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1 Relazione convegno Rimini 24 giugno 2018. [PP.1] Buongiorno a tutti. Ringrazio gli organizzatori per avermi invitato. Mi chiamo Bruno Bonandi e svolgo un’attività di aiuto privatamente presso il mio studio a Longiano come Psicoterapeuta Psicosomatico. Ho frequentato la Scuola di Filosofia Orientale e Comparativa negli anni ’90. Mi ritengo un pensatore eretico, ho sempre voluto mettere in dubbio e cercato interpretazioni diverse dalle verità imposte discostandomi da ogni Verità con la V maiuscola. Ritengo di aver compiuto spesso scelte divergenti, mi piace percorrere strade fuori dalle rotte usate dagli altri. Quando frequentavo la Scuola di Filosofia Orientale e Comparativa, ho avuto modo di conoscere e dialogare con docenti universitari di elevata caratura intellettuale che mi hanno fornito stimoli preziosi. Grazie alla Scuola ho avuto anche l’occasione di seguire un Master in Tanatologia organizzato dal Prof. Mario Mastropaolo, Psicoterapeuta gestaltista dell’Università di Napoli Federico II, dal titolo “La conoscenza della morte”. All’epoca ero iscritto contemporaneamente alla Facoltà di Psicologia Clinica dell’Università di Bologna in cui si studiava la mente umana con una visione specificatamente scientifica, [PP.2] in cui il dualismo corpo-mente era ed è tuttora un paradigma culturale difficile da rimuovere dal nostro comune modo di pensare.

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Relazione convegno Rimini 24 giugno 2018.

[PP.1] Buongiorno a tutti.

Ringrazio gli organizzatori per avermi invitato.

Mi chiamo Bruno Bonandi e svolgo un’attività di aiuto

privatamente presso il mio studio a Longiano come

Psicoterapeuta Psicosomatico.

Ho frequentato la Scuola di Filosofia Orientale e Comparativa

negli anni ’90.

Mi ritengo un pensatore eretico, ho sempre voluto mettere in

dubbio e cercato interpretazioni diverse dalle verità imposte

discostandomi da ogni Verità con la V maiuscola. Ritengo di

aver compiuto spesso scelte divergenti, mi piace percorrere

strade fuori dalle rotte usate dagli altri.

Quando frequentavo la Scuola di Filosofia Orientale e

Comparativa, ho avuto modo di conoscere e dialogare con

docenti universitari di elevata caratura intellettuale che mi hanno

fornito stimoli preziosi. Grazie alla Scuola ho avuto anche

l’occasione di seguire un Master in Tanatologia organizzato dal

Prof. Mario Mastropaolo, Psicoterapeuta gestaltista

dell’Università di Napoli Federico II, dal titolo “La conoscenza

della morte”. All’epoca ero iscritto contemporaneamente alla

Facoltà di Psicologia Clinica dell’Università di Bologna in cui si

studiava la mente umana con una visione specificatamente

scientifica, [PP.2] in cui il dualismo corpo-mente era ed è tuttora

un paradigma culturale difficile da rimuovere dal nostro comune

modo di pensare.

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Prima di aver frequentato la Facoltà di Psicologia di Bologna,

dove mi sono laureato con il Prof. Franco Baldoni (con una tesi

in Psicosomatica su [PP.3] “La concezione della salute tra Oriente

ed Occidente”), ero iscritto all’Istituto Superiore di Educazione

Fisica di Urbino, per cui a livello accademico, avevo avuto modo

di studiare il corpo umano, sia nella pratica sportiva che nella

teoria e avevo già avuto anche diverse esperienze lavorative

come insegnante nelle scuole con i bambini, i ragazzi e anche

con gli adulti nelle palestre e nelle piscine del circondario.

Inoltre tra i periodi di apprendimento significativi della mia vita

devo ricordare l’esperienza pluriennale di Judò, che, in qualche

modo mi aveva formato il carattere nel periodo che va

dall’infanzia alla prima adolescenza. L’Oriente aveva già fatto

capolino nella mia esperienza di vita attraverso la cultura delle

arti marziali fin da quando ero ancora bambino.

La mia propensione al sociale, i miei studi, prima sul corpo e poi

sulla psiche e le mie esperienze di lavoro, hanno favorito in me

una visione psicosomatica della clinica.

L’approccio psicosomatico è un tentativo di vedere le persone

nella loro interezza e, soprattutto, di comprendere che cosa

succede quando soffrono e aiutarle ad apprendere come imparare

a prevenire l’afflizione. Possiamo dire che la medicina

psicosomatica è nata per contrapporsi alla tradizione

meccanicistica e riduzionista della filosofia ottocentesca, che

separava nettamente la vita psichica e la malattia, essendo

quest’ultima considerata sempre di origine organica, dovuta cioè

alla lesione di qualche parte del corpo. [PP.4]

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La medicina psicosomatica si fonda sul concetto chiave che la

persona rappresenta un’inscindibile unità biologica, fatta di

corpo e mente, cioè di fattori psichici ed emotivi che svolgono

un ruolo determinante nello sviluppo delle malattie organiche. In

generale, quindi, possiamo dire che la psicosomatica è lo studio

dei rapporti intercorrenti tra mente e corpo. Essa parte dalle

premesse che ogni malessere di natura psicologica abbia una

ripercussione a livello somatico, e che viceversa una malattia

organica comporti un’alterazione della sfera psicologica.

