, della giurisprudenza di merito che tendono a

discostarsi dall’insegnamento della Cassazione, sostenendo l’esistenza di un minor grado di convincimento della presunzione per cui il valore debba (normalmente) coincidere con il corrispettivo

8. Per il bene azienda è difficile stimare in modo esatto ed oggettivo il valore, poiché il medesimo risente di una variabile altamente aleatoria, quale quella dell’avviamento

9. Al fine di rendere maggiormente difendibile la propria posizione, il cedente dovrà avere cura di partecipare in modo attivo alla fase del contraddittorio, normalmente svolta sotto il controllo del soggetto acquirente, direttamente interessato. E’ bene far registrare la posizione di assoluta discordanza rispetto ai valori proposti dall’amministrazione, eventualmente facendo registrare (per iscritto, nei verbali di contraddittorio e nell’atto di definizione) che non si condivide la cifra utilizzata, ma la si “tollera” al solo fine di limitare il costo della pratica

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CESSIONE DI AZIENDA E RESPONSABILITÀ FISCALI

a cura di Giovanni Valcarenghi

La cessione di azienda, così come il conferimento, non possono divenire strumenti posti in essere al solo scopo di sottrarre all’Erario le garanzie per il recupero di eventuali crediti; analogamente, il sistema attribuisce all’acquirente uno strumento per poter conoscere l’esistenza e l’ammontare di eventuali pendenze delle quali può essere chiamato solidalmente a rispondere. E’ allora opportuno richiedere all’Agenzia una apposita certificazione liberatoria. Non sussistono limitazioni, né si applica il beneficio della preventiva escussione, nel caso di operazioni in frode.

1. Premessa

Tra le varie responsabilità che si applicano all’acquirente di una azienda non va trascurata quella che attiene le pendenze fiscali. La questione, peraltro, oltre a doversi raccordare con le generali disposizioni dell’articolo 2560 del C.C. è oggetto di una specifica previsione dell’articolo 14 del Decreto Legislativo 472/1997, disposizione che ha la finalità di rafforzamento della garanzia a favore dello Stato per il pagamento dei debiti tributari, scongiurando eventuali accordi fraudolenti tra i soggetti partecipanti alla cessione, finalizzati alla sottrazione dei beni costituenti garanzia per l’Erario. La disposizione è configurata come facoltà per l’acquirente di ottenere una liberatoria “ufficiale” a condizione che si rispetti un preciso iter burocratico che richiede la collaborazione di entrambe le parti coinvolte ed una precisa attenzione al rispetto dei tempi. 2. La struttura della norma e le limitazioni alla responsabilità

Il richiamato articolo 14 poggia su 5 commi, che rappresentano altrettante affermazioni: 1) responsabilità solidale e relative limitazioni generali: il cessionario è responsabile in solido, fatto

salvo il beneficio della preventiva escussione del cedente ed entro i limiti del valore dell'azienda o del ramo d'azienda, per il pagamento dell'imposta e delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse nell'anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti, nonché per quelle già irrogate e contestate nel medesimo periodo anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore;

2) limitazione quantitativa: l'obbligazione del cessionario è limitata al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli Uffici dell'amministrazione finanziaria e degli enti preposti all'accertamento dei tributi di loro competenza;

3) certificato liberatorio o limitativo: gli Uffici e gli enti preposti all’accertamento sono tenuti a rilasciare, su richiesta dell'interessato, un certificato sull'esistenza di contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti. Il certificato, se negativo, ha pieno effetto liberatorio del cessionario, del pari liberato ove il certificato non sia rilasciato entro quaranta giorni dalla richiesta;

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Cessione di azienda e responsabilità fiscali

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4) il caso della cessione in frode: la responsabilità del cessionario non è soggetta alle limitazioni previste nel presente articolo qualora la cessione sia stata attuata in frode dei crediti tributari, ancorché essa sia avvenuta con trasferimento frazionato di singoli beni;

5) presunzione (relativa) di cessione in frode: la frode si presume, salvo prova contraria, quando il trasferimento sia effettuato entro sei mesi dalla constatazione di una violazione penalmente rilevante.

La prassi ministeriale si è occupata della questione con la Circolare 180/E del 10 luglio 1998, documento all’interno del quale si afferma che, per configurarsi la responsabilità del cessionario, non è indispensabile che il trasferimento dell'azienda risulti da apposito atto materiale, essendo invece sufficiente che si renda applicabile l'imposta di registro per presunzione di cessione (salvo prova contraria) desunta, ai sensi dell'art. 15, comma 1, lett. d), del D.P.R. 131/1986, dalla continuazione della stessa attività commerciale nel medesimo locale o in parte di esso, da cambiamenti nella ditta, nell'insegna o nella titolarità dell'esercizio ovvero da altre presunzioni gravi, precise e concordanti. Inoltre, la DRE del Piemonte, con circolare n. 6 del 18/06/1998, ha affermato che la medesima disciplina non si renderebbe applicabile al conferimento3. Diversamente, sembra unanime4 l’estensione ad operazioni simili, quali permuta, datio in solutum, donazione; le cose si complicano per il caso della cessione del ramo d’azienda, ipotesi nella quale non appare certo se la responsabilità debba essere riferita alle sole imposte e sanzioni afferenti al ramo stesso, oppure si estenda in modo generale per la oggettiva difficoltà di effettuare tale discrimine5. Analogamente, la dottrina primaria ritiene che sia esclusa l’applicazione della norma in caso di affitto. Sempre in tema generale, non del tutto chiaro è il riferimento alle sanzioni ed imposte sulle quali si esplica la solidarietà; in merito alle sanzioni bisognerebbe comprendere se si possano nelle stesse comprendere anche quelle addossabili al cedente in forza di disposizioni che prevedano la solidarietà passiva di quest’ultimo, mentre in merito all’oggetto del tributo, non si comprende se il riferimento alle sanzioni sia di natura tecnica (in modo da escludere, ad esempio, le tasse), oppure debba essere interpretato in modo estensivo. Viene invece esclusa la responsabilità per i tributi e le sanzioni che saranno applicabili alla eventuale plusvalenza derivante dalla cessione, per il semplice motivo che l’obbligazione tributaria sorge in un momento successivo a quello dell’atto stesso. La previsione certamente più rilevante è quella che si desume dal combinato disposto dei commi 2 e 3, ove si prevede che la responsabilità del cessionario sia limitata al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli Uffici dell'Amministrazione Finanziaria che, peraltro, sono tenuti a rilasciare all'interessato che ne faccia richiesta un certificato in ordine all'esistenza di contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati ancora soddisfatti alla data della richiesta. Nel certificato devono essere enunciate anche le violazioni commesse nell'anno in cui è avvenuta la cessione o nel biennio precedente e già constatate dall'Ufficio o dell'ente competente, ancorché alla data del trasferimento non sia stato ancora emesso il relativo atto di contestazione o di irrogazione della sanzione. Il cessionario è liberato da ogni obbligazione nei casi di: - certificato negativo; - certificato non rilasciato entro quaranta giorni dalla richiesta, per inerzia dell’Ufficio. In ordine a

tale termine, lo stesso decorre dalla data in cui la richiesta perviene all'Ufficio o all'ente, mentre il

3 La tesi non è condivisa da E. ZANETTI “Responsabilità tributaria anche per la conferitaria”, in EutekneInfo del 12/05/2010. 4 Tra gli altri, L. Del Federico “commentario alle disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria” , AA.VV. Cedam, 2000, pag. 475; dello stesso Autore “Cessione d’azienda e responsabilità per i debiti tributari” in Corriere Tributario 40/2002, pag.3670. 5 R. Baggio “Appunti in tema di responsabilità del cessionario di azienda” in Rassegna Tributaria 3/1999, pag. 739.

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termine finale si identifica con il giorno di ritiro del certificato presso gli sportelli dell'Ufficio o dell'Ente ovvero con quello di spedizione mediante lettera raccomandata.

Tale struttura non impedisce il fatto che il certificato possa essere richiesto in qualsiasi tempo, sia prima che dopo la cessione, con evidenti variazioni della utilità del medesimo. Ai fini di una tutela della riservatezza dei dati del soggetto “potenziale cedente”, ove il trasferimento non sia ancora avvenuto è necessario il suo consenso sulla domanda presentata. In ogni caso, il cessionario non può ritenersi esonerato da responsabilità con riferimento al periodo intercorrente tra la data di rilascio del certificato (o la data di scadenza del termine dei quaranta giorni in caso di mancato rilascio) e quella in cui avviene il trasferimento dell'azienda. Tutte le limitazioni della responsabilità vengono meno se la cessione dell'azienda - anche se avvenuta con trasferimento frazionato di singoli beni - sia stata attuata in frode ai crediti di natura tributaria; tale frode si presume, salvo prova contraria, se il trasferimento è effettuato nei sei mesi successivi alla constatazione di una violazione penalmente rilevante e suscettibile di radicare l'azione corrispondente (e cioè se l'azione penale è proponibile in quanto non ostano cause che ne impediscono l'esercizio, come per esempio la prescrizione del reato). Quindi, di fatto la responsabilità del cessionario non è soggetta ad alcuna limitazione, nel caso di: - frode concretamente accertata (la cui prova deve essere sempre fornita dall'Ufficio); - frode semplicemente presunta e non vinta da prova contraria. Il cessionario risponderà pertanto solidamente (senza più il beneficio della previa escussione del cedente) ed illimitatamente di tutte le violazioni commesse dal cedente fino alla data del trasferimento, anche se a tale data le stesse non siano state ancora constatate, purché ovviamente vengano rispettati i termini di decadenza previsti per l'accertamento. Sulla legittimità della norma in commento è possibile citare la pronuncia della CTP di Terni Sez. III, 08-09-2010, n. 171, nella quale è stato rilevato che non sussiste contrasto tra l'art. 14 co. 1 D.Lgs. 472/97 e gli artt. 3 e 4 della Costituzione. Infatti, detta norma non può considerarsi lesiva del principio di uguaglianza, poiché nonostante la apparente deroga al principio di personalità della responsabilità in tema di sanzioni tributarie, la responsabilità solidale del cessionario appare conforme al principio di ragionevolezza. 3. I casi particolari di disapplicazione individuati dalla prassi

Nel corso del tempo sono state individuate due specifiche ipotesi in cui la disposizione non trova applicazione: • Risoluzione 12/07/1999 n. 112/E: la solidarietà “dipendente” a carico dei cessionari di aziende per

il pagamento delle imposte e delle sanzioni imputabili al cedente non si applica al caso delle cessioni di azienda effettuate nell’ambito delle procedure fallimentari. Infatti, la norma è esclusivamente riferita alle cessioni su base volontaria o negoziale; diversamente, non avrebbe significato la presenza della condizione della preventiva escussione del cedente (non possibile nelle procedure), configurando una sorta di responsabilità "esclusiva" (e non solidale) in capo al cessionario;

• Interpello 954-412/2014 della Direzione Centrale Normativa: la responsabilità solidale del cessionario per i debiti tributari del cedente non si applica nell’ambito delle cessioni poste in essere nell’ambito di una procedura di liquidazione coatta amministrativa6.

6 Ne danno notizia F. Capponi e R. Moscaroli in “Cessione d’azienda, fisco light”, Italia Oggi del 05/09/2014, pag. 24.

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Cessione di azienda e responsabilità fiscali

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4. Forma e particolarità della certificazione

Con apposito Provvedimento Direttoriale del 25 giugno 2001, sono stati approvati i modelli per la certificazione dei carichi pendenti, risultanti al sistema informativo dell'anagrafe tributaria e della certificazione dell'esistenza di contestazioni in caso di cessione di azienda, nonché le istruzioni per gli Uffici locali dell'Agenzia delle Entrate competenti al rilascio e di un fac-simile di richiesta delle certificazioni medesime da parte dei soggetti interessati. Sul versante della modulistica, sono ad oggi presenti i seguenti modelli, scaricabili dal sito delle Entrate: a) il modello di certificazione dei carichi pendenti risultanti dall'interrogazione al sistema informativo

dell'anagrafe tributaria relativi alle imposte dirette, all'imposta sul valore aggiunto e alle imposte indirette sugli affari, di cui all'allegato «A» annesso al provvedimento;

b) il modello di certificazione previsto dall'art. 14, comma 3, del Decreto Legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, concernente l'esistenza, in caso di cessione di azienda, di contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti alla data della richiesta, di cui all'allegato «B» annesso al provvedimento.

Va prestata attenzione al fatto che solo il secondo certificato è quello che riveste importanza ai fini che qui interessano; per l’ottenimento dello stesso è necessario applicare l’imposta di bollo vigente e pagare diritti amministrativi. La struttura del certificato è la seguente:

RICHIESTA CERTIFICAZIONE DEI CARICHI PENDENTI (art. 14, comma 3, D.Lgs. 472/97)

IDENTIFICAZIONE DEL SOGGETTO D’IMPOSTA Codice Fiscale: _______________ Numero di partita IVA _____________________ Denominazione o ragione sociale ______________________________________________________ Domicilio Fiscale: Via e numero civico: ________________________ C.a.p.___________ Comune __________________________ Il/la sottoscritt.. …………………… codice fiscale ……………………………… residente in …………………………… in qualità di …………………………… della ditta/società ………………… con sede in ………………………… P.IVA n. ………………………

C H I E D E il rilascio di un certificato dei carichi pendenti relativi al soggetto d’imposta sopra identificato per: € esistenza di contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati

soddisfatti alla data della presente (art. 14 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, riguardante la cessione d’azienda).

€ esistenza di carichi pendenti a seguito di interrogazione al sistema informativo dell’Anagrafe Tributaria ai fini delle imposte dirette, I.V.A., imposte indirette sugli affari ed altri tributi indiretti.

Luogo e data Firma…………………………………………. DICHIARAZIONE DI CONSENSO DEL POTENZIALE CEDENTE

Il sottoscritto ………………………… nato a ……………… il ……… in qualità di ………………… della ditta/società ………………………… con sede in …………………………………………………… partita I.V.A. n. ………………………………………… esprime il proprio consenso ai fini del rilascio della certificazione di cui all’art. 14, comma 3, del D.Lgs. n. 472/97. Si allega copia del documento d’identità. Si autorizza il trattamento dei dati personali ai sensi della Legge n. 675/1996. Luogo e data …………………………………….. Firma………………………………………………………………….

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L'Ufficio competente, a seguito di interrogazione del sistema informativo dell'anagrafe tributaria, procede ad indicare la sussistenza di carichi pendenti derivanti dai seguenti atti notificati: 1) ai fini delle imposte dirette (IRES e IRAP) e IVA:

- processi verbali di constatazioni - avvisi di accertamento o Avvisi di rettifica IVA - atti di contestazione o Avviso di irrogazione sanzioni - avvisi bonari - carichi pendenti per liquidazione automatizzate delle dichiarazioni annuali;

2) ai fini dell'imposta di registro o altri tributi indiretti: - avviso di rettifica, avviso di liquidazione dell'imposta e di irrogazione sanzioni; - ogni altro atto notificato già di competenza dell'Ufficio del registro.

Per gli atti impugnati dal contribuente, l'Ufficio è tenuto ad indicare il grado di giudizio nonché l'eventuale esistenza di avvisi di liquidazione, o da emettere, per la riscossione frazionata degli importi. Nel Provvedimento viene precisato che, nel caso in cui alla data della richiesta esistano delle contestazioni in corso di verifica, prima del rilascio del certificato l'Ufficio deve notificare il relativo PVC al fine di riportarlo nel certificato stesso. 5. Spunti di giurisprudenza

Anche la giurisprudenza si è occupata di tracciare i confini della materia in analisi, così come risulta dalle seguenti pronunce: • CT II° grado di Trento, 05/05/2014, n. 37: Un contribuente veniva raggiunto da cartella esattoriale

per debiti fiscali relativi all’anno nel quale era avvenuta la cessione e ne sosteneva la illegittimità. Invece, si afferma che è legittima l'obbligazione solidale del cessionario, oltre che per debiti fiscali anteriori al trasferimento, anche per debiti fiscali risultanti alla data di cessione dell'azienda, qualora questi risultino regolarmente contabilizzati e non sia stato richiesto dal cessionario medesimo il certificato di assenza di violazioni del cedente;

• Cassazione, 14/03/2014, n. 5979: nell’ambito di una complessa situazione di frode fiscale nel campo IVA del commercio di autoveicoli, si afferma il seguente principio di diritto: "le disposizioni del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 14 introducono misure antielusive a tutela dei crediti tributari, di natura speciale rispetto alla ordinaria disciplina dell'art. 2560 C.C., comma 2, evitando che, attraverso il trasferimento dell'azienda o di un ramo d'azienda, od anche mediante il trasferimento frazionato di singoli beni appartenenti al complesso aziendale, l'originaria generale garanzia patrimoniale del debitore possa essere dispersa in pregiudizio dell'interesse pubblico alla riscossione delle entrate finanziare. Tali misure, … , si risolvono nella previsione di una responsabilità solidale e sussidiaria del soggetto cessionario per i debiti tributari gravanti sul soggetto cedente, modulata secondo una diversa estensione correlata al legittimo affidamento ingenerato dalle informazioni fornite dalla Amministrazione finanziaria al soggetto cessionario, venendo la norma a distinguere nettamente la ipotesi di cessione d'azienda conforme a legge (art. 14, commi 1, 2 e 3) dal negozio di cessione d'azienda in frode al Fisco (art. 14, commi 4 e 5), nel primo caso conformando la responsabilità del soggetto cessionario come sussidiaria (beneficium excussionis) e limitata nel "quantum" (entro il valore della cessione della azienda o del ramo di azienda) e nell'oggetto (con riferimento alle imposte e sanzioni relative a violazioni commesse dal soggetto cedente nel triennio anteriore il trasferimento dell'azienda o del ramo, ovvero relative a violazioni commesse anche anteriormente, per sanzioni od imposte "già irrogate o contestate" nel triennio - comma 1 - , ovvero entro i limiti del "debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli Uffici dell'Amministrazione finanziaria e degli enti preposti all'accertamento dei tributi."

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- commi 2 e 3 - ) secondo un criterio incentivante volto a premiare la diligenza del soggetto cessionario nell'acquisire dagli Uffici Finanziari, prima della conclusione del negozio traslativo, le informazioni sulla posizione debitoria del soggetto cedente nei confronti del Fisco; nel secondo caso (accordo fraudolento), escludendo espressamente ogni precedente limitazione di responsabilità del cessionario (art. 14, comma 4), ed introducendo una presunzione legale "iuris tantum" di cessione in frode "quando il trasferimento sia effettuato entro sei mesi dalla constatazione di una violazione penalmente rilevante" (art. 14, comma 5)";

• C.T.P. Lucca, 14/05/2013, n. 45: per quanto attiene alla responsabilità del cessionario nell'ipotesi di cessione d'azienda, secondo l'art. 14 del D.Lgs. n. 472 del 1997 “questi è responsabile in solido, fatto salvo però il beneficio della preventiva escussione del cedente ed entro i limiti del valore dell'azienda o del ramo d'azienda. Nel caso di specie dagli atti non appare alcuna traccia dell'avvenuta escussione del debitore principale, … , per cui manca la prova certa che vi sia stata o meno l' escussione …. Ciò porta ad accogliere l'eccezione della società ricorrente e conseguentemente il ricorso, con assorbimento degli altri motivi esposti”.

• C.T.R. Lombardia – Milano, 14/03/2013, n. 58: si analizza il tema della necessaria notifica degli atti a tutti i soggetti responsabili e l’onere della preventiva escussione del debitore principale, ove lo stesso sia una società estinta. E' infatti di assoluta rilevanza il fatto che l'obbligazione fosse solidale, e pertanto unica per tutti gli obbligati. Orbene, come ritenuto dalla S.C. con la sentenza n. 6729 del 14/06/1995, "alla stregua della disciplina dettata dal codice civile con riguardo alla solidarietà fra coobbligati, applicabile - in mancanza di specifiche deroghe di legge - anche alla solidarietà fra debitori d'imposta, l'avviso di accertamento, tempestivamente notificato solo ad alcuni debitori, spiega nei confronti di costoro tutti gli effetti che gli sono propri mentre, nei rapporti tra l'Amministrazione finanziaria e gli altri condebitori ai quali non sia stato notificato validamente, pur non essendo idoneo a produrre effetti che possano comportare pregiudizio di posizioni soggettive dei contribuenti (quali il decorso dei termini di decadenza per impugnare l'accertamento medesimo) determina pur sempre l'effetto conservativo di impedire la decadenza dell'Amministrazione stessa dal diritto all'accertamento consentendole quindi la notifica o la rinnovazione della stessa anche dopo la scadenza del termine all'uopo stabilito". Il principio è ribadito nella sentenza n. 27005 del 21/12/2007 in tema di solidarietà fra i coniugi. Sussiste pertanto la responsabilità solidale del contribuente, nei cui confronti vale l'effetto interruttivo conseguente alla notifica, pacifica, delle cartelle agli obbligati principali. Deve essere, infine, confermata la ritenuta infondatezza dell'eccezione di omessa previa escussione della società cedente, e comunque dell'omessa relativa indicazione nelle cartelle: anche a voler trascurare la circostanza che è documentato che la società aveva cessato l'attività in data 31.10.2005 e che era poi stata cancellata dal registro delle imprese in data 31.01.2008, deve essere osservato che le cartelle esattoriali non sono atti esecutivi, bensì atti prodromici all'esecuzione e, in particolare, atti impositivi attraverso i quali il contribuente assume contezza dell'iscrizione a ruolo, con funzioni di precetto e di interruzione dei termini di decadenza e di prescrizione;

• CTP Bolzano, 16/09/2012, n. 56: in caso di cessione di ramo d'azienda, la cartella di pagamento emessa a carico del soggetto cessionario non può avere efficacia esecutiva, se non dopo la preventiva escussione del patrimonio del soggetto cedente, entro i limiti del valore del ramo di azienda ceduto;

• CTP Bolzano, 15/05/2012, n. 56: l'iscrizione a ruolo delle imposte liquidate ex art. 36-bis D.P.R. n. 600 del 1973, infatti, va correttamente eseguita soltanto nei confronti del debitore principale e sulla base di tale ruolo spetta all'Agente della Riscossione procedere ai sensi dell'art. 25 D.P.R. n. 602 del 1973, mediante notifica della relativa cartella, nei confronti sia del debitore principale che

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dei coobbligati che lo stesso Agente è tenuto ad individuare. Evidenziate la regolarità formale delle cartelle impugnate e l'esistenza dell'obbligazione in capo alla ricorrente, si rileva, tuttavia, che il ricorso merita accoglimento per la fondatezza dell'eccezione formulata in ordine al beneficium excussionis tenuto conto che, ai sensi dell'art. 14 D.Lgs. n. 472 del 1997 "il cessionario è responsabile in solido, fatto salvo il beneficio della preventiva escussione del cedente ed entro i limiti del valore dell'azienda o del ramo d'azienda, per il pagamento dell'imposta e delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse nell'anno in cui è avvenuta la cessione...." Come evidenziato dalla ricorrente nella nota presentata all'udienza dd. 17.04.2012 "la società … risulta ancora proprietaria di una unità immobiliare …, come risulta, fra l'altro, dalla documentazione prodotta. Ne discende che la cartella impugnata non potrà avere efficacia esecutiva fin tanto che non si sia esaurita, infruttuosamente, la procedura esecutiva nei confronti della debitrice principale, … " tenuto conto che la cartella di pagamento, da equipararsi ad atto di precetto, costituisce atto esecutivo come si desume del reato dall'art. 2 co. 1 D.Lgs. n. 546 del 1992 laddove dispone che "restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento";

• Cassazione Penale, 09/02/2011, n. 19595: sussiste il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte in presenza di uno stratagemma artificioso del contribuente, tendente a sottrarre, in tutto o in parte, le garanzie patrimoniali alla riscossione coattiva del debito tributario, stratagemma che può assumere le più diversificate forme, potendo estrinsecarsi attraverso l'abuso di strumenti giuridici rientranti solo in apparenza nella fisiologia della vita aziendale o societaria (nella specie, operazioni straordinarie scissioni simulate).

In breve: 1. La cessione d’azienda determina l’insorgere di una responsabilità solidale per imposte e

sanzioni tra cedente e cessionario, sia pure temporalmente limitata nel tempo. La disposizione è stata strutturata come norma speciale rispetto al disposto dell’articolo 2560 del Codice Civile

2. La norma accorda al cessionario il beneficio della preventiva escussione del cedente; la procedura diviene una condizione di legittimità per azionare il recupero nei confronti del cessionario

3. E’ possibile sfuggire alla norma richiedendo apposito certificato all’Agenzia; è rilevante il momento di ottenimento del certificato stesso

4. Non vi sono limitazioni di responsabilità nel caso di cessione avvenuta in frode ed è stabilito che la frode si presuma nel caso di contestazione di reati penal tributari

5. La disposizione potrebbe estendersi anche ad altre operazioni straordinarie, ma al riguardo non vi sono prese di posizione ufficiali da parte dell’Agenzia

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AFFITTO DI AZIENDA E DIFFERENZE INVENTARIALI

a cura di Claudio Ceradini

Le norme codicistiche dell’usufrutto d’azienda, utilizzabili anche per il contratto di affitto, prevedono la necessità di effettuare un conguaglio finale, per tenere conto della differenza dei valori inventariali tra i due momenti dell’avvio e della cessazione degli effetti del contratto. La questione si presta in modo assai ampio all’applicazione del principio di libertà contrattuale delle parti che, in buona sostanza, possono gestire tale variabile secondo i propri interessi, purché i medesimi siano meritevoli di tutela. Tra le varie questioni da risolvere, peraltro, vi è quella di comprendere se l’avviamento sia una voce che rientra nell’ambito di quelle rilevanti per il conguaglio, circostanza in merito alla quale la Cassazione ha espresso parere negativo, trattandosi non di un elemento dell’azienda, bensì di una qualità della medesima.

1. Premessa

Se esiste qualcosa di poco adatto ad essere affittato, è sicuramente un’azienda o un suo ramo. Sono complessi di beni e diritti organizzati per la produzione di un profitto, suscettibili, per loro stessa natura, di modificarsi continuamente per competere, restare sul mercato, in altri termini sopravvivere. Questa caratteristica è sufficiente per rendere l’idea e consentire a chiunque di comprendere come sia difficile immaginare che, al termine dell’affitto, l’insieme di beni affittato possa anche solo assomigliare a quello che era all’inizio del rapporto. Se, a questo, aggiungiamo che la disciplina normativa è, per usare un eufemismo, scarna, il quadro diventa decisamente problematico e richiede la disponibilità di nozioni approfondite, sia in termini contrattuali che economico aziendali. Mai come in questo caso il lavoro congiunto di avvocati e commercialisti è produttivo, dovendo i primi provvedere a convenzionare aspetti che, per la gran parte, debbono essergli evidenziati da chi di azienda comprende e vive, e quindi i secondi. Uno degli aspetti più delicati riguarda proprio le differenze tra inizio e fine rapporto, la loro qualificazione e la necessità di dare prima una logica e poi una regola contrattuale al disposto dell’art. 2561, co. 4, C.C., che così recita: “La differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine dell’usufrutto (leggi affitto per richiamo operato con art. 2562 C.C. – ndr) è regolata in denaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto (affitto)”. È peraltro frequente, soprattutto per i professionisti che operano nel risanamento d’impresa, misurarsi proprio con l’affitto di azienda, rispettivamente: 1) ex ante, come possibile strumento funzionale alla salvaguardia dei valori aziendali della società in

crisi;

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2) ex post, nell’ambito di una procedura concorsuale, come atto da assoggettare ad attenta valutazione in quanto potenzialmente lesivo degli interessi della massa dei creditori.

