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Norme internazionali - La funzione giurisdizionale internazionale Una dispensa sulla funzione giurisdizionale internazionale e la soluzione delle controversie tra Stati http://www.studiamo.it/pages/diritto-pubblico-privato-ed-internazionale-norme-internazionali-la- funzione-giurisdizionale-internazionale La funzione giurisdizionale internazionale La funzione giurisdizionale internazionale ha ancora oggi natura arbitrale, essendo ancorata al principio per cui un giudice internazionale, comunque costituito, non può mai giudicare se la sua giurisdizione non è stata preventivamente accettata da tutti gli Stati parti di una controversia. Ed è proprio questo fatto che fa sì che si privilegi il momento interno dell'applicazione del diritto internazionale. Gli Stati sono liberi di deferire ad un Tribunale internazionale una qualsiasi controversia che riguardi i loro rapporti: ciò che importa è che siano d'accordo sulla scelta e accettino come vincolante la sua decisione. Il processo internazionale ha quindi sostanzialmente carattere arbitrale, poiché riposa sulla volontà degli Stati. Il punto di partenza dell'evoluzione dell'istituto è l'arbitrato isolato. Esso si svolgeva solitamente in questo modo: sorta una controversia tra due o più Stati, si stipulava un accordo (il c.d. compromesso arbitrale) con il quale si nominava un arbitro (ad esempio, un Capo di Stato) o un collegio arbitrale, si stabiliva eventualmente qualche regola procedurale, e ci si obbligava a rispettarne la sentenza così emessa. L'istituto si è evoluto: per facilitare l'accordo, alla fine del secolo scorso, si è cominciato a ricorrere a degli accorgimenti per l'instaurazione del processo: sono comparsi i c.d. trattati generali di arbitrato (chiamati anche "non completi" per distinguerli da quelli successivi "completi") e le clausole compromissorie. Questi obbligavano gli Stati a ricorrere all'arbitrato per tutte le controversie che sarebbero sorte in futuro in ordine all'applicazione e all'interpretazione della convenzione tra gli Stati stessi. Questi, quindi, creano soltanto un obbligo de contrahendo, cioè l'obbligo di stipulare il compromesso arbitrale. Nella seconda fase, con la fine della prima guerra mondiale, è stata creata la Corte Permanente di Giustizia Internazionale all'epoca delle Società delle Nazioni, e poi, nel 1945, la Corte Internazionale di Giustizia. Si tratta di un corpo permanente di giudici, eletti dall'Assemblea generale e dal Consiglio di Sicurezza. Resta comunque un tribunale arbitrale. In questa fase, compare la figura della clausola compromissoria "completa" e del "trattato generale di arbitrato" completo. Questi non si limitano a creare l'obbligo di stipulare il compromesso, ma prevedono direttamente l'obbligo di sottoporsi al giudizio di un tribunale internazionale già predisposto. Bisogna comunque sottolineare che la funzione giurisdizionale internazionale va sempre cedendo il passo ai mezzi diplomatici. Inoltre è necessario distinguere i tribunali internazionali (destinati a risolvere le controversie tra Stati) dai tribunali istituiti all'interno delle organizzazioni internazionali (che risolvono le controversie di lavoro tra funzionari e l'organizzazione). Un cenno meritano anche alcuni organi giurisdizionali settoriali che presentano caratteristiche proprie: spicca, tra essi, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee (con sede a Lussemburgo), che però si occupa a) dei ricorsi per violazione del Trattato da parte di uno Stato membro, b) del controllo di legittimità sugli atti degli organi comunitari e c) delle questioni c.d. pregiudiziali (esempio, quando un giudice interno deve chiedere l'interpretazione del Trattato CE, ha il dovere di sospendere il processo e di chiedere una pronuncia della Corte al riguardo). Nel 1988 è stato inoltre istituito il Tribunale di primo grado delle Comunità europee. La Corte europea dei diritti dell'uomo controlla il rispetto della convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali da parte degli Stati contraenti. I MEZZI DIPLOMATICI DI SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI Questi mezzi si distinguono dai mezzi giurisdizionale di soluzione delle controversie in quanto tendono soltanto a facilitare l'accordo delle parti: di conseguenza non hanno carattere vincolante per le parti. L'accordo può essere innanzitutto facilitato da negoziati diretti tra le parti medesime, e in genere sono il mezzo più utilizzato. Si parla poi di buoni uffici o mediazione, quando si verifica l'intervento di uno Stato terzo, o di un organo supremo di uno Stato o di un'organizzazione internazionale a titolo personale. La differenza tra buoni uffici e mediazione è più teorica che pratica: di solito con i primi ci si limita a indurre le parti della controversia a negoziare; nella mediazione c'è invece una partecipazione più attiva del terzo alle trattative. Molto importante è anche la conciliazione, che si avvicina di più all'arbitrato. Le commissioni di conciliazione sono di solito composte da individui e da Stati ed hanno il compito di esaminare tutti gli aspetti della controversia e formulare una proposta di soluzione che le parti sono libere di accettare o meno. Le Commissioni di inchiesta, invece, hanno il compito di accertare il fatto. Il ricorso alla conciliazione è sempre succedaneo del ricorso all'arbitrato, soprattutto nei trattati multilaterali. Sempre più spesso è previsto come obbligatorio il ricorso alla conciliazione, con la conseguente possibilità per uno degli Stati contraenti di dare unilateralmente avvio alla procedura conciliativa. Ai mezzi diplomatici vanno riportate anche le procedure di soluzione non vincolanti che si svolgono in seno alle organizzazioni internazionali. La Carta delle Nazioni Unite stabilisce che gli Stati membri hanno l'obbligo di risolvere le loro controversie con mezzi pacifici. Una funzione importante è svolta anche dal Consiglio di Sicurezza, che dispone di un potere di inchiesta, da esercitare sia personalmente, sia per mezzo di un organo ad hoc, come ad esempio un'apposita Commissione. Il Consiglio può anche sollecitare le parti di una controversia a ricorrere ai mezzi e procedimenti pacifici. Il Consiglio può rivolgere un invito generico o indicare uno specifico procedimento.

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Norme internazionali

- La funzione giurisdizionale internazionale Una dispensa sulla funzione giurisdizionale internazionale e la soluzione delle controversie tra Stati

http://www.studiamo.it/pages/diritto-pubblico-privato-ed-internazionale-norme-internazionali-la-

funzione-giurisdizionale-internazionale

La funzione giurisdizionale internazionale

La funzione giurisdizionale internazionale ha ancora oggi natura arbitrale, essendo ancorata al principio per cui un giudice

internazionale, comunque costituito, non può mai giudicare se la sua giurisdizione non è stata preventivamente accettata da

tutti gli Stati parti di una controversia. Ed è proprio questo fatto che fa sì che si privilegi il momento interno dell'applicazione del

diritto internazionale.

Gli Stati sono liberi di deferire ad un Tribunale internazionale una qualsiasi controversia che riguardi i loro rapporti: ciò che

importa è che siano d'accordo sulla scelta e accettino come vincolante la sua decisione.

Il processo internazionale ha quindi sostanzialmente carattere arbitrale, poiché riposa sulla volontà degli Stati.

Il punto di partenza dell'evoluzione dell'istituto è l'arbitrato isolato. Esso si svolgeva solitamente in questo modo: sorta una

controversia tra due o più Stati, si stipulava un accordo (il c.d. compromesso arbitrale) con il quale si nominava un arbitro (ad

esempio, un Capo di Stato) o un collegio arbitrale, si stabiliva eventualmente qualche regola procedurale, e ci si obbligava a

rispettarne la sentenza così emessa. L'istituto si è evoluto: per facilitare l'accordo, alla fine del secolo scorso, si è cominciato a

ricorrere a degli accorgimenti per l'instaurazione del processo: sono comparsi i c.d. trattati generali di arbitrato (chiamati anche

"non completi" per distinguerli da quelli successivi "completi") e le clausole compromissorie. Questi obbligavano gli Stati a

ricorrere all'arbitrato per tutte le controversie che sarebbero sorte in futuro in ordine all'applicazione e all'interpretazione della

convenzione tra gli Stati stessi.

Questi, quindi, creano soltanto un obbligo de contrahendo, cioè l'obbligo di stipulare il compromesso arbitrale. Nella seconda

fase, con la fine della prima guerra mondiale, è stata creata la Corte Permanente di Giustizia Internazionale all'epoca delle

Società delle Nazioni, e poi, nel 1945, la Corte Internazionale di Giustizia. Si tratta di un corpo permanente di giudici, eletti

dall'Assemblea generale e dal Consiglio di Sicurezza. Resta comunque un tribunale arbitrale. In questa fase, compare la figura

della clausola compromissoria "completa" e del "trattato generale di arbitrato" completo. Questi non si limitano a creare

l'obbligo di stipulare il compromesso, ma prevedono direttamente l'obbligo di sottoporsi al giudizio di un tribunale internazionale

già predisposto.

Bisogna comunque sottolineare che la funzione giurisdizionale internazionale va sempre cedendo il passo ai mezzi diplomatici.

Inoltre è necessario distinguere i tribunali internazionali (destinati a risolvere le controversie tra Stati) dai tribunali istituiti

all'interno delle organizzazioni internazionali (che risolvono le controversie di lavoro tra funzionari e l'organizzazione).

Un cenno meritano anche alcuni organi giurisdizionali settoriali che presentano caratteristiche proprie: spicca, tra essi, la Corte

di Giustizia delle Comunità Europee (con sede a Lussemburgo), che però si occupa a) dei ricorsi per violazione del Trattato da

parte di uno Stato membro, b) del controllo di legittimità sugli atti degli organi comunitari e c) delle questioni c.d. pregiudiziali

(esempio, quando un giudice interno deve chiedere l'interpretazione del Trattato CE, ha il dovere di sospendere il processo e di

chiedere una pronuncia della Corte al riguardo).

