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LARA TRUCCO Dispensa diritto elettorale Corso di Diritto costituzionale 2 M-Z a.a. 2016/17

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LARA TRUCCO

Dispensa

diritto elettorale

Corso di Diritto costituzionale 2 M-Z a.a. 2016/17

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2 Lara Trucco

I DALL’ESPRESSIONE DEL VOTO

ALL’ASSEGNAZIONE DEI SEGGI

1. L’oggetto dello studio

I sistemi elettorali sono quei meccanismi, normativamente previsti, che

regolano il procedimento di articolazione delle preferenze individuali in

voti e la conversione dei voti in seggi. In questo senso, essi rientrano, pur

distinguendosene concettualmente, nella “legislazione elettorale”, che

comprende la materia elettorale più ampiamente considerata (concernendo,

ad es., il regime delle incompatibilità, delle ineleggibilità, e la cd.

legislazione elettorale di contorno; una situazione peculiare sembra

rappresentata, poi, dalla incandidabilità, conseguente a fattispecie

criminose, che va, piuttosto, ricollegata al regime del voto di cui al comma

4 dell’art. 48 Cost., che prevede, appunto, com’è noto, che il diritto di voto

non possa “essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di

sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla

legge”).

Più precisamente:

- l’ineleggibilità: è dovuta alla particolare carica ricoperta dal soggetto,

che nella competizione elettorale può porlo in una posizione di vantaggio

rispetto agli altri candidati (v. il t.u. n. 361/1975: persone che ricoprono

determinati uffici, persone appartenenti al corpo diplomatico, persone

legate allo stato da particolari rapporti economici). Se in presenza di una

causa di ineleggibilità un soggetto sia comunque eletto, la sua elezione

viene dichiarata nulla.

- dall’incompatibilità: deriva l’impossibilità materiale di ricoprire

contemporaneamente due cariche (che si presume non siano svolgibili

contemporaneamente). Quindi si deve optare per l’una o per l’altra (ad es.

giudice della Corte costituzionale/deputato). L’incompatibilità a differenza

dell’ineleggibilità, non impedisce la regolare elezione ad una carica ma

impone solo una scelta tra il nuovo ed il precedente ufficio ricoperto.

Diverso è il fondamento giuridico che sta alla base delle due figure: le

ineleggibilità mirano a garantire la parità di chances tra i candidati; invece,

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Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 3

le incompatibilità sono volte ad assicurare che l’efficienza dell’esercizio

delle funzioni. Le cause di ineleggibilità hanno natura invalidante è

determinano la nullità della stessa elezione; le cause di incompatibilità

sono invece, caducanti e producono la decadenza del titolare della carica

elettiva se questi non sceglie fra le due cariche.

- L’incandidabilità: di norma è prevista in relazione a determinate

vicende processuali (condanne o rinvii a giudizio); da essa consegue il

divieto per alcuni soggetti di presentare la propria candidatura (è il caso di

coloro che hanno riportato condanna definitiva per alcuni delitti

particolarmente gravi).

Accanto al tradizionale profilo “esterno” del voto – in ragione del quale

ciascun individuo, in forza di particolari legami giuridicamente rilevanti

(“di cittadinanza”, “di residenza” …), che presenta con l’ordinamento

giuridico di volta in volta considerato, può rivendicare, in virtù del

principio di eguaglianza formale, di votare alla stregua degli altri elettori –

, è necessario gettare luce anche sul profilo “interno” del suffragio,

strettamente connesso al principio di eguaglianza sostanziale e

maggiormente attento, rispetto al primo, all’incidenza effettiva che ciascun

voto individuale (e, quindi, “la scelta collettiva” espressa dal corpo

elettorale nel suo complesso) finisce per avere sul risultato dell’elezione

(cd. “valenza intrinseca” del suffragio).

Una compiuta attuazione del principio di sovranità popolare

richiederebbe di vedere attribuito ad ogni elettore astrattamente

considerato non solo un medesimo coefficiente individuale, tale da rendere

in tutti identica la valenza formale e sostanziale del proprio voto (cd.

“identità delle valenze”), ma, altresì, un tasso di influenza sul risultato

dell’elezione, almeno sul piano generale, apprezzabile. Non ci si nasconde,

peraltro, come l’esperienza e la riflessione teorica convergano nel ritenere

quello testé descritto un modello teorico irraggiungibile nella realtà. È,

infatti, in qualche modo nelle cose (potrebbe forse dirsi “nei numeri” …),

che, già in partenza – particolarmente al momento, come si vedrà del

disegno delle circoscrizioni – ciascun suffragio, sebbene appaia

formalmente uguale agli altri, presenti un “peso” (ovvero, come s’è detto,

un grado di incidenza sul risultato finale) diverso e che sia destinato poi ad

essere ulteriormente ed in vario modo “conformato” dagli altri meccanismi

che compongono i sistemi di elezione.

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La circostanza, però, non impedisce che quello stesso modello teorico

di cui si diceva possa comunque costituire una sorta di “ideal-tipo” o di

limite tendente all’infinito, verso cui qualunque sistema di elezione

dovrebbe in ogni caso orientarsi al possibile in un ordinamento

democratico. E ciò, in virtù:

– sia sul piano “orizzontale”, nel rapporto reciproco tra i consociati,

del principio della pari dignità elettorale;

– sia sul piano “verticale”, cioè nella relazione tra elettori e organi

del governo rappresentativo (massimamente le assemblee direttamente

formate in base al voto popolare), della libertà di voto e del principio di

sovranità popolare.

Il ruolo delle tecniche di voto, infatti, in ragione della loro

configurazione e della più complessiva costruzione del sistema elettorale,

può oscillare tra scenari pressoché simbolici, allorché la capacità

d’incidenza del suffragio sia nulla – e d’altra parte, i risultati di voto già

(altrove ed altrimenti) prefigurati – a situazioni più libere e

sufficientemente imprevedibili nel loro determinarsi, in cui, appunto, è, in

buona sostanza, il corpo elettorale ad avere nelle sue mani le carte decisive

da giocare.

Di qui, l’opportunità di svolgere un esame delle condizioni di miglior

rendimento del suffragio, vale a dire delle tecniche della sua espressione e

dei suoi modi di “trasformazione” in scelte collettive, con l’obiettivo di

evidenziare quali tra esse ne esaltino la “valenza intrinseca” o, viceversa,

ne mortifichino la portata.

2. Profili “quantitativi” e “qualitativi” del sistema di votazione. A)

Il suffragio

I sistemi di votazione sono quei meccanismi, normativamente previsti,

che, nell’ambito dei più ampi sistemi elettorali, regolano il procedimento

tecnico di espressione e di traduzione delle preferenze individuali relative

a determinate candidature, in voti.

Essi, pertanto, operano, particolarmente, nella fase del procedimento

elettorale che va dall’indizione delle elezioni fino allo scrutinio,

consentendo, nello specifico,

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– la presentazione delle “liste di candidati”: intese, in senso ampio,

come spazio entro cui l’elettore è chiamato a compiere questa stessa scelta

(“lato dell’offerta elettorale”); e

– l’espressione e il computo dei “voti”, o, più tecnicamente, dei “suf-

fragi individuali”: ossia delle scelte degli elettori votanti (per questo

definibile come “lato della domanda elettorale”).

Oltre a disciplinare le concrete modalità di effettuazione della scelta

individuale, gli stessi sistemi di votazione stabiliscono i modi per

l’aggregazione significativa di ciascuna preferenza individuale di per se

stessa considerata. S’intende, dove ciò sia consentito: ed infatti, in quei casi

in cui, come nell’attuale sistema di votazione per le elezioni politiche

italiane (introdotto dalla legge n. 270 del 2005), agli elettori non sia dato

modo di esprimere una qualche preferenza per i singoli candidati, del

voto/suffragio beneficia soltanto la lista (di solito, “di partito”) ed è per

questo che si parla di “voto blindato” (o di “lista bloccata”).

Su quanto prodotto dal sistema di votazione – che potrebbe denominarsi

come “coefficiente di voto ex ante” – intervengono, poi, i meccanismi del

“sistema di assegnazione dei seggi”, permettendo di calcolare il

“coefficiente di voto ex post”.

Ad ogni modo, che la si riguardi nell’atto di produrre i propri effetti sul

sistema di votazione (“coefficiente di voto ex ante”) o su quello di

assegnazione dei seggi (“coefficiente di voto ex post”), la “valenza

intrinseca” (o, se si vuole, l’efficienza) del voto pare dipendere

principalmente dalla combinazione di due fattori:

1. un fattore di ordine “quantitativo”, dato dal numero di suffragi a

disposizione dell’elettore; e

2. un fattore di ordine “qualitativo”, consistente nelle concrete

modalità con cui è possibile, da parte dello stesso elettore, esprimere tali

suffragi.

1. Per quanto riguarda il fattore di ordine “quantitativo”, la diversa

consistenza del “paniere” di opzioni a disposizione di ogni elettore, entro

un ovvio tetto massimo, permette di distinguere tra:

1a) sistemi “a voto plurimo”: in presenza di un numero effettivo di

suffragi disponibili superiore a uno; e

1b) sistemi “a voto unico” (o “singolo”): quando si ha l’attribuzione di

un solo suffragio.

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2. Per quanto riguarda poi il fattore di ordine “qualitativo”, la

possibilità di esprimere una qualche strategia nell’ambito dei suffragi

disponibili in funzione del livello di gradimento dei candidati, autorizza la

distinzione tra “sistemi di votazione”:

2a) “preferenziali graduabili”: in cui l’elettore colloca i candidati

prescelti secondo una gerarchia valutativa (1°, 2°, 3°, …), e

2b) “preferenziali categorici”: nei quali, invece, egli può semplicemente

“spuntare” (“□”) l’oggetto della propria selezione, esprimendo di necessità

un livello di gradimento omogeneo per tutti i candidati “spuntati”.

A completamento di queste considerazioni, accanto ai due fattori già

illustrati, sembra possibile proporne un terzo, di non certamente minore

rilievo sulla latitudine della scelta degli elettori, di carattere, per così dire,

“misto”, costituito dal numero di “entità” su cui insiste simultaneamente

l’atto del voto (ad es., il suffragio rileva per l’elezione del solo candidato

o solo della lista o di entrambi? Per una sola lista o per più liste? Per un

solo corpo rappresentativo o per più d’uno?). Infatti, su questa base, può

utilmente distinguersi tra

– voto esclusivo, mirante a fornire una sola, univoca informazione di

voto (tipicamente nel caso di preferenza attribuita ad un candidato, come

nei sistemi cd. plurality); e

– voto non esclusivo (o simultaneo), con cui, invece, l’opzione di

voto finisce per avere una ricaduta plurima (per l’appunto,

simultaneamente). Così, ad es., possono ricondursi a questo secondo

ambito, in caso di voto categorico, il pooling, vale a dire il “travaso”, a

favore delle rispettive liste, delle preferenze espresse per i candidati; e il

“voto blindato”, nella misura in cui il voto dato obbligatoriamente alla lista

giova ai candidati secondo l’ordine di presentazione. Da questo punto di

vista, rispetto al “voto non esclusivo”, può immaginarsi come “l’altra

faccia della stessa medaglia” l’ipotesi del:

– cd. “voto fuso in senso stretto”, che si presenta nell’ambito dell’e-

lezione della medesima carica (segnatamente, parlamentare),

specificamente, nel caso in cui uno stesso suffragio sia dato, al contempo,

a favore di liste (di partito) e di singoli candidati (v., in particolare, il

sistema introdotto in Italia dalle legge 21 dicembre 2005, n. 270, per

l’elezione dei due rami del Parlamento nazionale).

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L’ipotesi del voto fuso in senso stretto va poi tenuta concettualmente

distinta rispetto a quella del:

– cd. “voto fuso in senso ampio”, per cui uno stesso voto vale per più

elezioni simultanee, riflettendosi, quindi, contemporaneamente sui totali di

voto di candidati che concorrono per cariche qualitativamente diverse (ad

es., Capo dello Stato e parlamentari della Camera dei rappresentanti,

nell’esperienza statunitense prima del XII emendamento del 1804).

Peraltro, val la pena, sin d’ora, di rilevare come, in tutti i casi, i fenomeni

di “fusione” del voto, mentre, sia pur variamente, riducono le probabilità

di risultati divaricati su organi diversi, non solo limitano le possibilità di

“scelte disgiunte” dell’elettore (il quale, ad es., potrebbe ben essere

intenzionato a votare per un determinato partito (rectius: per una

determinata lista di candidati) per le elezioni politiche e per il candidato di

un diverso schieramento per le elezioni presidenziali), ma, come ogni tipo

di “unificazione procedurale”, trascura le specificità intercorrenti tra un

certo sistema elettorale e tipo delle cariche in palio.

3. Segue. B) La lista dei candidati

Oltre che in base alla “struttura”, la “valenza intrinseca” del voto

dipende dalle caratteristiche della “lista dei candidati” su cui va ad

insistere. Al riguardo, è bene subito precisare che si accede qui ad una

nozione ampia di “lista”, tale, cioè, da includere qualsiasi tipo di “offerta

elettorale”, sia essa idealmente composta da:

a) tutti i soggetti eleggibili/candidabili in assenza di formali candida-

ture in una determinata elezione; oppure

b) da singole candidature concorrenti; o, ancora

c) da una pluralità di liste di candidati concorrenti anch’esse all’asse-

gnazione di seggi.

Avendo riguardo, anche qui, in primo luogo, al

1. fattore di ordine “quantitativo”, è opportuno, innanzitutto, sotto il

profilo “terminologico”, segnalare la distinzione che, sulla base del numero

di candidati inclusi nelle liste presentate agli elettori, si fa tra “scrutinio di

lista” e “scrutinio uninominale”; così, si parla di:

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1i) “scrutinio di lista”: quando nella lista (e nel collegio) possono essere

presenti/ati più candidati (da ciascuna formazione in lizza); ed invece di

1ii) “scrutinio uninominale” (o “individuale”): quando nella lista (e nel

collegio) può essere presente/ato un solo candidato (da ciascuna

formazione in lizza).

Al di là di questo, sempre in riferimento al fattore quantitativo, è

evidente – e, per certi versi, di ancora maggior rilievo – la differenza che

corre tra la situazione:

1a) in cui la scelta del votante può dispiegarsi lungo tutto l’arco degli

“eleggibili” uti singuli (cd. “lista libera”), rispetto a quelle:

1b) e 1c) in cui, come perlopiù accade, la scelta è in certo modo

preorientata solo verso chi sia presente in “elenchi” predisposti secondo le

regole per la presentazione delle candidature. E, nell’ambito della

situazione sub 1b):

1bi) il caso in cui la lista sia una componente del tutto neutrale rispetto

alla presentazione del candidato, per cui i voti (rectius: le preferenze) date

dagli elettori ai candidati vanno solo ed esclusivamente a beneficio delle

stesse candidature individuali (cd. voto esclusivo al candidato); e

1bii) il caso in cui, invece, la lista costituisca parte integrante (ovvero

“conteggiata”) ai fini dell’elezione dei singoli candidati, per cui i voti

(rectius: le preferenze) dati dagli elettori ai candidati sono attribuiti anche

ex lege alla lista nell’ambito della quale si presentano all’elezione (cd.

voto fuso in senso stretto o, a seconda dei punti di vista, simultaneo).

Ma le correlazioni tra voto e lista ancor meglio si comprendono, se si

tiene conto del:

2. fattore di ordine “qualitativo” della lista stessa, il quale porta a

constatare come la latitudine di voto dell’elettore sia calcolabile in

funzione della possibilità di spaziare nella scelta dei candidati anche

nell’ambito della più complessiva offerta elettorale. È così possibile

avvedersi di come, in genere, i metodi di voto “preferenziali” si combinino

con “liste aperte” (o flessibili), grazie alle quali l’elettore è libero di

effettuare le proprie scelte “saltellando” tra una lista e l’altra. In altri

termini, l’elettore può panacher, vale a dire, “mescolare”, nel comporre il

proprio “mosaico”, la lista prescelta con nomi di candidati di altre liste o

di candidati indipendenti (in ciò, dunque, consiste il cd. meccanismo di

panachage). Diversamente, i metodi basati sul “voto preferenziale

categorico” tendono ad innestarsi su “liste chiuse”: consentendo, sì, di

esprimere una qualche preferenza ai candidati (cd. “voto di preferenza”),

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ma, pur sempre, nell’ambito della lista prescelta. Anche se è bene, però,

subito avvertire, a quest’ultimo proposito, di come non manchino esempi

di “liste chiuse” che ammettono una preferenza per una candidatura

“esterna” alla lista prescelta (cd. “voto aggiunto”), “temperando”, così, in

qualche misura, l’inflessibilità della regola della “lista chiusa”. Ad ogni

modo, il punto di discontinuità rispetto alle “liste aperte”, è ravvisabile nel

fatto che mentre in queste ultime il “voto esterno” alla lista prescelta

costituisce la normalità, nelle “liste chiuse” essa integra una circostanza

eccezionale.

Il “voto singolo categorico non preferenziale”, dal canto suo, è

associabile a liste completamente “blindate”, in cui l’ordine di precedenza

tra i candidati compresi nella lista ai fini dell’elezione è prestabilito ed

immodificabile, sicché l’elettore non può che votare per la lista,

accettandone integralmente la graduatoria prestabilita. Ciò che ne risulta è,

pertanto, una scheda elettorale in sostanza “pre-compilata”, in cui

l’individuazione degli eletti avviene con il cd. “sistema dello scorrimento”

(vale a dire: l’elezione dei vari candidati si realizza progressivamente

secondo l‘ordine di presentazione nella lista). Non è, dunque, chi non veda

come l’ipotesi rappresenti la soglia minima al di sotto di cui, a meno di non

volersi ammettere ancora il “voto blindato di coalizione” (elargito, cioè

dall’elettore, non alla lista, ma alla coalizione di liste “preferita”), in

sistemi democratici non sembra possibile spingersi, dato che,

diversamente, si avrebbero “candidature uniche” (cd. “lista unica

blindata”), che, monopolizzando l’intera area dell’“offerta elettorale”,

finirebbero per azzerare del tutto la scelta, ovvero la valenza sostanziale e,

con essa, la libertà di suffragio dell’elettore.

[…]

5. I “sistemi di votazione” “in atto”.

[…] sulla base delle interrelazioni tra (tipo di) voto e (di) lista,

condurremo il discorso secondo la seguente traccia:

1. sistema di votazione plurimo preferenziale graduabile a

1a) voto libero razionalizzato;

1b) voto preferenziale posizionale;

1c) voto cumulativo;

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2. sistema di votazione plurimo preferenziale categorico a

2a) voto di approvazione;

2b) voto aggiunto; e

3. sistema di votazione singolo categorico a

3a) voto preferenziale simultaneo;

3b) voto preferenziale unico esclusivo;

3c) voto preferenziale disgiungibile;

3d) “voto unico blindato”.

[…]

6. Segue. 2) Il “sistema di votazione” plurimo preferenziale

categorico

A differenza dei sistemi di votazione sensibili, in varia, ma pur sempre

significativa, misura, alla valutazione “graduata” di chi vota nei confronti

dei candidati, i sistemi di votazione “plurimi preferenziali categorici”

chiamano gli elettori ad approvare o a disapprovare (secondo un modulo

di scelta di tipo “binario”: “si”/“no”), in modo (più) tranchant, le

candidature ad essi “offerte”. E se, in genere, in questi casi, la

“disapprovazione” è esprimibile semplicemente tramite la “non spunta”

(l’elettore, cioè, si limita a non apporre alcun segno in corrispondenza delle

candidature “non volute”), deve tuttavia segnalarsi come non siano

infrequenti le legislazioni (v. Norvegia, Islanda, Svizzera), che

contemplano combinatamente la possibile indicazione in “negativo” (cd.

“voto negativo”) del candidato “bocciato” (per cui, in questi casi, l’elettore

è chiamato a tracciare un vero e proprio segno di cancellatura sul

nominativo di chi vuole penalizzare), di norma, senza quantificare la

“portata negativa” del voto (altrimenti, si rientrerebbe nell’ambito dei

sistemi di votazione plurimi preferenziali graduabili).

A tale riguardo, non è senza interesse ricordare come proprio la variante

del “voto negativo” (su “liste chiuse”) sia stata sperimentata

nell’ordinamento italiano con il d.lgs.lgt. 1° gennaio 1946, n. 1, per cui,

nelle elezioni nei comuni capoluogo di provincia con oltre 30 mila abitanti,

l’elettore avrebbe potuto manifestare la preferenza per i candidati della

lista da lui votata ed effettuare nel contempo la cancellazione di alcuni di

essi (ex art. 59, comma 1). Notevole anche il fatto che la medesima

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soluzione per le elezioni politiche sia stata invece osteggiata da parte di chi

riteneva che il “voto negativo” non fosse opportuno – ed anzi, più

radicalmente, fosse inapplicabile – alle procedure elettorali.

2a) Il voto di approvazione si ha allorché al votante sia dato modo di

indicare un certo numero di candidati, “spuntando” il nome o l’apposita

casella in corrispondenza di ciascuno ed attribuendo, pertanto, ad ogni

candidato selezionato, una preferenza di medesimo “peso”.

A dispetto della sua duttilità e del fatto che nel nostro Paese è stato –

insieme al voto singolo categorico preferenziale – il tipo di voto più a

lungo utilizzato, le sue potenzialità sono state esplorate anche da noi solo

in tempi relativamente recenti (a partire dagli anni Ottanta).

2b) Il voto aggiunto (la cui paternità è disputata tra il danese Carl George

Andrae e il britannico Thomas Hare, a far data dalla metà del XIX secolo)

costituisce, in certo qual modo, un’ibridazione dell’ultima variante

esaminata. Esso, infatti, di quello conserva una certa consistenza del

paniere di voti, in quanto dà modo all’elettore di distribuire le preferenze

tra i nomi dei candidati della lista votata, caratterizzandosi, però, per il fatto

di consentire, in alternativa, allo stesso elettore di trarre uno o più nomi, a

seconda della consistenza del collegio, da altre liste (cd. panachage). Detto

altrimenti, in vigenza del voto aggiunto l’elettore ha la facoltà di

aggiungere nomi di (e quindi di esprimere voti per) candidati non

appartenenti alla lista prescelta (in genere in numero di 1, da cui la

denominazione).

7. Segue. 3) Il “sistema di votazione” singolo categorico

Il sistema di votazione singolo categorico è tra i più diffusi (se non in

assoluto il più praticato) soprattutto in ambito europeo, dove si è imposto

in modo pressoché contestuale all’introduzione dei sistemi di assegnazione

dei seggi d’indole proporzionalista ed in stretta corrispondenza

coll’estensione del suffragio, all’insegna del principio di eguaglianza del

voto individuale (come rivela, del resto, la nota espressione “one man, one

vote”). Peraltro, è opportuno immediatamente avvedersi di come, nel suo

seno, siano presenti due fondamentali varianti, al cui interno è possibile,

poi, enucleare altri sottotipi di votazione, vale a dire

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– la variante maggiormente attenta a garantire all’elettore anche

l’espressione di una preferenza nei confronti di un determinato

candidato (cd. “voto unico a singola preferenza”), nel cui ambito può

ulteriormente distinguersi tra:

3a) voto preferenziale simultaneo;

3b) voto preferenziale unico esclusivo;

3c) voto preferenziale disgiungibile; e

– la variante propensa, invece, ad affidare il reclutamento politico

esclusivamente alle parti politiche in competizione (cd. “voto unico

senza preferenze”), tramite:

3d) “voto unico blindato”.

3a) Nel caso del “voto unico a singola preferenza” (altrimenti

denominato “voto di tipo belga” dall’ordinamento in cui ha avuto la sua

prima sperimentazione e dove ad esso è tuttora riservata una particolare

collocazione in Costituzione), l’elettore dispone di due distinti suffragi:

i) il voto di lista, che, secondo tale variante, non può mai mancare (e

che, a differenza delle forme di voto precedentemente incontrate, può

esercitarsi solo su elenchi di candidati già predisposti dai gruppi di

presentatori (cd. “liste chiuse”); ed ii) il voto di preferenza, che è in facoltà

del votante di attribuire o me-

no ad un candidato, appartenente, comunque, alla lista prescelta.

Si ha dunque il “voto doppio simultaneo a preferenza singola

categorica” solo quando (come nel caso della legislazione belga del 1929)

l’elettore, esprimendo, se lo ritiene, al posto del voto di lista, la sua (unica

possibile) preferenza per un candidato di una lista, si veda convertita, tale

preferenza, ope legis, anche in un voto a tale lista. A seconda, poi, del

numero di candidature “beneficiate” da uno stesso voto (cd. “voto fuso”),

è possibile distinguere forme anche ulteriori (ad es. “triplici”: candidato

alla presidenza – lista di partito – candidato in assemblea) di voto

preferenziale categorico simultaneo.

3b) Sembra evidente la distanza che separa questo tipo di sistema di

votazione rispetto al voto preferenziale unico esclusivo, dato che, a

differenza di quello, in vigenza di questo, rilevano solo ed esclusivamente

le preferenze date ai candidati (a beneficio di un’incidenza diretta del

voto), senza che avvenga alcun travaso “preferenziale” (il cd. pooling già

menzionato) a favore di “ulteriori entità” (con conseguente

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“affievolimento”, in questi casi, della valenza del voto individuale, il cui

grado di incidenza sull’esito dell’elezione risulta, per ragioni intuibili,

depotenziato ad ogni passaggio). Si tratta del voto praticato, ad es., in

territorio finlandese, dove, nell’ambito di un sistema elettorale di tipo

proporzionale risultano eletti i candidati che hanno ottenuto il maggior

numero di voti nell’ambito della singola lista, in numero corrispondente a

quello dei seggi effettivamente spettanti a detta lista nella singola

circoscrizione.

Ancora diversa, poi, è l’ipotesi di:

3c) voto preferenziale disgiunto (o “disgiungibile”): consistente,

all’opposto (rispetto al voto simultaneo), in due voti veri e propri,

consentendosi, analogamente al “voto aggiunto”, di votare in modo, per

l’appunto, “diviso” tra liste e candidati preferiti, con la differenza, però,

rispetto al voto aggiunto, che mentre lì il voto viene comunque dato a

candidati per la medesima carica (parlamentare), qui si ha a che fare con

candidature a cariche diverse (ad es., alla carica di sindaco e di consigliere

comunale nei comuni italiani superiori a 15 mila abitanti, e alla carica di

presidente della regione e a quella di consigliere regionale nel sistema di

cui alla legge n. 43 del 1995).

Tenuto conto di quanto si è detto, si avvicina più alla logica del voto

simultaneo, che non a quella che soggiace al “voto diviso”, l’ipotesi del:

3d) “voto unico blindato”, introdotto, tra le prime volte, per l’elezione

della Camera belga alla fine del XIX secolo, in vigenza del quale

all’elettore è consentito soltanto di dare il proprio voto ad una lista di

candidati nell’ordine di presentazione delle candidature prefissato, senza

poter esprimere valutazione alcuna nei confronti di singoli candidati, ma

dimostrando di accettare – ed auspicabilmente di condividere – la scelta

compiuta “a monte” da chi ha in mano la “regìa” della composizione delle

liste dei candidati (verosimilmente, i capi di partito).

In quest’ordine di idee, non possono incidentalmente sottacersi, però,

talune condizioni razionali perché possa veramente dirsi almeno

potenzialmente operante una tale “condivisione”, riassumibili:

i) nella conoscibilità della struttura della lista; e ii)

nella stabilità della medesima struttura.

Per quanto riguarda i), è difficile, peraltro, sostenere che vi concorra

efficacemente qualsiasi modalità di collegamento tra scheda e lista operata

ob relationem, quale esemplarmente si ritrovava nella legislazione

elettorale italiana introdotta dalla già menzionata legge n. 270 del 2005,

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14 Lara Trucco

che affidava solo all’affissione di due esemplari del manifesto elettorale

nei locali di voto e all’affissione murale del medesimo l’informazione in

proposito (ex art. 24, comma 1, n. 5, d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361). Si noti,

peraltro, come tale opinabile tecnica costituisca, al contempo, causa ed

effetto della scelta del legislatore italiano di configurare una selezione dei

candidati fondata sulla competizione tra liste elettorali concorrenti, oltre

che “bloccate”, anche “lunghe” (cd. “liste lenzuola”), derivandone, non

solo la difficoltà per gli elettori di riuscire persino a conoscere l’identità

dei candidati della lista che sono chiamati ad “accettare”, ma anche e più

in generale, un elemento di forte deresponsabilizzazione della

rappresentanza politica, che per questa strada può finire per smarrire ogni

sorta di “ancoraggio” con la propria base elettorale.

Circa la condizione sub ii), rileva, invece, il fenomeno presentatosi, tra

le prime volte, nell’ordinamento francese ed in cui oggi è, invece, vietato,

ai sensi dell’art. 156 del Code électoral), divenuto, poi, squisitamente

nostrano (ex art. 19, del d.P.R. n. 361 del 1957, ed ex art. 8 del d.lgs. n. 533

del 1993), in base al quale, essendo ammesse le cd. “candidature multiple”,

vale a dire la presentazione dei medesimi candidati in più circoscrizioni

(ed anche in tutte), l’elettore è chiamato a votare per liste destinate spesso

a “mutare fisionomia” all’indomani delle elezioni in conseguenza

dell’opzione che i candidati plurieletti (ossia eletti in più collegi

nell’ambito della medesima elezione) devono esercitare tra i seggi delle

diverse circoscrizioni, coll’indicare quello effettivamente acquisito,

finendo così per determinare – del tutto arbitrariamente, ovvero nella

pressoché totale mancanza di controllo da parte degli stessi elettori – il

destino di altri candidati, a cui non rimane che sperare di essere “ripescati”.

Diversamente, un qualche “recupero” del rapporto tra elettore ed eletto

può aversi – in vigenza di liste blindate – in quegli ordinamenti che, come

quello spagnolo adottano (per le elezioni politiche) un modello di lista

bloccata “breve” (cd. “liste corte”), innestandola su circoscrizioni elettorali

di limitate dimensioni, mettendo così l’elettore nella condizione,

comunque, di poter “personalizzare”, in qualche modo, il proprio voto.

Per ancora diverso profilo, poi, può pensarsi che un rimedio alla

capacità di incidenza degli elettori (persa pur sempre a causa della

blindatura delle liste), nella selezione finale degli eletti, possa aversi nei

casi in cui i consociati siano messi nelle condizioni – ad es., tramite

elezioni primarie – di far valere la loro opinione circa la scelta delle

candidature e, ancor meglio, la loro collocazione nell’ambito delle liste. Al

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Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 15

di là delle difficoltà tecniche di tale soluzione, dirimente è che ciò avvenga

in maniera – a sua volta! – “democratica”: diversamente, infatti, non vi è

nessuna garanzia sulla sussistenza di un sufficiente grado di libertà della

partecipazione individuale alla vita del partito, ed, in particolare, circa il

fatto che le scelte, anche e soprattutto in punto di reclutamento delle

candidature, siano compiute dagli stessi partiti politici in modo trasparente

e corretto. Soprattutto (e più in generale), in questi casi diviene concreto il

rischio che proprio in ragione dello scarso ruolo attribuito ai votanti, ogni

tipo di “chiamata alle urne” si riveli una sorta di “delega in bianco”

richiesta agli elettori destinati a “ratificare” decisioni in gran parte

compiute “altrove”, secondo paradigmi plebiscitari inconciliabili col

principio di un’autentica sovranità popolare.

8. Formato circoscrizionale e concezione territoriale/per corpi

sociali della rappresentanza politica

Passati in rassegna i principali sistemi di votazione, deve ora rilevarsi

come tra gli elementi di cui si compongono i sistemi elettorali idonei a

conformare la capacità d’incidenza del tipo di voto in dotazione agli

elettori vi sia il formato circoscrizionale. Ciò, in ragione della capacità di

tale componente di dispiegare effetti di rilievo:

– non solo nel momento in cui, in vista della traduzione dei voti in

seggi, sugli stessi viene applicata la cd. “formula elettorale”, quindi, dopo

che gli elettori hanno votato (cd. fase ex post);

– ma anche ed ancor prima, sul versante del sistema di votazione

(pro-filo di cui ci occupiamo ora), vale a dire quando gli elettori devono

ancora votare (cd. fase ex ante).

9. Le tecniche di apportionment del formato circoscrizionale: il

“criterio demografico”. I parametri I) quantitativi

[…] Nei collegi uninominali viene assegnato un solo seggio, mentre, nei

collegi plurinominali, più di uno. Queste due nozioni non vanno confuse

con quelle di “collegio unico” e di “collegi plurimi” (o “pluricollegialità”),

che indicano, rispettivamente, che il sistema di elezione si struttura in (e

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16 Lara Trucco

funziona con) un solo collegio elettorale o, invece (come di norma accade)

sulla base di un certo numero di collegi elettorali (che, pertanto, a loro

volta, possono essere uninominali o, a seconda dei casi, plurinominali).

Il numero di seggi complessivo in palio nel collegio elettorale viene

denominato “magnitudine” (o “magnitudo”) del collegio.

Venendo, dunque, ora, ad esaminare le tecniche di ritaglio di collegi e

circoscrizioni (cd. apportionment), diciamo così, in “chiave moderna”, è

opportuno, in via del tutto preliminare, rilevare come sebbene l’esperienza

storica e comparata dimostri che ogni modalità di apportionment si ispiri

ad un qualche valore ed anche per questo non possa dirsi del tutto estraneo

al conseguimento di un qualche fine politico (nel senso più nobile del

termine), “il criterio” che si rivela maggiormente “neutrale”, in quanto

tendenzialmente oggettivo, sia il già accennato criterio demografico (che,

non a caso, è stato indicato quale “strada maestra”, ad es., dalla Corte

Suprema americana e dal Consiglio costituzionale francese). Il “criterio

demografico”, a sua volta, si rifà ad una serie di

[…]

In tal senso, si noti, va anche la scelta del nostro legislatore: del resto,

già in seno alla Costituente fu prestata attenzione al fatto che si sarebbe

dovuto tenere presente l’ammontare della “popolazione del Paese in

45.000.000 di abitanti”, corrispondente, appunto, al numero di cittadini

residenti. All’indomani, poi, della modifica apportata al disposto

costituzionale nel 1963 il richiamo al numero di abitanti, “quale risulta

dall’ultimo censimento generale della popolazione” (ex art. 56 Cost.) ha

sortito l’effetto di legare strettamente le sorti del criterio demografico ai

risultati del censimento in ordine alla “popolazione legale” (v., al

proposito, da ultimo, il d.P.R. 6 novembre 2012, Determinazione della

popolazione legale della Repubblica in base al 15° censimento generale

della popolazione e delle abitazioni del 9 ottobre 2011).

10. Segue. Il principio di distribuzione proporzionale dei seggi fra

le circoscrizioni: il “quoziente di rappresentanza”

Le osservazioni fin qui condotte non hanno, a ben vedere, presupposto

necessariamente l’articolazione del territorio interessato in una pluralità di

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Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 17

collegi (cd. “pluricollegialità”), dato che si è fissata l’attenzione solo su

taluni parametri di rappresentanza rilevanti ai fini, in particolare, del

disegno delle circoscrizioni. A tale proposito, significativo è il fatto per cui

un’ipotetica configurazione dell’ordinamento come collegio unico

semplificherebbe di molto le cose, dato che, in tal caso, non si porrebbe

nemmeno il problema del “buon disegno dei collegi elettorali”. E, d’altra

parte, ci si dovrebbe limitare a calcolare il numero degli eleggibili che

comparirebbero nella, sempre ipotetica, lista unica nazionale da cui gli

elettori trarrebbero le loro preferenze (si immagini, ad es., cosa accadrebbe,

se il nostro Paese, per le elezioni politiche, fosse costituito in un solo

collegio unico nazionale – invece che essere suddiviso, ex artt. 56 e 57

Cost. in varie circoscrizioni).

Ora, l’esperienza offre qualche esempio di situazioni consimili, ma non

perfettamente omologabili, quali quelle che si sono avute nei Paesi Bassi e

in Israele (ordinamenti, non a caso, di dimensioni assai ridotte), laddove

può, invece, in generale, osservarsi come l’idea di “collegio unico” abbia

piuttosto svolto un ruolo culturale, di pari passo col progressivo emergere

(ed, anzi, contribuendo all’imporsi) dello Stato moderno: collegandosi

all’idea dell’esistenza di una “più alta” “rappresentanza statale” in cui si

sarebbero potuti identificare tutti i consociati, contribuendo così a

consolidare lo spirito di appartenenza all’entità statuale stessa.

Tuttavia, l’osservazione storica e comparata fornisce la prova che sia

stata un’articolazione più o meno complessa degli ordinamenti in collegi

la soluzione assolutamente prevalente. Può, anzi, ipotizzarsi un

rafforzamento di tale tendenza a motivo della crescente complessità

rappresentativa (e, al contempo, decisionale) che connota la società attuale,

sia che si abbracci l’idea di seguire la strada della cd. “democrazia

territoriale”, sia che si coltivi lo sviluppo della cd. “democrazia

individuale”, sia, ancora, che si rivalutino forme di “rappresentanza

corporativistico-funzionale” (intesa, questa, val la pena di precisare, come

la rappresentanza di particolari “porzioni” di società, legate da specifici

interessi, e/o ideologie).

In quest’ottica, un accentuato principio di “pluralità circoscrizionale”

(cd. pluricollegialità) sembra, dunque, allo stato, ispirare qualsiasi

processo di recupero di una rappresentanza più personalizzata. Deve, però,

immediatamente osservarsi come questa stessa “strada” non sia priva di

implicazioni rischiose ai fini dell’identificazione del livello ottimale di

rappresentanza. È indubbio, infatti, che essa possa garantire che ogni

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18 Lara Trucco

singola porzione di territorio abbia una qualche rappresentanza in

assemblea (cosa che potrebbe non accadere in presenza di “collegi unici”),

dato che in linea di massima può dirsi che ad ogni collegio corrisponde

l’assegnazione di almeno un mandato rappresentativo. Questa stessa

“frammentazione” territoriale, però, mentre, da un punto di vista

“simbolico”, può infrangere il senso dell’esito dell’elezione come

espressione di un’autentica ed unitaria manifestazione di “volontà

dell’intera popolazione” (riducendola a mera espressione di tanti “voleri”

locali ed al limite “individuali”), da un punto di vista oggettivo comporta

il rischio che, a seconda di come venga concepito il formato

circoscrizionale, si producano discrepanze anche molto forti sul “peso” del

voto ex ante. È, infatti, questione d’immediata intuizione come

l’assegnazione di un pari numero di seggi a collegi demograficamente

disomogenei, o, viceversa, di un numero di seggi diseguale a collegi

demograficamente equivalenti, avvantaggi (gli elettori di) alcuni collegi a

scapito di altri – segnatamente, quelli dotati di un maggior numero di seggi

in rapporto al parametro demografico che li contraddistingue –,

producendo quel fenomeno meglio noto come malapportionment

(appunto, “cattiva suddivisione” delle circoscrizioni).