Se, da un lato, tale strumento, ove correttamente impostato e utilizzato, si presenta spesso come l’unico mezzo per garantire la continuità dell’azienda in crisi e il mantenimento dei valori della stessa ai fini di una più proficua liquidazione, dall’altro, un uso distorto (o solo non sufficientemente attento) del medesimo, oltre ad ostacolare e rendere problematica la realizzazione di tale asset in sede concorsuale, può portare alla lesione degli interessi della massa creditoria, laddove l’azienda affittata venga restituita al concedente senza considerare, fra le diverse variabili, proprio l’esatta gestione delle differenze inventariali tra l’inizio e la fine del contratto d’affitto. Mentre nella generalità dei casi questo aspetto è liberamente rimesso alla volontà convenzionale delle parti, che possono decidere (per semplificare i rapporti) anche di derogarvi, nella gestione della crisi la questione diventa decisamente delicata, non potendosi ammettere alcun margine di libertà che conduca a disporre a danno, anche potenziale, del ceto chirografario. L’affitto d’azienda garantisce all’affittuario il passaggio di per sé provvisorio dei beni e dei diritti che la compongono; quest’ultimo ne avrà il godimento, assumendone parimenti la titolarità e la responsabilità di gestione, seppur momentanea. Peculiarità principale dell’affitto d’azienda è, dunque, la transitorietà: prima o poi l’azienda sarà oggetto di restituzione a favore del concedente, ed è in questa circostanza che tale temporaneità determina le maggiori problematiche relative alla gestione del contratto poiché l’azienda, intesa quale “complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”

7, avrà subìto cambiamenti più o meno importanti, essendo un insieme dinamico di componenti che - nel corso del rapporto - subiscono necessariamente una serie di mutamenti, tanto qualitativi che quantitativi. 2. Le disposizioni del Codice Civile

Il Codice Civile si preoccupa, al co. 4 dell’art. 2561 C.C.8, di regolare proprio tale eventualità, precisando che, laddove emergano differenze tra i valori correnti delle consistenze iniziali e finali dei beni aziendali, si dovrà provvedere attraverso un conguaglio in denaro tra concedente e conduttore. La disposizione è di indirizzo, non regola (né potrebbe regolare) nel dettaglio la qualificazione e quantificazione degli obblighi dell’affittuario al momento della riconsegna dell’azienda al concedente. Diventa dunque importante definire, al momento della stipulazione del contratto, quelle clausole negoziali che consentano alle parti di regolamentare la tematica delle differenze inventariali. Tali accordi saranno tanto più di primaria importanza se l’azienda concedente è soggetta ad una procedura concorsuale, caso in cui un’eventuale gestione delle differenze inventariali in deroga alla previsione codicistica rischierebbe di determinare una lesione degli interessi della massa dei creditori, al punto che ci si chiede, nel tentativo di comprendere e specificare la previsione del co. 4, art. 2561 C.C.: 1) se tale clausola sia o meno in questi casi derogabile; 2) e con quali effetti, sia sul canone del contratto in corso di esecuzione sia al termine dello stesso,

e dunque al momento della riconsegna dell’azienda. Il tema delle differenze inventariali è complesso, nella misura in cui l’insieme dei beni e dei diritti concesso in affitto lo è. È difficile indicare una soluzione univoca al trattamento da riservare alla fattispecie, posto che il comma 4 dell’art. 2561 C.C. rimane assolutamente generico e la casistica molto ampia.

7 Art. 2555 Codice Civile. 8 L’articolo si riferisce all’usufrutto d’azienda ma è applicabile anche all’affitto d’azienda in virtù della previsione dell’art. 2562 C.C.: “Le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche nel caso di affitto d’azienda”.

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Affitto di azienda e differenze inventariali

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Innanzitutto, occorre precisare che, con una serie di pronunce successive nel tempo, la Suprema Corte9 ha rilevato che tali differenze possono essere calcolate solo avendo a disposizione due inventari, uno iniziale e uno finale, redatti opportunamente da un perito secondo le effettive quantità e valori dei beni al momento della scadenza del contratto10. E tali differenze d’inventario, come indicato dal Supremo Collegio11, dovranno essere valutate non solo nel loro aspetto quantitativo, con riguardo cioè alle eventuali eliminazioni o addizioni, ma anche nel loro aspetto qualitativo, con riferimento a possibili deterioramenti o miglioramenti, ed in relazione alla misura con cui le parti abbiano aderito convenzionalmente al disposto dell’art. 2561 co. 2 C.C.. Due aspetti separati quindi, da disciplinarsi autonomamente, entrambi attinenti le differenze che emergeranno alla cessazione del rapporto di affitto. In un caso ciò che rileva sono le differenze quantitative, e quindi il maggior o minor “numero” di beni o diritti, nell’altro è il diverso stato in cui i medesimi o equivalenti beni o diritti vengono restituiti. Si allinea la dottrina, che definisce, quando le parti non derogano all’obbligo di conguaglio, due categorie di differenze inventariali, appunto quantitative e qualitative. 3. Le differenze qualitative

Sono legate essenzialmente alla perdita di valore - e quindi al logoramento - che i beni aziendali hanno subìto per effetto del loro utilizzo da parte dell’affittuario. Queste differenze corrispondono idealmente, qualora si riferiscano a fattori pluriennali, alle quote di ammortamento. Al termine del contratto di affitto d’azienda l’ammontare complessivo accantonato al relativo fondo potrà coincidere o non coincidere con la differenza inventariale determinata a quel momento. Esempio: L’azienda, all’inizio del contratto di affitto, è composta da un solo bene, in relazione al quale le parti riconoscono il seguente valore, che in alcuni casi può coincidere con il dato contabile, se le politiche di ammortamento hanno rappresentato correttamente il deperimento nel corso della vita utile: Valore netto del bene: 100 L’affittuario, nel corso del contratto di affitto, stima che la perdita di valore derivante dall’uso di quel bene sia di 20 e deduce per quote, tramite ammortamenti, un identico valore.

COSTO STORICO AMMORTAMENTI VALORE NETTO CONCEDENTE 200 100 100 AFFITTUARIO 20 80

La differenza inventariale qualitativa sarà pari a 20, imputabile al deperimento del bene per effetto dell’uso.

9 Cass. Civ., sez. III, n. 993 del 28 gennaio 2002: “Le consistenze di inventario sono gli elementi che strutturano l'azienda, nella loro entità e nel loro modo di essere. E la differenza tra consistenze di inventario all'inizio ed al termine del rapporto di affitto è la misura degli elementi che, nella loro entità e nel loro modo di essere, strutturano l'azienda nel momento di estinzione del rapporto, rispetto a quelli che, nel loro insieme, componevano l'azienda all'inizio del rapporto. Tale differenza è non solo quantitativa, ma anche qualitativa, cioè relativa non solo all'entità, ma anche al modo di essere degli elementi strutturali dell'azienda. Fondamentale, pertanto, era l'accertamento, del tutto mancato, dell'esistenza in concreto di un inventario iniziale ed, in caso positivo, la specificazione della relativa consistenza in termini monetari, ai fini della determinazione degli importi dovuti all'affittuario ex art. 2562 C.C.” 10 Cass. Civ. n. 8364 del 24 agosto 1998: “Il valore sulla scorta del quale eseguire il calcolo delle differenze inventariali è quello assunto dai beni alla scadenza del contratto e non quello assunto al momento successivo di effettiva riconsegna dei beni.” 11 Cass., 13 aprile 1977, n. 1388, in Rep. Foro it., 1977, voce “Azienda”, pag.13.

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Questo è l’elemento su cui si basa la determinazione dell’obbligo di conguaglio a favore del concedente. In altri termini, il valore dei beni all’inizio dell’affitto era di 100, e questo è l’importo che l’affittuario deve sostanzialmente restituire al concedente. Poiché al temine dell’affitto il bene esiste ancora, ancorché con un valore inferiore, la restituzione della somma di 100 avverrà: 1. per 80 mediante la restituzione del bene, utilizzato durante l’affitto e quindi deprezzato; 2. per 20 corrispondendo una somma di denaro, accantonata mediante quote di ammortamento. Da un punto di vista più strettamente normativo, le differenze qualitative derivano dall’obbligo di mantenimento dell’efficienza degli impianti, che l’art. 2561, co. 2, Cod. Civ. pone in capo all’affittuario, salvo intervenuta deroga. Derogare a tale disposizione significa pattuire, fra le parti, che la perdita di valore imputabile all’uso dei beni gravi completamente sul proprietario concedente e di conseguenza: • l’affittuario non dovrà effettuare accantonamenti per la ricostituzione del valore dei beni in affitto; • non sarà effettuato alcun conguaglio per differenze qualitative, fermo restando quello per

eventuali differenze quantitative; • il canone di affitto potrà/dovrà includere una quota ideale imputabile al deperimento dei beni. In linea generale, dunque, è possibile disciplinare convenzionalmente la regolamentazione in denaro delle differenti consistenze inventariali all’inizio e al termine dell’affitto d’azienda: le parti ben potranno pattuire una regolamentazione specifica accordandosi sulle modalità di trattamento di quel “conguaglio finale” da corrispondere alla scadenza del contratto. In tal caso, però, la modalità di gestione delle differenze inventariali dovrà essere attentamente regolata attraverso la predisposizione di clausole aggiuntive che consentano al sinallagma contrattuale di rimanere inalterato. 4. Le differenze quantitative

Sono dovute alle cessioni e/o dismissioni di beni nel corso di contratto, ovvero alle immissioni e sostituzioni operate dell’affittuario. Queste differenze, se esistenti, dovranno essere regolate fra le parti al termine del contratto, salvo il caso in cui le stesse parti abbiano previsto una specifica clausola contrattuale in forza della quale i beni immessi dall’affittuario rimarranno, al termine del rapporto, di sua esclusiva proprietà. Esempio: L’azienda, all’inizio del contratto di affitto, è composta da due beni (due macchinari, per semplificare) cui si assegnano i seguenti valori:

Bene A Bene B Valore del bene (iniziale) 100 150 TOTALE 250 Nel corso del contratto di affitto d’azienda, l’affittuario utilizza i macchinari ricevuti e si predispone a corrispondere al concedente il conseguente indennizzo, rappresentato dall’utilizzo dei macchinari e dal conseguente deperimento.

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Affitto di azienda e differenze inventariali

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L’affittuario potrebbe inoltre cedere un bene, come di seguito rappresentato:

AFFITTUARIO VALORE INIZIO AFFITTO DEPERIMENTO DISMISSIONE BENE VALORE NETTO BENE A 100 25 75 BENE B 150 50 150 0 TOTALI 250 75 150 75

Se il valore dei beni (A + B) all’inizio dell’affitto era di 250, l’affittuario al termine del rapporto dovrà restituire il medesimo valore al concedente. Posto che, al momento della conclusione dell’affitto d’azienda, il bene B, ceduto nel corso della gestione, non esiste più, la restituzione della somma di 250 avverrà come segue: • per 75 mediante la restituzione del bene A, pari al valore iniziale del bene dedotto l’utilizzo e

conseguente deprezzamento; • per 175 corrispondendo una somma di denaro, così composta:

– per 75 all’utilizzo del bene A e del bene B prima della cessione; – per i residui 150 al corrispettivo della cessione, che per semplificare è stato ipotizzato

corrispondente al valore residuo12. 5. Particolarità dell’utilizzo di affitto con imprese in crisi

La disciplina delle differenze inventariali può assumere importanza notevole nel caso in cui la società concedente manifesti condizioni di crisi, tali da presupporre o paventare l’accesso alla procedura concorsuale. In questo caso la legge conferisce importanza preminente alla tutela del ceto creditorio, che diviene l’aspetto predominante anche nella strutturazione del rapporto di affitto di azienda. In tal caso, infatti, per le parti è più difficile configurare un accordo in cui non si provveda alla disciplina delle differenze, sia qualitative che quantitative. Pur ricordando che ogni caso deve essere esaminato autonomamente, la deroga all’obbligo di conguaglio rischia di rappresentare un elemento piuttosto pericoloso, che rischia di indurre potenzialmente perdite o riduzioni dell’attivo che apparirebbero in via generale ingiustificate. Per le differenze quantitative la questione è più facilmente risolvibile. Si prevede spesso di non gravare il concedente di ulteriori beni che, se acquisiti in incremento, rimangono di proprietà dell’affittuario, che provvede integralmente al pagamento al fornitore, e di assegnargli invece il diritto di conguaglio per gli eventuali beni mancanti. Sussistono due vie, invece, per le differenze qualitative di fine rapporto: a. prevedere l’obbligo, per il conduttore, di corrispondere al proprietario il conguaglio in denaro,

pari al valore delle citate differenze, a rifusione della riduzione di valore derivante dal deperimento dovuto all’uso dei beni condotti in affitto;

b. prevedere, in alternativa, un congruo canone di affitto dell’azienda, inclusivo anche dell’onere di deprezzamento.

Avvicinarsi, quindi, al contratto di affitto d’azienda nell’ambito di una procedura concorsuale richiede che questi aspetti siano disciplinati attentamente, riducendosi drasticamente i gradi di libertà convenzionale di cui normalmente godono due controparti in bonis.

12 Se il valore fosse stato diverso, la differenza rispetto a 150 avrebbe costituito sopravvenienza attiva o passiva, rimanendo immodificato e pari a 150 l’onere di conguaglio.

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Le soluzioni da valutare nel predisporre una disciplina convenzionale, nel caso in cui il soggetto concedente acceda a procedura concorsuale, sono più d’una: 1. in primis è raccomandabile di non derogare all’art. 2561 C.C., evitando quindi ipotesi anche solo

potenzialmente lesive degli interessi sia della società che dei creditori, mantenendo l’obbligo di conservazione dell’efficienza dell’organizzazione e degli impianti;

2. è consigliabile, inoltre, non prevedere – in capo al proprietario – alcun obbligo di acquisto degli incrementi, eventualità in contrasto con le generali esigenze liquidatorie della procedura;

3. è opportuno definire convenzionalmente l‘esatta composizione materiale dell’azienda affittata e disciplinare accuratamente le clausole di conguaglio finale di natura “valutativa”;

4. infine, è necessario prevedere un canone di affitto che rispecchi la tipologia del contratto predisposto e che sia stato parametrato o al solo onere finanziario conseguente alla disponibilità del capitale assunto in affitto, oppure, in caso di introduzione delle citate deroghe convenzionali, alle differenze inventariali qualitative, anche al deprezzamento dei beni aziendali a fine utilizzo.

Nel tentativo di esemplificare quanto esposto si riportano di seguito alcune casistiche relative a possibili clausole che, inserite nel corpo di un contratto di affitto di azienda, possono declinare in diversi modi l’eventuale deroga alle disposizioni del Codice Civile. Una prima formula finalizzata a stabilire ab origine i criteri convenzionali utilizzati dalle parti alla cessazione del rapporto di affitto per la determinazione del conguaglio in denaro di cui all’art. 2561, co. 4, C.C., con l’espressa esclusione di ulteriori richieste per addizioni, incrementi e/o diminuzioni, è la seguente: “Le Parti concordano che, alla cessazione del contratto, nulla potrà essere richiesto da una delle Parti all’altra per addizioni o incrementi o diminuzioni delle attività o rapporti costituenti l’Azienda, dell’avviamento o ad altro titolo, fatta eccezione per quanto di seguito riportato in esecuzione dell’obbligo di regolare in denaro la differenza tra le consistenze di inventario all’inizio e al termine dell’affitto di cui agli artt. 2561, co. 4, e 2562 C.C., assegnandosi quindi ai fini dell’art. 102, co. 8, Tuir il diritto all’affittuaria di deduzione degli ammortamenti. Le Parti convengono i seguenti criteri di valutazione ai fini del precedente punto, quali unici applicabili per la determinazione del conguaglio in denaro di cui all’art. 2561 co. 4 C.C.: ………..”. Una diversa e frequente formulazione della clausola è la seguente, che prevede l’obbligo di pagamento delle differenze di inventario all’inizio e alla fine dell’affitto, esclusa però la svalutazione derivante dall’utilizzo nel tempo dei beni materiali affittati: “In caso di cessazione degli effetti del presente contratto, l’affittuaria riconsegnerà alla concedente tutti i beni materiali e immateriali compresi nell’azienda, nello stato in cui li ha ricevuti, secondo la descrizione fatta in un apposito verbale di consegna, tenuto conto, per quanto concerne i beni materiali, del normale deterioramento dovuto all’uso, fermo restando quanto segue…….”. Una clausola così formulata sembrerebbe configurare proprio quell’ipotesi di deroga convenzionale all’obbligo di computo e restituzione finale delle differenze qualitative dei beni concessi in affitto; l’argomento, come già detto, è delicato e richiede un attento coordinamento con la quantificazione del canone di affitto dell’azienda, in modo che lo stesso includa anche la componente di deprezzamento, che sostanzialmente corrisposta in corso di affitto e non alla fine del contratto. Dal punto di vista tributario, la disciplina dell’ammortamento dei beni concessi in affitto è contenuta all’art. 102, co. 8 del Tuir, ed è sostanzialmente coerente con le logiche civilistiche. L’attribuzione

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Affitto di azienda e differenze inventariali

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all’affittuario dell’onere di conservare l’efficienza dell’azienda gli assegna anche il diritto di dedurre gli ammortamenti. In assenza di deroga contrattuale l’art. 102, comma 8 del Tuir consente la deducibilità delle quote di ammortamento dei beni inclusi nell’azienda concessa in affitto dal reddito dell’affittuario. Al contrario, nell’ipotesi di deroga contrattuale, l’art. 102, co. 8, u.p. Tuir consente il mantenimento del diritto di deduzione degli ammortamenti in capo al concedente, a condizione che questi abbia conservato la qualità di imprenditore anche dopo avere concesso in affitto l’azienda.

In breve: 1. L’operazione di affitto di azienda presuppone una corretta gestione del parametro delle

differenze inventariali 2. Le norme del Codice indicano solo la sussistenza di un conguaglio in denaro, senza prevedere

alcuna specifica al riguardo 3. E’ sicuramente ammessa la previsione di clausole contrarie, purché si preveda una

impostazione generale corretta, nell’ambito della fissazione del canone di locazione 4. Non è certo se l’avviamento sia una delle poste che richiedano il conguaglio a fine contratto 5. Ove l’affitto sia utilizzato nell’ambito di procedure di soluzione delle crisi di impresa, sarà

necessario attentamente valutare la clausola del conguaglio, congiuntamente alla determinazione del canone di locazione

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AFFITTO DI AZIENDA: PARTICOLARI DISPOSIZIONI FISCALI

a cura di Lelio Cacciapaglia

Il contratto di affitto di azienda si presta a numerose riflessioni che attengono il comparto fiscale ed i riflessi contabili dei soggetti coinvolti. Si va dalle modalità di esposizione in bilancio dei beni che compongono l’azienda, sino alle regole per la deduzione degli ammortamenti e delle spese di manutenzione. Anche il tema del conguaglio inventariale, a fine contratto, determina la necessità di risolvere le connesse ripercussioni tributarie. Non mancano, poi, riflessi sulla disciplina degli studi di settore e delle società di comodo. Cerchiamo, allora, di riepilogare gli aspetti più interessanti, al fine di creare una schematizzazione delle problematiche con le relative possibili soluzioni.

1. Modalità di esposizione in bilancio dei cespiti facenti parte dell’azienda in affitto

Per quanto riguarda le modalità di iscrizione in bilancio dei beni facenti parte dell’azienda affittata, esistono sostanzialmente due possibilità. • Approccio formale: parte dall’assunto che i beni dell’azienda affittata sono e restano di proprietà

dell’affittante anche durante il contratto e che, in bilancio, è possibile iscrivere solo i beni di proprietà e non anche quelli di cui si ha la mera disponibilità. Di conseguenza: - gli elementi attivi e passivi dell’azienda oggetto di affitto restano iscritti nel bilancio

dell’affittante; - il trasferimento in godimento dell’azienda viene evidenziato, tanto da parte di quest’ultimo

quanto da parte dell’affittuario, nei rispettivi sistemi dei conti d’ordine. • Approccio sostanziale: si basa sul fatto che i beni facenti parte dell’azienda entrano nell’effettiva

disponibilità dell’affittuario: gli stessi sono quindi trattati contabilmente come se fossero di sua proprietà. Dunque: - il proprietario, alla consegna dell’azienda, elimina dalla propria contabilità tutti i beni (e diritti)

che compongono l’azienda iscrivendo in contropartita un “credito verso l’affittuario” che esprime, in buona sostanza, il valore del patrimonio netto aziendale concesso in affitto;

- l’affittuario iscrive gli elementi attivi e passivi dell’azienda nella propria contabilità rilevando, in contropartita, un “debito nei confronti dell’affittante”.

L’approccio sostanziale (sostenuto principalmente da Assonime), si fonda sulle seguenti considerazioni, ovviamente rapportate alla normativa in allora vigente. Nella Circolare 141/E del 1998 (cfr. il par. 3.2.1.3.3.) il Ministero delle Finanze, muovendo dall’asserita classificabilità – secondo i criteri indicati dal richiamato documento integrativo dei principi contabili nazionali – degli ammortamenti relativi ai cespiti dell’azienda condotta in affitto o in usufrutto nella voce B13 del conto economico, ritenne di non poter riconoscere tali costi in deduzione dall’IRAP.

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Affitto di azienda: particolari disposizioni fiscali

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Nella Circolare Assonime n.52 del 1998 (cfr. il par.3.10), si ebbe modo di esprimere alcune perplessità sulla fondatezza dell’affermazione ministeriale; tanto da ipotizzare la possibilità che il Ministero intendesse, in effetti, riferirsi, più precisamente, ai fondi costituiti dal conduttore (affittuario usufruttuario) per il rinnovo, in corso di contratto, dei cespiti aziendali ovvero per l’effettuazione di opere di manutenzione straordinaria. D’altra parte, ove riferita agli ammortamenti in senso tecnico – che, in quanto tali, sono idonei ad abbattere il costo fiscale dei cespiti cui si correlano – la soluzione ministeriale sul punto sarebbe risultata inconciliabile con la regola di carattere generale, introdotta dal D.Lgs. n.176 del 1999 con effetto già per il periodo d’imposta 1998, secondo cui a prescindere dalla collocazione nel conto economico concorrono comunque a formare il valore della produzione gli oneri (e i proventi) correlati a componenti positivi o negativi rilevanti ai fini del valore della produzione di periodi d’imposta precedenti o successivi. Invero, anche muovendo dal presupposto, tutt’altro che pacifico, della classificabilità degli ammortamenti in questione nella voce B13 anziché nella voce B10, gli stessi avrebbero dovuto ugualmente rilevare ai fini dell’IRAP proprio perché “collegati” al costo fiscale dei beni assunti in carico dal conduttore (affittuario-usufruttuario) e, quindi, correlati a eventuali componenti imponibili (plusvalenze o minusvalenze) che tali beni possono generare. Comunque, il nuovo assetto normativo elimina, ove ve ne fosse bisogno, ogni residua incertezza sulla questione. Al riguardo, occorre anzitutto sottolineare che la regola posta dall’art.67, comma 9, del Tuir, la quale individua nel conduttore (usufruttuario o affittuario) l’imprenditore abilitato a dedurre gli ammortamenti, non sottende finalità, per così dire, agevolative; essa, piuttosto, fissa un criterio per adeguare la determinazione del reddito imponibile all’utile economico effettivo dell’impresa condotta in affitto (o in usufrutto); ciò, nel presupposto che lo stanziamento delle quote di ammortamento nelle scritture contabili del conduttore sia una diretta conseguenza della natura e degli effetti civilistici del contratto. Riprova ne è che l’art.14, comma 2, del D.P.R. 4 febbraio 1988, n.42, recante disposizioni correttive e di coordinamento del Tuir, stabilisce espressamente che la ricordata regola non si applica “… nei casi di deroga convenzionale alle norme dell’art.2561 del Codice Civile, concernenti l’obbligo di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili”. Ciò premesso, occorre riconoscere che sotto il profilo civilistico il tema dell’iscrizione di questi beni nell’impresa del conduttore e del loro ammortamento ha, da sempre, generato incertezze. In ossequio, infatti, ad una meccanica applicazione del principio tradizionale, secondo cui non potrebbero trovare rappresentazione nello stato patrimoniale i beni che non sono di proprietà dell’imprenditore – e che quindi non sono avocabili dai creditori in occasione di un suo eventuale fallimento – la prassi contabile si è indirizzata nel senso di provvedere all’iscrizione di tali cespiti nei conti d’ordine del bilancio dell’impresa dell’affittuario o usufruttuario. Al contrario, la migliore dottrina civilistica, cui riteniamo di dover aderire, afferma che anche tali beni vanno iscritti nel patrimonio dell’impresa dell’affittuario o usufruttuario proprio in virtù dei poteri-doveri contrattuali che questi assume; poteri doveri che (ove, beninteso, non derogati dalle parti) trascendono quelli di un normale usufrutto o affitto di singoli beni, esplicandosi – come accennato – nell’assunzione da parte del conduttore della posizione di gestore dell’azienda nell’interesse e nelle veci del proprietario e, quindi, nell’assunzione di analogo dominio sui singoli cespiti per mantenere l’efficienza produttiva della azienda stessa, quale “universitas”. D’altra parte, nessuno dubita che l’usufruttuario (o affittuario) può e deve disporre, ad esempio, delle merci al fine di realizzare i correlati ricavi e che, pertanto, per misurare esattamente l’utile deve contrapporre ai ricavi i costi di tali merci iscrivendole fra i propri cespiti aziendali.

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Così come non suscita incertezze il fatto che fra tali cespiti vadano iscritti i beni immessi nell’azienda dallo stesso conduttore tanto in sostituzione delle scorte cedute quanto delle immobilizzazioni dismesse. In quest’ottica, anche l’iscrizione nel patrimonio aziendale – come taluni propongono – solo dei beni sostituiti e il mantenimento nei conti d’ordine di quelli originari ancora presenti nella azienda “affittata” (o concessa in usufrutto) suscita notevoli riserve. E’ pacifico, infatti, in giurisprudenza e in dottrina civile, che, salvo patto contrario, sui beni sostituiti si instauri fin dal momento dell’acquisto l’identica situazione giuridica esistente sui beni originari successivamente dismessi: e cioè, il diritto di proprietà del locatore (o la nuda proprietà del concedente in caso di usufrutto) e il potere-dovere gestorio dell’affittuario o usufruttuario. Quindi, la descritta impostazione contabile finirebbe per rappresentare i componenti di un’unica azienda, e per di più sottoposti alla medesima situazione giuridica, parte nello stato patrimoniale e parte nei conti d’ordine del bilancio dell’affittuario (o usufruttuario). In definitiva, l’iscrizione degli uni e degli altri nella contabilità dell’imprenditore-conduttore (o usufruttuario) verrebbe a realizzare la rappresentazione omogenea e coerente di un patrimonio avente, per il tempo contrattuale, identica natura e destinazione: un patrimonio, cioè, disponibile per l’affittuario (usufruttuario) e, viceversa, indisponibile per il proprietario ma che, al contempo, esprime un debito di restituzione del primo nei confronti del secondo al termine del rapporto. Sott’altro profilo, e in via più generale, non può non osservarsi che per la corretta determinazione degli utili di gestione occorre necessariamente detrarre gli ammortamenti conseguenti al deperimento e al logorio degli elementi aziendali: è questo un principio che ha assunto carattere normativo generale per tutti gli imprenditori che esercitino l’attività mediante aziende in proprietà, in virtù dell’applicazione delle norme sui bilanci delle società per azioni e che – secondo la migliore dottrina – deve conseguire analoga forza normativa anche in relazione alle ipotesi di usufrutto o affitto d’azienda, posto che anche in tali ambiti contrattuali i beni aziendali vanno computati alla fine del rapporto concessorio nello stato anche di logorio in cui si trovano per misurare i debiti e i crediti reciproci fra le parti. In conclusione, l’ammortamento, quale tipico strumento di conservazione dell’integrità del patrimonio aziendale e di individuazione, per differenza, degli accrescimenti costituenti utili effettivi, è un principio portante del bilancio dell’impresa e tanto più essenziale, nel rapporto di affitto o usufrutto di azienda, in quanto dà conto con criteri di competenza durante lo svolgimento del rapporto concessorio, degli obblighi di restituzione facenti capo all’usufruttuario o affittuario. Ovviamente, è utile ribadire, l'ammortamento non compete all'usufruttuario o affittuario dell'azienda quando le parti hanno derogato all'obbligo di mantenere in efficienza i beni ammortizzabili; di conseguenza, non spettando ai fini civilistici, esso non può trovare riconoscimento - come già accennato - neanche ai fini tributari, giusta la citata disposizione dell'art.14, comma 2, del D.P.R. n.42 del 1988. Al riguardo, è appena il caso di segnalare che la volontà delle parti va ricostruita in base a tutti gli elementi contrattuali. Non sarebbe, ad esempio, di per sé sufficiente, perché l'ammortamento spetti all'usufruttuario o affittuario, che questi abbia assunto esclusivamente l'onere della manutenzione dei cespiti aziendali, essendo una tale incombenza insita naturalmente nel rapporto concessorio. Occorre acclarare, invece, che i poteri-doveri gestori siano stati trasferiti in misura piena all'usufruttuario o affittuario: in particolare, sia stato trasferito a tale soggetto il potere-dovere di decidere anche la cessione o la sostituzione dei cespiti in parola nell'interesse più generale della conservazione dell'integrità del patrimonio aziendale nel suo insieme e, conseguentemente, il rischio del deterioramento tecnico-fisico dei cespiti stessi, cui si correla, per l'appunto, lo stanziamento dell'ammortamento. Per motivi di completezza, giova accennare infine anche ad un altro profilo del contratto di affitto o usufrutto di azienda, parallelo alle tematiche fin qui esaminate.