Nel 1988 è stato inoltre istituito il Tribunale di primo grado delle Comunità europee.

La Corte europea dei diritti dell'uomo controlla il rispetto della convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà

fondamentali da parte degli Stati contraenti.

I MEZZI DIPLOMATICI DI SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI

Questi mezzi si distinguono dai mezzi giurisdizionale di soluzione delle controversie in quanto tendono soltanto a facilitare

l'accordo delle parti: di conseguenza non hanno carattere vincolante per le parti.

L'accordo può essere innanzitutto facilitato da negoziati diretti tra le parti medesime, e in genere sono il mezzo più utilizzato.

Si parla poi di buoni uffici o mediazione, quando si verifica l'intervento di uno Stato terzo, o di un organo supremo di uno Stato

o di un'organizzazione internazionale a titolo personale. La differenza tra buoni uffici e mediazione è più teorica che pratica: di

solito con i primi ci si limita a indurre le parti della controversia a negoziare; nella mediazione c'è invece una partecipazione più

attiva del terzo alle trattative.

Molto importante è anche la conciliazione, che si avvicina di più all'arbitrato. Le commissioni di conciliazione sono di solito

composte da individui e da Stati ed hanno il compito di esaminare tutti gli aspetti della controversia e formulare una proposta di

soluzione che le parti sono libere di accettare o meno. Le Commissioni di inchiesta, invece, hanno il compito di accertare il fatto.

Il ricorso alla conciliazione è sempre succedaneo del ricorso all'arbitrato, soprattutto nei trattati multilaterali. Sempre più spesso

è previsto come obbligatorio il ricorso alla conciliazione, con la conseguente possibilità per uno degli Stati contraenti di dare

unilateralmente avvio alla procedura conciliativa.

Ai mezzi diplomatici vanno riportate anche le procedure di soluzione non vincolanti che si svolgono in seno alle organizzazioni

internazionali.

La Carta delle Nazioni Unite stabilisce che gli Stati membri hanno l'obbligo di risolvere le loro controversie con mezzi pacifici.

Una funzione importante è svolta anche dal Consiglio di Sicurezza, che dispone di un potere di inchiesta, da esercitare sia

personalmente, sia per mezzo di un organo ad hoc, come ad esempio un'apposita Commissione. Il Consiglio può anche

sollecitare le parti di una controversia a ricorrere ai mezzi e procedimenti pacifici. Il Consiglio può rivolgere un invito generico o

indicare uno specifico procedimento.

Norme internazionali

- Introduzione alle norme internazionali LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI

Prima di procedere all’esame delle fonti, dobbiamo puntualizzare un concetto fondamentale che costituisce la base del diritto

internazionale.

Noi sappiamo che un ORDINE regola i rapporti tra tutte le parti che costituiscono un sistema politico. In politica interna, ad

esempio, sono le costituzioni a svolgere le funzioni di ordine, stabilendo il tipo di Stato e il regime nel quale le istituzioni

politiche e governative devono operare.

Nell’ordinamento internazionale, invece, sussiste una sostanziale differenza.

Mentre l’ordinamento interno è un’istituzione gerarchica, che poggia sul ruolo dello Stato, l’ordinamento internazionale è

un’istituzione anarchica nel quale manca un governo mondiale.

La comprensione di questa importante differenza costituisce la chiave per identificare la funzione svolta dalle istituzioni

internazionali.

Gli ordini internazionali, cioè, si reggono “sulla volontà dei principali attori”. (Andreatta).

Essi non sono sottoposti ad un potere ad essi superiore, in quanto vige il principio della uguaglianza formale degli Stati.

Questa caratteristica comporta che non vi sia un procedimento formale di produzione giuridica che si imponga dall’esterno alla

volontà dei consociati, ma mette in luce il fatto che tutte le fonti in esso sono AUTONOME, cioè sono gli stessi soggetti

destinatari delle norme a porle in essere.

Per cui, le norme del diritto internazionale generale, che vincolano tutti gli Stati hanno natura consuetudinaria.

La CONSUETUDINE INTERNAZIONALE è costituita da un comportamento costante ed uniforme tenuto dagli Stati,

cioè dal ripetersi di un determinato comportamento con la convinzione della vincolatività del comportamento stesso.

Due sono, quindi, gli elementi che caratterizzano questa fonte:

LA DIUTURNITAS (o la prassi)

L’ OPINIO JURIS AC NECESSITATIS (o convinzione della giuridica necessità)

Quando si parla di prassi si fa riferimento ad un concreto comportamento, ovvero ad atti giuridici che possono essere

dell’ordinamento interno o dell’ordinamento internazionale.

Ad esempio, atti giuridici dell’ordinamento internazionale possono essere i trattati, le risoluzioni delle organizzazioni

internazionali, le proteste degli Stati o la corrispondenza diplomatica.

Gli atti interni rilevanti ai fini della prassi, invece, sono le sentenze dei giudici, le leggi ordinarie, le leggi regionali o le norme

poste in essere da qualsiasi ente pubblico interno.

La prassi però deve avere una determinata qualificazione per essere tale:

in senso soggettivo deve provenire dai soggetti dell’ordinamento internazionale (prevalentemente gli Stati)

in senso oggettivo deve avere i caratteri della

UNIFORMITA’ (o non contraddittorietà) garantisce che non assumano rilievo motivazioni politiche degli Stati che

essi sfruttano per giustificare le loro azioni, ma solo quei comportamenti che essi ritengono realmente giuridici.

GENERALITA’ assicura che la norma sia posta in essere da un numero significativamente rappresentativo di Stati

CONTINUITA’ implica una certa persistenza nel tempo dei comportamenti tenuti dalla maggioranza degli Stati

L’opinio juris, invece, presuppone che tali comportamenti siano posti in essere con la convinzione della loro giuridica necessità,

o della loro necessità sociale.

Tale concezione (detta DUALISTICA) non ha avuto però unanimità di consensi in dottrina.

Alcuni autori hanno sostenuto che la consuetudine sarebbe costituita dalla sola prassi, in quanto, ammettendosi la necessità

dell’opinio juris, si arriverebbe a considerarla come nata da un errore. Si dice, infatti, che se, nel momento in cui la norma va

formandosi, lo Stato crede che un comportamento sia obbligatorio, cioè richiesto dal diritto, mentre in effetti il diritto non esiste,

è evidente che lo Stato è in errore.

Tuttavia, se si esamina la prassi dei Tribunali internazionali, si può avere conferma della tesi secondo la quale, nella

consuetudine internazionale, entrambi gli elementi siano necessari. Non solo, ma ci fa rendere conto di come la tesi dualistica

della consuetudine derivi da elementi di pura logica. Infatti:

Essa è fondamentale ai fini della distinzione tra consuetudine produttiva di norme giuridiche e comportamenti di pure

cortesia o doverosità morale.

La sua esistenza o meno, inoltre, è il solo criterio utilizzabile per ricavare una norma consuetudinaria dalla prassi

convenzionale.

Infine, essa serve a distinguere il comportamento dello Stato diretto a modificare il diritto consuetudinario preesistente

dal comportamento che costituisce ,invece, mero illecito internazionale.

Per quanto riguarda gli organi che concorrono alla formazione della norma consuetudinaria, si riconosce generalmente la

possibilità di partecipazione a tutti gli organi statali e non solo ai detentori del potere estero.

Pertanto possono dare origine ad una norma consuetudinaria non solo atti “esterni” degli Stati, ma anche atti “interni” (leggi,

sentenze, atti amministrativi), senza alcun ordine di priorità.

Un ruolo importante è svolto sicuramente dalla giurisprudenza, con particolare riguardo alle Corti Supreme, le quali hanno il

compito, fra gli altri, di promuovere la revisione di consuetudini antiche che contrastino con fondamentali e diffusi valori

costituzionali.

Poiché le consuetudini creano diritto generale, vincolano tutti gli Stati, indipendentemente dalla loro partecipazione alla sua

formazione.

Questo principio è stato a lungo posto in discussione dagli Stati sorti dal processo di decolonizzazione, ossia dagli Stati che

attualmente costituiscono la maggioranza dei membri della comunità internazionale.

La contestazione nasceva dal fatto che, essendosi tale diritto formato in epoca coloniale, esso rispondeva ad esigenze del tutto

diverse da quelle del nostro tempo.

Il problema ha trovato soluzioni diverse a seconda che la contestazione provenisse da un singolo Stato o da un gruppo di Stati.

Nel primo caso, provenendo dal cd. persistent objector (obiettore persistente) essa è irrilevante e non occorre neanche la prova

dell’accettazione della norma, poiché essa è diritto generale ed è quindi comune a tutti gli Stati.

Diverso è invece il caso della contestazione che proviene da un gruppo di Stati: essa non solo non può essere ignorata, ma non

è neanche da considerarsi esistente come regola consuetudinaria.

Tuttavia, prima di arrivare alla negazione totale della norma, l’interprete deve fare ogni sforzo per cercare di trovare un minimo

comune denominatore nell’atteggiamento degli Stati, ai fini della ricostruzione anche di principi generalissimi.

Oltre alle norme consuetudinarie generali esistono anche le consuetudini particolari, ossia quelle vincolanti una ristretta

cerchia di Stati.

La loro figura è certamente da ammettersi e la sua applicazione più rilevante è fornita dal diritto non scritto che può formarsi

per modificare o abrogare le regole poste da un determinato trattato.

In altre parole, accade che le parti che stipulano un accordo diano inizio ad una prassi che modifica le norme a suo tempo

pattuite.

Le norme consuetudinarie sono suscettibili di interpretazione analogica?

