Disegno e narrazione al nido - Erickson · sviluppare il pensiero narrativo. Disegno e narrazione...

download Disegno e narrazione al nido - Erickson · sviluppare il pensiero narrativo. Disegno e narrazione al nido Cappelletti € 17,00 152 Collana diretta da Battista Quinto Borghi e Paola

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  • «Che cosa stai disegnando Alice?», «Questo è il lupo che va al mare», e il piccolo indice segue lo scarabocchio appena tracciato sul foglio.

    Per i bambini molto piccoli l’esperienza del disegnare può assume-

    re signi� cati differenti: gioco senso-motorio, possibilità di lasciar

    traccia di sé, invenzione e scoperta simbolica.

    A partire dai due anni, ma molto spesso anche prima, i bambini sono

    in grado di utilizzare il disegno per rappresentare e ripresentare

    vissuti, emozioni, eventi, oggetti e soggetti desunti dall’esperienza

    e ricombinati attraverso il ricordo e l’immaginazione fantastica.

    Mentre disegnano i bambini comunicano il loro pensiero, dando

    forma a un linguaggio complesso che utilizza gesti, tracce gra� che,

    suoni e parole.

    Il volume è rivolto agli insegnanti e agli educatori dei nidi d’infan-

    zia che sono alla ricerca di nuove direzioni di senso da assegnare

    all’attività del disegnare e permette di scoprire come «fare un dise-

    gno» al nido sia un’insostituibile occasione per costruire racconti e

    sviluppare il pensiero narrativo.

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    one

    al n

    ido

    Cap

    pelle

    tti

    € 17,00

    152

    Collana diretta daBattista Quinto Borghi

    e Paola Molina

    Nido d’infanzia

    Anna Rita Cappelletti

    Disegno e narrazione al nido

    Spunti di ri� essione, esperienze e attività

    Collana diretta daBattista Quinto Borghi

    e Paola Molina

    Nido d’infanzia

    La collana Nido d’infanzia si propone di essere uno strumento di ri� essione sul signi� cato

    del nido come servizio e come servizio pubblico (indipendentemente dalla sua gestione),

    approfondendo il dibattito su quelli che sono i principi di base dell’educazione dei piccolis-

    simi e de� nendone i modelli operativi partendo da alcuni aspetti fondamentali che devono

    caratterizzare la proposta educativa: al nido si vive, non è una scuola; il nido è uno spazio

    che vede adulti e bambini insieme, non solo bambini; il nido è un servizio per bambini e

    genitori, non solo per i bambini.

  • «Che cosa stai disegnando Alice?», «Questo è il lupo che va al mare», e il piccolo indice segue lo scarabocchio appena tracciato sul foglio.

    Per i bambini molto piccoli l’esperienza del disegnare può assume-

    re signi� cati differenti: gioco senso-motorio, possibilità di lasciar

    traccia di sé, invenzione e scoperta simbolica.

    A partire dai due anni, ma molto spesso anche prima, i bambini sono

    in grado di utilizzare il disegno per rappresentare e ripresentare

    vissuti, emozioni, eventi, oggetti e soggetti desunti dall’esperienza

    e ricombinati attraverso il ricordo e l’immaginazione fantastica.

    Mentre disegnano i bambini comunicano il loro pensiero, dando

    forma a un linguaggio complesso che utilizza gesti, tracce gra� che,

    suoni e parole.

    Il volume è rivolto agli insegnanti e agli educatori dei nidi d’infan-

    zia che sono alla ricerca di nuove direzioni di senso da assegnare

    all’attività del disegnare e permette di scoprire come «fare un dise-

    gno» al nido sia un’insostituibile occasione per costruire racconti e

    sviluppare il pensiero narrativo.

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    Cap

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    € 17,00

    152

    Collana diretta daBattista Quinto Borghi

    e Paola Molina

    Nido d’infanzia

    Anna Rita Cappelletti

    Disegno e narrazione al nido

    Spunti di ri� essione, esperienze e attività

    Collana diretta daBattista Quinto Borghi

    e Paola Molina

    Nido d’infanzia

    La collana Nido d’infanzia si propone di essere uno strumento di ri� essione sul signi� cato

    del nido come servizio e come servizio pubblico (indipendentemente dalla sua gestione),

    approfondendo il dibattito su quelli che sono i principi di base dell’educazione dei piccolis-

    simi e de� nendone i modelli operativi partendo da alcuni aspetti fondamentali che devono

    caratterizzare la proposta educativa: al nido si vive, non è una scuola; il nido è uno spazio

    che vede adulti e bambini insieme, non solo bambini; il nido è un servizio per bambini e

    genitori, non solo per i bambini.

  • Indice

    7 Presentazione della collana

    9 Prefazione (di Battista Quinto Borghi e Paola Molina)

    11 Presentazione (di Marco Dallari)

    17 CAP. 1 Disegnare al nido

    39 CAP. 2 «Facciamo un disegno?». Pratiche e orientamenti teorici del disegno infantile

    57 CAP. 3 Bambini e narrazioni

    69 CAP. 4 «Questo era il lupo che andava al mare». La dimensione narrativa del disegno infantile

    83 CAP. 5 Esperienze di disegno narrativo al nido

    97 Bibliogra�a

    101 APPENDICE 1 Con lo sguardo della ricerca

    137 APPENDICE 2 Immagini

  • Presentazione della collana

    Battista Quinto Borghi e Paola Molina

    Il nido italiano ha ormai una storia consolidata, e anche variegata, con forti impronte e differenze regionali, e in questo momento sta vivendo un periodo di trasformazione profonda: i nidi non sono più soltanto quelli comunali, ma troviamo una molteplicità di organizzazioni e gestioni diverse e una serie di servizi per bambini piccoli e piccolissimi si affiancano al nido. Ancora, il problema della continuità nell’educazione dei bambini tra 0 e 6 anni si sta nuovamente ponendo come un tema rilevante, e il confronto fra modelli educativi diversi diventa di stringente attualità. Infine, formazione di base e formazione in servizio sono in trasformazione, con diversi accenti che si confrontano relativamente all’importanza della formazione teorica e dell’esperienza pratica nel bagaglio degli educatori.