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Affitto di azienda: particolari disposizioni fiscali

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Intendiamo riferirci al fatto che, secondo la dottrina civilistica, le scritture contabili relative alla azienda gestita dovrebbero essere redatte dall’usufruttuario o affittuario conformemente all’inventario di consegna dell’azienda nel quale i beni aziendali dovrebbero essere rilevati, ai fini civilistici, al loro valore attuale al momento della consegna stessa (e non ai costi storici dell’imprenditore-concedente): ciò, in funzione dell’esecuzione in futuro degli obblighi di restituzione assunti dall’affittuario o usufruttuario per la conclusione del rapporto. Ai fini fiscali, viceversa, la norma sancisce, come è noto, il principio di continuità dei valori dei beni assunti con quelli esistenti presso l’impresa del concedente (cfr. citato art.14 del D.P.R. 42 del 1988). Vi è, quindi, una non perfetta coincidenza fra questi regimi che suscita taluni inconvenienti. Manca, in altri termini, nella disciplina fiscale la possibilità di rilevare per competenza l’intero ammontare del debito di valore che l’imprenditore-concessionario viene ad assumere con l’instaurazione del rapporto di affitto o di usufrutto e conseguentemente di correlare il relativo maggior onere ai redditi prodotti nel periodo di svolgimento del rapporto medesimo. Stante il delineato assetto normativo, sembrerebbe logico che queste differenze assumano rilievo fiscale per l’affittuario o l’usufruttuario a chiusura della relazione contrattuale, analogamente agli eventuali conguagli attivi e passivi che le parti regolino in denaro ai sensi del più volte citato art.2561 del Codice Civile.

L’ISCRIZIONE IN BILANCIO DEI BENI DELL’AZIENDA IN AFFITTO

APPROCCIO FORMALE (maggiormente seguito e accolto

dall’Amministrazione finanziaria – Circ. n. 148 del 26 luglio 2000)

APPROCCIO SOSTANZIALE (meno seguito ma

perorato da un parte della dottrina – Assonime Circ. n. 34 del 10 maggio

2000) COMPORTAMENTO DEL PROPRIETARIO COMPORTAMENTO DEL PROPRIETARIO

Alla consegna dell’azienda • esegue, preliminarmente, le scritture di

assestamento per rispettare il principio di competenza nell’imputazione dei proventi e degli oneri relativi alla frazione di esercizio antecedente alla data di trasferimento dell’azienda;

• iscrive tutti i beni (e diritti) che compongono l’azienda nei conti d’ordine accesi ai “Beni dell’azienda presso terzi”.

Alla consegna dell’azienda • esegue, preliminarmente, le scritture di

assestamento per rispettare il principio di competenza nell’imputazione dei proventi e degli oneri relativi alla frazione di esercizio antecedente alla data di trasferimento dell’azienda;

• elimina dalla propria contabilità tutti i beni (e diritti) che compongono l’azienda, iscrivendo in contropartita un “credito verso l’affittuario” che esprime, in buona sostanza, il valore del patrimonio netto aziendale.

Al termine del contratto di affitto • chiude i conti d’ordine e adegua i propri

valori contabili a quelli della situazione patrimoniale dell’azienda così come riconsegnata dall’affittuario e risultante dall’apposito inventario redatto a valori contabili alla scadenza del contratto;

• contestualmente calcola il conguaglio in denaro (art. 2561, c. 4) e, dal confronto tra

Al termine del contratto di affitto • riassume nella propria contabilità i nuovi

valori degli elementi dell’azienda così come trasmessi dall’affittuario, chiudendo il credito accesso all’inizio del contratto e rilevando le rettifiche di riconsegna;

• effettua la somma algebrica tra le rettifiche di consegna e il conguaglio di cui al citato

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tale conguaglio e la variazione contabile netta rilevata a seguito della riconsegna dell’azienda, iscrive contabilmente una sopravvenienza attiva o passiva.

comma 4 dell’art. 2561 C.C. rilevando una sopravvenienza attiva o passiva.

COMPORTAMENTO DELL’AFFITTUARIO COMPORTAMENTO DELL’AFFITTUARIO Alla consegna dell’azienda

Rileva tutti i beni (e diritti) che compongono l’azienda nei propri conti d’ordine accesi ai “Beni di terzi presso l’azienda”.

Alla consegna dell’azienda Provvede a iscrivere gli elementi attivi e passivi dell’azienda rilevando in contabilità, in contropartita, un debito nei confronti dell’affittante.

Al termine del contratto di affitto Effettuate le opportune scritture di assestamento al fine di rispettare il principio di competenza, provvede a chiudere i conti d’ordine nonché i conti movimentati per la gestione dell’azienda, determinando la differenza tra il saldo contabile delle posizioni “creditorie” con quelle “debitorie”. La somma algebrica tra tale saldo e il conguaglio di cui al comma 4 dell’art. 2561 C.C. determina, specularmente a quanto detto per l’affittante, una sopravvenienza attiva o passiva.

Al termine del contratto di affitto Riconsegna l’azienda al proprietario chiudendo i relativi conti attivi e passivi e la posta di debito verso l’affittante, rilevando altresì le rettifiche di riconsegna. Analogamente al caso precedente si procederà al calcolo del conguaglio in denaro e alla determinazione della sopravvenienza attiva o passiva.

Secondo una dottrina minoritaria, la rilevazione nei conti d’ordine dei beni dell’impresa presso terzi (approccio formale) non sarebbe necessaria, sulla base della considerazione che i beni in questione risultano già iscritti nel sistema contabile principale. L’iscrizione nei conti d’ordine potrebbe pertanto essere ovviata dando evidenza della temporanea mancanza di tali beni in Nota Integrativa. 2. Il canone di locazione

I canoni di locazione rappresentano: • componenti positivi di reddito per l'affittuario; • costi deducibili per il locatore. Anche le differenze inventariali emergenti al termine del contratto di affitto d’azienda assumono rilievo sotto il profilo fiscale.

Nota della D.R.E. dell’Emilila Romagana del 5 aprile 2002 Il saldo emergente dal raffronto, a valori fiscali, dei netti patrimoniali, iniziale e finale, rappresenta la reintegrazione patrimoniale per il deperimento dell’azienda riconosciuto fiscalmente; la differenza tra l’importo del conguaglio e il suddetto saldo costituisce una sopravvenienza tassabile o deducibile in capo al locatore.

Ne consegue che dal raffronto tra il valore netto patrimoniale di inizio e fine contratto, scaturisce una reintegrazione patrimoniale, che può essere a seconda delle circostanze: • a favore dell’affittante;

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• a favore dell’affittuario. Mentre, dal raffornto tra valori fiscalie conguaglio stabilito contrattualmente dalle partirisulta: • una sopravvenienza attiva per chi riceve il conguaglio; • una sopravvenienza passiva per chi lo deve corrispondere. Il “saldo” si ottiene quale contrapposizione dei valori fiscali esistenti all’inizio e alla fine del contratto; il “conguaglio” è una conseguenza degli accordi delle parti e, contrariamente al “saldo”, si basa sui valori economici dell’azienda, spesso di gran lunga differenti dai valori fiscali. 3. I conguagli a fine contratto

A tal fine, le parti devono effettuare, sia all’inizio che alla scadenza del contratto, una valutazione tanto a valori contabili quanto a valori “correnti” del complesso aziendale al fine di individuare le “grandezze patrimoniali” che debbono essere trasferite in capo all’affittuario e che verranno riconsegnate da questo all’affittante al termine del contratto; il confronto tra tali “grandezze” esprime l’entità delle modificazioni prodottesi, nel corso dell’affitto, nei valori contabili e nei valori “correnti” inizialmente trasferiti all’affittuario. Le valutazioni effettuate a valori correnti - che tengono conto, dunque, non solo delle variazioni contabili, ma anche, per esempio, di eventuali plusvalori latenti - sono richieste dall’art. 2561 C.C. (richiamato in materia di affitto di azienda dal successivo art. 2562), poiché il comma 4 stabilisce che la “differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine dell’usufrutto è regolata in danaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto”. Non deve essere valorizzato l’avviamento poiché quest’ultimo non rileva tra le consistenze d’inventario e, dunque, l’eventuale incremento non è suscettibile di indennizzo (Cassazione, n. 3775 del 20 aprile 1994). Nulla toglie, tuttavia, che in sede di stipula del contratto le parti possano prevedere diversamente: questione per nulla trascurabile, poiché talvolta accade che l’imprenditore che decide di concedere in affitto l’azienda ha una gestione “negativa” e, al termine dell’affitto, si vede restituita un’azienda il cui valore si è notevolmente accresciuto grazie alla gestione dell’affittuario (o viceversa).

Inizio contratto

Fine contratto

Inventario a valori

contabili

Inventario a valori

contabili

Inventario a valori di mercato

Inventario a valori di mercato

Differenze inventariali da conguagliare in denaro

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Corte di Cassazione, con Sentenza n. 16068 del 15 novembre 2002

Nel caso di affitto di azienda, la differenza tra le consistenze di inventario all'inizio ed alla fine del rapporto - che, a norma dell'art. 2562, C.C., vanno regolate in danaro sulla base dei valori correnti al termine del contratto - corrisponde alla differenza esistente tra l'entità ed il modo di essere degli elementi che strutturano l'azienda all'inizio ed alla fine dell'affitto, dovendosi tali elementi valutare non solo nel loro aspetto quantitativo, con riguardo, cioè, alle eventuali perdite o addizioni, ma anche nel loro aspetto qualitativo, con riferimento ai loro miglioramenti o deterioramenti.

Per l’affittuario la sopravvenienza (in genere) passiva, è data dalla differenza tra: • il valore corrente di mercato dell’azienda restituita (rappresentativo della reale variazione

prodottasi nel valore dell’azienda nel corso dell’affitto, magari per acquisti di nuovi beni); • la differenza tra i valori contabili (rilevati all’inizio e al termine del contratto). Specularmente, la sopravvenienza passiva per l’affittuario si traduce in una sopravvenienza attiva per il proprietario, e viceversa. Più precisamente: 1. l’affittante (proprietario) “riprenderà” nella propria contabilità i valori contabili e fiscali sulla base dei

dati forniti dall’affittuario, ivi inclusi gli ammortamenti da quest’ultimo dedotti, registrando in contropartita la differenza che il “patrimonio netto” contabile dell’azienda ha nel frattempo subìto;

2. l’affittuario risarcirà l’affittante (a titolo definitivo) con l’erogazione di un importo in denaro a fronte della perdita di valore economico dell’azienda, realizzando una sopravvenienza attiva o passiva a seconda che le quote di “ammortamento” da lui accantonate siano, rispettivamente, superiori o inferiori al quantum che dovrà corrispondere in favore dell’affittante al termine del contratto di affitto di azienda;

3. la differenza tra quest’ultimo importo e il decremento che il “patrimonio netto” contabile dell’azienda ha subìto, per l’affittante (proprietario): • se positiva, sarà una sopravvenienza attiva tassabile; • se negativa, sarà una sopravvenienza passiva deducibile.

4. La gestione degli ammortamenti

La “gestione” degli ammortamenti dei beni facenti parte dell’affitto d’azienda è condizionata dagli accordi concernenti l’obbligo o meno di “conservazione dell’azienda”. In particolare, l’art. 2562 del Cod. Civ. disciplina l’affitto di azienda sulla base di quanto disposto dal precedente art. 2561 in materia di usufrutto di azienda, i cui criteri si applicano per esplicito rinvio normativo.

CODICE CIVILE – ARTICOLO 2561 “L’usufruttuario dell’azienda deve esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue. Egli deve gestire l’azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione degli impianti e le normali dotazioni di scorte. Se non adempie a tale obbligo o cessa arbitrariamente dalla gestione dell’azienda, si applica l’art. 1015. La differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine dell’usufrutto è regolata in danaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto”.

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Affitto di azienda: particolari disposizioni fiscali

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Dunque, chi calcola e deduce gli ammortamenti relativi all’azienda concessa in affitto? Dipende dalla condizioni contrattuali. Ma attenzione: la soluzione, infatti, dipende dalla disciplina dell’obbligo o meno della conservazione dell’efficienza dell’azienda che nel contratto può essere anche non menzionata, talché in questo caso si applica la disciplina “naturale” stabilita dal Codice Civile. Ma tale disciplina può ben essere espressamente derogata nell’atto. In definitiva, l’affittuario (gestore/conduttore), ha il potere/dovere di sostituire gli impianti non più efficienti o tecnicamente superati e, in linea generale, tutti gli elementi aziendali la cui sostituzione è finalizzata alla conservazione dell’azienda. Ciò significa che risultano a carico del soggetto affittuario tutte le spese di manutenzione di natura ordinaria nonché quelle di natura straordinaria, limitatamente, peraltro, agli interventi di natura meramente conservativa della efficienza dell’azienda oggetto di contratto e non anche quelli di natura incrementativa della medesima. Tuttavia, ciò non significa che l’affittuario non possa effettuare interventi di natura incrementativa, ma semplicemente che non ne ha l’obbligo. Ad ogni modo, in deroga al predetto art. 2561 del Cod. Civ., il proprietario e l’affittuario dell’azienda possono stabilire contrattualmente che l’obbligo di “conservare l’efficienza dell’organizzazione degli impianti e le normali dotazioni di scorte” resti a carico del proprietario medesimo. In questi casi, ovviamente, il canone di affitto è più alto per tenere conto della mancanza dell’“onere finale di ripristino” a carico dell’affittuario. Questa pattuizione, come si vedrà, risulta determinante per la “gestione” degli ammortamenti dei beni facenti parte dell’azienda affittata. In premessa, dal punto di vista fiscale occorre sottolineare come il secondo periodo del comma 8 dell’art. 102 del Tuir - in conformità e in coerenza con l’approccio del Codice Civile che prevede l’obbligo dell’affittuario di mantenere l’efficienza degli impianti dell’azienda condotta in affitto - dispone che “Per le aziende date in affitto o in usufrutto le quote di ammortamento sono deducibili nella determinazione del reddito dell’affittuario o dell’usufruttuario”. Tale particolare procedura di ammortamento si rende applicabile quando sono a carico dell’usufruttuario e dell’affittuario gli obblighi di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili relativi all’azienda avuta in usufrutto o in affitto previsti dal comma 2 dell’art. 2561 C.C. per l’usufrutto di azienda (norma richiamata - come già precisato - dal successivo art. 2562 C.C. relativo all’affitto d’azienda). E ciò sia nell’ipotesi in cui secondo la teoria formalistica il cespite resti iscritto nel bilancio del proprietario, sia nell’ipotesi in cui, secondo la teoria sostanziale, i cespiti (a maggior ragione) vengano stralciati dalla contabilità del proprietario ed iscritti nell’attivo dello Stato Patrimoniale dell’affittuario. Il citato comma 8 dell’art. 102 del Tuir, tuttavia, disciplina anche l’ipotesi in cui le parti derogano alla disciplina convenzionale poiché, nell’ultimo periodo, stabilisce “Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano nei casi di deroga convenzionale alle norme di cui all’art. 2561 del Codice Civile, concernenti l’obbligo di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili.” Dunque, se le parti prevedono nel contratto di affitto la deroga all’obbligo civilistico, l’affittuario non può iscrivere e dedurre le quote di ammortamento. In tal caso, il diritto di dedurre le quote di ammortamento continua a spettare al proprietario.

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CHI CONTABILIZZA E DEDUCE GLI AMMORTAMENTI Il contratto non prevede la

deroga all’art. 2561 del Cod. Civ. Il contratto prevede la

deroga all’art. 2561 del Cod. Civ. Gli obblighi di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili relativi all’azienda avuta in gestione sono a carico dell’affittuario

Gli obblighi di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili relativi all’azienda data in locazione restano a carico del proprietario

L’affittuario contabilizza e deduce gli ammortamenti (Tuir – art. 102, comma 8, primo periodo)

Il proprietario contabilizza e deduce gli ammortamenti (Tuir – art. 102, comma 8, ultimo periodo)

Anche per l’affittuario il parametro di commisurazione degli ammortamenti è il costo originario dei beni quale risulta dalla contabilità dell’affittante, cui si applicano i coefficienti previsti dalla tabella allegata al D.M. 31 dicembre 1988 con riferimento all’attività esercitata dall’affittuario (la quale, peraltro, non può discostarsi da quella svolta dall’affittante posto che egli ha l’obbligo di conservare la destinazione economica dell’azienda). Occorre dare atto che parte della dottrina ritiene che la circostanza che la norma faccia specifico riferimento al costo “originario” comporterebbe la irrilevanza, ai fini del calcolo degli ammortamenti da parte dell’affittuario, di eventuali rivalutazioni operate negli anni dall’affittante. Tale posizione privilegia la “lettera” della norma. Gli scriventi ritengono, diversamente, che il termine utilizzato dal legislatore indichi meramente e semplicemente la “provenienza” del costo di cui trattasi. L’affittuario, in assenza di deroga all’art. 2561, può procedere alla deduzione dal proprio reddito non solo degli ammortamenti sui beni materiali, ma anche delle quote di ammortamento dei beni immateriali per il rinvio contenuto nel comma 4 dell’art. 103 Tuir il quale prevede “Si applica la disposizione del comma 8 dell’articolo 102.”. Laddove l’affittante non abbia regolarmente tenuto il registro dei beni ammortizzabili, l’affittuario dovrà considerare come già dedotte dall’affittante la metà delle pregresse quote relative al periodo di ammortamento già decorso. Fermo restando che, evidentemente, gli accantonamenti operati dall’affittuario nel corso della gestione dell’azienda non possono comportare una deduzione complessiva (affittante + affittuario) superiore al costo del bene. Dal punto di vista tecnico si fa presente che l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti nell’ambito della Circ. 148/E/2000.

Circ. n. 148 del 26 luglio 2000 Le quote di ammortamento che il conduttore stanzia sui beni ottenuti in locazione non assolvono alla funzione economica tipica prevista dall'istituto dell'ammortamento (distribuire un costo pluriennale in diversi esercizi nel rispetto del principio di competenza), ma costituiscono degli accantonamenti atti alla creazione di un apposito fondo destinato al ripristino di valore dei beni locati.

Il chiarimento è importante soprattutto ai fini Irap. 5. Trattamento ai fini Irap degli ammortamenti dell’affittuario

Dal punto di vista Irap la gestione degli ammortamenti calcolati dal soggetto gestore (assenza di deroga all’art. 2561 del Cod. Civ.) è risultata piuttosto travagliata. Infatti:

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Affitto di azienda: particolari disposizioni fiscali

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• sino al 1998, l’esclusione della voce B13 dal novero delle voci rilevanti ai fini della determinazione della base imponibile ha comportato la loro non deducibilità;

• dal 1999 al 2007, per effetto della nuova stesura dell’art. 5 del D.Lgs. n. 446 del 1997 operata dal D.Lgs. 30/12/99, n. 506, l’inclusione della predetta voce B13 ha comportato il ripescaggio della deducibilità di tali componenti;

• dal 1° gennaio 2008, a seguito della completa riscrizione del citato art. 5 ad opera dell’art. 1 della Legge 24/12/2007 n. 244, si ha nuovamente la non deducibilità della citata posta.

Gli ammortamenti contabilizzati, invece, dal proprietario (presenza di deroga all’art. 2561 del Cod. Civ.) non perdendo la connotazione fiscale di ammortamenti ed essendo dunque riconducibili all’art. 102 del Tuir, sono stati e restano pienamente deducibili ai fini Irap. 6. Le spese di manutenzione

Una questione di particolare rilievo, nell’ambito delle obbligazioni contrattuali relative al contratto di affitto di azienda, attiene all’individuazione delle spese di manutenzione e alla individuazione del soggetto che se ne deve fare carico.

LE SPESE DI MANUTENZIONE Il contratto non prevede la

deroga all’art. 2561 del Cod. Civ. Il contratto prevede la

deroga all’art. 2561 del Cod. Civ. Gli obblighi di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili relativi all’azienda avuta in gestione sono a carico dell’affittuario

Gli obblighi di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili relativi all’azienda data in gestione restano a carico del proprietario

L’affittuario si fa carico delle spese di manutenzione, le contabilizza e le deduce.

Il proprietario si fa carico delle spese, le contabilizza e le deduce.

7. L’affitto dell’unica azienda dell’imprenditore individuale

Se ad affittare l’unica azienda è un imprenditore individuale egli, perdendo la qualifica di imprenditore, non può dedurre le quote di ammortamento, né le spese di manutenzione sui beni dell’azienda, ancorchè le parti nel contratto abbiano previsto la deroga all’art. 2561, comma 2 del Cod. Civ., circa l’obbligo dell’affittuario di garantire il mantenimento dell’azienda.

COMM. TRIB. DI 2^ GRADO DI BARI, SEZ. I N. 487 DEL 17.6.1987 Se l’imprenditore dà in affitto a terzi l’unica azienda di cui è proprietario, perde per ciò stesso la qualifica professionale, venendo meno l’organizzazione d’impresa. Pertanto, il reddito ricavato dall’affitto dell’azienda non può qualificarsi reddito d’impresa, ma rientra più propriamente nella categoria residuale dei redditi diversi con la conseguenza che non sono deducibili le quote di ammortamento.

È da ritenersi, salvo diversa previsione contrattuale, che le spese di straordinaria manutenzione continuino a fare carico al

proprietario dell’azienda.

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8. La cessione dei beni durante il contratto

Come detto in premessa, l’affittuario ha il potere-dovere di utilizzare l’azienda per l’esercizio dell’impresa, conservando immutata la sua destinazione economica e conservando altresì l’avviamento e il valore unitario della stessa in vista della restituzione al proprietario. Con la conseguenza che, proprio al fine della conservazione dell’avviamento, lo stesso soggetto affittuario ha il potere e l’obbligo di trasformare, alienare e ricostituire le scorte di materie prime nonché di sostituire gli impianti non più efficienti o tecnicamente superati e, in linea generale, tutti gli elementi aziendali la cui sostituzione è in linea con la prospettiva di conservazione dell’azienda. Occorre precisare che l’ammortamento operato dall’affittuario, nonostante la chiara disposizione di cui all’art. 102 del Tuir, non rappresenta civilisticamente una posta rettificativa del costo del bene oggetto della vendita, in quanto il fondo costituito dall’affittuario ha la funzione di reintegrare l’eventuale perdita di valore subìta dai cespiti facenti parte del patrimonio dell’azienda affittata e, in sostanza, misurare la quota di “indennizzo” da riconoscere in favore del proprietario dell’azienda. Questa è - in buona sostanza - la tesi di coloro i quali (e sono la maggioranza) sostengono l’“approccio formale” di allocazione dei beni in bilancio. Per quella parte (minoritaria) della dottrina che sostiene l’“approccio sostanziale”, gli ammortamenti, invece, sono e restano veri e propri ammortamenti. Questa diversa impostazione, come si vedrà, influenza anche la disciplina della vendita dei beni dell’azienda nel corso del contratto, creando un distinguo tra: 1) contabilizzazione di sopravvenienze attive (approccio formale - riconosciuto dall’Amministrazione

Finanziaria) 2) realizzo di plusvalenze (approccio sostanziale - sostenuto dall’Assonime). Resta il fatto che, su tutto, prevale la circostanza che l’affittuario abbia o meno l’obbligo di conservazione dell’azienda. Si tratta, dunque, anche in questo caso di fare riferimento al contratto d’affitto.

LA CESSIONE DEI BENI COSTITUENTI L’AZIENDA DURANTE L’AFFITTO D’AZIENDA TEORIA FORMALISTICA

(maggiormente seguita e validata dall’A.F.)

TEORIA SOSTANZIALE (meno seguita e sostenuta

da Assonime) A L’affittuario ha l’obbligo di

conservazione (NO deroga art. 2561)

L’affittuario contabilizza una sopravvenienza attiva

L’affittuario contabilizza una plusv/minusvalenza

B L’affittuario non ha l’obbligo di conservazione (SI deroga art. 2561)

Il proprietario contabilizza una plusv/minusvalenza

Il proprietario contabilizza una plusv/minusvalenza

Dunque, nell’ipotesi “A” in cui l’affittuario è responsabile della conservazione dell’efficienza dei beni: • la vendita del bene ammortizzabile produce una sopravvenienza attiva (art. 88 del Tuir) e non una

plusvalenza, poiché l’affittuario non è proprietario del cespite. Detta sopravvenienza forma reddito nel periodo d’imposta in cui avviene la cessione del bene;

• l’ammortamento operato dall’affittuario (secondo la teoria formalistica) non costituisce una posta rettificativa del costo del bene oggetto della vendita, poiché il fondo ha solo la funzione di reintegrare l’eventuale perdita di valore subìta dai cespiti facenti parte del patrimonio dell’azienda affittata (fiscalmente, tuttavia, l’ammortamento e il fondo conservano la loro natura classica);

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• la vendita del bene comporta conseguenze fiscali in capo al proprietario affittante solo al termine del contratto di affitto, nel momento in cui l’azienda gli verrà riconsegnata, ricevendo un conguaglio in denaro sulla base della differenza tra inventario finale e inventario iniziale.