Al di là delle varie interpretazioni è sicuramente un modo nuovo

di concepire l’uomo malato, una modalità che non considera solo

l’organo malato da “curare”, ma la globalità psichica, sociale e

culturale dell’essere umano, per cui l’organo rappresenta solo

l’espressione ultima di un disturbo. Da questo punto di vista la

medicina psicosomatica, in un’accezione ampia, rappresenta

quella concezione che, oltrepassando il dualismo psicofisico, che

separa il corpo dalla mente, guarda all’uomo come un tutto

unitario dove la malattia si manifesta a livello organico come

sintomo e a livello psicologico come disagio. [PP.5]

La psicoterapia, più in generale, è nata in Europa nel 1900 con

Freud, un innovativo neurologo viennese, ed è arrivata in Italia

con un certo ritardo, forse perché da noi andavano per la

maggiore i confessionali. [PP.6]

La parola Psyché è di origine greca, sta ad intendere il respiro

vitale, indicava l’anima, il cui sinonimo in sanscrito è Prana,

che letteralmente vuole dire «vita» e in seconda istanza viene

inteso come «respiro», «spirito», anima per come la intendiamo

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noi. Il sanscrito è una lingua indeuropea attestata nell’India a

partire dal sec. X a.C., ed è la lingua più antica che si conosca,

ritenuta da alcuni la lingua madre dell’umanità, è l’idioma dello

Yoga ed è un codice vibrazionale, per cui non è il suono a dare

importanza alla parola ma la vibrazione che trasmette. È una

lingua di guarigione: i mantra, le frasi in sanscrito recitate nella

pratica dello Yoga, sono uno strumento importante di recupero

della salute, una preghiera vibratoria per smuovere le energie

bloccate. L’effetto guaritore del sanscrito crea armonia nel

corpo e nell’anima.

Ma anche se sarebbe interessante, non voglio mettermi a

dissertare sul concetto di anima, perché ci porterebbe troppo

lontano per il tempo che ho a mia disposizione. [PP.7]

Di fatto la Chiesa Cristiana ha monopolizzato la cultura

dell’anima per secoli.

Gli psicologi, nati solo nel ‘900, erano interlocutori laici

scomodi, e lo erano anche per i medici che da più di duemila

anni studiavano concretamente il corpo malato, considerandoci,

solamente dei ciarlatani. [PP.8]

Lo studio della Psyché storicamente era comunque stato oggetto

peculiare della filosofia. Ma dal ‘900 diventa una branchia del

pensiero a se stante che diverrà una pratica di “cura”: la

psicoterapia appunto. Oggi è appurato che la psicoterapia

promuove l’apprendimento di modi alternativi di pensare e

comportarsi, ovvero altera la forza delle sinapsi tra i neuroni,

portando, quindi, a dei veri e propri cambiamenti morfologici nei

neuroni stessi.

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Alla luce di queste nuove conoscenze, in campo scientifico si sta

già gradualmente correggendo la dicotomia culturale di partenza,

che prevede una rigida distinzione tra i disturbi neurologici,

psichiatrici e psicologici, accogliendo un approccio integrato e

interdisciplinare.

Devo riconoscere che il pregio per me più rilevante degli studi di

Filosofia Orientale che ho compiuto è proprio quello di avermi

permesso di infrangere quella barriera concettuale che in

Occidente distingue in maniera rigida il corpo dalla mente. [PP.9]

La nostra cultura occidentale è però ancora oggi, nonostante

tutto, retta da questo dualismo corpo-mente, il corpo da una parte

e Psyché dall’altra (uso psiche come sinonimo di mente anche se la parola

psiche ha concettualmente una ampiezza maggiore - contiene l’istinto e

l’inconscio). Ricordo di aver vissuto questa rigida divisione come

una forzatura inaccettabile fin da quando facevo l’istruttore di

ginnastica e l’allenatore. Ho sempre riscontrato nel corpo e nel

movimento collegamenti chiari al modo di pensare e di essere

delle persone ed è per questo motivo, alla ricerca di senso, che

ho proseguito i miei studi in Psicologia. [PP.10]

Ma è alla Scuola di Filosofia Orientale di Rimini che ho appreso

che nel pensiero Buddista, come in quello Taoista, il corpo e la

mente sono fin dagli albori, considerati due aspetti inseparabili,

dove per unicità non s’intende che il corpo e la mente siano

identici, ma che non sono disgiunti [PP.11], ma pensati come entità

di uno stesso essere vivente che dialogano e interagiscono

profondamente e costantemente. (Feldenkrais M., “Le basi del metodo

per la consapevolezza dei processi psicomotori”, Roma, Astrolabio, 1991).