    In questo nuovo contesto è importante che si rifletta attentamente sul signi-ficato del nido come servizio e come servizio pubblico (indipendentemente dalla sua gestione). E si approfondisca il dibattito su quelli che sono i principi di base dell’educazione dei piccolissimi definendone i modelli operativi, per non rischiare di snaturare profondamente l’esperienza offerta ai bambini e alle famiglie.

    La collana Nido d’infanzia si propone di essere uno strumento di questa riflessione, a partire da alcune idee condivise sulla cura dei piccolissimi, idee che fanno parte del patrimonio di conoscenze che il nido in questi anni ha contribuito a creare, non solo in Italia: sono le idee di Elinor Goldschmied, di Emmi Pikler, di Maria Montessori, che hanno caratterizzato la proposta educativa a cui ci riferiamo e che possiamo condensare così:

  • 8 DISEGNO E NARRAZIONE AL NIDO

    – al nido si vive, non è una scuola; – il nido è uno spazio che vede adulti e bambini insieme, non solo bambini; – il nido è un servizio per bambini e genitori, non solo per i bambini.

    Per il lavoro educativo, questo significa caratterizzare la professionalità come un insieme di attenzioni e competenze diverse: di relazione con il contesto esterno, con le famiglie e nel gruppo di lavoro; di riflessione sull’organizzazione e l’ambiente che sostengono il lavoro educativo; di attenzione alla vita quotidiana, alla cura, all’inserimento, ai momenti di transizione nell’esperienza del bambino. Significa anche la condivisione di un modello educativo che non è quello dell’insegnamento, ma quello della stimolazione indiretta, dell’osservazione, dell’offerta di un ambiente ricco e motivante in cui i bambini possono essere attivi e scegliere liberamente.

    Per rispondere a tutte queste esigenze, la collana si articola in due diverse proposte: i manuali e i quaderni. Nel caso dei manuali si tratta di testi più ampi, che affrontano tematiche generali di riflessione sulla professionalità e il lavoro al nido:

    – sono strumenti di lavoro per i professionisti della prima infanzia (un’attenzione particolare è dedicata all’osservazione, in quanto strumento privilegiato del lavoro educativo);

    – offrono modelli operativi ed esperienze educative significative, in relazione al nido o ai diversi servizi;

    – presentano ricerche sui piccolissimi, sul loro sviluppo o sui servizi ad essi dedicati.

    I quaderni invece sono strumenti più agili, di consultazione e traduzione ope-rativa immediata, concepiti per gli educatori e le educatrici in quanto professionisti della prima infanzia.

  • PREFAZIONE 9

    Prefazione

    I bambini piccoli sanno fare tante cose. La prima infanzia è uno dei momenti più ricettivi della vita umana. I bambini sono in grado di attivare importanti meccanismi attraverso la potente molla costituita dalla curiosità, dalla voglia di esplorare, dal bisogno incessante di assorbire tutto ciò che sta loro intorno. Per questo un ambiente ricco di stimoli come il nido d’infanzia rappresenta un’occasione importante per lo sviluppo.

    Il presente volume Nido d’infanzia 2: Il disegno narrativo al nido di Anna Cappelletti si presenta come un prezioso strumento di navigazione all’interno di un ambito formativo ancora parzialmente inesplorato e ricco di sorprese.

    Il centro di interesse del volume è l’espressione grafica del bambino nella molteplicità delle sue forme. Per un bambino piccolo, al di là del luogo comune secondo il quale ogni bambino sarebbe naturalmente artista, l’espressione grafica è da un lato divertimento e passione, dall’altro pensiero e racconto.

    L’autrice esamina i diversi aspetti di questa esperienza grafica, offrendo inte-ressanti chiavi di lettura e proposte di attività. Nello stesso tempo, utilizza il disegno come spunto per ascoltare i bambini, nel racconto di quello che hanno rappresentato attraverso il tratto grafico.

    In questa duplice prospettiva, il libro si presenta come un prezioso strumento di osservazione dei bambini, in un’area, quella dell’elaborazione grafica, in cui spesso gli educatori si trovano sprovvisti di strumenti per interpretare le produzioni dei bimbi più piccoli.

    Il lavoro di Anna Cappelletti si muove quindi su più fronti.

  • 10 DISEGNO E NARRAZIONE AL NIDO

    Ci spiega che cosa significa disegnare al nido d’infanzia, come esperienza motoria, sensoriale, simbolica e come strumento di narrazione. Affronta il problema sul piano della costruzione dei significati e dello sviluppo delle capacità narrative.

    Offre poi diversi spunti di lavoro e insieme di ricerca: l’ultima parte è dedicata, infatti, a esempi di ricerca finalizzati alla proposta di un’ipotesi metodologica che vede l’educatore essenzialmente come ricercatore.

    L’adozione di una chiara prospettiva pedagogica consente all’autrice di affrontare con efficacia le difficili problematiche che caratterizzano le rappresenta-zioni grafiche dei bambini piccolissimi. Infatti, la riflessione teorica e le proposte operative di cui il volume è testimonianza consentono all’autrice sia un ramificato discorso analitico-ricognitivo sia l’offerta di spunti progettuali e pratici di livello qualitativo elevato.

    Questo libro è rivolto soprattutto agli educatori, agli studenti e ai genitori.Agli educatori poiché sono testimoni, tutti i giorni, delle straordinarie poten-

    zialità narrative dei bambini: in esso troveranno spunti di riflessione e molteplici indicazioni per le attività da svolgere durante la giornata del bambino al nido.

    Agli studenti di pedagogia e psicologia perché potranno trovare accurate analisi condotte con rigore metodologico e altrettanto accuratamente documentate.

    Ai genitori che vogliono saperne di più dei loro bambini.