Viceversa, nell’ipotesi “B” in cui l’affittuario non ha l’obbligo della conservazione dell’efficienza dei beni che resta in capo al proprietario: • l’affittante deve “chiudere la partita” relativa al cespite alienato determinando l’eventuale

plusvalenza o minusvalenza patrimoniale rilevante ai fini fiscali. Si osserva che in questo caso non vi è distinzione tra teoria formalistica (i beni restano iscritti nella contabilità del proprietario) e teoria sostanziale (i beni sono iscritti nella contabilità dell’affittuario) e la plusvalenza/minusvalenza è sempre contabilizzata dal proprietario (cfr tabella precedente). 9. Beni acquistati dall’affittuario durante il contratto

Per quanto riguarda i beni che l’affittuario acquista durante la gestione dell’azienda, la Cassazione, con Sentenza n. 2574 del 12 ottobre 1973, ha affermato che “Tutti i beni che vengono immessi nell’azienda entrano a far parte integrante del complesso aziendale: la proprietà delle cose immesse rimane al dominus dell’azienda (n.d.AA, proprietario), dal cui complesso vengono assorbite come parte integrante, mentre l’affittuario (n.d.AA, gestore) ha solo diritto alla differenza in denaro tra la consistenza dell’inventario all’inizio e al termine dell’affitto sulla base dei valori correnti a tale ultima data”. In altre parole, secondo la Cassazione gli acquisti di beni fatti dall’affittuario divengono di proprietà dell’affittante il quale ne dovrà tenere conto ai fini del calcolo del conguaglio. E’ del tutto evidente la complessità di tale situazione, che vede il proprietario dell’azienda divenire proprietario di tutti i beni acquistati dall’affittuario nel corso del contratto di affitto. Se, da un lato, ce n’è abbastanza per suggerire di prevedere espressamente nel contratto che i nuovi acquisti di cespiti effettuati dall’affittuario restano di proprietà del medesimo e non verranno conteggiati nel conguaglio finale, dall’altro va sottolineato quanto segue. Occorre riconoscere, volendo banalizzare, che, ad esempio, in caso di affitto di azienda “Bar”, laddove l’affittuario dovesse sostituire un frigorifero per irrimediabile guasto, è evidente che, al termine del contratto d’affitto, non avrà alcun interesse a conservare la proprietà di detto bene, ma lo lascerà al proprietario dell’azienda. Non resta che sperare che, al termine del contratto, il proprietario sia disponibile ad acquistare un frigorifero seminuovo dall’affittuario. 10. Schematizzazione delle scritture contabili

Tentando di schematizzare quanto sopra approfondito, si potrebbe proporre il seguente schema di scritture contabili per il conduttore:

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Annotazione nei conti d’ordine degli importi delle attività e delle passività costituenti l’azienda ricevuta in affitto, nonché l’impegno complessivo nei confronti dell’affittante

Azienda in affitto a Cedente azienda in affitto …

Contabilizzazione dei canoni periodici di affitto in base

al principio di competenza economica, quali componenti negativi di reddito

Canoni passivi per affitto d’azienda (B.8.)

a Banca c/c …

Accantonamento per il ripristino dei beni dell’azienda ricevuta maturato per i beni strumentali (salvo diversa pattuizione contrattuale) da iscrivere nella voce B13 del conto economico

Accantonamento al fondo di ripristin

beni ricevuti in affittoa Fondo di ripristino beni ricevuti in affitto …

Al termine del contratto, in caso di assenza di differenze di inventario:

Fondo di ripristino beni ricevuti in affitto

a Banca c/c …

Al termine del contratto, in caso di debenza di una somma inferiore all’ammontare del fondo di ripristino:

Fondo di ripristino beni

ricevuti in affitto aaa

diversi Banca c/c

Sopravvenienze attive

Al termine del contratto, in caso di debenza di una somma superiore

all’ammontare del fondo di ripristino:

diversi Fondo di ripristino beni ricevuti in

affitto Sopravvenienze passive

a Banca c/c …

Storno dei conti d’ordine accesi al momento della stipulazione del contratto

Cedente azienda in affitto a Azienda in affitto …

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Affitto di azienda: particolari disposizioni fiscali

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11. I rapporti con gli studi di settore

Si ricorda, in premessa, che gli studi di settore si applicano anche: 1. in caso di cessazione e inizio dell’attività, da parte dello stesso soggetto, entro sei mesi dalla data

di cessazione; 2. quando l’attività costituisce mera prosecuzione di attività svolte da altri soggetti. A titolo esemplificativo, rientrano nelle ipotesi di “mera prosecuzione di attività svolte da altri soggetti” le situazioni di inizio attività derivanti dall’acquisto o affitto d’azienda. Dunque, la normativa relativa agli studi di settore prevede che lo studio si applichi anche nell’ipotesi di soggetto che, pur neocostituito e quindi in linea di principio escluso da studi, prosegua nell’attività di un soggetto terzo. Ebbene, considerato che la norma fa riferimento alla “prosecuzione di attività” si ritiene che la non applicabilità della causa di esclusione dagli studi di settore interessi soltanto il soggetto che prosegue l’attività (avente causa) e non coinvolge il soggetto che, a seguito dell’operazione, cessa di fatto l’attività (dante causa) concedendo la propria o le proprie aziende in affitto (cod. attività 68.20.02 affitto d’aziende). Tale ultimo soggetto (affittante) potrà, pertanto, indicare il codice di esclusione “7” causa di non normale svolgimento dell’attività nel rigo RE1/RF1/RG1, colonna 2 del Modello UNICO, ma dovrà, comunque, compilare il Modello studi di settore. Ed infatti, analogamente a quanto stabilito per i contribuenti i cui ricavi derivanti dalle attività non prevalenti sono superiori al 30% di quelli complessivi, nei confronti dei soggetti che esercitano in maniera prevalente l’attività di affitto di aziende lo studio di settore dell’attività prevalente non può essere utilizzato in fase di accertamento ma soltanto ai fini della selezione delle posizioni da sottoporre a controllo. Tuttavia, i contribuenti che si trovano in un non normale periodo di svolgimento dell’attività sono comunque tenuti a compilare il Modello dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore, indicando nell’apposito campo “Note aggiuntive – Informazioni aggiuntive”, la motivazione principale che ha impedito lo svolgimento dell’attività economica in maniera regolare. A livello di modulistica, la presenza di un contratto di affitto d’azienda può avere ripercussioni su alcune voci particolari. In primis, si dovrà verificare cosa indicare al rigo F01, ricavi tipici (rilevanti per la congruità). Le istruzioni precisano che nel rigo F01 si deve indicare l’ammontare dei ricavi di cui alle lett. a) e b) del comma 1 dell’art. 85 del Tuir cioè dei corrispettivi di cessioni di beni e delle prestazioni di servizi alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa e dei corrispettivi delle cessioni di materie prime e sussidiarie, di semilavorati e di altri beni mobili, esclusi quelli strumentali, acquistati o prodotti per essere impiegati nella produzione. Ai sensi dell’art. 57 e del comma 2 dell’art. 85 del Tuir si comprende tra i ricavi anche il valore normale dei predetti beni destinati al consumo personale o familiare dell’imprenditore, oppure assegnati ai soci, o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa. Non si deve tenere conto, invece: – dei ricavi derivanti dall’affitto di un ramo d’azienda; – dei ricavi delle attività per le quali si percepiscono aggi o ricavi fissi , che vanno indicati nel rigo

F08 alle cui istruzioni si rimanda; – delle indennità conseguite a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa, per la perdita o il

danneggiamento di beni da cui originano ricavi, che vanno indicate nel rigo F02. Si ricorda che l’Agenzia delle Entrate, con Circolare 23/E del 15/07/2013, commentando le novità dello studio di settore VG40U, aveva affermato quanto segue: “Ulteriore specificità dello studio in esame riguarda il trattamento dei ricavi derivanti dall’affitto di aziende, i quali devono essere indicati nel rigo

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F01; anche tali ricavi, pertanto, per lo studio in esame concorrono all’ammontare confrontato con la stima operata da GERICO. Coerentemente con questa modalità di imputazione, i contribuenti interessati dallo studio in oggetto devono indicare l’importo del valore dei beni mobili strumentali dell’azienda affittata nel rigo F29 (“Valore dei beni strumentali”)”. I modelli per l’anno 2013, tuttavia, non sembravano conformi, tant’è che il giorno 17 luglio è stata pubblicata sul sito delle Entrate una errata corrige delle istruzioni per la compilazione dello studio di settore VG40U, quello, per capirci, che debbono utilizzare le immobiliari di gestione e di compravendita, compresi i soggetti che affittano aziende o rami d’azienda. Le modifiche sono riassumibili nella tabella che segue:

Rigo F01 Ricavi tipici

Le modifiche apportate precisano che nel rigo debbono essere indicati i ricavi derivanti dall’affitto di aziende, mentre in precedenza si desumeva che dovessero essere esclusi i ricavi derivanti dall’affitto di rami d’azienda

Rigo F05 Gestioni accessorie

Le istruzioni, prima della modifica, richiedevano che venissero appostati in questo rigo i ricavi ritratti dalla locazione: • degli immobili patrimonio (peraltro già richiamati anche al rigo F02) • degli immobili strumentali Operando in tal modo, nessun soggetto era congruo Per effetto della modifica, invece, il conteggio viene riportato alla normalità e viene chiarito che i ricavi da locazione si considerano tipici e non accessori

Rigo F29 Beni ammortizzabili

Nel caso di affitto d’azienda (o ramo d’azienda) a terzi, le istruzioni precisavano che non doveva essere inserito il valore dei beni che compongono l’azienda. Diversamente, dopo le rettifiche l’indicazione è completamente opposta, nel senso che si precisa che il valore dei beni mobili che compongono l’azienda affittata deve essere indicato in questo rigo.

Come si ha modo di riscontrare sono delle modifiche che incidono in modo diretto sul risultato di congruità dello studio di settore, tanto per quanto attiene la ripartizione dell’ammontare dei ricavi (tra tipici ed accessori) che per quanto riguarda il valore dei beni ammortizzabili. Nel campo F18, invece, vanno appostati (per quanto attiene la posizione del conduttore) i costi per il godimento di beni di terzi tra i quali: • i canoni di locazione, finanziaria e non finanziaria, derivanti dall’utilizzo di beni immobili, beni

mobili e concessioni; • i canoni di noleggio; • i canoni d’affitto d’azienda. Come accennato, in relazione al valore dei beni ammortizzabili, è opportuno verificare la compilazione del campo F29 (casella 1), ove si indica il valore dei beni, ottenuto sommando: a. il costo storico, comprensivo degli oneri accessori di diretta imputazione e degli eventuali

contributi di terzi, dei beni materiali e immateriali, escluso l’avviamento, ammortizzabili ai sensi degli artt. 64, 102, 102bis e 103 del Tuir da indicare nel registro dei beni ammortizzabili o nel libro degli inventari ovvero nel registro degli acquisti tenuto ai fini IVA, al lordo degli ammortamenti, considerando le eventuali rivalutazioni a norma di legge effettuate prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di cui agli artt. da 10 a 16 della Legge 21 novembre 2000, n. 342;

b. il costo di acquisto sostenuto dal concedente per i beni acquisiti in dipendenza di contratti di locazione finanziaria, al netto dell’imposta sul valore aggiunto. A tal fine non assume alcun rilievo il prezzo di riscatto, anche successivamente all’esercizio dell’opzione di acquisto;

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Affitto di azienda: particolari disposizioni fiscali

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c. il valore normale al momento dell’immissione nell’attività dei beni acquisiti in comodato ovvero in dipendenza di contratti di locazione non finanziaria. In caso di affitto o usufrutto d’azienda, va considerato il valore attribuito ai beni strumentali nell’atto di affitto o di costituzione in usufrutto o, in mancanza, il loro valore normale determinato con riferimento al momento di stipula dell’atto. Si precisa che i contribuenti che concedono in affitto o usufrutto l’azienda non devono indicare nel presente rigo il valore dei beni strumentali mobili dell’azienda affittata o concessa in usufrutto.

Inoltre, nei campi interni al rigo F29 devono essere indicati i valori (già inclusi nel campo 1 del rigo F29) riguardanti rispettivamente: • nel campo 2, il valore relativo ai beni mobili strumentali in disponibilità per effetto di contratti di

locazione non finanziaria (ad esempio contratti di affitto o noleggio). Si precisa che, in caso di affitto di azienda, nel presente campo non deve essere indicato il valore dei beni mobili strumentali compresi nel contratto di affitto;

• nel campo 3, il valore relativo ai beni mobili strumentali in disponibilità per effetto di contratti di locazione finanziaria (ad esempio contratti di leasing).

12. Affitto d’azienda e disciplina delle società di comodo

La ratio della norma prevista dall'articolo 30 della Legge 724/1994 è stata ufficializzata dalla Circolare 7/E del 29 marzo 2013 (paragrafo 6), laddove si osserva che “tale ultima disciplina sia stata concepita per contrastare le società che, indipendentemente dall'oggetto sociale adottato, gestiscono il proprio patrimonio essenzialmente nell'interesse dei soci senza esercitare un'effettiva attività d'impresa”. Peraltro, questa stessa definizione è validata da alcune sentenze di commissioni tributarie (Ctp Trento sentenza 65/13, Ctp Catanzaro Sentenza 48/13, Ctp Mantova sentenza 137/13) che sono accomunate dalla medesima definizione di società di comodo: il soggetto societario di comodo ha come unico obiettivo l'intestazione di beni fruiti in realtà dai soci. Dunque, secondo la Sentenza 65/02/13 della Commissione tributaria di primo grado di Trento, nonostante la società non avesse superato il test di operatività e non fosse congrua e coerente alle risultanze di Gerico, la stessa non può considerarsi di comodo se dimostra che l'azienda è stata affittata per mantenere un certo avviamento in attesa che, in un'ottica di strategia familiare, si decidesse chi dei soci avrebbe poi effettivamente condotto l'attività. Secondo la Commissione tributaria provinciale sono, quindi, state provate quelle “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi” presunti, determinati applicando i moltiplicatori previsti per i diversi asset aziendali. La commissione ha fatto presente che “l'esiguità del canone di affitto non è contraddetta dal raffronto con altre realtà aventi similari caratteristiche e con canoni molto più elevati”. La circostanza che nella medesima località fossero in corso affitti di aziende similari con canoni assai più elevati non porta a valutare automaticamente l'operazione come antieconomica. A seguire, si presenta una tabella con le più recenti sentenze sul tema.

CT 1° grado Trento, Sez. II Sentenza 69 del 30/09/2013

Se l’Ufficio accerta mediante il semplice riferimento al dettato normativo, senza la determinazione dell'iter logico, spetta al giudice valutare nel merito la congruità del reddito dichiarato con riferimento sia all'economicità dell'operazione che alla comune esperienza, mentre spetta al contribuente dimostrare l'esistenza di quelle situazioni oggettive che gli permettano l'esclusione dall'applicazione delle normativa sulle società di comodo.

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In particolare, si trattava di albergo concesso in affitto a terzi; si presentava interpello che veniva rigettato e l’Ufficio provvedeva in automatico alla emissione di avviso di accertamento.

CTP Catanzaro, sez. IV Sentenza 48 del 27/02/2013

Il contratto di affitto d'azienda è causa di esclusione della normativa sulle società di comodo se l'Ufficio non dimostra che la misura del canone avrebbe potuto essere più elevato.

CT 1° grado Trento, Sez. IV Sentenza 55 del 27/09/2012

Ai sensi dell'art. 30, comma 4-bis, della Legge 23 dicembre 1994, n. 724, la disapplicazione della norma che prevede l'attribuzione di un reddito presunto alle società di comodo che non superano il cosiddetto test di operatività richiede la prova dell'esistenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento del ricavo minimo fissato, quali la dimostrata impossibilità per la società immobiliare di praticare canoni di locazione sufficienti per superare il test di operatività ovvero per conseguire un reddito effettivo superiore a quello minimo presunto, di talché, in presenza di società che abbiano affittato l'azienda, la dimostrazione di una situazione di grave crisi aziendale e del fatto che l'affitto d'azienda a un canone sufficiente a superare il test di operatività si sia reso necessario per salvaguardare l'integrità degli impianti e delle attrezzature produttive rende ipotizzabili i presupposti per la disapplicazione della norma antielusiva e ingiustificato l'accertamento tributario basato sul citato art. 30 della Legge 724/1994.

CTP Udine, Sez. II Sentenza 41 del 16/03/2012

È illegittimo l'accertamento emesso nei confronti di una presunta società di comodo che ha concesso in affitto l'unica azienda, qualora sussista la congruità agli studi di settore.

CTP Frosinone, sez. V Sentenza 212 del 06/10/2011

Per l’esclusione dalla disciplina sulle società di comodo non basta la prova di aver stipulato un contratto di affitto d'azienda.

CTR Genova, sez. I Sentenza 17 del 23/02/2011

Il contratto di affitto d'azienda è causa di esclusione della normativa sulle società di comodo.

In breve: 1. La gestione fiscale dell’affitto d’azienda comporta numerose particolarità che debbono essere

valutate con particolare attenzione 2. Una prima questione attiene le modalità di esposizione dei beni nelle scritture contabili,

contrapponendosi al riguardo due opposte tesi, l’una formalistica, l’altra sostanzialistica 3. Ulteriore questione delicata è quella della natura degli stanziamenti effettuati dal consuttore,

nell’ipotesi in cui sia a suo carico l’onere del mantenimento in efficienza dei beni (accantonamenti o quote di ammortamento)

4. Ulteriore vicenda è rappresentata dalla gestione fiscale dei conguagli di fine contratto 5. Infine, l’affitto riverbera i suoi effetti anche nel comparto degli studi di settore e dell’affitto

d’azienda

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AFFITTO DI AZIENDA: L’IMPOSTA DI REGISTRO

a cura di Sandro Cerato

Il regime impositivo indiretto dell’affitto d’azienda dipende essenzialmente dalla natura giuridica del soggetto locatore, ed in particolare dal mantenimento della soggettività passiva a seguito dell’operazione stessa. In linea generale, se tale soggettività IVA è mantenuta anche dopo la locazione dell’azienda, l’atto di affitto dell’azienda è soggetto ad imposta fissa di registro ed i relativi canoni scontano IVA, mentre in caso contrario, che si realizza nell’ipotesi di imprenditore individuale che affitta l’unica azienda, l’atto è soggetto ad imposta proporzionale di registro ed i canoni esulano dall’applicazione dell’IVA per carenza del presupposto soggettivo. Nella tassazione ai fini del registro assume particolare rilievo l’eventuale presenza di beni immobili strumentali all’interno dell’azienda locata, poiché nell’ipotesi in cui il loro valore sia predominante rispetto al valore degli altri beni, la tassazione dell’atto può avvenire come fosse una locazione di beni immobili.

1. Premessa

Il regime fiscale indiretto dell’affitto d’azienda dipende essenzialmente dalla natura giuridica del soggetto che pone in essere l’operazione. In linea generale, salvo i successivi approfondimenti, è possibile distinguere essenzialmente due fattispecie, partendo dal presupposto che il locatore d’azienda, in quanto tale, ha la qualifica di imprenditore nel momento in cui pone in essere l’operazione: – concedente società o ditta individuale che loca un ramo d’azienda: il locatore mantiene la

soggettività IVA con conseguente applicazione dell’IVA sui canoni pattuiti e tassazione dell’atto con imposta fissa di registro;

– concedente ditta individuale che loca l’unica azienda: in tale caso, a seguito dell’operazione, il locatore perde la soggettività IVA, con conseguente esclusione da IVA dei relativi canoni e applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale all’atto della stipula del contratto.

Tale schematizzazione non muta pur tenendo in considerazione che le locazioni d’azienda, ai sensi dell’art. 3, co. 2, n. 1), del D.P.R. 633/72, costituiscono prestazioni di servizi rilevanti ai fini IVA. Tuttavia, in mancanza del presupposto soggettivo, come accade nella seconda fattispecie evidenziata in precedenza, è evidente che l’operazione assume la qualifica di “fuori campo” IVA. 2. Registrazione dell’atto di affitto d’azienda

Prima di analizzare la misura della tassazione ai fini dell’imposta di registro dell’affitto d’azienda, è necessario verificare quando sussiste l’obbligo di registrazione dell’atto di affitto stesso, quale operazione necessaria per assoggettare a tassazione. Secondo quanto previsto dagli artt. 2 e 3, co. 1, lett. b), del D.P.R. 131/86 (TUR), gli atti aventi ad oggetto l’affitto di aziende ubicate nel territorio dello Stato sono soggette all’obbligo di registrazione nelle seguenti ipotesi: – l’affitto di azienda, o di un ramo di essa, avviene in forma scritta (ipotesi prevalente);

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– l’affitto d’azienda, o di una ramo di essa, avviene in forma verbale (ipotesi del tutto “accidentale”). Pertanto, anche laddove l’affitto d’azienda non dovesse risultare da un atto scritto, tale circostanza non comporterebbe alcuna conseguenza in tema di obbligo di registrazione, poiché le disposizioni del TUR non contengono eccezioni al predetto obbligo di registrazione. E’ tuttavia appena il caso di evidenziare che la conclusione di un affitto d’azienda in forma verbale è certamente un’ipotesi di scuola, in quanto l’art. 2556 C.C. stabilisce che i contratti che hanno per oggetto il godimento dell’azienda (tra cui appunto l’affitto) devono essere provati per iscritto, salva l’osservanza delle forme previste dalla legge nel caso in cui nell’azienda locata siano presenti dei beni che richiedano la forma scritta. In buona sostanza, la citata disposizione civilistica richiede la forma scritta dell’atto di affitto d’azienda sia pure ai soli fini probatori, e non quale condizione per ottenere la validità dell’atto. In altre parole, se l’affitto d’azienda avviene in forma verbale, l’atto è valido ma non è opponibile ai terzi. Va inoltre sottolineato che la forma scritta è invece richiesta ad substantiam in tutte quelle ipotesi in cui, nell’ambito del complesso dei beni che compongono l’azienda locata vi siano dei beni immobili e la durata del contratto sia ultranovennale. In tale ipotesi, infatti, l’art. 1350 C.C. dispone che il contratto deve essere formato per atto pubblico o per scrittura privata sotto pena di nullità. Per completezza, si segnala che secondo quanto stabilito dal co. 2 dello stesso art. 2556 C.C., i contratti aventi ad oggetto l’affitto d’azienda, oltre all’obbligo di registrazione entro il termine fisso di 20 giorni, devono essere depositati anche presso il registro delle imprese entro 30 giorni dalla stipula a cura del notaio. Infine, la forma scritta ed i conseguenti obblighi di registrazione sono richiesti anche in relazione alle vicende modificative del contratto aventi rilevanza esterna (proroga o cessione del contratto, ad esempio), mentre non è obbligatoria in presenza di mere modifiche aventi rilevanza interna, quale ad esempio la modifica del canone di locazione. 2.1 Affitto d’azienda senza forma scritta Come già anticipato, la formazione di un accordo verbale per l’affitto d’azienda rappresenta senza dubbio un’ipotesi più di scuola che non concreta. Tuttavia, è opportuno ricordare che il contratto verbale di affitto d’azienda, se non registrato dalle parti (art. 3, co. 1, lett. b), del D.P.R. 131/86), è soggetto a registrazione d’ufficio ai sensi dell’art. 15, co. 1, lett. d), del medesimo D.P.R. 131/86, secondo cui in mancanza della registrazione da parte dei soggetti obbligati, la registrazione è eseguita d’ufficio “quando, in difetto di prova diretta, la loro esistenza risulti, continuando nello stesso locale o in parte di esso la stessa attività commerciale, da cambiamenti nella ditta, nell’insegna o nella titolarità dell’esercizio ovvero da presunzioni gravi, precise e concordanti”. Resta ferma la possibilità, prevista dal successivo co. 2 dell’art. 15 del TUR, da parte del contribuente di fornire la prova contraria (ad esclusione di quella testimoniale). 2.2 Affitto d’azienda per atto pubblico o scrittura privata autenticata Il contratto di affitto d’azienda, se stipulato per atto pubblico o scrittura privata autenticata (come accade quasi sempre nella prassi), è soggetto a registrazione in termine fisso (20 giorni), anche nel caso in cui tutte le disposizioni in esso contenute siano soggette ad IVA (ad esempio quando il locatore è una società).

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Affitto di azienda: l’imposta di registro

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2.3 Affitto d’azienda per scrittura privata non autenticata L’art. 5, co. 2, del D.P.R. 131/86, dispone che “le scritture private non autenticate sono soggette a registrazione in caso d’uso se tutte le disposizioni in esse contemplate sono relative ad operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto”. Ciò sta a significare che se nell’ambito della scrittura privata vi è anche una sola disposizione non soggetta ad IVA (ad esempio la previsione di una caparra confirmatoria), l’atto soggiace all’obbligo di registrazione in termine fisso. In tal senso, la R.M. 17.8.1996, n. 194/E, ha confermato tale impostazione, ragion per cui affinché la scrittura privata non autenticata sia soggetta a registrazione solo in caso d’uso, è necessario che sussistano le seguenti condizioni: – la soggettività passiva IVA in capo al locatore; – il deposito del contratto di affitto presso i competenti organi amministrativi non avvenga allo

scopo di adempiere ad un obbligo né di legge né di regolamento. Nella tabella che segue si riassume la questione dell’obbligo di registrazione del contratto di affitto d’azienda nelle differenti fattispecie rappresentate in precedenza.

Forma del contratto Obblighi e termini di registrazione Atto pubblico Registrazione in termine fisso

Scrittura privata autenticata Registrazione in termine fisso Scrittura privata non autenticata (tutte le

disposizioni soggette ad IVA) Registrazione solo in caso d’uso

Scrittura privata non autenticata (anche una sola disposizione non soggetta ad IVA)

Registrazione in termine fisso

Verbale Registrazione in termine fisso

3. Disciplina fiscale

La tassazione dell’atto di affitto d’azienda dipende essenzialmente, come si vedrà nel seguito, dalla qualifica soggettiva del locatore, ed in particolare dal mantenimento o meno del requisito soggettivo IVA (esercizio di attività d’impresa) a seguito della concessione in locazione dell’azienda. Dal punto di vista oggettivo, infatti, l’art. 3, co. 2, n. 1), del D.P.R. 633/72, qualifica come prestazione di servizi, se effettuate verso corrispettivo, “le concessioni di beni in locazione, affitto, noleggio e simili”. In altre parole, al fine di individuare il regime di tassazione dell’affitto d’azienda, è necessario tener conto dei seguenti elementi: - soggettivo, relativamente al concedente l’azienda, il quale riveste certamente la qualifica di

imprenditore al momento della stipula dell’affitto, ma potrebbe perderla a seguito dell’affitto stesso;

- oggettivo, essendo la concessione in affitto di un bene, quale l’azienda o un ramo di essa, una prestazione di servizi rilevante ai fini IVA.

Come descritto nella R.M. 6.2.2008, n. 35/E, l’affitto d’azienda è soggetto ad un regime fiscale differenziato in funzione dello status del locatore, distinguendo i seguenti casi: - imprenditore individuale che affitta l’unica azienda: l’operazione esula dal campo di applicazione

dell’IVA, per carenza del presupposto soggettivo (il concedente perde lo status di imprenditore a seguito della concessione in locazione dell’azienda), con conseguente esclusione da IVA dei relativi canoni pattuiti e assoggettamento ad imposta proporzionale di registro;

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- imprenditore individuale che affitta un ramo d’azienda o una delle aziende possedute: l’operazione rientra nel campo di applicazione dell’IVA (canoni imponibili IVA con aliquota ordinaria) poiché sussiste sia il requisito oggettivo (prestazione di servizi) sia quello soggettivo (mantenimento dello status di imprenditore in capo al concedente), ed applicazione dell’imposta di registro in misura fissa;

- società commerciale che concede in locazione l’azienda o un ramo di essa: l’operazione è sempre soggetta ad IVA (canoni imponibili Iva con aliquota ordinaria) poiché la società, pur concedendo in locazione anche l’intera azienda, mantiene in ogni caso lo status di soggetto passivo d’imposta, ferma restando l’imposta di registro in misura fissa.