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[PP.12] Pur non volendo addentrarmi in dissertazioni di Storia della

Filosofia, devo però menzionare che questo dualismo dopo

Pitagora, Platone ed Aristotele, si è andato definitivamente

radicalizzando nel 1600, con Cartesio che ha stabilito la netta

suddivisione di due dimensioni esistenziali dell’uomo: la Res

Extensa e la Rex Cogitans. Cartesio, uno dei maggiori esponenti

della corrente filosofica del Razionalismo che ripone una fiducia

assoluta nella ragione, immaginava il pensare come un processo

autonomo che agisce in maniera completamente indipendente

rispetto al corpo. È di Cartesio uno degli enunciati più famosi di

tutta la storia della filosofia: «Cogito ergo sum».

L’affermazione, presa alla lettera, indica che i substrati

dell’essere sono proprio il pensare e la consapevolezza di

pensare. Ed è proprio questa proposizione che celebra la netta

separazione della mente rispetto al corpo. Cartesio infatti, ha

considerato il corpo come una macchina che è divisa dalla

mente, dal pensiero, esprimendo l’esatto opposto di ciò che le

moderne neuroscienze sostengono in relazione all’origine del

corpo e della mente degli esseri viventi. [PP.13]

Secondo Antonio Damasio, celebre docente ricercatore di

neuroscienze, di neurologia e psicologia presso l’Università del

Sud della California, “L’errore di Cartesio” (che è anche il titolo di

un suo celebre libro), risiede proprio in questa netta separazione, in

questo distacco, nell’operare in maniera scissa ed indipendente

di queste due entità.

Damasio addirittura capovolge il cogito cartesiano e dimostra

che la coscienza di sé emerge dalla coscienza che si ha del

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proprio corpo; noi siamo e quindi pensiamo: il pensiero è allora

causato dalle strutture e dalle attività dell’essere. Nei suoi studi

ha dimostrato che la mente umana non solo è strettamente legata

al regno dei tessuti biologici che la compongono, ma è in

continua interazione con il corpo condizionato sia dall’ambiente

fisico che da quello sociale. Antonio Damasio e Daniel

Goleman, con i suoi studi sull’intelligenza emotiva, hanno

restituito voce e valore fondamentale al sentire, quindi al corpo,

riportando l’attenzione sulle sensazioni, alla percezione del

corpo e quindi alle emozioni e ai sentimenti.

Questi due ricercatori hanno ridato valore al corpo che sente e

alla percezione che passa dai sensi, come anche la

“Fenomenologia della percezione” di Merleau-Ponty, riteneva

sensato. [PP.14]

Inizialmente lo studio accademico della Psicologia, nello sforzo

di farsi annoverare negli atenei delle Scienze mediche, escluse

rare eccezioni come quella della Gestalt, incentrata sui temi della

percezione e dell’esperienza, si era sbilanciato tutto sulla

razionalità; fino agli anni ‘90 del secolo scorso si parlava quasi

esclusivamente di Q.I. (Quoziente Intellettivo), riducendo il

corpo a una macchina raziocinante, rincorrendo il modello

cartesiano, degradando il corpo al livello “animale”.

Resta il fatto però, che dal ‘600, grazie proprio a Des Cartes, ci

siamo ritrovati culturalmente e praticamente divisi, da una parte

stava la lobby religiosa della cultura cristiana, che aveva

monopolizzato tutto il sapere accademico fino al XVII secolo, e

dall’altra la lobby della cultura medica, entrambe sorrette da

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impalcature di verità millenarie. Queste due fazioni hanno avuto

interessi ben distinti che con il passare dei secoli si sono sempre

più radicate in corporazioni di potere autonome e del tutto

scollegate tra loro. La scienza medica dello specialismo

accademico è poi riuscita, nella modernità, a suddividere

ulteriormente il corpo in altre sottospecializzazioni riguardanti le

cellule, i tessuti, gli apparati e gli organi, determinando una

frammentazione ancor più esasperata dell’essere umano,

frantumandone ancora di più la visione d’insieme e rendendo

sempre più ardua la sua integrazione. [PP.15]

Ogni volta che nella mia terapia centrata sulla persona incontro

un cliente, mi ritrovo a dover favorire un balzo di congiunzione

per promuovere un cambio di paradigma per niente facile

perché esige la disgregazione di quel ‘costrutto’ (come direbbe il

mio Maestro Carl Rogers), sul quale abbiamo fondato il nostro credo

individualista occidentale e su cui abbiamo praticamente basato

tutte le scelte quotidiane della nostra vita, più o meno

inconsapevolmente. E devo riconoscere che è più laboriosa la

demolizione del vecchio che l’acquisizione del nuovo, seppur

riconosciuto più funzionale. [PP.16]