    Battista Quinto BorghiPaola Molina

  • PRESENTAZIONE 11

    Presentazione

    La cultura occidentale, e per conseguenza la sua tradizione pedagogica, vive all’interno di un modello di organizzazione del sapere prevalentemente analitico: vale a dire che per organizzare la conoscenza di qualcosa noi occidentali smontia-mo, spezzettiamo, classifichiamo, nominiamo ogni cosa, e siamo convinti che più si analizza, si spezzetta e si trova un nome nuovo per ogni frammento della cosa da conoscere, più quella cosa la si conosce. Peccato che a forza di analizzare e dividere accada a volte che l’intero che si voleva conoscere si perda per strada, come succede alla medicina, che conosce le parti dell’essere umano, i suoi organi e le relative patologie, ma delle donne e degli uomini della cui salute dovrebbe occuparsi sa ben poco. Lo sa bene chiunque abbia accudito la decadenza fisica di una persona anziana: sa che arriva un momento in cui il farmaco per il cuore non è tollerato dallo stomaco, quello per la funzionalità renale danneggia il cuore, e così via; ciascun organo ha il suo farmaco ma non ce n’è uno per l’intero, e l’unico farmaco buono per l’anziano sarebbe il medico capace di parlare con lui.

    Lo stesso fenomeno investe la sfera delle capacità, tipicamente umana, di produrre e accogliere simboli. Gli esseri umani, definiti non a caso animali simbolici (Cassirer, 1961; Dallari, 2008), dispongono di un potenziale di simbolizzazione straordinario che però, per essere studiato e insegnato dagli esemplari adulti ai cuccioli della specie, viene analizzato e distinto in varie sottospecie simboliche: il linguaggio delle parole, delle immagini, dei gesti, quello sonoro-musicale, ecc. Ma nelle pratiche educative dei bambini molto piccoli questa divisione risulta arbitraria

  • 12 DISEGNO E NARRAZIONE AL NIDO

    e può essere fuorviante. Dobbiamo infatti renderci conto che diamo nomi diversi (linguaggio delle parole, delle immagini, gestuale, sonoro, ecc.) a varie funzioni della originaria e unitaria competenza simbolica infantile, e la distinzione classificatoria di noi adulti, per il cucciolo di uomo, non solo non è ben comprensibile ma è, tutto sommato, insensata.

    I linguaggi, man mano che si evolvono e si perfezionano dalla prima infanzia in avanti, permettono di trasmettere, conservare ed elaborare informazioni trami-te segni e simboli e consentono ai soggetti di rappresentare e comunicare anche contenuti riferibili ad altro da sé. Le competenze simboliche umane, a differenza di ciò che avviene per gli altri mammiferi che non evolvono significativamente i loro apparati comunicativi, sono in massima parte il risultato di processi di appren-dimento e sono in grado di diventare più evoluti e complessi nel corso della vita dell’individuo e della specie. Il fatto però che la possibilità di usare il linguaggio da parte degli esseri umani sia il risultato di processi di apprendimento non significa che le competenze simboliche siano interamente apprese: i bambini, fin dai primi giorni e mesi di vita, inventano, creano, improvvisano gesti, suoni, scarabocchi, inventano parole inesistenti o storpiano quelle apprese, adattando la loro capacità simbolica alle capacità e alle disponibilità recettive dei loro interlocutori, coetanei e adulti. Soprattutto dalla relazione con gli adulti imparano, progressivamente, l’universo codificato degli alfabeti, mentre gli adulti imparano dai bambini, se sono attenti e disponibili all’osservazione e all’ascolto, nuovi modi di rappresentare e comunicare. L’attenta osservazione che molti artisti del Novecento, da Picasso a Fautrier, da Dubuffet a tutti i rappresentanti della cosiddetta arte concettuale, ci mostrano è un esempio di attenzione alla nascita e alle prime manifestazioni delle rappresentazioni visive infantili da parte di chi, in quanto artista, voleva cogliere e utilizzare il linguaggio visivo al suo oriente, nelle sue dimensioni più autentiche e originarie, anziché adeguarsi a un canone già codificato e culturalmente sedimentato. Tutti questi artisti con le loro stesse opere ci hanno insegnato che un’immagine non vale solo in quanto prodotto e verosimiglianza ma come processo e testimonianza, aiutandoci, insieme alle considerazioni di molti studiosi di area psicopedagogica, a capire che il modo migliore in cui i grandi possono trasmettere competenze simbo-liche e linguistiche ai piccoli è quello che permette loro di apprendere come si fa a inventare i linguaggi, a crearli e ri-crearli in un processo di continua negoziazione simbolica con i propri interlocutori.

    D’altra parte gli apparati simbolici che, a partire dalle parole, permettono a chi li usa di descrivere il mondo, in realtà, almeno in parte, lo co-costruiscono: chi ha a disposizione strumenti simbolici raffinati e complessi vede, pensa e immagina il mondo in modo ben differente rispetto a chi invece ha competenze linguistiche

  • PRESENTAZIONE 13

    limitate e rudimentali. È dunque evidente come il modo in cui tali competenze si strutturano e si evolvono nei bambini determinerà largamente il destino del loro pensiero, della loro identità, della loro vita.