Concedente Regime fiscale

Imprenditore individuale (unica azienda) Esclusione da IVA ed imposta di registro proporzionale

Imprenditore individuale (ramo d’azienda o una delle aziende possedute)

Imponibilità Iva ed imposta di registro in misura fissa

Società commerciale Imponibilità Iva ed imposta di registro in misura fissa

3.1 Imprenditore individuale che affitta l’unica azienda L’affitto da parte dell’imprenditore individuale dell’unica azienda posseduta comporta la perdita, sia pure temporanea, dello status di soggetto passivo IVA in capo al locatore. Come precisato dalla prassi dell’Amministrazione Finanziaria (C.M. 4.11.1986, n. 72/14552), la perdita della qualifica di imprenditore non è definitiva ma è limitata alla durata del contratto di affitto d’azienda, al termine del quale in capo al locatore torna a realizzarsi il presupposto soggettivo. Per tali motivi, il locatore, ai soli fini anagrafici, conserva il numero di partita IVA (che in qualche modo è “congelata”), pur restando esonerato da tutti gli adempimenti previsti ai fini di tale imposta (emissione e registrazione delle fatture, liquidazione dell’imposta, dichiarazione annuale, ecc.), e non deve presentare alcuna dichiarazione di cessazione dell’attività, bensì una mera variazione della stessa. Operativamente, i canoni riscossi non devono essere documentati da alcuna fattura, essendo sufficiente un documento di quietanza del pagamento ovvero una ricevuta. L’atto di affitto dell’azienda, invece, subisce l’imposta di registro nelle seguenti misure: – se nel contratto si distingue la parte di canone relativa al bene immobile rispetto a quella prevista

per la componente mobiliare, si applica l’aliquota del 2% sul canone riferito all’immobile e del 3% sulla restante parte;

– se nel contratto viene previsto un solo canone per l’intera azienda (componente mobiliare ed immobiliare), si rende applicabile l’aliquota del 3% sull’intero canone.

L’impostazione descritta deriva dal contenuto dell’art. 23, co. 1, del D.P.R. 131/86, secondo cui laddove un atto contenga disposizioni relative a beni soggetti ad aliquote differenti (come accade nella locazione dell’azienda che contiene un bene immobile), è necessario distinguere le due seguenti ipotesi: – in assenza di indicazione di singoli corrispettivi pattuiti per i diversi beni, l’atto è soggetto

all’aliquota più elevata prevista per i diversi beni oggetto del contratto; – in presenza di indicazione di singoli corrispettivi pattuiti per i diversi beni (componente

immobiliare e mobiliare), si rendono applicabili le diverse aliquote operanti per i singoli beni.

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Affitto di azienda: l’imposta di registro

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Può altresì accadere che l’imprenditore individuale eserciti più aziende (ad esempio in diversi settori merceologici), ovvero l’azienda sia suddividibile in più rami, che vengono concessi in locazione in tempi diversi (ad esempio a distanza di qualche mese o anno). In tali casi, la concessione in affitto della prima azienda (o del ramo) è stata assoggettata ad IVA poiché il concedente continua ad assumere la qualifica di imprenditore per la presenza dell’altra azienda o del ramo non locato, con conseguente applicazione dell’IVA sui singoli canoni. All’atto della concessione in affitto della seconda azienda esercitata (o dell’altro ramo), il relativo atto va certamente assoggettato ad imposta di registro, poiché tale operazione fa venir meno il requisito soggettivo in capo al locatore, ed i canoni percepiti sono esclusi da IVA. Tuttavia, qualche dubbio rimane in relazione ai canoni percepiti in relazione all’azienda già affittata in precedenza, che come detto hanno sempre scontato l’IVA, sui quali si deve verificare se sia possibile (o necessario) continuare ad applicare tale imposta o debbano essere esclusi da IVA per carenza del presupposto soggettivo. La questione, che non trova una soluzione né normativa né di prassi, potrebbe essere risolta nel senso di continuare ad applicare l’IVA in relazione ai canoni riferiti alla prima azienda affittata, richiamando il contenuto della C.M. 154/E/1995, secondo cui laddove nel periodo di concessione in affitto dell’azienda si pongano in essere delle alienazioni di beni, si rende dovuta l’IVA e tutti gli adempimenti connessi (emissione della fattura, registrazione, liquidazione, ecc.). In altre parole, pur restando la partita IVA sospesa per tutta la durata del contratto (a seguito dell’affitto della seconda azienda), dovrebbero restare fermi gli obblighi IVA connessi alla prima azienda locata.

3.2 Locatore società o imprenditore individuale che affitta un ramo d’azienda Nell’ipotesi in cui l’affitto dell’azienda sia posto in essere da una società commerciale, ovvero abbia ad oggetto un ramo d’azienda dell’imprenditore individuale, poiché il concedente mantiene la qualifica di imprenditore anche successivamente all’affitto dell’azienda, si rende applicabile il seguente regime fiscale: – il canone d’affitto è soggetto ad IVA con aliquota ordinaria; – l’atto di concessione in affitto sconta l’imposta fissa di registro al momento della registrazione. 3.3 Affitto di azienda agricola Nell’ipotesi in cui l’affitto abbia ad oggetto un’azienda agricola, è necessario tener conto che l’art. 10, n. 8), del D.P.R. 633/72 considera tale operazione esente da IVA. Conseguentemente, in base al principio di alternatività IVA/registro, il contratto è soggetto al seguente regime fiscale (medesimo già descritto per l’ipotesi di concessione in affitto dell’unica azienda da parte dell’imprenditore individuale): – se nel contratto si distingue la parte di canone relativa al bene immobile rispetto a quella prevista

per la componente mobiliare, si applica l’aliquota del 2% sul canone riferito all’immobile e del 3% sulla restante parte;

– se nel contratto viene previsto un solo canone per l’intera azienda (componente mobiliare ed immobiliare), si rende applicabile l’aliquota del 3% sull’intero canone.

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Tassazione indiretta affitto d’azienda Concedente Regime fiscale

Imprenditore individuale (unica azienda)

- nel contratto si distingue la parte di canone relativa al bene immobile rispetto a quella prevista per la componente mobiliare: aliquota del 2% sul canone riferito all’immobile e del 3% sulla restante parte;

- nel contratto viene previsto un solo canone per l’intera azienda (componente mobiliare ed immobiliare): aliquota del 3% sull’intero canone

Società o imprenditore individuale (ramo d’azienda)

- il canone d’affitto è soggetto ad IVA con aliquota ordinaria;

- l’atto di concessione in affitto sconta l’imposta fissa di registro al momento della registrazione

4. Affitto d’azienda e locazione immobili: disposizione antielusiva

Nei precedenti paragrafi si sono illustrate le regole di tassazione dei contratti di affitto d’azienda, evidenziando il rapporto tra IVA e registro (tenendo conto dell’alternatività dei due tributi), anche nell’ipotesi in cui siano presenti beni immobili all’interno degli assets che compongono l’azienda. A tale impostazione si deve aggiungere un’ulteriore “variabile”, poiché l’art. 35, co. 10-quater, del D.L. 223/2006 (cd. manovra “Visco-Bersani”), stabilisce, in chiave “antielusiva”, che “le disposizioni in materia di imposte indirette previste per la locazione di fabbricati si applicano, se meno favorevoli, anche per l’affitto di aziende il cui valore complessivo sia costituito, per più del 50%, dal valore normale di fabbricati, determinato ai sensi dell’art. 14 del D.P.R. 633/72”. Con la C.M. 18/E/2013 l’Agenzia delle Entrate ha precisato che la riportata disposizione ha un “chiaro intento antielusivo” volto ad evitare che tramite lo schema contrattuale dell’affitto d’azienda siano disapplicate le disposizioni in materia di locazioni immobiliari. In altre parole, secondo l’Amministrazione Finanziaria, la ratio della norma risiederebbe nella volontà del legislatore di evitare che un’operazione di locazione immobiliare sia mascherata come affitto d’azienda al preciso scopo di fruire di un regime fiscale indiretto meno oneroso. 4.1 Regime fiscale delle locazioni di immobili Per una migliore comprensione della norma contenuta nell’art. 35 del D.L. 223/2006, è necessario ricordare, sia pure brevemente, la disciplina della fiscalità indiretta gravante sulle locazioni immobiliari. In particolare, il punto di partenza è costituito dalle disposizioni IVA, e segnatamente dall’art. 10, n. 8 e 8-bis, del D.P.R. 633/72, secondo cui le locazioni di immobili, abitativi o strumentali, sono esenti da IVA quale regime naturale, salva la possibilità di optare per l’applicazione dell’IVA nel relativo contratto, nei seguenti casi: – locazioni di fabbricati abitativi (classificati in categoria catastale A, esclusa A/10) poste in essere

dalle imprese che hanno costruito o ristrutturato l’immobile; – locazioni di fabbricati strumentali (classificati nelle categorie catastali A/10, B, C, D ed E) poste in

essere da qualsiasi soggetto IVA. La presenza o meno dell’opzione per l’applicazione dell’IVA influenza anche la tassazione ai fini dell’imposta di registro del contratto di locazione. A tal fine, è possibile schematizzare come segue: – per le locazioni di fabbricati abitativi, si rende applicabile il principio di alternatività IVA-registro,

con conseguente applicazione dell’imposta fissa di registro (euro 200) in presenza di opzione per l’IVA (come detto possibile solo se il locatore è l’impresa che ha costruito o ristrutturato

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Affitto di azienda: l’imposta di registro

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l’immobile), ovvero nella misura del 2% del canone annuo laddove non vi sia alcuna opzione per l’IVA(locazione esente);

– per le locazioni aventi ad oggetto fabbricati strumentali, invece, la presenza o meno dell’opzione per l’applicazione dell’IVA non influenza in alcun modo l’applicazione dell’imposta di registro al contratto di locazione, che in ogni caso è pari all’1% del canone di locazione pattuito per ciascuna annualità.

4.2 Profili critici Prima di analizzare la concreta applicazione della disposizione antielusiva, è bene osservare che sin dalla sua introduzione, ad opera del D.L. 223/2006, l’applicazione di un’imposta di registro proporzionale (1%), unitamente all’IVA (per opzione), alle locazioni di fabbricati strumentali ha suscitato non poche perplessità, soprattutto in relazione alla compatibilità con il sistema armonizzato dell’IVA, ed in particolare con l’art. 401 della direttiva 2006/112/CE, che vieta agli Stati membri di applicare imposte che abbiano la natura di imposte sulla cifra d’affari. In altre parole, laddove sia applicata l’IVA, quale imposta dovuta sul volume d’affari, sulla stessa base imponibile non è possibile applicare altri tributi della medesima natura, qual è ad esempio l’imposta di registro. La questione, tra l’altro, è già stata portata all’attenzione della giurisprudenza di merito, ed in particolare la Commissione Tributaria Regionale di Milano (Sentenza 30/10/2012, n. 139/49/12), confermando la sentenza dei giudici di primo grado, ha stabilito che l’imposta di registro proporzionale ha natura di imposta sulla cifra d’affari, con la conseguenza che l’applicazione della stessa, unitamente all’IVA, si pone in netto contrasto con il disposto del citato art. 401 della direttiva 2006/112/CE. Appare evidente che se tale impostazione sarà confermata anche in futuro, l’inapplicabilità dell’imposta di registro porterebbe ad una sorta di effetto “domino” anche in relazione alla disposizione antielusiva dell’art. 35, co. 10-quater, del D.L. 223/2006, il cui obiettivo, come detto, è di estendere ai contratti di affitto d’azienda la disciplina fiscale propria delle locazioni d’immobili. Ulteriore aspetto critico riguarda la natura della presunzione contenuta nell’art. 35, co. 10-quater, del D.L. 223/2006, che non ammette alcuna prova contraria. La stessa, infatti, si applica anche nelle ipotesi in cui le parti abbiano effettivamente stipulato un contratto di affitto d’azienda, senza che lo stesso possa essere riqualificato dal punto di vista giuridico quale contratto di locazione immobiliare. In altre parole, la disposizione in esame non entra nel merito di un’eventuale simulazione giuridica del contratto, limitandosi invece, come si vedrà nei prossimi paragrafi, ad applicare il regime fiscale più sfavorevole al contribuente (normalmente quello della locazione immobiliare), nell’ipotesi in cui nell’azienda locata sia presente anche un fabbricato con valore preponderante. Sarebbe stato senz’altro più corretto, e logico, applicare la norma antielusiva “generale” già presente nell’ambito delle disposizioni del D.P.R. 131/86, ed in particolare l’art. 20 secondo cui l’imposta deve essere applicata “secondo la natura e gli effetti giuridici degli atti presentati per la registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”. L’applicazione concreta della riportata disposizione consente di contrastare le situazioni in cui effettivamente le parti concludono un contratto riconducibile alla fattispecie della locazione d’immobili ma attribuiscono allo stesso un nomen iuris differente, quale potrebbe essere appunto l’affitto d’azienda al fine di ottenere un indebito risparmio d’imposta all’atto della registrazione dell’atto.

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4.3 Condizioni per l’applicazione della norma antielusiva Come si desume dal contenuto dell’art. 35, co. 10-quater, del D.L. 223/2006, e confermato dall’Agenzia delle Entrate nella C.M. 27/E/2006, la disposizione in questione non è applicabile tout court a tutte le fattispecie aventi ad oggetto l’affitto di un’azienda, bensì impone di non applicare il regime fiscale proprio previsto per l’affitto d’azienda, in presenza di due precisi presupposti: – il valore normale (valore di mercato) dei fabbricati, determinato secondo le regole contenute

nell’art. 14 del D.P.R. 633/72, sia superiore al 50% del valore complessivo dell’azienda locata; – l’eventuale applicazione dell’IVA e dell’imposta di registro secondo le regole previste per l’affitto

d’azienda, unitariamente considerata, consente di ottenere un risparmio d’imposta rispetto alla tassazione che graverebbe sulla locazione del fabbricato.

4.3.1 Primo requisito: prevalenza del valore del fabbricato Come visto, il primo requisito da verificare riguarda la prevalenza del valore del fabbricato rispetto al valore della restante parte dell’azienda. Per la quantificazione del valore, la norma in commento fornisce un parametro normativo solamente per la valorizzazione del fabbricato, rimandando ai criteri di cui all’art. 14 del D.P.R. 633/72 per la determinazione del valore normale. Secondo tale disposizione (co. 1) “per valore normale si intende l’intero importo che il cessionario o committente, al medesimo stadio di commercializzazione di quello in cui avviene la cessione di beni o la prestazione di servizi, dovrebbe pagare, in condizioni di libera concorrenza, ad un cedente o prestatore indipendente per ottenere i beni o servizi in questione nel tempo e nel luogo di tale cessione o prestazione”. Il successivo co. 2 stabilisce inoltre che “qualora non siano accertabili cessioni di beni o prestazioni di servizi analoghe, per valore normale si intende: a) per le cessioni di beni, il prezzo di acquisto dei beni o di beni simili o, in mancanza, il prezzo di costo, determinati nel momento in cui si effettuano tali operazioni; b) per le prestazioni di servizi, le spese sostenute dal soggetto passivo per l’esecuzione dei servizi medesimi”. Infine, il co. 3 stabilisce che “per le operazioni indicate nell’art. 13, co. 3, lett. d), con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze sono stabiliti appositi criteri per l’individuazione del valore normale”. In buona sostanza, il valore normale del fabbricato può ricondursi al suo valore di mercato, ed a tale proposito è oggettiva la considerazione secondo cui i valori in questione si sono notevolmente ridotti in questi ultimi anni a seguito della crisi che ha investito il particolare il settore immobiliare. Un utile riferimento potrebbe essere costituito dai valori OMI, aggiungendo che il riferimento all’art. 14 del D.P.R. 633/72 porterebbe ad escludere che il valore normale del fabbricato sia decurtato da eventuali passività inerenti l’immobile (ad esempio un mutuo ipotecario). L’Agenzia delle Entrate, con la C.M. 12/E/2007, prendendo atto dell’assenza nella norma di un criterio di quantificazione del valore della restante parte dell’azienda, ha precisato che il criterio contenuto nell’art. 14 del D.P.R. 633/72 debba essere riferito ad entrambi gli elementi del rapporto comparativo. Per la valorizzazione dell’azienda, un utile riferimento è costituito dalle norme del D.P.R. 131/86 che riguardano la valutazione dell’azienda ai fini dell’imposta di registro. In particolare, si dovrebbe aver riguardo al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda stessa, aggiungendo il valore dell’avviamento, e portando in diminuzione eventuali passività risultanti dai libri contabili obbligatori e da atti aventi data certa. Una simile impostazione non è tuttavia scevra da critiche, poiché la valorizzazione dei due parametri di riferimento (il comparto immobiliare e l’azienda) avverrebbero con due criteri differenti: la valutazione dell’immobile non tiene conto della presenza di eventuali passività, in quanto l’art. 14 del

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Affitto di azienda: l’imposta di registro

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D.P.R. 633/72 non lo prevede, mentre la valorizzazione dell’azienda, tenendo conto delle regole previste dall’imposta di registro, consentirebbe tale decurtazione. Tale conclusione, peraltro, è sfavorevole al contribuente, poiché il valore “lordo” dell’immobile e quello “netto” dell’azienda potrebbero senza dubbio ampliare le fattispecie applicative della disposizione di cui all’art. 35 del D.L. 223/2006. Sembra quindi più corretto, ed equo, valorizzare anche l’azienda senza lo scomputo di eventuali passività, così da mettere a raffronto due valori omogenei tra loro. 4.3.2 Confronto tra i regimi fiscali La seconda condizione per l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 35, co. 10-quater, del D.L. 223/2006, richiede di confrontare il carico fiscale indiretto gravante sulla locazione dell’immobile con quello riferito all’affitto dell’azienda, ed applicare il meno favorevole per il contribuente. Prima di entrare nel merito di come deve essere effettuato il confronto in questione, è necessario affrontare una questione preliminare riferita alla tipologia di immobili interessati dalla disposizione in commento. In particolare, si evidenzia che mentre l’art. 35, co. 10-quater, del D.L. 223/2006 fa riferimento alla locazione di fabbricati in genere, l’Agenzia delle Entrate, con la C.M. 12/E/2007, si riferisce esclusivamente ai fabbricati strumentali. Si ritiene che il riferimento contenuto nel documento di prassi ai soli fabbricati strumentali sia coerente con ciò che accade nella realtà operativa, in cui nell’ambito delle aziende concesse in locazione l’eventuale immobile compreso e locato unitamente all’azienda rientri tra quelli strumentali (negozi, capannoni, uffici, laboratori, ecc.). Tuttavia, stante il chiaro riferimento normativo ai fabbricati in genere, ciò non porta ad escludere l’applicabilità della disposizione antielusiva anche nell’ipotesi (pur non frequente), di locazione d’azienda comprendente un fabbricato abitativo. Entrando ora nel procedimento da seguire per individuare il regime meno favorevole al contribuente, dovendosi confrontare gli effetti di una possibile applicazione della disciplina fiscale delle locazioni immobiliari con quella dell’affitto d’azienda, ci si è chiesti se in relazione alle locazioni di immobili si debba aver riguardo solamente al trattamento del contratto di affitto, ovvero si debba tener conto anche di eventuali effetti indiretti. Ci si riferisce, in particolare, ad eventuali riflessi che possono derivare dalla locazione esente di un fabbricato strumentale sulla detraibilità dell’IVA in capo al locatore (pro-rata e rettifica della detrazione), ovvero specularmente alla possibile limitata detraibilità dell’IVA applicata sulla locazione in capo al soggetto locatario. Sul punto, l’Agenzia delle Entrate, nella C.M. 12/E/2007, è stata molto chiara laddove ha precisato che “non deve tenersi conto di tale aspetto né in relazione alla circostanza che l’effettuazione di operazioni esenti limita il diritto alla detrazione spettante al locatore né dalla circostanza che qualora il conduttore abbia un limitato diritto alla detrazione, risulterebbe per lui di maggior sfavore una prestazione di locazione in regime di imponibilità IVA”. Nella medesima C.M. 12/E/2007, e successivamente anche nella C.M. 18/E/2013, l’Agenzia ha altresì precisato che “la ragione antielusiva della norma richieda di individuare il regime di maggior sfavore nella applicazione della imposta proporzionale di registro, prevista per tutte le locazioni di fabbricati strumentali, sia imponibili che esenti, poste in essere ai sensi dell’art. 10, b. 8). In relazione a tale aspetto, in sostanza, l’applicazione del regime di tassazione previsto per i fabbricati strumentali risulterà sempre più sfavorevole rispetto a quello previsto per le locazioni di azienda”. Dal pensiero dell’Agenzia delle Entrate, quindi, pare di capire che la valutazione del regime più sfavorevole debba essere effettuata avendo riguardo al solo carico fiscale connesso all’imposta di

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registro e non anche dell’IVA, anche se tale conclusione non sembra essere coerente con quanto contenuto nel precetto di legge in cui il riferimento è più generico alle imposte indirette. E’ appena il caso di osservare che il contenuto della C.M. 12/E/20007 e della C.M. 18/E/2013, si pone in contraddizione con quanto sostenuto dalla stessa Agenzia nella R.M. 35/E/2008, in cui si affermava che “la norma, in un’ottica antielusiva, impone, pertanto, il confronto tra la disciplina applicabile, ai fini delle imposte indirette, all’affitto di azienda a quella applicabile alla locazione di fabbricati, per valutare, con riferimento al caso concreto, quale dei due sistemi di imposizione comporti una tassazione più vantaggiosa. Si rileva che il confronto deve avvenire tra le rispettive discipline, sistematicamente applicabili al caso concreto”. Dal contenuto della riportata risoluzione sembrerebbe che il confronto dovesse tener conto del carico fiscale indiretto complessivo, applicando quello meno favorevole per il contribuente, tenendo quindi conto anche dell’IVA. 4.4 Applicazione pratica della norma antielusiva Tenendo conto dei chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate, secondo cui come visto si deve escludere l’impatto dell’IVA nella valutazione del regime fiscale più sfavorevole, all’atto pratico l’applicazione della disposizione antielusiva dell’art. 35, co. 10-quater, del D.L. 223/2006, si realizza sempre in presenza di una locazione d’azienda posta in essere da una società (o da un’impresa individuale che mantiene la soggettività IVA, ossia laddove lochi solamente un ramo d’azienda) nel cui ambito vi è anche un immobile strumentale che “pesa” più del 50% del valore complessivo dell’azienda. In tale ipotesi, infatti: – l’affitto dell’azienda è soggetto ad imposta di registro in misura fissa di euro 200 (canoni soggetti

ad IVA); – la locazione dell’immobile è in ogni caso soggetto ad imposta di registro proporzionale pari all’1%

del canone di locazione pattuito. A differente conclusione, invece, si perviene nella fattispecie di locatore dell’azienda che a seguito dell’affitto perde la soggettività passiva IVA, che si realizza, come meglio spiegato nei paragrafi precedenti, in presenza di locatore imprenditore individuale che loca l’unica azienda. In tal caso, infatti, il regime più “sfavorevole” è già quello gravante sul contratto di affitto concluso tra le parti, poiché: – l’affitto dell’azienda è soggetto ad imposta proporzionale di registro del 3% del canone pattuito

(ovvero del 2% sul canone previsto per la parte immobiliare e del 3% per quella mobiliare, se distintamente indicati nel contratto);

– la locazione dell’immobile strumentale sconta anche in questo caso l’imposta di registro dell’1%. 4.5 Immobile detenuto in locazione Come compiutamente descritto in precedenza, la norma antielusiva impone precise condizioni per la sua applicazione, una delle quali riguarda il valore (normale) del fabbricato che deve essere superiore al valore della restante parte dell’azienda. Il fatto che la norma richieda la valutazione del fabbricato, sembra potersi concludere che il bene immobile debba essere di proprietà (o detenuto in base ad un diritto reale) del concedente l’azienda, e come tale iscritto nelle scritture contabili dello stesso. Pertanto, questa circostanza porterebbe ad escludere dall’ambito applicativo della norma i casi in cui il fabbricato non sia compreso nel patrimonio aziendale, ma sia detenuto in base ad un contratto di locazione stipulato dall’impresa con il terzo proprietario del bene. A conferma di ciò, nella R.M. 3/4/2008, n. 126/E, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il confronto previsto dalla norma si effettua “tra il valore dell’azienda e quello dei fabbricati strumentali che la compongono”, confermando, sia pure indirettamente, che in tale conteggio non deve tenersi conto

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Affitto di azienda: l’imposta di registro

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del valore dei fabbricati detenuti in locazione. Tali beni, infatti, non fanno parte del complesso dei beni aziendali nella nozione prevista dall’art. 2555 C.C. Nell’ipotesi in cui il bene immobile sia invece detenuto in base ad un contratto di locazione finanziaria da parte del soggetto concedente l’azienda, la norma dovrebbe applicarsi, stante l’ormai consolidato principio di equivalenza tra bene detenuto in proprietà e bene detenuto in base ad un contratto di locazione finanziaria, anche se la tecnica contabile prevista dagli OIC non consente di iscrivere il bene immobile tra le attività sino al momento in cui il bene stesso sia riscattato. Tuttavia, appare indubitabile che nell’ottica di valutare un’azienda, la presenza di un immobile detenuto in locazione finanziaria abbia un peso anche significativo, al pari dell’ipotesi del bene iscritto nell’attivo ma gravato in un mutuo contratto per l’acquisto. 4.6 Sublocazione dell’azienda Differente, e più delicata, è l’ipotesi in cui l’azienda, comprensiva dell’immobile, sia già detenuta in affitto, e sia successivamente subaffittata unitamente all’immobile. In tal caso, pur in assenza di qualsiasi chiarimento ufficiale, si ritiene che la norma antielusiva in commento operi, poiché l’oggetto dei contratti è sempre l’insieme dei beni che compongono l’azienda, nel cui ambito è compreso anche l’immobile. Un aiuto in tal senso arriva da un chiarimento dell’Agenzia delle Entrate in merito all’applicazione dell’imposta di registro dell’1% sulle locazioni di fabbricati strumentali (quale presupposto per l’applicazione dell’art. 35, co. 10-quater, del D.L. 223/2006), contenuto nella C.M. 12/E/2007, in base al quale la sublocazione, ai fini civilistici, costituisce comunque un contratto autonomo rispetto a quello di locazione originario. Ora, espandendo tale chiarimento anche alla fattispecie della sublocazione dell’azienda, dovrebbe concludersi che anche nella sublocazione si renda applicabile la norma antielusiva, a prescindere dalla circostanza che sulla locazione originaria vi siano stati o meno i presupposti per applicarla.

Norma antielusiva art. 35, co. 10-quater, del D.L. 223/2006

Presupposti

- valore normale (valore di mercato) dei fabbricati superiore al 50% del valore complessivo dell’azienda locata;

- l’eventuale applicazione dell’IVA e dell’imposta di registro secondo le regole previste per l’affitto d’azienda, unitariamente considerata, consente di ottenere un risparmio d’imposta rispetto alla tassazione che graverebbe sulla locazione del fabbricato

Valore normale fabbricato Determinato a norma dell’art. 14 del D.P.R. 633/72

Confronto regime fiscale affitto azienda e locazione immobile

Riguarda la sola imposta di registro gravante sulle due operazioni

Conseguenze Applicazione del regime fiscale più sfavorevole per il contribuente

Immobile detenuto in locazione La norma non si rende applicabile Sublocazione dell’azienda La norma si applica

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In breve: 1. L’applicazione delle imposte indirette nell’affitto d’azienda dipende essenzialmente dal

soggetto che pone in essere l’affitto e dal mantenimento della soggettività IVA a seguito dell’operazione

2. L’affitto d’azienda posto in essere da una società è sempre soggetto ad IVA, mentre l’imposta di registro è in misura fissa

3. L’affitto dell’unica azienda posto in essere dall’imprenditore individuale è escluso da IVA e sconta imposta di registro in misura proporzionale

4. La norma antielusiva prevista dal Decreto 223/2006 rende applicabile il regime fiscale ai fini dell’imposta di registro delle locazioni immobiliari, qualora nell’azienda locata sia presente un fabbricato del valore superiore al 50% dell’azienda

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AFFITTO D’AZIENDA: PROBLEMATICHE IVA

a cura di Fabio Garrini

Il contratto di affitto di azienda presenta molti spunti di criticità, sia dal punto di vista contabile, quanto dal punto di vista della gestione degli aspetti fiscali. Va però segnalato come, mentre il versante delle imposte dirette sia stato nel corso del tempo segnato da alcune pronunce dell’Amministrazione Finanziaria che hanno permesso di delinearne il trattamento, il profilo IVA è per molti aspetti quasi del tutto privo di indicazioni, quando non addirittura contradittorie, ragion per cui occorre in qualche maniera “arrangiarsi” per districarsi nel migliore dei modi tra le varie problematiche che gli adempimenti riguardanti l’imposta sul valore aggiunto riserva.