L'analogia è una forma di interpretazione estensiva, che consiste nell'applicare una norma ad un caso che essa non prevede, ma

i cui caratteri essenziali siano analoghi a quelli del caso previsto. Nell'ambito del diritto consuetudinario, il ricorso all'analogia ha

senso solo con riguardo alle fattispecie nuove.

I PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO RICONOSCIUTI DALLE NAZIONI CIVILI

Tra le fonti di diritto internazionale generale non scritte, l’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia annovera “i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni Civili”. Secondo l’interpretazione di tale articolo, detti principi sono indicati al terzo posto, dopo gli accordi e le consuetudini, e si

tratterebbe di una fonte utilizzabile là dove manchino norme pattizie o consuetudinarie applicabili ad un caso concreto.

Il ricorso a tali principi costituirebbe una sorta di analogia juris destinata a colmare le lacune del diritto pattizio e

consuetudinario prima di concludere che non esistano obblighi internazionali in ordine ad un caso concreto.

Essi rappresenterebbero dei principi generali di giustizia oppure soltanto di logica giuridica, seguiti nei rapporti internazionali, e

connaturati all’idea stessa di diritto.

(Es: ne bis in idem; nemo judex in re sua; in claris non fit interpretatio; etc....) In realtà esiste una notevole varietà di opinioni in merito: alcuni dicono che non si tratta affatto di norme giuridiche

internazionali, altri affermano la natura integratrice, altri ancora li collocano al vertice della gerarchia delle fonti.

Obiettivamente non è facile orientarsi, anche perché ci si chiede quali tra i principi generali più o meno seguiti in tutti gli

ordinamenti sarebbero applicabili a titolo di norme generali dell’ordinamento internazionale.

Generalmente si ricorre a due condizioni o requisiti:

1. che tali principi esistano e siano uniformemente applicati nella più gran parte degli Stati;

2. occorre che essi siano sentiti come obbligatori o necessari anche dal punto di vista del diritto internazionale, che essi cioè

perseguano dei valori e impongano dei comportamenti che gli Stati considerino come perseguiti ed imposti o almeno

necessari anche sul piano internazionale.

Così intesi non sarebbero altro che una categoria sui generis di norme consuetudinarie internazionali.

Secondo una simile impostazione, allora, non sarebbero principi destinati a colmare soltanto le lacune del diritto internazionale;

il loro rapporto sarebbe invece il normale rapporto tra norme di pari grado: la norma posteriore abroga quella anteriore e la

norma speciale deroga quella generale.

Un’ultima precisazione: se tali principi vengono applicati dai giudici di uno Stato anche quando essi non siano presenti

nell’ordinamento statale, potrà dichiararsi l’illegittimità costituzionale di una legge ordinaria dello Stato, anche quando essa sia

contraria ad un principio generale.

ALTRE NORME GENERALI NON SCRITTE

Una parte della dottrina pone al di sopra delle norme consuetudinarie (e distinte da esse) un’altra categoria di norme genera li

non scritte: i principi.

Si è così sostenuta l’esistenza di una serie di “principi costituzionali”, connaturati con la comunità internazionale, che

comprendono anche un principio che consentirebbe in ogni caso il ricorso alla guerra.

Secondo il Quadri, vigoroso e originale sostenitore di questa teoria, che parte da una concezione fortemente imperativistica del

diritto, i principi costituirebbero le norme primarie del diritto internazionale poiché sono “l’espressione immediata e diretta della volontà del corpo sociale” e, in definitiva, comprenderebbero tutte quelle norme imposte dalle “forze prevalenti” nell’ambito

della comunità internazionale, in un determinato momento storico.

Tra questi principi, alcuni avrebbero carattere formale, poiché si limiterebbero a istituire fonti ulteriori di norme, altri carattere

materiale, in quanto disciplinerebbero direttamente i rapporti tra Stati.

I principi formali sarebbero due:

CONSUETUDO EST SERVANDA

PACTA SUNT SERVANDA

Pertanto, l’osservanza delle consuetudini e degli accordi sarebbe imposta dalle forze prevalenti.

I principi materiali potrebbero avere qualsiasi contenuto, a seconda che le forze prevalenti si combinino per volere una certa

disciplina in una determinata materia.

Tale concezione non è accettabile però, perché non si possono ricostruire principi materiali indipendentemente dalla prassi e

imporli solo perché frutto della volontà di qualche, o anche di uno, Stato. In questo modo, ogni abuso sarebbe legittimato

giuridicamente.

Inoltre, un operatore giuridico interno, nell’applicare tali principi, si dovrebbe chiedere ogni volta se essi non siano il frutto di

una qualche imposizione. E’ vero che , in ogni caso, nei principi c’è sempre una forza preponderante, ma a tale forza deve

accompagnasi la stabilità e la continuità della prassi affinché il principio sia ammesso come tale.

LE CONVENZIONI DI CODIFICAZIONE

Resta ora da esaminare il problema se esistano norme internazionali generali scritte.

Il problema della codificazione del diritto generale consuetudinario comincia alla fine del secolo scorso con la trasfusione in testi

scritti delle norme del diritto bellico.

Ma è solo con le Nazioni Unite che l’opera di codificazione prende slancio traducendosi in una serie di trattati multilaterali ai fini

di:

operare una razionalizzazione della consuetudine

fare in modo che le norme internazionali rispondessero ai nuovi interessi comuni fra gli Stati affermati dalla fine della

Seconda Guerra Mondiale.

Non esistendo, infatti, nel diritto internazionale alcun organo con poteri legislativi, il TRATTATO è l’unico strumento per la

trasformazione del diritto non scritto in diritto scritto.

L'articolo 13 della Carta delle Nazioni Unite prevede che l'Assemblea generale intraprenda degli studi e faccia raccomandazioni

per “incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione.”

A tali fini l'Assemblea ha creato un'apposita Commissione incaricata di provvedere alla preparazione di testi di codificazione delle

norme consuetudinarie relative a determinate materie, procedendo a studi, raccogliendo dati e predisponendo in tal modo

progetti di convenzioni multilaterali internazionali che vengano poi adottati e aperti alla ratifica e all'adesione da parte degli Stati

stessi.

La Commissione ha finora studiato numerosi settori del diritto internazionale e predisposto varie Convenzioni di codificazione.

Le più importanti sono :

la Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni ed immunità diplomatiche;

la Convenzione sulla piattaforma continentale;

la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati;

la Convenzione di Vienna del 1986 sul diritto dei trattati conclusi da Stati con organizzazioni internazionali e tra

organizzazioni;

la Convenzione di Vienna del 1978 sulla successione dei trattati;

la Convenzione di Montego Bay del 1994 sul diritto del mare.

Le Convenzioni di codificazione, in quanto comuni accordi internazionale, vincolano gli Stati contraenti. Alcuni autori, però,

hanno detto che, appunto perché essi propongono di codificare il diritto generale, hanno valore per gli Stati non contraenti.

Ma bisogna essere molto cauti nel considerare gli accordi di codificazione come corrispondenti al diritto consuetudinario

generale.

Innanzitutto non si può riporre un'illimitata fiducia nei lavori della Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite,

perché spesso ci può essere l'influenza dell'interprete o anche di chi è chiamato a far parte della Commissione stessa. Inoltre gli

Stati fanno quello che si fa sempre in sede di conclusione delle trattative per la conclusione degli accordi internazionali: cercano

di far prevalere i propri interessi, le proprie convinzioni. Per queste ragioni, gli accordi di codificazione vanno considerati come normali accordi internazionali e quindi vincolano i soli Stati contraenti che li ratificano.

La Corte Internazionale di Giustizia, in occasione della Convenzione sulla delimitazione della piattaforma continentale del Mare

del Nord del 1969, ha ritenuto che le convenzioni di codificazione, nel processo di formazione delle norme internazionali

generali, potessero avere un triplice ruolo:

FUNZIONE DI CRISTALLIZZAZIONE

FUNZIONE GENETICA

FUNZIONE DICHIARATIVA

1. La prima funzione si realizza quando già prima dell’accordo di codificazione si è formata una prassi rilevante che consente

di affermare l’esistenza di una norma consuetudinaria. La convenzione, in questo caso, mette solo per iscritto la norma

consuetudinaria e ne rende più facile l’accertamento.

2. La seconda funzione si ha nel caso opposto, cioè nel momento in cui prima della convenzione non vi è alcuna norma

consuetudinaria e non vi è alcuna prassi. In tal caso, la convenzione avvia il processo di formazione della norma

consuetudinaria e ne inaugura la prassi.

3. In questo caso, invece, la convenzione ha il compito di concludere una prassi, già avviata , ma insufficiente ad creare la

norma, dando attuazione, indirettamente, alla norma consuetudinaria stessa.

LE DICHIARAZIONI DI PRINCIPI

Si inquadra nel tema del diritto internazionale generale anche il problema del valore delle Dichiarazioni di Principiemanate

dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Si tratta di Dichiarazioni contenenti una serie di regole che talvolta riguardano i rapporti tra Stati, ma più spesso riguardano

rapporti interni alle varie comunità statali, quali i rapporti dello Stato con i propri sudditi o con gli stranieri.

Bisogna anzitutto sottolineare che le Dichiarazioni di Principi non costituiscono una autonoma fonte di norme internazionali

generali, poiché l’Assemblea non ha poteri legislativi mondiali (tanto che si esprime mediante raccomandazione, che ha valore di

esortazione non vincolante).

Tuttavia le Dichiarazioni svolgono un ruolo assai importante ai fini dello sviluppo internazionale e al suo adeguamento alle

esigenze di solidarietà e di interdipendenza.

Per quanto riguarda il diritto consuetudinario, le Dichiarazioni vengono in rilievo, ai fini della sua formazione, in quanto prassi degli Stati, in quanto somma degli atteggiamenti degli Stati che le adottano, e non come atti dell’ ONU.