Va da sé, pertanto, che un disegno dei collegi che intenda realizzare,

almeno ex ante, un’equa suddivisione del formato circoscrizionale, debba

operare nel senso di ripartire i seggi in palio con criterio proporzionale alla

misura dell’indice demografico prescelto (cd. “formula proporzionale per

la distribuzione dei seggi fra le circoscrizioni”).

In vista, dunque, di operare un simile tipo di riparto, gli elementi

rilevanti per l’assegnazione dei seggi, sotto un profilo tecnico, risultano

precisamente quattro:

1. il totale demografico ordinamentale;

2. il totale dei seggi dell’eligenda assemblea;

3. il parziale demografico di ogni singolo collegio;

4. la quota dei seggi da attribuirsi ad ogni singolo collegio.

Ciò posto, la regola di “buon riparto” esige, come già accennato, che ad

ogni collegio spetti una quota del totale dei seggi su base ordinamentale

proporzionalmente rapportata alla consistenza del corrispondente parziale

demografico. Il che, tecnicamente, comporta che:

1) Tot. Demografico : 2) Tot. seggi (Assemblea) =

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Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 19

3) Parz. Demografico : 4) Quota seggi collegio

Si noti che al primo membro di tale proporzione, uno od entrambi i

fattori possono essere già precostituiti, a seconda che, rispettivamente, il

totale dei seggi in palio sub 2) sia o no ancora da calcolare, dandosi così

luogo a due soluzioni organizzative elettorali diverse, cioè: A) “a

composizione dell’assemblea variabile”; e

B) “a composizione dell’assemblea fissa”.

Nel primo caso, il calcolo è svolto sulla base del seguente rapporto:

2) Tot. seggi (Assemblea) =

[1) Tot. demografico : 4) Quota seggi collegio] : 3) Parz. demografico

La soluzione sub A) fu, com’è noto, quella adottata in Assemblea

costituente (e per l’elezione della stessa), allorché si stabilì che la Camera

dei deputati sarebbe dovuta essere eletta “in ragione di un deputato per

ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila” (art. 56,

comma 1, Cost.); e, analogamente, che a “ciascuna Regione fosse attribuito

un senatore per duecentomila abitanti o per frazione superiore a centomila”

(art. 57, comma 2, Cost.). Tale soluzione (detta anche Oltralpe “répartition

par tranches”), grazie alla sua flessibilità, potrebbe dirsi la più adeguata

nel perseguire, nonostante eventuali incrementi demografici, l’obiettivo di

garantire sia l’eguale valenza di voto in tutti i collegi, sia (ed è, forse, quello

che maggiormente importa) una costante caratura del voto rispetto al

seggio. Tuttavia, tale regola pone non trascurabili problemi già all’atto di

fissare la misura del rapporto frazionario, com’ebbe a dimostrare l’acceso

confronto che si svolse sul tema in seno alla Commissione per la

Costituzione, tra chi era favorevole all’abbassamento dell’aliquota (fissata

dal Comitato di redazione a “centomila o frazione superiore a

cinquantamila abitanti”) per la Camera dei Deputati, ritenendo che la

diminuzione del numero di rappresentanti (dovuta ad una aliquota elevata)

si sarebbe risolta, in ultima analisi, in una diminuzione dell’“autorità” (in

termini di legittimazione) dell’organo rappresentativo e chi, invece,

all’opposto, ne propose l’innalzamento, dichiarandosi nettamente contrario

all’aumento del numero dei Deputati, essendo preferibile che i legislatori

“siano buoni” e non che “siano tanti” ...

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20 Lara Trucco

Successivamente, sulle ragioni della “rappresentatività” dell’organo

dettate dall’esigenza di garantire la massima fedeltà di riproduzione della

struttura democratica in seno all’Assemblea Legislativa ebbero la meglio

motivazioni di ordine strettamente funzionale, fondate sul convincimento

che il rendimento dell’organo rappresentativo non fosse da valutarsi in

senso “quantitativo” (con la garanzia di un rapporto numericamente più

prossimo tra rappresentanti e rappresentati) ma, piuttosto, in senso

“qualitativo” (col tenere vivo un legame efficiente). Soprattutto, fu il

“boom demografico” degli anni Cinquanta a rendere urgente l’esigenza di

evitare un’ipertrofia di Camera e Senato, onde evitare che il costante

incremento dell’assemblea rappresentativa finisse per rendere difficile

(fino al punto da compromettere) il funzionamento dell’organo

parlamentare.

La soluzione organizzativa sub B) avrebbe pertanto finito con l’imporsi

grazie alla legge cost. n. 2 del 9 febbraio 1963, che introdusse l’attuale

sistema “a composizione dell’assemblea fissa”, in cui, cioè, il rapporto tra

“Totale demografico” sub 1) e Totale seggi (Assemblea) sub 2) resta

fissato una volta per tutte (cd. “quoziente fisso”) da norme di rango

costituzionale. Così, nell’occasione, fu stabilito, come si legge nel vigente

testo costituzionale, che le due Camere avrebbero dovuto avere,

rispettivamente, seicentotrenta deputati e trecentoquindici senatori, e che

la ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni sarebbe dovuta avvenire, per

la Camera, “dividendo il numero degli abitanti della Repubblica (…) per

seicentodiciotto e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di

ogni circoscrizione” (ex art. 56) e, al Senato, “in proporzione alla

popolazione delle Regioni” (ex art. 57).

Comunque sia, va notato che entrambe le soluzioni, sub A) e sub B),

lasciano impregiudicato il problema dei resti, ritenuto peraltro “congenito”

e “virtualmente ineliminabile”, quando si voglia “mettere in proporzione”

tra loro valori che, sotto il profilo matematico, non sono multipli e divisori

reciproci. Su tale questione avremo modo di tornare quando ci occuperemo

dei vari tipi di formule proporzionali: basti per ora rilevare come proprio

l’impossibilità di risolvere in via definitiva tale problema avesse portato i

Padri costituenti a prevedere la possibilità di comporre Camera e Senato,

eventualmente, in ragione di un deputato per “frazione superiore a

quarantamila ” (ex art. 56, comma 1, Cost.), e di un senatore “per frazione

superiore a centomila” (ex art. 57, comma 2 Cost.). Invece, da parte dei

fautori della predetta riforma costituzionale, al fine di assegnare comunque

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Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 21

tutti i seggi in palio, venne adottata la regola “di chiusura” ampiamente

utilizzata dalle legislazioni elettorali, che attribuisce i seggi ancora

eventualmente rimasti scoperti ai collegi che presentino i “più alti resti” (v.

gli artt. 56 e 57 Cost. italiana).

Tornando, per concludere sul punto, sulla linea principale del discorso,

vorremmo nuovamente (ora, però, in modo più tecnico) rimarcare come,

in tutti i casi, il principio di eguale “valenza intrinseca” ex ante del

suffragio richieda che, nei vari collegi elettorali, risulti un rapporto

tendenzialmente analogo (se non proprio del tutto identico: cosa

praticamente impossibile in presenza di una pluricollegialità accentuata)

tra il numero di seggi attribuiti al collegio stesso (cd. “magnitudo”) e il

parametro rappresentativo utilizzato per la suddivisione del formato

circoscrizionale (ovvero, come s’è visto, a seconda dei casi, il numero di:

a) abitanti; b) residenti; c) cittadini, e, può sin d’ora aggiungersi, di d)

elettori iscritti).

Elemento centrale di questa “prova del nove” è il cd. “quoziente di

rappresentanza”, calcolabile secondo la formula: Qrapp. = n. seggi

parziale/parziale demografico.

Detto ancora altrimenti, non deve esservi una differenza eccessiva tra i

quozienti di rappresentanza dei vari collegi così calcolati, tale, cioè, da

superare il limite massimo tollerato (cd. “limite di scostamento

dimensionale”).

La presenza, infatti, di differenze ragguardevoli (in genere rispetto ad

un valore medio comune a tutte le circoscrizioni, ma un tale “tetto

massimo” potrebbe anche essere stabilito in modo più sofisticato) tra i

quozienti di rappresentanza nei vari collegi elettorali è sintomo, già prima

che sul voto individuale intervengano i meccanismi di assegnazione dei

seggi legati alla formula elettorale, di “un diverso peso” del voto stesso (ex

ante), ovvero di una differente capacità di incidenza sull’esito dell’elezione

tra gli elettori, a seconda della circoscrizione in cui votano (così, ad es., se

ad un collegio di 100 abitanti sono assegnati 10 seggi e un egual numero

di seggi è attribuito ad un altro collegio di 1.000 abitanti, il quoziente di

rappresentanza è pari, nel primo caso, a (10/100 =) 0,1 e, nel secondo, a

(10/1.000 =) 0,01: ciò significa che il voto dato nel primo collegio vale 10

volte quello dato nel secondo; laddove una ripartizione dei seggi “equa”

necessiterebbe di vedere attribuiti o al primo collegio un solo seggio (ed

infatti: 1/100 = 0,01 ottenendosi, con ciò, un quoziente di rappresentanza

equivalente a quello del secondo collegio); o al secondo collegio 100 seggi

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22 Lara Trucco

(dato che 100/1000 = 0,1 ovvero, un quoziente di rappresentanza analogo

a quello del primo collegio).

[…]

14. Il disegno fraudolento dei collegi

Il c.d “gerrymandering” – termine curioso, derivante dalla

combinazione delle parole “Gerry”, nome (Elbridge Gerry) del

Governatore americano dello Stato del Massachusetts, che lo praticò

magistralmente, nel 1812, al fine di garantirsi facilmente la rielezione, e

“salamander”: per il fatto che il disegno dei collegi da questi effettuato

presentava dei contorni talmente “tortuosi” da far loro assumere l’aspetto

di salamandre (!) –, consiste nel disegno deliberatamente fraudolento dei

collegi elettorali, al fine di favorire (conoscendo le tendenze di voto delle

varie “zone elettorali”) determinate candidature a scapito di altre.

Il gerrymandering costituisce indubbiamente uno degli “abusi”

elettorali più subdoli sia sul i) piano giuridico, sia su quello ii) socio-

politico.

Quanto al versante i), infatti, è bene subito chiarire che il “perfetto”

gerrymandering non è associabile a malapportionment, potendosi

innestare, anzi, nell’ambito di collegi scrupolosamente well apportioned.

Ciò finisce per renderne, sul piano formale, difficilmente denunziabile e

censurabile la sussistenza, anche se non sono mancate pronunce in cui i

giudici (v. ad es., Corte Suprema americana, Davis v. Bandemer del 1986)

hanno mostrato di volersi lasciare aperta la verifica di tale tipo di abuso,

attraverso l’eventuale riscontro di un “eccesso di potere” e/o della volontà

di compiere una “frode elettorale”.

Quanto, poi, al versante sub ii), deve rimarcarsi come il gerrymandering

presuma la conoscenza delle intenzioni di voto dei votanti nelle diverse

zone (rivelandosi, invece, più incerto in presenza di elettorati “fluidi”),

facendo conto su una certa tendenza all’inerzia sul lato della domanda

elettorale, corresponsabile, si potrebbe dire, in questo senso, di alimentare

l’“abuso di posizione dominante” della parte politica al potere. Su questa

base l’obiettivo può, di volta in volta”, essere quello di:

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Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 23

– “valorizzare” l’elettorato di un determinato colore politico: cd.

affermative gerrymandering”; oppure di

– penalizzare l’elettorato di un determinato colore politico: cd.

“negative gerrymandering” (o “gerrymandering per diluizione”); o,

ancora,

– render stabile una certa situazione: “silent gerrymandering” (o

“sta-

tus quo gerrymandering”).

È evidente che questo tipo di operazione, in una qualunque delle sue

varianti, risulta più “efficace” in presenza di collegi uninominali, la resa

dei cui meccanismi elettorali è più immediata ed agevole da gestire.

Più in generale, pur non potendosi del tutto escludere la sua pratica

anche in altri sistemi, il gerrymandering sembra presentare, in queste sue

varie forme, più alte probabilità di successo con sistemi elettorali “lineari”

vuoi sul versante del “sistema di votazione” (voto singolo categorico o,

comunque, sistemi che valorizzano le prime preferenze nell’ambito di liste

chiuse), vuoi sul versante del sistema di assegnazione dei seggi (collegi a

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24 Lara Trucco

bassa magnitudine). In senso diametralmente opposto, esso risulta (quanto

meno) ostacolato dall’aumento dei seggi in palio, nonché, più in generale,

di pari passo al complicarsi del sistema elettorale, diventando,

corrispondentemente, più difficoltoso calcolare in anticipo l’esito del voto.

15. Il conteggio delle “preferenze” elettorali individuali e la loro

trasformazione in “voti”

Esaurito, in linea di massima, l’esame del profilo ex ante della

procedura elettorale (della fase, cioè, lo si ripete, che precede l’espressione

del voto individuale), immaginando ora che gli elettori si siano recati alle

urne ed abbiano compiuto la propria scelta (cd. fase di votazione), prima

di addentraci nell’analisi dei vari sistemi di assegnazione dei seggi, è

opportuno dedicare una certa attenzione ai profili concernenti la

contabilizzazione delle preferenze individuali, in quanto si tratta, nella

sostanza, di quel passaggio della procedura elettorale (cd. “di conteggio”)

che interviene immediatamente dopo l’esaurimento della fase di votazione

in ambito circoscrizionale. Nella fase di conteggio, infatti, prendono forma

le cifre elettorali, ossia le preferenze collettive “rilevanti”, destinate

successivamente a divenire “scelta collettiva” grazie all’impiego della

formula elettorale, ossia dell’algoritmo impiegato per la trasformazione dei

voti contabilizzati in seggi.

Trattasi di una fase di estrema delicatezza e decisività sotto svariati

profili (sicurezza, correttezza, libertà dello scrutinio, ecc.), ma che qui

viene in considerazione sotto quello puramente tecnico del metodo di

conteggio, il rispetto delle cui regole è condizione di validità della

complessiva elezione, non meno del rispetto di quelle che assistono

l’espressione dei suffragi. Non ci si sorprende, pertanto, se, nei diversi

contesti ordinamentali, sono allestite adeguate procedure di garanzia,

sottoposte, a loro volta, alla vigilanza e al riscontro di organi “super

partes”. E nemmeno se questo stesso profilo ha assunto livelli di grande

delicatezza con specifico riguardo al nostro ordinamento, in ordine alla

scelta, talvolta compiuta, di autorizzare in vario modo il conteggio in via

automatizzata dei voti “a livello centrale” (cd. “cervellone elettronico”),

considerate le incognite che il più generale “voto elettronico”, allo stato,

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Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 25

specie nelle sue forme tecnologicamente più avanzate, ancora presenta, sul

versante della segretezza e della genuinità del suffragio.

Del resto, si ribadisce come una contabilità esatta in tale fase

prodromica sia il presupposto imprescindibile per la successiva corretta

applicazione della formula elettorale, a cominciare, come vedremo tra

breve, dalla questione degli eventuali quorum strutturali. Esattezza

contabile che, peraltro, rinvia ad aspetti ancora più generali, quali la

formazione e la tenuta dei registri elettorali, la certa identificazione dei

votanti, e, ancora più in radice, gli accertamenti demografici per la

formazione e la tenuta dei registri della popolazione: profili, tuttavia,

questi, che non sono qui oggetto di diretta considerazione, ma di cui è

indiscutibile l’importanza non solo giuridica e istituzionale, ma anche

politica e di (mal)costume (si pensi ai cd. “elettori fantasma”, ossia gli

elettori deceduti, ma non depennati dalle liste elettorali).

16. Il quorum (strutturale) dei votanti

Tra le questioni di maggior delicatezza e rilievo, attinenti (anche) al

conteggio, vi è quella concernente la qualificazione dei diversi

comportamenti tenuti dall’elettore, quali la mancata partecipazione al voto

(cd. astensionismo elettorale: involontario per impedimento, o per apatia

politica, o, ancora, per protesta …) o la partecipazione, che abbia dato,

però, luogo a differenti criticità (scheda in bianco, invalidità della scheda

o voto contestato) o che, invece, come fortunatamente perlopiù accade,

vada senza intoppi a buon fine.

Con apparente paradosso (se si pensa alla posta in gioco), non

costituiscono la maggioranza gli ordinamenti che (analogamente, per certi

versi, a quelli, per le elezioni politiche, italiano del XIX secolo e francese

attuale; nonché, ancora, italiano, per l’elezione dei consigli dei comuni

“più piccoli”, “ove sia stata ammessa e votata una sola lista”), ai fini della

validità dell’elezione, richiedono che alle procedure di voto abbia preso

parte un certo numero di “elettori” (cd. “quorum – strutturale – dei

votanti”), a garanzia della condivisione dell’iter che conduce al risultato

elettorale della comunità politica di riferimento ed, in fondo, della stessa

autorevolezza e credibilità dell’elezione. Più vasto è, infatti, l’assolvimento

del quorum – in contesti s’intende, dove sia garantita la libertà di voto – e

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26 Lara Trucco

maggiore è la persuasione che alla scelta abbia contribuito la più ampia

“volontà generale”, mentre più è basso, più elevato è il rischio che la scelta,

presa da pochi, non rappresenti la volontà di tutti, fino a potersi proporre il

cd. “paradosso dell’uno determinante”, per cui, in linea teorica, anche un

solo votante potrebbe essere decisivo ai fini dell’elezione …

Al di là, comunque, dell’eventuale presenza di un quorum, il calcolo dei

votanti è prodromico ed imprescindibile non solo in termini di

legittimazione dell’elezione, ma anche per l’espletamento delle ulteriori

procedure elettorali in vista della contabilizzazione dei “voti validi” (v. ad

es., Corte EDU, caso Paschalidis, Koutmeridis e Zaharakis c. Grèce). A

tale riguardo, mentre, in genere, nel calcolo “dei votanti”, vengono

contabilizzate sia le “schede bianche”, sia quelle invalide (anche perché

l’accertamento del numero dei votanti è un’operazione preliminare allo

scrutinio), invece, nel computo dei “voti validi” le seconde vengono

(ovviamente) escluse. Va peraltro notato come tali operazioni, anche

quando non siano rilevanti ai fini di un quorum strutturale, presentino,

comunque, aspetti assai delicati, dato che una loro non perspicua gestione

potrebbe ingenerare (talvolta strumentali) confusioni circa i dati statistici

della partecipazione al voto. Al proposito, di un certo spessore si è

dimostrato, in Italia, il problema della contabilizzazione delle schede

bianche, data la laconicità della normativa sul punto (art. 67 e ss. del d.P.R.

n. 361 del 1957).

Ad ogni modo, una volta determinato il numero totale dei voti validi, il

passaggio successivo concerne la distribuzione di tali voti tra le liste o i

candidati in competizione ai fini dell’attribuzione dei seggi.

A tale riguardo, una significativa variabile – che dev’essere

prevista/consentita dalla normativa elettorale – è data dalla necessità di

prendere eventualmente in conto i “collegamenti” (“apparentamenti” in

presenza di sistemi proporzionali, e “cartelli” con sistemi maggioritari) sia

tra le liste, sia tra i candidati (unioni di candidati).

Il fenomeno dei collegamenti si produce, in linea di massima, allorché

a liste o a candidati espressione di raggruppamenti eterogenei sia

consentito di formare ufficialmente “coalizioni” al fine di assommare a

proprio vantaggio i voti singolarmente ottenuti. Si noti, dunque, che se,

sotto un profilo spiccatamente “politico”, la nozione di “coalizione”

presuppone, per avere un senso, una qualche intesa duratura su di un

congruo ventaglio di temi, da un punto di vista meramente “contabile”, è

comunque tale qualsiasi accordo (cd. “struttura delle alleanze”) stipulato

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Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 27

anche soltanto a fini elettorali (a meno che la normativa non preveda delle

condizioni più rigorose su tale specifico punto). In ogni caso, in vigenza di

collegamenti tra liste, sulla scheda elettorale compare sia il simbolo della

lista, sia quello della coalizione a cui essa aderisce (v., ad es., il sistema

elettorale italiano, introdotto dalla legge n. 270 del 2005 sia per le elezioni

della Camera, sia per quelle del Senato). Con ciò, si produce, dunque, non

solo una sorta di “discrasia” tra voto ex ante e voto ex post, ma anche una

“diluizione” della valenza del voto individuale, nel senso che, ai fini del

conteggio, non rileva più soltanto la lista votata, ma la lista in quanto parte

della coalizione prefigurata, che resta la prima destinataria dei seggi

conquistati.

Per diverso profilo, deve tenersi conto del fatto che ogni tipo di

“alleanza elettorale” ha un “costo” in termini di “identità politica”: questo

comporta che, per essere stipulata, l’unione elettorale deve far presagire

benefici superiori al prezzo che si è chiamati a pagare, quali, ad es., la

possibilità di conseguire i livelli quantitativi (in termini di suffragi)

richiesti per beneficiare del riparto dei seggi. In quest’ottica, un ruolo di

non trascurabile rilievo sulla composizione di alleanze elettorali è svolto

dalla “formula” in senso stretto e, più in generale, della presenza di

meccanismi idonei ad accrescere il grado di “selettività” (ovvero di

difficoltà dell’acquisizione del seggio, nel collegio) del sistema elettorale

complessivamente considerato, a partire dalla vigenza di “soglie di

sbarramento”, per arrivare alla previsione di “meccanismi premiali” (solo)

per chi sia “meglio arrivato” nella competizione elettorale.

17. Le soglie di sbarramento esplicite

La contabilizzazione dei voti secondo le regole finora esposte è

suscettibile di aprire immediatamente la strada all’attribuzione dei seggi

(non prima, però, di aver fatto applicazione della formula in senso stretto)

oppure necessitare dell’ulteriore passaggio della conversione “qualitativa”

dei suffragi in voti “rilevanti” (applicazione della formula in senso lato).

A quest’ultimo fine, viene particolarmente in rilievo il meccanismo

costituito dalle cd. soglie di sbarramento esplicite (Sperrklausel). Tali

soglie si concretizzano in percentuali specifiche, stabilite normativamente,

indicanti il numero minimo – in valore assoluto o, più spesso, percentuale

– di voti validi (v. qui di seguito per qualche esempio dell’una e dell’altra

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28 Lara Trucco

ipotesi) che le parti in lizza sono chiamate a raggiungere per accedere alla

distribuzione dei seggi. Il che può bastare a gettare luce sulla decisività

della loro misura, la cui fissazione, non è certo un caso, è oggetto, di norma,

di attenta e accesa negoziazione tra le parti politiche in campo.

[…]

Più nel dettaglio, nei casi in cui la misura della soglia convenzionale

esplicita sia bassa, essa finisce per avere un impatto assai ridotto, talvolta

del tutto simbolico (soglia esplicita più bassa della soglia implicita),

limitandosi a segnalare l’esistenza di un qualche “filtro” “in entrata” (v.

Paesi Bassi: 0,67% e Israele: 1-2%: soglie espresse in termini percentuali).

Così, guardando al passato, abbastanza “marginale” è stata la “correzione”

introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 16 maggio 1956, n. 493

(riassorbita poi dall’art. 83 del d.P.R. n. 361 del 1957), che, per l’ulteriore

distribuzione, in sede di collegio unico nazionale, dei seggi residui,

richiedeva l’ottenimento, da parte di ciascuna lista, di almeno 300 mila voti

su scala nazionale (soglia espressa in valore assoluto), oltre che un

quoziente pieno a livello circoscrizionale (ex art. 36).

Diverso (e assai più frequente), è il caso in cui le soglie esplicite

agiscono invece “al rialzo”: in questa ipotesi, infatti, l’innalzamento

convenzionale della soglia di accesso “naturale” alla ripartizione delle

cariche finisce per produrre effetti manipolativi in direzione

“disproporzionale” di rilievo, causando l’inasprimento dell’attitudine

selettiva del sistema elettorale. Un elemento di non trascurabile rilievo

circa l’impatto delle soglie di sbarramento è dato, inoltre, dalla loro

applicazione a livello nazionale o locale, anche se occorre riconoscere che

il tipo di clausola di sbarramento più utilizzata è quella che ne prevede

l’applicazione al solo (ed unico) livello nazionale: così è per la

Sperrklausel tedesca al 5%, applicata, a partire dal 1953, all’intero

territorio federale; ma possono menzionarsi altresì l’Islanda: 5%; la

Spagna: 3%; l’Austria: 4%; Israele, dal 1992: 1,5%, in precedenza, l’1%;

Norvegia: 4%; Svezia: 4%; Polonia: 5%; Danimarca: 2%; Nuova Zelanda:

5%; Turchia: 10%; nonché la più parte dei sistemi per l’elezione dei

parlamentari europei previsti dalle legislazioni degli Stati membri,

compreso ora quello italiano (cfr., infra).

Oltre ad agire direttamente eliminando le parti in competizione meno

attrezzate (a tutto vantaggio, evidentemente, per le formazioni politiche più

forti, o comunque in grado di superare questo tipo di resistenza), le clausole

di sbarramento favoriscono la riduzione del numero di candidature

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Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 29

concorrenti anche per altre strade, forse più indirette, ma non per questo

meno efficaci. Tale technicality, infatti, è idonea a produrre effetti selettivi,

nel senso della semplificazione dell’offerta elettorale, sin dalla fase

preparatoria delle procedure elettorali e, per certi versi, anche prima, al

momento, cioè, di fare la scelta se presentarsi o meno sulla scena politica,

dato che, già in quella fase, le formazioni politiche sarebbero indotte ad

unirsi (procedendo alla fusione e, dunque alla riduzione numerica di liste

e candidature in competizione) nella consapevolezza, così facendo, di

avere maggiori chance di superare lo sbarramento (v. il caso del

“miracolo” elettorale tedesco ai tempi del Cancelliere Adenauer).

In una prospettiva più generale, è proprio la potenzialità selettiva di tale

technicality a renderla uno strumento apprezzato ed ampiamente diffuso

nei sistemi elettorali a livello planetario, al punto dall’esser oggi

difficilmente individuabili ordinamenti in cui vigano sistemi elettorali

(tendenzialmente) inclusivi che non ne prevedano l’impiego, al fine di

ostacolare l’ingresso nelle assemblee rappresentative delle

candidature/formazioni minori (con meno consenso elettorale), viste, in

special modo dove vi sia una forma di governo parlamentare, come un

fattore di instabilità per gli Esecutivi. In tali contesti, infatti, com’è noto,

la vitalità dell’Esecutivo deriva dalla sussistenza del rapporto di fiducia

con l’organo parlamentare: va da sé che più quest’ultimo è

composito/“caotico” (cd. “frammentazione parlamentare”) e meno risulta

“affidabile”; là dove la situazione ideale per lo stesso Esecutivo, per poter

portare avanti la propria azione, sarebbe quella di poter contare su di una

maggioranza “sicura” in parlamento. Deve, peraltro, notarsi come,

muovendo da un diverso ordine di idee, da parte di altri, l’eterogeneità delle

assemblee venga invece vista come una fonte di ricchezza, in quanto

all’origine di una molteplicità di punti di vista e di idee (cd. “pluralismo

parlamentare”) di cui “parlare”, nella valorizzazione del senso e della

funzione propria, per l’appunto, dei “parlamenti”. A condizione, però

(anche qui), che ciò non degeneri in “abuso” ovvero in “disordine” ed, al

limite, nella minaccia “cronica” (e, nei casi estremi, nell’attivazione) di

crisi da parte dell’assemblea, al punto da compromettere l’efficacia

dell’azione di governo, a motivo di interessi partigiani, quando non del

tutto personali. Più in generale, quanto testé considerato porta ad

interrogarsi sull’opportunità (e, prima ancora, sulla correttezza) di

“sovraccaricare” il sistema elettorale – chiamato, non si dimentichi,

innanzitutto a garantire un’adeguata rappresentanza politica – di eccessive

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30 Lara Trucco

aspettative per quanto riguarda “la resa” dell’azione di governo, specie

nella perdurante assenza di un’adeguata razionalizzazione della forma di

governo stessa.

Nondimeno, le conclusioni a cui siamo approdati, circa l’attitudine

“selettiva” delle clausole di sbarramento possono trovare il loro contraltare

nelle particolari strategie di elusione delle soglie stesse, tramite, ad es., la

formazione di alleanze elettorali create pour l’espace d’un matin, con lo

specifico intento delle parti in lizza di oltrepassare indenni la soglia in

questione, per, poi, magari, riconquistare la propria autonomia

all’indomani dell’elezione. Analogamente, infatti, a quanto può avvenire

in presenza di premi di maggioranza anche in questo caso la

precostituzione di cartelli elettorali, aventi come unico scopo quello,

appunto, di superare lo sbarramento, già mettendo in conto il “ritorno”, non

appena conclusasi la parentesi elettorale, alla propria identità politica

originaria, può risultare un fattore idoneo ad inficiare la previsione di

soglie, e, più in generale, ogni possibile intento di favorire il crearsi di un

contesto parlamentare favorevole alla stabilità dell’azione politico-

governativa.

L’ipotesi da ultimo formulata riflette, del resto, una vicenda che ha

caratterizzato il nostro ordinamento dove, in seguito all’adozione del

sistema elettorale che, nel 1993, alla Camera fissò una soglia al 4% a livello

nazionale, già in occasione della tornata del 1996, pochi mesi prima del

voto si assistette alla nascita di formazioni politiche inedite per assemblare

partiti che, da soli, non sarebbero mai stati in grado di raggiungere la soglia

prevista (molti dei quali, per vero, non l’hanno conseguita lo stesso …), la

più parte delle quali, peraltro, sarebbero state destinate a volatilizzarsi

all’indomani delle elezioni (come, ad es., il Biancofiore, il Girasole …).

Per diverso profilo, nel caso di dinamica “al rialzo”, il rischio che le

soglie presentano è che possano avere un impatto talmente “selettivo”, da

chiudere la porta d’accesso alle sedi rappresentative ad un gran numero di

parti in lizza, a detrimento del pluralismo politico e della presenza stessa

di “opposizioni”, e, nei casi estremi, di tutte le forze politiche in campo

(cd. “paradosso dell’aula vuota”, là dove nessuna formazione politica

dovesse dimostrarsi in grado di attingervi: basti, a tale proposito, provare

ad immaginare cosa comporterebbe, ad es., la fissazione di una soglia

all’80% dei voti validi …).

La questione dell’eccessiva misura della clausola di sbarramento si è

posta in tutta la sua problematicità nell’ordinamento turco: ivi, infatti, la

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Cap. I – Dall’espressione del voto all’assegnazione dei seggi 31

previsione normativa che vuole che la distribuzione dei seggi avvenga solo

tra le liste che abbiano superato a livello nazionale il 10% è stata

impugnata, dapprima, davanti alla Corte costituzionale turca e, quindi,

denunciata alla Corte EDU (Affaire Yumak et Sadak c. Turquie), pur

variamente riuscendo a passare indenne il vaglio di entrambi i giudici.

[…]

Ci si limita, infine, a rilevare come l’accesso all’attribuzione dei seggi

possa essere condizionata anche da altre diverse clausole: tante quante

possa arrivare ad immaginarne la fantasia. Anche qui, però, a condizione,

in ordinamenti che vogliano dirsi democratici, che, i vincoli che ne

derivano non finiscano per comprometterne in radice l’imparzialità del

sistema di elezione ed il suo carattere genuinamente competitivo,

inducendo, un po’ come accade nei labirinti, una prefigurazione del

risultato elettorale.

In quest’ottica, è opportuno dunque tenere sempre presente

l’inescappabile esigenza, affinché un sistema elettorale possa dirsi

“democratico”, che sia garantito un buon grado di competitività tra le forze

politiche in campo, non richiedendosi un’incertezza massima degli esiti

(com’era, ad es., per il metodo di sorteggio di aristotelica memoria), ma

nemmeno, all’estremo opposto, come appena rilevato, la sostanziale

precostituzione dei risultati (come, del resto, da ultimo evidenziato anche

dalla Corte costituzionale italiana, nella decisione n. 4 del 2010).

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II

I SISTEMI DI ASSEGNAZIONE DEI

SEGGI

1. I sistemi di assegnazione dei seggi “selettivi”. Le “formule mag- gioritarie” 1) a voto categorico preferenziale 1a) a turno unico

La “semplicità” del rapporto rappresentativo in contesti istituzionali non

particolarmente articolati, o, comunque, non destinati, per così dire, a

riflettere tutte le complessità sociali esistenti, come quelli più antichi – non

a caso, di norma, a suffragio ristretto – può dar ragione della linearità, oltre

che del voto, anche delle formule elettorali di assegnazione dei seggi ivi

utilizzate. Con esse, infatti, l’elettore era messo in grado di approvare o

disapprovare le candidature secondo meccanismi di selezione di tipo

“binario”, senza valutazioni ulteriori circa il livello di gradimento nei

confronti dei candidati prescelti.

In questo quadro, lo scenario storico si caratterizza per formule

ispirantisi all’idea maggioritaria di selezionare un Esecutivo con la propria

maggioranza, vale a dire maggioranze (di governo) all’interno

dell’assemblee elette e, di riflesso, “il capo” stesso dell’Esecutivo. Ebbene,

già in origine questo tipo di formule furono in genere associate a sistemi di

votazione “categorici preferenziali”.

[…] In questo paragrafo ci occuperemo dunque (solo) di alcuni dei

principali sistemi ispirantisi al principio maggioritario, e cioè a dire:

1. formule maggioritarie a voto categorico preferenziale a 1a) turno

unico:

1a1) “first past the post” (plurality);

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 33

1a2) plurality “at large”;

1a3) voto “in blocco”; 1b)

a turno multiplo:

1b1) doppio turno;

[…]

1a1) Il “first past the post” a turno unico – o formula plurality – può

annoverarsi, anche (e, forse, soprattutto) in ragione della sua semplicità,

tra le formule più antiche e più diffuse al mondo. Essa, infatti,

omettendo qui di considerare le epoche più antiche (v., esemplarmente,

quella romana), secondo alcune ricostruzioni avrebbe cominciato a

trovare impiego nell’ordinamento inglese già a far data dal XIII secolo,

senza essere, poi, più messa seriamente in discussione (nemmeno

all’indomani della Gloriosa Rivoluzione del 1689), almeno fino ad oggi

(tanto da essere ancora nel cuore degli inglesi, come dimostrato

dall’ultimo fallito tentativo di espungerla, avutosi con il referendum del

5 maggio 2011). Peraltro, nella comprensione del più ampio sistema

elettorale a cui essa contribuisce a dare vita, va subito notato che, mentre

“agli esordi” questo tipo di formula era normalmente innestata su

collegi plurinominali, è stato dapprima sul suolo americano e, quindi,

su quello inglese (col già evocato Redistribution Seats Act del 1885),

che la sua applicazione nell’ambito di collegi uninominali è divenuta la

regola. A partire da quel momento, la formula first past the post ha,

quindi, trovato la sua “applicazione classica” in “collegi uninominali”

(cd. single-member district) per l’elezione della Camera dei Comuni,

aprendo la porta al definitivo affermarsi del sistema plurality tutt’ora

vigente, tanto caratteristico di tale ordinamento da essere anche

conosciuto come “voto di tipo britannico”.

Venendo, finalmente, a ricordare il funzionamento della generale

formula first past the post, può notarsi come le caratteristiche essenziali

consistano nel fatto che essa:

– a livello di sistema di votazione, si basa sul voto singolo categorico

preferenziale;

– per quanto concerne il formato circoscrizionale, opera su vari (di

qui, pare, il nome “plurality”) collegi uninominali; e,

– in ordine alla formula per l’assegnazione del seggio, richiede

soltanto l’ottenimento da parte del candidato di un numero di suffragi

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34 Lara Trucco

superiore a quelli ottenuti dagli altri competitori (ovvero la maggioranza

relativa dei voti validi o, se si vuole, “la maggiore minoranza”).

In quest’ottica, si comprende, pertanto, la denominazione “first past the

post”, dandosi, appunto, rilievo al fatto che chi conquista anche un solo

voto in più del secondo arrivato “vince tutto”: “the winner takes all”,

mentre gli altri candidati non prendono nulla (nessun seggio). La

circostanza, infine, per cui l’elezione necessariamente si conclude in un

unico turno di votazione dà ragione dell’ulteriore considerazione di esso

come di una formula “a maggioranza relativa a un turno”.

Il plurality “at large” e il “voto in blocco” sono due ulteriori varianti

del first past the post. Tale formula, infatti, può trovare – e, in origine,

come s’è anticipato, ha trovato – impiego in collegi plurinominali, a

seconda dei casi, nelle versioni:

1a2) a voto “singolo” categorico preferenziale: ed allora si ha il plurality

“at large” (altrimenti denominato “voto singolo non trasferibile”). In

questo caso, all’elettore è dato modo di attribuire una sola preferenza a

fronte di una pluralità di seggi in palio: sicché, in un collegio con n + 1

seggi, conseguono la carica gli n + 1 candidati che, nella graduatoria delle

preferenze, hanno ottenuto i migliori piazzamenti. Con minor rischio, si

noti, rispetto al plurality, di una “sterilizzazione” del voto individuale in

virtù di un numero maggiore di seggi in palio rispetto al collegio

uninominale (v., ad es., il sistema giapponese dal 1889 al 1994 per

l’elezione della Camera dei Rappresentanti);

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 35

1a3) a voto “plurimo” categorico preferenziale (ovvero il voto di

approvazione): ed, allora, si ha il “voto in blocco”. In questo caso, a

differenza delle precedenti situazioni, l’elettore ha in dotazione più

preferenze (e non una sola) da “distribuire” tra i candidati; mentre,

analogamente alle precedenti ipotesi, conseguono il seggio i candidati

meglio piazzati nell’ordine delle preferenze ottenute. Anche qui, poi, le

probabilità di “sterilizzazione” del voto individuale, pur partendo, per

ovvie ragioni, da una situazione migliore rispetto a quella che si ha in

presenza di un solo voto preferenziale, risultano strettamente dipendenti

dal numero di seggi in palio nel collegio, potendo, tale formula, innestarsi

sia su collegi plurinominali, sia (con più alto rischio di inefficacia del

suffragio) su collegi uninominali.