    Donald Winnicott, il teorico dell’oggetto transizionale (di cui tutti cono-sciamo l’esempio rappresentato dalla famosa coperta di Linus), era convinto che la progressiva conquista di competenze linguistiche sia una parte estremamente significativa del processo di evoluzione e affianchi il superamento della fase in cui prevale il rapporto simbiotico madre-bambino (Winnicott, 1953). I bambini, secondo Winnicott, avanzano nel loro processo di maturazione e divengono au-tonomi attraverso esperienze transizionali, rese possibili da oggetti (la coperta, l’orsacchiotto, un oggetto domestico fortemente investito di valenze affettive, ecc.) che, a un certo momento della loro crescita, non sentono più come parte del proprio corpo, ma neppure del tutto estranei e appartenenti alla realtà esterna. Quando i bambini abbandonano, gradualmente, lo stadio di con-fusione originaria con il corpo della madre e diventano sempre più coscienti della propria «unità corporea» e della propria differenza rispetto al mondo esterno affidano a uno o più oggetti il compito di non farli sentire del tutto soli con se stessi, soprattutto in momenti affettivamente più delicati, come quando si addormentano, o sono distaccati dalle persone di forte riferimento affettivo o sospendono la loro attività di esplorazione del mondo, sopraffatti dallo sforzo cognitivo, e assumono per qualche minuto atteggiamenti regressivi: si strofinano l’orecchio, dondolano la testa, si succhiano il pollice. In questi momenti i bambini possono stringere a sé un orsacchiotto, un peluche, uno straccio, un cuscino, un foulard della mamma, un cucchiaio di legno o un giocattolo preferibilmente morbido, e sentirsi collegati (in transizione) con ciò che hanno paura di perdere e da cui non vogliono essere del tutto separati.

    Questo fenomeno, che si manifesta solitamente tra i 4 i 12 mesi ma può protrarsi a lungo nel periodo successivo, consente ai bambini di cominciare a riconoscere come oggetti esterni a sé il mondo e le cose.

    Secondo Winnicott l’oggetto transizionale appartiene a quel campo intermedio dell’esperienza che egli definisce dell’illusione, ricorrendo a questo termine per sottolineare il fatto che in essa i contenuti non sono riconducibili in maniera chiara né alla realtà interna né alla realtà esterna. L’esperienza dell’illusione, presente anche in tutta la vita adulta, costituisce, secondo Winnicott, la parte più importante e fondante dell’esperienza infantile, poiché dalla qualità e dall’intensità del suo protrarsi nell’adultità dipende quella vita immaginativa e fantastica che, anche in età adulta, permette di esplorare e utilizzare il mondo delle narrazioni, dell’arte, delle produzioni simbolico-creative.

  • 14 DISEGNO E NARRAZIONE AL NIDO

    L’oggetto rappresenta la transizione di un bambino da uno stato di essere fuso con la madre a uno stato di essere in rapporto con la madre come qualcosa di esterno e separato […]; esso lascia fuori l’idea di dipendenza, che è così essenziale nei primissimi stadi, prima che il bambino sia diventato sicuro che qualunque cosa può esistere senza essere parte di sé. (Winnicott, 1953, p. 126)

    Ma anche il linguaggio delle parole, secondo Winnicott, può essere utilizzato dai bambini in maniera transizionale.

    Winnicott, in linea con la concezione freudiana, sostiene che la costruzione del principio di realtà è il fenomeno grazie al quale, anche se in maniera mai defi-nitiva, l’immagine del mondo e di tutto ciò che è altro rispetto al soggetto acquista riferimenti sufficientemente chiari. Questo consente al bambino di acquisire auto-nomia e competenza, di riuscire da solo, sempre più, a risolvere i piccoli problemi della relazione con lo spazio e con gli oggetti e di liberarsi dalle fantasie infantili onnipotenti o superstiziose su ciò che accade.

    Il lavoro di costruzione del principio di realtà, che inizia nei primi anni di vita, si protrae nel corso di tutta l’esistenza, poiché ciascun essere umano mette sempre la realtà esterna in relazione con la propria realtà interna. La realtà interna viene aggiornata e corretta per tutta l’esistenza grazie all’incontro con il mondo, e gli esseri umani adulti si dotano di quella che Jean Rivière (1936) ha definito area intermedia di esperienza.

    Questa area intermedia, pur non essendo riferibile all’oggettività, non viene messa in discussione dalla comunità adulta, e viene anzi assunta e considerata, nei suoi contenuti, come qualcosa di molto importante e di grande valore. Rivière fa riferimento, per definire i contenuti di questa area intermedia, all’arte, alla religione, alla letteratura, ecc. Anche ciò che non ha riscontro reale ma è costruito esclusi-vamente attraverso apparati simbolici diviene dunque ingrediente del principio di realtà: nessuno di noi ha mai visto un ippogrifo o una Baba Jaga o un vampiro, ma possiamo pensare, raccontare, comprendere all’interno di un discorso altrui anche questi personaggi o ciò che somiglia loro.

    Winnicott riprende ed evolve le considerazioni di Rivière e nota come i con-tenuti adulti dell’area intermedia presentino analogie con il gioco infantile, il che è facilmente verificabile osservando come i bambini siano, a volte, perduti nel gioco, immedesimandosi in esso fino a dimenticare le dimensioni reali del tempo e dello spazio in cui si trovano.

    Ebbene, quello che accade con la coperta e l’orsacchiotto riguarda anche, secondo Winnicott, la conquista delle parole nella fase evolutiva di esplorazione linguistica-fonetica in cui le parole vengono riconosciute nella loro «oggettività»