Certe dichiarazioni o parti di Dichiarazioni hanno, invece, valore di veri e propri accordi internazionali: sono quelle che non solo

enunciano un principio ma in modo espresso e inequivocabile ne equiparano l'inosservanza alla violazione della Carta.

Poiché l’Assemblea non ha poteri interpretativi sovrani che vincolerebbe tutti gli Stati a quella interpretazione, anche le

Dichiarazioni restano delle mere raccomandazioni.

Hanno però carattere di accordo, come tali vincolano gli Stati che le abbiano approvate, e vengono considerate come accordi

in forma semplificata.

- Sovranità territoriale Abbiamo già accennato che il diritto internazionale si snoda tutt’intorno ai limiti all’uso della forza da parte degli Stati; forza

diretta verso l’esterno e forza diretta verso l’interno dello Stato stesso, la c.d. forza interna che non rappresenta altro che il

potere d’imperio di uno Stato ovunque esso sia esplicato.

Esaminiamo quali sono questi limiti all’uso della forza interna, avendo riguardo soprattutto al diritto consuetudinario.

La sovranità territoriale

La prima e fondamentale norma consuetudinaria in tema di delimitazione del potere di governo dello Stato è quella della

sovranità territoriale. Essa trova le sue origini e il suo consolidamento all’epoca della monarchia assoluta, come una sorta di

diritto di proprietà dello Stato, o meglio del Sovrano, avente per oggetto il territorio. All’epoca, il territorio era tutto: gli individui

erano pertinenze del territorio e il potere dello Stato sulle persone e sulle cose non era altro che una derivazione del potere sul

territorio.

Il tema della “natura giuridica” del territorio è stato sempre molto discusso in dottrina, ma tale discussione non ha potuto

mutare in nessun modo quello che è il vero contenuto della norma internazionale sulla sovranità territoriale e cioè quello che gli

Stati possono fare sul loro territorio e non possono fare sul territorio altrui.

In linea generale possiamo affermare che tale norma attribuisce ad ogni Stato il diritto di esercitare in modo esclusivo il potere

di governo sulla sua comunità territoriale, cioè sugli individui (e sui loro beni) che si trovano nell’ambito territoriale.

D’altra parte lo Stato ha l’obbligo di non esercitare in territorio altrui, senza consenso, il proprio potere di governo. In ogni caso

la violazione della sovranità territoriale si ha solo in caso di presenza fisica.

In altre parole, il potere di governo dello Stato ha, in linea di principio, un potere esclusivo ed assoluto di esercizio della

sovranità.

E’ impossibile non accorgersi, però che man mano che il diritto internazionale si è evoluto, questo potere assoluto si è andato

sempre più restringendo e tutte le norme internazionali compiute fino ad oggi hanno comportato dei limiti sempre più fitti al

potere di governo esplicato nell’ambito del territorio.

Le eccezioni che per prime si sono andate affermando, sia sul piano del diritto consuetudinario che sul piano del diritto pattizio,

sono costituite dalle norme che impongono un certo trattamento degli stranieri, persone fisiche o giuridiche, degli organi

stranieri, degli agenti diplomatici. Molto più importanti però sono i limiti prodotti dalle norme che perseguono valori di giustizia,

di cooperazione e di solidarietà tra i popoli.

La libertà dello Stato nell’ambito del suo territorio è ribadita da alcuni principi del nuovo ordine economico internazionale, molto

cari ai Paesi in sviluppo:

il principio della sovranità permanente dello Stato sulle risorse naturali, principio secondo il quale “ ogni Stato possiede ed

esercita liberamente una sovranità completa e permanente su tutte le sue ricchezze , risorse naturali e attività economiche”;

il principio per cui ogni Stato ha il diritto di scegliere il proprio sistema economico, oltre che i suoi sistemi politici, sociali e

culturali, conformemente alla volontà del suo popolo..”, nonché di “ scegliere i suoi obiettivi e i suoi mezzi di sviluppo, di

mobilitare e di utilizzare integralmente le sue risorse, di operare delle riforme economiche e sociali progressive e di assicurare la

piena partecipazione del suo popolo ai processi di sviluppo”

Per quanto riguarda l’acquisto della sovranità territoriale, vale il criterio della effettività: l’esercizio effettivo del potere di

governo, fa sorgere il diritto all’esercizio esclusivo del potere stesso.

Nonostante i tentativi fatti per limitare la portata del principio dell’effettività sin dall’epoca delle due guerre mondiali per

disconoscere l’espansione territoriale frutto di violenza o di gravi violazioni di norme internazionali, la prassi sembra ancora oggi

sostanzialmente orientata nel senso che l’effettivo e consolidato esercizio del potere di governo su un territorio comunque

conquistato comporti l’acquisto della sovranità territoriale. Tutto ciò che può sostenersi è la formazione di una norma

consuetudinaria che vincola tutti gli Stati a negare gli effetti agli atti di governo emanati su un territorio legittimamente

acquistato e sempre che l’’acquisto sia contestato dalla maggior parta degli Stati della comunità internazionale.

I limiti della sovranità territoriale

I limiti più importanti alla libertà dello Stato di comportarsi come crede nell’ambito del suo territorio sono oggi costituiti dalle

norme internazionali, soprattutto dalle norme convenzionali, che perseguono valori di giustizia, di cooperazione e di solidarietà

tra i popoli.

Con l’affermarsi di suddetti limiti si è andato progressivamente erodendo il c.d. dominio riservato dello Stato, espressione con

cui si intende indicare le materie delle quali il diritto internazionale si disinteressa e rispetto alle quali lo Stato è

conseguentemente libero da obblighi (organizzazione delle funzioni di governo, politica economica e sociale dello Stato etc).

Diritti umani

Le iniziative internazionali dirette a promuovere la tutela della dignità umana ovunque l’individuo si trovi si sono tradotte, oltre

che nelle carte fondamentali quali la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo o l’Atto finale della Conferenza di Helsinki sulla

sicurezza e la cooperazione in Europa, anche nella conclusione di numerose convenzioni.

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali

La Convenzione interamericana sui diritti umani

La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli

I due Patti delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici esui diritti economici.

Tutte queste convenzioni, oltre ad istituire gli organi destinati a vegliare sulla loro osservanza, contengono un catalogo dei diritti

umani che spesso risulta molto più dettagliato i quello delle costituzioni stesse.

Molto estesi sono soprattutto i diritti che tutti gli Stati sono obbligati a riconoscere a tutti gli individui sottoposti al loro potere

senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinione politica: i diritti economici (diritto al lavoro, ad un’equa retribuzione,

alle assicurazioni, alle forme di assistenza sociale…).

Per quanto riguarda i diritti civili e politici ( libertà personale, libertà di pensiero, di coscienza e di religione, di associazione),

questo catalogo risulta ampliato specificato ed arricchito con i divieti che formano oggetto anche del diritto consuetudinario: le

c.d. gross violations.

Infatti la materia dei diritti umani è stata oggetto anche della formazione di norme del diritto consuetudinario, precisamente di

quei principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni Civili che, appunto, protegge un nucleo fondamentale ed irrinunciabile di

diritti umani.

Si tratta del divieto delle gross violations, ossia delle violazioni gravi e generalizzate cui si è soliti riportare quelle pratiche di

governo particolarmente disumane ed efferate come l’apartheid, la distruzione di gruppi etnici, razziali o religiosi ( genocidio) la

tortura, i trattamenti disumani, le pulizie etniche, le sparizioni di prigionieri politici e simili.

Sulla contrarietà di siffatte pratiche allo jus cogens internazionale concordano tutti gli Stati.

L’obbligo degli Stati di rispettare i diritti umani è fondamentalmente un obbligo negativo, o di astensione. Gli organi statali sono

tenuti ad astenersi dal ledere tlai diritti e dal compiere gross violations. Ma il rispetto dei diritti umani costituisce anch el’oggetto

di un obbligo positivo o di protezione perché lo Stato deve vegliare affinché sul suo territorio non siano commesse violazioni di

tali diritti umani, prendendo tutte le misure necessarie idonee secondo standards di comune diligenza a prevenire e a reprimere

dette violazioni.

Crimini internazionali Con il tema dei diritti umani si intreccia la punizione dei crimini internazionali. La caratteristica fondamentale delle norme sia

generali che convenzionali che disciplinano tali crimini è che esse danno luogo ad una responsabilità propria delle persone

fisiche che ricommettono; si tratta quindi di norme che vengono considerate come regole che direttamente si indirizzano agli

individui concorrendo alla formazione della soggettività internazionale di questi ultimi.

La comunità internazionale sta tentando di attuare la punizione di questi crimini attraverso l’istituzione dei tribunali

internazionali, ma si tratta di tentativi svolti in misura assai limitata. La punizione è quindi in larga parte affidata ai tribunali

interni, nell’esercizio della sovranità territoriale.

I crimini internazionali possono essere distinti ,secondo una ripartizione che risale all’Accordo di Londra del 1945, in:

Crimini contro la pace

Crimini contro l’umanità

Crimini di guerra

Un elenco dettagliato è contenuto negli artt. 5-8 dello Statuto della Corte penale internazionale, Statuto adottato a Roma il

17.07.1998 sotto forma di convenzione internazionale da una conferenza di Stati, che però non è ancora entrato in vigore.

Lo Statuto prevede 4 tipi di crimine:

1. il genocidio

2. crimini contro l’umanità

3. crimini di guerra

4. crimine di aggressione.

Il Genocidio (art 6) è la distruzione totale o parziale di un gruppo etnico, razziale e religioso, mentre ai crimini contro l’umanità (

art 7) vengono riportati atti quali omicidio, riduzione in schiavitù, deportazione o trasferimento forzato di popolazioni, privazione

di libertà, tortura, violenza carnale, prostituzione forzata ed altre forme di violenza sessuale, persecuzioni per motivi politici,

razziali, religiosi, di sesso etc., sparizione forzata di persone apartheid , altri atti disumani o simili capaci di causare sofferenze

gravi di carattere fisico o psichico.