2. Segue. 1b) A turno multiplo

Il principale elemento di criticità della formula first past the post, nelle

sue diverse configurazioni, è, però, a ben vedere, costituito dall’eventualità

che un esiguo numero di voti (ed, al limite, anche uno solo) possa risultare

decisivo per l’esito dell’elezione. Come si è già, però, avuto modo di

osservare, una soluzione per stemperare le implicazioni negative di una

simile eventualità è, talvolta, costituita dalla richiesta di un quorum

strutturale di qualche tipo (cfr., supra). Occorre, tuttavia, rimarcare ancora

una volta come preoccupazioni del genere non siano generalmente

registrabili per nessun tipo di formula elettorale, laddove non è, invece,

infrequente fare a meno di quorum funzionali (che richiedono, cioè,

l’espressione ed il conseguimento, da parte dei candidati, di un certo

ammontare di voti validi per la validità stessa dell’elezione).

In quest’ordine di idee, non v’è, allora, dubbio che sia più coerente, con

la stessa caratterizzazione in senso maggioritario della formula, la

soluzione del “quorum dei voti validi”, in genere pari ad almeno la metà

più uno dei suffragi (ma, per un caso, sia pur particolare, di quorum

“qualificato”, può per certi versi menzionarsi la percentuale del 65% di cui

alla ridetta legge elettorale del Senato italiano n. 29 del 1948), individuata

dai sistemi majority (altrimenti noti come “sistemi di tipo inglese con il

quorum”). […]

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36 Lara Trucco

Portando, dunque, l’attenzione sul più frequentato di questi ultimi

meccanismi, ossia sul “turno multiplo”, ci si avvede di come esso, per

intuibili ragioni, richieda una “distribuzione” delle schede elettorali

scaglionata “nel tempo” (ad un determinato intervallo, prestabilito), nel

corso della medesima procedura elettorale (avendosi pertanto a che fare

con una scelta, per così dire, “a formazione progressiva”). Osserviamo

ulteriormente come i parametri (che anche noi, qui di seguito, adotteremo)

per operare una classificazione delle sue diverse configurazioni siano

principalmente due, vale a dire:

I) il numero di tornate elettorali effettuabili;

e

II) II) le “condizioni” di accesso ai turni

successivi.

1b1) Il doppio turno può dirsi il più diretto precipitato del parametro del

numero di tornate elettorali effettuabili sub I), essendo, in sua vigenza,

previsto che, nel caso in cui nessun candidato ottenga in prima battuta il

prescritto quorum dei voti (di solito il 50% + 1), debba, appunto, procedersi

allo svolgimento di un secondo – e conclusivo – turno di votazione. Tale

variante di “turno multiplo”, come si vedrà, è nota al nostro ordinamento,

essendo, tra l’altro, stata adottata “originariamente”, al momento

dell’unificazione nazionale per la Camera dei deputati, anche se

attualmente risulta caratteristica soprattutto dell’ordinamento francese, la

cui moderna vicenda costituzionale non solo si è molto identificata, ma

continua ad identificarsi con (l’applicazione di) tale formula (cfr. l’art.

L123 del codice elettorale).

Uno degli elementi normalmente caratterizzanti le formule a “doppio

turno” è dato dalla soglia di accesso al turno successivo. Parametro (più

sopra indicato sub II)) che, come intuibile, è (almeno in linea teorica)

estremamente mutevole, data la varietà di soglie di accesso al turno

successivo che è possibile applicare. Per diverso profilo, esso è assai

rilevante, in quanto si pone in stretta relazione con la capacità filtrante

(selettiva) dei primi turni e, più in generale, del sistema elettorale

complessivamente considerato. Si va, così, da sistemi ad elevato grado di

selettività (tale, però, in ogni caso, da produrre un’offerta elettorale di una

qualche consistenza, pena l’azzeramento della valenza del voto

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 37

individuale), a sistemi in cui la selezione è inesistente. Entrando più nel

dettaglio, si può stabilire di limitare l’accesso (turno chiuso) solo ed

esclusivamente ai candidati che abbiano ottenuto un certo numero di voti

al primo turno (cd. misura di accesso “relativa”), in genere ristretta o ai

due più preferiti (avendosi con ciò il “ballottaggio” propriamente detto),

come, ad es., è previsto in Italia per l’elezione dei Sindaci dei comuni con

più di 15 mila abitanti (ex art. 72, comma 5, del d.lgs. n. 267 del 2000) e

dei Presidenti delle province (ex art. 74, commi 6 e 7, d.lgs. n. 267 del

2000); o ai candidati che abbiano conseguito una certa percentuale di

suffragi (cd. misura di accesso “assoluta”), come stabilisce l’attuale

legislazione francese per l’Assemblea nazionale, dove passano al secondo

turno i candidati che hanno ottenuto almeno il 12,5% dei suffragi.

Nel caso, invece, di formula a doppio turno aperto, si acconsente alla

riproposizione di tutte le candidature presentate al primo turno, senza

esclusioni di sorta (lasciandosi che siano eventualmente i candidati stessi

a decidere di ritirarsi di loro spontanea volontà) e, persino, la presentazione

al secondo turno di candidature “nuove” in aggiunta o in sostituzione di

precedenti (cd. “sistema romano”).

[…]

7. Caratteristiche generali e comuni delle “famiglie” proiettive

Venendo ora ad esaminare i sistemi di assegnazione dei seggi che si

ispirano al principio “proporzionalista”, deve rilevarsi come l’“ideale

proporzionale” valorizzato, dapprima, nell’ordinamento statunitense, per

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38 Lara Trucco

la definizione “territoriale” dei collegi, si sia in seguito progressivamente

affermato pure sul continente europeo, in vista (non solo e non tanto del

disegno dei collegi, quanto, soprattutto) della definizione in “chiave

sociale” degli organi parlamentari. Ivi, infatti, tra tutte le proposte messe

sul tappeto, nel corso del XIX secolo, al fine di migliorare il rendimento

degli istituti di democrazia, sarebbe stata proprio “la proporzionale” quella

destinata ad avere la maggiore fortuna, di pari passo con l’ampliarsi della

domanda sociale di rappresentanza politica dovuta vuoi all’estensione del

suffragio, vuoi (correlativamente) all’emersione dei partiti politici di

massa.

In tale contesto, l’idea della rappresentanza proporzionale è stata

dunque, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, opportunamente

rivisitata e riadattata in una logica di equità, appunto, per così dire,

“sociale”, in vista, per la precisione, di consentire una più ampia proiezione

delle liste (dei nascenti partiti politici). Tale processo sarebbe quindi

pervenuto alle sue ultime conseguenze nel corso del ’900, quando

l’opzione proporzionalistica non si sarebbe fondata più esclusivamente

sull’esigenza di massimizzare la rappresentatività dei parlamenti (la cd.

“protezione delle minoranze”) e sull’etica egualitario-democratica,

risultando funzionale anche e soprattutto al bisogno di riconoscere e

rafforzare la “novità” del secolo: i partiti politici di massa.

Dal punto di vista tecnico, le formule che si ispirano al principio

proporzionale si propongono, dunque, di ottenere nell’organo

rappresentativo la riproduzione “in scala ridotta” dei rapporti di forza

emersi (all’evidenza, in termini di voto) tra le parti politiche in occasione

della tornata elettorale, puntando ad assegnare, a tal fine, un numero di

seggi (rappresentanti) parlamentari in rapporto ai voti ottenuti da ciascuna

delle predette.

Pertanto, a differenza della logica che caratterizza i sistemi improntati

al principio maggioritario, quelli d’indole proporzionale non mirano in

modo prioritario all’enucleazione di maggioranze all’interno dell’organo

rappresentativo, né (anche) in vista di questo, valorizzano il (solo) voto

dato dagli elettori “in maggioranza” (i già esaminati “sistemi selettivi”, o

“escludenti”), ponendosi soprattutto l’obiettivo della “rappresentatività”

delle varie componenti sociali, col tener conto, sin dove possibile, della

volontà elettorale da tutte queste espressa (cd. “sistemi proiettivi” o

“inclusivi”).

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 39

In quest’ottica, in applicazione delle formule proporzionali si finisce per

ottenere qualcosa di vagamente assimilabile a ciò che si ha quando si riduce

il contenuto di una pagina facendone la fotocopia, per cui il risultato finale

dipende oltre che dalla grandezza del foglio (immaginabile come la

dimensione dell’arena parlamentare), altresì, da come si regola la

fotocopiatrice (cd. “indice di riduzione”): in modo tale, cioè, che si possano

cogliere pure i dettagli del foglio fotocopiato e non, invece, soltanto gli

elementi più vistosi.

Il paragone che s’è proposto, per quanto forzato, può però, forse, aiutare

a meglio comprendere la ragione per cui tali sistemi affidano la propria

attuazione agli strumenti messi in campo dagli studi matematici sulle

proporzioni (“teorie delle proporzioni”), essendo quelli che, tra gli

“strumenti” euclidei, risultano i più adatti ad operare (un po’ come le

fotocopiatrici appunto …) una “trasposizione” “proporzionalizzata” delle

entità sociali (i votanti) in quantità numeriche (i seggi).

Peraltro, a questo stesso riguardo, è bene immediatamente chiarire che

per ottenere questo tipo di risultati, i “metodi proporzionali” necessitano

“per definizione”, vale a dire, per loro stessa ragion d’essere, di avere a che

fare non solo con offerte politiche di una certa consistenza e “varietà” –

come del resto dovrebbe essere in ogni democrazia degna di questo nome

– ma anche di innestarsi (a differenza dei sistemi d’indole maggioritaria)

su collegi plurinominali, mancando, altrimenti, per ovvie ragioni, da un

lato, la materia prima e, dall’altro lato, l’ambiente per procedere alla ridetta

“proporzionalizzazione”). Su questa base, l’illustrazione di tali formule è,

in certo modo, agevolata dalla loro possibile categorizzazione in due

distinte “famiglie”, che, allo scopo di ottenere un risultato al possibile

“proporzionato”, sono però connotate da due diverse impostazioni, vale a

dire:

i) una, incentrata sul metodo del quoziente, cronologicamente più datata e

propugnata dalla Scuola svizzera, di carattere empirico (denominabile

“proporzionale pratica”), che contabilizza il diverso livello di

apprezzamento ottenuto dalle parti in campo, procedendo per progressive

assegnazioni di seggi, man mano che si produce il raggiungimento di un

certo risultato (calcolato matematicamente): la cd. soglia di assegnazione

del seggio (o, tecnicamente, il “quoziente elettorale”), che, quindi,

rappresenta, per così dire, il “costo” di ciascun “seggio”, in termini di voti

necessari alla sua acquisizione; e ii) l’altra, portata avanti dalla Scuola

belga, collegata al metodo dei divisori successivi, relativamente più

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40 Lara Trucco

recente, di carattere astratto (denominabile “proporzionale teorica”), che si

basa sull’applicazione di strumenti di tipo ancor più schiettamente

matematico: vale a dire, specificamente, la particolare proprietà (che

appartiene alla teoria delle proporzioni) per cui se si dividono più numeri

per il medesimo divisore, i quozienti che si ottengono stanno tra loro nella

medesima proporzione dei numeri divisi. Di qui, per l’appunto, l’idea di

applicare “divisori comuni” alle “cifre di lista”, fino ad ottenere un numero

di quozienti corrispondenti (almeno) al numero di seggi da ripartire.

Contrariamente, però, a questa successione storica, la sistematica della

trattazione consiglia di considerare in primo luogo le varianti della

“famiglia” sub ii), sia perché ciò consentirà di evidenziare, come già in

sede di studio dei sistemi maggioritari, la graduazione da sistemi elettorali

poco inclini a valorizzare il voto individuale a sistemi che (più caratteristici

della famiglia sub i)) rinvengono, all’opposto, in siffatta valorizzazione la

loro ratio più autentica; sia perché si dimostrerà più agevole commentare

le soluzioni proposte nel tempo per ovviare ad uno dei principali limiti di

tipo logico della proporzionale, ossia quello delle parti frazionarie

rimanenti in seguito all’applicazione della formula e variamente incidenti

sulla perfetta proporzionalità del risultato (cd. problema “delle rimanenze”

o “dei resti”).

Ci proponiamo, dunque, di percorrere il seguente itinerario espositivo:

1. formule proporzionali a voto categorico

1a) basate sul metodo dei “divisori successivi”:

1a2) formula D’Hondt (e varianti);

1b) basate sul metodo del quoziente:

1b1) formula dei “più alti resti”;

1b2) formula del quoziente corretto Hagenbach-Bischoff (e va-

rianti);

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 41

8. Le “formule proporzionali” a voto singolo categorico: 1a) basa-

te sul metodo dei “divisori successivi”

1a2) la formula D’Hondt prevede l’applicazione alle “cifre elettorali di

lista” di “divisori comuni” fino ad ottenere un numero di quozienti

corrispondenti (almeno) al numero di seggi da ripartire tra le parti (liste) in

competizione. In altri termini, in base a tale formula, i risultati ottenuti

dalle varie liste (appunto, le cd. cifre elettorali di lista) sono divisi sulla

base di “divisori comuni”, i quali, pertanto, funzionano come vere e proprie

“scale di riduzione” per la traduzione dei voti in cariche parlamentari: in

seguito alle successive divisioni, infatti, si ottengono per le varie liste un

certo numero di quozienti in base ai quali si opera, in ordine decrescente,

l’assegnazione di tutti i seggi in palio. Più precisamente, nella classica

versione del “metodo D’Hondt”, recepita per la prima volta dalla legge

elettorale belga del 1899, si prevede che i divisori comuni siano intervallati

l’uno dall’altro di un’unità, per cui, appunto, si è chiamati a dividere la

cifra elettorale di ciascuna delle liste successivamente per 1, 2, 3, 4, ecc. e,

quindi, ad allineare i quozienti così ottenuti in ordine decrescente fino alla

concorrenza di un numero totale di quozienti uguale a quello dei

rappresentanti che si devono eleggere.

La fondamentale variabile capace di incidere sull’“indice di riduzione”,

è data dallo “spazio” tra un divisore e l’altro i) in avvio e, quindi, ii) durante

le divisioni successive. Infatti, i) in avvio, l’adozione dell’intervallo “1”

consente alle forze politiche minori di massimizzare il risultato, dal

momento che esso viene a coincidere con la loro migliore performance

(cifra elettorale : 1 = cifra elettorale); le stesse forze politiche minori

risulterebbero, poi, ancora avvantaggiate dall’ampliamento ii)

dell’intervallo tra un divisore e l’altro nel segmento successivo, in quanto

la divisione così operata “brucia”, a discapito delle liste più forti, risultati

intermedi sui quali le stesse potrebbero altrimenti contare. Situazioni

simmetriche, favorirebbero invece queste ultime.

Attraverso la più adeguata modulazione dell’indice è possibile, dunque,

produrre risultati variamente manipolativi, assegnando alle liste più deboli

o, a seconda dei casi, a quelle più forti, una maggiorazione di seggi distanti

da quelli che vorrebbe il principio di proporzionalità strettamente inteso.

In particolare, l’intervallo utilizzato dalla formula D’Hondt, pari, come s’è

detto a “+ 1”, lungi dallo svolgere un ruolo (come forse si potrebbe essere

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42 Lara Trucco

portati a pensare) neutrale, rivela, in realtà, a dispetto del suo “avvio”

favorevole alle forze minori, proprietà matematiche propizie, almeno in via

tendenziale, ai partiti più forti.

Conclusivamente, proprio in base al diverso intervallo adottato in avvio

e tra un divisore e l’altro possono così graduarsi, in ordine decrescente di

“favore” per le formazioni più forti (in termini di consenso elettorale), le

principali varianti del metodo dei divisori successivi:

– la “Formula belga”: 1, 1.5, 2, 2.5, 3, 3.5, 4, 4.5, ...;

– la “Formula Nohlen”: 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, ...;

– la “Formula Huntington”: 1.41, 2.45, 3.46, 4.47, ... ;

– la “Formula D’Hondt”: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, ...; – la “Formula

danese”: 1.4, 3, 5, 7, 10, 13, 16, 19, 22, ...; – la “Formula Sainte-

Laguë”: 1, 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, ....

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 43

9. Segue. 1b) Le formule proiettive basate sul metodo del quoziente

Venendo ora ad esaminare il metodo del quoziente, v’è subito da

osservare come esso possa dirsi tra metodi più “intuitivi” e, fors’anche per

questo, storicamente, più antichi, per ripartire i seggi tra le parti in

competizione in modo proporzionato. Tale metodo, infatti, nella sua forma

matematica più “elementare”, consiste in una semplice proporzione, dove,

al primo membro, v’è il rapporto tra:

– il numero totale di voti validamente espressi (“T”) e il numero

complessivo di seggi da attribuire (“s”); e, al secondo, il rapporto tra

– il numero di voti ottenuti da ciascuna lista (“L”) e il numero totale

di seggi (da calcolare) che spettano ad essa (“?”).

In base alla regola matematica del “quarto proporzionale”, infatti, il

numero totale di seggi da attribuire alle varie liste (“?”) è dato dal numero

di voti ottenuti da ciascuna di esse (“L”) moltiplicato per il numero di seggi

totale da attribuire (“s”), diviso, quindi, il risultato così ottenuto, per il

numero totale di voti validi espressi (“T ”).

Di qui la denominazione di questo metodo, come “formula del tre

semplice”, o, anche, più comunemente, come “formula Hare”, da chi lo

introdusse, tra i primi, in ambito europeo. Ma, forse la denominazione

meglio capace di identificare tale formula è proprio quella di “metodo del

quoziente”, dato che il risultato del rapporto tra totale dei voti dati (“T ”) e

numero complessivo dei seggi da attribuire (“s”) così ottenuto (cd.

“quoziente naturale”), indica quanti voti validi sono necessari per

l’acquisizione di un seggio o, il che è lo stesso, il costo di un seggio

calcolato in voti: per cui se si divide il numero di voti validi presi da ogni

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44 Lara Trucco

lista (cd. cifra elettorale di lista) per tale quoziente si ottiene l’ammontare

di seggi spettanti a ciascuna.

Il fatto è che può accadere che l’applicazione di tale formula sulle

singole cifre elettorali di lista si riveli non in grado di esaurire, guardandosi

alle sole parti intere dei quozienti ottenuti, il numero di seggi da attribuire.

Si manifesta, cioè, in questi casi, il fenomeno dei “seggi restanti”, col

conseguente problema della loro attribuzione.

Sono varie le soluzioni escogitate in vista di superare questo tipo di

impasse: ci limitiamo qui di seguito ad indicarne alcune. Così, tra le strade

maggiormente seguite, vi è la previsione di “collegi di ulteriore livello”

(cd. pluralità di livelli circoscrizionali in senso “verticale”, per distinguerla

dalla “pluricollegialità”, intesa come pluralità di circoscrizioni in senso

“orizzontale”), per cui, quanto “rimasto” (in termini di seggi) da assegnare

viene fatto rifluire in collegi “più alti” e distribuito sulla base di regole di

assegnazione ad hoc. Trattasi, del resto, della soluzione adottata dal nostro

sistema elettorale sino al 1992 per l’elezione della Camera dei Deputati, in

vigenza del quale i voti rimasti “inutilizzati”, dopo aver applicato in prima

battuta la formula proporzionale, erano sommati e combinati per ogni lista

e, quindi, destinati al collegio unico nazionale, nel quale, secondo un nuovo

calcolo su base proporzionale, venivano coperti i seggi rimasti

eventualmente vacanti. Ancora, altre soluzioni escogitate, per così dire, “a

chiusura” del sistema – in modo, si noti, per dirla con Arrow, “dittatoriale”

–, consistono:

– nell’attribuire i seggi rimasti alle liste che hanno ottenuto le

maggio-ri cifre elettorali, o, alternativamente (a seconda del tipo di

“politica elettorale”), le minori; e

– nel ricorrere come extrema ratio al “sorteggio” (metodo, questo,

strenuamente osteggiato dai più convinti fautori dell’approccio “razionale”

alla materia elettorale).

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 45

1b1) La formula dei “più alti resti” (altrimenti denominata “metodo dei

più alti resti” o “dei resti più forti”, o “delle più alte percentuali

frazionarie”; o, ancora, “proporzionale pura”), tra tutte le strade, è stata

probabilmente quella più percorsa. Essa fu tracciata, tra le prime volte, nel

1791, da Hamilton (cd. “metodo di Hamilton”) quando, per la ripartizione

dei collegi in territorio statunitense, egli propose, una volta assegnata a

ciascuno Stato la parte intera della sua quota di seggi, di attribuire agli Stati

che presentavano i resti (appunto) più alti i seggi eventualmente rimasti

non assegnati. Da notare che una proposta simile sarebbe stata fatta, nel

1864, anche da uno studente della facoltà giuridica di Bruxelles, al fine,

però, questa volta, di assegnare i seggi ai candidati, con la singolare

variante che i soggetti così eletti avrebbero dovuto godere di un semplice

potere consultivo in assemblea.

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46 Lara Trucco

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 47

1b2) La formula del quoziente corretto, elaborata, nel 1889, da Eduard

Hagenbach-Bischoff (e, per questo, meglio nota col suo nome) ed

introdotta in territorio elvetico nel 1919, si basa sull’idea di intervenire

direttamente a “modulare” l’indice di riduzione/proporzionalizzazione. A

tal fine, essa prevede che il quoziente elettorale venga determinato

(sempre) dividendo il totale dei voti validi (ottenuti dalle varie liste in

competizione) per il numero di seggi da ripartire, aumentato, però (questo

secondo termine, ovverosia, il divisore della frazione), di una unità (ecco

la “modulazione” …).

Nell’escogitare tale formula lo studioso svizzero ebbe di mira

l’obiettivo di porre rimedio a taluni bug di ordine logico affliggenti il

metodo dei più alti resti, nel timore che essi potessero compromettere

quella “giustizia rappresentativa” che costituiva il punto di forza

dell’ideale proporzionalista. Così, in particolare, era paventata la

possibilità che la soluzione “dei più alti resti” fosse applicata a tutte le liste,

comprese quelle che, non avendo raggiunto il quoziente elettorale, non

avrebbero “meritato” di partecipare all’assegnazione dei seggi.

Soprattutto, una tale soluzione si basava su di un’evenienza assai casuale,

quale il presentarsi di resti, finendo con ciò stesso per produrre dei risultati

aleatori.

Sul piano tecnico, egli prese le mosse dalla constatazione di come,

all’origine della mancata assegnazione di tutti i seggi, vi fosse la presenza

di un “costo”, in termini di voti necessari ad acquisire un seggio (il

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48 Lara Trucco

“quoziente elettorale”), troppo elevato per le forze politiche in campo.

Pertanto, per consentire a un numero maggiore di liste di partecipare

all’assegnazione delle cariche in palio, il quoziente elettorale (ovvero, tale

“costo”) sarebbe dovuto essere diminuito. Ciò che, matematicamente,

sarebbe stato possibile grazie, per l’appunto, all’aumento di un’unità del

divisore della frazione.

Volendo tornare alla metafora della fotocopiatrice, lo studioso non fece

altro che accrescere l’indice di riduzione in modo da “catturare” un

maggior numero di dettagli. Ed infatti, un tale innalzamento del valore del

denominatore della frazione produce un risultato (quoziente) più basso,

diminuendosi, in questo modo, “il costo” (in termini di voti) di

acquisizione di ciascun seggio. Ma la correzione del quoziente “n + 1”,

elaborata da Hagenbach-Bischoff, in talune situazioni può risultare ancora

insufficiente ad operare l’assegnazione di tutti i seggi al primo riparto: in

questi casi, può, dunque, rivelarsi opportuno/necessario ricorrere a

correzioni più incisive, là dove, per le ragioni che si son dette, più la

correzione è “al rialzo”, più si tende a favorire le forze politiche più deboli.

È quanto fanno, ad es.:

– il “quoziente Imperiali”: col prevedere l’ulteriore elevazione della

correzione a “n + 2”; e

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 49

– il “quoziente Droop”: calcolato, come l’Hagenbach-Bischoff, col

dividersi il numero dei voti validi per il numero di seggi in palio aumentato

di un’unità, ma, qui, con l’ulteriore incremento del quoziente così ottenuto,

di un’ulteriore unità: [Voti/(Seggi + 1)] + 1).

In alcuni casi, poi, l’aumento (quando in applicazione del quoziente, il

numero dei seggi da attribuire alle liste risulti inferiore a quello dei seggi

assegnati al collegio) o, a seconda dei casi, la diminuzione (quando in

applicazione del quoziente, il numero dei seggi da attribuire alle liste risulti

superiore a quello dei seggi assegnati al collegio) della correzione del

quoziente è stabilito dalla legge in via automatica (cd. “quoziente

variabile”): così, ad es., il sistema di elezione della nostra Camera dei

Deputati sino al 1992. Si noti, concludendo sul punto, come taluni

ordinamenti abbiano optato per mantenere operative tutte le diverse

soluzioni, applicando in prima battuta correzioni al quoziente e, se

necessario, in via residuale, il metodo dei più alti resti (v., ad es.,

Slovacchia e Repubblica ceca).

[…]

13. I sistemi elettorali e i modelli di democrazia. Democrazie mag-

gioritarie vs. democrazie proporzionali

Fermi i ridetti principi ispiratori dei due fondamentali modelli

(maggioritario e proporzionale), può dirsi, dunque, in linea del tutto

orientativa, che, sul piano della politica elettorale, si collocano:

– da un lato, i sistemi maggioritari: ispirati ad una logica più selettiva

nella individuazione degli organi di rappresentanza e di governo e, per ciò

stesso, più escludente, essendo più difficile, in questi casi, per le

candidature in lizza, conquistare un seggio (la cd. “soglia di rappresentanza

implicita d’inclusione” è elevata) al contrario, facile, a scapito,

particolarmente, delle forze più deboli, restare escluse dall’assemblea (la

cd. “soglia di rappresentanza implicita d’esclusione” è bassa), al punto che

tali forze possono essere indotte a trattenersi dallo “scendere in campo”

nella competizione elettorale (si noti, in direzione da subito favorevole al

cd. dualismo partitico o bipartitismo che, è opportuno precisare, è quella

situazione politica dominata da due sole forze partitiche principali, diversa

dal “bipolarismo”, che può caratterizzarsi in maniera più complessa per la

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50 Lara Trucco

presenza, invece, di numerose formazioni politiche in competizione tra

loro in due coalizioni contrapposte: destra-sinistra o, a seconda dei casi,

centrodestra e centro-sinistra); e

– dall’altro lato, i sistemi proporzionali: miranti ad assecondare una

logica più votata al compromesso nella selezione degli organi di

rappresentanza e di governo, più proiettiva e, per ciò stesso, più inclusiva,

essendo più facile, in questi casi, per le candidature in lizza, conquistare

un seggio (la cd. “soglia di rappresentanza implicita d’inclusione” è

relativamente bassa) e, quindi, facile entrare a far parte dell’assemblea (la

cd. “soglia di rappresentanza implicita d’esclusione” è elevata), al punto

da assecondare la “discesa in campo”, nella competizione elettorale, di

candidature incerte (in direzione da subito favorevole al cd.

multipartitismo).

Quel che preme ora evidenziare, però, è come l’opzione maggioritaria

piuttosto che quella proporzionalista, lungi dal poter costituire

semplicemente il risultato di una scelta di tipo “ingegneristico”, necessiti,

specie nel lungo periodo, di radicarsi sul piano sociale, costituendo l’esito

di un approccio di tipo, per così dire “ambientale”, attento alle

differenziazioni delle fasi di sviluppo ordinamentale e, più in generale, alla

domanda sociale che richiede di vedersi (adeguatamente) rappresentata. Ed

infatti, la scelta, di natura evidentemente costituente, di delineare la

fisionomia ordinamentale in direzione più marcatamente selettiva piuttosto

che consensuale – a cui consegue la presa di forma di un certo tipo di

democrazia elettorale – è soggetta, soprattutto, a fattori di carattere politico

e socioculturale: segnatamente, al grado di accettazione, sulla base di

regole condivise di fair play istituzionale, della potenziale esclusione (ad

tempus) dal circuito rappresentativo. Per ciò, del resto, questo tipo di

esclusione può notoriamente constatarsi (rectius: accettarsi pacificamente)

solo in “società omogenee”, in cui è maggiormente rilevabile l’attitudine a

concepire le istituzioni rappresentative come senz’altro votate al

conseguimento del “bene comune”.

Del pari nota è la diversità di situazione negli ordinamenti caratterizzati,

invece, da importanti fratture sociali (cd. cleavages), dato che, in questo

caso, quella stessa esclusione sarebbe percepita come una grave perdita di

chances, se non, talvolta, alla stregua di un vero e proprio pericolo di

sopravvivenza identitaria da parte di interi strati della società. Da questo

punto di vista, anzi, lo stesso sistema elettorale perderebbe la sua

fondamentale funzione di collettore delle domande sociali, pretendendo di

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 51

irrigidire eccessivamente le dinamiche politiche ed istituzionali con il

rischio che i gruppi ai quali è reso difficoltoso l’accesso alla rappresentanza

inneschino la miccia della sopraffazione di una parte di società sull’altra.

Può pertanto proporsi questo schema di carattere assai sommario:

1. il formante sociale è “omogeneo”, ben predisposto ad un formato

ipopartitico: l’ordinamento sarebbe, dunque, in grado di assimilare sistemi

elettorali fortemente selettivi. Si noti, peraltro, come, in casi del genere, il

formante sociale potrebbe risultare talmente compatto da trovare, al limite,

“sufficiente esprimersi politicamente attraverso un solo partito”: trattasi

del cd. “paradosso di Wildavsky”;

2. il formante sociale è eterogeneo, ma senza componenti antisistema

di spessore, predisposto ad un formato multipartitico: pertanto, esso è

capace di metabolizzare sistemi elettorali moderatamente selettivi;

3. il formante sociale è complesso, percorso da profondi cleavages

sociali: la domanda di rappresentanza politica è estremamente variegata e,

conseguentemente, l’introduzione di sistemi selettivi rischia di innalzare

lo scontro sociale e di provocare, nei casi estremi, crisi di regime.

Come si vede, tale prospettiva conferma l’idea che anche la nascita e la

diffusione, a partire dalla seconda metà del XIX e, poi, soprattutto, nel

corso del XX secolo, sul continente europeo, della proporzionale vada

concepita come una risposta alla domanda, vieppiù pressante, di una

maggiore, ovvero più equa, rappresentanza sociale, nella direzione di una

più apprezzabile democraticità ordinamentale. È possibile, infatti,

osservare come, proprio nel principio proporzionalista si sia scorto,

all’epoca, un modo per mitigare l’indole (percepita come) eccessivamente

“escludente” dei sistemi maggioritari, agevolando, in stretta

corrispondenza col riconoscimento del suffragio a sempre più ampie

porzioni di popolazione, il superamento delle “alte” – anzi,

“eccessivamente alte” secondo i partiti emergenti – “soglie in entrata”, che

il maggioritario comportava (v., ad es., Germania e Italia).

Da un punto di vista propriamente tecnico, la “variabile socio-culturale”

(peraltro, “criptotipica”, in quanto difficilmente identificabile tra gli

elementi che condizionano il rendimento dei sistemi elettorali), può aiutare

a svelare (in linea, del resto, con le cd. “regole di Sartori”), forse, la

principale ragione per cui, non infrequentemente, ordinamenti che usano

sistemi elettorali simili presentano formati partitici diversi; e come mai, a

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dispetto dell’applicazione di formule relativamente poco selettive, alcuni

ordinamenti presentino un formato tendenzialmente ipopartitico (v.

Austria); e, ancora, perché l’applicazione di formule selettive

(particolarmente il plurality) in contesti in cui viga, invece, una rilevante

frammentazione politica, non riesca a ridurre drasticamente la

proliferazione partitica (v. il Canada). Del resto, come dianzi accennato,

risulta estremamente arduo contrastare solo sul piano “ingegneristico” la

forza del “fattore d’impatto sociale”. In particolare, l’esperienza conferma

come – a meno di non fuoriuscire dai confini che segnano la democraticità

del sistema ordinamentale, con gravi rischi, peraltro, si torna a dire, per la

stabilità del regime politico (cd. crisi di regime) – un formato bipartitico

sia improponibile – quale che sia il sistema elettorale – qualora minoranze

che rifiutano di farsi rappresentare dai due maggiori partiti siano

concentrate, in alte proporzioni, in determinati collegi o in particolari aree

geografiche.

Fatte le dovute differenze del caso, quanto testé osservato può offrire

una chiave di lettura anche del “caso italiano”, in cui la “svolta

maggioritaria” d’inizio anni Novanta lungi dal semplificare e rigenerare,

all’insegna della “compostezza”, il quadro politico esistente, ha finito per

renderne talune caratteristiche e certi esiti ancora più complessi e caotici.

Sicché proprio quando, col tramonto delle ideologie novecentesche, è

parso che l’Italia potesse superare i cleavages dei primi tempi della

Repubblica, entrando finalmente nel novero delle democrazie sia

socialmente, sia politicamente, “assestate”, il cambiamento repentino di

sistema elettorale (di per sé solo e non accompagnato da adeguate riforme

costituzionali) sembra aver concorso decisivamente a far mancare al nostro

Paese tale traguardo.

14. La “continuità” dei sistemi di elezione. I sistemi elettorali misti

[…] Tra gli elementi più volentieri messi in risalto nella

caratterizzazione dei sistemi di elezione come “misti”, vi sia la varia

combinazione di formule elettorali: per cui, in quest’ottica, può, forse,

pensarsi ad un’ibridazione “maggiore”, quando la commistione tra

elementi sia finalizzata, solo o soprattutto, appunto, a livello di formula

(ragionandosi, in questo caso, di “sistemi elettorali misti in senso stretto”).

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 53

Del resto, v’è sufficiente consapevolezza di come i sistemi di elezione

abbiano toccato, attualmente, un punto molto elevato di tecnicismo, tanto

che la ridetta “commistione” di componenti elettorali può dirsi divenuta

ormai una loro caratteristica primaria (se non, addirittura, immancabile).

Ciò premesso, non ci si può tuttavia esimere dal rilevare come, anche

qui, pur nell’estrema difficoltà di addivenire ad una classificazione

esauriente dei sistemi elettorali misti (dato il grande numero di variabili in

campo), la fisionomia complessiva della commistione del sistema

elettorale possa dirsi essere data, sotto il profilo descrittivo, dagli elementi

“strutturali” che si son visti: quindi, oltre (ed, anzi, prima ancora) che dalla

formula, altresì da voto e circoscrizione. Inoltre, rileva qui, i) sotto il

profilo funzionale, il “modo” (approccio qualitativo) e ii) il “dosaggio”

(approccio quantitativo) con cui i vari elementi si combinano tra loro.

Intendendo, dunque, ora, soffermare sinteticamente la nostra attenzione

sulle interconnessioni tra le diverse “anime” che compongono i sistemi

misti, si può immaginare che essi assumano differenti configurazioni e si

dipanino in una gamma di situazioni che va (secondo l’itinerario che

seguiremo nel prosieguo):

a) da una polarità in cui i meccanismi che si ispirano ai diversi

princi-

pi funzionano, per quanto di ragione, in modo indipendente gli uni dagli

altri (giustapposizione di sistemi);

b) ad un’altra, in cui i diversi principi si compenetrano tra loro

inestricabilmente (fusione di sistemi), tanto da poter rendere arduo

l’apprezzamento in essi, talvolta, della prevalenza dell’anima

proporzionale o di quella maggioritaria; mentre

c) tra queste due posizioni si collocano i sistemi in cui gli

elementi di

commistione sono “collegati” funzionalmente tra loro, pur restando

strutturalmente autonomi (combinazione di sistemi).

[…]

16. La fusione dei sistemi

Più interessante, nell’ottica dell’ibridazione dei sistemi elettorali,

sembra, però, l’ipotesi dei sistemi “a fusione”, in cui le varie componenti

del sistema di elezione (ispirantisi ai diversi principi elettorali) si

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54 Lara Trucco

amalgamano tra loro totalmente, grazie al sistema di voto “unitario”. Ed,

infatti, è proprio già in partenza che tali sistemi mettono mano alla comune

costruzione, con l’affidarsi ad un voto tecnicamente “unico” e “fuso in

senso stretto”.

Primo “originale”, sistema di elezione “misto” di questo tipo viene

reputato quello elaborato da Geyerhahn, in territorio tedesco, nel 1902 (cd.

“formula Geyerhahn”), si noti, col precipuo intento di superare «la rigida

alternativa tra proporzionale e maggioritario», unendo i «complessi pregi

indisconoscibili della elezione in collegi uninominali con l’esigenza, ormai

non meno indisconoscibile, della rappresentanza proporzionale dei

gruppi». A distanza di tempo, tale sistema avrebbe trovato l’ambiente più

adatto per la propria adozione nella Germania dell’Ovest del 1949. Ivi,

infatti, il pessimo ricordo lasciato dalla proporzionale – rea di aver prodotto

a Weimar un sistema partitico ed un quadro parlamentare frammentato e,

per di più, assai polarizzato (ideologicizzato) sulle ali estreme – ne rese da

subito evidente l’improponibilità. D’altra parte, però, fu avvertito come

pure l’introduzione di un sistema che intendesse ispirarsi tout court al

principio maggioritario sarebbe stata difficilmente adattabile a quel

particolare contesto, dato che, all’esigenza di elaborazione di un sistema

idoneo ad assicurare una qualche “stabilità” delle forze di governo della

nascente Repubblica Federale tedesca, faceva pur sempre riscontro quella

di poter contare su di una solida legittimazione democratica, e,

particolarmente, sulla presa in carico della molteplicità di forze politiche e

sociali presenti nella società tedesca.