Nella mia esperienza personale ho riscontrato che praticare lo

Yoga è sicuramente un’attività predisponente a queste

congiunzioni e mi ritrovo molto spesso in terapia ad utilizzare

alcune pratiche di respirazione del Pranayama. [PP.17]

La respirazione profonda, diaframmatica (o Buddhica) ad

esempio, oltre a riportare l’attenzione al corpo, ci fa indugiare

nel presente, nell’istante in cui respiriamo, e ridà potere al qui e

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ora evitando di permettere alla mente di soffermarsi sui problemi

del passato o di proiettarsi con ansia nel futuro, verso l’ignoto

che da sempre spaventa l’essere umano. [PP.18]

Le tecniche di respirazione della Mindfulness, di cui la collega

Dott.ssa Antonella Scalognini medico psicoterapeuta è esperta e

che avrete modo di praticare nel laboratorio esperienziale di

questo pomeriggio, sono buone alleate per cercare di mantenere

questa congiunzione. Saper congiungere corpo e mente per noi

occidentali è il primo passo per poi riuscire a sentirci parte del

tutto. E ritengo sia un aspetto fondamentale per chi svolge una

professione di aiuto come la nostra. [PP.19]

Nel libro “Guarisci te stesso”, di Saki Santorelli, un medico

fondatore della Mindfulness, un testo che ritengo edificante per

la mia professione e per quella medica in generale, ho trovato

una citazione di Inayat Khan, un maestro sufi, nella quale si

legge “La mente è la superficie del cuore, il cuore la profondità

della mente”. [PP.20] Questo riferimento ci da modo di mettere in

evidenza che nelle lingue di molte tradizioni orientali, le parole

per indicare mente e cuore, non sono diverse. Anche per l’artista

calligrafo Kazuaki Tanahashi il cuore e la mente non vengono

pensati come due entità separate, l’ideogramma giapponese

descrive due figure che interagiscono (che Kazuaki traduce:

portare il cuore-mente all’adesso, a questo istante). [PP.21]

Per ritrovare così “Il potere di Adesso”, come cita Eckhart Tolle

in un suo famoso saggio, e centrare la nostra vita sul presente,

sul piacere di respirare e di essere vivi. [PP.22]

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Una corretta respirazione oltre a trasformare ogni emozione

sgradita, ogni tensione in rilassamento, ci ricongiunge alla nostro

centro profondo. Gli effetti di una buona respirazione praticata

più volte nel quotidiano, spesso ha conseguenze sorprendenti. Se

l’insegnamento della pratica della respirazione viene facilitato

attuando un contesto che preveda un atteggiamento accettante

incondizionatamente, senza giudizio, che implichi l’empatia e la

congruenza – che sono questi i cardini fondamentali rogersiani appresi nei

quattro anni di lavoro alla scuola di specializzazione –, diventa una

pregevole ricetta per aiutare le persone a ritrovare l’equilibrio e

l’armonia. [PP.23]

Queste condotte, che sono alla base dell’essere psicoterapeuta

rogersiano, non sono così ovvie da imparare: in quattro anni di

scuola di specializzazione si è molto lavorato sulla pratica di

questi apprendimenti e mi rendo conto che astrarsi dal giudizio,

ad esempio, è un impegno alquanto complesso, che però è bene

tenere sempre presente, perché come diceva Kant, anche la sola

parola è giudizio e noi con la parola ci lavoriamo, è il nostro

strumento essenziale. Forse è proprio il giudizio, che si porta

appresso il pre-giudizio, la cosa più deleteria e faticosa da

estirpare nel nostro vivere quotidiano e la conoscenza di altre

culture sicuramente può facilitarci in questo impegno, aprendo la

mente. [PP.24]

Dopo la lacerazione concettuale della ripartizione bipolare di

corpo mente, un altro concetto che ho trovato fondamentale nei

miei studi di filosofia Orientale, è quello del non attaccamento e

dell’impermanenza, precetti del Buddhismo, che se acquisiti,

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riescono a definire quella distanza necessaria con tutto ciò che ci

circonda (le cose, le persone, gli affetti ecc.) e [PP.25] facilitano

notevolmente l’evoluzione della consapevolezza, quella

consapevolezza che è obbiettivo di ogni buona psicoterapia

dover risvegliare. [PP.26]

La consapevolezza è parte indispensabile di quel percorso che ci

può portare dall’essere vittime inconsapevoli, ridotti

all’isolamento in quella realtà sofferta che siamo “costretti” a

subire e che ci spinge a ricercare la causa del nostro male negli

altri (noi lo chiamiamo locus of control esterno), ad essere

invece protagonisti e arrivare a concepirci come cause dei nostri

mali ma anche come fautori del nostro bene (locus of control

interno). [PP.27]