Tra i crimini di guerra lo Statuto (art 8) si riferisce a tutta una serie di atti specifici del tempo di guerra come la violazione delle

convenzioni di Ginevra sul diritto umanitario di guerra, l’arruolamento forzato dei prigionieri di guerra, la presa di ostaggi, gli

attacchi contro popolazioni e obiettivi civili. Questi atti però per poter essere considerati crimini internazionali individuali, devono

far parte, secondo lo Statuto di un programma politico o cmq aver luogo su vasta scala.

Circa, infine, i crimini contro la pace, lo Statuto rinuncia a dare dell’aggressione una definizione, rinviandola alla modifica dello

Statuto.

Una precisazione: normalmente, l’individuo che commette un crimine internazionale è un organo del proprio Stato, Soltanto gli

Stati infatti sono capaci di produrre attacchi estesi e sistematici contro una popolazione civile; ciò comporta che quando è

commesso un crimine contro l’umanità ne consegue una duplice responsabilità internazionale dello Stato e dell’individuo organo.

Non è escluso, tuttavia, che crimini contro l’umanità, e quindi atti che provochino sofferenze gravi e facciano parte di un attacco

“esterno e sistematico”, possano essere commessi da gruppi di privati, non agenti quali organi di uno Stato determinato. E’

questo il caso degli atti di terrorismo commessi soprattutto negli ultimi anni a partire dall’atto più clamoroso a New York e a

Washington che ha scatenato una grave crisi internazionale.

Il concetto di terrorismo designa una complessa realtà fenomenologia in cui il terrore è certamente il fondamento non solo

etimologico, ma anche sostanziale, del fenomeno. La finalità principale dei gruppi terroristici è, infatti, quella di porre in essere

azioni violente tali da generare uno stato di panico, di timore collettivo, creando al tempo stesso una notevole sfiducia nelle

capacità degli organi istituzionali di garantire l'incolumità pubblica.

Infatti, il terrorismo è qualcosa di più della semplice violenza, che presuppone solo due parti: un aggressore ed una vittima.

Esso implica anche una terza parte, che si vuole intimidire mostrandole quello che accade alla vittima.

A parte la responsabilità internazionale individuale e la punizione dei componenti del gruppo terroristico, si discute se l’attacco

alle torri debba essere considerato come un atto di guerra, in conformità alla tesi sostenuta dagli Stati Uniti, che giustifichi la

risposta armata.

E’ dubbio invece, e gran parte della comunità vi è contraria, che singoli atti terroristici, o atti che si inquadrino nel principio di

autodeterminazione dei popoli, siano qualificabili come crimini contro l’umanità.

Ma in che cosa la punizione dell’individuo, che ha commesso un crimine internazionale, differisce dalla punizione di un criminale

comune quando a punirlo è una Corte Interna?

Il principio che si è affermato a riguardo è quello dell’universalità della giurisdizione statale: si ritiene che ogni Stato

possa procedere alla punizione ovunque il crimine sia stato commesso.

Normalmente la giurisdizione penale è esercitatile per quei reati che presentano un collegamento con lo Stato del giudice

(collegamento che è dato dalla circostanza che il reato sia stato commesso nel territorio di tale Stato - principio della

territorialità della legge penale -)

Tale principio di territorialità viene temperato prevedendosi la possibilità di punire alcuni crimini più gravi quando questi siano

commessi dal cittadino (o dallo straniero) all’estero.

Per quanto riguarda il diritto internazionale generale, la regola è che, mentre lo Stato è libero di esercitare la giurisdizione sui

suoi cittadini, lo straniero può essere giudicato solo se sussiste un collegamento con lo Stato del giudice. Questa limitazione ,

però, viene meno quando si tratta di un crimine internazionale. La ratio è che lo Stato che punisce un crimine persegue un

interesse che è di tutta la comunità internazionale. La punizione dei crimini internazionali può inoltre aver luogo anche quando il

colpevole sia stato catturato all’estero, violandosi la sovranità territoriale dello Stato in cui questo si trovava. Lo Stato è inoltre

libero di escludere che tali crimini cadano in prescrizione.

Lo Stato infine può limitarsi a concedere l’estradizione ad uno Stato che intende punire il criminale.

Diritto internazionale economico Numerosi sono i limiti che la sovranità territoriale incontra nel diritto internazionale economico, disciplina che trova i suoi

momenti di maggior interesse nella parte che riguarda i rapporti tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo.

Però occorre sottolineare che il diritto internazionale economico è quello tra i settori che in passato rientravano nel dominio riservato degli Stati e che è il settore in cui norme di diritto consuetudinario sono assenti, essendo un settore dominato dalle norme convenzionali. Una serie di principi sono stati enunciati dall’assemblea generale delle Nazioni Unite, dall’UNCTAD e da altri organi dell’ONU o di

altre organizzazioni internazionali, come i principi sulla cooperazione per lo sviluppocontenuti nella Dichiarazione sul

nuovo ordine economico internazionale, nella Carta dei diritti e doveri economici , nella Dichiarazione sulla rivitalilizzazione dei

Paesi in sviluppo e infine nella Dichiarazione della Conferenza di Rio su ambiente e sviluppo.

Si tratta di principi di carattere programmatico che descrivono come i rapporti tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo

debbano essere convenzionalmente regolati. E’ proprio sulla base di questi principi che si è formata tutta una rete di

convenzioni bilaterali e multilaterali, finalizzata alla cooperazione allo sviluppo, rete che ha posto limiti alla libertà degli Stati di

regolare i rapporti economici come credono.

Oltre agli accordi di cooperazione e sviluppo, l materia è limitata da numerossissimi accordi tendenti alla liberalizzazione del

commercio internazionale, in particolare all’abbattimento degli ostacoli alla libera circolazione delle merci dei servizi e dei capitali

all’integrazione delle economie statali su scala regionale.

E’ importante ribadire che, nella materia economica, il potere di governo dello Stato non incontra altri limiti di diritto

consuetudinario se non quelli relativi al trattamento degli interessi economici degli stranieri.

In realtà alcuni tentativi sono stati fatti in dottrina per individuare altri limiti di carattere generale e i più interessanti tentativi

sono quelli che si riferiscono alla irrogazione di sanzioni in base alla legislazione antitrust o alla legislazione riguardante il

commercio internazionale. Si sono così affermate diverse teorie in base alle quali lo Stato non debba cmq interferire negli

interessi economici essenziali stranieri, oppure che tali interessi debbano essere oggetto di una ponderazione, o infine che

ciascuno Stato debba esercitare il proprio potere nella materia entro “ragionevoli limiti”.

Tutto ciò è stato detto per reagire soprattutto alla pretesa degli Stati Uniti , manifestatasi soprattutto nel campo della

legislazione antitrust ed in quello del boicottaggio del commercio verso i Paesi non amici, ad imporre obblighi alle imprese di

tutto il mondo , ovviamente con la minaccia di colpirne beni ed interessi in territorio statunitense. Una simile pretesa ha però

sempre incontrato l’opposizione degli altri Stati e in particolare dell’Unione europea. Si tratta di una pretesa condannabile come

fenomeno di imperialismo, quanto meno giuridico.

In tema di protezione dell’ambiente vengono in rilievo i limiti alla libertà di sfruttamento delle risorse naturali del territorio, onde

ridurre i danni causati dalle attività inquinanti o capaci di produrre distruzioni di risorse irrimediabili.

Anzitutto ci si chiede se la libertà di sfruttamento incontra limiti di carattere consuetudinario.

Il problema si è posto anzitutto nel quadro dei rapporti di vicinato, soprattutto per quel che riguarda l’utilizzazione dei fiumi

internazionali e alle immissioni di fumi e sostanze tossiche dovute ad attività industriali poste in prossimità dei confini. Il

principio n. 21 della Dichiarazione adottata a Stoccolma nel 1972 ,dalla conferenza di Stati sull’ambiente umano e ripreso nella

Dichiarazione di Rio del 92, ha affermato che “…gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse naturali

conformemente alla loro politica sull’ambiente e hanno l’obbligo di assicurarsi che le attività esercitate entro i limiti della loro

sovranità non siano danni all’ambiente di altri Stati…”. Tali dichiarazioni però, non hanno di per sé carattere vincolante. Può dirsi

che l’obbligo che sanciscono corrisponde al diritto consuetudinario internazionale, ma il Conforti è dell’opinione che sia assai

azzardato ricostruire norme di diritto generale che impongano allo Stato obblighi precisi relativamente agli usi nocivi del

territorio. Forse può anche affermarsi che vi sia un obbligo di informare gli altri Stati dell’imminente pericolo di incidenti , ma

per il resto mancano punti di riferimento tali da giustificare la conclusione che gli Stati si sentano effettivamente vincolati a

impedire l’uso nocivo del territorio.

L’unico caso citabile a favore di un ipotetico vincolo è quello relativo alla Fonderia di Trail e alla sentenza arbitrale emessa nel

1941 tra Stati Uniti e Canada in cui si affermava che “ Secondo i principi di diritto internazionale nessuno Stato ha il diritto di usare o permettere che si usi il proprio territorio in modo tale da provocare danni al territorio di un altro Stato o alle persone e ai beni che vi si trovino…”

L’importanza di tale sentenza va molto ridimensionata nel momento in cui si considera che Stati Uniti e Canada erano d’accordo

nel senso di un risarcimento. Ad ogni modo si tratta di un caso circoscritto sul quale nn è possibile costruire un obbligo, anche

perché in questi casi gli Stati sono sempre restii ad ammettere la loro responsabilità e laddove si provvede ad un qualche

indennizzo alle vittime, si ha sempre cura di sottolineare il carattere cortese e generoso dell’indennizzo stesso.