Nel quadro storico-istituzionale tedesco appena indicato, è stata,

dunque, come s’è anticipato, la legge elettorale del 15 giugno 1949 a dare

al sistema elettorale proposto da Geyerhahn la sua più completa ed efficace

applicazione, prevedendosi, in origine, che:

a) i seggi del Bundestag fossero ripartiti nei singoli Länder in due

gruppi, nella proporzione approssimativa del 60% (242 seggi) e del 40%

(158 seggi) ed assegnati sulla base di meccanismi fondati su principi

elettorali diversi: il primo maggioritario ed il secondo proporzionale;

b) fosse applicata, sempre a livello periferico, una “Sperrklausel”, sta-

tuendosi l’esclusione dall’attribuzione dei mandati nel Land delle liste che

non avessero ottenuto una cifra elettorale pari ad almeno il 5% dei voti

validi nel Land stesso (si noti che si votava con una scheda unica) o che

non vi avessero conquistato (almeno) un collegio uninominale;

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 55

c) i seggi, nell’ambito della parte maggioritaria, fossero

immediatamente conquistati dai candidati capaci di conseguire la

maggioranza, anche solo relativa (Direktmandate);

d) i seggi, nell’ambito della parte proporzionale, fossero attribuiti con

il metodo D’Hondt, con l’ulteriore precisazione che dai seggi conquistati

da ciascuna lista sarebbe stato detratto un numero di seggi pari a quelli già

ottenuti nella parte maggioritaria, mentre sarebbero “residuati” i seggi

proporzionali necessari a conservare intatta la conseguita attribuzione

proporzionale;

e) non entrassero in tale meccanismo i seggi attribuiti al Land conqui-

stati da candidati indipendenti o non collegati ad alcuna lista della parte

proporzionale;

f) nel caso, poi, in cui il numero di seggi spettante ad una lista secondo

il riparto proporzionale fosse risultato inferiore a quello dei seggi

uninominali conquistati dai candidati della lista stessa, venissero attribuiti

a quest’ultima seggi addizionali fino a concorrenza della sua quota

maggioritaria (con conseguente incremento del totale dei seggi assegnati

al

Land); e, infine,

g) dal punto di vista dei candidati, fossero eletti, oltre a quelli vittorio-

si nei seggi uninominali, anche quelli indicati sulla scheda nell’ordine

prestabilito (liste bloccate).

17. La combinazione dei sistemi

Il modulo della “combinazione dei sistemi” si caratterizza, rispetto a

quelli finora considerati in ciò che concerne la stessa struttura del voto,

trovandocisi, infatti, qui, davanti a sistemi di votazione plurimi e distinti (a

differenza che nella “fusione dei sistemi”), ma, nello stesso tempo,

funzionalmente collegati (diversamente dalla “giustapposizione dei

sistemi”). Ciò che, tra l’altro, si riflette nella duplice strutturazione della

scheda elettorale (cd. “doppia scheda”: una per la parte maggioritaria e

l’altra per la parte proporzionale).

Quest’ultima circostanza ha senz’altro conseguenze di rilievo sulle

strategie di voto degli elettori, oltre che su quelle di presentazione delle

candidature, nonché, in ultima analisi, sulla resa complessiva del sistema

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56 Lara Trucco

elettorale in senso più o meno marcatamente selettivo/inclusivo. In vigenza

di una combinazione di sistemi, infatti, le probabilità che il suffragio

conservi qualche efficacia risultano in genere aumentate dal maggior

numero di voti a disposizione e dalla particolare configurazione della

formula.

La sussistenza, inoltre, di un paniere ricco di opportunità di scelta

diminuisce le capacità predittive dell’impatto del voto individuale,

aumentando, per contro, il grado d’incertezza dell’esito dell’elezione a

scapito dei tentativi di prefigurazione dei risultati elettorali. Certo, non è

possibile ignorare la maggior complessità del sistema di votazione e la sua

esposizione al rischio di cortocircuiti di tipo logico: la cui plausibilità può,

forse, soltanto essere rinvenuta in quel comune senso di consapevolezza e

di accettazione di un simile rischio a cui si è fatto già riferimento in

precedenza.

Limitandoci, in questa sede, a proporre un essenziale campionario di tali

technicalities, deve utilmente portarsi l’attenzione ancora

sull’ordinamento tedesco, dianzi considerato nella fisionomia del 1949.

Successivamente, infatti, l’originario impianto “misto” ha subito talune

modificazioni soprattutto sul versante del sistema di votazione, nel senso

della diversificazione e dell’ampliamento, sia pur nell’ambito di un sistema

a voto categorico, delle strategie di scelta degli elettori. Così, la più

importante innovazione, idonea a mutare la fisionomia stessa del sistema

misto di elezione, apportata dalla riforma dell’8 luglio 1953, è consistita

proprio nell’introduzione del cd. “doppio voto” in “doppie schede”,

attribuendosi all’elettore un primo suffragio “preferenziale” per la scelta

del candidato nel collegio uninominale (cd. Erststimme o “voto diretto” ai

candidati) e un secondo voto “blindato” per la scelta della lista (cd.

Zweitstimme o “voto alla lista”). Altri interventi hanno poi inciso sulla

composizione numerica del Bundestag (passata dai 400 seggi originari a

656, per ridiscendere, quindi, ai 598 membri fissi attuali);

correlativamente, è stata ritoccata la distribuzione dei seggi tra parte

maggioritaria e proporzionale (attualmente fissata al 50%). Infine,

l’applicazione della Sperrklausel è risalita dal livello del Land a quello

nazionale, in alternativa dell’ottenimento di almeno tre candidati nei

collegi uninominali, da parte delle formazioni in lizza, al posto dell’unico

(seggio acquisito) richiesto in precedenza.

La disciplina elettorale vigente prevede, dunque, che si prosegua con un

sistema di assegnazione dei seggi di carattere spiccatamente “misto”,

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 57

nell’ambito del quale, dei 598 seggi del Bundestag, 299 debbono ora essere

assegnati in collegi plurinominali territorialmente coincidenti con i Länder

(cd. quota plurinominale); mentre gli altri 299 vanno attribuiti nell’ambito

di altrettanti collegi uninominali (cd. quota uninominale), a scrutinio

maggioritario ad un turno, secondo la formula plurality di tipo inglese.

In questo senso, è, quindi, ancora la parte proporzionale a determinare

la composizione politica del Bundestag, in quanto la ripartizione dei seggi

fra le varie liste avviene in proporzione al numero totale dei voti di lista da

esse riportati, a condizione di aver superato la predetta soglia di

sbarramento al 5% (ciò che può consentire di considerare il sistema tedesco

alla stregua di un “proporzionale maggioritarizzato”), con effetto

determinante, a tale fine, della “seconda scheda”. La “prima scheda” è,

invece, decisiva nella composizione personale del Bundestag (con l’effetto

di un “proporzionale personalizzato”), mantenendosi, inoltre, fermo il

meccanismo di detrazione dei seggi uninominali conquistati (cd. mandati

diretti) dalla quota proporzionale, spettante alla lista ad essi collegata.

Come si sarà, a questo punto, percepito, la particolare focalizzazione del

sistema elettorale tedesco appare giustificata dalla ricchezza e

dall’articolazione delle tecniche combinatorie messe in campo, così come

il completamento dell’esame di siffatto sistema è ancora in grado di

confermare. Calcolate, dunque, le cifre elettorali di lista, il totale dei seggi

(a livello) di Land viene ripartito tra esse in proporzione, in applicazione

della formula Sainte-Laguë (dopo aver sperimentato dal 1985 al 2008 il

criterio Hare ed, originariamente, il metodo D’Hondt). Il numero dei seggi

così spettante a ciascuna lista in ogni Land viene dapprima occupato dai

candidati collegati usciti vincenti dall’Erststimme (il primo voto) nei

singoli collegi del Land, a titolo di “mandato diretto” e, quindi, da quelli

indicati nelle liste secondo l’ordine di presentazione, fino alla concorrenza

dei seggi ut supra attribuiti.

Più nel dettaglio può accadere che:

a) i vincitori nei collegi uninominali collegati alla lista risultino essere

non sufficienti numericamente per coprire l’ammontare di seggi spettante

alla lista di riferimento sulla base della parte proporzionale (ciò che può

verificarsi allorché una quota molto elevata di elettori si sia espressa in

senso favorevole ad una data lista e, contestualmente, a favore di candidati

collegati): in questo caso, la legge è univoca nello stabilire che i seggi

rimangono vacanti.

Può, però, verificarsi, altresì, il caso in cui:

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58 Lara Trucco

b) il numero dei seggi complessivamente attribuiti ai candidati nei

collegi uninominali risulti superiore alla quota di seggi che alla lista

collegata spetterebbe sulla base dei “secondi voti” (ciò che può verificarsi

allorché una quota molto elevata di elettori non abbia manifestato grande

favore per una data lista, ma, nel contempo, ne abbia preferito in grande

misura i candidati collegati): ebbene, in tale evenienza, la formazione

politica in questione conserva i seggi in più, sicché il totale dei seggi che

vanno a comporre il Bundestag risulta corrispondentemente innalzato (cd.

Überhangsmandate) rispetto al numero ordinario.

Il fenomeno di mandati in soprannumero, in netta crescita nel

“postunificazione” della Germania (allorquando se ne sono avuti sedici

mandati in soprannumero nel 1994, tredici nel 1998, cinque nel 2002,

sedici nel 2005 e ventiquattro nel 2009: a fronte di una media inferiore a

due nelle tornate elettorali precedenti (!)) sin dalla sua comparsa, è stato

bersaglio di imponenti critiche a motivo, fondamentalmente, della sua

portata distorsiva rispetto all’ideale proporzionale. Deve, peraltro, notarsi

come il Tribunale costituzionale tedesco, pur non smentendone in radice

le problematicità, lo abbia, tuttavia, fin dove possibile fatto salvo, col

considerare, secondo un approccio estremamente pragmatico,

l’impossibilità di qualunque sistema di ripartizione dei voti in seggi di

“raggiungere una perfetta eguaglianza del valore effettivo dei voti” (v. già

dec. 22 maggio 1963); e, d’altro canto, l’idoneità del principio di

eguaglianza di tollerare – in ragione di obiettivi “di fondamentale

importanza” (v. dec. 10 aprile 1997) e sino a che i collegi abbiano, nei

limiti del possibile, pari dimensioni – alterazioni del peso finale dei voti”,

“fintanto che rimangono nel margine di imperfezione proprio di qualsiasi

procedimento matematico” (v. dec. 24 novembre 1988).

Tuttavia, per uno strano scherzo del destino, è stato proprio il

problematico risultato derivante dall’applicazione di un meccanismo di

tipo puramente matematico ad aver indotto i giudici costituzionali tedeschi

ad interrompere l’attitudine di self-restraint che ha ispirato buona parte del

proprio “filone giurisprudenziale elettorale”. Per la precisione, in una

pronuncia del 3 luglio 2008, la Corte di Karlsruhe ha censurato il sistema

elettorale, tra l’altro, in quanto rendeva possibile, attraverso il suddetto

meccanismo dei mandati soprannumerari che, in determinate circostanze,

un numero maggiore di voti si traducesse in un numero minore di seggi

(cd. “paradosso del pregiudizio da aumento del consenso”, o cd.

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 59

“Negatives Stimmgewicht”). Trattasi, più precisamente, dell’eventualità

che:

– l’ottenimento di (ulteriori) voti (nella parte proporzionale del siste-

ma elettorale) possa produrre l’effetto controintuitivo di provocare la

perdita di seggi, e che, d’altra parte

– una qualche lista ottenga più seggi, pur non avendo visto aumentare

il proprio numero di voti.

La Corte, infatti – si noti, in una prospettiva attenta e sensibile alla

portata sostanziale del suffragio –, ha ritenuto di dover ravvisare il

contrasto di questo tipo di esito con i principi costituzionali di eguaglianza

e di libertà del voto, distintamente e congiuntamente intesi. Inoltre, di

rilievo è notare come l’occasione si sia rivelata propizia per il giudice

tedesco per chiarire che:

a) gli elettori devono essere messi in grado di sapere prima del voto

quali persone aspirino ad un mandato parlamentare e come il proprio voto

possa influire sul successo o il mancato successo dei candidati;

b) ciascun voto individuale deve esercitare tendenzialmente lo stesso

peso sull’elezione;

c) l’incidenza del voto deve andare nella direzione impressa dal

votante;

d) l’elettore deve poter avere una qualche cognizione dell’esito del

pro-

prio voto;

e) pur non potendosi pretendere che il suffragio risulti pienamente

efficace, deve essere assicurata almeno la possibilità, per chi vota, di

esercitare una qualche influenza sul risultato elettorale.

Considerazioni, queste, che, ci pare, portano, più in generale, ad

interrogarsi sull’ammissibilità di tutti gli istituti capaci di stravolgere i reali

assetti della rappresentanza politica e, particolarmente, sulla conciliabilità,

coi dettami della democrazia elettorale, dei meccanismi intesi – specie in

assenza di precise previsioni costituzionali al riguardo – a prefigurare i

rapporti di forza nelle assemblee rappresentative politiche in modo del

tutto slegato dalla volontà dal corpo elettorale. Il rischio, infatti, è,

all’evidenza, che, in tali situazioni, le elezioni finiscano per ridursi ad una

semplice “ratifica” di risultati in gran parte già predisposti dagli stessi attori

politici, fino all’estremo limite di dar corpo a forme plebiscitarie di

manifestazione del voto, in cui la capacità di incidenza del suffragio

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60 Lara Trucco

individuale è completamente azzerata, mentre totale è la precostituzione

dei risultati elettorali da parte delle forze al potere.

Ad ogni modo, si diceva come la Corte costituzionale tedesca abbia

dichiarato l’incostituzionalità della legge elettorale prescrivendo,

contestualmente, al legislatore di “riparare” la situazione entro il 30 giugno

2011. È stato così che, il 25 novembre 2011, è stata messa a punto la

diciannovesima legge di modifica della legge elettorale federale, le cui

previsioni, però, non sono state ritenute sufficientemente idonee a garantire

una più compiuta “proporzionalità” del risultato elettorale (col porre

rimedio alla compromissione dell’esito proporzionale dovuta

all’applicazione dei suddetti meccanismi legati ai mandati

soprannumerari). Di qui il ricorso, ancora una volta, al Tribunale

costituzionale federale, che, con una decisione del 25 luglio 2012, proprio

appellandosi alla natura proporzionalistica del sistema elettorale, ha

dichiarato l’illegittimità costituzionale anche della nuova disciplina. Al

fine di colmare la preoccupante lacuna normativa venutasi a creare il

legislatore ha quindi elaborato, in maniera pressoché pedissequa rispetto

alle indicazioni del giudice costituzionale una nuova soluzione elettorale,

con la previsione, in particolare, di cd. “mandati compensativi”

(Zusatzmandate), attribuiti in modo da correggere, al possibile, in senso

proporzionale i risultati delle singole liste (suscitando, peraltro, le critiche

di chi teme che una tale scelta produca una lievitazione dei cd. “costi della

politica”.

18. I “seggi premio”

Tornando al nostro repertorio delle technicalities elettorali, sembra

opportuno richiamare ora l’attenzione su di un meccanismo che, rispetto a

quelli fin qui esaminati, si caratterizza per il fatto di esplicare i propri effetti

in maniera ancora più “distante” dal voto degli elettori, essendo collegato

al solo risultato matematico dello scrutinio. In questo senso, anzi, sembra

possibile (e utile) determinare più in generale questo concetto di

“distanza”, andandosi da meccanismi che incidono già, variamente

“coartandola”, sulla stessa volontà elettorale, quali, ad es., il voto

categorico rispetto al voto plurimo preferenziale o, addirittura, “libero”; o

la lista chiusa (e, a maggior ragione, quella blindata) rispetto alla lista

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 61

aperta, dove è consentita, invece, una certa “ginnastica” della volontà; o,

ancora, alle technicalities che maggiormente tendono ad alterare

l’equilibrio espresso nelle urne, quali la stessa clausola di sbarramento

rispetto ad una contabilizzazione integrale dei suffragi.

Su questa stessa rappresentazione della “distanza” tra volontà elettorale

ed effetto reale del suffragio prodotto dal sistema va, poi, ancora innestato

il discorso circa la progressiva perdita di contatto tra voto e risultato man

mano che intervengono le famose technicalities, andandosi, anche qui, da

un ampio rispetto del principio di immediatezza, non incompatibile, a ben

guardare, anche con metodi di voto blindati (nel senso dell’esatta

corrispondenza tra scelta ed effetto “promesso”) – passandosi per

situazioni intermedie – ad una sostanziale alterazione degli stessi rapporti

rappresentativi espressi dal risultato dello scrutinio.

È, quest’ultimo, esemplarmente, il caso, appunto, dei cd. “seggi

premio”, su cui si tornerà a ragionare nel prosieguo, in riferimento al

sistema elettorale italiano introdotto dalla legge n. 270 del 2005, dato che

tale meccanismo interviene dopo che la formula elettorale è già stata

applicata e, pertanto, i rapporti di forza emersi dall’elezione sono già stati

“quantificati” e “qualificati” dallo scrutinio.

I “seggi premio” si hanno, infatti, com’è noto, allorché viga la

previsione dell’attribuzione ex lege, per l’appunto, di un certo numero di

seggi in base al conseguimento di un determinato risultato elettorale:

specificamente, quando l’obiettivo a cui si mira è quello di

assicurare/accentuare una composizione “maggioritaria” dell’assemblea,

tramite la predisposizione di una regola legale, avente lo scopo precipuo di

attribuire a chi ha ottenuto il maggior numero di voti più della metà dei

seggi in Parlamento. Ciò che getta luce sulla principale ragione per cui di

tale correttivo non viene più messa in dubbio l’idoneità a svolgere un ruolo

di “chiusura” (potrebbe dirsi, con Arrow, di natura fondamentalmente

“dittatoriale”) dei sistemi di elezione, nel perseguimento di una politica

elettorale di tipo maggioritario.

Peraltro, ci pare che proprio nella misura in cui tale correttivo si dimostri

capace non solo di intervenire in via del tutto autonoma dal voto popolare,

ma anche di manipolare i rapporti di forza scaturiti dalle elezioni, mutando

l’espressione di voto dello stesso corpo elettorale (sia in meglio, sia,

soprattutto, in peggio, con l’acuire la distanza tra i voti dati alle forze

politiche vincenti e quelli elargiti alle candidature perdenti), sia necessaria

una qualche sussunzione delle corrispondenti regole in previsioni di

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62 Lara Trucco

carattere costituzionale; sempreché, naturalmente, non si ritenga il

correttivo inconciliabile in radice con gli stessi dettami fondamentali di

eguaglianza e libertà del voto della democrazia elettorale.

Il meccanismo premiale in questione potrebbe, poi, rivelarsi

specificamente incompatibile con eventuali principi di diritto elettorale

presenti nelle Carte fondamentali orientati in senso proporzionalistico, con

la conseguenza dell’inammissibilità del suo innesto proprio nel tronco di

quei sistemi, appunto d’impronta proporzionalistica, nel cui ambito è per

solito impiegato.

Venendo adesso agli aspetti più tecnici, con l’avvertenza, sin d’ora, che

essi si ritrovano esemplarmente negli “originali” sistemi di elezione italiani

che si esamineranno nel prosieguo, il premio in questione può articolarsi

in vario modo, risultando, in ogni caso, per intuitive ragioni, strategica:

i) la fissazione dell’ammontare del premio stesso. Il premio può poi

essere

ii) “fisso”, o “variabile”, a seconda che lo stesso suo ammontare di-

penda o meno dal conseguimento di un certo risultato elettorale (da parte,

s’intende, di “chi vince”); ancora, la sua elargizione può andare iii) alla

lista o alla coalizione di liste; e la sua configurazione essere iv) su base

locale o su base nazionale.

Ciò posto, una distinzione scriminante è quella che si ha a seconda che

il premio sia

v) corrisposto al superamento o meno di un quorum di attribuzione e

che, in caso positivo, il quorum sia “di maggioranza assoluta” o “di

maggioranza relativa”, così che mentre:

– nel caso di premio per conseguimento del quorum di “maggioranza

assoluta”, si ha il cd. “premio per la maggioranza” (o “premio di

consolidazione”), vale a dire, l’attribuzione di seggi premiali per

consolidare una maggioranza parlamentare che già c’è, avendo saputo

ottenere con le proprie sole forze la maggioranza assoluta dei seggi in

Parlamento;

– nel caso, invece, di cd. “premio di maggioranza specifico”, ovvero

per conseguimento del quorum della “maggioranza relativa” prescritta, si

ha l’assegnazione di seggi premiali al fine di garantire che, prima di

ottenere ex lege la maggioranza assoluta, chi vinca goda, nei fatti, di un

livello di consenso da parte del corpo elettorale presunto come adeguato

dallo stesso legislatore;

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Cap. II – I sistemi di assegnazione dei seggi 63

– nell’ultima ipotesi, si ha il cd. “premio di maggioranza generico”,

ovverosia, l’attribuzione ex lege del premio alla forza politica che abbia

ottenuto, comunque, ossia al di là di soglie legislativamente imposte, la

sola maggioranza semplice dei suffragi al fine di garantire, in ogni caso, il

conseguimento della maggioranza parlamentare.

Non ci si nasconde, peraltro, come i vari tipi di premio presentino dei

profili di dubbia compatibilità coi principi di eguaglianza e di libertà del

suffragio, agendo essi nel senso della prefigurazione dei risultati elettorali

(quindi sull’imparzialità, nella misura in cui questa si ricollega alla

casualità degli esiti elettorali) e, quindi, come s’è anticipato, direttamente

sui rapporti di forza in ambito parlamentare e sulla capacità del voto

individuale d’influenzare l’esito dell’elezione. Derivandone, nel

complesso e in definitiva, un vulnus profondo al principio portante di tutti

i sistemi democratici, vale a dire, quello della sovranità popolare.

Nel caso, poi, di premi senza quorum, deve aggiungersi il rischio di

effetti distorsivi fuor di misura allorquando (anche “semplicemente” a

causa dell’elevato numero delle forze politiche in competizione) la

coalizione più votata risulti aver ottenuto un modesto numero di suffragi.

D’altra parte, la predisposizione di premi con quorum mentre, da un lato,

può rivelarsi inutile in quanto difficilmente attivabile, dall’altro lato,

presenta il rischio, per certi versi ancora più grave, di mortificare anche

gravemente la presenza e la capacità di azione della/e minoranza/e

parlamentare/i, compromettendo le prerogative ad esse riconosciute anche

(e soprattutto) da parte di norme di rango costituzionale. In ogni caso, il

premio non può arrivare a precludere l’accesso alle sedi rappresentative

alle forze di minoranza e di frustrare i meccanismi costituzionali di

garanzia “antimaggioritari”, tra cui, particolarmente, quelli posti a presidio

della stessa rigidità costituzionale.

Si tratta, a ben vedere, di preoccupazioni ricollegabili ad ogni previsione

di “seggi premio”, così che induce a riflettere, ad es., anche la

predisposizione (non a caso, più di interesse teorico che di rilievo pratico)

dei cd. “doppi premi”, finalizzati al duplice scopo di assicurare non solo,

come appena visto, alla maggioranza di godere di un solido margine di

sostegno nell’assemblea, ma anche alla minoranza di ottenere una adeguata

presenza in Parlamento, mediante l’elargizione di un “premio di

consolazione” fisso, a seconda dei casi, al miglior perdente (onde

incentivare una competizione di carattere bipolare) o ai migliori perdenti

(in una logica di tipo proporzionale).

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64 Lara Trucco

Analogamente, può ragionarsi per le varianti estreme del meccanismo

delle “quote di garanzia”, allorché non si limitino a promuovere un

semplice “diritto di tribuna” (ossia una presenza di carattere perlopiù

simbolico di minoranze nelle assemblee rappresentative), ma mirino a

garantire le rappresentanze di determinate categorie, svolgendo una

funzione a tutti gli effetti “riequilibratrice” del risultato elettorale. Anche

in questi casi, infatti, il rischio è di assistere a vere e proprie pianificazioni

ex ante della geografia politica delle Camere elettive, a detrimento del reale

rapporto di forza fotografato dal suffragio e dell’effettiva capacità di

incidenza del voto individuale, con irrimediabile lesione del “nucleo

essenziale” del diritto – e financo della libertà – di voto.

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III

I SISTEMI ELETTORALI

NELL’ESPERIENZA COSTITUZIONALE

ITALIANA

1. La “forma di legge” dei sistemi elettorali italiani all’insegna

della continuità storica

Veniamo ora ad esaminare più da vicino l’“esperienza” elettorale del

nostro Paese, prendendo le mosse dallo Statuto albertino (del 4 marzo

1848) che, anche sulla scorta dei suoi modelli ispiratori (la Charte del 1830

e la Costituzione belga del 1831), nella sua laconicità di riferimenti in

materia rinviava interamente, per la disciplina delle elezioni della Camera

elettiva, “alla legge” (ex art. 39). Ed infatti, si è inaugurata così, nel nostro

ordinamento, una tendenza – potrebbe dirsi: un approccio alla materia –

destinata a mantenersi ed anzi, per certi versi, a consolidarsi nel tempo,

giungendo fino all’epoca attuale. Per cui, come avremo modo di meglio

esaminare nel prosieguo, ancora oggi, nel nostro Paese, il legislatore

ordinario risulta il pressoché esclusivo affidatario della regolamentazione

del sistema elettorale per le elezioni politiche.

Va peraltro rilevato, ad un tale riguardo, come, di recente, specie nei

confronti della legge elettorale di Camera e Senato, sia venuta in

discussione la questione se questa materia sia disponibile da parte del

decreto-legge. Evenienza alla quale, per vero, si imputa soprattutto il

rischio, insito nella natura provvisoria della fonte, che la normativa sortisca

un effetto “fotografia”, valevole, cioè, solo per la tornata elettorale di cui è

imminente lo svolgimento.

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66 Lara Trucco

Un ulteriore profilo critico, poi, riguarda la stessa allegazione dei

presupposti della necessità e dell’urgenza per legittimare l’uso del potere

di decretazione in prossimità degli appuntamenti elettorali, allorché la

motivazione faccia riferimento allo stato di scioglimento delle Camere,

avallandosi il ricorso all’art. 77 Cost. come strumento d’intervento

“ordinario” in periodi particolarmente delicati quali sono, appunto, quelli

di passaggio tra una legislatura e l’altra: e ciò, si noti, anche quando risulta

chiaro che un “tempestivo” ricorso alle “legislazione ordinaria” non

avrebbe trovato ostacolo per l’intero decorso della legislatura, dandosi in

questi casi adito al sospetto che le “condizioni” per ricorrere alla

decretazione d’urgenza siano, se non “programmate”, quanto meno

“attese”. Anche se ci sembra che le maggiori esitazioni che l’impiego della

decretazione d’urgenza in materia elettorale suscita siano date dalla

possibilità che, attraverso tale strumento, si pervenga a modificare “di

fatto”, ad esclusivo vantaggio della parte politica “di maggioranza”, le

regole fondamentali di scelta dei rappresentanti. Per non dire, poi, che,

almeno rispetto alla “formula” e al “voto” tecnicamente intesi, pare assai

arduo immaginare la presenza di una qualche situazione straordinaria di

necessità ed urgenza, tale da giustificare il ricorso alla fonte emergenziale.

Per diverso (ma connesso) profilo, pure il versante della tecnica

redazionale elettorale offre spunti di rilievo: dal suo esame, infatti, emerge

come le varie riforme avvicendatesi nel tempo – che si cercherà qui di

passare sinteticamente in rassegna – si siano “impiantate” su di un quadro

“formale” di fondo talmente stabile da rimanere, financo negli articoli di

riferimento, fondamentalmente immutato. Il punto di partenza può

rinvenirsi nella lontana legge n. 680 del 1848, che nel regolamentare,

appunto, la materia, la collocò in sei diversi titoli:

1. Titolo I: delle condizioni per essere elettore, e del domicilio

politico;

2. Titolo II: Capo I, Della prima formazione delle liste elettorali; Capo

II, Della revisione annua delle liste elettorali;

3. Titolo III: Dei collegi elettorali; 4. Titolo IV: Dei deputati;

5. Titolo V: Disposizioni generali;

6. Titolo VI: Disposizione particolare […].

Volendo mantenere la nostra attenzione sul piano formale, può dirsi che,

da questo punto di vista, le modifiche di maggior momento sono

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67

intervenute nel 1882, quando è stata adottata una tecnica legislativa

destinata a divenire, per così dire, una “costante” del settore anche (e non

solo) nel nostro ordinamento: quella, cioè, di “raccogliere” in un “Testo

unico” tutta la normativa in materia, riunendone i profili più tecnici

(esemplarmente, l’apportionment delle circoscrizioni elettorali) in

allegato, “come parte integrale della normativa” stessa. Così, se si guarda

ai testi normativi di riferimento vigenti in Italia in punto di sistemi

elettorali, ci si avvede di come a tutt’oggi essi siano dati da:

– il d.P.R. (Testo unico) 30 marzo 1957, n. 361, per la elezione della

Camera dei deputati;

– il d.lgs. (Testo unico) 20 dicembre 1993, n. 533, per la elezione del

Senato della Repubblica;

– la legge n. 459 del 2001, per l’esercizio del diritto di voto dei citta-

dini italiani residenti all’estero;

– la legge 24 gennaio 1979, n. 18, per l’elezione dei rappresentanti

dell’Italia al Parlamento europeo; e, a livello locale, da:

– il d.P.R. (Testo unico) 16 maggio 1960, n. 570: per la composizione

e l’elezione degli organi delle amministrazioni comunali; dalla

– legge 25 marzo 1993, n. 81: per l’elezione diretta del sindaco, del

pre-sidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio

provinciale; anche se è bene subito precisare che “il cuore” della normativa

locale in materia è stato poi ricondotto nel

– d.lgs. (Testo unico) 18 agosto 2000, n. 267, recante, più in generale,

“le leggi sull’ordinamento degli enti locali”.

Più varia e composita è stata, ab origine, la regolamentazione dei

sistemi di elezione degli organi consiliari regionali, essendo prevista:

– per le regioni a statuto speciale (talora) in norme di rango costitu-

zionale; ed invece

– per le regioni a statuto ordinario, nelle leggi 17 febbraio 1968, n.

108 e 23 febbraio 1995, n. 43. Su questa base, come si vedrà, è intervenuto

come una cometa il legislatore costituzionale “consegnando” alle regioni,

in via transitoria, vale a dire, in attesa dell’entrata in vigore dei nuovi statuti

e delle nuove leggi elettorali regionali (cd. tandem procedurale) il sistema

di elezione previsto dalle norme qui sopra richiamate (ex art. 2, legge cost.

n. 1 del 1999).

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68 Lara Trucco

Anticipato, con ciò, il quadro normativo ad oggi vigente nel nostro

ordinamento in materia di sistemi elettorali ai diversi livelli di governo, e

ripromettendoci di tornare ad esaminarne i contenuti caratterizzanti nel

corso del capitolo, fermiamo ora la nostra attenzione sul “retroterra

storico” nel settore. A tale riguardo, può sin d’ora anticiparsi come il nostro

ordinamento abbia conosciuto vari tipi di sistemi di votazione e di

assegnazione dei seggi, pur sempre, però, è bene subito dirlo, nell’ambito

del voto categorico plurimo/singolo, a seconda dei casi,

preferenziale/blindato. Su questa base, come si vedrà appresso, la valenza

sostanziale del voto individuale nella democrazia elettorale italiana è

risultata variare in dipendenza sia del tipo di suffragio – ristretto (1848-

1911)/allargato (1912-1944)/universale (dal 1945) – sia, una volta

stabilizzatasi finalmente sul suffragio universale, degli stessi meccanismi

elettorali.

[…]

4. La lista unica blindata durante la dittatura

Sempre con specifico riferimento alla manifestazione del voto, è

opportuno ora tornare a volgere lo sguardo al contesto europeo del XIX

secolo, per osservare come, in base alle teorie elaborate dalla

giuspubblicistica europea dell’epoca, “la sovranità” appartenesse, in via

esclusiva ed originaria, all’entità statuale e/o nazionale, assoluta detentrice

di ogni tipo di potere pubblico.

La “volontà dello Stato” era poi suscettibile di “farsi volontà umana”,

come teorizzato, in special modo, dalle teorie organicistiche, destinate,

com’è noto, a divenire il vero e proprio “spirito vitale” dei rapporti tra la

sfera pubblica e quella privata in ambito ordinamentale. Tale fenomeno –

che Kelsen avrebbe definito di “ipostatizzazione ordinamentale” – favorì,

all’epoca, il maturare di una concezione “totalizzante” della sfera della

partecipazione politica – e, particolarmente, del suffragio –, dato che, in

esso, prese, con ciò stesso, a scorgersi l’esercizio di pubbliche funzioni, la

cui titolarità, dunque, doveva, pur sempre, ricondursi in capo all’entità

statale.

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Nell’affermazione di questo tipo di approccio un ruolo di primario

rilievo ebbe la dottrina tedesca ottocentesca. Ciò, si noti, anche in reazione

alla cd. “fiammata francese” del 1789, che, muovendosi in un’ottica

giusnaturalista, aveva voluto identificare nell’elettorato attivo un diritto

naturale dell’individuo: il voto sarebbe stato così valorizzato per la sua

idoneità a favorire l’identificazione tra chi avrebbe dovuto fare le leggi e i

suoi destinatari (v., esemplarmente, l’art. 6 della Dichiarazione dei diritti

del 1789).

Su di un binario ancora diverso, più univocamente orientato nel senso

della valorizzazione dell’idea di “sovranità popolare”, si mosse, invece,

quell’altra parte della dottrina d’Oltralpe di fine XIX secolo, che, proprio

mirando al superamento delle concezioni del voto dominanti all’epoca –

appunto, vuoi del voto come funzione (teoria della sovranità nazionale), al

cui adempimento i titolari non si sarebbero potuti sottrarre, vuoi del voto

come diritto (teoria della sovranità statale), al cui esercizio i titolari non

sarebbero potuti essere costretti, ma di cui avrebbero potuto, comunque,

almeno in linea teorica, essere privati – propose una razionalizzazione

dell’idea del suffragio come “potere” (cd. “pouvoir du suffrage”) proprio

di ciascun individuo per il fatto stesso di partecipare (essere parte)

dell’ordinamento giuridico in forza del patto costituente.

Si noti, però, ancora, come, sempre in una prospettiva attenta al “valore

costituente” del suffragio e ai punti di contatto che esso presenta col

principio di sovranità popolare, il voto individuale possa essere, invece,

più linearmente concepito come un diritto fondamentale di esercizio di una

quota del complessivo potere elettorale del corpo sovrano di cui ciascun

elettore, in quanto tale, è parte.

Al di là delle concezioni teoriche, il dato di fatto è che, agli inizi del XX

secolo, il passaggio di testimone dalla “sovranità statale” a quella

“popolare”, lungi dall’essere realizzata, finì per essere vittima di quegli

stessi eventi che aveva contribuito a produrre. Vero è, infatti, che,

all’esigenza di dar voce alla pluralità di istanze sociali emergenti nel

nascente Stato pluralista, pressoché tutte le Carte costituzionali risposero,

tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, arricchendosi di cataloghi di

diritti “dei cittadini”, dando così spazio alle libertà proprie della sfera

politica (significativa, al riguardo, fu anche la promulgazione, il 1° luglio

1901, della prima legge francese sulla libertà di associazione). Tuttavia, a

motivo, tra l’altro, dell’incapacità dei partiti politici dell’epoca di farsi

efficaci connettori tra società civile e sfera di governo, tali proclamazioni

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70 Lara Trucco

di principio si scontrarono presto con la difficoltà di conferire alle

medesime istanze sociali un effettivo “peso” nella sfera istituzionale.

Nella situazione che venne a crearsi, fu, dunque, gioco facile per l’asse

del potere dirigersi ancora più “in alto” (rispetto alla propria allocazione

nel baricentro statuale), attratto dalla forza affascinante e prorompente

dell’idea – non meglio identificabile – di “Nazione”, personificata nelle

figure di leaders carismatici capaci di farsi, almeno apparentemente,

interpreti e fautori dei sentimenti del popolo (inteso, qui nella sua

accezione di “collettività omogenea”, ritenuta depositaria di valori

tradizionali tipici ed esclusivi del patrimonio culturale e spirituale

nazionale). Si assistette, insomma, all’epoca, alla consacrazione dell’idea

di “sovranità Nazionale”, all’insegna di una rinnovata forma di gestione

personalistica ed autoritaria del potere. Situazione, questa, che rese

possibile (al di là delle proclamazioni di principio), l’inverarsi di quanto di

più distante in realtà possa esservi dal principio di sovranità popolare e

dalla realizzazione dell’ideale democratico: la subordinazione, cioè, degli

individui, al “valore supremo” della Nazione, attraverso la considerazione

dei singoli alla stregua di “meri strumenti” del potere politico (e non

viceversa).

Ebbene, dal nostro punto di vista, con specifico riguardo alle vicende

italiane, significativo è osservare come, sul piano tecnico-giuridico,

l’assunzione, da parte del regime fascista, di un volto autoritario si sia

accompagnata allo “scardinamento” del sistema di elezione, preceduto,

questo, da una escalation nella “gestione” degli stessi meccanismi

elettorali fino al punto da assicurarsi la prefigurazione dei risultati,

privandosi, nella sostanza, gli elettori di qualunque capacità di incidenza

sull’esito delle elezioni, con l’annientamento, dunque, della valenza del

voto individuale.

A tal fine è possibile, e forse utile, distinguere, in estrema sintesi, due

fasi: i) una fase “populistica”; e ii) una fase “autoritaria”.

i) Nel “primo periodo” (fase populistica), che occupò, all’incirca gli

anni Venti, il regime seppe sfruttare al meglio le potenzialità ed il

significato plebiscitario delle consultazioni popolari, fondando la propria

ragion d’essere sulla legittimazione derivante(gli) da un ampio consenso

popolare (da più parti reputato “di massa”), manifestato, tra l’altro,

attraverso il ricorso alle urne. Che, poi, peraltro, il sistema di elezione

(rectius: la consultazione) avesse assunto, nel tempo, il carattere del vero

e proprio “plebiscito”, è dato di vedere nel fatto che i risultati elettorali

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fossero, nella forma e nella sostanza, praticamente precostituiti.