1. Il trattamento dei canoni

Il primo aspetto da prendere in considerazione nell’esame del contratto di affitto di azienda è il trattamento IVA da riservare ai canoni che l’affittuario corrisponde periodicamente, quale corrispettivo per l’affidamento dell’azienda, al titolare di questa. 1.1 Requisito oggettivo Prima di tutto occorre ragionare circa il requisito oggettivo. In linea generale, l’affitto di azienda costituisce un’operazione rilevante ai fini dell’applicazione dell’Imposta sul Valore Aggiunto, in quanto operazione provvista del requisito soggettivo. L’articolo 3 (appunto quello relativo alla definizione di prestazione di servizi rilevante ai fini IVA), al comma 2 (dedicato all’indicazione delle fattispecie assimilate) del D.P.R. 633/72 qualifica infatti, come prestazioni di servizi, se effettuate verso corrispettivo (e quindi se trattasi di contratto oneroso da cui derivano, appunto, dei corrispettivi), “le concessioni di beni in locazione, affitto, noleggio e simili”. L’imponibilità dell’operazione è, tuttavia, circoscritta alla sola ipotesi di affitto di azienda commerciale, atteso che l’art. 10 co. 1 n. 8) del D.P.R. 633/72, anche nella riformulazione operata dall’art. 35 co. 8 lett. a) del D.L. 4/7/2006 n. 223, considera esente da imposta l’affitto di terreni, così come l’affitto di aziende agricole. Il canone di affitto è invece imponibile IVA (quindi non opera la richiamata esenzione) quando ad essere affittati sono: • aree edificabili; • terreni destinati ad utilizzi produttivi non agricoli (es: aree destinate a parcheggio). Da ricordare che, a decorrere dal 12 agosto 2006, quando il valore dell’azienda sia da imputare prevalentemente ad un immobile (ossia, il valore degli immobili è superiore al 50% del valore dell’azienda) si applicherà, oltre all’IVA, anche l’imposta di registro in misura proporzionale dell’1 per cento sull’integrale valore del canone pagato per l’affitto dell’azienda.

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Su questo tema in questa sede si soprassiede in quanto viene approfondito in altro contributo all’interno della presente dispensa. Evidentemente, trattandosi di prestazione di servizi, vigono le regole proprie di tale fattispecie, in particolar modo con riferimento all’effettuazione dell’operazione: i canoni devono pertanto essere fatturati nel momento in cui viene incassato il corrispettivo ovvero un acconto di questo, posto che il soggetto passivo ha facoltà di anticipare il momento impositivo emettendo fattura per i canoni non ancora riscossi / maturati. Questo sta evidentemente a significare che, se anche il canone è maturato ma i corrispettivi non vengono riscossi e non sono fatturati, l’imposta relativa ad essi non è dovuta da parte del concedente. 1.2 Requisito soggettivo Occorre però valutare se esiste anche il requisito soggettivo per considerare assoggettati ad IVA i corrispettivi pertinenti l’operazione di affitto di azienda: questo avviene quando il soggetto che realizza la prestazione di servizi (in questo caso concede in utilizzo l’azienda) ha la qualifica di imprenditore ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. 633/72. L’analisi del requisito soggettivo deve essere condotto diversamente a seconda dello status giuridico del locatore, da un lato il caso in cui questo sia un imprenditore individuale, dall’altro il caso in cui il possessore dell’azienda da affittare sia una società. • Imprenditore individuale La prima situazione da valutare è il caso dell’impresa costituita sotto forma di ditta individuale che procede all’affitto dell’azienda. La definizione di “esercizio di attività d’impresa” è recata dall’art. 4 c. 1 del D.P.R. 633/72: “Per esercizio di imprese si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2135 e 2195 del Codice Civile, anche se non organizzate in forma di impresa, nonché l'esercizio di attività, organizzate in forma di impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell'articolo 2195 del Codice Civile.” L’inquadramento dell’affitto di azienda nell’ambito della presente definizione già di per sé porterebbe ad una risposta negativa: trattandosi di prestazione di servizi diversa da quelle di cui all’art. 2135 e 2195 cc. richiederebbe l’organizzazione per essere considerata attività d’impresa e, la semplice riscossione dei canoni, difficilmente dovrebbe configurarla. Oltretutto, la riscossione di canoni, crea anche qualche difficoltà nell’inquadramento quale attività organizzata. La questione, fortunatamente, è comunque stata risolta dall’Amministrazione Finanziaria. Sul punto consta una datata (ma consolidata) interpretazione dell’Agenzia delle Entrate contenuta nella C.M. 26/E del 19 marzo 1985, nella quale si afferma: “Va precisato altresì che il locatore, titolare dell'unica azienda data in affitto, perde, con l'affitto dell'azienda, lo status di soggetto passivo d'imposta e conseguentemente l'operazione non è soggetta ad IVA bensì ad imposta di registro” Si tratta di un caso piuttosto frequente: si pensi al caso di un imprenditore che possiede un bar che, cessando l’attività, anziché cedere l’attività, decide di stipulare con un terzo affittuario un contratto di affitto di azienda. Nel caso descritto, il canone di affitto sarà fuori campo IVA − da cui l’assoggettamento all’imposta proporzionale di registro del 3% − nel caso in cui venga affi ata l’unica azienda posseduta. Nel momento in cui viene data in affitto l’unica azienda occorre comunicare All’Agenzia delle Entrate la perdita della soggettività passiva tramite presentazione del modello di comunicazione dei dati IVA

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AA9/11. Con tale comunicazioni si segnala, in particolare, la temporanea sospensione della partita IVA per il periodo di durata dell’affitto. La compilazione del modello AA9/11 avviene come di seguito: Deve essere indicata la data in cui è intervenuta la variazione (ossia quella di effetto del contratto di affitto di azienda)

Dando menzione del fatto che si è data in affitto l’unica azienda in possesso dell’imprenditore, si compila il quadro E del modello nella sezione 3 − codice 5. Il codice 6 invece va utilizzato per la comunicazione da inoltrare con riferimento alla data di risoluzione del contratto da parte dei soggetti che riprendono l’attività a seguito della risoluzione del contratto di locazione. Con tale comunicazione l’imprenditore segnala che rientra nella disponibilità dell’azienda e torna ad assumere la qualifica di imprenditore (si è soliti dire che la partita IVA viene “riattivata”). Il codice 4 della sezione 3 è invece dedicato ad una eventuale cessione del plafond, tema che andremo ad approfondire in seguito in uno specifico paragrafo. Quanto descritto, come detto, riguarda il caso dell’imprenditore che vada ad affittare l’unica azienda e che quindi perde la qualifica di imprenditore. Diverso è il caso del soggetto che: • affitta una delle sue aziende • affitta un ramo dell’unica azienda

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In questo caso egli mantiene inalterato il requisito soggettivo (continua ad essere imprenditore), aspetto dal quale di conseguenza discende la rilevanza del canone di locazione come corrispettivo imponibile ai fini IVA. Corrispettivo da assoggettare ad aliquota IVA ordinaria. • Società Di più immediata gestione è il trattamento dei canoni di affitto d’azienda quando il possessore dell’azienda concessa in affitto è una società commerciale. Sul punto si esprime il secondo comma del richiamato art. 4 D.P.R. 633/72: Si considerano in ogni caso effettuate nell'esercizio di imprese: 1) le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte dalle società in nome collettivo e in accomandita

semplice, dalle società per azioni e in accomandita per azioni, dalle società a responsabilità limitata, dalle società cooperative, di mutua assicurazione e di armamento, dalle società estere di cui all'art. 2507 del Codice Civile e dalle società di fatto;

2) le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte da altri enti pubblici e privati, compresi i consorzi, le associazioni o altre organizzazioni senza personalità giuridica e le società semplici, che abbiano per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali o agricole.

Facendo particolare riferimento a quanto previsto al punto 1, per le società commerciali vi è una presunzione di commercialità in relazione alle prestazioni di servizi realizzate, senza la necessità di porre in essere le valutazioni che il comma 1 dell’art. 4 in commento propone per la figura dell’imprenditore individuale. Ne consegue che il corrispettivo percepito per l’affitto d’azienda deve essere fatturato ad aliquota IVA ordinaria. 2. Cessione dell’azienda al termine del contratto

Non è infrequente riscontrare nei contratti d’affitto di azienda, la previsione di un diritto, a favore dell’affittuario, da esercitarsi al termine del contratto (o in altro momento che le parti hanno convenuto), consistente nella possibilità di riscattare l’azienda ad un prezzo determinato o determinabile. Questo comporta, nel momento in cui detto diritto viene esercitato, il realizzarsi di una cessione d’azienda che, ai sensi dell’art. 2 c. 3 lett. b) del D.P.R. 633/72, non si considera cessione di beni e quindi, difettando del requisito oggettivo, non rientra nel campo di applicazione dell’IVA. Le conclusioni non cambiamo quand’anche fosse stabilito che il prezzo di riscatto dell’azienda dovesse essere fissato come differenza tra un determinato prezzo imputabile all’azienda (ad es: € 100.000) da cui decurtare canoni pagati all’affittuario (ad es: € 24.000): in questa situazione il corrispettivo sarebbe banalmente pari ad € 76.000, indipendentemente da come questo sia stato determinato, senza che i canoni che sono stati pagati in vigenza di contratto possano vedersi modificata la relativa qualificazione. Una situazione particolare si realizza nel caso di “locazioni con clausola di trasferimento vincolante per entrambe le parti” (art. 2 c. 2 n.2 D.P.R. 633/72), per le quali il momento di effettuazione si realizza già al momento della stipula del contratto (ai sensi dell’art. 6 c. 1 del D.P.R. 633/72. Detta operazione di cessione di azienda, proprio perché esiste un obbligo da cui le parti non possono sottrarsi e non un semplice diritto al trasferimento esercitabile a piacere dell’affittuario, si considera interamente realizzata alla data di stipula del contratto di affitto di azienda: trattandosi di operazioni fuori campo IVA, il corrispettivo pattuito non viene fatturato. D’altro canto, i corrispettivi fatturati successivamente devono considerarsi fuori campo IVA.

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3. Cessione beni strumentali

Uno dei temi controversi, sotto il profilo dell’applicazione dell’IVA, nell’affitto di azienda riguarda il soggetto che deve fatturare i beni strumentali da dismettere, e al quale devono essere fatturati i beni acquistati in sostituzione. Sul punto si è espressa, non troppo di recente, l’Amministrazione Finanziaria attraverso la C.M. 154/E del 30 maggio 1995, al paragrafo 7.4: Affitto dell'unica azienda da parte di imprenditore individuale D. I beni dell'azienda affittata, venduti in pendenza di affitto devono essere fatturati – ai fini IVA - dal locatore o dal locatario? R. Con le Circolari n.26 del 19 marzo 1985 e n. 72 del 4 novembre 1986, è stato precisato che nel caso in cui l'imprenditore individuale conceda in affitto l'unica azienda di cui è titolare viene sospesa la partita IVA. Ciò è stato consentito al fine di evitare l'osservanza di tutti gli adempimenti previsti nel titolo II del D.P.R. n. 633 del 1972 per il periodo di durata dell'affitto, ma non per questo è venuta meno la sussistenza del requisito soggettivo di imposta, talché permane l'obbligo del pagamento della tassa di concessione governativa sulla partita IVA. Pertanto, ove nel periodo di affitto il titolare dell'azienda ponga in essere cessioni di beni facenti parte della azienda stessa, l'operazione deve essere assoggettata ad IVA e devono essere osservati i conseguenti adempimenti di fatturazione, registrazione, liquidazione e versamento dell'imposta e presentazione della relativa dichiarazione annuale. La tesi dell’Agenzia è quindi quella secondo la quale la fatturazione dei beni facenti parte dell’azienda deve essere eseguita da questo soggetto. La circolare non indica se i beni ai quali intende riferirsi debbano o meno essere strumentali, e inoltre dichiara di rispondere per il caso in cui “il titolare dell’azienda ponga in essere cessioni di beni facenti parte dell’azienda stessa”. Questa risposta ha suscitato notevoli perplessità, perché si riferisce al caso della vendita di un bene da parte del titolare (situazione sicuramente rilevante nel caso della cessione di un immobile), mentre nella realtà operativa, la sostituzione di un macchinario con uno nuovo viene fatta dall’affittuario, che ha l’obbligo legale di conservare l’efficienza degli impianti: artt. 2561 e 2562 Cod. Civ., di regola non derogati quando il concedente è una persona fisica non più esercente. Pertanto, volendo trovare un punto di soluzione a tale problema, si potrebbe sostenere quanto segue: • se la cessione viene disposta dal titolare dell’azienda (situazione che pare davvero rara, se non per

alienazioni che possono essere disposte solo dal proprietario dell’azienda in relazione a beni che, se ceduti, possono alterare la consistenza dell’azienda, fattispecie comunque da valutare anche alla luce delle pattuizioni contrattuali), sarà egli a fatturare;

• nel caso di cessione di beni non essenziali ovvero quando si tratti di una semplice sostituzione per mantenere l’efficienza dell’azienda (il caso largamente più frequente), l’alienazione a terzi del bene stesso deve essere fatturata da parte dell’affittuario.

4. Cessione di rimanenze

Altro tema in parte simile a quello descritto è quello legato alle rimanenze: queste sono messe a disposizione da parte del concedente all’affittuario. Sul tema si è espressa la Cassazione nella Sentenza 20443 del 6 ottobre 2011. La controversia riguardava una contestazione dell’Amministrazione Finanziaria nei confronti di un’impresa che aveva

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affittato la propria azienda: nei confronti di tale impresa è stata contestata l’IVA sull'ammontare delle giacenze di magazzino, ritenendo di ravvisare, accanto al contratto di affitto di azienda, un distinto atto negoziale avente ad oggetto la cessione dei beni ricompresi nel magazzino, operazione quest'ultima che doveva ritenersi perfezionata ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 1, dopo un anno dalla consegna. Sul punto la Cassazione si è espressa come segue: “La norma del codice civile, pertanto, al contrario di quanto sostenuto dai Giudici territoriali, non individua una autonoma fattispecie negoziale (avente ad oggetto la cessione dei beni - giacenze di magazzino) distinta dal contratto avente ad oggetto la concessione in godimento della azienda, ma è volta a regolare, in considerazione del carattere "circolante" di tali beni, soltanto uno degli aspetti della medesima obbligazione restitutiva gravante sul concessionario (per l'affittuario cfr. art. 1590 C.C.) derivante dal contratto di affitto di azienda. I beni organizzati in funzione dell'esercizio della impresa, ivi incluse le rimanenze, considerati unitariamente come complesso aziendale non sono, infatti, trasferiti in proprietà all'affittuario, ma permangono in capo al locatore che concede all'affittuario soltanto il diritto personale di sfruttamento del bene produttivo (azienda) in conformità alla destinazione economico-funzionale impressa a detti beni dal concedente, essendo tenuto l'affittuario al termine di efficacia contrattuale a restituire l'azienda al proprietario. Tale obbligo, attesa la diversa natura o funzione dei beni del complesso aziendale, non può che essere adempiuto in modo differente, a seconda che tali beni siano destinati a durare nel tempo (inconsumabili) o siano destinati ad essere impiegati nel ciclo produttivo o commerciale della azienda (consumabili): appare dunque logico, in quest'ultimo caso, che l'obbligazione di restituzione dell'azienda gravante sull'affittuario venga assolta in forma generica mediante corresponsione del tantundem". Quindi, non vi è alcun obbligo di fatturazione al momento della consegna delle rimanenze di magazzino dal concedente all’affittuario; allo stesso modo non vi sarà fatturazione al momento della restituzione di tali beni, se non per la parte che rientra nelle differenze di inventario. Con riferimento alla vendita dei beni merce durante la vigenza del contratto, è pacifico che questi vengano fatturati dall’affittuario il quale sarà tenuto (ultimo comma dell’art. 2561) a regolare in denaro le eventuali diminuzioni inventariali. 5. Il trasferimento del plafond

Uno dei temi, nell’ambito dell’affitto dell’azienda, dove l’Agenzia si è esaurientemente espressa, è quello legato alla gestione della possibilità riconosciuta agli esportatori abituali di emettere fatture senza applicazione dell’imposta: del plafond maturato dall’azienda oggetto del contratto beneficia l’affittuario, ma secondo determinate regole. La prosecuzione dell’attività aziendale determina la successione nelle posizioni soggettive del concedente. Il quarto comma dell’art. 8 del D.P.R. 633/72 stabilisce infatti che, nel caso di affitto di azienda, perché possa avere effetto il trasferimento del beneficio di utilizzazione della facoltà di acquistare beni e servizi senza applicazione dell’imposta, occorre che: • il trasferimento del plafond sia espressamente previsto nel contratto di affitto dell’azienda; • ne sia data comunicazione all’Ufficio. Con riferimento a tale comunicazione, la norma si riferisce ancora ad una soluzione piuttosto antiquata, quella della lettera raccomandata, ma questo adempimento è ora formalizzato − in espressa (così depongono le stesse istruzioni alla compilazione del modello di variazione dati IVA) sostituzione della comunicazione tuttora indicata nella norma − nei modelli anagrafici, con i quali viene segnalato l’affitto.

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A cura dell’affittuario che intende utilizzare il plafond occorrerà procedere a tale compilazione: • se trattasi di persona fisica, nella sezione 3 va barrata la casella 4 dai soggetti che acquisiscono

un’azienda o un ramo aziendale in affitto esclusivamente nell’ipotesi in cui nel relativo contratto sia espressamente previsto il trasferimento del beneficio di utilizzazione della facoltà di acquistare beni e servizi senza pagamento dell’imposta a norma dell’art. 2, comma 2, della Legge 18 febbraio 1997, n. 28. Deve essere indicata la partita IVA della ditta individuale che ha concesso in affitto l’azienda o il codice fiscale se il concedente è un soggetto diverso da persona fisica. La comunicazione dati da presentare potrebbe essere tanto una richiesta di attribuzione di partita IVA (se per l’affittuario è la prima attività esercitata) ovvero una variazione IVA (se l’affittuario è già esercente attività commerciale)

• se trattasi di soggetto diverso da persona fisica il quadro interessato è il quadro D, con le medesime

caratteristiche di compilazione già commentato per le persone fisiche. Da evidenziare come in questo caso le variazioni possibili potrebbero essere la variazione dati IVA se la società aveva già la partita IVA, un’attribuzione di partita IVA con soggetto senza codice fiscale, ovvero l’attribuzione della partita IVA per un soggetto già in possesso del codice fiscale (esempio: ente non commerciale che prende in gestione un bar con contratto di affitto d’azienda, ovviamente quando tale attività configura attività commerciale a seguito delle specifiche disposizioni previste per gli enti).

Il Ministero delle Finanze, analogamente a quanto precisato con riferimento all’ipotesi di cessione e di conferimento di azienda, ebbe modo di chiarire che, nel caso di affitto di azienda, l’affittuario può fruire del plafond esistente in capo all’affittante qualora: • l’affittuario prosegua l’attività di esportazione; • il contratto di affitto preveda il generale passaggio dei rapporti giuridici attivi e passivi (Risoluzione

del 24/04/1990 n. 470048 e Risoluzione del 10/01/1991 n. 470080). La motivazione di tale richiesta della prassi è stata meglio esplicitata nell’ambito della Risoluzione del 28/02/1991 n. 621202, dove si legge: “pur riconoscendo che la natura del plafond non costituisce un diritto di credito, non può tuttavia sottacersi come l'utilizzo dello stesso vada, in ultima analisi, a influenzare la posizione fiscale complessiva del contribuente, quale risultante dalla dichiarazione annuale.” Successivamente, e precisamente il 27 gennaio 2010, tale orientamento è stato rivisto, in

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occasione della risposta ad una interrogazione parlamentare (n. 5-02385): è stato, infatti, ritenuto che, ai fini del valido subentro del locatario, è sufficiente l’osservanza delle richieste dell’art. 8 c. 4 D.P.R. 633/72 (trasferimento menzionato nell’atto e comunicazione con modello AA7 o AA9), senza dover rispettare condizioni ulteriori non previste dalla legge. In altri termini, è stata esclusa la necessità della trasmissione di tutti i rapporti con la clientela, ovvero di ogni posizione creditoria e debitoria (soluzione che francamente spesso si cerca di evitare nell’ambito del contratto di affitto di azienda): ferma restando, naturalmente, la facoltà dell’Agenzia delle Entrate di contestare eventuali profili elusivi connessi all’operazione e, in particolare, nell’eventualità in cui il contratto d'affitto non prevede il trasferimento dei rapporti con la clientela (si legge: “considerato il rischio di utilizzo distorto dell'istituto, l'Agenzia valuterà l'opportunità di procedere a specifici controlli sostanziali”). Peraltro tale apertura pare implicitamente confermata anche dalla R.M. 165/E del 21 aprile 2008 riguardante il trasferimento del plafond nel caso di conferimento di azienda, dove il trasferimento di plafond e status di esportatore abituale non è subordinato al trasferimento di tutti i debiti / crediti dell’azienda, ma solo delle posizioni attive e passive necessarie ad assicurare, in situazione di continuità, la prosecuzione dell’attività di impresa rivolta ai clienti non residenti.

Con riferimento alla gestione del plafond in capo all’impresa affittuaria constano alcuni chiarimenti da parte dell’Amministrazione Finanziaria contenuti nella Risoluzione del 24/11/1992 prot. 450173: • Nel caso di affitto di azienda intervenuto in corso d’anno, l’ammontare del plafond disponibile dal

1 gennaio dell’anno successivo, nonché per la verifica dello status di esportatore abituale, tiene conto anche delle operazioni realizzate dal locatore nella frazione d’anno antecedente la stipula del contratto. Tale orientamento, peraltro, tende ad evitare una disparità di trattamento che potrebbe verificarsi a fronte di situazioni analoghe differenziate solo da una diversa data di inizio dell'affitto. Quindi il trasferimento del plafond riguarda non solo il beneficio residuo alla data in cui viene posta in essere l’operazione, ma anche la base di riferimento per il calcolo del plafond relativo all’anno successivo;

• Nel caso di utilizzo del metodo mensile di determinazione del plafond mobile si dovrà effettuare il calcolo tenendo in considerazione non solo le operazioni effettuate dall'affittuario ma anche di quelle della società concedente. In sostanza l'affittuario dovrà prendere a base del calcolo le operazioni dei 12 mesi precedenti, costituite in parte da quelle proprie ed in parte da quelle della concedente. Solo dopo 12 mesi, ove l'operatore abbia continuato ad operare con il metodo del calcolo mensile, il plafond e lo "status" saranno determinati con le sole operazioni svolte dall'affittuario.

6. La dichiarazione IVA nei casi di affitto di azienda

In via generale, in presenza di affitto dell'azienda, sia il locatore che l'affittuario devono presentare la dichiarazione annuale IVA nei termini ordinari. Sono, però, esonerate dalla presentazione della dichiarazione IVA le imprese individuali che abbiano dato in affitto l’unica azienda e non esercitino altre attività rilevanti agli effetti dell’IVA. Per la redazione della dichiarazione del concedente, occorre quindi distinguere in base allo status di questo: • Affitto dell’unica azienda – Se l’unica azienda viene concessa in locazione dall’imprenditore

individuale per l’intero anno, il concedente, pur mantenendo il possesso della Partita IVA (che però risulta temporaneamente inefficace), non deve presentare la dichiarazione IVA, fintanto che l’azienda non ritorna in suo possesso (a meno che nel periodo di affitto non ponga in essere cessioni di beni facenti parte dell’azienda, con relativa fatturazione, nel qual caso sussiste

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comunque l’obbligo di registrazione, liquidazione dell’imposta e presentazione della dichiarazione annuale). Se l’unica azienda viene concessa in locazione dall’imprenditore individuale per una sola parte dell’anno, il concedente e l’affittuario devono presentare due distinte dichiarazioni annuali IVA per i periodi di attività a loro riconducibili.

• Affitto di un ramo d’azienda – Nel caso di affitto di ramo d’azienda il concedente continua a essere soggetto passivo d’imposta (i canoni di affitto soggetti ad IVA, rientrano nell’attività d’impresa) ed è tenuto alla presentazione della Dichiarazione IVA annuale per le operazioni rimaste a suo carico.

• Affitto da parte di una società - Per la società che affitta l’unica azienda non si ha alcuna sospensione della Partita IVA, che quindi continua a mantenere attiva la propria posizione ai fini IVA (come detto in precedenza, i canoni percepiti devono essere fatturati quali prestazioni di servizi). La società è quindi tenuta a presentare la Dichiarazione IVA nei termini ordinari. A maggior ragione è tenuta alla presentazione della dichiarazione IVA la società che affitta un ramo d’azienda, che quindi svolge ordinariamente, indipendentemente dal contratto di affitto stipulato, una attività rilevante ai fini IVA.

7. Conclusioni

Eccettuando la questione riguardante la rilevanza dei canoni, ove le regole sono abbastanza definite, per il resto la gestione IVA del contratto di affitto di azienda presenta non pochi aspetti con profili di indubbia difficoltà interpretativa (il pensiero va in particolare alla fatturazione nel caso di cessione di un bene facente parte dell’azienda). Si tratta di situazioni che, in assenza di chiarimenti ufficiali sufficientemente stabili, devono essere valutati sulla scorta delle regole base di applicazione IVA, queste fortunatamente molto più lineari nella loro applicazione.

In breve: 1. Il corrispettivo per l’affitto dell’azienda è prestazione di servizi; se ne deve tener conto in

relazione all’effettuazione 2. Nel caso di imprenditore che affitta l’unica azienza vi è una sorta di “sospensione” della partita

IVA 3. Il locatore deve comunicare tramite modello AA7 o AA9 la stipula e la risoluzione del contratto4. La cessione dell’azienda al termine del contratto è operazione non rilevante ai fini IVA 5. E’ controversa l’individuazione del soggetto tenuto alla fatturazione dei corrispettivi percepiti

per la cessione dei beni strumentali 6. Il trasferimento dal concedente all’affittuario del magazzino non deve essere oggetto di

fatturazione 7. Quando il concedente possedeva la qualifica di esportatore abituale ex art. 8 c.1 lett. c) D.P.R.

633/72, sia lo status che il plafond si trasferiscono in capo all’affittuario, al rispetto di determinati requisiti previsti al comma 4

8. Quando il concedente mantiene “attiva” la partita IVA egli è tenuto alla presentazione della dichiarazione annuale

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AFFITTO D’AZIENDA COME STRUMENTO DI RISOLUZIONE DELLA CRISI

a cura di Claudio Ceradini

Il contratto di affitto d’azienda viene sovente utilizzato all’interno di piani concordatari per salvaguardare quelle aree di gestione delle società che mantengono potenzialità reddituali e livelli di rischiosità di un certo interesse. Risulta allora importante verificare la presenza di una utile prospettiva di gestione dell’attività, in modo che siano prospettabili utili da conseguire, oltre che la presenza di una capacità manageriale in azienda, sostituibile dall’intervento di un soggetto terzo, il quale magari si impegni a rilevare l’azienda ad un prezzo prestabilito. Pur non sussistendo la possibilità di prefigurare scenari standard, il suddetto modello risulta applicato con una certa frequenza e con buona soddisfazione.