Per quanto riguarda il diritto pattizio, invece, gli accordi sia bilaterali che multilaterali si moltiplicano sempre di più. Tuttavia è

raro che simili accordi comminino dei divieti precisi. Le convenzioni si limitano a stabilire obblighi di cooperazione, di

informazione e di consultazione tra le parti contraenti ispirandosi ai criteri dello sviluppo sostenibile, della responsabilità

intergenerazionale e dell’approccio precauzionale.

Il trattamento degli stranieri Due sono i principi fondamentali in materia di trattamento degli stranieri.

1. Il primo prevede che allo straniero non possano imporsi prestazioni, e più in generale non possano richiedersi

comportamenti che non si giustifichino con un sufficiente “attacco” dello straniero stesso con la comunità territoriale. In

altre parole, l’intensità del potere di governo sullo straniero e sui suoi beni deve essere proporzionata all’intensità dell’

”attacco sociale”.

2. Il secondo prevede il principio dell’obbligo di protezione dello straniero secondo il quale lo Stato deve predisporre misure

idonee a prevenire e a reprimere le offese contro la persona o i beni dello straniero, l’idoneità essendo commisurata a

quanto di solito si fa per tutti gli individui (sudditi quindi compresi) in uno Stato civile, cioè in uno Stato “il quale provveda

normalmente hai bisogni di ordine e sicurezza della società sottoposta al suo controllo”. Per quanto riguarda le misure

preventive esse devono essere adeguate alle circostanze relative ad ogni singolo caso concreto. Per quello che riguarda le

misure repressive, occorre che lo Stato disponga di un normale apparato giurisdizionale innanzi al quale lo straniero

possa var valere le proprie pretese ed ottenere giustizia. Si chiama diniego di giustizia l’eventuale illecito in questa

specifica materia.

Su questi due principi si innestano le rivendicazioni dei Paesi in sviluppo aventi per oggetto la sovranità permanente sulle risorse

naturali, nell’ambito degli investimenti stranieri. Non è possibile non tener conto di queste rivendicazioni, piuttosto si deve

fare ogni sforzo per attuare una sintesi tra le posizioni. In particolare può farsi capo all’art. 2 lett. A e B della Carta dei diritti

economici degli Stati secondo cui ogni Stato sarebbe libero di disciplinare gli investimenti “in conformità alle sue leggi e

regolamenti ed alle priorità ed obiettivi nazionali di politica economica e sociale” e di adottare tutte le misure necessarie affinché

tale disciplina sia rispettata in modo particolare dalle multinazionali. Una simile regola, il cui scopo è quello di evitare gli abusi,

può essere considerata come l’attuale regola generale di diritto internazionale in materia di investimenti.

Nella materia del trattamento degli investimenti stranieri va inquadrato il problema della disciplina internazionalistica

delle espropriazioni e delle altre misure restrittive di proprietà, diritti e interessi degli stranieri.

Il problema si è posto soprattutto con riguardo alle nazionalizzazioni nella seconda metà del secolo scorso. Attualmente la

prassi delle nazionalizzazioni si va esaurendo ma il problema continua ad avere tutta la sua importanza con riguardo alle altre

misure che interferiscono nel godimento dei beni degli stranieri. In realtà nessuno dubita dell’assoluta libertà dello Stato di

operare espropriazioni e nazionalizzazioni dei beni stranieri, né tantomeno del fatto che il passaggio allo Stato dei beni debba

essere sorretto dal motivo della pubblica utilità.

L’unica importante questione è quella che riguarda l’indennizzo che, secondo la correte di pensiero prevalente, sarebbe dovuto,

alla luce del fatto che nessuno Stao si è mai schierato contro tale obbligo, che lo stesso è riconosciuto dalla Dichiarazione di

principi sulla sovranità permanente sulle risorse naturali del 1962, e che la corresponsione si ricollega a quella di equa

remunerazione del capitale, l’unico limite allo Stato in materia di investimenti stranieri.

In realtà molta confusione si è creata circa le modalità di pagamento e circa il quantum dovuto.

In definitiva, con riguardo all’espropriazione esso dovrebbe sempre essere: pronto, adeguato ed effettivo.

Per quanto riguarda le nazionalizzazioni esso dev’essere corrisposto onde nn produrre un indebito arricchimento a danno delle

compagnie straniere espropriate, ma nel calcolarlo, si deve anche tener conto dell’indebito arricchimento derivato alle

compagnie stesse dai superprofitti conseguiti per effetto dello sfruttamento delle risorse locali.

Agli stessi principi si ispira l’art 2 della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati che, pur riconoscendo il dovere di

indennizzare, prevede che lo Stato nazionalizzante determini l’indennità “sulla base delle sue leggi, dei suoi regolamenti e di

ogni circostanza che esso giudichi pertinente”.

A questo stesso tema si riallaccia il problema del rispetto dei debiti pubblici contratti con gli stranieri dallo Stato predecessore

(nei casi di distacco, smembramento etc…). La dottrina classica era favorevole alla successione del debito pubblico, ma il nuovo

indirizzo tende a seguire i principi valevoli per la successione dei trattati: si ammette la successione per i debiti localizzabili e

non per quelli generali dello Stato predecessore, salvo un accollo convenzionalmente stabilito.

Nessun limite è previsto dal diritto internazionale per quanto riguarda l’ammissione e l’espulsione degli stranieri essendo valida

in pieno la norma sulla sovranità territoriale, che permette allo Stato la piena libertà di stabilire la propria politica nel campo

dell’immigrazione e di ordinare a stranieri di abbandonare il proprio territorio.

Tuttavia, limiti particolari in tema di espulsione vengono dati dalle convenzioni sui diritti umani. L’art. 3 della Convenzione delle

Nazioni Unite contro la tortura o altri trattamenti crudeli, disumani o degradanti del 1984 , obbliga gli Stati a non estradare o

espellere una persona verso Paesi in cui questa rischia di essere sottoposta a tortura. A questo va aggiunto l’art 8 della

Convenzione che prevede il rispetto della vita familiare, quando l’espulsione comporterebbe una ingiustificata e sproporzionata

rottura della vita familiare.

Se lo Stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri compie un illecito internazionale nei confronti dello Stato al

quale lo straniero appartiene. Pertanto, lo Stato della parte maltrattata potrà esercitare la c.d. PROTEZIONE DIPLOMATICA ,

ossia assumere la difesa del proprio suddito sul piano internazionale: egli potrà agire con proteste, proposte di arbitrato,

minacce di contromisure contro lo Stato territoriale, al fine di ottenere la cessazione della violazione ed il risarcimento del danno

causato al proprio suddito.

Prima però che lo Stato agisca in protezione diplomatica occorre che lo straniero abbia esaurito tutti i rimedi previsti

dall’ordinamento dello Stato territoriale, purchè adeguati ed effettivi, secondo la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni.

Finchè tali rimedi esistono, e dunque lo Stato territoriale ha la possibilità di eliminare l’azione illecita o di fornire una riparazione

adeguata alla straniero, le norme sul trattamento dello straniero nn possono considerarsi violate (natura sostanziale della

regola). L’istituto ha oggi una posizione residuale, anche nel senso che non devono esserci altri rimedi internazionali efficaci

azionabili dagli Stati stranieri stessi.

Occorre aggiungere che lo Stato che agisce in protezione diplomatica è titolare esclusivo di questo diritto. Pertanto, egli potrà in

ogni momento rinunciare ad agire, sacrificare l’interesse del suddito ad altri interessi, transigere, etc…

Va ancora notato, che l’istituto di protezione diplomatica è oggetto di contestazione, limitatamente ai rapporti economici facenti

capo a stranieri, da parte di Stai in sviluppo. Questi si rifanno alla dottrina Calvo, dottrina che prende il nome

dall’internazionalista argentino che l’abbozzò nel secolo scorso come risposta contro la pretesa degli Stati europei di intervenire

militarmente nei paesi dell’America Latina col pretesto di proteggere i propri sudditi, e secondo la quale le controversie in tema

di trattamento degli stranieri sarebbero di esclusiva competenza del Tribunale locale. Ad una simile dottrina si sono sempre

ispirati gli Stati latino americani, inserendo nei contratti con le imprese straniere una clausola di rinuncia di queste ultime alla

protezione del proprio Stato.

Gli agenti diplomatici Particolari limiti alla potestà di governo nell’ambito del territorio sono previsti dal diritto consuetudinario per quanto riguarda gli

agenti diplomatici. Essi si concretano nel rispetto delle c.d. immunità diplomatiche che riguardano gli agenti diplomatici presso

lo Stato territoriale e accompagnano l’agente nel momento in cui esso entra nel territorio dello Stato per esercitarvi le sue

funzioni, sino al momento in cui ne esce.

La materia è regolata dalla Convenzione di Vienna del 1961 in vigore dal 1965 e ratificata da un numero rilevante di Stati tra cui

L’Italia.

La presenza dell’agente è come quella di qualsiasi straniero, in tutto e per tutto subordinata alla volontà dello Stato territoriale,

volontà che si esplica per quanto riguarda l’ammissione, attraverso il gradimento e, per quanto riguarda l’espulsione, attraverso

la c.d. consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare entro un certo tempo, il Paese.

1. Inviolabilità personale: L’agente diplomatico deve essere innanzitutto protetto contro le offese alla sua persona mediante

particolari misure preventive e repressive. Questa inviolabilità consiste anche e soprattutto nella sottrazione del

diplomatico straniero a qualsiasi misura di polizia diretta contro la sua persona.