Tecnicamente, ciò fu reso possibile anche e soprattutto dal sistema di

elezione attraverso cui poté prevedersi:

– in un primo momento, con la legge 18 novembre 1923, n. 2444

(meglio nota come “legge Acerbo”, dal nome del suo proponente, l’allora

Sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Giacomo Acerbo) che

addirittura i due terzi dei seggi alla Camera sarebbero dovuti essere

assegnati alla lista di maggioranza relativa, a condizione che avesse

ottenuto almeno il 25% dei suffragi (“premio di maggioranza specifico”),

mentre il rimanente terzo sarebbe dovuto essere suddiviso in maniera

proporzionale ai voti ottenuti dalle restanti liste (cd. “proporzionale

zoppa”);

– e, in un secondo momento, con la legge 17 maggio 1928, n. 1019,

che il “voto singolo categorico” fosse associato ad una “lista unica

blindata” (cd. “listone fascista”), compilata dal Gran Consiglio del

fascismo. Così, “la votazione per l’approvazione della lista dei deputati

designati” doveva avvenire attraverso l’espressione, “in calce alla formula

per sì e per no”, “mediante schede portanti il segno del fascio littorio e la

formula: approvate voi la lista dei deputati designati dal gran consiglio

nazionale del fascismo?” (ex art. 6). Il tutto, nell’ambito di una sola grande

circoscrizione, dato che “tutto il regno” costituiva un “collegio unico

nazionale” (ex art. 1).

In questo modo, il regime pose le coordinate essenziali per

monopolizzare l’intera area dell’“offerta elettorale”, finendo per azzerare

del tutto la valenza sostanziale del voto individuale e, con essa, altresì,

come s’è anticipato, la libertà di suffragio dell’elettore.

ii) Nel “secondo periodo” (fase autoritaria), lo Stato autoritario prese

apertamente a negare il principio della rappresentanza politica di

ascendenza liberale, non nascondendo nemmeno il proprio disprezzo nei

confronti della “forza” dei numeri. Così, lo stesso Mussolini non perse

occasione per negare «che il numero per il semplice fatto di essere

numero», potesse «dirigere le società umane» e «che questo numero possa

governare attraverso una consultazione periodica [...]». Sicché, in

quest’ottica, la conseguenza della considerazione degli strumenti elettorali

alla stregua di meri «ludi cartacei» fu pressoché scontata, col sancirsi la

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72 Lara Trucco

soppressione del momento elettorale ed anche il formale, definitivo,

scardinamento del circuito democratico italiano.

5. Il voto plurimo categorico preferenziale con formula inclusiva

per la Costituente

Nel secondo dopoguerra, il principio proporzionale poté (ri)affermarsi

negli ordinamenti in cui l’immagine dei partiti politici era riuscita a

ritrovare un nuovo smalto a seguito delle vicende belliche. Un esempio di

ciò è fornito dalla prima esperienza repubblicana nel nostro Paese, in cui,

anzi, la valorizzazione della proporzionale assunse il significato del tutto

particolare di principio posto alle fondamenta dell’edificio ordinamentale

dalle forze politiche che avevano sottoscritto il patto costituente, nella

consapevolezza della sua idoneità a garantire il coinvolgimento nel sistema

costituzionale, in linea di massima, di tutte le forze politiche democratiche.

Di qui, la scelta di adottare un sistema elettorale di tipo inclusivo, al

possibile proiettivo, di natura, insomma, proporzionale (d.lgs.lgt. n. 74 del

1946), fatta in vista della ricostruzione istituzionale, segnatamente, per dar

corpo alla previsione (contenuta nell’art. 1 del d.l.lgt. n. 151 del 1944) di

far eleggere per la prima volta “a suffragio universale diretto e segreto

un’Assemblea costituente per deliberare la nuova Costituzione dello

Stato”.

In tale rinnovato contesto, fu, dunque, in qualche modo nelle cose, il

recupero, come punto di partenza, della legge elettorale del 1919. Su questa

base, il d.lgs.lgt. n. 74 del 1946, ripropose il voto di approvazione,

coll’attribuire ad ogni elettore “un voto di lista” (ex artt. 2 e 45), e

riconoscendo, contestualmente, la “facoltà”, a ciascuno, “di attribuire

preferenze, per determinare l’ordine dei candidati compresi nella lista

votata” e, precisamente (ex art. 45):

– due preferenze se, nel collegio, i deputati da eleggere fossero stati

fi-no a 15; e

– tre preferenze se, nel collegio, i deputati da eleggere fossero stati

“da 16 in poi”.

In vigenza di tale sistema di elezione, sarebbe, dunque, dovuta avvenire

l’elezione di 573 deputati: tuttavia, le consultazioni non poterono svolgersi

nelle province di Bolzano, Trieste e nella Venezia Giulia (Gorizia, Pola,

Fiume e Zara), in quanto tali territori erano ancora sotto l’occupazione

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militare degli alleati Anglo-Americani e della Jugoslavia. Pertanto, il 2

giugno 1946 (contestualmente allo svolgimento del referendum

istituzionale per la scelta tra monarchia e repubblica), all’Assemblea

costituente furono eletti (solo) 556 deputati, nell’ambito di 32 collegi

(plurinominali).

3. Segue. L’elezione dei rappresentanti dell’Italia al Parlamento

europeo

Attualmente, se si prescinde dall’ipotesi, assai circoscritta, di voto di

approvazione prevista per i cittadini italiani residenti all’estero (a cui,

infatti, l’art. 11, comma 3, della legge n. 459 del 2001 ha dato modo di

“esprimere due voti di preferenza nelle ripartizioni alle quali sono

assegnati due o più deputati o senatori”), il solo sistema in cui vige il voto

di approvazione è quello per l’elezione dei rappresentanti dell’Italia al

Parlamento europeo.

La legge n. 18 del 1979, infatti, già nella versione originaria, aveva

stabilito che l’elettore potesse “manifestare non più di tre preferenze nella

prima circoscrizione; non più di due nella seconda, terza e quarta

circoscrizione ed una nella quinta circoscrizione”. Tale previsione, da

ultimo, è stata modificata (dall’art. 5 della legge n. 90, dell’8 aprile 2004),

uniformandosi a “non più di tre” il numero di preferenze esprimibili

dall’elettore “in ogni circoscrizione” (art. 14).

Più nello specifico, il voto di approvazione si innesta su di un formato

circoscrizionale che vede la suddivisione del territorio nazionale in 5

circoscrizioni plurinominali, comprendenti varie regioni, che si vedono

assegnatarie di un numero di seggi variabili (per un totale di 72) in

dipendenza della popolazione, secondo quanto si schematizza qui di

seguito:

1. Italia nord-occidentale (Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria,

Lombardia): 19 seggi;

2. Italia nord-orientale (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia

Giulia, Emilia-Romagna): 13 seggi;

3. Italia centrale (Toscana, Umbria, Marche, Lazio): 14 seggi;

4. Italia meridionale (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata,

Calabria): 18 seggi;

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74 Lara Trucco

5. Italia insulare (Sicilia, Sardegna): 8 seggi.

Il calcolo dei seggi attribuiti alle liste avviene a livello centrale nel

collegio unico nazionale, per tramite (ex art. 21) del metodo dei quozienti

naturali e dei più alti resti (in caso di parità di resti, i seggi sono assegnati

“a quelle liste che abbiano avuto la maggiore cifra elettorale nazionale”; e,

nell’ipotesi di ulteriore parità, per sorteggio), tra le liste che abbiano

conseguito sul piano nazionale la soglia del 4% (introdotta dalla legge 20

febbraio 2009, n. 10). In applicazione della medesima logica avviene, poi,

l’ulteriore riparto dei seggi così assegnati, fra le singole liste, a livello

circoscrizionale, individuando i seggi spettanti a ciascuna lista nelle varie

circoscrizioni grazie al quoziente elettorale di lista (calcolato dividendo la

cifra elettorale nazionale di lista per il numero di seggi spettanti alla lista

stessa; a questo punto il quoziente “peserà” il seggio conquistato a livello

circoscrizionale).

Nel complesso, può dirsi che il sistema di elezione dei parlamentari

europei sia rimasto improntato a quel “principio proporzionalista” che,

come si vedrà a breve ha informato di sé, per la prima fase repubblicana, il

nostro ordinamento, e che, a tutt’oggi, risulta caratterizzare il “patrimonio

elettorale europeo” (acquis électoral communautaire). Prova di questo, del

resto, al di là dell’esame delle legislazioni degli Stati membri, ci viene data

dalla Decisione del Consiglio, 2002/772/CE, Euratom (contenente il

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quadro normativo di riferimento, dell’Unione come tale, in punto di

elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo), che, in vista, appunto,

di valorizzare i “principi comuni a tutti gli Stati membri” in materia, ha

stabilito che l’elezione dei membri del Parlamento europeo “In ciascuno

Stato membro” debba avvenire “a scrutinio di lista” o – si noti il richiamo

al meccanismo di trasferibilità preferenziale – a scrutinio “uninominale

preferenziale con riporto di voti di tipo proporzionale” (ex art. 1).

Per opportuna completezza val la pena di ricordare che, fino

all’approvazione di una legge elettorale comune europea (preconizzata, si

noti, già dall’art. 21, par. 3, del Trattato di Parigi del 1951 e

successivamente riproposta dall’art. 7 dell’“Atto relativo all’elezione dei

rappresentanti nel Parlamento europeo a suffragio universale diretto”,

allegato alla decisione del Consiglio del 20 settembre 1976), gli Stati

membri restano competenti a determinare il proprio sistema elettorale

(benché gli ultimi progetti di riforma diano prova della volontà del

legislatore comunitario di occupare un certo spazio nella materia, per cui

25 deputati europei “supplementari” dovrebbero essere eletti, nel 2014, in

via sperimentale, in una circoscrizione unica corrispondente all’intero

territorio dell’Unione europea).

9. Il voto singolo categorico con formula (più) selettiva a livello

territoriale. I comuni

Deve, peraltro, ora rilevarsi come gli enti locali siano stati le prime

realtà istituzionali ad avere avuto a che fare, all’inizio degli anni Novanta,

con nuove regole d’impronta più marcatamente “mista” per l’elezione dei

propri organi rappresentativi, in forza, come s’è anticipato, della legge n.

81 del 1993, ora in molta parte confluita nel d.lgs. n. 267 del 2000.

[…]

b) Nei comuni sino a 15 mila abitanti: il meccanismo del “voto fuso”

basato sul voto singolo categorico preferenziale ha trovato il terreno più

fertile in cui fiorire. Un tale meccanismo, infatti, lo si ritrova, qui (ex art.

71 del d.lgs. n. 267 del 2000), ancora più fortemente compatto in direzione

maggioritaria rispetto alle previgenti regole sulla provincia più sopra

descritte. In particolare, l’elettore può (ex art. 71, commi 5 e 7):

i) votare per un candidato alla carica di sindaco (segnando il relativo

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76 Lara Trucco

contrassegno); ed (eventualmente) ii) esprimere un voto di preferenza per

un candidato alla carica di con-

sigliere comunale purché compreso nella lista collegata al candidato alla

carica di sindaco prescelto (scrivendone il cognome nella apposita riga

stampata sotto il contrassegno);

Più precisamente (secondo quanto ora previsto dall’art. 2 della legge 23

novembre 2012, n. 215), nei comuni con popolazione superiore ai 5.000

abitanti i voti di preferenza espressi dagli elettori (a beneficio di candidati

compresi nella lista collegata al candidato alla carica di sindaco prescelto)

possono essere uno o due, a condizione, in questo secondo caso, che le

preferenze riguardino candidati di sesso diverso della stessa lista: pena,

l’annullamento della seconda preferenza (cd. “seconda preferenza di

genere”). Al proposito, ci si limita a rilevare il carattere decisivo che viene

ad assumere, in presenza della “seconda preferenza di genere”, la

composizione della lista di candidati, dovendo, questa, essere “fornita”

della necessaria “offerta elettorale” se non si vuole correre il rischio di

forme di precostituzione dei risultati. Per diverso profilo, anche se pur

sempre al fine di favorire la rappresentanza di entrambi i sessi, la stessa

legge pone divieto a che, nelle liste, uno dei due sessi risulti presente “in

misura superiore ai due terzi dei candidati” (cd. “riequilibrio di genere

nelle liste elettorali”).

Ad ogni modo, in tutte le menzionate opzioni il voto si intende attribuito

sia al candidato alla carica di sindaco, sia a “ciascuna lista di candidati alla

carica di consigliere” (comma 7, cit.) ad esso collegata. Pertanto, non è

possibile optare per il voto disgiunto, essendo precluso il voto per il

sindaco e per un candidato al consiglio che non appartenga a una delle liste

ad esso collegate. Così come non è possibile votare esclusivamente per il

candidato sindaco, senza che tale voto vada anche a beneficio delle

candidature che lo sostengono.

Più nel dettaglio, la disciplina attuale prevede che “l’elezione dei

consiglieri comunali venga effettuata con metodo maggioritario

contestualmente alla elezione del sindaco”, per cui, del tutto

conformemente alle dinamiche maggioritarie, il candidato che prende più

voti risulta eletto e con lui restano eletti i due terzi dei consiglieri fra i

candidati della sua (unica) lista, mentre gli altri seggi sono ripartiti fra le

altre liste in proporzione ai voti avuti, con metodo D’Hondt.

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77

Si noti, poi, che, in precedenza, era previsto che “Nell’ambito di ogni

lista i candidati [fossero] proclamati eletti consiglieri comunali secondo

l’ordine delle rispettive cifre individuali” (ex art. 5, comma 8, della legge

25 marzo 1993, n. 81). La normativa vigente, invece (allineandosi a quella

dei comuni con popolazione superiore ai 15 mila abitanti, ex art. 73,

comma 6), stabilisce, con evidente favore per le ragioni “di lista”, che

“Nell’ambito di ogni lista i candidati” siano “proclamati eletti consiglieri

comunali [i candidati] secondo l’ordine delle rispettive cifre individuali,

costituite dalla cifra di lista aumentata dei voti di preferenza” (ex art. 71,

comma 9, del d.lgs. n. 267 del 2000). È rimasta, invece, invariata l’ultima

parte del disposto che prevede che “A parità di cifra, sono proclamati eletti

i candidati che precedono nell’ordine di lista. Il primo seggio spettante a

ciascuna lista di minoranza è attribuito al candidato alla carica di sindaco

della lista medesima”. Nell’ipotesi, poi, per vero improbabile, della parità

di voti tra candidati, si procede a ballottaggio fra i due candidati che hanno

ottenuto il maggior numero di voti, da effettuarsi la seconda domenica

successiva; ed in caso di ulteriore parità, viene eletto il più anziano di età.

Da ultimo, deve quanto meno accennarsi alla previsione, tanto singolare

(nel panorama comparato) quanto indispensabile ai fini di una qualche

garanzia di democraticità dell’elezione (salvo poi accorgersi della sua

eludibilità, attraverso la presentazione di liste di candidati fittizie …), per

cui, nell’ipotesi di lista unica, ovvero nell’eventualità che “sia stata

ammessa e votata una sola lista”, per l’elezione di “tutti i candidati

compresi nella lista”, e del “candidato a sindaco collegato”, è necessario (a

pena di nullità dell’elezione) che

– la stessa lista abbia riportato “un numero di voti validi non inferiore

al 50 per cento dei votanti” (cd. “quorum funzionale”) e che

– “il numero dei votanti non sia stato inferiore al 50 per cento degli

elet-tori iscritti nelle liste elettorali del comune” (cd. “quorum strutturale”).

Assai significativo, peraltro, è il fatto che una tale previsione fosse già

stata contemplata agli esordi dell’ordinamento repubblicano dal Testo

Unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle

Amministrazioni comunali (ex art. 50, T.U. n. 203 del 1951), con lo

stabilire, nella menzionata ipotesi di una sola lista candidata (ed a pena,

anche qui, di nullità dell’elezione) che:

– nei Comuni con popolazione sino a 10.000 abitanti (limite, in

segui-to, abbassato a 5.000 dalla legge n. 663 del 1964), fossero eletti i

candidati che avessero riportato “un numero di voti validi non inferiore al

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78 Lara Trucco

20 per cento dei votanti” (“quorum funzionale”), purché il numero dei

votanti non fosse stato “inferiore al 50 per cento degli elettori iscritti nelle

liste elettorali del Comune (“quorum strutturale”); mentre

– nei Comuni con popolazione superiore, si sarebbero dovuti

intendere eletti “i candidati compresi nella lista” purché essa avesse

“riportato un numero di voti validi non inferiori al 50 per cento dei votanti”

(“quorum funzionale”), ed il numero dei votanti non fosse stato “inferiore

al 50 per cento degli elettori iscritti nelle liste elettorali del Comune”

(“quorum strutturale”).

Attualmente, l’art. 71, comma 10, T.U. n. 267 del 2000 per l’elezione

del sindaco e del consiglio comunale nei comuni sino a 15 mila abitanti

prevede, a pena di nullità dell’elezione, che “Ove sia stata ammessa e

votata una sola lista”, siano “eletti tutti i candidati compresi nella lista, ed

il candidato a sindaco collegato, purché essa abbia riportato un numero di

voti validi non inferiore al 50 per cento dei votanti ed il numero dei votanti

non sia stato inferiore al 50 per cento degli elettori iscritti nelle liste

elettorali del comune”. Ci si limita, al proposito, a rilevare come la Corte

costituzionale, nella sent. n. 242 del 2012, abbia fatto salva

l’interpretazione ed applicazione (di una tale normativa) in base alla quale,

ai fini del calcolo del suddetto quorum strutturale dei votanti, devono

essere contabilizzati pure i cittadini iscritti all’Anagrafe degli italiani

residenti all’estero (AIRE).

c) Nei comuni con più di 15 mila abitanti: è stato invece previsto il cd.

“voto preferenziale disgiungibile”, consistente, in senso diametralmente

opposto rispetto al voto fuso, in due voti veri e propri a beneficio,

rispettivamente di sindaco e consigliere comunale.

Più precisamente, il sistema di voto per l’elezione dei consigli e dei

sindaci dei comuni con più di 15 mila abitanti (ex art. 72, del d.lgs. n. 267

del 2000) consente di esprimere il proprio suffragio:

i) a beneficio di una lista e del candidato sindaco dalla medesima lista

sostenuto (voto doppio), tracciando un segno sia sul contrassegno della

lista, sia in corrispondenza rettangolo che contiene il nominativo del

candidato sindaco prescelto; ii) a favore solo di una lista ed

automaticamente anche per il sindaco da essa sostenuto (voto fuso),

tracciando un segno solo sul contrassegno della lista; iii) per un candidato

alla carica di sindaco e per una lista diversa (cd. voto disgiunto) rispetto a

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79

quella/e da cui questi è sostenuto, segnando, cioè, il simbolo della lista e,

contestualmente, il nome di un candidato sindaco non collegato a quella

lista;

Si deve precisare che nelle ipotesi i), ii) e iii) all’elettore è dato anche

modo (secondo quanto ora previsto dall’art. 2 della già menzionata legge

n. 215 del 2012) di esprimere uno o due voti di preferenza per dei candidati

alla carica di consigliere comunale, nell’ambito, però, esclusivamente,

della lista votata ed a condizione, altresì, come s’è visto supra, che le

preferenze riguardino candidati di sesso diverso della stessa lista (cd.

“seconda preferenza di genere”). Inoltre, anche qui, è fatto divieto a che,

nelle liste, uno dei due sessi risulti presente “in misura superiore ai due

terzi dei candidati” (cd. “riequilibrio di genere nelle liste elettorali”).

Ancora, l’elettore può esprimere il voto

iv) solo per il sindaco (voto esclusivo), spuntando esclusivamente il

suo

nome, si badi bene, senza effetto automatico di trasferimento del voto alla/e

lista/e che lo sostengono; o

v) solo per uno o due candidati consiglieri (alle condizioni che si son

dette), scrivendone il nome nell’apposito spazio sulla scheda elettorale: in

questo caso, similmente a quanto avviene sub ii) esso vale in automatico

(voto fuso) anche per la lista a cui appartengono le candidature in questione

e al candidato sindaco collegato.

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80 Lara Trucco

Per quanto riguarda l’elezione del sindaco, similmente ai comuni con

popolazione sino a 15.000 abitanti, è previsto che ottenga la carica il

candidato capace di conseguire la maggioranza dei voti validi. Anche se,

poi, deve subito avvertirsi di come, qui, le cose si complichino già “alla

base”, dato che l’anzidetta caratteristica del “voto disgiungibile” fa sì che

il sindaco eletto possa venirsi a trovare con una maggioranza del consiglio

in mano all’opposizione (cd. “anatra zoppa”). Per la precisione, ciò accade

nel caso in cui il sindaco venga eletto al primo turno ma la lista/e ad esso

collegata/e non raggiungano il 50% dei voti, per cui potrebbe aversi che la

lista/e di uno dei candidati sconfitti abbia/abbiano ottenuto più del 50% dei

voti, acquisendo, appunto, la maggioranza in consiglio.

Per diverso profilo, assai controversa è risultata la questione se nel

computo dei “voti validi” (ai sensi del comma 10, dell’art. 73, del d.lgs. n.

267 del 2000), dovessero essere inclusi soltanto i voti espressi a favore

delle liste, o, invece, oltre (in aggiunta) a questi, anche le preferenze

espresse (foss’anche esclusivamente) a favore dei candidati alla carica di

sindaco. Al proposito, in una decisione di indubbio rilievo, il Consiglio di

Stato ha avallato le ragioni della seconda linea interpretativa (v. Cons.

Stato, sez. V, sent. 14 maggio 2010, n. 3022, di “conferma” di T.A.R.

Piemonte, sez. II, sent. 23 ottobre 2009, n. 2316).

A differenza, inoltre, dei comuni sino a 15.000 abitanti, è previsto che

ciascun candidato alla carica di sindaco, all’atto della presentazione della

candidatura, possa dichiarare il collegamento (non solo) con una ma anche

con più liste presentate per l’elezione del consiglio comunale. Inoltre, è

posto il limite per ciascun gruppo in ogni collegio di presentare un solo

candidato, ed è previsto che “Le liste per l’elezione del consiglio comunale

devono comprendere un numero di candidati non superiore al numero dei

consiglieri da eleggere e non inferiore ai due terzi” (ex art. 73 del d.lgs. n.

267 del 2000).

In tale quadro, l’acquisizione della carica di sindaco è direttamente

disposta a favore di chi, tra i candidati, riesca a conseguire la maggioranza

assoluta dei voti; altrimenti si procede ad un secondo turno elettorale di

ballottaggio (che ha luogo la seconda domenica successiva) a cui

partecipano i due candidati che hanno ottenuto al primo turno il maggior

numero di voti e viene proclamato eletto il candidato che ha ottenuto il

maggior numero di voti validi. Si precisa che, per i candidati ammessi al

ballottaggio rimangono fermi i collegamenti con le liste per l’elezione del

consiglio dichiarati al primo turno, essendo, però, data loro la facoltà

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“entro sette giorni dalla prima votazione, di dichiarare il collegamento con

ulteriori liste rispetto a quelle con cui è stato effettuato il collegamento nel

primo turno” (le dichiarazioni di collegamento per essere efficaci devono

ovviamente risultare convergenti con le analoghe dichiarazioni rese dai

delegati delle liste interessate).

A questo punto, per stabilire la composizione del consiglio comunale,

premesso che vanno escluse le liste che, singole o collegate, non abbiano

superato la soglia di sbarramento del 3%, si tiene conto dei risultati

elettorali del primo turno e degli eventuali ulteriori collegamenti nel

secondo (implementandosi con i voti del primo turno delle liste

successivamente collegate il paniere del primo turno). Precisamente, per

l’assegnazione dei seggi consiliari, dopo aver applicato il metodo D’Hondt

si verifica se la lista o le liste collegate al candidato eletto al primo turno

raggiungono il 40% dei voti, o se, nell’eventualità di elezione in sede di

ballottaggio, la lista collegata abbia già ottenuto nel primo turno il 40% dei

voti (in entrambi i casi, ovviamente, senza che nessun’altra lista abbia

raggiunto il 50%), attribuendosi, in entrambe le ipotesi, alla lista collegata

al sindaco eletto, un premio pari al 60% dei seggi. I restanti seggi sono

assegnati, sempre in applicazione del metodo D’Hondt, alle altre liste o

gruppi di liste collegate sulla base della somma dei voti validi riportati dalle

stesse liste in tutte le sezioni del comune (cd. cifra elettorale di lista). Anche

per stabilire il numero dei seggi spettanti ad ogni lista nell’ambito di

ciascun gruppo di liste collegate, poi, si applica il medesimo metodo, sulla

base della cifra elettorale di ciascuna di esse, corrispondente ai voti

riportati nel primo turno.

Una volta determinato il numero dei seggi spettanti a ogni lista/gruppo

di liste collegate, sono proclamati eletti alla carica di consigliere

innanzitutto i candidati alla carica di sindaco, non risultati eletti, collegati

a ciascuna lista che abbia ottenuto almeno un seggio (si noti che, in caso di

collegamento di più liste al medesimo candidato alla carica di sindaco

risultato non eletto, il seggio spettante a quest’ultimo viene detratto dai

seggi complessivamente attribuiti al gruppo di liste collegate). E, quindi, i

candidati di ciascuna lista secondo l’ordine delle rispettive cifre individuali

(e, in caso di parità di cifra individuale, quelli che precedono nell’ordine di

lista).

[…]

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82 Lara Trucco

12. Segue. Le regioni a statuto ordinario (la normativa statale

transitoria)

Occorre ora brevemente ricordare come l’introduzione dei sistemi

elettorali a livello locale abbia corrisposto all’intento (in ciò, in certo modo,

funzionando da laboratorio istituzionale) di superare la precedente e

generalizzata situazione di ricerca di sempre nuovi e defatiganti equilibri

istituzionali tra coalizioni precarie, in quanto soggette alle continue

richieste (sotto la minaccia di crisi di governo) di modificare i programmi

e gli impegni elettorali assunti. Da questo punto di vista, può pertanto

ritenersi che, pur non essendo consigliabile riporre nel solo sistema

elettorale, in difetto di altre non meno importanti condizioni, speranze

palingenetiche, pure l’esperienza locale deve aver mostrato qualche

virtuosità se il legislatore ordinario, prima, e quello costituzionale, dopo,

vi hanno fatto riferimento anche per il livello regionale.

Nella seconda metà degli anni Novanta, dunque, anche le regioni hanno

visto aggiornare il proprio sistema elettorale, col superamento dei

meccanismi d’indole schiettamente proporzionalista che avevano fino ad

allora trovato applicazione anche a questo livello di governo (in estrema

sintesi, il sistema elettorale previgente era basato su di un voto plurimo

preferenziale categorico – cd. “di approvazione” –, nell’ambito di liste

provinciali concorrenti di tipo “chiuso” e prevedeva l’impiego della

formula Hagenbach-Bischoff, con eventuale recupero dei resti, in

applicazione della formula Hare, nell’apposito collegio unico regionale), a

favore dell’adozione di sistemi elettorali più marcatamente ibridi in senso

maggioritarizzante.

Il compromesso capace di assecondare, nel brevissimo periodo

(segnatamente, in vista delle elezioni regionali del 1995), la tendenza

favorevole al superamento del ridetto sistema proporzionale fu incorporata,

come s’è in parte anticipato, nella legge n. 43 del 1995 di riforma del

sistema elettorale delle regioni a statuto ordinario.

Tale riforma, che, intervenuta “a Costituzione invariata”, ha trovato,

poi, con la legge cost. n. 1 del 1999, una transitoria copertura, è basata

sull’elezione diretta e contestuale del consiglio regionale e del presidente

della giunta regionale, candidato – ora anche formalmente – capolista alla

presidenza della regione nel cosiddetto “listino” (mentre, con la legge n.

43 del 1995, la candidatura del capolista alla presidenza della regione era

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avvenuta in via di fatto, prevedendosene l’inserimento del nome sulle

schede elettorali accanto ai contrassegni delle liste corrispondenti).

Si noti che la medesima legge cost. n. 1 del 1999 ha fornito le coordinate

essenziali concernenti sia la forma di governo regionale, sia la nuova

legislazione elettorale, nel senso di

– riconoscere (sia pure con taluni condizionamenti) alla potestà statu-

taria la competenza di definire la forma di governo “regionale”; e

– di attribuire alla competenza legislativa regionale, nell’ambito di

uno schema ripartito tra Stato e regioni, la “materia elettorale”.

Su questa base, spetta alle regioni stabilire il sistema di elezione e i casi

di ineleggibilità e di incompatibilità del presidente e degli altri componenti

della giunta regionale, nonché dei consiglieri regionali; mentre compete

allo Stato la fissazione dei principi fondamentali, oltre che la durata degli

organi elettivi (ex art. 122 Cost.: la relativa “disciplina-quadro” è

contenuta, com’è noto, nella legge n. 165 del 2004). Ad un tale riguardo,

si rileva come, nella sent. n. 151 del 2012, la Corte costituzionale abbia

chiarito la natura di “principi fondamentali” di normative aventi

«l’obiettivo di ridurre la spesa pubblica corrente». Chiamata, poi, con la di

poco successiva sent. 198 del 2012, ad effettuare il controllo sul

meccanismo di fissazione del “numero massimo” dei consiglieri e degli

assessori regionali ai fini della collocazione delle Regioni nella classe di

enti territoriali “più virtuosa”, la Corte ha, di fatto, finito per ribaltare la

propria giurisprudenza in materia (v., ad es., le sentt. n. 196 del 2003; n. 2

del 2004; n. 3 del 2006; e, più di recente, la sent. 68 del 2010),

coll’affermare che un siffatto meccanismo ha, comunque, carattere

recessivo rispetto al principio di eguaglianza consacrato dall’art. 3 della

Costituzione. Nel percorrimento di questa strada, la Consulta ha finito,

dunque, per posporre le ragioni dell’autonomia – delle Regioni a statuto

ordinario – rispetto a quelle dell’economia, concludendo per la non

violazione, da parte della norma impugnata, degli artt. 117, 122 e 123 della

Costituzione, dato che la «disposizione censurata […] nel quadro della

finalità generale del contenimento della spesa pubblica, stabilisce, in

coerenza con il principio di eguaglianza, criteri di proporzione tra elettori,

eletti e nominati». Con ciò, a ben vedere, disponendo su quanto la legge

cost. n. 1 del 1999 e la legge cost. n. 3 del 2001 non avevano previsto, che

spetti, cioè, al legislatore statale stabilire (oltre che la durata, anche) il

numero di componenti degli organi elettivi regionali.

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84 Lara Trucco

Ad ogni modo, pur nella sua programmata provvisorietà, può essere di

un qualche interesse esaminare, ora, la meccanica essenziale del sistema

elettorale regionale transitorio, per il quale è stato coniato il termine

giornalistico di Tatarellum (dal nome dal suo primo firmatario, Giuseppe

Tatarella). Tra le modifiche di maggior rilievo apportate dalla legge n. 43

del 1995 alla normativa originaria recata dalla legge n. 108 del 1968,

relativamente al sistema di votazione vi è stato l’abbassamento della

portata quantitativa del suffragio individuale (a cui s’è già accennato). Ed

infatti, il previgente “voto di approvazione” (ovverosia la possibilità, per

l’elettore, di “manifestare una preferenza nelle circoscrizioni nelle quali il

numero dei consiglieri regionali da eleggere è fino a 5”, “non più di due

nelle circoscrizioni nelle quali il numero dei consiglieri da eleggere è da 6

a 15 e non più di tre nelle altre”, ex art. 13) è stato “superato”

dall’introduzione del “voto singolo categorico preferenziale” (dandosi

modo agli elettori di “manifestare una sola preferenza”: v. l’art. 13 della

legge n. 108 del 1968, come modif. dall’art. 1, comma 10 della legge n. 43

del 1995). Più nel dettaglio, l’elettore può votare:

i) per il solo candidato presidente: precisamente, esprimere un unico

voto per una delle liste regionali (cd. listini) e per il suo candidato a

presidente (tracciando un segno sul simbolo di una lista regionale o sul

nome del candidato a presidente, senza segnare, nel contempo, alcun

contrassegno di lista provinciale). In tal caso, s’intende validamente votata

la lista regionale ed il suo candidato a presidente, senza che il voto venga

“travasato” alla lista o alle liste provinciali collegate; ii) per il candidato

presidente e per una delle liste provinciali cui è col-

legato (tracciando un segno sul simbolo di una lista provinciale e, nel

contempo, sul nome del candidato a presidente);

iii) per una lista provinciale da sola (tracciando un solo segno nel

rettangolo che contiene il contrassegno della lista provinciale),

esprimendosi, in tal caso, un voto valido sia per la lista provinciale, sia per

la lista regionale collegata, il cui capolista è candidato a presidente (ovvero

intendendosi, in tal caso, il voto, implicitamente espresso anche per il

candidato presidente a cui la lista provinciale è collegata); iv) per il

candidato presidente e una delle liste provinciali cui egli non è collegato

(tracciando un segno nel rettangolo recante una delle liste provinciali ed un

altro segno sul simbolo di una lista regionale non collegata alla lista

provinciale prescelta, o sul nome del suo candidato a presidente), optando,

come si diceva, per il “voto disgiunto” (dato che, in tale ipotesi, il voto è

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validamente espresso per la lista provinciale e per la lista regionale

prescelte, anche se non sono collegate fra loro).

Si deve, inoltre, precisare che tale sistema di voto consente all’elettore

di esprimere un (solo) voto di preferenza per un candidato alla carica di

consigliere compreso nella lista provinciale prescelta (scrivendone

nell’apposita riga i dati identificativi).

Non può, peraltro, non rilevarsi come il “voto disgiunto” non sia (fino

ad ora) andato a detrimento della possibilità di munire il presidente eletto

di una sua propria maggioranza. Tale attenuazione della portata

“maggioritarizzante” del sistema elettorale, infatti, trova alcune

“compensazioni”, dimostratesi, almeno a questo livello di governo, nel

complesso efficaci, vale a dire:

– il reticolo di collegamenti tra il candidato presidente e le liste, ovve-

ro il necessario collegamento (come per gli enti locali) da parte dei

candidati a presidente con una o più liste provinciali;

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86 Lara Trucco

– la previsione di una clausola di sbarramento al 3% dei voti validi

(salvo il collegamento a liste regionali capaci di oltrepassare il 5% dei voti

validi) per l’assegnazione dei seggi consiliari; e, soprattutto,

– il meccanismo del simul stabunt simul cadent: anche se con ciò

usciamo dai confini della materia qui trattata, sconfinando nel tema – tanto

delicato, quanto decisivo – degli strumenti di razionalizzazione della forma

di governo (in questo caso, regionale).

Un rilievo particolare ha, poi,

– la prescrizione per i candidati a presidente della regione di

capeggiare una propria lista regionale (cd. “listino”), contenente un

numero di candidati pari a un quinto dei componenti del consiglio, la quale,

come vedremo qui appresso, costituisce il serbatoio da cui attingere,

eventualmente, per l’attribuzione del premio di maggioranza consiliare.

Sulla base del sistema di votazione descritto risulta, quindi, eletto il

candidato presidente che ottiene più voti ed, insieme a lui, la “sua”

maggioranza, mentre i seggi spettanti alle forze di opposizione vengono

individuati “in via residuale”. A tal fine, sul versante dell’assegnazione dei

seggi, il sistema (ex art. 15) si rifà, in prima battuta, in modo pedissequo,

al metodo Hagenbach-Bischoff (del quoziente corretto), che già vigeva

nell’originale sistema del 1968, prevedendone l’applicazione nelle varie

circoscrizioni, corrispondenti alle province, in cui è diviso elettoralmente

il territorio regionale.

È inoltre stabilita l’eventuale riconduzione dei seggi non assegnati e dei

voti residuati al collegio unico regionale, in vista della loro ripartizione col

metodo Hare (dei quozienti interi e dei più alti resti), per cui, si noti, come

di norma accade quando l’assegnazione definitiva dei seggi avviene “a

livello nazionale”, il sistema ammette la possibile variazione dei seggi

originariamente assegnati alle singole circoscrizioni (cd. apportionment).

A questo punto, a rendere “definitiva” l’assegnazione dei seggi

interviene, in seconda battuta, l’applicazione di un meccanismo premiale

assai elaborato, che prevede l’elargizione dei seggi in modo variabile (cd.

“premio mobile”) a seconda del risultato elettorale ottenuto dalle liste

collegate. Più precisamente, posto che l’obiettivo “minimale” del

congegno è quello di garantire, in ogni caso, che il candidato eletto

presidente possa contare sul sostegno di non meno del 55% dei consiglieri

delle liste che lo appoggiano, l’ammontare effettivo dei seggi-premio varia

a seconda dei risultati. Così, se le liste collegate al candidato presidente

vincente hanno ricevuto:

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I) più della metà dei seggi, a tale maggioranza viene attribuita solo la

metà dei seggi del “listino” (pari, cioè, al 10% del totale dei seggi in

consiglio) e, in tal modo, le operazioni si concludono;

II) meno della metà dei seggi, si procede all’elezione di tutti i compo-

nenti del listino (pari, cioè, al 20% dei seggi del consiglio), verificando,

altresì, se la cifra elettorale conseguita dalla maggioranza abbia o no

superato il 40% del totale dei voti;

IIa) se la verifica è positiva, alla percentuale del 55% dei seggi

conquistati si sostituisce quella del 60% dei seggi. In tal modo, le

operazioni si concludono;

IIb) se la verifica è negativa, si verifica ulteriormente se il totale dei

seggi, anche in seguito all’attribuzione di tutti i seggi-premio, supera o no

la soglia del 55% dei seggi,

IIb1) se quest’ulteriore verifica è positiva, le operazioni si concludono;

IIb2) se, invece, è negativa, è previsto che alle liste in appoggio al

candidato vincente, in aggiunta alla totalità dei seggi del “listino”, vengano

attribuiti tanti consiglieri “extra” fino ad arrivare al 55% dei seggi del

consiglio (cd. “clausola di governabilità”) attraverso l’assegnazione di

seggi aggiuntivi. Il verificarsi di quest’ultima circostanza ha

indubbiamente l’effetto, analogamente ai mandati di sopravanzo tedeschi,

di aumentare il numero dei consiglieri oltre quello astrattamente (e

matematicamente) previsto; ma se ne differenzia in quanto la “quota

aggiuntiva di seggi” (ex art. 15, comma 13, della legge n. 108 del 1968)

più che a premiare (come avviene in Germania) i candidati come tali, mira

a garantire alla coalizione meglio piazzatasi una maggioranza più ampia di

quella già ottenuta nelle urne (che, poi, ci si limita qui a rilevare, un simile

meccanismo sia arduo da riportare a coerenza con un’eventuale previsione

statutaria fissa di seggi consiliari, emerge da Corte cost. sent. n. 188 del

2011).