1. Premessa

Quando la società presenta sintomi sufficientemente evidenti di tensione finanziaria, al punto da non consentire ragionevolmente la prosecuzione dell’attività e l’integrale rispetto di obbligazioni ed impegni per carenza di risorse, divengono riconoscibili gli elementi tipici dello stato di crisi che l’art. 160 L.F. presuppone per il ricorso alla procedura di concordato preventivo. Indipendentemente quindi dalla capienza patrimoniale, quando le condizioni di crisi si manifestano e vengono identificate con anticipo sufficiente per evitare che dal loro aggravarsi consegua il dissesto, ma non per consentire l’utilizzo di altri strumento come piani di risanamento, accordi di ristrutturazione, etc., si pone la questione di strutturare il piano concordatario. Molto spesso, dottrina e indicazioni della Professione si sono soffermate sulle modalità con cui procedere alla verifica dei piani di risanamento, al fine di attestarne la ragionevolezza ai sensi sia dell’art. 161, c. 3, come dell’art. 67, c. 3, lett. d) o dell’art. 182bis L.F.13. Con meno frequenza ed intensità si è invece approfondito come progettare e realizzare il piano da sottoporre ad attestazione, sfida che, dal punto di vista professionale, presenta aspetti variegati, di natura sia tecnico legale, come anche economico finanziaria. Da tempo ormai l’art. 160 L.F. ha aperto ad una struttura più ampia in termini di opzioni disponibili, prevedendo, dopo la riforma del 2005, che il piano di ristrutturazione dei debiti possa contenere una proposta ai creditori “in qualsiasi forma, anche mediante cessione di beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione ai creditori, nonché a società partecipate, di azioni, quote, obbligazioni, anche convertibili, o altri strumenti finanziari ….”.

13 Si vedano, inter alia, le Linee Guida Per il Finanziamento delle Imprese in Crisi, emesse dal CNDCEC in collaborazione con Università di Firenze e Assonime (2010), così come Le Osservazioni sul Contenuto delle Relazioni del Professionista emesse dal CNDCEC (2009), e da ultimo i “Principi di Attestazione dei Piani di Risanamento” del giugno 2014, a cura di AIDAE, IRDCEC, ANDAF, APRI e OCRI.

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La questione, quindi, della progettazione del piano, da dieci anni, è divenuta centrale. Premettendo che ogni caso richiede autonoma analisi, constatiamo, tuttavia, la presenza di una struttura operativa di piano concordatario, piuttosto collaudata, che si presta efficacemente allo scopo di comporre la crisi e, nel contempo, di salvaguardare quelle aree di gestione della società che mantengono potenzialità reddituali e livelli di rischiosità di un certo interesse per l’imprenditore. Il presupposto è che siano rinvenibili in seguenti elementi: • possibile modello di gestione dell’attività d’impresa, diversamente organizzato, che possa

consentire di prevedere risultati economici positivi; • capacità manageriale della compagine, o più proficuamente intervento di un soggetto terzo, che

possa favorire l’individuazione delle necessarie risorse finanziarie. In questo contesto, il piano concordatario si sviluppa secondo uno schema logico, inapplicabile, però, nel caso in cui anche uno dei due presupposti manchi. La struttura dell’operazione si articola spesso nella concessione in regime di affitto dell’azienda o del ramo di azienda “sano” a soggetto terzo, che si impegni nel contempo, condizionatamente all’omologa del concordato, all’acquisto dell’azienda ad un prezzo prestabilito. 2. Il piano concordatario

Possiamo sommariamente individuare i seguenti momenti logici ed operativi: • disegno del ramo di azienda in potenziale continuità; • verifica del fabbisogno finanziario; • impostazione rapporti contrattuali tra le due società. Ognuna delle questioni va analizzata mantenendo sullo scenario di fondo la struttura dell’operazione, che assumendo soddisfatti i due requisiti poco sopra riferiti, si sostanzia nel trasferimento dell’azienda “sana” a favore di un terzo, preesistente o meno, che ne assicuri la continuità ed il mantenimento degli intangibles, e, nel contempo, si impegni ad acquistarla, condizionatamente all’omologa del concordato. I proventi dell’acquisto, che deve comprendere la parte più consistente possibile dell’attivo concordatario, per rapidità di incasso e consistenza costituiscono il reale motivo di convenienza che indurrà i creditori ad esprimere voto positivo rispetto al progetto. E’ pur vero che al Tribunale è sostanzialmente preclusa la valutazione di convenienza del progetto rispetto a soluzioni alternative, e tuttavia i creditori, ai quali è rimessa nella realtà tale analisi sulla base anche dalla Relazione e del parere del Commissario Giudiziale, non potranno non tenerne conto. In questo quadro di riferimento, la prima delle analisi va svolta in collaborazione con l’imprenditore, per verificare se vi siano aree di attività che, come precedentemente anticipato, consentano di ipotizzare concretamente un rendimento economico compatibile con il rischio di insuccesso e soddisfacente dal punto di vista quantitativo. Si tratta di un approccio tipicamente economico aziendale, che trae spunto dall’analisi del mercato e dei competitors, finalizzata alla verifica concreta delle aspettative dell’imprenditore e delle misure necessarie per il raggiungimento dei risultati sperati, in termini sia di riduzione di costi che di eventuali investimenti. E’ in realtà assolutamente raro che tale circostanza non sia verificata, perché quasi tutte le aziende, pur profondamente indebitate e non remunerative nell’assetto in cui operano, presentano rami più o meno significativi che, se isolati dal resto, esprimono potenzialità interessanti la cui continuità è la reale sfida professionale e imprenditoriale.

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L’approccio peraltro, richiede due momenti separati e successivi: 1) da un lato la verifica reddituale di sostenibilità, mediante la quale si accerta la rimuneratività del

ramo di azienda; 2) immediatamente dopo, la stima del fabbisogno finanziario, di cui individuare accuratamente la

copertura. Si tratta di questione altrettanto delicata e fondamentale, talvolta di difficile soluzione. Il fabbisogno finanziario si compone tipicamente di due elementi: – il primo legato al prevedibile sviluppo del capitale circolante; – il secondo al prezzo contenuto nell’offerta di acquisto dell’azienda, che accompagna il contratto di affitto. Il problema, in questo senso, nasce proprio dalle modalità di copertura del fabbisogno, in un momento in cui la crisi affrontata dalla società proprietaria dell’azienda affittata e la conseguente falcidia prevedibile in capo ai creditori, rende perlomeno improbabile che il medesimo imprenditore, seppur sotto la diversa veste giuridica della nuova società conduttrice, possa avere accesso sia al mercato del credito, sia anche alle dilazioni commerciali mediamente offerte dai fornitori nel settore. Al contrario, le dilazioni offerte ai clienti ed il livello di giacenze, pur ridotte al minimo, costituiscono normalmente un dato di fatto, generandosi di conseguenza un capitale circolante netto che richiede di essere sovvenzionato, spesso con iniezione di patrimonio da parte dell’imprenditore. Parzialmente diversa la situazione potrebbe presentarsi nel caso in cui possa essere coinvolto un socio terzo, che consenta l’accesso al credito, o nel caso in cui la società conduttrice dell’azienda in affitto sia già operativa e dotata di affidamenti adeguati ad assorbire il fabbisogno che si genererà per effetto della nuova attività recepita. La questione rimane comunque aperta, e costituisce un elemento di estrema delicatezza nella progettazione del piano concordatario, affinché abbia successo. Risolta la questione, sostanziale, della redditività e della copertura del fabbisogno, l’operazione si sostanzia, come già anticipato, nella concessione in regime di affitto dell’azienda, al fine di evitare soluzioni di continuità, al soggetto che si impegni nel contempo all’acquisto, condizionatamente all’omologa. 3. Il contratto di affitto di azienda

Qualche riflessione merita il contratto di affitto dell’azienda o del ramo, per alcuni aspetti operativi che possono, se non gestiti, suscitare problemi o generare difficoltà operative. Un primo aspetto riguarda la previsione o meno della deroga all’art. 2561, co. 4, C.C., argomento approfondito in altro contributo della dispensa. Ricordiamo qui solamente che l’addebito del deperimento all’affittuario, ed il conseguente riconoscimento in capo allo stesso del diritto al computo degli ammortamenti, genera in capo allo stesso un potenziale debito, che deve essere coordinato con il prezzo incluso nell’offerta, per evitare il rischio di duplicare il costo per l’acquirente, o al contrario decurtare il provento per il concedente. Vale la pena in questa sede offrire qualche considerazione in più sulle conseguenze contrattuali dell’opportunità di prevedere il conguaglio delle differenze inventariali e l’obbligo di mantenimento dell’efficienza. L’azienda, o il suo ramo, oggetto di affitto sono variamente composti, e ognuna delle componenti richiede, affinché le operazioni di conguaglio possano svolgersi ordinatamente, autonoma disciplina. Il testo normativo di cui ai commi 2 e 4 dell’art. 2561 C.C., richiede necessariamente una integrazione convenzionale, affinché il termine “valori correnti” possa essere consensualmente definito sin dall’inizio. Quanto più il complesso aziendale è articolato, tanto più la disciplina deve essere puntuale.

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Nel caso più semplice, in cui l’azienda sia formata solo da attrezzature, gli aspetti che richiedono regolamentazione sono certamente almeno due, con riferimento all’organizzazione ed alla sua tendenza alla produzione di reddito (leggi avviamento) ed ai macchinari stessi. Sotto il primo dei due profili, è necessario prevedere se, ed in che misura, eventuali incrementi o decrementi di redditività dell’azienda affittata debbano essere remunerati, o risarciti, a favore o a carico del concedente. Si immagini, per semplicità, uno o più ristoranti che, all’inizio dell’affitto, incassano Euro 1 ML cadauno annui, ed al termine il 20% in più: l’affittuario ha diritto o meno ad essere remunerato, dal momento che restituisce un’azienda più redditizia di quella che ha inizialmente ricevuto in affitto? È necessario prevedere questa circostanza, ad esempio con una clausola come quella seguente: “Le Parti concordano che, alla cessazione del Contratto nulla potrà essere richiesto da una delle Parti all’altra per addizioni o incrementi o diminuzioni delle attività e/o rapporti costituenti l’Azienda, dell’avviamento od altro titolo, fatta eccezione per quanto di seguito riportato in esecuzione dell’obbligo di regolare in denaro la differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine dell’affitto di cui agli artt. 2561, comma 4, e 2562 C.C.” oppure “Le Parti concordano che, alla cessazione del Contratto all’affittuario sarà riconosciuto un importo per addizioni o incrementi delle attività e/o rapporti costituenti l’Azienda e l’avviamento ad integrazione di quanto di seguito riportato in esecuzione dell’obbligo di regolare in denaro la differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine dell’affitto di cui agli artt. 2561, comma 4, e 2562 C.C., pari a due volte l’incremento di fatturato relativo all’ultimo esercizio, rispetto a quello dell’esercizio antecedente il rapporto d’affitto” Con riferimento ai macchinari, invece, il contratto deve regolamentare il rapporto, e quindi prevedere le modalità di calcolo relative all’obbligo di mantenimento dell’efficienza di cui al comma 2 dell’art. 2561 C.C.; ad esempio: “Per i macchinari inclusi nel ramo di azienda affittato, al concedente verrà riconosciuto un indennizzo pari all’applicazione di una riduzione di valore corrispondente alle aliquote di ammortamento applicabili ai sensi dell’art. 102, comma 8, Tuir” Più complessa la gestione di altre componenti del patrimonio, quali crediti e magazzino, ove fossero per qualche ragione (talvolta capita) inclusi nel perimetro dell’azienda concessa in affitto. Entrambe le poste sono caratterizzate spesso da una composizione molto articolata. I crediti sono molti, e certamente al momento della restituzione dell’azienda non saranno gli stessi debitori, ma diversi. Medesima considerazione per il magazzino, composto da molti articoli, con qualità e consistenze, oltre che rotazione, probabilmente diversi al momento della restituzione, rispetto all’inizio. Due possibili modalità di regolamentazione sono le seguenti.

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Per il magazzino:

“Le parti convengono i seguenti criteri di valutazione relativi al magazzino, quali unici applicabili per la determinazione del conguaglio in denaro di cui all’art. 2561 comma 4 del C.C.: Applicazione di un coefficiente di svalutazione al costo medio di acquisto delle merci per ognuna delle … (…………) linee di prodotto sulla base della relativa rotazione. In dettaglio:

• meno di 1 movimentazione nei 12 mesi precedenti: svalutazione pari al 70%; • movimentazioni comprese tra 2 e 5 nei 12 mesi precedenti: svalutazione pari al 50%; • movimentazioni comprese tra 6 e 15 nei 12 mesi precedenti: svalutazione pari al 30%; • movimentazioni superiori a 15 nei 12 mesi precedenti: nessuna svalutazione”

Per i crediti: “Le parti convengono i seguenti criteri di valutazione relativi ai crediti verso clienti, quali unici applicabili per la determinazione del conguaglio in denaro di cui all’art. 2561 comma 4 del C.C.: attualizzazione finanziaria alla data di restituzione dell’Azienda, rispetto alla scadenza nominale dei crediti, sulla base di un tasso annuo pari al 3% (tre percento)” Si comprende, quindi, come sia opportuno, se possibile, che crediti e debiti non formino parte dell’azienda affittata, rimanendo a vantaggio ed a carico del concedente, evitando accuratamente l’innesco delle responsabilità ex art. 2560 C.C., ed attivandosi il rapporto di affitto normalmente prima del deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo. Allo stesso modo, è opportuno che il magazzino, se esistente, non sia incluso nell’azienda, ma trasferito a beneficio dell’affittuario in forza di diverso e separato accordo14. Oltre alle difficoltà di regolamentazione contrattuale, questa precauzione risponde alla esigenza di semplificare la gestione contabile, che altrimenti richiederebbe il carico dei conti d’ordine ed il successivo scarico per ogni singola movimentazione, sia anche per alcuni aspetti equivoca e certamente scarna disciplina tributaria, che male alloca gli obblighi procedurali (fatturazione etc.) in questo caso15. Nello stesso senso, l’obbligo di sostituzione di beni od impianti, per quanto possibile all’interno di uno scenario concorsuale, va gestito e coordinato rispetto sia al quadro normativo e tributario di riferimento16, sia alla eventuale deroga all’obbligo di inventario ed all’offerta di acquisto. In altri termini, ove l’obbligo di sostituzione fosse previsto in capo al concedente, l’offerta di acquisto dovrà ricomprendere anche le addizioni, o alternativamente, se eseguite con provvista dell’affittuario, è opportuno che trovi conferma convenzionale il diritto dell’acquirente alla compensazione del credito al momento del pagamento del prezzo. 4. Struttura del ricorso: dal “piano” alla “domanda” attraverso la “proposta”

Una volta individuato nell’affitto d’azienda il presidio che consenta di conservare la stessa in funzionamento sino al suo successivo trasferimento, che avverrà quindi come complesso organizzato, e non atomizzato, di beni e di rapporti giuridici, si pongono per i professionisti incaricati alcune scelte

14 L’istituto tipico utilizzato per detto accordo è prevalentemente quello del contratto estimatorio, ma si presta anche il contratto di somministrazione. 15 Vedasi a questo proposito, inter alia, C.M. 154/E del 30.05.1995. 16 Vedi, oltre alla C.M. di cui alla precedente nota, Ris. D.R.E. Emilia Romagna n. 909 – prot. N. 16127 del 05.04.2002.

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per mettere a punto quelli che sono i tre aspetti essenziali del concordato che si andrà a proporre, e che possono essere identificati nel piano, nella proposta e nella domanda17. Per piano si intende lo strumento operativo che l’imprenditore ed i suoi professionisti hanno immaginato come idoneo a consentire la soluzione della crisi; il piano viene elaborato sulla base dei dati che le verifiche di cui si è sopra detto hanno fornito, e che hanno determinato quale sia l’attivo minimo che potrà essere indicato come realizzabile, e come questo si rapporti con le passività, andando ad assicurare la copertura finanziaria in relazione al fabbisogno che si rende necessario con riferimento alla proposta che si intende formulare ai creditori. Si è già anticipato che, nella detipizzazione della procedura di concordato preventivo voluta dalla riforma iniziata con il D.L. 14 marzo 2005 n. 35, all’imprenditore in crisi è lasciato amplissimo spazio per strutturare la proposta; sono stati rimossi i rigidi paletti contenuti nella vecchia formulazione dell’art. 160 L.F., ed imposte regole solo per la ipotesi in cui la proposta non preveda il pagamento integrale dei creditori privilegiati, e per la formazione delle classi, qualora sussistano creditori con posizioni giuridiche diverse, ma, e soprattutto, con interessi non omogenei18. La proposta, quindi, si pone in rapporto con il piano per quanto riguarda le modalità di soddisfazione dei creditori che lo stesso permette di ritenere possibili: in quale modo, in che entità e quando. Attraverso il piano, dunque, l’imprenditore è in grado di formulare ai suoi creditori una proposta negoziale, vincolandosi, in caso di omologazione, ad adempiere nei termini proposti nei loro confronti. Infine, la domanda è costituita dalla richiesta rivolta al Tribunale di aprire una procedura concordataria per sottoporre ai creditori la proposta di soluzione contrattuale della crisi in cui egli denuncia di trovarsi, soluzione che, appunto, si basa sul piano che, attraverso la relazione attestativa dell’esperto che accompagna lo stesso e l’altra documentazione richiesta dall’art. 161 L.F., i creditori apprenderanno essere fattibile e basata su dati aziendali veridici. 5. Struttura dell’operazione: la previsione di cessione dell’azienda

Tornando allo scenario disegnato nei punti che precedono, l’imprenditore prevede nel piano che il soddisfacimento dei creditori nelle modalità e nei tempi che indica nella proposta, inclusivi della cessione dell’azienda originariamente affittata. Solitamente, a tal fine l’affittuario sottoscrive una proposta irrevocabile di acquisto, indicando il prezzo offerto e le altre condizioni: termine di validità dell’offerta (a data fissa, ovvero con riferimento ad un certo lasso di tempo successivo al decreto di omologazione), condizione sospensiva legata alla approvazione del concordato ed alla sua omologa, eventuali garanzie ecc.. Assai diffusa è la previsione di imputazione dei canoni di locazione medio tempore corrisposti dall’affittuario al prezzo di cessione dell’azienda. Può aversi anche il caso in cui la cessione dell’azienda all’affittuario costituisca non già una mera possibilità, lasciata poi alle determinazioni successive alla omologazione, quanto un’obbligazione già

17 Per una approfondita disamina di questi tre elementi, cfr. Massimo Fabiani, Il concordato preventivo. Principi e regole, IPSOA, 2010, e, breviter, nella nota a Cass. 25.10.2010, n. 21860, Per la chiarezza di idee su proposta, piano e domanda di concordato preventivo e riflessi sulla fattibilità, in Il Fallimento, 2011, pagg. 172 e segg. 18 Non è ovviamente questa la sede per una discussione sul tema, già ampiamente dibattuto, della obbligatorietà o meno della formazione di classi: e tuttavia una riflessione sulla necessità di prevedere classi differenziate si impone allorché si vada ad imporre il volere della maggioranza ad una moltitudine di soggetti che, pur con identica posizione giuridica, abbiano interessi economici diversi (basti pensare, ma è ovviamente solo una delle tante ipotesi, al creditore che goda anche della garanzia personale o reale di soggetto terzo rispetto al proponente del concordato, ed al quale quindi interessa relativamente quale sarà la percentuale che il concordato andrà a pagargli, posto che il saldo integrale lo riceverà dall’esterno). Come è stato acutamente osservato dall’Autore citato nella nota precedente, in tali situazioni la collocazione in classi diverse diventa obbligatoria, ma il trattamento non dovrà essere necessariamente differenziato; ciò che conta è che il creditore che ha diversi interessi economici non vada ad imporre con il suo voto, magari determinante per entità, la sua accettazione della proposta al creditore che, privo di quelle spinte all’accettazione, ha pienamente diritto di far valere il suo voto in un contesto di creditori aventi interessi omogenei al suo.

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assunta dall’impresa che propone il concordato, e che la omologazione costituisca solo condizione di efficacia del contratto traslativo, ovvero ancora che l’omologazione costituisca una condizione sospensiva di un preliminare di cessione. Tali ipotesi sono certamente lecite nella nuova disciplina del concordato, oramai destrutturato e lasciato, con i ridotti vincoli di cui si è detto, alla libera modellazione del proponente, e trovano la loro legittimazione: (i) nell’assenza di poteri di modifica del Tribunale in sede di omologa, avendo il decreto motivato -

che, entro 180 giorni, prorogabili una sola volta di 60, dall’apertura, “chiude” la procedura - un contenuto vincolato (o omologa sulla base della proposta o rigetta) e non potendo quindi apportare modificazioni alla proposta formulata, che è stata accettata dai creditori con il voto da essi espresso

(ii) nella locuzione “se il concordato ..... non dispone diversamente” che precede nell’art. 182 L.F. la descrizione dei provvedimenti che il Tribunale deve disporre in caso di cessione dei beni, e delle modalità cui, sempre se non disposto diversamente, deve/devono attenersi il/i liquidatore/i.

E’ quindi sempre al vaglio dei creditori (come si è detto, sotto la “direzione” del Commissario Giudiziale, le cui considerazioni svolte in relazione ed all’adunanza ne possono influenzare ed orientare il voto) che è rimessa la sorte della procedura, e quindi se il debitore ha già accettato la proposta di cessione dell’azienda ad un determinato soggetto ed ad un determinato prezzo, quella necessariamente dovrà essere la modalità di cessione cui dovrà attenersi la procedura. 6. Esito naturale della procedura, con riferimento alla cessione dell’azienda

Al liquidatore giudiziale, nominato con il decreto di omologa nell’ipotesi di concordato che preveda la cessione dei beni, possono porsi innanzi varie modalità per procedere alla vendita dell’azienda. Senza considerare il caso in cui la vendita sia addirittura già avvenuta con l’autorizzazione del Giudice Delegato in fase anteriore all’omologa19 (e quindi anche alla nomina del liquidatore giudiziale), il liquidatore: • potrebbe doversi limitare a far constare il verificarsi della condizione sospensiva dell’efficacia di

una cessione già stipulata, ma condizionata all’omologa, ed accertarsi che il cessionario dell’azienda proceda alla iscrizione nel Registro delle Imprese;

• potrebbe doversi attivare solo affinché il promissario acquirente sottoscriva avanti il notaio l’atto definitivo di cessione e versi il saldo del prezzo (questa potrebbe essere una modalità di liquidazione predeterminata nella proposta);

• potrebbe procedere alla vendita, con l’autorizzazione del Comitato dei Creditori (art. 182 L.F.), e ciò previo (o meno) esperimento di procedura competitiva; si osserva, in proposito, che il rinvio alle disposizioni delle vendite in sede fallimentare regolate dagli articoli da 105 a 108-ter L.F. è fatto con la riserva dell’“in quanto compatibili”, e quindi ben potrebbero non trovare applicazione, con l’autorizzazione del G.D. allorché altre considerazioni, che vengano recepite dal Comitato dei Creditori, possano far ritenere che comunque sia di interesse dei creditori procedere direttamente alla cessione.

1919 Una simile fattispecie è riportata nel decreto motivato con cui il Tribunale di Bergamo ha respinto (i) il reclamo ex art. 26 L.F. contro il provvedimento del Giudice Delegato che aveva autorizzato, ai sensi dell’art. 167 L.F., la vendita dell’azienda di una società in concordato preventivo al soggetto che, a seguito di un invito a presentare offerte pubblicato su un quotidiano economico, era risultato il miglior offerente, e (ii) il provvedimento di diniego di sospensione ex art. 108 L.F. delle operazioni vendita. Il provvedimento è pubblicato in Il Fallimento, 2012, pag. 335, con nota di GIOVANNI LO CASCIO, La vendita dell’azienda nel nuovo concordato preventivo.

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Affitto d’azienda come strumento di risoluzione della crisi

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7. Considerazioni finali

Una volta intercettata con sufficiente anticipo la crisi d’impresa, la strutturazione dei piani concordatari che preveda il coinvolgimento di nuovi soggetti attraverso la concessione in affitto di uno o più rami aziendali costituisce senz’altro uno schema collaudato ed efficace. E’ tuttavia importante evidenziare che la contrattualizzazione del rapporto, la redazione della proposta ed il suo deposito, costituiscono l’atto finale di un complesso lavoro preparatorio, che coinvolge professionalità di diversa natura, dovendosi molto rapidamente chiarire le cause della crisi e gli elementi essenziali di rischio, per confezionare un progetto di risanamento di cui il concordato preventivo in sé costituisce solo un tassello. Devono partecipare al progetto quindi esperti sia in campo legale che tributario, ma anche industriale (eventuale riorganizzazione di alcuni processi eccessivamente dispendiosi o poco remunerativi), amministrativo (per la gestione delle eventuali autorizzazioni), urbanistico (per la verifica e la qualificazione degli immobili), etc. affinché il quadro divenga chiaro e preciso nel più breve tempo possibile. L’aspetto più delicato risiede proprio nella necessità di far convivere la precisione (affinché il piano non sia poi miseramente sconfessato nell’analisi del Commissario, al quale è concesso più tempo in una situazione aziendale ormai stabilizzata), con la rapidità. E’ essenziale quindi che la squadra di professionisti sia nel contempo completa, preparata ed esperta, oltre che collaudata.

In breve: 1. Il contratto di affitto di azienda si presta molto bene ad essere utilizzato come utile strumento

nell’ambito della progettazione di piani concordatari 2. Non è possibile prefigurare delle procedure standard che siano sempre valide, ma certamente

appare possibile delineare un percorso la cui fattibilità potrà essere testata caso per caso 3. Affinché l’affitto sia utile, è necessaria la presenza di un comparto di attività che sia ancora in

grado di produrre utili 4. Se l’attività “buona” è presente, si dovrà individuare il soggetto gestore, dotato delle

indispensabili abilità per la riuscita del progetto 5. Il soggetto gestore potrebbe anche essere esterno all’azienda, individuandosi nel terzo il cui

intervento determina il successo dell’operazione 6. Il soggetto terzo, in questi casi, può anche addivenire all’acquisto dell’azienda ad un prezzo

prestabilito 7. La delicatezza della situazione impone l’attenta ponderazione delle clausole da inserire nel

contratto di affitto d’azienda

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Schemi operativi di sintesi

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LA CESSIONE D’AZIENDA E LE IMPOSTE DIRETTE

a cura di Lelio Cacciapaglia

LA VALORIZZAZIONE DELL’AVVIAMENTO

Il soppresso D.P.R. 460/1996

% redditività X

ricavi medi triennio precedente X

coefficiente fisso

% redditivitàNon inferiore al rapporto tra reddito d’impresa e ricavi dichiarati o accertati

Ricavi medi triennio precedenteRicavi dichiarati o accertati nei 3 periodi d’imposta precedenti

Coefficiente fisso di rischiosità 2 o 3: 2 se l’attività è iniziata da meno di tre anni

se è esercitata parzialmente, se durata contratto locazione inferiore a 12 mesi

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LA GIURISPRUDENZA SULL’AVVIAMENTO

CT 1° Latina, 17 dicembre 1987, n. 507

CT 2° Trieste, Sez. 1° marzo 1988, n. 97

CTC, Sez. XXI, 21 giugno 1990, n. 4857

Corte d’appello Venezia, sentenza 21 gennaio1993

CTC, Sez. VI, 16 novembre 1995, n. 3707

CT 1° Sondrio, decisione del 14 marzo 1996n. 13

CTR Lombardia sez. XXII, sent. 111/98 luglio1998

CTP Milano, Sez. XXXIII, 9 luglio 1999, n.348/23/99

Cassazione, sentenza del 20 settembre 1996,n. 8387

L’avviamento"un valore dai confini incerti che non può

essere individuato con

una semplice operazione aritmetica di calcolo".