2. Inviolabilità domiciliare: intendendosi per domicilio sia la sede diplomatica sia l’abitazione privata dell’agente.

3. Immunità dalla giurisdizione penale e civile: a tal proposito bisogna distinguere tra atti compiuti dal diplomatico in quanto

organo dello Stato e atti da lui compiuti come privato. I primi sono coperti da quella che viene chiamata immunità

funzionale: il diplomatico non può essere citato in giudizio per rispondere penalmente o civilmente degli atti compiuti

nell’esercizio delle sue funzioni. Tale immunità è prevista sia per garantire all’agente diplomatico l’indisturbato esercizio

della sua attività e sia dalla circostanza che simili atti non sono imputabili a lui come individuo, ma allo Stato straniero.

Anche gli atti che l’agente compie come privato sono immuni dalla giurisdizione civile e penale (immunità personale),

salvo, per quel che riguarda la giurisdizione civile, le azioni reali e successorie o quelle riguardanti attività commerciali

dell’agente. Tuttavia, una volta che la sua qualità di agente sia venuta meno, egli potrà essere sottoposto a giudizio

anche per gli atti compiuti quando egli rivestiva la carica.

4. Immunità fiscale: sussiste esclusivamente per le imposte dirette personali

Tali immunità però, spettano anche:

Ai capi missione

A tutto il personale diplomatico delle missioni

Alle famiglie degli agenti e di coloro che fanno parte del personale

Ai capi di Stato

Ai Capi di Governo

Ai Ministri degli Esteri

Il trattamento degli Stati stranieri Il principio più classico e conosciuto è quello della “non ingerenza negli affari di altri Stati”, ma la cui vera portata non è

altrettanto precisata e circoscritta. In realtà il principio è venuto via via perdendo la sua sfera di autonoma sfera di applicazione

con l’affermarsi di altre e più importanti regole generali che ne hanno assorbito il contenuto. La più importante è quella

costituita dal divieto di minaccia o di uso della forza, ma vengono in rilievo anche gli interventi dello Stato diretti a condizionare

le scelte di politica interna e internazionale di un altro Stato (si pensi alle misure di carattere economico). Anche se è difficile

indicare quando tali interventi si verificano, in linea di principio si può affermare che esse devono considerarsi come vietate

qualora siano contemporaneamente e sistematicamente prese, ed inoltre abbiano come unico scopo quello di influire sulle scelte

dello Stato straniero e non siano cioè dirette a reagire contro comportamenti illeciti.

E’ opportuno precisare che nel principio di non ingerenza non rientrano le manifestazioni di condanna o di critica del sistema

politico o del regime economico e sociale di uno Stato straniero, fatta eccezione chiaramente per quegli atti politici di

propaganda sovversiva e terroristica.

Un problema interessante in tema di trattamento degli Stati stranieri è se questi siano assoggettabili alla giurisdizione civile dello

Stato territoriale.

Il Diritto Internazionale classico era favorevole alla cosiddetta immunità assoluta degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile

secondo il principio “par in parem non habet iudicium”.

Oggi, grazie alla giurisprudenza italiana e belga si è verificata un’inversione di tendenza verso quella che si è chiamata

“immunità ristretta o relativa”.

Secondo tale teoria l’esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile è limitata agli atti jure imperii (quelli mediante i quali

si esplica la funziona pubblica dello Stato) mentre per gli atti jure privatorum (cioè a carattere privatistico) non sussisterebbe.

La distinzione tra questi atti non è sempre di facile applicazione. Il diritto consuetudinario lascia un ampio spazio all’interprete e

in particolare al giudice interno. Inoltre si può sostenere che in caso di dubbio debba sempre concludersi a favore dell’immunità.

Uno dei campi in cui tale distinzione rileva maggiormente è quello relativo alle controversie di lavoro in particolare riferimento al

lavoro presso ambasciate ecc. dove è piuttosto difficoltoso stabilire quali aspetti del rapporto di lavoro stesso debbano essere

considerati per classificarli come pubblicistici o privatistici ai fini dell’immunità.

Secondo la Convenzione europea sull’immunità degli Stati se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato straniero che lo recluta,

l’immunità sussiste in ogni caso; se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato territoriale, o quivi risieda abitualmente pur

essendo cittadino di terzo Stato, e il lavoro deve essere prestato nel territorio, l’immunità è esclusa.

Il trattamento delle organizzazioni internazionali Per quanto riguarda il trattamento dei funzionari delle organizzazioni internazionali non esistono norme consuetudinarie che

impongano agli Stati di concedere loro particolari immunità, e tanto meno le immunità diplomatiche; sicché solo mediante

convenzione lo Stato può essere obbligato in tal senso.

Lo Stato nel cui territorio opera ufficialmente un funzionario internazionale che non abbia la sua nazionalità, è tenuto a

proteggerlo con le misure preventive e repressive previste dalle norme consuetudinarie sul trattamento degli stranieri.

Ci si chiede poi se sussista un obbligo di protezione anche nei confronti dell’organizzazione internazionale cui il funzionario

appartiene.

Allo stato attuale la risposta è affermativa, ma tale protezione può riguardare solo il risarcimento dei danni causati

all’organizzazione in quanto tale e non di quelli recati all’individuo.

Inoltre, nei limiti in cui gli Stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale, lo sono anche le

Organizzazioni internazionali. L’immunità delle organizzazioni dalla giurisdizione può anche essere prevista da una norma

consuetudinaria essendo tante le sentenze che l’hanno ammessa.

Diritto internazionale marittimo La materia del Diritto Internazionale Marittimo ha formato oggetto di due successive, importanti conferenze di codificazione, la

Conferenza di Ginevra del 1958 e la Terza Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare tenutasi tra il 1974 e il 1982

La Conferenza di Ginevra del 1958 produsse 4 convenzioni:

la convenzione sul mare territoriale e la zona contigua,

la convenzione sull’alto mare,

la convenzione sulla pesca e conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare,

la convenzione sulla piattaforma continentale.

Inoltre nel 1982 è stata firmata a Montego Bay una nuova convenzione per la ricodificazione del Diritto Internazionale Marittimo

(ben 320 articoli) che è entrata in vigore soltanto nel novembre del 1994 ed è stata integrata da un "Accordo applicativo” che

modifica la sua parte XI relativa al regime delle risorse sottomarine al di là del limite della giurisdizione nazionale. Il motivo di

tanto ritardo era proprio il rifiuto degli Stati industrializzati di vincolarsi alla parte XI così come redatta a Montego Bay perché

molto sbilanciata per i Paesi industrializzati. Con l’adozione dell’Accordo applicativo molte sue norme innovative sono state

accettate da tutti i Governi.

Secondo l’art 311 della Convenzione, questa sostituisce le 4 precedenti di Ginevra.

Per vari secoli il diritto internazionale marittimo è stato dominato dal principio classico della “libertà dei mari”. Essa significa che il singolo Stato non può impedire e neanche soltanto intralciare l’utilizzazione degli spazi marini da parte degli

altri Stati né delle comunità che da altri Stati dipendono. L’utilizzazione degli spazi marini, che viene così a tutti garantita,

incontra il limite che consiste nella pari libertà altrui.

In contrapposizione al principio della libertà dei mari si è sempre manifestata la pretesa degli Stati ad assicurarsi un certo

controllo delle acque adiacenti alle proprie coste, ma tale principio ha avuto la meglio sul principio di libertà dei mari solo alla

fine del secolo scorso, quando la tendenza si è invertita ricevendo una tutela nel diritto internazionale senza precedenti.

Anzitutto si è andato diffondendo nella prassi la figura del mare territoriale inteso come una zona sottoposta al regime del

territorio dello Stato.

Gli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale hanno visto una estensione dei poteri dello Stato

costiero, con la generale accettazione della dottrina presentata dal Presidente Truman in un proclama famoso del 1945

sulla piattaforma territoriale: tale proclama rivendicava il controllo degli Stati Uniti sulle risorse della piattaforma, vale a dire

quella parte del fondo e del sottosuolo marino, che costituisce il prolungamento della terra emersa.

Dagli inizi degli anni 80, infine, la prassi si è orientata a favore di un nuovo istituto, propugnato inizialmente dai Paesi

dell’America Latina e poi dalla più gran parte dei Paesi in sviluppo, costituito dalla zona economica esclusiva, estesa fino e

200 miglia marine dalla costa: tutte le risorse del sottosuolo e delle acque sovrastanti sono così considerate di pertinenza dello

Stato.

Ma le pretese non si sono fermate qui: alcuni Stati come il Cile, l’Argentina e il Canada hanno cominciato a voler dichiarare di

voler tutelare il loro interessi in materia di conservazione della specie ittica in alto mare anche al di là delle rispettive zone

economiche esclusive. Si è a tal punto, coniato un nuovo termine, il c.d. mare presenziale, per indicare appunto la necessità

della presenza dello Stato costiero ai fini della lotta contro la depredazione della fauna marina. Sebbene questo istituto abbia

incontrato l’opposizione fino ad oggi degli altri Stati, nulla vieta che in futuro potrebbe ricevere un eventuale riconoscimento.

IL MARE TERRITORIALE: è, secondo il diritto consuetudinario, sottoposto alla sovranità dello Stato così come i territori di

terra ferma. L’acquisto della sovranità è automatico: la sovranità esercitata sulla costa implica la sovranità sul mare territoriale.

L’art 2 della Convenzione di Montego Bay stabilisce che: “La sovranità dello Stato si estende, al di là del suo territorio e delle

sue acque interne…a una zona di mare adiacente alle coste denominata mare territoriale”

Esso, ai sensi dell’art 3 della stessa Convenzione, può estendersi fino ad un massimo di 12 miglia marine dalla costa.