  • PRESENTAZIONE 15

    come ingredienti di un universo culturale esterno e condiviso nel quale i suoni diventano simboli (parole) che hanno valore di oggetti. Se questo non accadesse, i bambini non conquisterebbero la possibilità di comunicare. Essi tendono, però, a mantenere una parte del congegno linguistico nell’area intermedia che consente loro di vivere le produzioni simbolico-linguistiche come patrimonio intimo e carico di affettività. Anche le parole possono dunque essere utilizzate in modo transizionale. Il che, come sappiamo, è senz’altro positivo e raccomandabile. C’è infatti, sempre, il rischio che gli adulti insegnino ai bambini a parlare, poi a leggere e scrivere, senza essere capaci di rispettare e valorizzare questa esigenza. In questo caso le parole rischiano di diventare, per così dire, troppo oggettive e, attraverso il loro apprendimento, i bambini possono perdere la possibilità di continuare a sentirle, almeno in parte, come proprie, legate a se stessi, rassicuranti e personali, capaci di rappresentare la loro identità e la loro corporeità e non solo le cose che sono fuori di loro. Sarebbe come se, con la strutturazione del principio di realtà, i bambini perdessero la possibilità e la capacità di giocare con gli oggetti, riconoscendoli solo nella loro utilità e nella loro pertinenza convenzionale, senza essere più capaci di trasformare un cucchiaio in una catapulta, un bastone in una spada, o una scatola da scarpe nella casa della bambola. La stessa cosa, ci dice Winnicott, accade per le parole. La conquista delle competenze linguistiche e culturali non deve dunque comportare un processo di alienazione e di perdita della possibilità di investire il linguaggio della propria identità, dei propri affetti, della propria capacità di con-dividere emozioni, di giocare e creare attraverso parole e apparati linguistici che non bisogna solo apprendere, ma anche creare, inventare, adattare a sé. I bambini che imparano a usare bene il linguaggio delle parole non si sentono espropriati del corpo e dell’identità attraverso la sua conquista, ma anzi valorizzati e resi più com-petenti e sicuri di sé. A patto però che le parole e gli altri ingredienti del linguaggio non vengano solo da fuori, dalla cultura, ma anche da dentro, e possano avere e perfezionare le caratteristiche e lo «stile» di chi se ne serve. Solo così l’esperienza cognitiva non porta il bambino troppo fuori di sé, ma rimane, almeno in parte, in quella zona intermedia (transizionale) di cui stiamo parlando.

    Perché questo possa avvenire compiutamente occorre considerare il concetto di linguaggio in maniera più globale e originaria di quanto non abbia fatto Winnicott nella sua importante e utilissima riflessione. Quando, nei primissimi anni di vita, i bambini scoprono la possibilità di comunicare e rappresentare, scoprono cioè di possedere un potenziale simbolico, non distinguono tra codici e linguaggi, poiché la loro esperienza e la loro esplorazione semiotica è globale, corporea, motoria, e si serve di tutto ciò che può contribuire a potenziare le loro sperimentazioni comunica-tive. Per questo i segni grafici, quegli scarabocchi che tracciano con grande piacere

  • 16 DISEGNO E NARRAZIONE AL NIDO

    e concentrazione se gliene diamo l’opportunità, non vanno considerati un codice a sé, e dunque osservati, quando non addirittura «interpretati», senza tener conto di tutta l’altra gamma di segni e segnali che gli artefici impegnati in questa attività sono capaci e disponibili a offrirci. Né tanto meno vanno visti nel momento della loro conclusione, che può semplicemente corrispondere al fatto che il piccolo autore si sia stancato dell’attività, non certo che l’abbia conclusa, poiché in questa fase dello sviluppo infantile il disegno è, definendolo con un termine rubato all’arte contempo-ranea e in particolare alle opere del pittore astratto americano Jackson Pollock, action painting, azione del dipingere: un’attività in cui il significato e il valore simbolico dell’opera è costituito e offerto a chi ha capacità e voglia di accoglierlo mentre viene eseguito, accompagnato da gesti, suoni e parole che integrano e completano il senso di ciò che l’autore sta presentando. D’altra parte non sono soltanto le parole, nella nostra cultura, a essere riconosciute nella loro «oggettività» come ingredienti di un universo culturale esterno: questo può accadere anche alle immagini, se pensiamo ai tanti libri e poster destinati all’infanzia ansiosi di far corrispondere una parola ben codificata allo stereotipo di un’immagine. Ma questi prodotti, e il modo conven-zionale e inevitabilmente didascalico di utilizzarli, attentano proprio alla possibilità che parole e immagini, pur nell’evoluzione delle competenze linguistiche che non possono prescindere dalla dimensione degli apprendimenti e degli incrementi di competenze lessicali, possano continuare a occupare quella zona intermedia sospesa fra soggettività e oggettività di cui parlano Winnicott e Rivière. Per questo più che a un’opera grafica e pittorica, almeno nell’accezione che intendiamo noi adulti con questi termini, il disegno dei bambini del nido assomiglia a una piccola pièce teatrale, a un racconto narrato sullo spazio del foglio con i gesti, le tracce, le parole che i bambini hanno a disposizione. Solo se impareremo a considerare l’attività grafica dei bambini da zero a 3 anni in questa ottica, e, seguendo le preziose e innovative proposte di questo testo, impareremo a interagire in maniera corretta con bambine e bambini in questa fase di scoperta-costruzione delle capacità di rappresentazione e di relazione, riusciremo a metterci davvero in sintonia con loro, e conseguiremo anche il vantaggioso risultato di liberarci finalmente del fuorviante sciocchezzaio dell’«arte infantile».

    Marco DallariOrdinario di Pedagogia, Università di Trento

    Trento, gennaio 2009

  • DISEGNARE AL NIDO 17

    Disegnare al nido

    Un luogo comune: il bambino naturalmente artista Su una grande parete color crema sono appese delle scritte: «arte in mostra»,

    «le nostre opere d’arte», «artisti in erba». Potrebbero sembrare titoli d’apertura di un’esposizione di qualche galleria o museo d’arte, ma in realtà si tratta di frasi che campeggiano in un grande salone d’entrata di una scuola d’infanzia. Come questa, molte altre scuole e nidi d’infanzia fanno sfoggio di disegni o pitture dei bambini dagli attributi artistici.

    Ricordo in particolare una scuola d’infanzia in cui le insegnanti appendevano titoli simili in bella vista sopra o accanto a disegni disposti senza ordine e senza alcun elemento che avrebbe potuto avvicinarli alle didascalie dei quadri e delle opere d’arte. Semplicemente si trattava di prodotti fatti dai bambini, a volte simili tra loro, senza riferimento al nome, al titolo, al tipo di tecnica e di materiali utilizzati.

    Capita spesso d’imbattersi in allestimenti murali che in qualche modo testimo-niano la volontà di accomunare i prodotti dell’attività grafico-pittorica dei bambini all’arte adulta.

    Anche fuori dalla scuola il binomio arte-bambino è diventato negli anni oggetto di crescente interesse, addirittura quasi una moda, preso di mira anche dal marketing pubblicitario e dai programmi televisivi.