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La cessione d’azienda e le imposte dirette

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ACCERTAMENTO DELLA MAGGIORE PLUSVALENZA

Inversione dell’onere della prova: elementi

• La redditualità “storica” dell’azienda• Il potere contrattuale delle parti• La disponibilità immediata di altri acquirenti sul mercato• Le condizioni del mercato stesso • Le modalità di pagamento• Le garanzie • L’esistenza di particolari clausole contrattuali• la previsione di benefici futuri a favore del venditore• Le passività potenziali che potrebbero in futuro comprimere il valore

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LA CESSIONE D’AZIENDA: IMPOSTE DIRETTE

Tuir - Art. 86, comma 4 Tuir - art. 58, comma 1

4. Concorrono alla formazione del redditoanche le plusvalenze delle aziende,compreso il valore di avviamento,realizzate unitariamente mediantecessione a titolo oneroso. Se ilcorrispettivo della cessione è costituitoesclusivamente da beni ammortizzabili,anche se costituenti un complesso o ramoaziendale, e questi vengonocomplessivamente iscritti in bilancio allostesso valore al quale vi erano iscritti i beniceduti, si considera plusvalenza soltanto ilconguaglio in denaro eventualmentepattuito.

1. Per le plusvalenze derivantida cessione delle aziende,le disposizioni del comma 4dell’articolo 86 non siapplicano quando èrichiesta la tassazioneseparata a norma delcomma 2 dell’articolo 1

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Corrispettivo pattuito al netto degli oneri accessori di diretta imputazione

Costo non ammortizzato dei beni costituenti l'azienda

meno

DETERMINAZIONE DELLA PLUSVALENZA

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Clausola di revisione del prezzo in aumento

Il maggior prezzo è portato a incremento dell’avviamento quindi

si modificano le quote di ammortamento future,

per concludere comunque l’ammortamento fiscale nei 18 anni.

Situazione dell’acquirente

Situazione del venditore

Si applica la norma ordinaria sulla tassazione delle

plusvalenze, compresa la rateizzazione.

DETERMINAZIONE DELLA PLUSVALENZA

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La cessione d’azienda e le imposte dirette

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CESSIONE DI RAMO DI AZIENDA

VOCE VALORE CONTABILE

VALORE DI CESSIONE

Fabbricati 500.000 350.000

Impianto e macchinario 100.000 50.000

Avviamento - 50.000

TOTALE ATTIVITÀ 600.000 450.000

Trattamento di fine rapporto 150.000 150.000

Fondo amm. fabbricati 200.000

Fondo amm.impianto e macchinario 50.000 -

TOTALE PASSIVITÀ 400.000 150.000

NETTO 200.000 300.000

100.000Plusvalenza

DETERMINAZIONE DELLA PLUSVALENZA

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TASSAZIONE SEPARATA

Disciplina Tuir

Art. 86, c. 4 v/s art. 17, c. 1, lett. g)

Gli imprenditori individuali possono optare, in sede di Unicoquadro RM, per la tassazione separata delle plusvalenzerealizzate mediante la cessione a titolo oneroso di aziendepossedute da più di 5 anni.

Per i 5 anni contano anche i periodi di sospensione della gestione dell’azienda da parte del proprietario

(esempio, nel caso di affitto d’azienda).

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Contribuente Durata del possesso Unica azienda Regime di tassazione

Imprenditore individuale

Maggiore di 5 anni Si

OrdinariaSeparata

Imprenditore individuale

Maggiore di 5 anni No

OrdinariaSeparataRateale

Imprenditore individuale

Maggiore o pari a 3 anni Si Ordinaria

Imprenditore individuale

Maggiore o pari a 3 anni No

OrdinariaRateale

Imprenditore individuale

Inferiore a 3 anni Non rilevante Ordinaria

SCHEMA RIEPILOGATIVO Imposte sui redditi

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Contribuente Durata del possesso

Unica azienda Regime di tassazione

SocietàMaggiore o pari a 3 anni

Non rilevanteOrdinaria

Rateale

SocietàInferiore a 3

anniNon rilevante Ordinaria

SCHEMA RIEPILOGATIVO Imposte sui redditi

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La cessione d’azienda e le imposte dirette

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CESSIONE DI AZIENDA AFFITTATAArt. 67, comma 1, lett. h), del T.U.I.R.,

Affitto unica azienda da parte imprenditore individuale Il reddito dell’affitto non si considera conseguito nell’esercizio

dell’impresa ma:In caso di successiva vendita totale o parziale le plus concorrono

a formare il reddito complessivo come redditi diversi.

Che significa “successiva vendita totale o parziale”?

La tesi più accreditata è quella in base alla quale la venditadell’azienda successivamente all’interruzione o al termine delcontratto di affitto, determina l’emersione di plusvalenzesecondo i redditi diversi.

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CESSIONE DI AZIENDA AFFITTATALaddove tale tesi fosse corretta, la chiusura del ciclo fiscaledell’impresa avverrebbe, non secondo le regole del redditod’impresa, ma secondo quelle dei redditi diversi con unadeviazione dai principi sistematici dell’ordinamento.

Infatti, il regime dei redditi diversi si applica ai soggetti nonimprenditori, mentre la concessione in affitto dell’unica aziendanon determina la definitiva estinzione dell’impresa, ai fini fiscali,in capo al concedente.L’affitto dell’unica azienda costituisce, dal punto di vista fiscale,un fenomeno di “sospensione dell’esercizio di impresa”, e nondi sua definitiva “cessazione”.

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La cessione d’azienda e le imposte dirette

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LA CESSIONE D’AZIENDA E L’IMPOSTA DI REGISTRO

a cura di Sandro Cerato

le cessioni di aziendale o rami di azienda

•sono escluse dal campo di applicazione dell’Iva (cfr. art. 2, co. 3, lett. b), DPR 633/72)

il trasferimento di azienda va registrato e sconta l’impostaproporzionale sul valore netto di trasferimento, compresol’avviamento, pari al 3%

In presenza di immobili, il relativo valore (al netto delle eventualipassività imputabili) sconta le aliquote previste dal Dpr 131/86

• 9% per i fabbricati; 2% per immobili abitativi non di lusso e 12% per terreni agricoli con acquirente diverso da coltivatore diretto o IAP;

• oltre a ipotecaria e catastale 50 euro ciascuna

IMPOSTAZIONE GENERALE

IVA

REGISTRO

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La cessione d’azienda e l’imposta di registro

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Indicazioni di corrispettivi distinti

Consente di applicare l’aliquota propria prevista peri singoli beni (normalmente 3% per la componentemobiliare e l’avviamento, e 9% per quellaimmobiliare)

Corrispettivo unitario

In tal caso, ai sensi dell’art. 23 del DPR 131/86, sirende applicabile l’aliquota più elevata (in relazioneai beni che compongono l’azienda) sull’interocorrispettivo pattuito

CORRISPETTIVO: INDICAZIONI IN ATTO

DETTAGLIO

FORFAIT

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Ai sensi dell’art. 23, co. 4, del DPR 131/86, nella cessione d’azienda, o ramo d’azienda, le passività si

imputano ai diversi beni sia mobili che immobili in proporzione al rispettivo valore

BASE IMPONIBILE: SCOMPUTO PASSIVITÀ

ATTENZIONE AL DIVERSO APPROCCIO CON IMPOSTE IPOTECARIE E CATASTALI

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Artt. 43, co. 1, lett. a), e art. 51, co. 1, 2 e 4, del DPR 131/86

Valore complessivo dei beni e dei diritti checompongono l’azienda, compreso l’avviamento

Valore dell’azienda costituito dal “valore venale incomune commercio”

Valore assunto al netto delle passività risultanti dallescritture contabili obbligatorie o da atti aventi datacerta

BASE IMPONIBILE: NORME APPLICABILI

1

2

3

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Determinazione dell’avviamento:

Utilizzo metodo forfetario percentuale diredditività del Dpr 460/96 da parte degli Uffici

Possibilità di utilizzo anche di altri metodi

Corposa giurisprudenza di merito e dilegittimità (valutazione avviamento caso percaso, tenendo conto della situazione specificadell’azienda)

RETTIFICHE DELL’AGENZIA: L’AVVIAMENTO

1

2

3

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VALORE DI AVVIAMENTO: LA CORRELAZIONE TRA REGISTRO E IMPOSTE DIRETTE

a cura di Giovanni Valcarenghi

I DUE CONCETTI CONTRAPPOSTI

REGISTRO II.DD.

RILEVA IL VALORE

RILEVA IL CORRISPETTIVO

SE VIENE ACCERTATO

E DEFINITO IN ADESIONE

PUO’ ESSERE BASE PER

CONTESTARE MAGGIORE

PLUSVALENZA?

INTERESSE ACQUIRENTE INTERESSE VENDITORE

Non

è u

na te

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a, m

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IL PARERE DELLE GIURISPRUDENZA

LA TESI MAGGIORITARIA CONFERMA LA POSSIBILITA’

CASSAZIONE 22143 DEL 27/09/2013La previsione di un corrispettivo inferiore al valore definito legittima l’Agenzia

all’accertamento «induttivo» , ferma restando la possibilità per il contribuente di provare di avere venduto al minor prezzo indicato in bilancio

NEL MERITO, INVECE, SI REGISTRANO POSIZIONI CONTRARIE

CTR TORINO 122 DEL 03/10/2013 Il valore definito ai fini del registro non può essere utilizzato per le IIDD

CTR MILANO 93 DEL 06/06/2013L’ufficio non può discostarsi (senza motivazione) dal risultato di una perizia di parte

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SPUNTI PER LA DEFINIZIONE

1 Il venditore non può opporsi alla definizione dell’acquirente, anche se dalla medesima può ricavare potenzialmente un danno

2 Conviene partecipare al contraddittorio per affermare che non si condivide il valore assegnato all’avviamento

3 E’ utile che l’acquirente definisca «al solo scopo di evitare il contenzioso, pur non condividendo il valore assegnato dall’Ufficio»

4 Perizie con data certa aiutano la successiva difesa, imponendo all’Ufficio di motivare le ragioni che sostengono lo scostamento

5 E’ bene lasciare traccia delle motivazioni che hanno spinto a cedere ad un corrispettivo inferiore al valore

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CESSIONE DI AZIENDA E RESPONSABILITÀ TRIBUTARIE

a cura di Giovanni Valcarenghi

LA CESSIONE DETERMINA CONTINUITÀ

ARTICOLO 2560 C.C.L’acquirente risponde solidalmente dei debiti se questi risultano dalle

scritture contabiliREGOLA GENERALE

DEROGA

Non si applica ai debiti tributari, per i quali vige la norma speciale dell’articolo 14 del D. Lgs. 472/1997

1 Responsabilità solidalePER IMPOSTA E SANZIONI

RIFERIBILI ALL’ANNO DELLA CESSIONE E DUE PRECEDENTI

ANCHE SE PRECEDENTI MA IRROGATE NELLO STESSO PERIODO

2 Con limitazioniBENEFICIO PREVENTIVA ESCUSSIONE

NEI LIMITI DEL VALORE DELL’AZIENDA

PER QUANTO RISULTA ALL’AGENZIA AL MOMENTO CESSIONE

SOLO SE RICHIESTO CERTIFICATO «CARICHI PENDENTI»

3 PIENA SE IN FRODE

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IL CERTIFICATO DEI «CARICHI PENDENTI»PROVVEDIMENTO 25/06/2001

Approvazione dei modelli

RICHIESTA CERTIFICAZIONE DEI CARICHI PENDENTI(art. 14, comma 3, D.Lgs. 472/97)

IDENTIFICAZIONE DEL SOGGETTO D’IMPOSTACodice Fiscale: _______________ Numero di partita IVA _____________________ Denominazione o ragione sociale ______________ __________________________________ Domicilio Fiscale: Via e numero civico: ________________________ C.a.p. ___________ Comune __________________________Il/la sottoscritt.. …………………… codice fiscale ……………………………… residente in …………………………… in qualità di …………………………… della ditta/società ………………… con sede in ………………………… P.IVA n. ………………………

C H I E D Eil rilascio di un certificato dei carichi pendenti relativi al soggetto d’imposta sopra identificato per:esistenza di contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti alla data della presente (art. 14 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, riguardante la cessione d’azienda).esistenza di carichi pendenti a seguito di interrogazione al sistema informativo dell’Anagrafe Tributaria ai fini delle imposte dirette, I.V.A., imposte indirette sugli affari ed altri tributi indiretti.Luogo e data Firma………………………………………….

DICHIARAZIONE DI CONSENSO DEL POTENZIALE CEDENTEIl sottoscritto ………………………… nato a ……………… il ……… in qualità di ………………… della ditta/società ………………………… con sede in …………………………………………………… partita I.V.A. n. …………………………………………esprime il proprio consenso ai fini del rilascio della certificazione di cui all’art. 14, comma 3, del D.Lgs. n. 472/97.Si allega copia del documento d’identità.Si autorizza il trattamento dei dati personali ai sensi della Legge n. 675/1996.Luogo e data …………………………………….. Firma………………………………………………………………….

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PARTICOLARITÀ

1 Attenzione alla data di riferimento del certificato: il momento non è irrilevante ai fini della responsabilità

2 La procedura vale anche per altre operazioni straordinarie (tipo conferimento) oppure è limitata alla cessione?

3 Attenzione che vi sono 2 tipi di certificato, entrambi con riferimento ai carichi pendenti (vale solo quello che richiama l’articolo 14)

4 L’istanza va fatta in bollo e richiede il pagamento dei diritti di segreteria

5 La richiesta in prossimità di verifiche fiscali determina obbligo di notifica del PVC

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AFFITTO D’AZIENDA E DIFFERENZE INVENTARIALI

a cura di Claudio Ceradini

DIFFERENZE INVENTARIALI

Qualitative (articolo 2561, comma 2 c.c.)

In relazione al deperimento e deterioramento dei beni per effettodell’uso fattone dall’affittuario, e di cui egli avrà tenuto contomediante accantonamento di quote di ammortamento (perricostituzione beni in affitto)

Quantitative (articolo 2561, comma 4 c.c.)

•imputabili ai beni mancanti rispetto all’inventario iniziale• imputabili ai beni “in più” e presenti rispetto all’inventario iniziale

2 TIPI

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DIFFERENZE QUALITATIVEArt. 2651, co. 2, C.C.: obbligo di mantenimento efficienza

Composizione azienda affittata (durata affitto 3 anni):Un impianto: costo storico: 300

fondo ammortamento: 200Costo non ammortizzato: 100

• Vita utile residua del cespite: 5 anni,• Quota di ammortamento annua affittuario: 100 : 5 = 20• Al termine dell’affitto la situazione è la seguente:

Costo storico Ammortamenti Valore Netto

Proprietario 300 200 100

Conduttore 60 40

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Bene restituitoConguaglio

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DIFFERENZE QUANTITATIVE

Costo storico Fondo Valore Netto

Bene A 300 200 100Bene B 500 100 400TOTALI 800 300 500

Art. 2651, co. 4, C.C.: obbligo di mantenimento efficienzaComposizione azienda affittata (durata affitto 3 anni):due impianti: A - costo storico 300 e fondo ammort.: 200

B - costo storico 500 e fondo ammort.: 100Il cespite B viene ceduto in corso di affitto

Costo storico Fondo Uso in affitto cessione Valore

NettoBene A 300 200 60 - 40Bene B 500 100 100 300 -TOTALI 800 300 160 300 40Al

term

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azio

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izial

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Conguaglioqualitativo

Conguaglioquantitativo

Restituzione

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AFFITTO D’AZIENDA E PROBLEMATICHE AI FINI DELLE IMPOSTE DIRETTE

a cura di Lelio Cacciapaglia

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Affitto d’azienda e problematiche ai fini delle imposte dirette

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La deducibilità dei costi relativi al deperimento dei beni(impropriamente per il conduttore definiti ammortamenti) èdifferente in base al contrattuale adottato:

AMMORTAMENTI E ACCANTONAMENTI

Ordinario, ovvero

convenzionale (art. 2561, co.

4, c.c.)

Derogatorio, previa

indicazione in contratto

Accantonamenti(locatario)

Ammortamenti(proprietario)

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Accantonamenti per rischi ed oneri futuri - voce B.13 “Altri accantonamenti”

a Fondo reintegrazione azienda in affitto

Locatario

Deducibile redditiDeducibile Irap

REGIME CONVENZIONALE ART. 2561 C.C.

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Spese di manutenzione ordinaria: 2 tesi contrapposte1. Posto che si tratta di beni di terzi, non si applica il limite di deducibilità

di cui all’art. 102, co. 6, TUIR (piena deducibilità );2. Dette spese sono soggette al predetto limite di deducibilità (5% del

valore dei beni).

MANUTENZIONI E RIPARAZIONISi fa carico delle spese di ordinaria

manutenzione Si fa carico delle spese di straordinaria

manutenzione

AFFITTUARIO

PROPRIETARIO CONCEDENTE

Possibilità tuttavia di deroga espressa nel contratto

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VENDITA DEI BENI CONDOTTI IN AFFITTO

#▪ Banca c/c▪ Fondo reintegrazione azienda

in affitto

a Debiti verso affittante perrestituzione

Valore di vendita del bene – relativo fondo di ammortamento,

(risultante dall’inventario iniziale)

Contabilità del conduttore - Assenza di deroga

Contabilità del conduttore - Presenza di deroga

• Banca c/c

Sopravv. passiva

a #▪ Debiti verso affittante per restituzione

Sopravv. Attiva

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Affitto d’azienda e problematiche ai fini delle imposte dirette

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IL CONGUAGLIO AL TERMINE DELL’AFFITTO

Quote accantonate < importo conguaglio

Quote accantonate: 100Conguaglio :120

20

Quote accantonate > importo conguaglio

Quote accantonate: 100Conguaglio : 80

(20)

Affittuario Affittante

Sopravvenienza attiva

Sopravvenienza passiva

Conto economico Conto economico

Affittante Affittuario

Sopravvenienza attiva

Sopravvenienza passiva

Non soggetto ad Iva: natura risarcitoria

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STUDI E SOCIETÀ DI COMODO

Studi di settore

Affittante: codice 7 – non normale periodo di svolgimento attività (indicare nelle note)

Affittuario: si applica poiché costituisce ipotesi di prosecuzione di attività

Società di comodoNon è causa di esclusione Non è prevista nelle esimenti

Presentare interpello dimostrando le valide ragioni

Parte della giurisprudenza di merito Se non è in affitto a soci o parenti il mancato conseguimento dei ricavi minimi non può di per se costituire

elusione

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AFFITTO D’AZIENDA E PROBLEMATICHE AI FINI DELL’IMPOSTA DI REGISTRO

a cura di Sandro Cerato

Secondo quanto previsto dagli artt. 2 e 3, co. 1,lett. b), del D.P.R. 131/86 (TUR), gli atti aventi adoggetto l’affitto di aziende ubicate nel territoriodello Stato sono soggette all’obbligo diregistrazione nelle seguenti ipotesi:

- l’affitto di azienda, o di un ramo di essa, avvienein forma scritta (ipotesi prevalente);- l’affitto d’azienda, o di una ramo di essa, avvienein forma verbale (ipotesi del tutto “accidentale”).

OBBLIGO DI REGISTRAZIONE

QUA

LE F

ORM

A DE

L CO

NTR

ATTO

?

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Affitto d’azienda e problematiche ai fini dell’imposta di registro

133

OBBLIGO DI REGISTRAZIONE

Forma del contratto Obblighi e termini di registrazione

Atto pubblico Registrazione in termine fisso

Scrittura privata autenticata Registrazione in termine fisso

Scrittura privata non autenticata (tutte le disposizioni soggette ad Iva)

Registrazione solo in caso d’uso

Scrittura privata non autenticata (anche una sola disposizione non

soggetta ad Iva)

Registrazione in termine fisso

Verbale Registrazione in termine fisso

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Il regime fiscale dei canoni di locazione dell’aziendaè determinato dalla natura del concedente, aseconda che si tratti o meno dell’imprenditoreindividuale che loca l’unica azienda.

CANONI D’AFFITTO

IMPRENDITORE INDIVIDUALE che loca l’UNICA azienda

Il soggetto perde momentaneamente la qualifica di soggettocommerciale. Tali fitti sono esclusi dal campo di applicazione deltributo sul valore aggiunto, rientrando in quello dell’imposta diregistro proporzionale, nella misura del 3%.

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È possibile beneficiare di un risparmio d’imposta, se il contrattod’affitto d’azienda distingue il canone riferibile alla parteimmobiliare rispetto a quello relativo alla parte restante delcomplesso aziendale affittato: la prima frazione sconta, infatti, laminor misura del 2%, a differenza dell’ordinario 3%, che continua agravare sulla quota non immobiliare.

In vigenza del contratto di affitto, l’imprenditore individuale èesonerato da tutti gli obblighi Iva.

Nota bene: la cessione di un bene affittato comporta, la necessitàdi riattivare la partita Iva, al fine di procedere alla fatturazione eregistrazione dell’operazione (C.M. 30 maggio 1995, n. 154).

CANONI D’AFFITTO

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Se il concedente, invece, è:

CANONI D’AFFITTO

Un imprenditore individuale che loca un RAMO dell’unica

azienda o una delle proprie aziende

I canoni sono soggetti ad Iva ordinaria del 22% e all’imposta diregistro in misura fissa (euro 200), e concorrono alla formazionedel reddito d’impresa e della base imponibile Irap, comecomponenti positivi (voce A)1 del CE o alla voce A)5).

Una SOCIETA’

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Affitto d’azienda e problematiche ai fini dell’imposta di registro

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NORMA ANTIELUSIVA (art. 35, co. 10-quater, del D.L. n.223/2006): il trattamento fiscale in materia di imposte indirette,previsto per le locazioni immobiliari, si applica, se menofavorevole, anche all’affitto d’azienda, qualora risultino soddisfattedue condizioni:

il valore normale dei fabbricati supera il 50% del valoredell’azienda;

l’applicazione dell’Iva e dell’imposta di registro per l’affittod’azienda consente un risparmio d’imposta, rispettoall’applicazione delle imposte previste per le locazioni di fabbricati.

CANONI D’AFFITTO

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Aspetti critici NORMA ANTIELUSIVA (art. 35, co. 10-quater, delD.L. n. 223/2006):

Tipologia fabbricati (solo strumentali?);

Fabbricati detenuti in locazione (anche finanziaria)

Confronto tra regimi impositivi locazione fabbricato e affittod’azienda: quali imposte considerare

Subaffitto di azienda

CANONI D’AFFITTO

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AFFITTO D’AZIENDA E PROBLEMATICHE AI FINI DELL’IVA

a cura di Fabio Garrini

Affitto d’azienda: problematiche IVA

RILEVANZA IVA DEL CANONE: ASPETTO OGGETTIVO

Prestazione di servizi

Operazione rilevante ai

fini IVA

Momento di effettuazione

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Affitto d’azienda e problematiche ai fini dell’IVA

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RILEVANZA IVA DEL CANONE: ASPETTO SOGGETTIVO

• affitta unica azienda

Imprenditore

P. IVA «sospesa»

• Affitta una azienda

• Affitta ramo d’azienda

Imprenditore

• Affitta unica azienda

• Affitta una azienda

• Affitta ramo d’azienda

Società

P. IVA attiva

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Affitto d’azienda: problematiche IVA

FATTURAZIONE DEI BENI

• Operazione F.C.IVA (art. 2 c. 3 lett. b DPR 633/72)Cessione azienda

• RM 154/E/95 fatturazione concedente• Le ordinarie sostituzioni dovrebbero

essere fatturare dall’affittuario

Cessione beni strumentali

• No fatturazione al momento del trasferimento all’affittuarioCessione

rimanenze

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Affitto d’azienda: problematiche IVA

TRASFERIMENTO DEL PLAFOND

Chiarimenti Subentro nel plafond del concedente

plafond successivo: rilevano op. concedente Plafond mensile: rilevano le operazioni del concedente

I vincoli

L’affittuario continui l’attività Trasferimento di crediti e debiti(contra: int. Parl. 5-02385 del 2010)

Requisiti (art. 8 c. 4 DPR 633/72)

Indicazione nell’atto di affitto d’azienda Comunicazione IVA AA9

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Affitto d’azienda: problematiche IVA

LA DICHIARAZIONE

Affitto dell’unica azienda

Imprenditore individuale

NO DR IVA

Salvo per la frazione d’anno antecedente la stipula

Problema cessione beni

Affitto di ramo d’azienda SI DR IVA

Per le operazioni di propria competenza

Società Sempre e comunque DR IVA da presentare

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AFFITTO D’AZIENDA E CRISI DI IMPRESA

a cura di Claudio Ceradini

Operazione potenzialmente conveniente, ma rischiosa

ACQUISTO DI AZIENDE IN CRISI

Pre-fallimento1.Corresponsabilità del cessionario sui debitidel cedente (art. 2560 c.c.);2.Corresponsabilità sui debiti tributari (art 14l. 471/97 e art. 11 d.lgs. 74/2000);3.Corresponsabilità per l’assolvimento IVA(art. 60-bis DPR 633/72);4.Corresponsabilità sui debiti verso entiprevidenziali;5.Rischi passanti (personale, ambiente, ...).

Post-fallimento1. Revocabilità (art. 67 c1)2. Azioni risarcitorie promosse dallaprocedura;3. Deriva penale per aver aggravato lostato di dissesto/distratto attivo(attenzione alle società interposte) (art216-7 l.f.).

LE OPERAZIONI STRAORDINARIE ELA CRISI D’IMPRESA: INTRODUZIONE

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SOLUZIONE: IL CONCORDATO PREVENTIVOConsente la protezione del patrimonio del debitore.

Può prevedere la cessione o il conferimento dell’azienda subordinata all’omologa del concordato (o all’autorizzazione ex art. 161, co.7, L.F.), o la

prosecuzione del debitore.In ogni caso, il mantenimento della continuità aziendale richiede

LE OPERAZIONI STRAORDINARIE ELA CRISI D’IMPRESA: INTRODUZIONE

e successivi1.Cessione di azienda/ramo d’azienda;2.Conferimento in newco dell’azienda/ramo e successiva cessione o ingresso nel capitale da parte di terzi.

Affitto di azienda Prosecuzione in capo al debitoresoluzione collaudata

soluzione “nuova” e critica

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AFFITTO E CESSIONE O CONFERIMENTO

30 gg

Pren

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ione

c.6

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l pia

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Udi

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174

LF 60 – 120 gg

Voto

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174

LF

20 g

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gg

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Amm

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ne 1

63, c

.1 -

LF

Affitto d’azienda e offerta vincolante /

preliminare condizionati

Cessione o conferimento

Necessità di continuità nella gestione

• L’offerta del terzo è vincolante per l’acquirente, anche se condizionata, ma non per la procedura;

• Contratto preliminare condizionato di acquisto.

• Il conferimento, condizionato all’omologa, può essere un impegno vincolante di un terzo conferitario o in assenza, parte del piano.

La procedura può anche gestire senza affitto ma in casi rari (es. immobiliari o alberghi)

LE OPERAZIONI STRAORDINARIE ELA CRISI D’IMPRESA: INTRODUZIONE

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Affitto d’azienda e crisi di impresa

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30 gg

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Udi

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174

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Voto

tard

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174

LF

20 g

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80 L

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0/90

gg

esecuzione

Amm

issio

ne 1

63, c

.1 -

LF

CONTINUITÀ IN CAPO AL DEBITORE

Cessione d’azienda e miglior soddisfacimento

dei creditori

• Se non esitono potenziali acquirenti per l’azienda (o il corrispettivo viene ritenuto troppo basso), la continuità aziendale attraverso il concordato potrebbe portare a realizzare il compendio (o la newco in caso di conferimento) a migliori condizioni.

• Importanza della verifica del miglior soddisfacimento dei creditori con cessione molto dilazionata.

Continuità in proprio

LE OPERAZIONI STRAORDINARIE ELA CRISI D’IMPRESA: INTRODUZIONE

Prosecuzione in capo al debitore, e proposta di

soddisfazione dei creditori

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