Accettare la responsabilità di essere imprenditori del nostro bene

e del nostro male, può sembrare scomodo soprattutto all’inizio

della Psicoterapia, quando non abbiamo ancora acquisito

strumenti idonei per reinterpretare la nostra realtà, ma

gradualmente, una volta ricentrati su noi stessi, ridiventati il

fulcro della nostra esistenza, la consapevolezza ci restituisce la

possibilità di decidere cosa è importante per noi e cosa,

viceversa, è importante per gli altri. Imparando ad accettare

anche di poter fare errori su questo percorso, ma di poter

comunque ritornare sempre sui propri passi. [PP.28]

Cambiare prospettiva e guardare la realtà da un punto di vista

più funzionale per noi, diventa un passaggio fondamentale per

rivedere la vita sotto un altro aspetto, più consono alla nostra

breve esistenza.

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In fondo dobbiamo essere coscienti, in quest’epoca che vorrebbe

poter annullare tutti i nostri limiti, che l’unica certezza Vera che

abbiamo su questa terra, dalla nostra venuta al mondo, è proprio

quella che dobbiamo morire e non sappiamo neppure come e

quando. Tutto quello in cui crediamo ci da modo di interpretare

la nostra esistenza, ma nessuno dovrebbe essere così certo delle

proprie verità (chi lo è in genere rischia di diventare un

pericoloso fondamentalista). Dobbiamo soltanto cercare di

rendere le nostre convinzioni funzionali al nostro esistere:

infondo la scienza e le religioni che cosa sono se non una ricerca

di senso necessario? La nostra mente, quando non riesce a

trovare il senso nelle cose, è a rischio di follia. Dobbiamo però

cercare di salvaguardare comunque sempre l’umiltà del dubitare,

senza voler imporre il nostro credo, senza voler convertire gli

altri alla nostra verità. [PP.29]

A volte per consentire che questo avvenga, diventa

indispensabile rivedere alcuni paradigmi della nostra cultura

cristiana d’origine, dove regna imperturbato un grande nemico

del nostro benessere: il senso di colpa. .[PP.30]

Tutti noi cristiani siamo nati con l’eredità della colpa della

disobbedienza di Adamo e dalla nascita in poi, grazie a questa

nostra cultura, ogni errore nella vita ci porta a soffrire più o

meno pesanti sensi di colpa e conseguente vergogna. La morale

cristiana, spesso utile alla Chiesa per sottomettere i suoi sudditi,

diventa una costante spada di Damocle nelle nostre scelte di vita,

che non di rado ci costringe chiusi in gabbia.

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Nella mia professione mi ritrovo di frequente, quando con il

cliente incontro quei profondi sensi di colpa che lo

immobilizzano, a dover rivedere e rileggere i precetti della nostra

religione (appresi in famiglia, al catechismo, ma anche durante la

scuola, in ogni apprendimento didattico culturale anche se non

siamo praticanti), a partire proprio dalla Genesi, dalla colpa

originale di Adamo, per cercare di darne una lettura più

funzionale alla nostra esistenza. Noi veniamo al mondo già con

la colpa della disobbedienza del primo uomo e questa colpa

anche se lavata col battesimo, rimane sempre in agguato. [PP.31]

Con il senso di colpa anche il concetto di peccato e di male

andrebbero rivisitati e riletti in chiave meno confessionale ed

ecclesiale (dobbiamo ricordarci che la Chiesa è un’istituzione

gerarchica di potere retta da comuni mortali, da uomini che si

arrogano la prerogativa di rappresentare Dio in terra). [PP.32]

Oggi “Vince chi fa più errori. (Il paradosso dell’innovazione)”.

È anche il titolo di un libro di Richard Farson e Ralph Keyes che

ho avuto l’occasione di leggere diverso tempo fa. L’errore come

apprendimento, non certo come ci insegnano a scuola. [PP.33]

Accettare lo sbaglio per cercare di non ripeterlo e solo così poter

proseguire a sbagliare di nuovo, per crescere ed evolvere. Questo

non vuole essere un tentativo di abolire l’etica, ma certamente

quello di opporsi ad una morale rigida e straripante di Verità

assolute. [PP.34]

Dobbiamo avere ben chiaro che quello che noi definiamo il male

(che cerchiamo di porre sempre fuori di noi), è in realtà l’unica

condizione che ci permette la crescita e l’evoluzione! La

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sofferenza ci riscuote e ci risveglia se impariamo ad accoglierla

(questo non può avvenire se invece la rifiutiamo o la neghiamo).