Ad ogni modo, al di là dell’(eventuale) elezione “blindata” dei

componenti del “listino”, i candidati sono dichiarati eletti nell’ordine delle

preferenze ricevute.

Esaminato, dunque, nelle sue linee essenziali, il Tatarellum, deve ora

spostarsi l’attenzione sulla refrattarietà dimostrata, talvolta, dal legislatore

regionale, ad appropriarsi degli spazi d’intervento resi disponibili dalla

riforma: atteggiamento “attendista” che, peraltro, sembrerebbe in buona

parte da ascriversi alla difficoltà, sul piano “procedurale”, di soddisfare la

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previsione di rango costituzionale del cd. “tandem procedurale”, costituito

dalla necessaria consequenzialità tra Statuto (prius) e legge elettorale

(posterius) (per cui, significativamente, v. Corte cost. sent. n. 45 del 2011).

Anche la resa tutto sommato congeniale alla realtà locale del regime

transitorio può aver, dal canto suo, disincentivato la messa a punto

tempestiva di una normativa autonoma (ciò che, del resto, parrebbe

confermato dall’appiattimento sul modello istituzionale statale, da parte di

pressoché tutti gli statuti regionali, non senza conseguenze di rilievo sul

sistema per l’elezione degli organi regionali).

Comunque sia, la stagione delle riforme elettorali regionali si è anche

contraddistinta per “turbolenze” d’altro genere, finite immancabilmente

sul tavolo della Corte costituzionale. In particolare (limitandoci a

menzionare le più significative):

– alcune questioni hanno riguardato il riparto di competenze tra fonte

statutaria e fonte legislativa nella disciplina della materia, trovando una

risposta talvolta più favorevole alla legge, come nel caso risolto dalla Corte

nel 2004, in cui si controverteva sul limite di due mandati per il presidente

eletto a suffragio diretto, muovendosi dalla considerazione per cui «in

questo quadro la fonte statutaria è chiamata a svolgere un ruolo

necessariamente ridotto, seppur significativo» (v. Corte cost. n. 2 del

2004); e, talora più propizia, invece, allo Statuto, per cui motivando in base

alla connessione con la forma di governo, il giudice costituzionale ha

ritenuto rientrare nella competenza della fonte statutaria aspetti più o meno

direttamente connessi alla materia elettorale, quali, ad es., la disciplina di

indizione delle elezioni (v. Corte cost. n. 196 del 2003), l’individuazione

del numero dei consiglieri regionali (v. Corte cost. n. 3 del 2006), il regime

della prorogatio degli organi regionali, nonché quello dello scioglimento

del consiglio e delle dimissioni del presidente ai sensi dell’art. 126 Cost.

(v. Corte cost. n. 196 del 2003, cit.);

– altre questioni hanno riguardato, invece, la competenza stessa dello

Stato o delle regioni a disciplinare determinati oggetti, esemplarmente,

aspetti procedurali delle elezioni regionali, sotto il profilo della “gestione”

del procedimento elettorale, con particolare riguardo all’esclusione o

all’ammissione di candidati e liste (v. Corte cost. n. 107 del 2010) mentre

l’attribuzione alla fonte statutaria della competenza a determinare il

numero dei consiglieri, emarginandone così la legge regionale, non può

non valere, a maggior ragione, nei confronti della legge statale stessa,

rendendo costituzionalmente dubbie iniziative come quelle recate dal d.l.

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13 agosto 2011, n. 138 (conv. nella L. 14 settembre 2011, n. 148), per cui

(ex art. 14), anche se in una logica premiale, le regioni sono indotte ad

“adeguare, nell’ambito della propria autonomia statutaria e legislativa

(sic!), i rispettivi ordinamenti” in modo da ridurre il numero dei consiglieri

e degli assessori regionali.

Significativo è poi notare come si sia in qualche caso attribuito agli

organi di garanzia statutaria – anche della materia elettorale – non meglio

precisati compiti amministrativi inerenti lo svolgimento delle elezioni (v.,

ad es., l’art. 80, comma 3, dello Statuto abruzzese).

Per diverso profilo, ci si limita ad osservare come la giustizia elettorale

regionale abbia conosciuto un momento evolutivo importante con la sent.

n. 93 del 1965, che ebbe a dichiarare l’incostituzionalità, per difetto

d’imparzialità della procedura e del giudice, delle previsioni (del T.U. 16

maggio 1960, n. 570) che istituivano quali giudici elettorali delle elezioni

comunali gli stessi consigli (comunali). Pertanto, la materia, dopo talune

incertezze giurisprudenziali, veniva ripartita dalla legge n. 1147 al 1966 tra

giudice ordinario (ineleggibilità) e giudice amministrativo (operazioni

elettorali: dal 1971, i Tribunali amministrativi regionali). In tempi più

recenti, la Corte costituzionale è tornata sulla materia. Così, essa ha

dapprima rilevato, problematicamente, la mancanza di una normativa

idonea a garantire la risoluzione di controversie elettorali (nella fattispecie,

in tema di ineleggibilità) prima dello svolgimento delle elezioni, reputando

«evidentemente incongrua» la situazione giuridica ingeneratasi in quanto

incapace «di assicurare la genuinità della competizione elettorale» (v.

Corte cost., sent. n. 84 del 2006). E, quindi, portando alle estreme

conseguenze un tale orientamento giurisprudenziale, essa è pervenuta a

dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 83-undecies del T.U. n. 570

del 1960, «nella parte in cui esclude[va] la possibilità di un’autonoma

impugnativa degli atti del procedimento preparatorio alle elezioni,

ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli

eletti» (v. Corte cost., sent. n. 236 del 2010; cfr., altresì, per un diverso

approccio, sent. n. 257 del 2010).

Da ultimo, la materia è rifluita nel Codice del processo amministrativo

recato dal d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, che dedica al “Contenzioso sulle

operazioni elettorali” l’intero Titolo VI, confermandosi, in particolare, al

giudice amministrativo la “giurisdizione in materia di operazioni elettorali

relative al rinnovo degli organi elettivi dei Comuni, delle Province, delle

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90 Lara Trucco

Regioni” (oltre che “all’elezione dei membri del Parlamento europeo

spettanti all’Italia”).

[…]

15. Il voto blindato del 2005

Sul terreno concreto, la situazione in punto di “fonti di

regolamentazione” dei sistemi di elezione per le politiche ha lasciato aperta

la porta alla possibilità che, una volta esauritasi, nel nostro Paese, la

stagione della proporzionale, nessun ostacolo di tipo formale abbia potuto

(e possa, a tutt’oggi) essere frapposto a mutamenti anche radicali della

sostanza del “patto costituente” (consacrato in quel principio orientatore,

di cui aveva inteso farsi garante l’ordine del giorno Giolitti), finendosi, con

ciò, tra l’altro, per destabilizzare gravemente i delicati equilibri su cui si

reggeva il nostro dettato costituzionale (anche in questo senso, del resto, si

parla autorevolmente di “Costituzione ferita”).

Il sistema elettorale, infatti, a dispetto della sua importanza, è rimasto in

balìa delle forze di “maggioranza” al potere, i) sul piano procedurale come

su quello ii) di ordine sostanziale, come ha contribuito a far emergere, in

modo tanto evidente quanto problematico, la legge n. 270 del 2005, che, a

tutt’oggi, reca i sistemi di elezione di Camera e Senato.

i) Sul piano procedurale la legge n. 270 del 2005, ha dato il via a un

dibattito a tutt’oggi non del tutto sopito in ragione del fatto che essa ha

introdotto un nuovo sistema elettorale nell’imminenza (appena quattro

mesi prima) delle elezioni.

Le argomentazioni a sostegno di questo tipo di politica elettorale si

basano su di un’interpretazione rigorosamente letterale del testo

costituzionale, facente perno sulla mancanza di norme specifiche inibenti

in Costituzione: sicché, non solo non potrebbe dedursi il divieto di

riformare il sistema elettorale alla vigilia delle elezioni, ma non sarebbe

nemmeno possibile, più in generale, individuare un momento astrattamente

“ideale” per varare una qualche riforma di tal tipo nel corso di tutta la

legislatura. A consigliare, ancora, riforme elettorali “all’ultimo minuto”

concorrerebbe la risalente idea dell’attitudine delle riforme in materia a

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provocare una delegittimazione degli organi eletti sulla base delle

precedenti regole di elezione, innescando così uno scioglimento delle

Camere si direbbe “dovuto”, in modo tale da procedere ad una

“rilegittimazione” dell’organo sulla base dell’intervenuto mutamento del

quadro normativo.

Per contrastare, tuttavia, quest’ultima argomentazione, potrebbe dedursi

non solo e non tanto (si noti: anche qui) la mancanza di prescrizioni formali

in tal senso, quanto, soprattutto, la prassi costituzionale che, in chiave

storica, dimostrerebbe come la delegittimazione e il conseguente

scioglimento delle Camere siano state conseguenza esclusivamente del

mutamento della consistenza del corpo elettorale (in corso di progressiva

estensione per effetto delle stesse riforme elettorali; ma anche, ad es., nei

casi di allargamenti territoriali). Circostanza, questa, che è cosa diversa

dalla modifica delle regole inerenti al sistema di elezione in senso stretto,

per cui la latitudine della base elettorale resta invariata. Avverso riforme

elettorali “dell’ultimo minuto” potrebbero farsi altre, più generali,

considerazioni, fondantesi sul principio per cui in questa, probabilmente

più che in altre materie, sarebbe necessario procedere muniti di un “velo di

ignoranza”, al fine di favorire l’adozione di riforme corrispondenti

all’importanza degli interessi oggettivi in campo, nonché, in ultima analisi,

in vista di una resa adeguata della democrazia elettorale che si mira a

edificare.

ii) Quanto ai contenuti, deve subito osservarsi come lungi dal potersi

ritenere (come potrebbe forse far pensare il modo repentino della sua

approvazione) un prodotto inatteso, il sistema di elezione introdotto dalla

legge n. 270 del 2005 si sia radicato su di un terreno già in gran parte arato

sia a livello nazionale, sia in ambito locale e regionale (cfr., in special

modo, la legge reg. Toscana 15 dicembre 2004, n. 70). Tentando ora di

proporne un inserimento nel contesto del presente capitolo, deve rilevarsi,

anzi tutto, che l’impianto essenziale del sistema si presenta come

marcatamente proporzionale, basato, com’è, si noti, sia alla Camera, sia al

Senato:

– su di un sistema di votazione di tipo blindato (voto unico categorico

+ liste/coalizioni di liste bloccate);

– su collegi estesi; e

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92 Lara Trucco

– su di una formula fortemente proiettiva, quale quella del quoziente

naturale e dei più alti resti (v. l’art. 83 del d.P.R. n. 361/1957, e nell’art. 17

del d.lgs. n. 533 del 1993, in cui è “confluito” il nuovo sistema), applicata

per l’attribuzione dei seggi tra le liste e le coalizioni di liste (se presenti)

sul piano nazionale per la Camera dei deputati e, nell’ambito delle singole

circoscrizioni (regionali, ex art. 57 Cost.), per il Senato.

Così, schematicamente, per l’assegnazione dei 617 seggi in palio (630

– 12 “seggi esteri” – 1 seggio “valdostano”) alla Camera dei Deputati,

il sistema prevede che (ex art. 83, T.U. n. 361 del 1957):

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i) una volta determinati i voti validi delle coalizioni di lista/liste capa-

ce/i di superare le soglie multiple di sbarramento, si proceda al riparto dei

seggi tra le liste singole e le coalizioni di liste (se presenti) sul piano

nazionale in base alla formula del quoziente e dei più alti resti (e, in caso

di parità di resti, della maggiore cifra elettorale; e, a parità di quest’ultima,

del sorteggio). Più precisamente, si divide il totale delle cifre elettorali

nazionali di tutte le parti in lizza (coalizioni e liste singole), per il numero

dei seggi da attribuire, ottenendo così il quoziente elettorale nazionale, e si

divide poi la cifra elettorale nazionale di ciascuna coalizione di liste o delle

singole liste per tale quoziente: la parte intera del quoziente così ottenuta

indica il numero dei seggi teorico (o provvisorio) da assegnare a ciascuna

coalizione di liste, o singola lista, vincenti.

ii) A questo punto, si verifica se la coalizione di liste o la singola

lista

che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi abbia conseguito

almeno 340 seggi (cd. verifica maggioritaria).

iia) Qualora tale verifica dia esito positivo, si procede, per ciascuna

coalizione di liste, al riparto dei seggi tra le liste della coalizione in base

alla cifra elettorale nazionale di ciascuna lista della coalizione. A tal fine,

si divide la somma di tutte le cifre elettorali delle liste della coalizione per

il numero di seggi precedentemente individuato, ottenendosi il quoziente

elettorale di coalizione e, quindi, si divide la cifra elettorale nazionale di

ciascuna lista della coalizione per tale quoziente: la parte intera del

quoziente così ottenuta rappresenta, dunque, il numero dei seggi da

assegnare a ciascuna lista della coalizione. Per le liste singole, come è

evidente, tale risultato è già stato acquisito sub i).

– Il passo successivo è l’ulteriore dislocazione dei seggi assegnati

alle varie coalizioni di liste o singole liste a livello di singole circoscrizioni.

A tal fine, per ciascuna coalizione di liste, il totale delle cifre elettorale

circoscrizionali di tutte le liste della medesima coalizione è diviso per il

quoziente elettorale nazionale: in questo modo, si ottiene l’indice relativo

ai seggi da dislocare nella circoscrizione alla liste coalizzate.

Analogamente si procede per ciascuna lista: vale a dire, si divide la cifra

elettorale circoscrizionale della lista in questione per il quoziente elettorale

nazionale, ottenendo, così, l’indice relativo ai seggi da attribuire nella

circoscrizione alla lista medesima. Ciascuno degli indici così individuati

nella circoscrizione va, quindi, moltiplicato per il numero dei seggi

assegnati alla circoscrizione stessa: il prodotto di tale moltiplicazione va

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diviso per la somma di tutti i suddetti indici, così che la parte intera dei

quozienti di attribuzione ottenuti rappresenta il numero dei seggi da

attribuire nella circoscrizione a ciascuna coalizione di liste o, a seconda dei

casi, di ogni lista non coalizzata.

– A questo punto, si effettua un’ulteriore verifica, accertandosi se il

numero dei seggi assegnati in tutte le circoscrizioni a ciascuna coalizione

di liste o singola lista corrisponde al numero dei seggi come più sopra

calcolato, procedendosi, in caso negativo, a riequilibrare la situazione

(secondo le modalità indicate dall’art. 83 del T.U., ovvero sulla base, in

sostanza, dei migliori risultati ottenuti).

– Il passo successivo prevede l’attribuzione, nelle singole circoscri-

zioni, dei seggi spettanti alle liste di ciascuna coalizione, applicandosi,

anche qui, il metodo del quoziente e dei più alti resti. Per la precisione, si

determina il quoziente circoscrizionale di ciascuna coalizione di liste

dividendosi il totale delle cifre elettorali circoscrizionali delle liste per il

numero di seggi assegnati alla coalizione nella circoscrizione, e si divide,

quindi, la cifra elettorale circoscrizionale di ciascuna lista della coalizione

per tale quoziente circoscrizionale: la parte intera del quoziente così

ottenuta rappresenta, dunque, il numero dei seggi da assegnare a ciascuna

lista. Successivamente, si accerta se il numero dei seggi assegnati in tutte

le circoscrizioni a ciascuna lista corrisponde al numero dei seggi ad essa

attribuito a livello nazionale, riequilibrandosi, altrimenti, tale esito

(secondo le modalità indicate dal precitato art. 83, ovvero sulla base, in

sostanza, anche qui, dei migliori risultati ottenuti).

iib) Qualora la verifica maggioritaria dia esito negativo, alla parte vin-

cente viene attribuito il numero di seggi necessario per poter disporre di

340 seggi alla Camera dei deputati. A questo punto, si procede, ancora una

volta, ad applicare il metodo del quoziente e dei più alti resti, col dividere

il totale delle cifre elettorali nazionali di tutte le liste della coalizione, o

della singola lista “di maggioranza”, per 340, al fine di calcolare il

quoziente elettorale nazionale di maggioranza.

Il passo successivo vede la ripartizione in maniera proporzionale dei

restanti 277 seggi tra le altre coalizioni di liste e liste “minoritarie”: a tal

fine, dapprima si divide il totale delle loro cifre elettorali nazionali per 277

[630 (totale seggi) – 340 (seggi premio) – 12 (seggi esteri) – 1 (seggio della

Valle D’Aosta)], ottenendosi, con ciò, il “quoziente elettorale nazionale di

minoranza”; e, quindi, si divide la cifra elettorale di ciascuna coalizione di

liste o singola lista per tale quoziente: la parte intera del quoziente ottenuta

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indica, così, il numero di seggi da assegnare a ciascuna coalizione di liste

o singola lista.

– A questo punto, in presenza di coalizioni si deve effettuare

l’ulterio-re distribuzione “interna” dei seggi tra le liste che ne fanno parte

ammesse al riparto in applicazione del metodo del quoziente naturale e dei

più alti resti: utilizzando, però (qui), come dividendo, i voti della

coalizione e, come divisore, i seggi spettanti alla coalizione medesima

(come più sopra calcolati).

– Si procede, quindi, alla dislocazione nelle singole circoscrizioni dei

seggi assegnati alle varie coalizioni di liste, o singole liste, e, poi, infine,

all’attribuzione, nelle singole circoscrizioni, dei seggi spettanti alle liste di

ciascuna coalizione, nei modi che si son precedentemente visti, con

l’importante avvertenza che, qui, al posto del quoziente elettorale

nazionale, deve essere utilizzato il quoziente elettorale nazionale di

maggioranza per la coalizione di liste, o singola lista, che ha ottenuto il

maggior numero di voti validi e il quoziente elettorale nazionale di

minoranza per le altre coalizioni di liste o singole liste (“peggio arrivate”).

Al Senato, la logica del riparto dei 309 seggi (315 – 6 “seggi esteri”) è

analoga a quella dianzi vista, con l’importante differenza consistente

nell’assegnazione dei seggi al livello regionale, di cui s’è detto. Così, anche

qui, una volta determinati i voti validi delle coalizioni di lista/liste capace/i

di superare le soglie multiple di sbarramento, si procede al riparto dei seggi

tra le coalizioni di liste (se presenti) e le liste singole liste non coalizzate

sul piano nazionale in base alla formula del quoziente e dei più alti resti (e,

in caso di parità di resti, della maggiore cifra elettorale; e, a parità di

quest’ultima, del sorteggio). Più nel dettaglio (ex art. 17, T.U. n. 533 del

1993),

i) si procede ad una prima attribuzione provvisoria dei seggi tra le

coalizioni di liste e le liste non coalizzate, in base alla cifra elettorale

circoscrizionale di ciascuna. A tale fine, il totale delle cifre elettorali

circoscrizionali di ciascuna coalizione di liste, o singola lista, è diviso per

il numero dei seggi da attribuire nella regione, ottenendosi, così, il

quoziente elettorale circoscrizionale. La cifra elettorale circoscrizionale di

ciascuna coalizione di liste, o singola lista, è quindi divisa per il quoziente

elettorale circoscrizionale: la parte intera del quoziente così ottenuto

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96 Lara Trucco

rappresenta il numero dei seggi da assegnare a ciascuna coalizione di liste,

o singola lista.

Si effettua, poi, la cd. verifica maggioritaria di livello regionale,

accertando se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il

maggior numero di voti validi espressi nell’ambito della circoscrizione

abbia conseguito almeno il 55% dei seggi assegnati alla regione.

iia) Nel caso in cui la verifica dia esito positivo, nell’ambito di ciascuna

coalizione di liste collegate, tra le liste “ammesse”, si procede al riparto dei

seggi come in precedenza determinati. A tal fine, per ciascuna coalizione

di liste la somma delle cifre elettorali circoscrizionali delle liste ammesse

al riparto è divisa per il numero di seggi come individuato, ottenendosi,

così, il relativo quoziente elettorale di coalizione. La cifra elettorale

circoscrizionale di ciascuna lista viene quindi divisa per tale quoziente: la

parte intera del quoziente così ottenuta rappresenta il numero dei seggi da

assegnare (a ciascuna lista).

iib) Nel caso in cui la verifica dia invece esito negativo, alla coalizione

di liste, o alla singola lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti,

viene assegnato un numero di seggi ulteriore necessario per raggiungere il

55% dei seggi assegnati alla regione.

Anche qui, gli altri seggi sono ripartiti tra le coalizioni di liste o singole

liste “di opposizione”. Si procede, infatti, alla divisione del totale delle

cifre elettorali rispettive per il numero dei seggi restanti, ottenendosi il

quoziente elettorale circoscrizionale di minoranza. Si divide, poi, la cifra

elettorale circoscrizionale di ciascuna coalizione di liste o singola lista per

quest’ultimo quoziente: la parte intera del risultato così ottenuto

rappresenta il numero dei seggi da attribuire a ciascuna coalizione di liste

o lista singola.

Per ciascuna coalizione si procede, quindi, al riparto interno tra le liste

dei seggi ad essa spettanti. A tale fine, per ciascuna coalizione di liste, il

totale delle cifre elettorali circoscrizionali delle liste ammesse al riparto è

diviso per il numero dei seggi ad essa spettanti. Si divide, quindi, la cifra

elettorale circoscrizionale di ciascuna lista per quest’ultimo quoziente: la

parte intera del risultato così ottenuto rappresenta il numero dei seggi da

attribuire (a ciascuna lista).

A questo punto, vengono proclamati eletti, nei limiti dei seggi ai quali

ciascuna lista ha diritto, i candidati compresi nella lista medesima, secondo

l’ordine di presentazione.

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Va, ora – e conclusivamente – osservato come la fisionomia dell’esito

elettorale risulti profondamente incisa (fino al punto da essere stravolta)

dai già ricordati meccanismi “maggioritarizzanti”, consistenti:

a) nella clausola di sbarramento (rectius: negli sbarramenti “a soglia

multipla”); e;

b) nel premio di maggioranza.

In particolare, va sottolineata l’idoneità dell’“azione combinata” dei due

meccanismi (sub a) e sub b)) ad esaltare la tendenza selettiva del sistema

elettorale, secondo quello che potrebbe denominarsi (se ci si passa

l’espressione) il “meccanismo del fotomontaggio”. Esso, infatti, si

dispiega attraverso due fondamentali momenti:

I) una successione di “ritocchi” fino a pervenire al risultato ritenuto

maggiormente “fotogenico”: là dove, a ripulire lo sfondo, provvede, come

si è già accennato, la singolare azione di vari tipi di clausole di sbarramento

(cd. sbarramenti “a soglia multipla”); e, quindi, ad affinare ulteriormente

le fisionomie così ottenute, la via al recupero di particolari dettagli.

Recupero che è, soprattutto, reso possibile attraverso la previsione di una

serie di “eccezioni” ai predetti meccanismi di sbarramento (cd. “soglie

scontate”). Su questa base, sono ammesse alla ripartizione dei seggi per la

Camera solo (ex art. 83, del d.P.R. n. 361 del 1957):

– le coalizioni che abbiano raggiunto almeno il 10% del totale dei

voti validi e, al loro interno, le liste che abbiano ottenuto il 2% dei voti;

– le liste rappresentative di minoranze linguistiche con almeno il

20% dei voti della circoscrizione;

– la lista (nell’ambito, se presente, di ciascuna coalizione) che abbia

conquistato più voti tra quelle che non hanno conseguito il 2% dei voti

(cd. miglior perdente); nonché

– le liste che, pur non facendo parte di alcuna coalizione, abbiano

avu-to almeno il 4% dei voti a livello nazionale.

E, al Senato (ex artt. 16 e 17, del d.lgs. n. 533 del 1993):

– le coalizioni che non arrivano a prendere il 20% voti e che non

contengano “almeno una lista collegata che abbia conseguito sul piano

regionale almeno il 3% dei voti validi espressi”, fatte salve le liste delle

medesime coalizioni che abbiano comunque attinto alla soglia dell’8%;

nonché

– le liste non coalizzate che non abbiano conseguito almeno l’8% dei

voti validi espressi;

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98 Lara Trucco

II) a questo punto, a dare luce alle figure principali subentra la seconda

fase di applicazione del sistema, più sopra descritta, con la previsione

dell’attribuzione del premio di maggioranza alla parte politica vincente,

con tutte le (ulteriori) problematicità di cui s’è ragionato, che tale

technicality presenta.

16. Segue. Dal “premio alla maggioranza” del 1953 al “premio di

maggioranza” del 2005: “a volte ritornano …”

Proprio la technicality da ultimo chiamata in campo, in ragione vuoi

della sua attuale estensione nel panorama italiano dei sistemi elettorali,

vuoi della sua decisività in punto di rapporti di forza nell’ambito delle

assemblee rappresentative, ci pare che meriti di essere ulteriormente

approfondita.

Interessante, infatti, è notare come – dopo avere trovato impiego nella

legge elettorale Acerbo – essa, in epoca repubblicana, sia stata

“rivitalizzata” dalla legge del 31 marzo 1953, n. 148 (denominata “legge

truffa” da parte delle formazioni politiche rimaste soccombenti nella

“battaglia parlamentare”), che le diede la luce.

Rinviando ai numerosi studi che si sono occupati specificamente della

vicenda, ci limitiamo qui a considerare come, sotto il profilo strettamente

tecnico, la legge del 1953 avesse predisposto l’attribuzione di un premio di

maggioranza, a livello nazionale, pari a 380 seggi (sui 590 di cui si

componeva la Camera dei deputati) alla lista o alle liste apparentate che

avessero (già) conquistato la metà più uno dei voti validamente espressi

(cd. premio di consolidazione). Anche se, poi, com’è ben noto, nelle

elezioni politiche che si svolsero sotto la sua vigenza, a nessuna

formazione riuscì di raggiungere la predetta maggioranza, necessaria a

farlo scattare (a quel punto, il premio fu “cancellato” dalla legge n. 615 del

31 luglio 1954).

Su questa base, anche senza voler considerare le problematicità di

carattere generale già in precedenza segnalate è stato in qualche modo

giocoforza rilevare come, a differenza delle precedenti normative elettorali

italiane degli anni Venti e Cinquanta, che si erano comunque premunite di

stabilire un qualche quorum per l’attivazione del premio, la legge del 2005

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non abbia manifestato un’attenzione analoga. Rendendo con ciò possibile

– come messo problematicamente in luce, tra l’altro, dallo stesso giudice

costituzionale (v. Corte cost. nn. 15 e 16 del 2008 e n. 13 del 2012) – che

una maggioranza anche del tutto esigua e/o solo apparentemente più

compatta delle altre, si “trasformi”, per così dire, ex lege, in una

maggioranza assoluta di seggi (cd. premio di maggioranza “generico”).

Ma, oltre a questo, altri profili del meccanismo premiale congegnato

dalla legge n. 270 del 2005 sono stati oggetto di critiche puntuali: così, in

estrema sintesi:

– il computo dei voti rilevanti in vista del calcolo della forza politica

maggioritaria a cui elargire il premio (precisamente: la previsione, da un

lato, dell’esclusione dal computo dei voti dei cittadini italiani residenti

all’estero e di quelli necessari ad eleggere il deputato della Valle D’Aosta;

e, dall’altro lato, la rimessa in gioco, nella contabilizzazione dei voti

riportati dalle liste collegate, anche di quelli delle liste escluse per non aver

attinto la soglia di sbarramento);

– la sua consistenza (340 seggi su 630, pari a circa il 54% dell’intera

assemblea), considerata eccessiva.

– Soprattutto, la tornata elettorale del febbraio 2013 ha messo in luce

una caratteristica del premio su cui, fino a quel punto, s’era ragionato, per

lo più, da un punto di vista puramente matematico, ovverosia l’inattitudine,

per così dire, “strutturale” del meccanismo premiale previsto per l’elezione

del Senato a conseguire l’obiettivo per cui è stato predisposto.

L’attribuzione del premio su base regionale invece che nazionale è, infatti,

all’origine di disallineamenti non certo remoti delle maggioranze tra i due

rami del Parlamento: ipotesi, questa, vista con una certa preoccupazione,

specie da chi ritiene che il bicameralismo paritario imponga anche

un’omogeneità politica tra le due assemblee e, d’altro canto, non risolutiva

la previsione (non a caso, salita agli onori della cronaca, all’indomani

dell’introduzione del vigente sistema elettorale per le politiche) dell’art.

88, comma 1, Cost., di scioglimento di «anche una sola» delle due Camere.

Inoltre, se, già in presenza di due coalizioni, è possibile che, in forza delle

“compensazioni premiali” tra le Regioni (dovute, per l’appunto,

all’elargizione del premio su base regionale), si produca un sostanziale

annullamento della portata complessiva del premio stesso, in presenza di

più di due coalizioni (di un certo peso politico, s’intende), risulta del tutto

improbabile che una stessa formazione politica riesca ad acquisire la

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100 Lara Trucco

maggior parte dei premi regionali e, conseguentemente, dei seggi

parlamentari.

L’emersione del premio, a queste condizioni, lungi dall’esser «la

regola», finisce, dunque, per costituire un evento remoto, se non addirittura

eccezionale. Ciò che è tanto più vero, se solo si pensa che le probabilità

che si presentino casi del genere sono destinate a crescere di pari passo

all’aumentare dell’offerta elettorale: segnatamente, al numero di coalizioni

in lizza. Fin qui, succintamente, un quadro diagnostico che è sotto gli occhi

di tutti. Se si condivide, poi, la prognosi per cui il numero di parti

(coalizzate) in competizione tenderà all’aumento o, comunque, quanto

meno, alla stabilità (piuttosto che alla riduzione), con la possibilità in tutti

i casi di “dispersioni” dei premi regionali, sembra ormai pressoché

obbligata una revisione del meccanismo premiale in questione. Se, poi, ciò

avvenisse (per conservare la metafora), secondo i migliori “protocolli”, in

collegamento, cioè, con le riforme tese a modernizzare il sistema

istituzionale, potrebbe, forse, essere finalmente propiziata la

“normalizzazione” del Paese.

– In un’ottica di stretto pragmatismo politico, poi, s’è dubitato del-

l’idoneità dello stesso meccanismo premiale a rinforzare la coesione della

maggioranza “di governo”, considerandosi l’attitudine dei seggi premio a

produrre maggioranze del tutto artificiose, in quanto create pour l’espace

d’un matin, con lo specifico intento elusivo delle parti in lizza di ottenere

il beneficio in questione, già mettendo in conto il – del resto, consentito –

“ritorno”, non appena conclusasi l’elezione, all’identità politica originaria.

In quest’ottica, dunque, lungi dal basarsi su (e favorire il comporsi di)

visioni politiche e programmi di governo solidamente condivisi, il premio

potrebbe funzionare vuoi da incentivo alla presentazione di liste, le più

svariate e numerose, ed alla formazione di maggioranze parlamentari, le

più eterogenee e labili, per lucrare poi le rendite di posizione inerenti alla

partecipazione al cartello elettorale che ha vinto le elezioni; vuoi, in

controtendenza rispetto alla sua ratio, come uno strumento di pressione

dato che (come si diceva, in mancanza di congegni idonei a garantire una

qualche conservazione delle alleanze pre-elettorali) potrebbe rivelarsi

addirittura conveniente, per qualunque forza politica “di maggioranza”

(anche se di scarso rilievo), non solo far pesare oltre misura “il contributo

partecipativo” al risultato dell’elezione (si pensi, ad es., a quanto avvenuto

durante il “quarto Governo Berlusconi”), ma anche ventilare la minaccia

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101

di (e, nei casi estremi, attivare) crisi di governo (si pensi, ad es., a quanto

avvenuto durante il “secondo Governo Prodi”).

Più in generale, ci pare che meriti di essere meditata la reale idoneità

della predisposizione soltanto e semplicemente di strumenti di “ingegneria

istituzionale” a condurre “immediatamente” al conseguimento di obiettivi

assai articolati e profondi nella loro essenza. Approdi che, nel presupporre

il possesso e la sussistenza di un sostrato culturale democratico nonché, ad

oggi, di determinate competenze, possono necessitare, a seconda del

formato politico con cui si ha a che fare, di una ben più complessa e delicata

opera di messa a punto di strumenti concernenti l’intero sistema

costituzionale. In quest’ottica, la scelta di sovraccaricare il sistema

elettorale di aspettative di governabilità, specie in un’ottica di breve

periodo, può apparire la più agevole da percorrere, ma non è priva di

criticità, potendo rivelarsi illusoria l’idea di dar vita, per il solo tramite di

meccanismi elettorali, ad una qualsiasi maggioranza che nella realtà non si

è spontaneamente e fisiologicamente formata.

Compete, infatti, primariamente alle regole sulla forma di governo

(nonché, più nello specifico, sull’organizzazione ed il funzionamento

dell’assemblea) intervenire al riguardo, laddove ai sistemi di elezione

spetta, fondamentalmente, di salvaguardare (si precisa, al di là della natura

selettiva o proiettiva che s’intenda conferire loro) il carattere

rappresentativo dell’assemblea, assicurando, in particolare, una certa

capacità di incidenza del voto individuale sulla scelta finale degli eletti.

Il rischio, altrimenti, è che possa perpetuarsi uno dei principali “nodi

irrisolti” fin dall’epoca della Costituente: quello, per l’appunto,

concernente la “debole razionalizzazione” della nostra forma di governo.

In quest’ottica, la scelta della “Commissione di saggi” (v. la Relazione

presentata il 30 marzo 2013, di cui si riporta uno stralcio in Appendice) di

valorizzare le interrelazioni tra sistema di elezione e forma di governo

colpisce senza meno nel segno. Ci pare, peraltro, che, in vista della riforma

del sistema elettorale, una tale prospettiva andrebbe ora, per così dire,

completata con l’esame più attento della “forma di stato”. Ciò che è tanto

più vero specie per chi condivida l’idea che l’opzione maggioritaria

piuttosto che quella proporzionalista (o “mista”), lungi dal poter costituire

semplicemente il risultato di una scelta di tipo “ingegneristico”, necessiti,

specie nel lungo periodo, di radicarsi sul piano sociale, costituendo l’esito

di un approccio di tipo, per così dire “ambientale”, attento, in particolare,

alla domanda sociale che richiede di vedersi (adeguatamente)

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102 Lara Trucco

rappresentata. In una tale prospettiva “relativista” può, anzi, pensarsi che

non solo non ci sia e non ci possa essere un sistema in assoluto “migliore”

(a prescindere, cioè, dalle caratteristiche del formato “rappresentato”), ma

anche, per diverso profilo, che lo stesso sistema elettorale (per quanto ben

costruito) perda la sua fondamentale funzione di collettore delle domande

sociali, pretendendo di irrigidire eccessivamente le dinamiche politiche ed

istituzionali; con il rischio, in particolare, che i gruppi ai quali è reso

difficoltoso l’accesso alla rappresentanza inneschino la miccia della

sopraffazione di una parte di società sull’altra, con quanto ne consegue

riguardo ai rischio di provocare, nei casi estremi, crisi di regime.

Ebbene la presa d’atto delle caratteristiche della società italiana (che, ci

sembra, lungi dal potersi dire “omogenea”, risulta, tutt’oggi percorsa da

importanti fratture sociali) ci porta a concludere per l’opportunità, de iure

condendo, di delineare la fisionomia del sistema elettorale (e più

ampiamente ordinamentale) in direzione tendenzialmente “proiettiva” o, al

più, moderatamente selettiva. De iure condito, poi, è ineludibile riproporre

le tesi di coloro i quali, già all’alba della Repubblica, avevano tenuto ad

evidenziare l’importanza dei punti di contatto della trama costituzionale

col principio proporzionalista considerandolo il “preferito” ed, anzi il

principio posto alle fondamenta dell’edificio ordinamentale dalle forze

politiche che avevano sottoscritto il patto costituente: nella consapevolezza

(appunto) dell’idoneità di quel principio a garantire il coinvolgimento, nel

sistema costituzionale, di tutte le forze politiche democratiche in campo.

Se ciò, poi, non bastasse, la situazione generatasi all’indomani della “svolta

maggioritaria” ha fatto emergere, in modo per certi versi paradossale, più

nitidamente che per l’innanzi anche le implicazioni sistemiche di tale

opzione, al punto, ci pare, da corroborare, anche dal punto di vista

sostanziale, la tesi ad essa favorevole.

Non stupisce, pertanto, che, a fronte della concreta aspettativa di una

palingenesi del versante politico, si sia fatta, se possibile, ancora più

avvertita l’esigenza di riforme istituzionali, che, anzi, la più attenta dottrina

ebbe antesignanamente ad indicare come affatto pregiudiziali (come, del

resto, sarebbe stato, si noti, a livello regionale, dove, come s’è visto, la

conformazione della “forma di governo” da parte degli statuti deve di

necessità precedere quella del sistema di elezione da parte delle leggi

elettorali regionali) per un’evidente esigenza logica alla riforma elettorale.

E, ciò, appunto, nella consapevolezza del rischio, divenuto realtà, che il

mancato “aggiornamento”, rispetto alla “svolta maggioritaria” della Carta

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103

fondamentale, potesse introdurre un accompagnamento musicale

dissonante, finendo per stravolgerne i delicati equilibri armonici, ed in

fondo tradire il motivo che, in origine, aveva ispirato il suo compositore.

17. Quid est del voto?

Alla luce delle precedenti considerazioni, se sembra lecito osservare

come nel meccanismo elettorale del 2005 ben poco sia lasciato al caso,

pare anche di potersi concludere – del resto, in questo forse più che in altri

settori, tout se tient – sul risicato ruolo riconosciuto all’elettore. Sotto

entrambi i profili non può allora non richiamarsi il pensiero espresso dalla

Corte costituzionale nella sent. n. 4 del 2010 sulla necessità che il

legislatore non «prefiguri», in qualche modo, il risultato elettorale,

«alterando forzosamente la composizione dell’assemblea elettiva rispetto

a quello che sarebbe il risultato di una scelta compiuta dagli elettori in

assenza della regola contenuta nella norma». Da questo punto di vista, il

sistema recato dalla legge n. 270 del 2005 potrebbe, dunque, “salvarsi”

solo sottolineandosi il fatto che almeno l’identità della lista o (come più

probabile) della coalizione meglio classificate nella competizione sia

decisa, da un punto di vista matematico, dagli elettori, laddove il fatto che

queste ultime si trasformino anche in forze di governo può esser dovuto,

invece, ai meccanismi premiali della legge.