    D’altra parte se la crescita dell’offerta della didattica legata all’arte (da parte di musei, gallerie, ma anche di associazioni e cooperative educative) può essere letta

    1

  • 18 DISEGNO E NARRAZIONE AL NIDO

    come indice di una maggior attenzione e sensibilità verso il mondo della cultura, non è detto che attraverso queste esperienze i bambini si trasformino in artisti o che riescano a loro volta a produrre un’opera d’arte. Più semplicemente le diverse iniziative dovrebbero essere lette come occasione per avvicinare i bambini ai luoghi e agli oggetti d’arte.

    Anche in letteratura non mancano testi che fin dal titolo potrebbero giustificare il connubio arte-bambini. L’arte dei bambini, scritto da Corrado Ricci più di un secolo fa, Grammatica dell’arte infantile, di Arno Stern del 1968, Analisi dell’arte infantile di Roda Kellog, del 1970, pubblicato in Italia nel 1979, solo per citare i titoli più espliciti. In realtà molte di queste pubblicazioni chiariscono e tendono a ridimensionare se non a confutare il rapporto tra disegno infantile e arte.

    Non è comunque affatto dimostrato che bastino dei colori stesi su un foglio e l’utilizzo di tecniche d’effetto o grandi disegni per poter parlare di arte, almeno per i bambini.

    Come educatori dobbiamo affrontare questo problema visto che dai suoi esiti dipende il senso assegnato all’attività del disegnare e del dipingere sin dai contesti del nido.

    Sappiamo bene che queste attività possono essere proposte con finalità diffe-renti: l’uso di pennelli, pennarelli e grandi superfici da colorare può servire per la scoperta di sé e del proprio corpo, o più semplicemente dei materiali stessi, oppure per imparare a riconoscere i colori.

    Molte volte invece queste esperienze sono proposte in rapporto ad altre attività, a seguito di un racconto, di una lettura animata, di un gioco motorio, ecc.

    Mettiamo, ad esempio, che si racconti ai bambini la storia di Piccola macchia, di Lionel Le Néouanic (2005). Per chi non la conoscesse è la storia di una macchia nera che va in cerca di amici e dopo una serie di vicissitudini fa amicizia con alcu-ne figure geometriche colorate. Le immagini sono volutamente «concettuali» (la macchia nera non è disegnata in forma antropomorfa, quindi non ha occhi né arti) eppure il racconto è chiaro, semplice e divertente soprattutto perché vede la macchia assumere forme diverse per poi ritornare alle sembianze iniziali.

    Dopo la lettura del libro, l’educatrice potrebbe proporre ai bambini di 3 anni di giocare con Piccola macchia, utilizzando la tempera nera e facendoli «pastrocchiare» sul foglio. La storia può fungere da pretesto per creare una motivazione significativa a scoprire i colori, in particolare quello nero, oppure può servire a creare una sorta di multimedialità narrativa, per cui il racconto prende vita attraverso l’utilizzo di diversi formati, supporti e materiali. Sappiamo che la multimedialità è quella carat-teristica della cultura di massa e dell’industria culturale per cui lo stesso messaggio è veicolato attraverso vari media. Pensiamo a un qualsiasi cartone animato di suc-

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    cesso e al mondo di figurine, immagini, poster, libri a fumetti, gadget che gli ruota attorno. Al di là dell’operazione di marketing possiamo vederla come una strategia comunicativa di tipo multimediale.

    Nel nostro piccolo potremmo creare un racconto multimediale attorno alla storia e al personaggio di Piccola macchia, individuando un angolo-parete da alle-stire appositamente. Potremmo utilizzare il libro e le sue parti illustrate, riprodurle su grandi fogli, creare delle tessere prodotte dai bambini con la tempera e lasciarle a loro disposizione assieme alle forme geometriche in formato tridimensionale.

    Diversamente, il racconto di Piccola macchia può dialogare e intrecciarsi con i discorsi dei bambini intenti a giocare con il colore: il nero potrà assumere un significato simbolico in quanto non avrà semplice valore in sé ma rappresenterà Piccola macchia che si materializza nelle mani di ciascuno.

    Qui la narrazione è centrale e l’esperienza del colore è finalizzata a un fare del corpo e del pensiero insieme che permette ai bambini di ri-vivere, commentare e ri-raccontare la storia o più semplicemente alcuni passaggi, così da elaborare e sistematizzare le proprie emozioni e conoscenze.

    Ora, che tutto ciò abbia in qualche modo a che vedere con operazioni di tipo artistico è tutto da dimostrare e probabilmente se dovessimo appendere alle pareti le tante «Piccole macchie» fatte dai bambini e dare un titolo all’attività non utiliz-zeremmo le famose scritte artistiche, ma più probabilmente lo stesso titolo del libro di Le Néouanic.

    Che sia l’assenza di riferimenti a finalità precise a suggerirci di ricorrere all’arte quando disegniamo con i bambini? Sembrerebbe di sì visto che le scritte per così dire artistiche compaiono più di frequente accanto a pitture e disegni slegati dalle altre proposte didattiche. Sia chiaro, con questo non intendo dire che si debba ogni volta proporre il disegno a seguito o in collegamento con un’altra attività, secondo una programmazione puntuale e complessa. Il «fare per il fare», ossia la possibilità di sperimentare i materiali per il piacere di scoprirne le proprietà e il possibile uti-lizzo, ha un valore pedagogico importantissimo, a maggior ragione se si ha a che fare con bambini molto piccoli come quelli del nido.

    A volte può succedere che il senso di quel che si fa, o un nuovo senso imprevi-sto, prenda forma durante l’attività stessa, scaturendo dal contesto e dalla relazione che si viene a creare tra i bambini e l’educatrice.

    Sta a quest’ultima mettersi in ascolto empatico, ossia assumere un ruolo attivo con cui osservare e ascoltare i bambini senza pregiudizi. In questo modo è più facile accogliere i diversi discorsi che si vengono a creare, incentivando la conversazione e i commenti così da incrementare la complessità della loro produzione verbale e grafica. Ma di questo si parlerà più ampiamente nel corso del volume.