Dio cacciando il disubbidiente Adamo, privandosi della sua

onnipotenza, gli ha fatto un dono incommensurabile, quello del

libero arbitrio, in pratica regalandogli la libertà che certamente

implica anche sacrificio, sofferenza e responsabilità della scelta. [PP.35]

Oggi però dobbiamo fare i conti con un sistema che vuole

demolire ogni limite umano, ogni sofferenza, senza comprendere

che è solo tramite queste che possiamo crescere ed imparare. [PP.36]

Voglio consigliare la lettura di un libro illuminante a questo

proposito: “Homo Deus”. Usualmente il significato dato a limes,

frontiera, limite, confine (anche se nell’antichità il confine e la

frontiera avevano significati distinti), è quello di linea di

divisione, la separazione tra due cose. Ma un confine, non è forse

anche un luogo dove incontrarsi e ritrovarsi? Dove

ricongiungersi e riconciliarsi?

In realtà il peccato come crescita lo ritroviamo anche nel Libro

Sacro della nostra cultura, nell’Antico Testamento, ma dipende

sempre da come noi ci poniamo di fronte all’interpretazione. [PP.37]

Galimberti sul cristianesimo ha scritto un libro che ho trovato

interessante al quale vi rimando: “Cristianesimo. La religione del

cielo vuoto”. L’idea della vita di Cristo come modello, cioè Dio

che si è fatto uomo per patire tutte quelle pene per noi, il suo

calvario in terra per guadagnarsi il paradiso, il ritorno a Dio

padre, che è appunto il paradigma della nostra religione, ci ha

reso il modello della nostra esistenza come ricettacolo di

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supplizi. Se la vita deve essere un calvario di sofferenze, per

guadagnarci un posto comodo nell’aldilà, lo psicologo laico è

spesso costretto alla profanazione, alla blasfemia e al sacrilegio

per permettere alle persone di godere del piacere di vivere e

apprezzare questo immenso dono della vita sulla terra. Oggi,

adesso, non nell’aldilà. [PP.38]

Freud in qualche modo aveva annunciato, con la sua teoria del

piacere, questa disputa con l’interpretazione dei Testi Sacri

compiuta dalla Chiesa [PP.39] (che per altro è anche stata modificata

nei vari concili vaticani), che è servita in primis per facilitare la

gestione del suo potere sul popolo. Ci ricordiamo il periodo

storico dell’inquisizione che ha portato al rogo un grande

filosofo Italiano: Giordano Bruno? [PP.40]

Compito dell’arduo lavoro che spetta noi psicoterapeuti è quello

di aiutare le persone a ristrutturare il proprio Io, concepire quegli

strumenti da poter padroneggiare per disfare il confine che ci

divide dal mondo che ci circonda e recuperare l’armonia delle

relazioni con gli altri. Non è inconsueto che questo ci imponga

una nuova lettura dei principi disfunzionali dell’esistenza che

abbiamo assimilato culturalmente dal passato ma anche dalla

nostra famiglia di origine. [PP.41]

Ci impegniamo ad aiutare la persona che si rivolge a noi

smarrita, a costruirsi metaforicamente un recinto, una casa, un

rifugio autonomo dove potersi riparare e dal quale poter

finalmente uscire quando lo vuole, sapendo che lì comunque può

rientrare ogniqualvolta lo desideri (equiparabile a quello che

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Anzieu Didier ha chiamato “L’Io pelle”, il nostro confine

dell’Io.) [PP.42]

Il presupposto indispensabile di ogni psicoterapia è mirare ad

aiutare la persona a ricostruire una relazione funzionale con se

stessa, attraverso l’amor proprio, l’autostima, per poi

pacatamente poter tornare a perdersi e lasciarsi andare

nell’incontro con l’Altro. Per imparare a perdersi, per poi potersi

alfine ritrovare, come citava Tiziano Terzani in “Un altro giro di

Giostra”. Non possiamo amare nessuno se prima non impariamo

ad amare noi stessi e mi soffermerei volentieri sul dissertare sul

concetto di amore, ma il tempo scorre implacabile. [PP.43]

Solo dopo che abbiamo imparato ad amarci possiamo perderci

nel mondo ed imparare a rispettare l’Altro, di cui ci rendiamo

conto di dover fare parte. Senza l’Altro non possiamo esistere,

perché siamo animali sociali. Solo allora, a mio avviso, il

concetto orientale di Non Io può acquisire un senso anche qui da

noi in Occidente, e possiamo permetterci il lusso di lasciare

andare l’Io ritrovato, sgretolando quell’individualismo

esasperato a cui oggi siamo ormeggiati. [PP.44]

Lasciare andare non è altro che permettere alla vita di scorrere,

la cosa più naturale dell’esistenza, favorire il cambiamento con

fiducia nella vita, ma anche avere ben presente la fine

dell’esistenza, in quel ciclo dell’eterno ritorno che è

rappresentato dall’immagine dell’Uroboro, il serpente che si

morde la coda, il simbolo esoterico della ciclicità del tempo. [PP.45]

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Accettare il presente e insieme accettare il divenire, cioè la

morte, è impedire che la realtà della morte nullifichi il presente.