Ma, di quale decisione degli elettori, in realtà, si tratta?

Se, a questo punto, può dirsi che (senza voler qui prendere in

considerazione altri importanti fattori d’impatto, come, ad es., le

dimensioni dell’arena parlamentare) è, soprattutto dall’applicazione del

sistema di assegnazione dei seggi che la capacità di incidenza del voto

risulta “conformata”, è allora possibile osservare come il sistema

attualmente vigente in Italia tenda a emarginarne ogni pratica valenza.

Così, al di là della problematicità presente già “in partenza”, data la

risicata capacità di scelta da parte dell’elettore, in quanto coincidente

con l’espressione di un solo suffragio volendosi procedere ora “a

ritroso”:

– un primo fattore capace di causare un “annacquamento” della

valenza del voto individuale è la forma particolarmente intensa di “voto

fuso”, vale a dire la traslazione del voto dato dagli elettori “alla lista”

(dunque, in concreto, ai singoli partiti) in favore, indistintamente, se

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104 Lara Trucco

presenti, delle coalizioni a cui le liste eventualmente appartengano (tra le

quali, del resto, come s’è visto, vengono ripartiti in prima battuta i seggi);

– inoltre, un’ulteriore diluizione del rapporto che l’elettore intrattiene

con la sua stessa intenzione di voto, al punto da poter arrivare a

comprometterne il libero esercizio (inteso come possibilità di valutare

appieno la portata e il significato della propria scelta), si deve al congegno

delle cd. candidature plurime e della correlata, eventuale, opzione, da parte

del candidato, del collegio in cui essere eletto (basti dire che tale

meccanismo in occasione delle elezioni politiche del 2006 ha presentato

quasi trecento casi di opzioni concatenate (!));

– ancora, un aspetto critico è stato (per vero, agevolmente)

individuato nel fatto che, in luogo dell’elezione sia intervenuta la “nomina”

dei parlamentari, in quanto prescelti da una ristrettissima cerchia di

persone (e, cioè, in concreto, i dirigenti politici di partito che compilano le

liste), separandosi, per di più, le candidature – e, dunque, gli “eletti” –

rispetto alla “terra” di elezione, con un percepibile stress delle norme

costituzionali concernenti la libertà del mandato parlamentare (ex art. 67

Cost.);

– si rammenti, inoltre, come il ricorso ad un voto così “etero diretto”

possa avere forse qualche plausibilità, a condizione sia di una sua

circoscritta applicazione (nello spazio e/o nel tempo), sia di una certa

compensazione di quanto l’elettore “perde” sul piano del valore funzionale

del suo voto, attraverso la predisposizione di altri “meccanismi di

recupero” (ad es. primarie democratiche). Ebbene, poiché è difficile, oggi,

in Italia, rinvenire tali condizioni, ampia parte della dottrina (e dello stesso

mondo politico) ritiene di non poter sfuggire alla conclusione che il sistema

elettorale contraddica gravemente i principi di libertà e di eguaglianza del

suffragio, che sono tra le condizioni fondamentali e irrinunciabili della

democrazia stessa.

Le predette considerazioni rendono, dunque, più agevole la lettura di

talune recenti iniziative propositive e di contrasto nei confronti dell’attuale

assetto della legislazione elettorale: tra le prime, più proprie delle forze

politiche di opposizione, si segnalano proposte di riforma funditus del

sistema (di tipo misto alla tedesca, maggioritario a due turni alla francese,

ecc.); tra le seconde, maggiormente trasversali alla società civile, spiccano

le iniziative referendarie tese, in via spiccatamente manipolativa, a

resuscitare il precedente mattarellum (cfr., al proposito, i due quesiti

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105

depositati in Cassazione l’11 luglio 2011 e, per quanto riguarda iniziative

precedenti).

Sul piano istituzionale, nell’ultimo scorcio della XVI Legislatura, è

emersa l’ipotesi di innesco di una crisi di governo, col conseguente

comporsi di un “esecutivo tecnico”, chiamato ad agire, in particolare,

proprio per mettere mano ad un nuovo sistema di elezione per le politiche.

Che, peraltro, quella testé menzionata non abbia costituito una novità nel

panorama politico italiano, è dato di vedere dal fatto che, già all’indomani

della caduta del “Governo Amato I” (nell’aprile del 1993), l’allora

Presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro) aveva optato per la

formazione di un esecutivo “tecnico” (presieduto da Carlo Azeglio

Ciampi), incaricato, proprio di mettere mano alla riforma della legislazione

elettorale politica.

Nel 2008, poi, durante la crisi del Governo Prodi (aperta dopo la sfiducia

del Senato), il Presidente della Repubblica (Giorgio Napolitano), avviate

le consultazioni, aveva conferito a Franco Marini l’incarico di verificare le

possibilità di consenso su un progetto di «riforma della legge elettorale» e

«di sostegno ad un Governo funzionale all’approvazione di tale riforma»

(v. il Comunicato della Presidenza della Repubblica del 30 gennaio 2008):

compito destinato, evidentemente, all’insuccesso, considerato l’emergere,

ben presto, dell’impossibilità di dar vita a una maggioranza «che

concordasse in particolare» proprio, si noti, «sull’approvazione in tempi

brevi di una riforma della legge elettorale» (v. la Dichiarazione del

Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dopo la firma del decreto

di scioglimento delle Camere, del 6 febbraio 2008).

Ma a ben vedere, è stato l’intero settennato ad essersi contraddistinto

per una particolare attenzione, che ha preso forma in ripetuti moniti

(rimasti, all’evidenza, inascoltati) lanciati dal Presidente Napolitano alle

forze politiche parlamentari, circa l’indifferibile necessità di una riforma

del sistema di elezione. Ci si limita qui a richiamare l’attenzione sulla

“missiva” (del 9 luglio 2012), inviata ai Presidenti delle Camere, con cui il

Capo dello Stato sollecitò i gruppi parlamentari alla «presentazione in

Parlamento di una o più proposte di legge elettorale, anche rimettendo a

quella che sarà la volontà maggioritaria delle Camere la decisione sui punti

che non risultassero oggetto di più larga intesa preventiva e rimanessero

quindi aperti ad un confronto conclusivo»; e su quella al Presidente del

Senato (del 12 ottobre 2012), in cui tornò a considerare positivamente la

proposizione formale di un concreto progetto di nuova legge elettorale.

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106 Lara Trucco

Vero è, poi, che, nelle battute finali del mandato, la necessità di

mantenere una certa “compattezza” delle forze parlamentari ha indotto il

Capo dello Stato a retrocedere sul tema, trattenendosi da possibili “inviti”

all’esecutivo di occuparsi della materia (ci si riferisce, specificamente, alle

vicende occorse dopo che la situazione di “stallo” nell’azione di governo

determinatasi nel corso della Legislatura e l’urgenza di varare

provvedimenti impopolari avevano portato lo stesso Capo dello Stato a

nominare Monti, dapprima, senatore a vita, precostituendo, così, una sorta

di “estraniamento” della sua persona da possibili condizionamenti

dell’elettorato e, quindi, per l’appunto, capo dell’esecutivo). Tuttavia, va

subito ricordato come, in occasione del giuramento reso (il 22 aprile 2013)

per il secondo mandato, lo stesso Giorgio Napolitano ha definito

“imperdonabile” la mancata riforma elettorale, dimostrando di ritenere

improrogabile un intervento del legislatore in materia.

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107

IV IL SISTEMA ELETTORALE “ITALICUM-BIS”

ALLA PROVA DELLA SENTENZA DELLA

CORTE COSTITUZIONALE N. 1 DEL 2014

1. Premessa

Si intende ora proporre, alla luce della già memorabile sentenza della

Corte costituzionale n. 1 del 2014, una lettura della proposta di legge (A.C.

3-bis-B), recante “disposizioni in materia di elezione della Camera dei

deputati”, approvata, con modifiche dal Senato, il 27 gennaio 2015 ed ora

all’esame di questo ramo del Parlamento.

Cercherò, in particolare, di mettere a fuoco i principali elementi

caratterizzanti il nuovo sistema elettorale della Camera (che denominerò

“proposta-bis“ o “Italicum-bis”), di cui costituisce ora potente sintesi l’art.

1 del testo (introdotto, notoriamente, nel corso della discussione in

Assemblea al Senato, dal cd. “emendamento Esposito”) in comparazione

con la proposta (v. il d.d.l. S. 1385) approvata da questo stesso ramo del

Parlamento, in prima lettura, il 12 marzo 2014 (che per comodità

espositiva chiamerò “prima proposta“ o semplicemente “Italicum”).

Mi concentrerò, in realtà, solo sul sistema di elezione in senso stretto

considerato (dunque, sui meccanismi, normativamente previsti, che

regolano il procedimento di articolazione delle preferenze individuali in

voti e la conversione dei voti in seggi), mentre resteranno fuori dalla mia

analisi altri profili, pure molto interessanti, contenuti nella “proposta-bis“

concernenti la materia elettorale più ampiamente considerata (come, ad es.,

le norme concernenti il “procedimento elettorale preparatorio” e quelle sul

“voto dei cittadini temporaneamente all’Estero”), meritevoli di una

trattazione a parte. Ancora più nello specifico, porterò la mia attenzione

solo sul sistema per l’elezione della Camera dei deputati, dal momento che,

com’è noto, quest’ultima Assemblea (nella seduta dell’11 marzo) ha

stralciato il sistema di elezione del Senato dalla bozza di riforma elettorale,

preso atto dell’avvio, nell’altro ramo del Parlamento, del d.d.l. cost. di

riforma – particolarmente e proprio – del sistema di reclutamento dei

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108 Lara Trucco

senatori; e considerato che, comunque, il testo base della riforma elettorale

proponeva un sistema analogo per l’elezione di entrambe le Camere.

Inoltre, terrò presente il regime elettorale speciale previsto per il

Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta. Per diverso, ma connesso profilo,

terrò conto della sola elezione dei 618 “rappresentanti dei cittadini italiani

residenti in Italia”, dato che per l’elargizione dei 12 seggi “esteri”

continuerà a valere un regime elettorale specifico, delle cui criticità s’è già

ragionato in passato, e la cui riforma, tuttavia, al momento, non risulta

contemplata tra i punti all’ordine del giorno.

I

IL SISTEMA DI VOTAZIONE

2. Circoscrizioni e collegi (multilivello), liste (variabili) di candidati

e possibilità (parziale) di candidature multiple

2.1. Tra le principali novità della “proposta-bis“ (Italicum-bis) di

riforma del sistema di elezione della Camera dei deputati rispetto alla

situazione vigente vi è certamente, sul versante del disegno di collegi e

circoscrizioni e del sistema di votazione ad esso connesso, la previsione,

ai fini della presentazione delle liste di candidati, della sostituzione delle

attuali 27 circoscrizioni con la suddivisione del territorio nazionale in 20

circoscrizioni elettorali. Ciò da cui conseguirebbe (come rileva nello

schema che segue) un ampliamento dell’elemento circoscrizionale (il cui

disegno verrebbe a corrispondere perfettamente coi confini delle regioni),

rispetto alla situazione attuale (che vede la contestuale presenza di

circoscrizioni regionali e di circoscrizioni “infraregionali” nelle sei regioni

più popolose), con un certo “allentamento” del rapporto di rappresentanza

tra elettori ed eletti, a cui peraltro pone rimedio quanto si dirà appresso.

SITUAZIONE VIGENTE

PROPOSTA ITALICUM-BIS

CIRCOSCRIZIONE N.

SEGGI

CIRCOSCRIZIONE N.

SEGGI

1. Emilia-Romagna 45 1. Lombardia 101

2. Lombardia 2 45 2. Campania 60

3. Lazio 1 42 3. Lazio 57

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4. Puglia 42 4. Sicilia 52

5. Lombardia 1 40 5. Veneto 51

6. Toscana 38 6. Piemonte 46

7. Campania 1 32 7. Emilia-Romagna 45

8. Veneto 1 31 8. Puglia 42

9. Campania 2 28 9. Toscana 38

10. Sicilia 2 27 10. Calabria 20

11. Sicilia 1 25 11. Sardegna 17

12. Piemonte 1 23 12. Liguria 16

13. Piemonte 2 22 13. Marche 16

14. Veneto 2 20 14. Abruzzo 14

15. Calabria 20 15. Friuli-Venezia

Giulia

13

16. Sardegna 17 16. Trentino-Alto

Adige

11

17. Lombardia 3 16 17. Umbria 9

18. Liguria 16 18. Basilicata 6

19. Marche 16 19. Molise 3

20. Lazio 2 16 20. Valle d’Aosta 1

21. Abruzzo 14

22. Friuli-Venezia Giulia 13

23. Trentino-Alto Adige 11

24. Umbria 9

25. Basilicata 6

26. Molise 3

27. Valle d’Aosta 1

TOTALE 618 TOTALE 618

MEDIA: 22,9 MEDIA: 30,9

Nell’ambito delle suddette 20 circoscrizioni, l’Italicum-bis, prevede il

disegno di 100 collegi plurinominali, ciascuno corrispondente, in linea di

massima, al territorio delle province (art. 1, c. 1, lett. a)). Questi ultimi

andrebbero quindi a rimpiazzare i 120 collegi elettorali che secondo la

“prima proposta“ di Italicum avrebbero dovuto sostituire, come si diceva,

le attuali, 27 circoscrizioni elettorali.

Come avremo modo di meglio vedere nel prosieguo (v., infra, il §6), la

previsione di un tale duplice livello (circoscrizionale-collegiale) incide

indubbiamente – e, per certi versi, in maniera determinante – al momento,

finale, dell’applicazione della formula elettorale e dell’effettiva

assegnazione dei seggi; tuttavia, è opportuno mantenere ora la nostra

attenzione sulle interrelazioni che il ridetto disegno dell’elemento

circoscrizionale intrattiene col (più ampio) sistema di votazione.

A questo riguardo, una delle principali novità di entrambe le versioni

dell’Italicum rispetto al sistema dichiarato illegittimo dalla Corte

costituzionale (con la sent. n. 1 del 2014) è data dalla previsione – proprio

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110 Lara Trucco

in forza, da un lato, della sostituzione delle precedenti grandi circoscrizioni

con circoscrizioni più ridotte e, nel caso dell’Italicum-bis, di collegi

elettorali di più piccole dimensioni e di una stretta interrelazione tra

ammontare di seggi da assegnare e numero di candidature da mettere in

lista – in luogo delle precedenti liste composte da decine di candidati (tanto

da esser denominate “liste lenzuola”), di liste tendenzialmente brevi

(comunque più “corte” rispetto a quelle introdotte dalla legge n. 270 del

2005).

Detto ciò, dal confronto tra i testi approvati, in prima lettura,

rispettivamente, dalla Camera e dal Senato, rileva (v. la tabella che segue)

il fatto che mentre nella prima versione dell’Italicum (laddove si fosse

optato per il numero più alto di collegi) ogni lista sarebbe risultata

composta da un massimo di sei candidati (del resto, anche volendo fare un

calcolo molto approssimativo: 618/120=5,15), nell’Italicum-bis le liste

sarebbero più lunghe, potendo contare fino a nove candidature (anche qui,

facendo un calcolo a spanne: 618/100=6,18).

ITALICUM

(PRIMA PROPOSTA)

ITALICUM-BIS

CIRCOSCRIZION

E

N.

SEG

GI

N.

COLLE

GI

PLURI

NOM.

N.

MEDIO

SEGGI

PER

COLLE

GIO

N.

SEG

GI

N.

COLLE

GI

PLURIN

OM.

N.

MEDIO

SEGGI

PER

COLLE

GIO

1. Lombardia

101 20 5,1 101 17 5,9

2. Campani

a

60 12 5 60 10 6

3. Lazio 57 11 5,2 57 9 6,3

4. Sicilia 52 10 5,2 52 9 5,8

5. Veneto 51 10 5,1 51 8 6,4

6. Piemonte 46 9 5,1 46 8 5,8

7. Emilia-

Romagna

45 9 5 45 7 6,4

8. Puglia 42 8 5,3 42 7 6

9. Toscana 38 8 4,8 38 6 6,3

10. Calabria 20 4 5 20 3 6,7

11. Sardegna 17 3 5,7 17 3 5,7

12. Liguria 16 3 5,3 16 3 5,3

13. Marche 16 3 5,3 16 3 5,3

14. Abruzzo 14 3 4,7 14 2 7

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111

15. Friuli-Venezia Giulia

13 3 4,3 13 2 6,5

16. Trentino-

Alto Adige

- - - - - -

17. Umbria 9 2 4,5 9 1 9

18. Basilicata 6 1 6 6 1 6

19. Molise 3 1 3 3 1 3

20. Valle

d’Aosta

- - - - - -

TOTALE 606 MAX

120

606 100

Coerentemente a quanto si è appena osservato, mentre nella “prima

proposta“ di Italicum si era stabilito che ai collegi fosse assegnato un

“numero di seggi non inferiore a tre e non superiore a sei” (v. l’art. 1, c.

3), nell’Italicum-bis si trova che “i seggi spettanti a ciascuna circoscrizione

[…] sono assegnati in collegi plurinominali, nei quali è assegnato un

numero di seggi non inferiore a tre e non superiore a nove” (v. il “nuovo”

art. 1, c. 3).

2.2. Su questa base, l’Italicum, in ambo le versioni, prevede che le liste

(di candidati) siano formate “da un numero di candidati pari almeno alla

metà del numero dei seggi assegnati al collegio plurinominale e non

superiore al numero dei seggi assegnati al collegio plurinominale”,

conseguendone (come rileva dalla tabella che segue) un diverso numero

minimo e massimo di candidati nei due casi.

ITALICUM

(PRIMA PROPOSTA)

ITALICUM-BIS

SEGGI N.

MIN

N.

MAX

SEGGI N.

MIN

N.

MAX

3 2 3 3 2 3

4 2 4 4 2 4

5 3 5 5 3 5

6 3 6 6 3 6

7 4 7

8 4 8

9 5 9

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112 Lara Trucco

Una tale differenza “quantitativa” comporta delle conseguenze

tutt’altro che irrilevanti sul piano, per così dire, “qualitativo” del suffragio.

La previsione (anche) da parte dell’Italicum-bis, di un numero variabile

(da collegio a collegio) di candidature in lista, è, infatti, un meccanismo in

grado di incidere sulle pari opportunità di voto degli elettori e, più in

generale, sulla capacità di incidenza del voto individuale sull’esito finale

dell’elezione, diversa essendo la possibilità di esprimere la propria scelta

tra tre e sei, piuttosto che tra tre e nove persone. In particolare, si rileva

problematicamente la possibilità, nei collegi in cui sono assegnati 3 o 4

seggi, di procedere alla presentazione di liste composte da due soli

candidati, incluso il capolista, e, analogamente, la possibilità, nei collegi

di 5 o 6 seggi, di indicare tre candidati, di cui uno capolista: va da sé, infatti,

che, in tali contesti, il livello di personalizzazione del voto sarebbe

indubbiamente elevato, a fronte, tuttavia, di un radicale assottigliamento

dell’offerta elettorale disponibile, dato che, in sostanza, gli elettori

sarebbero chiamati ad esprimere le proprie preferenze nei confronti di

singole candidature (di sesso diverso).

Ciò, per diverso profilo, porta a riflettere sulla infungibilità dell’idea

della “personalizzazione” del suffragio e della “portata preferenziale” del

voto individuale stesso, trattandosi di aspetti la cui distanza meglio si

apprezza proprio in quei casi in cui la gamma di scelte a disposizione sia

talmente esigua da consentire all’elettore (un po’ come accade nei

referendum) di scegliere nell’ambito di una sola alternativa (sì/no)

concernente singole persone (approvo quel candidato/non lo approvo). In

simili situazioni, infatti, a fronte di una valorizzazione massima delle

elemento personalistico, si conferisce un rilievo minimo a quello

preferenziale. In questo senso, potrebbe forse rilevarsi come,

nell’Italicum-bis, in modo un po’ paradossale, l’elemento certamente

migliorativo, sul lato “preferenziale” del voto, costituito dal tendenziale

aumento del numero di candidature in lista, finisca per avere un impatto

negativo sul lato, invece, della “personalizzazione”, in termini di

conoscibilità dei candidati per i quali è possibile esprimere la preferenza

da parte degli elettori (e viceversa).

Questo stato di cose, tuttavia (come rileva, tra l’altro, dalle tabelle che

seguono) non desta particolari preoccupazioni. Ed infatti, le liste di

candidati in questione risultano, comunque, tendenzialmente brevi ed in

ogni caso nemmeno lontanamente paragonabili alle “liste lenzuola” della

vecchia normativa (censurata nella sent. n. 1 del 2014), in vigenza della

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113

quale «il cittadino [era] chiamato a determinare l’elezione di tutti i

deputati e di tutti senatori, votando un elenco spesso assai lungo (nelle

circoscrizioni più popolose) di candidati, che difficilmente conosce», con

un conseguente pregiudizio per la sua libertà di suffragio. Senza

considerare, poi, non solo che il venir meno, come si vedrà (infra, al §4)

della componente “coalizionale” gioca a favore del “riavvicinamento” del

soggetto votato al votante, a beneficio, proprio, di una maggiore

personalizzazione della scelta, ma anche che, anche ad uno sguardo

comparato, non sarebbe certamente il primo caso del genere e, soprattutto,

che lo stesso Giudice costituzionale nell’affrontare, nella sent. n. 1 del

2014, entrambi gli aspetti in questione (personalizzazione e preferenzialità

del suffragio) non è parsa infine prediligere uno dei due in particolare1,

lasciando così aperta la strada a varie soluzioni.

ITALICUM

(PRIMA PROPOSTA)

ITALICUM-BIS

1 La Corte, infatti, nell’occasione, si è rivelata certamente attenta nei confronti

dell’elemento preferenziale del suffragio, tanto da dichiarare, nello stesso dispositivo

della decisione, l’illegittimità costituzionale delle norme della legge elettorale “nella

parte in cui non consent[ivano] all’elettore di esprimere una preferenza per i

candidati”…così’ come si è dimostrata scrupolosa nel tener conto del rapporto tra libertà

e personalizzazione del voto, nel senso di “conoscibilità” delle candidature da parte degli

elettori, coll’evidenziare come le «condizioni di voto» introdotte dalla legge n. 270 del

2005 avessero finito per rendere «la disciplina in esame non comparabile né con altri

sistemi» né, tanto meno «con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni

territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente

esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta

e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)».

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114 Lara Trucco

Ad ogni modo, la stampa, sulla scheda, dei soli nomi dei capilista, oltre

ad assecondare il richiamato profilo della conoscibilità delle candidature,

potrebbe ovviare ad altrimenti probabili incertezze (com’era avvenuto con

riguardo alle schede della “prima proposta“ di Italicum) circa la possibilità

(una volta assegnato il seggio ai capilista), di considerare bloccate, in forza

di una sorta di “effetto trasferimento” della blindatura, anche le

candidature successive (alla prima) in lista. Rileva, poi, la perdurante

assenza, nella scheda (in attesa, può pensarsi, di vedere cosa succederà sul

versante della riforma istituzionale…), dei nomi dei candidati alla

Presidenza del Consiglio (il cui nominativo potrà per vero continuare a

comparire sui contrassegni), limitandocisi, al proposito, a proporre la cauta

previsione di un “deposito”, da parte dei partiti o dei gruppi politici

organizzati “che si candidano a governare”, contestualmente al deposito

del proprio contrassegno, del “programma elettorale nel quale dichiarano

il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza

politica” (art. 2, c. 8).

2.3. Portando ora l’attenzione su di un versante diverso ma pur sempre

attinente al sistema di voto ed alla conoscibilità dei soggetti votati, benché

la Corte, nella ridetta sent. n. 1 del 2014, abbia additato come problematica

la «possibilità di candidature multiple» e, con essa, «la facoltà dell’eletto

di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito»

(considerandone l’idoneità a mandare delusa l’aspettativa degli elettori

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115

«relativa all’elezione in riferimento allo stesso ordine di lista» che gli

viene prospettato al momento del voto), un siffatto meccanismo continua

ad essere contemplato. Per la precisione, dopo essere stato inizialmente

espunto dal testo di base della riforma, e successivamente reintrodotto in

quello approvato alla Camera (dandosi nuovamente modo a ciascun

candidato di “essere incluso in liste con il medesimo contrassegno”, sia pur

“fino ad un massimo di otto collegi plurinominali”), esso viene

ripresentato, ancora da ultimo, dall’Italicum-bis, sia pur limitandone la

sfera applicativa. Così, la proposta di legge in discussione consente solo ai

capilista, a pena di nullità dell’elezione, di candidarsi in liste (con il

medesimo contrassegno), in una o più circoscrizioni, fino ad un massimo

di dieci collegi, mentre non conferisce un’identica facoltà ai candidati su

cui gli elettori sono chiamati ad esprimere la propria preferenza (v. l’art.

2, c. 11).

Un simile congegno, insieme alla diversa tipologia

(blindata/preferenziale) delle candidature in lizza (su cui porteremo

l’attenzione nel prossimo paragrafo) introduce una disparità di trattamento

tra candidati che, anche a volerne ricondurre gli esiti nell’ambito della

sfera di discrezionalità del legislatore, risulta comunque problematica,

specie se si considerano le alte probabilità che, in una fase come quella

attuale – di debolezza del formato partitico, da un lato, e di conflittualità

su quello politico, dall’altro – essa finisca per (ulteriormente) alimentare il

contenzioso, anche di tipo costituzionale (peraltro, con tutte le incertezze

del caso, non avendo, la Consulta, ancora avuto occasione di pronunciarsi

su questo specifico profilo).

In particolare, se si condivide l’idea dell’attitudine, pure in questa

versione “ultra-attenuata”, di un tale meccanismo, di rimescolare,

comunque, le carte in tavola (scoperte al momento della presentazione

delle liste di candidati), si deve parimenti acconsentire sulla sua perdurante

capacità di disorientare l’elettore, continuando a risultare per questi

difficile, se non addirittura impossibile (tenuto conto, altresì, dell’effetto

cd. “flipper”, che esamineremo infra, al §6) in forza del gioco delle opzioni

concatenate, stabilire chi effettivamente beneficia del suo suffragio, a

detrimento della libertà individuale di voto. Si osserva, peraltro, come a

diverse conclusioni si potrebbe arrivare se, per i capilista, fosse riservato

un conteggio a sé, privo di interrelazioni con le altre candidature e tale da

dar vita ad una sorta di classifica “avulsa”, per l’appunto, dei capilista,

magari valorizzandosi maggiormente la figura, attualmente, per vero, un

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116 Lara Trucco

po’ sfocata, dei quattro candidati supplenti che assistono (al)le elezioni (ex

art. 2, c. 10), con la previsione di un ticket tra un supplente (dello stesso

sesso) col capolista e l’eventuale sostituzione di quest’ultimo, in caso, per

l’appunto, di opzione per la propria elezione in un altro collegio elettorale.

Comunque sia, fa riflettere il fatto che lo stesso Giudice costituzionale,

pur, come si è detto, evidenziandone le criticità, non abbia, poi, infine,

proceduto – forse considerandone l’inidoneità di per se sola a

compromettere la sostanza del suffragio – a sollevare la questione dinnanzi

a se stesso della possibilità di candidatura/opziona multipla, né tanto meno

a dichiararne l’illegittimità in via consequenziale, lasciando (anche a

questo riguardo) impregiudicata la situazione.

3. Norme sulla preferenza di genere e voto “misto” (blindato e

preferenziale)

3.1. È ormai pacificamente riconosciuta l’attitudine delle norme sulla

cd. “preferenza di genere”, per loro stessa natura ed in maniera variabile a

seconda delle diverse tecniche adottate, a conformare l’elezione (secondo

quanto indicato, del resto, dalle stesse norme costituzionali: v. spec. gli

artt. 51, e 117 Cost.) …e d’altro canto, è unanimemente condivisa l’idea

dell’imprescindibilità, per la caratterizzazione di un sistema come

democratico, della garanzia circa la sussistenza di una qualche aleatorietà

dell’elezione. Stando così le cose, le suddette norme potrebbero funzionare

un po’ come delle scatole, il cui contenuto concreto, però, deve poter essere

scelto, in ogni caso, dagli elettori. In questo senso, il pensiero non può che

andare, ancora, alla giurisprudenza costituzionale, ossia alla sent. n. 4 del

2010, in cui, si badi, proprio avendosi a che fare con un meccanismo

elettorale di riequilibrio di genere – la Corte ha messo in guardia sulla

necessità che il legislatore non «prefiguri», «in qualche modo», «il risultato

elettorale, alterando forzosamente la composizione dell’assemblea elettiva

rispetto a quello che sarebbe il risultato di una scelta compiuta dagli elettori

in assenza della regola contenuta nella norma».

Nella “prima versione“ dell’“Italicum, si era lamentata (anche nel

dibattito parlamentare) non solo la sostanziale inattitudine a conseguire gli

esiti voluti, ma addirittura la possibile produzione di un effetto opposto

rispetto a quello auspicato del riequilibrio di genere, considerandosi come,

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117

pure in presenza di una percentuale inusualmente alta di candidature

femminili sarebbe, tuttavia, potuta uscirne un’assemblea composta in

ampia parte di parlamentari del sesso opposto, nel caso in cui le candidate

fossero state collocate agli ultimi posti delle liste (sicché se pure in

quell’occasione i problemi non erano mancati, nondimeno, può dirsi che

essi avessero toccato profili affatto diversi rispetto alla precostituzione dei

risultati di voto).

Nell’Italicum-bis si è intervenuti con l’espresso intento di rimediare a

un simile inconveniente, introducendosi norme meglio in grado di

garantire il conseguimento dell’obbiettivo. Per la precisione, da un lato, si

continua a prevedere, “a pena di inammissibilità” della lista (v. l’art. 1, c.

1, lett. b) e l’art. 2, c. 9), che:

- nella successione interna delle liste nei collegi, i candidati debbano

essere presentati in ordine alternato per sesso (in un tale riferimento alle

liste e non all’elenco dei candidati è possibile dedurre, in via interpretativa,

che l’ordine alternato includa pure il candidato capolista, anche se un

elemento di tanto rilievo meriterebbe, ci pare, di essere meglio

puntualizzato nella normativa).

Ma, dall’altro lato, la normativa risulta ora potenziata dalle ulteriori

prescrizioni per cui:

- i capolista dello stesso sesso non possono eccedere il 60% del totale

in ogni circoscrizione, “con arrotondamento all’unità più prossima”; e

- nel complesso delle candidature circoscrizionali di ciascuna lista,

nessun sesso può essere rappresentato in misura superiore al 50%, “con

arrotondamento all’unità superiore”.

Va inoltre ricordato che (ai sensi dell’art. 2, c. 11) anche

- l’elenco dei quattro candidati supplenti da allegare alla lista deve

rispettare il principio di equilibrio di genere, dovendo a tal fine essere

composto da due uomini e due donne.

Nonostante la maggiore propensione del suddetto insieme di norme

(rispetto quelle contenute nel testo licenziato dalla Camera dei deputati) al

conseguimento dell’obiettivo del riequilibrio di genere non si rilevano

comunque rischi effettivi di predeterminazione dei risultati (da parte di un

simile meccanismo in quanto tale), la cui sussistenza, comportando la

violazione dell’essenza stessa del voto, è certamente passibile di censura

da parte del Giudice delle leggi.

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118 Lara Trucco

3.2. Venendo ora ad esaminare, sul piano tecnico, il fondamentale

profilo del voto individuale (in senso stretto considerato), nell’ottica,

anche qui, di un non escludibile nuovo intervento della Corte

costituzionale, è necessario appurare l’attitudine dell’Italicum ad evitare il

(ri)presentarsi della circostanza (su cui è calata, per l’appunto, la scure

della Consulta nella sent. n. 1 del 2014), per cui «alla totalità dei

parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, [manchi] il sostegno della

indicazione personale dei cittadini». Una simile evenienza, infatti,

coll’«alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di

rappresentanza fra elettori ed eletti» ed «[a]nzi, impedendo che esso si

costituisca correttamente e direttamente», finisce, nel pensiero della Corte

costituzionale, per «coarta[re] la libertà di scelta degli elettori

nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una

delle principali espressioni della sovranità popolare», ferendo, pertanto,

«la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione», in

contraddizione con lo stesso «principio democratico».

In quest’ottica, è possibile esplorare talune modifiche (almeno

parzialmente) migliorative intervenute al Senato. In precedenza, infatti, era

riproposto un voto unico, categorico, su liste blindate, seguitandosi, così,

problematicamente ad escludere «ogni facoltà dell’elettore di incidere

sull’elezione dei propri rappresentanti», che continuava a dipendere in

modo pressoché esclusivo «oltre che, ovviamente, dal numero dei seggi

ottenuti dalla lista di appartenenza, dall’ordine di presentazione dei

candidati nella stessa […] che è sostanzialmente deciso dai partiti».

Una tale “tentazione” non, è per vero, del tutto scomparsa nel testo in

discussione, dato che i capilista continuano ad essere blindati e che, a

seconda di come si metteranno le cose (si noti come, in modo per certi

versi paradossale, in questo caso, l’attivazione in tutti e dieci i collegi a

disposizione delle candidature multiple dei capilista potrebbe giocare a

favore delle preferenze…), ampia parte dei seggi potrebbero venire

assegnati “in automatico”, finendo per rendere poco più che simbolica la

legittimazione (di quanto di poco e residuale resta) da parte del voto

popolare…Inoltre, pure in un’ottica realistica, è difficile immaginare che,

in ogni caso (quindi, anche se si fosse previsto un voto completamente

preferenziale), i capilista (specie delle forze politiche maggiori) non

verrebbero eletti…mentre di ciò beneficerebbe la resa della nostra forma

di governo e con esso l’intero circuito democratico.

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119

Comunque sia, si propone ora un sistema di voto “misto”, in parte, come

si è appena osservato, blindato ed in parte preferenziale: oltre al voto di

lista, infatti, agli elettori è data facoltà di esprimere (ex art. 1, c. 1, lett. c);

e art. 2 c. 4)) fino a due preferenze per candidati, non capilista, di sesso

diverso, secondo l’ormai noto meccanismo della “doppia preferenza di

genere” (rilevando, come si vedrà infra, al §6, le preferenze di voto,

dall’assegnazione dei seggi ai secondi eletti in lista in poi).

Più precisamente, nella proposta-bis (v. il comma 20 dell’art. 2), si

prevede che “l’elettore, senza che sia avvicinato da alcuno, esprim[a] il

voto tracciando con la matita, sulla scheda, un segno, comunque apposto,

sul rettangolo contenente il contrassegno della lista prescelta” e che possa

“anche esprimere uno o due voti di preferenza, scrivendo il nominativo del

candidato prescelto, o quelli dei candidati prescelti, sulle apposite linee

orizzontali” (v., supra, il “fac-simile”). Su questa base, si chiarisce, inoltre,

opportunamente, che (v. il comma 21 dell’art. 2) se l’elettore

- traccia un segno sul nominativo del candidato capolista, senza

tracciare un segno sul contrassegno della lista medesima, si intende che

abbia votato per la lista stessa;

- se traccia un segno su una linea posta a destra del contrassegno, senza

tracciare un segno sul contrassegno della lista medesima, si intende che

abbia votato per la lista stessa; e, ancora,

- se esprime uno o due voti di preferenza, senza tracciare un segno sul

contrassegno della lista medesima, si intende che abbia votato anche per la

lista stessa; mentre

- se traccia un segno sul contrassegno di una lista e scrive il nominativo

di uno o più candidati sulle linee orizzontali poste a destra del contrassegno

di altra lista o di altre liste, il voto è nullo; e, analogamente,

- se traccia un segno sul contrassegno di una lista e sul nominativo del

candidato capolista di altra lista, il voto è nullo; e, ancora, che in caso di

espressione della seconda preferenza (v. il comma 4 dell’art. 2) se l’elettore

- non sceglie un candidato di sesso diverso rispetto al primo, la

medesima preferenza è nulla. Infine, è stabilito (v. il comma 21 dell’art.

2), in via residuale, che

- ogni altro modo di espressione del voto, determina la nullità del

suffragio “nel caso in cui sia manifesta l’intenzione di annullare la scheda

o di rendere riconoscibile il voto”.

In un tale quadro, non privo per vero, di chiaroscuri, frutto del

contemperamento di interessi di parte, inclini a garantire una qualche

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120 Lara Trucco

certezza dei risultati, e valori di tipo democratico, legati all’esigenza di

salvaguardare, comunque, una certa aleatorietà dell’esito stesso

dipendentemente dalla scelta del corpo elettorale, ci pare, dunque, (più)

improbabile (rispetto alla “prima proposta“ di Italicum) che la Corte

costituzionale possa non riconoscere l’idoneità, in qualche misura, dei

profili di riforma (nel senso, come si è detto, di una maggiore

valorizzazione della “personalizzazione” e della portata “preferenziale”

del suffragio) del sistema di votazione, a (contro)bilanciare i profili,

invece, di conservazione del precedente sistema di voto (bloccato),

dichiarandone l’incostituzionalità per “irragionevolezza” o a motivo della

violazione del contenuto essenziale del diritto fondamentale di voto.

Mentre lo stesso giudice potrebbe decidere valorizzare quella propria

giurisprudenza in cui ebbe “profeticamente” ad affermare che la

circostanza che il legislatore abbia lasciato ai partiti il compito di indicare

l’ordine di presentazione delle candidature non avrebbe leso in alcun modo

la libertà di voto del cittadino, a condizione, però, che quest’ultimo restasse

«pur sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia

nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare

questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di

preferenza» (v. la sent. n. 203 del 1975).

II

IL SISTEMA DI ASSEGNAZIONE DEI SEGGI

4. Formula elettorale (proporzionale) e (eventuale) secondo turno

(di lista)

4.1. Venendo all’esame della formula elettorale, tra le modifiche di

maggior momento intervenute al Senato, v’è senz’altro la scelta – o, se si

vuole, la “svolta”… – dell’abbandono di un sistema incardinato sulla

componente “coalizionale” (quale era quello contenuto nella “prima

versione“ dell’Italicum) a favore, invece, di un sistema (come quello

dell’Italicum-bis) in cui, invece, un ruolo centrale è assegnato alle liste di

partito in quanto tali (secondo quanto rileva sin già all’art. 1, c. 1, lett. da

d) a f) della proposta).