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    Qui ci interessa chiarire se davvero siamo convinti che i disegni dei bambini possano essere definiti opere d’arte e se crediamo che le attività per così dire «espres-sive» favoriscano la scoperta di piccoli artisti. Per trovare delle risposte dovremmo quanto meno chiarirci che cosa intendiamo per arte: se il prodotto finito o l’azione del bambino o qualcos’altro. E se non è arte dovremmo capire qual è il senso di far disegnare e dipingere i bambini fin dal nido.

    La questione del rapporto tra disegno infantile e arte adulta è in realtà un ar-gomento complesso, che ha visto studiosi a vario titolo impegnati nel proporre tesi volte a dimostrarne o confutarne l’origine comune.

    Non è mia intenzione proporre una trattazione storica e teorica di questo tema anche perché esiste un testo molto interessante della psicologa dell’arte Lucia Pizzo Russo (1988) che ne riporta un’analisi approfondita.

    Ciò che può interessare ai fini del nostro discorso è che ancor oggi non è stato veramente dimostrato se il disegno infantile sia arte o, più in generale, se il bambino possa fare arte. Piuttosto, come sottolinea Pizzo Russo, l’arte infantile è fin da subito divenuta una fede presente già negli assunti e nelle premesse delle riflessioni teoriche e quindi mai posta in dubbio. La maggior parte di queste posizioni si riferisce alle varie definizioni storiche di «arte» elaborate dai filosofi, dagli storici, dagli artisti per ciò che chiamiamo opere d’arte (Pizzo Russo, 1988, p. 15).

    Fino agli inizi del Novecento il termine arte era utilizzato per definire tutto ciò che aveva un legame con il bello ideale, quel bello che rifletteva l’armonia della natura a sua volta immagine della creazione divina. L’artista era il genio, l’illuminato in grado di cogliere tale bellezza ed equilibrio. In epoca romantica si pensava che i bambini possedessero «l’occhio innocente» necessario per guardare alla natura in tutta purezza e per ciò si cercava in loro qualche manifestazione precoce del genio artistico.

    L’arte per molto tempo, almeno fino all’avvento delle correnti artistiche contemporanee, è stata considerata un linguaggio spontaneo, istintuale, dettato da necessità espressive, e l’opera un prodotto non mediato dalla cultura, ma originato dall’inconscio.

    Da qui l’idea che il bambino, se lasciato libero di disegnare o dipingere, potesse attingere al proprio mondo interno, ai propri istinti, alla propria immaginazione così da generare opere d’arte. Su questa scia idealista ancor oggi alcune insegnanti ed educatrici sono contrarie a rapportarsi con i bambini che disegnano per non inter-rompere il loro «naturale flusso creativo».

    Con l’avvento dell’arte moderna e contemporanea, mutano anche i significati di arte e di estetica. Si passa da un’arte celebrativa di valori assoluti a un’arte laica, inda-gatrice dei fatti umani, non più legata al bello e a una verità unica e inconfutabile.

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    Pur nell’impossibilità di definire in maniera chiara e univoca l’arte contempo-ranea, è comunque possibile evidenziare le peculiarità che la differenziano dall’arte precedente. Ad esempio cambia l’attribuzione di valore dell’opera, non più secondo un giudizio formale bensì guardando all’atto che la origina. Un atto che l’artista, consapevolmente, carica di simboli e metafore significanti la realtà storica e culturale nella quale egli vive.

    Gli atti simbolici e metaforici sono il risultato di atti di pensiero attraverso cui l’artista combina immagini mentali e oggetti, secondo nuove connessioni. Di conseguenza l’opera e i processi creativi che la generano sono tutt’altro che naturali e istintivi ma richiedono un bagaglio culturale che al bambino manca.

    Da qui le tesi che confutano l’idea del bambino naturalmente artista: per esserlo dovrebbe, infatti, essere in grado di conoscere e quindi utilizzare gli strumenti cul-turali in modo da distinguere tra arte e routine comunicativa.

    Marco Dallari, che da decenni si occupa di queste tematiche, ci fa notare che sono stati semmai molti artisti adulti a guardare al disegno infantile, così come alle pitture primitive, per cercare di risalire all’essenza dell’arte. In effetti, soprattutto l’arte moderna e contemporanea ha assunto come materiale di ricerca il pensiero e i processi rappresentativi infantili proprio perché considerati più simili a quelli dell’arte primitiva. Così, ad esempio, Picasso, che a 15 anni disegnava come Raffaello, affermò di aver impiegato tutta la vita per imparare a disegnare come un bambino. In effetti, nei suoi ritratti ribaltati e dipinti in trasparenza tipici del periodo cubista e post-cubista si possono riconoscere tratti in comune con molti disegni di bambini di 4-5 anni, età in cui si tendono a rappresentare tutti gli elementi che contribuiscono a rendere riconoscibile e significativo un soggetto (la caratteristica della esemplarità così come il fenomeno della trasparenza verranno trattati nel capitolo secondo, nelle teorie evolutive di Luquet).

    Molti altri artisti, invece, abbandonate le regole della prospettiva rinascimen-tale, hanno scelto di realizzare i loro ritratti secondo la prospettiva sentimentale, dipingendo le immagini in proporzione diversa a seconda dell’importanza affettiva a loro assegnata, così come farebbe un bambino di 3 anni quando disegna la sua famiglia, per cui colloca la mamma al centro del foglio e la disegna grande due volte la casa o il papà.

    A questo punto, chiarito che il bambino non è un artista così come il suo pro-dotto non è un oggetto d’arte, potremmo convincerci a togliere le famose scritte, a separarci a malincuore dalla sfera rassicurante e un po’ cool del mondo dell’arte e iniziare a elaborarne il lutto.