Questo, in definitiva, il compito e l’atteggiamento del super-

uomo di Nietszche in “Così parlò a Zarathustra”. Il super-uomo

come il senso della terra e come il fautore di un’antidealistica

fedeltà al mondo: “Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla

terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene

speranze! L’anima è insussistente, l’uomo è corpo”. Il

superuomo è colui che è in grado di accettare la dimensione

tragica dell’esistenza, di dir sì alla vita, di reggere la morte di

Dio e la perdita delle certezze assolute, di emanciparsi dalla

morale, di porsi come volontà di potenza e procedere oltre il

nichilismo. Ed ecco allora anche in Nietzsche ricomparire il

valore dato da Schopenhauer al presente e quindi alle sensazioni,

illusioni, passioni, e quant’altro il presente offre quando sciolto

da fondamenti etici, religiosi o metafisici.

L’eterno ritorno significa ritenere che il senso dell’essere non

sia fuori dall’essere, ma nell’essere stesso, e il disporsi a vivere

la vita, e ogni attimo di essa. Non dimentichiamo che il pensiero

di Schopenauer e di Nietzsche ha ispirato in un certo qual modo

la concezione freudiana. [PP.46]

Ma noi umani temiamo il cambiamento, abbiamo paura di

perdere ciò che abbiamo con tanta fatica conquistato e a costo di

soffrire, ci teniamo avvinghiati alle nostre conquiste, come

zavorre, cercando di impedire il divenire.

Quando penso alla capacità di lasciare andare, mi sovviene la

metafora del compositore musicale: per anni il musicista si deve

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cimentare nella tecnica del solfeggio per poi da compositore,

doversene dimenticare se vuole essere in grado di concepire la

melodia. [PP.47]

Se pensiamo alla musica ci possiamo soffermare sul fatto che è

data da un insieme di note, ma avete mai pensato a quanto siano

importanti le pause, i vuoti, per l’armonia musicale? Il senso del

vuoto che tanto ci spaventa, in realtà diventa momento

indispensabile per poter fare spazio al ritmo, al suono, alla

melodia. [PP.48]

Anche la comprensione dell’importanza del vuoto ci viene dalla

cultura d’Oriente in opposizione al bisogno di riempire che

abbiamo in Occidente. Quel vuoto che i riti dell’Oriente ci

tramandano, come ad esempio l’importanza data allo spazio

vuoto del contenitore nella cerimonia del Tè. [PP.49] Quel concetto

di vuoto che è di fondamentale rilevanza anche per il mio lavoro

e lo devo all’insegnamento di un eminente docente della Scuola

di Filosofia Orientale con cui ho condiviso l’elaborazione della

mia tesi, il Prof. Giangiorgio Pasqualotto. Mi ha insegnato che il

vuoto è un elemento indispensabile per poter apprezzare i

contenuti della nostra esistenza, strapiena di un eccesso di

stimoli e di stress. Quando siamo intasati, è vitale svuotarsi per

poi imparare a ingerire solo quello che ci è necessario come il

corpo ci mostra dopo un’indigestione o un’intossicazione.

Il valore d’imparare a schermarci dai troppi impulsi e la

responsabilità di dover scegliere ogni volta ciò che possiamo fare

passare e ciò che dobbiamo lasciare fuori, oggi che gli input sono

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innumerevoli e pressanti, è sempre più di sostanziale importanza

per la nostra salute.

Noi siamo sempre più sospinti a riempirci di troppe cose inutili,

non sappiamo più restare soli, svuotarci ci terrorizza, perché ci

hanno insegnato che ci serve tutto ciò che alla fine invece

ingombra e ci occlude. [PP.50]

Gabriele Romagnoli, in “Solo bagaglio a mano”, scrive:

“Perdere è avere un’occasione. Invece si ha paura di perdere e/o

di perdersi.” Io direi che è darsi un’occasione. Imparare a

lasciare andare, a liberarsi è decontaminarsi.

Ma anche nella nostra cultura cristiana possiamo ritrovare

esempi ispiratori che valorizzano questo vuoto: Gesù andò

quaranta giorni nel deserto per ricreare quel vuoto, per

purificarsi, liberarsi dal male e poter ritrovare Dio, il bene, nel

digiuno purificatore e nella solitudine. [PP.51]

Dobbiamo imparare dalla solitudine a ricreare quel vuoto che, se

adeguatamente apprezzato, ci permetterà di discernere ciò che è

realmente importante e ciò che è superfluo al nostro benessere.

Stare da soli oggi è considerato un difetto, abbiamo il timore di

restare soli e per questo continuiamo a intasarci di cose inique e

spesso dannose che ci rendono dipendenti. La paura della

solitudine è un altro argomento ricorrente in psicoterapia.