Una tale mutazione genetica ha comportato il contestuale venir meno

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121

dello strampalato meccanismo delle soglie di sbarramento multiple (che

costituiva un unicum nel panorama comparato), e del connesso “effetto

fotografico”. Coerentemente è stata poi soppressa anche la previsione

(tendente ad accentuare la convenienza delle forze politiche ad unirsi in

coalizioni) dell’esclusione di tutte le liste che, andando da sole, non si

fossero presentate in più “di un quarto dei collegi plurinominali”.

Eliminate dunque le soglie multiple, per accedere al riparto dei seggi è

ora prevista (in linea, peraltro, con quanto comunemente accade

nell’ambito di sistemi elettorali d’indole proporzionale) una soglia di

sbarramento unica, a livello nazionale, del 3% “del totale dei voti validi

espressi” (v. l’art. 2, c. 25). Dalla portata applicativa dello sbarramento

continuano a rimanere estranee “le liste rappresentative di minoranze

linguistiche riconosciute, presentate esclusivamente in una regione ad

autonomia speciale il cui statuto preveda una particolare tutela di tali

minoranze linguistiche, che abbiano conseguito almeno il 20 per cento dei

voti validi espressi nella regione medesima” (cd. “soglia salva-minoranze

linguistiche”) ed il seggio della Valle D’Aosta.

Operativamente, è l’Ufficio centrale nazionale che individua le liste che

hanno conseguito la soglia minima, a tal fine calcolando il totale dei voti

validi espressi a livello nazionale (dato dalla somma dei voti validi

conseguiti da tutte le liste in tutte le circoscrizioni) e la cifra elettorale

nazionale di ciascuna lista (data dalla somma delle cifre elettorali

circoscrizionali conseguite nelle singole circoscrizioni dalle liste aventi il

medesimo contrassegno).

A questo punto, il computo dei voti esigerà un plurimo livello di calcolo

(ora, però, non più, come avveniva nella “prima versione“ dell’Italicum, a

livello “di ciascuna coalizione di liste collegate” e “di ciascuna lista”, ma),

per così dire “a imbuto”, dal livello territoriale più “alto” a quello più

“localizzato” (cfr. infra, il §6).

4.2. Volendo concentrarci, per il momento, sul livello nazionale, una

volta individuate le liste ammesse al riparto dei voti, l’Ufficio procede ad

una prima ripartizione provvisoria dei seggi tra le liste sulla base dei voti

ottenuti, applicandosi, a tal fine (come già era previsto nella prima

versione“ dell’Italicum), la formula proporzionale dei quozienti interi e dei

più alti resti.

Più nello specifico, l’Ufficio centrale individua la lista che ha ottenuto

la maggior cifra elettorale nazionale, e verifica, contestualmente, se la sua

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122 Lara Trucco

cifra elettorale nazionale corrisponde ad almeno il 40% per cento del totale

dei voti validi espressi. A questo punto,

- qualora la verifica abbia esito positivo, l’Ufficio accerta ulteriormente

se tale lista maggioritaria, in base alla ripartizione provvisoria di cui s’è

detto, ha conseguito almeno 340 seggi (pari al 55% dei seggi). Se risultasse

non averli conquistati, alla stessa va attribuito il numero aggiuntivo di

seggi necessario, comunque, per ottenerli;

- qualora, invece, la verifica abbia esito negativo, ossia nessuna lista

abbia ottenuto il 40% dei voti, si procede ad un turno di ballottaggio fra le

due liste più votate. Ed, infatti, sarà, questa volta, alla lista che risulterà

vincente al secondo turno di voto che verranno assegnati i fatidici 340

seggi.

Pertanto, a differenza della “prima versione“ dell’Italicum, nella

“proposta-bis“ in discussione, soppresso l’elemento coalizionale, è

sopravvissuta, come s’è appena accennato, la previsione per cui, nel caso

di mancato conseguimento di una certa percentuale di voti da parte della

lista vincente, debba svolgersi un turno di ballottaggio tra le due più votate.

Si tratta, all’evidenza, di un doppio turno sui generis, che, diversamente da

quanto avviene in genere in questo tipo di sistemi, si svolge su base

nazionale (invece che a livello di singoli, molteplici, collegi elettorali), per

l’individuazione della lista vincente (laddove di norma è tra candidature

individuali che si svolge il confronto), ed in vigenza del divieto di “ogni

forma di collegamento tra liste o di apparentamento tra i due turni di

votazione” (v. la lett. f) dell’art. 1) (possibilità, questa seconda, che, invece,

caratterizza pressoché ovunque i sistemi a doppio turno).

Comunque sia, val la pena sin d’ora di osservare come l’applicazione

congiunta (per vero, più unica che rara in ambito comparato) dei

meccanismi del doppio turno di voto e del premio di maggioranza (su cui

torneremo infra, al §5), tenda a conferire ad un sistema essenzialmente

proporzionale ed inclusivo quale quello sin qui descritto, una torsione (più)

maggioritaria e selettiva. Ciò che, in un’ottica pragmatica, può ritenersi

idoneo ad amputare una delle principali censure formulate dalla Corte

costituzionale nella sent. n. 1 del 2014: il fatto, cioè, che il premio, lungi

dal costituire un semplice “correttivo”, avrebbe prodotto «una eccessiva

divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza

politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della

forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà

dei cittadini espressa attraverso il voto», dato che avrebbe finito per

“rovesciare” «la ratio della formula elettorale prescelta dallo stesso

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123

legislatore del 2005» che era quella di «assicurare», secondo una logica

proporzionale, «la rappresentatività dell’assemblea parlamentare».

È opportuno, peraltro, immediatamente considerare che il livello di

selettività di un tale singolare congegno dipenderà da come si deciderà di

comporre l’offerta elettorale (nulla impedendo, in particolare, di mettere

mano a liste, per così dire, “pluripartitiche”). Inoltre, è possibile ritenere

che esso impatterà sul formato politico forgiandolo non in senso bi-

tripolare (e men che meno bipartitico), bensì, in una rinnovata direzione

“centrista”, per cui si avrà un’imponente forza maggioritaria (quella, per

l’appunto, che vincerà le elezioni) la quale (specie poi in presenza di un

fronte non-maggioritario composito e frantumato), risulterà circondata da

una molteplicità di forze di minoranza/opposizione (secondo l’efficace

immagine del «gigante con tanti cespugli” »).

Il fatto che poi, una volta assegnato il premio, per la (ulteriore)

assegnazione dei seggi si dovrà procedere (cfr., infra, il §6) con criterio

proporzionale, può render ragione di una considerazione del sistema alla

stregua di un “maggioritario-proporzionale”, o, più precisamente, di un

“supermaggioritario di lista-proporzionale tra le liste”

5. Premio di maggioranza (fisso), soglia dei voti (apparente) e

quorum dei votanti (che non c’è)

5.1. Con la conferma, da parte dell’Italicum-bis del premio di

maggioranza si confida, ancora una volta, nella capacità taumaturgica del

meccanismo premiale (costituente già di per sé un unicum in chiave

comparata) di rimediare agevolmente alle conseguenze della cronica

debolezza della forma di governo italiana.

Delle problematicità che questo tipo di aspettativa presenta si è avuto

modo altrove di portare l’attenzione e, pertanto, non torneremo qui sul

punto, se non per osservare come, a dispetto della vigenza, ormai da tempo,

di un simile congegno, non si sia tuttavia registrato un miglioramento

apprezzabile, per il suo tramite, sul versante della tenuta e dell’efficienza

dell’azione di governo. Il che, ci pare, nel giustificarne la considerazione

come di «un meccanismo demenziale», dovrebbe bastare, altresì, a

persuadere che, in vista dell’obbiettivo della “governabilità” (reputato,

peraltro, «legittimo» dalla Corte, nella stessa sent. n. 1 del 2014), siano

altri i versanti su cui soprattutto ed improrogabilmente intervenire, a

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124 Lara Trucco

partire, «per un’ovvia esigenza logica», dalle riforme istituzionali

(includendovi i regolamenti parlamentari), senza lasciare indietro

nemmeno il delicato tema del ruolo, nel sistema costituzionale, dei partiti

politici…; mentre al sistema di elezione dovrebbe domandarsi – e dal

sistema di elezione dovrebbe pretendersi – semmai di dar forza al circuito

democratico-rappresentativo, col garantire un’adeguata rappresentatività

dell’assemblea e, dunque, una congrua incidenza del voto individuale,

sapendo funzionare, in ultima analisi, da “ponte di collegamento” tra

istituzioni e società.

Vi è poi, quella problematicità, per così dire, “strutturale” del

meccanismo premiale in quanto tale, data dal fatto che la sua applicazione

finisce per lasciare ben poco al caso, assistendosi, in buona sostanza, ad una

pianificazione ex ante della geografia politica delle Camere elettive (così,

ad es., si sa già che in applicazione dell’Italicum-bis la Camera dei deputati

risulterà sistematicamente composta da una maggioranza del 55% e da una

opposizione del 45%) –, a detrimento dell’effettiva incidenza del voto

individuale ed, in ultima analisi, dei reali rapporti di forza emersi

dall’elezione. Né avrebbe molto pregio obiettare, trattandosi di un’ipotesi

abbastanza remota, che, nel caso in cui una lista o coalizione abbia

conseguito del tutto “naturalmente” più del 55% dei voti, anche il risultato

non sarebbe alterato poiché il meccanismo premiale non opera più.

5.2. Con più specifico riguardo al premio previsto dall’Italicum-bis, è

possibile, comunque, rilevarne una maggiore linearità di funzionamento

CAMERA DEI DEPUTATI (distribuzione dei seggi)

MAGGIORANZA OPPOSIZIONE/I

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125

rispetto a prima, in ragione del venir meno della “dinamica degressiva”

che caratterizzava il precedente meccanismo premiale, mirandosi ad

assicurare, ora, in tutti i casi, il comporsi di una maggioranza parlamentare

(di una certa consistenza) pari ad almeno 340 seggi.

Tuttavia, talune delle principali criticità che un siffatto congegno

presentava nella precedente versione sono rimaste identiche anche dopo le

modificazioni che ne son state fatte al Senato, sicché nella prospettiva di

un eventuale sindacato di costituzionalità del sistema, si tratterà,

particolarmente, di accertarne la ragionevolezza, avendo, la Corte, nella

sent. n. 1 del 2014, messo in guardia sul fatto che il «sistema elettorale

[…] pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa,

non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio

di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole».

Il riferimento va, in particolare, al fatto che i suddetti 340 seggi (pari,

lo si ripete, al 55% dei seggi in palio) corrispondono, come s’è visto,

all’ammontare dei seggi assegnati alla lista dimostratasi in grado di

acquisire, sin già al primo turno e, pertanto, con le sole proprie forze, il

40% dei voti validi; la quale, dunque, sarebbe irrazionalmente ed

ingiustamente penalizzata rispetto a chi lo stesso risultato se lo veda

consegnato, in via del tutto artificiosa, a seguito del ballottaggio.

Proprio quest’ultimo rilievo getta luce sul vero e proprio punctum dolens

di un tale meccanismo premiale: la mancata previsione, cioè, di una

qualsiasi soglia di voti, anche e soprattutto, per così dire, “ai piani bassi”

del sistema (proprio quelli, si badi, per i quali risulterebbe tanto più

necessaria…), per cui come si diceva, per liste che restino anche ben al di

sotto del 40% dei voti si rende comunque possibile acquistare l’accesso al

ballottaggio e, ciò che più conta, per tramite di questo – dunque in via

puramente matematica – al conseguimento del quorum necessario ad

ottenere (il premio di) ben 340 seggi.

Una tale situazione, a cui in precedenza faceva forse da velo la

componente “coalizionale”, ad oggi, in presenza di sole, singole, liste (di

partito) rileva in tutta la sua problematicità, riportando alla mente, tra

l’altro, un frangente drammatico della nostra storia elettorale e

costituzionale, come il premio a favore della lista di maggioranza relativa

previsto dalla “legge Acerbo” (il quale, peraltro, com’è noto, sarebbe

potuto scattare solo col conseguimento della soglia al 25%...).

Il ricordo, poi, dell’insuccesso del premio previsto dalla cd. “legge

truffa” del 1953, perché a nessuna forza politica riuscì di raggiungere la

maggioranza (assoluta) dei voti necessaria a farlo scattare, porta a riflettere

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126 Lara Trucco

sul fatto che l’effettiva sussistenza di un premio dovrebbe implicarne

anche la possibile “non attivazione”. Il premio, cioè, deve anche poter non

scattare (essendo lecito pensare, in questi casi, ad un’applicazione

residuale, ad es., del cd. Consultellum, o, comunque, di un metodo

proporzionale puro, in grado al possibile di riflettere la volontà di voto

espressa dagli elettori). Detto ancora altrimenti, non sembra possibile

sostenere l’esistenza di quella “ragionevole soglia di voti minima” ai fini

dell’attribuzione del premio di maggioranza – la cui mancanza, lo si

rammenta, è stata alla base della dichiarazione di illegittimità

costituzionale di alcune disposizioni della legge elettorale nella ridetta

sent. n. 1 del 2014 – in quei casi in cui di un simile meccanismo premiale

è prevista sempre e comunque l’attivazione, avendosi, a ben vedere, in tali

ipotesi, a che fare con una soglia – e con un premio – attribuiti ex lege.

È quanto avviene, per l’appunto, con riguardo all’Italicum-bis, in cui è

(solo) attraverso la previsione legislativa del meccanismo del ballottaggio

che, in via dunque del tutto artificiosa, vengono create le condizioni per il

conseguimento – in ogni caso– da parte di chi vince, di una soglia di

almeno il 50% dei voti (dato che, come si è detto, al secondo turno di voto

partecipano due sole forze politiche, le quali si spartiscono il 100% dei

voti). Così, se, ad es., nella situazione data, i migliori piazzati si

collocassero ad esempio intorno al 10%, ne risulterebbe, alla fine, che una

forza che ha dato prova di godere di un relativamente modesto appeal tra

gli elettori, fruirebbe comunque del cospicuo bottino appena detto (del

55% dei seggi).

Pertanto, dato che nella sostanza, per dirla con la Corte, «le disposizioni

in esame» continuano a non subordinare l’elargizione del premio al

«raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista» – sembra difficile

pronosticare un positivo superamento, da parte della normativa in

discussione, di un eventuale sindacato di costituzionalità (senza che,

peraltro, un’eventuale censura implichi necessariamente il travolgimento

dell’intero impianto legislativo, che anzi, dovrebbe esser fatto dalla Corte

al possibile salvo, come avvenuto nella sent. n. 1 del 2014)…a meno che

il Giudice costituzionale non decida di far proprio un approccio puramente

formale alla questione, il quale, al momento di appurare la presenza della

soglia, potrebbe portarla ad accontentarsi della vigenza di quel

meccanismo di generazione fittizia, “per via legislativa”, di cui s’è detto,

concludendo per l’infondatezza della questione.

Ad un tale esito potrebbe, peraltro, forse, giovare il precedente

contenuto nella sent. n. 275 del 2014 (in cui la Corte, con riguardo, alla

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127

disciplina elettorale comunale, ha sostenuto la “non irragionevolezza” del

premio di maggioranza e della «conseguente alterazione della

rappresentanza», a motivo della sua funzionalità alle esigenze di

governabilità, che nel turno di ballottaggio verrebbero «più fortemente in

rilievo»). Anche se decisiva nel far propendere per l’incostituzionalità

della norma potrebbe essere la constatazione di come, altrimenti, la

Consulta finirebbe per contraddire se stessa, consentendo a quella

compressione della «rappresentatività dell’assemblea parlamentare,

attraverso la quale si esprime la sovranità popolare, in misura

sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito (garantire la stabilità di

governo e l’efficienza decisionale del sistema), incidendo anche

sull’eguaglianza del voto, in violazione degli artt. 1, secondo comma, 3,

48, secondo comma, e 67 Cost.» ritenuta, dallo stesso Giudice delle leggi,

ancora da ultimo, “manifestamente irragionevole” (v. la ridetta sent. n. 1

del 2014; ed inoltre, in senso analogo, già in precedenza, le sentt. n. 15 e

n. 16 del 2008, nonché la sent. 13 del 2012).

5.3. La criticità da ultimo esaminata trascende, a ben vedere, il sistema

elettorale in questione, per coinvolgere, più ampiamente, il meccanismo

premiale di per se stesso considerato. Se, infatti, resta certamente valida

l’idea, patrocinata dallo stesso Giudice costituzionale, della necessità,

attraverso la fissazione di soglie, di porre un qualche limite alla possibilità

di «trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una

percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la

maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea», ciò non toglie che

è esclusivamente di “voti validi” che, in questi casi, si ragiona. Suffragi,

questi, che potrebbero, pertanto, coincidere con un numero estremamente

ridotto di votanti (ipotesi verosimile in presenza di un’alta percentuale di

astensione); i quali, nondimeno, basterebbero a far scattare il meccanismo

premiale (così, se, per ipotesi, nelle elezioni politiche italiane votassero

solo 1000 persone, pari, all’incirca, allo 0,002% del corpo elettorale, ed il

risultato fosse di 410 voti per una certa forza politica, 400 per un’altra e

190 per una terza, il premio scatterebbe comunque ed il vincente otterrebbe

il 55% dei seggi…).

Se si porta questo tipo di logica alle estreme conseguenze, si può dire,

finalmente, ancora con la Consulta, che è il «meccanismo di attribuzione

del premio di maggioranza» in quanto tale a «determinare un’alterazione

del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio

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128 Lara Trucco

fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.)»,

trattandosi di un congegno inidoneo per sua stessa natura e ragion d’essere

a soddisfare l’esigenza «che ciascun voto contribuisca potenzialmente e

con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi». Il che, ci pare,

risulta tanto più vero laddove all’assenza di soglie di voti validi si sommi

la mancanza di quorum dei votanti che garantisca una certa condivisione –

e, con essa, autorevolezza e credibilità – dell’iter che conduce

all’attivazione del premio e, più ampiamente, allo stesso risultato

elettorale, da parte della comunità politica di riferimento. Per cui anche a

questo riguardo, se proprio si volesse far salvo il meccanismo premiale,

sarebbe opportuno ed anzi necessario accompagnare la suddetta soglia dei

voti validi con la previsione, altresì, di un quorum dei votanti (al cui

mancato traguardo potrebbe conseguire, anche qui, un’applicazione

residuale, ad es., del cd. Consultellum).

6. Livelli (molteplici) di assegnazione (e traslazione) dei seggi e

proclamazione degli eletti

6.1. Si diceva in precedenti paragrafi come nella “proposta-bis“ di

Italicum il conteggio si articoli, per così dire, “ad imbuto”, nell’ambito

cioè, di una molteplicità livelli “decrescenti quanto ad ampiezza, tra i quali

un ruolo centrale è svolto, come si è in parte anticipato dal (1) livello

nazionale, anche se poi l’individuazione, in concreto, dei beneficiari dei

seggi avviene ai successivi livelli, (2) circoscrizionale e (3) di collegi

elettorali. A tutti questi vari livelli, al fine di operare concretamente il

riparto dei seggi è prevista una dinamica indubbiamente macchinosa da

descrivere (potrebbe dirsi “per progressive approssimazioni in senso

proporzionale”) che, in sintesi estrema, vede, via via ad ogni livello (in

senso decrescente), l’applicazione del criterio proporzionale e l’eventuale

“aggiustamento” del riparto dei seggi che ne deriva, in modo tale da

salvaguardare, al possibile, da un lato, il numero di seggi (cd. magnitudo)

definita al momento del disegno delle circoscrizioni (v., supra, il §2) e,

dall’altro, la volontà espressa dagli elettori espressa al momento del voto

(v., supra, il §3).

Più nel dettaglio, è opportuno considerare come, a livello nazionale, una

volta attribuiti i seggi del premio di maggioranza alla lista vincente al

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primo turno o a seguito del ballottaggio (v. supra, il §5), spetti ancora

all’Ufficio centrale nazionale operare concretamente il riparto dei seggi fra

le circoscrizioni stabilendo, innanzitutto, il numero di seggi spettanti alle

liste a livello nazionale. A tal fine, esso calcola (il quoziente elettorale di

maggioranza, derivante dalla divisione della cifra elettorale nazionale della

lista di maggioranza per il numero di seggi ad essa attribuito e,

corrispondentemente) il quoziente elettorale nazionale di minoranza, dato

dalla divisione del totale delle cifre elettorali delle liste di minoranza per il

numero di seggi rimasti da attribuire alle liste stesse. Esso procede, quindi,

alla ripartizione dei tali seggi “residuali” tra le altre liste ammesse al riparto

“non vincenti”, rifacendosi, a tal fine, al metodo del quoziente, con

riferimento, da un lato, al “numero di seggi pari alla differenza tra 618 e il

totale dei seggi assegnati alla lista di maggioranza” e, dall’altro, al

“quoziente di minoranza” testé menzionato (v. il c. 3 dell’art. 2).

Si noti, peraltro, come il drafting non del tutto perspicuo in punto di

contabilizzazione dei risultati elettorali delle circoscrizioni Trentino-Alto

Adige e Valle d’Aosta (in cui vengono assegnati 12 seggi “speciali”: 1 in

VA ed 8 in collegi uninominali + 3 con metodo proporzionale in TAA)

potrebbe far sorgere dei problemi in sede applicativa, col risultato di far

mancare l’obbiettivo dell’assegnazione di tutti i 630 seggi (fissati

inderogabilmente dall’art. 56 della Costituzione). Il comma 6 dell’art. 83

dell’Italicum-bis, infatti, mentre si preoccupa di chiarire che i voti espressi

in tali circoscrizioni debbono considerarsi in vista della verifica del

raggiungimento della soglia di sbarramento e per l’individuazione della

lista maggioritaria o delle liste ammesse all’eventuale ballottaggio,

analogo zelo non pone con riguardo al loro conteggio nella successiva fase

di assegnazione dei seggi, limitandosi, a questo riguardo, a prevedere che

“Essi non concorrono alla ripartizione dei seggi assegnati nella restante

parte del territorio nazionale”. Dal canto loro, le disposizioni

specificamente dedicate (all’art. 2, c. 29 e ss.) ai sottosistemi di Trentino-

Alto Adige e Valle d’Aosta, mentre prevedono che i seggi che le liste

maggioritarie ottengono in tali circoscrizioni debbano essere detratti dai

340 seggi del premio, nulla dicono con riguardo ai seggi ottenuti dalle liste

di minoranza nelle due regioni a disciplina speciale (segnatamente, non

prescrivono che essi vadano defalcati dal totale dei 278 seggi destinati alle

liste di minoranza). Su questa base, è stata gettata prontamente luce sulla

possibilità che un’interpretazione strettamente letterale della normativa

conduca a ritenere che i voti espressi nelle due circoscrizioni rilevino solo

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130 Lara Trucco

ed esclusivamente sul piano del sistema di votazione, ovvero con riguardo

alle “modalità di considerazione dei voti delle due circoscrizioni con

disciplina speciale nella determinazione delle cifre elettorali delle liste”,

mentre gli stessi resterebbero estranei alle successive fasi di distribuzione

dei seggi. Pertanto, tali 12 seggi “speciali”, dopo essere stati conteggiati ai

fini di cui s’è detto, andrebbero trattati del tutto autonomamente rispetto ai

(618-340=) 278 seggi da elargire alle minoranze, con l’inammissibile

fluttuazione (tra i 631 e i 640 seggi) dell’ammontare totale dei seggi di cui,

deve e non può non essere composta la Camera dei Deputati.

Va dunque da sé che, onde evitare una simile evenienza, la normativa

in questione necessiterà di una interpretazione costituzionalmente

conforme, fondata sull’assunto che il menzionato comma 6 non riguardi il

sistema di voto ma, piuttosto, l’intera fase di assegnazione dei seggi

(calcolo della soglia e del premio, ovviamente, inclusi) e che, pur

presupponendosi che per i seggi di Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta

viga una disciplina speciale, essi vadano, comunque, contabilizzati

nell’ambito dei seggi, rispettivamente, “di maggioranza” e “di minoranza”.

Più precisamente, per non sforare il totale di seggi previsto dalla Carta, la

contabilizzazione dei seggi “di maggioranza” e “di minoranza” dovrà

essere effettuata nell’ambito, da un lato, di tali 12 “seggi speciali” e,

dall’altro, degli altri (630 totale – 12 esteri – 1 Valle d’Aosta – 11 Trentino-

Alto Adige =) 606 “seggi ordinari” (v., supra, al §2 la 2a tabella). A questo

punto, l’effettiva assegnazione dei seggi in Trentino-Alto Adige e Valle

d’Aosta seguirà le “regole proprie” (stabilite dal comma 29 e ss. dell’art.

2 dell’Italicum-bis), in una sorta, analogamente a quanto avviene per i 12

“seggi esteri”, di “subclassifica”/assegnazione avulsa, idonea a mettere al

riparo tali due “circoscrizioni speciali” da quanto avviene nel resto del

territorio, per cui sarebbe in questo senso, che andrebbe intesa la

disposizione più sopra richiamata che vuole che i voti espressi in tali

circoscrizioni non concorrano “alla ripartizione dei seggi assegnati nella

restante parte del territorio nazionale” (v. il c. 6 dell’art. 83).

Comunque sia, va osservato come, una tale “ibridazione” del sistema

presenti delle criticità di non trascurabile rilievo che vanno oltre

l’interpretazione necessitata appena proposta (di cui, peraltro, la tecnica

redazionale messa in campo può dirsi forse spia e riflesso). Ci si riferisce,

in particolare, al fondamento costituzionale in grado di giustificare il

descritto regime elettorale speciale di queste due Regioni (anche) rispetto

alle altre Regioni a statuto speciale, nonché in considerazione del più

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ampio quadro di tutela delle minoranze linguistiche (ai sensi della legge

15 dicembre 1999, n. 482); si pensa, inoltre, per diverso ma connesso

profilo, al (per certi versi, come s’è visto) analogo trattamento riservato a

tali “seggi speciali” rispetto ai “seggi esteri”, mancando, nella Carta, per i

primi, previsioni analoghe a quelle stabilite per i secondi (v. spec. il 2°

comma dell’art. 56 della Costituzione).

D’altro canto, queste due regioni potrebbero lamentare un’indebita

violazione della propria autonomia da parte del legislatore statale, a motivo

del suddetto obbligo di collegamento delle proprie liste con le altre in sede

nazionale, e, più in generale, a causa delle innovazioni rispetto a quanto

stabilito dal Testo unico recante le “norme per la elezione della Camera

dei deputati”. Mentre proprio il collegamento tra le liste di candidati

“speciali” ed “ordinarie” potrebbe essere all’origine di una particolare

ipotesi di “voto multiplo” se si dovesse appurare l’(ulteriore) incidenza dei

voti espressi in tali circoscrizioni oltre che per l’assegnazione dei propri

seggi (in applicazione delle proprie regole), altresì, sul calcolo dei

quozienti elettorali di maggioranza e di minoranza sul piano nazionale (si

ricordi, peraltro, come sia la stessa normativa a prevedere che essi debbano

essere contati per il traguardo della soglia del 3% e per l’assegnazione del

premio di maggioranza a livello nazionale).

E’ difficile pensare che, se mai la questione dovesse essere portata alla

sua attenzione, la Corte costituzionale possa soprassedere a tali e tante

criticità. Mentre sarebbe consigliabile porvi tempestivo rimedio, anche, se

del caso e per quanto possibile, in sede attuativa (nonché, nel dar seguito

alla delega al Governo prevista dall’art. 4 per la determinazione dei collegi

plurinominali).

6.2. Al fine di proseguire idealmente nel percorso applicativo della

formula elettorale, si deve ora considerare come, una volta compiuta

l’assegnazione dei seggi alle liste a livello nazionale, l’Ufficio centrale

nazionale debba procedere alla ripartizione dei seggi nelle varie

circoscrizioni (v. il c. 25 dell’art. 2), in proporzione al numero di voti che

ciascuna lista ha ottenuto in una determinata circoscrizione (qui, come si è

detto, le circoscrizioni Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta fanno sistema

a sé…), in modo tale, da rispettare al possibile quanto stabilito al momento

del disegno della componente circoscrizionale stessa (v. supra, il §2).

A tal fine, in ciascuna circoscrizione l’Ufficio centrale nazionale

determina, per ogni lista, un “indice proporzionale di lista” (che, in pratica,

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132 Lara Trucco

rappresenta la quota di seggi spettante in quella determinata circoscrizione

alla lista, sulla base dei seggi ad essa assegnati in sede nazionale),

dividendo la cifra elettorale circoscrizionale della lista per il quoziente

elettorale nazionale della lista medesima, a sua volta ottenuto,

quest’ultimo, dalla parte intera della divisione della cifra elettorale

nazionale della lista per il numero di seggi ad essa assegnato in sede

nazionale. Sulla base di tutti i vari “indici proporzionali di lista” è possibile

quindi determinare un “indice complessivo circoscrizionale” di tutte le

liste (costituito dalla somma degli indici proporzionali di lista). A questo

punto, avendosi la disponibilità dei singoli “indici proporzionali di lista”,

dell’“indice complessivo circoscrizionale delle liste”, e del “totale di seggi

spettanti a tutte le liste nella circoscrizione” mettendo in rapporto tra loro

(con una semplice proporzione) questi dati è possibile calcolare i “seggi

spettanti a ciascuna singola lista”.

Il passo successivo è di accertare se la somma dei seggi assegnati alle

liste in tutte le circoscrizioni corrispondono o se, invece, la lista abbia

ottenuto più seggi (lista eccedentaria) o meno seggi (lista deficitaria) di

quelli alla medesima attribuiti a livello nazionale. In questa seconda

evenienza la soluzione adottata riprende, fatte tutte le differenze del caso,

il metodo “della più alta media”, per cui per approssimazioni successive si

procede ad individuare il risultato “ottimale” (quello, cioè, che consente di

attribuire i seggi in palio distorcendo “al minimo” i rapporti di forza tra

liste, pur, va detto, con tutte le imprecisioni del caso, in ragione della “forza

dei numeri”, la quale però, essendo cieca, è anche imparziale, potendo

giocare indifferentemente a favore o contro questa o quella forza politica).

Su questa base (secondo una dinamica destinata a replicarsi, pur con

alcune non trascurabili, differenze, come si vedrà, a livello di collegio)

l’Ufficio centrale opera, dunque, la “correzione” delle assegnazioni

effettuate. A tal fine, si inizia dalla lista con il maggior numero di seggi

eccedenti, e, in caso di parità, da quella con la maggior cifra elettorale

nazionale, e si procede alla sottrazione dei seggi eccedenti nelle

circoscrizioni nelle quali essa li ha ottenuti con le minori parti decimali dei

quozienti di attribuzione, assegnandoli, nella medesima circoscrizione,

alle liste deficitarie per le quali le parti decimali dei quozienti di

attribuzione non hanno dato luogo all’assegnazione di un seggio. Qualora,

poi, nella medesima circoscrizione due o più liste abbiano le parti decimali

dei quozienti non utilizzate, il seggio è attribuito alla lista con la più alta

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parte decimale del quoziente non utilizzata o, in caso di parità, a quella con

la maggiore cifra elettorale nazionale.

A questo punto, secondo la riformulazione proposta al Senato, prima di

applicare meccanismi comportanti lo slittamento del numero di seggi

attribuiti (nelle precedenti fasi della procedura) alle liste ed alle

circoscrizioni (fatte salve, si badi, le due circoscrizioni “speciali”), si deve

tentare al possibile di effettuare la compensazione nell’ambito delle

medesime liste e circoscrizioni. In quest’ottica, dunque, si prevede che nel

caso in cui non sia possibile attribuire il seggio sottratto alla lista

eccedentaria nella medesima circoscrizione, in quanto non vi siano liste

deficitarie con le parti decimali dei quozienti inutilizzate, l’Ufficio centrale

debba proseguire, per la stessa lista eccedentaria, nell’ordine dei decimali

crescenti, fino ad individuare un’altra circoscrizione in cui sia possibile

sottrarre il seggio alla lista eccedentaria e assegnarlo alla lista deficitaria

nella medesima circoscrizione. E’ a questo punto che, nell’ipotesi in cui

non si sia ancora riusciti ad effettuare la compensazione, si applica la

“norma di chiusura”, che prevede che i seggi vengano sottratti alla lista

eccedentaria nelle circoscrizioni nelle quali essa li ha ottenuti con le minori

parti decimali dei quozienti e che vengano assegnati alla lista deficitaria

nelle altre circoscrizioni in cui abbia le maggiori parti decimali dei

quozienti inutilizzate.

6.3. Completata la procedura pure a livello circoscrizionale, il metodo

di riparto dei seggi nei vari collegi plurinominali, la cui applicazione è

affidata (non più all’Ufficio centrale ma) ai vari Uffici centrali

circoscrizionali, mutua per la più gran parte quello sopra descritto per la

ripartizione dei seggi nelle circoscrizioni, potendosene omettere, dunque,

la ripetizione (v. il c. 25 dell’art. 2). La differenza di rilievo, che, per ciò

stesso, merita, invece, una qualche attenzione, la si deve alla

riformulazione del testo proposta dal Senato, e concerne il sistema di

compensazione fra liste eccedentarie e liste deficitarie nella ripartizione

dei seggi spettanti alle liste di minoranza. Si tratta, dunque, prima di tutto

(v. l’art. 2, c. 1, n. 4) di accertare se il numero di seggi assegnati nei vari

collegi a ciascuna delle liste di minoranza corrisponda o se, invece, le liste

abbiano ottenuto più seggi (liste eccedentarie) o meno seggi (liste

deficitarie) di quelli alle medesime attribuiti a livello circoscrizionale. In

questo secondo caso, l’Ufficio determina la lista che ha il maggior numero

di seggi eccedentari e, a parità di questi, la lista che tra queste ha ottenuto

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134 Lara Trucco

il seggio eccedentario con la minore parte decimale del quoziente; sottrae,

quindi, il seggio a tale lista nel collegio in cui è stato ottenuto con la minore

parte decimale dei quozienti di attribuzione e lo assegna alla lista

deficitaria che ha il maggior numero di seggi deficitari e, a parità di questi,

alla lista che tra queste ha la maggiore parte decimale del quoziente che

non ha dato luogo alla assegnazione di seggio: il seggio è assegnato,

quindi, alla lista deficitaria nel collegio plurinominale in cui essa ha la

maggiore parte decimale del quoziente di attribuzione non utilizzata. Tali

operazioni sono ripetute, dunque, in successione, sino alla assegnazione di

tutti i seggi eccedentari alle liste deficitarie.

E’ noto, peraltro, che i meccanismi di compensazione di cui s’è detto,

come spesso accade quando si tratta di contemperare interessi vari e

confliggenti, siano stati e siano tutt’ora oggetto di discussione. Al

meccanismo previsto nella prima versione di Italicum va riconosciuto

l’intento di aver mirato a salvaguardare al possibile il riparto dei seggi

operato al momento del disegno dei collegi e delle circoscrizioni;

nondimeno, un simile obiettivo veniva ricercato con l’applicazione di un

meccanismo di sottrazione dei seggi alle liste eccedentarie (in genere, le

più forti) a beneficio di quelle deficitarie (di norma, le meno forti) che

rendeva possibile ed anzi probabile, specie per le liste più deboli “pescare”

i seggi mancanti dove le liste eccedentarie esibivano la parte decimale più

piccola, e non dove le liste deficitarie medesime presentavano la parte

decimale maggiore, con una certa indifferenza, dunque, dei risultati di voto

ottenuti nei diversi territori (cd. “flipper”), con tutte le incongruenze del

caso (sino, al limite di attribuire alle liste più deboli alcun seggio, a motivo

dell’impossibilità, per le stesse, di ottenere seggi attraverso i resti più alti,

o, men che meno, grazie ai quozienti interi).

Al Senato, come si diceva, il meccanismo è stato modificato, con

l’introduzione della cd. norma antiflipper”, con cui, al fine di scongiurare

la possibilità di procedere all’assegnazione di seggi a determinate liste in

collegi in cui queste presentavano risultati peggiori (rispetto ad altri

collegi) è stata stabilita la cessione del seggio da parte delle liste

eccedentarie nei collegi dove hanno la parte decimale minore, ed il loro

acquisto, d’altra parte, da parte di quelle deficitarie nei collegi in cui queste

presentano la parte decimale maggiore. Detto altrimenti, in base alle nuove

regole, la lista eccedentaria (quindi quella che ha raccolto più voti) è tenuta

a cedere il seggio a quella deficitaria (quindi quella più debole) dove questa

ha ricevuto più consensi.

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In questo modo si è ricondotta la normativa ad una maggiore coerenza,

continuando però a scontarsi la possibilità che, fermo restando,

tendenzialmente, il numero dei seggi attribuiti a livello di circoscrizione,

il numero di seggi complessivamente assegnati nei vari collegi risulti

variabile. Ma del resto, è nella fisiologia dei sistemi elettorali (si direbbe,

anche qui, “nella forza dei numeri”) che, nel momento in cui si scelga di

operare il conteggio ad un più alto livello – sia esso a livello

circoscrizionale o, a maggior ragione, nazionale – si possa e si debba

accettarne le implicazioni ai livelli più bassi, anche se queste comportino

un rimescolamento della carte in tavola (anche a scapito, in qualche

misura, della “conoscibilità”, da parte degli elettori, degli esiti del proprio

suffragio) ….almeno sino a quando ciò non vada a detrimento

dell’imparzialità dell’elezione.

Ad ogni modo, concluse le operazioni di attribuzione dei seggi nei

collegi, le assegnazioni alle liste sono definitive e l’Ufficio centrale

circoscrizionale procede alla proclamazione degli eletti. E’ a questo punto

che rilevano (anche) le preferenze espresse dagli elettori, dato che

(secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 1, lettera g) della proposta-bis

di Italicum), in ciascun collegio lo stesso Ufficio proclama eletti “fino a

concorrenza dei seggi che spettano a ciascuna lista in ogni circoscrizione,

dapprima i candidati capolista nei collegi, quindi i candidati che hanno

ottenuto il maggior numero di preferenze”.