    Per fortuna non tutto è perduto e grazie alle posizioni assunte da molta arte contemporanea, specie quella concettuale, possiamo smettere gli abiti neri e ripren-

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    dere a ballare con l’arte così come fece Rossella O’Hara-Vivien Leigh fresca di vedovanza, con l’amato-odiato Rhett Butler-Clark Gable in Via col vento.

    È, infatti, ricorrendo all’arte contemporanea, e in particolare all’atteggiamento che andrebbe assunto per comprendere le sue opere, che possiamo rivendicarne un qualche legame con il disegno infantile.

    Secondo gli esperti il rapporto tra disegno infantile e arte adulta non va ricer-cato nell’oggetto in sé (disegno-opera d’arte) ma deve essere ricondotto ai processi, mentali e intersoggettivi, che si generano attorno al disegno e alla sua interpretazione. Vediamo di chiarire con un esempio. Quando ci troviamo di fronte a un’opera d’arte contemporanea, può capitare che si storca il naso o, al contrario, che si rimanga rapiti, comunque raramente indifferenti, vista la capacità di queste opere di stupirci e sedurci. D’istinto ci verrebbe da esprimere un giudizio legato al gusto e magari dire che una cosa così saremmo riusciti a farla anche noi. In ogni caso ci troveremmo a un certo punto a chiederci «che cos’è», anche se sarebbe più corretto chiederci «che senso ha», dal momento che il suo significato non si dà direttamente, ma è mediato, reso ambiguo dalle metafore e dai simboli che la compongono.

    Molti studiosi dell’arte e molti semiologi, tra cui Umberto Eco (1962), so-stengono che una delle caratteristiche della comunicazione artistica sia l’ambiguità. La differenza tra comunicazione convenzionale e artistica sta nel fatto che mentre nella prima si utilizzano codici linguistici condivisi che rendono il ricevente so-stanzialmente passivo (basta capire la lingua), nel secondo tipo di comunicazione il ricevente deve assumere un atteggiamento attivo poiché deve costruire almeno in parte il senso di ciò che gli viene comunicato; questo perché quanto gli viene comunicato è ambiguo, aperto cioè a più interpretazioni possibili.

    Questo atteggiamento di «apertura del senso» fa sì che l’interpretazione dipenda da un’azione di lettura e codifica di tipo intersoggettivo, in quanto si compie nel rapporto tra l’emittente (l’autore con le proprie intenzioni), il ricevente (che diventa co-autore del senso dell’opera) e il contesto nel quale avviene la comunicazione.

    L’atteggiamento che permette di considerare un oggetto artistico per i suoi significati possibili e di guardarlo con ambiguità è stato definito atteggiamento estetico (Dallari e Francucci, 1988).

    Esso è considerato l’atteggiamento più corretto da assumere quando si ha a che fare con gli scarabocchi e i disegni dei bambini. Ecco allora rintracciato il possibile legame tra arte (contemporanea) e disegno infantile: come educatori dovremmo imparare ad assumere l’atteggiamento estetico per guardare i disegni dei bambini in modo da considerarli come se fossero un’opera d’arte, cioè come oggetti ambigui.

    Di solito l’atteggiamento pedagogico tradizionale assunto da molte insegnanti è quello di insegnare a disegnare e poi di osservare i prodotti finiti commentandoli

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    con i bambini e valutandoli secondo i differenti orientamenti suggeriti dalla psico-logia evolutiva. Invece l’approccio estetico richiede di accettare di mettersi in gioco continuamente e di guardare a ogni disegno con atteggiamento aperto e flessibile.

    Così come si fa per le opere d’arte contemporanea, il significato del disegno andrà costruito intersoggettivamente. È, infatti, all’interno della relazione adulto-bambino che è possibile interpretare e assegnare un significato agli scarabocchi e ai disegni dei bambini.

    Assumere un atteggiamento estetico di fronte al disegno, o meglio al bambino che disegna (intendendo quindi l’intero processo), significa, ad esempio, non anti-ciparne il significato o non suggerire che cosa e come disegnare, non interpretare i tracciati sul foglio una volta terminato il disegno, ma costruire il significato mentre il bambino disegna, dialogando con lui per invitarlo a esplicitare ciò che sta avve-nendo sul foglio.

    Sarà fondamentale saper cogliere indizi che facciano presumere che il bambino utilizzi il linguaggio grafico per raccontare e raccontarsi qualcosa. Chiaramente se il bambino possiede un linguaggio verbale abbastanza sviluppato è più facile mettersi in relazione con lui; è più complicato se il bambino sa pronunciare solo qualche parola. In questo caso dovremmo saper cogliere altri indicatori, come ad esempio i suoni e i gesti che accompagnano le tracce, così come le onomatopee o semplici parole.

    Dobbiamo essere consapevoli che non possiamo capire appieno il significato di quanto il bambino produce se non ci mettiamo in relazione con lui mentre sta avvenendo l’attività, e nello stesso tempo che il significato di quanto il bambino sta facendo si sviluppa proprio dalla nostra relazione con lui. L’assunzione dell’atteg-giamento estetico prevede infatti che la comunicazione si dia sempre in un tempo e in uno spazio precisi che coincidono con la stessa azione codificante.

    Il nostro focus, il nostro interesse andranno allora rivolti al bambino che disegna e non tanto al disegno come prodotto.

    In quest’ottica, anziché limitarsi a esporre il prodotto finale, avrebbe più senso esporre alle pareti la documentazione dei diversi momenti che hanno caratterizzato l’esperienza del disegno. Ad esempio si potrebbero utilizzare le immagini fotografiche che mostrano i passaggi attraverso cui i bambini sono giunti al loro disegno finale e soprattutto le frasi dei racconti-commenti che si generano durante l’attività.

    Il disegno come esperienza motoria

    Una delle domande ricorrenti sul fare disegno al nido riguarda l’età da cui si può iniziare a proporre il foglio e la matita ai bambini. In effetti, quella dell’età è

    Disegno e narrazione al nidoIndicePresentazione della collanaPrefazionePresentazioneDisegnare al nido