Il primo passo per ovviare questa paura è proprio quello di

sentirsi tutt’uno con se stessi, congiunti; dobbiamo imparare a

sentire il corpo anche quando non si fa sentire, e rispettarlo,

nutrirlo, soddisfarlo, avere passioni, hobby da coltivare, fare

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attività fisica, giocare col corpo. Rimettere il corpo, l’istinto del

corpo, le sensazioni, le emozioni, al centro in una cultura dove

invece la logica, la ragione e il razionale hanno la preminenza da

secoli. E badate che interessarsi al corpo non è retrocedere a

livelli primitivi, quando sentivamo la fame e partivamo alla

ricerca di cibo per sfamarci. Oggi portare la mente al corpo è

ridare dignità alla nostra esistenza. Non si deve aspettare che il

corpo si ammali per valorizzarlo e curarlo. Dobbiamo prendere

coscienza che l’unica vera cura è la prevenzione. [PP.52]

Lo psicosomatista si ritrova quotidianamente a dover fare i conti

con somatizzazioni, che cosa vuol dire somatizzare? In sostanza

significa che l’individuo ha trasformato un disagio psicologico in

un’alterazione della salute fisica. L’esempio più semplice può

essere quello in cui il mal di testa è l’espressione di uno stato

di nervosismo. Generalmente le parti più colpite dal processo di

somatizzazione sono quelle costituite dal sistema

gastrointestinale (lo stomaco e l’intestino sono il nostro secondo

cervello). Rappresentano la nostra capacità di introdurre, ingerire

ed elaborare quello che ci serve e ci fa bene. Sintomi

caratteristici sono la diarrea, la stipsi o i dolori addominali, in

risposta ad un’emozione incompresa e indesiderata. La gastrite è

un’altra tipica espressione di una sofferenza psicologica, non

riusciamo a mandare giù qualcosa che non accettiamo e il nostro

corpo, visto e considerato che non siamo in grado di elaborarne

con la psiche il senso e l’emozione e ancor meno la sua causa, fa

del suo meglio per aiutarci producendo succhi gastrici in grande

quantità che non trovano niente di concreto da dover disgregare

se non le pareti stesse dello stomaco.

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Oramai è accreditato anche dalla medicina che la psiche ha un

ruolo fondamentale su un numero sempre crescente di sintomi

fisici. [PP.53] Ma non è strano, nell’antica Grecia gli organi avevano

simbologie e significati che venivano riportati anche nei miti, la

medicina aveva sempre un occhio aperto al senso universale.

Non era figlia del meccanicismo riduttivista come è oggi. A

questo proposito c’è uno scritto di R.B. Onians, “Le origini del

pensiero europeo, la mente, l’anima, il mondo, il tempo, il

destino”, che considero illuminante.

La cultura in cui siamo nati influisce oltre che sulla concezione

di ciò che è male, anche sulle malattie. A me è sempre piaciuto

molto viaggiare e ho scoperto che ci sono malattie tipiche di una

certa società, diverse e astruse per un’altra.

Nonostante la coppia salute/malattia non sia affatto simmetrica, i

due termini sono compartecipi al loro significato: non si

potrebbe definire l’uno senza presupporre la definizione

dell’altro (quello di salute/malattia, fra i tanti, è un dualismo

molto assoggettato a quello di anima/corpo). [PP.54]

Le definizioni della malattia, si riducono spesso ad affermare che

essa è il contrario della salute, entrando in quel circolo vizioso

che presuppone un punto di vista particolare e parziale sulla

natura dei fenomeni morbosi. Siamo sempre condizionati dal

dualismo, che mentre da una parte ci rassicura, rinserrandoci in

angusti confini, dall’altra vorremmo non ci costringesse,

vorremmo sentirci liberi. Ma d’altro canto senza quei confini ci

sembra di non riuscire a ritrovarci.

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Ricerchiamo disperatamente una libertà che a volte ha un costo

troppo elevato da poter accettare. Ippocrate ai suoi allievi medici

diceva: chiedete sempre al vostro paziente prima di cercare di

curarlo, se è disposto a rinunciare a ciò che causa le sue

afflizioni.

Per concludere, in apprezzamento alla corrente di pensiero della

collega Dott.ssa Damiani Alberti vorrei leggervi una passo di

uno psicanalista Junghiano: Adolf Guggenbühl-Craig dal suo

libro “Il bene del male” [PP. 55]

Chirone, il centauro che insegnò a Esculapio l’arte di guarire, era affetto da

piaghe incurabili. A Babilonia c’era una dea–cane con due nomi: con quello di

Gula era la morte, con quello di Labartu era la guarigione. In India, Kali è la

dea del vaiolo e anche colei che lo cura. L’immagine mitologica del guaritore

ferito è molto diffusa e, da un punto di vista psicologico, ciò significa non solo

che il paziente ha un medico dentro di sé, ma anche che nel medico esiste un

paziente. Adolf Guggenbühl–Craig [1983 trad. it. “Il bene del male”, 1987,

7677].

[PP.56]

Tibi gratias ago pro patientia vestra.

Grazie per la pazienza. Dott. Bruno Bonandi

www.brunononandi.it

face book: https://www.facebook.com/dr.BrunoBonandi