Secondo una dottrina formatasi nel periodo tra le due guerre, lo Stato costiero avrebbe il diritto di esercitare poteri di vigilanza doganale in una zona contigua al mare territoriale. Tale dottrina venne recepita dall’art 24 della Convenzione di Ginevra del

1958 e poi trasferita nell’art 33 della Convenzione di Montego Bay il quale recita: in una zona d’alto mare contigua al suo mare

territoriale, lo Stato costiero può esercitare il controllo necessario, in vista

a. di prevenire la violazione delle proprie leggi di polizia doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione

b. di reprimere le violazioni alle stesse leggi, qualora siano commesse sul suo territorio o nel suo mare territoriale.

Lo stesso art. 33 fissa a 24 miglia marine la larghezza massima della zona contigua.

Per quel che riguarda l’Italia, la legge 24.08.1974 n. 359, articolo unico ha modificato l’art 2 del codice della navigazione

estendendo il nostro mare territoriale a 12 miglia.

Ma da quali punti della costa si misura la distanza di 12 miglia? L’art.5 della Convenzione fissa il principio generale secondo cui

la base di misurazione del mare territoriale è data dalla linea di bassa marea. Più importante, però è l’art. 7 che riconosce la

possibilità di derogare a tale principio ricorrendosi al sistema delle linee rette. Secondo tale sistema, la linea di base del mare

territoriale è segnata seguendo le sinuosità della costa ma congiungendo i punti sporgenti di questa, o se vi sono isole o scogli

in prossimità congiungendo le estremità di questi, o ancora, in presenza di caratteristiche naturali che rendano la costa

instabile, unendo i punti più avanzati.

La sporgenza massima utilizzabile deve essere stabilita seguendo un criterio piuttosto elastico previsto dallo stesso art. 7 : “la linea di base nn deve discostarsi in misura apprezzabile dalla direzione della costa” e inoltre” le acque situate all’interno della linea devono essere sufficientemente legate al dominio terrestre per essere sottoposte al regime delle acque interne”.

Ancora, si può tener conto degli interessi economici attestati da un lungo uso delle regioni costiere.

Altra norma importante è l’art. 10 della Convenzione riguardante le baie.

Secondo i par. 4 e 5 dell’articolo, se la distanza fra i punti naturali d’entrata della baia nn supera le 24 miglia, si traccia una linea

retta che congiunge detti punti e il mare territoriale viene misurato a partire da questa linea, considerando le acque della baia

come acque interne; se la distanza eccede le 24 miglia, si traccia all’interno della baia un alinea retta di 24 miglia in modo tale

da lasciare come acque interne la maggior superficie di mare possibile.

E’ importante precisare che l’art 2 della convenzione considera come baie solo le insenature che penetrino in profondità nella

costa, la cui superficie si almeno eguale o superiore a quella di un semicerchio dal diametro di 24 miglia.

L’art. 10 par. 6 parla invece delle c.d. “baie storiche” , cioè quelle baie sulle quali lo Stato costiero può vantare diritti esclusivi

consolidatesi nel tempo grazie all’acquiescenza di altri Stati. Tali baie sono da considerare come acque interne

indipendentemente dalla loro superficie. (baie di Chaleur, Chesapeake, Delaware…)

Molto importante è focalizzare un concetto: la determinazione della linea di base non è tanto importante ai fini della misurazione

del mare territoriale, quanto ai fini della misurazione delle zone le cui risorse sono di pertinenza dello Stato costiero.

Spostandosi verso il largo, aumenta la possibilità di accaparramento di queste risorse. Ciò spiega perché molti Stati hanno

provveduto alla “chiusura” di molte baie negli ultimi anni.

Per quel che riguarda i poteri dello Stato sul mare territoriale, questi sono , in linea di principio gli stessi poteri esercitati

nell’ambito del territorio, ovviamente con le limitazioni che si accompagnano alla sovranità territoriale.

Il primo limite è costituito dal c.d. passaggio inoffensivo o innocente da parte delle navi straniere di cui si occupano gli artt. 17

ss. della Convenzione di Montego Bay.

Ogni nave ha il diritto al passaggio inoffensivo nel mare territoriale, sia per traversarlo, sia per entrare nelle acque interne, sia

per prendere il largo provenendo da queste e purchè il passaggio sia “continuo e rapido”.

L’art 19, inoltre, definisce il passaggio inoffensivo come quello che “ nn reca pregiudizio alla pace, al buon ordine o alla

sicurezza dello Stato costiero” precisando, allo stesso tempo, i casi (uso della forza, esercizi o manovre con armi, propaganda

ostile, inquinamento, pesca, etc) in cui il passaggio nn può considerarsi inoffensivo.

Se il passaggio non è inoffensivo, lo Stato costiero può prendere tutte le misure atte ad impedirlo. Eccezionalmente lo Stato

costiero può anche chiudere al traffico per motivi di sicurezza. (art. 25 )

Un altro limite che può considerarsi come tuttora osservato dalla prassi, riguarda l’esercizio della giurisdizione penale sulle navi

straniere. La giurisdizione penale non può essere esercitata in ordine a fatti puramente interni alla nave straniera, cioè a fatti

che nn abbiamo alcuna ripercussione nell’ambito esterno e che nn siano idonea a turbare il normale svolgimento della vita della

comunità territoriale. Su questo punto la Convenzione si discosta dal diritto consuetudinario, perché l’art. 27 si limita a

prescrivere che lo Stato costiero “non dovrebbe” esercitare la giurisdizione sui fatti interni, lasciando allo Stato la decisione se

esercitare o meno la propria potestà punitiva.

LA PIATTAFORMA CONTINENTALE: la sua disciplina è contenuta negli artt. 76 ss. della Convenzione di Montego Bay. Fermo

restando la libertà di tutti gli Stati di utilizzare le acque e lo spazio atmosferico sovrastanti (art 78), lo Stato costiero ha il diritto

esclusivo di sfruttare tutte le risorse della piattaforma (art 77), intesa come quella parte del suolo marino contiguo alle coste

che costituisce il naturale prolungamento della terra emersa e che pertanto si mantiene ad una profondità costante (200 m

circa) per poi precipitare o degradare negli abissi.

Il diritto esclusivo di esercitare il potere di governo sulle attività di sfruttamento, viene acquistato in modo automatico a

prescindere da qualsiasi occupazione effettiva della piattaforma (art. 77). Tale diritto, inoltre, ha natura funzionale: lo Stato può

esercitare il proprio potere di governo solo nella misura strettamente necessaria per controllare e sfruttare le risorse della

piattaforma.

Un problema importante è quello che riguarda la delimitazione della piattaforma tra Stati che si fronteggiano o fra Stati contigui.

La Convenzione di Ginevra risolveva il problema ricorrendo al criterio dell’equidistanza. Tale criterio consiste nel tracciare una

linea i cui punti siano equidistanti dalle rispettive linee di base del mare territoriale. Tuttavia, una sentenza importantissima che

costituisce una delle pietre miliari nella materia, la sent. Del 1969 della Corte Intern. di Giustizia, decretò che il criterio

dell’equidistanza nn era imposto dal diritto consuetudinario. Pertanto, la delimitazione poteva essere effettuata soltanto

mediante accordo tra gli Stati interessati, ma sempre secondo principi di equità. Quest’ultima affermazione appare, al Conforti,

priva di senso. Infatti subordinare l’accordo all’equità è insignificante poiché nel momento in cui un accordo viene concluso,

esso resta cmq valido, equi o iniqui i suoi criteri. Occorre affermare, pertanto, che la giurisprudenza internazionale, rifacendosi

al criterio dell’equità, ha solo indicato dei criteri pratici , non vincolanti, che hanno un mero carattere correttivo del criterio

dell’equidistanza (da considerare come criterio base).

L’opinione della Corte è stata recepita dalla Convenzione di Montego Bay, nell’ art. 83.

La dottrina sulla piattaforma continentale, facendo leva sulla conformazione delle coste, risulta però, iniqua; infatti se alcuni

Stati hanno un’estesa piattaforma, altri devono fare i conti con una sua totale assenza o con fosse profonde che la separano

dalla costa. A tale iniquità ha sopperito l’istituzione della zona economica esclusiva che comporta comunque l’assegnazione allo

Stato, a prescindere dalla conformazione geografica, delle risorse del fondo marino fino a 200 miglia dalla costa.

ZONA ECONOMICA ESCLUSIVA: a favore di essa si sono pronunciati praticamente tutti gli Stati e numerosi sono i Paesi che

hanno già provveduto ad istituirla con apposite leggi senza incontrare opposizioni, tanto che può ormai affermarsi che ci si trova

di fronte ad un istituto di diritto consuetudinario.

La Convenzione di Montego Bay se ne occupa agli artt. 55 ss.

La zona economica può estendersi fino a 200 miglia marine, limite che essendo calcolato a partire dalla linea di base del mare

territoriale, finisce parecchio a largo…

La terza conferenza, sotto la spinta dei Paesi in sviluppo ha attribuito allo Stato costiero il controllo esclusivo di tutte le risorse

economiche della zona, sia biologiche che minerali, sia del suolo e del sottosuolo che delle acque sovrastanti e per la pesca. Gli

artt. 61 e 62 della Convenzione stabiliscono che spetta allo Stato fissare la quantità massima delle risorse ittiche sfruttabili,

determinare la propria capacità di sfruttamento e, solo se questa è inferiore al massimo, consentire la pesca agli stranieri.

Per quanto riguarda i poteri degli Stati diversi dallo Stato costiero sulla zona, l’opinione maggiormente difesa, e nn respinta, è

che l’attribuzione delle risorse allo Stato costiero nn debba pregiudicare la partecipazione degli altri Stati alle altre possibili

utilizzazioni della zona; tutti gli Stati continueranno a godere della libertà di navigazione, di sorvolo, di posa di condotta di cavi

sottomarini.

In realtà è difficile inquadrare la situazione degli altri Stati nella zona economica in termini di libertà dei mari. Occorre

riconoscere che oggi la situazione sta mutando e la disciplina nn si caratterizza più per il principio di libertà dei mari. Da un lato

vi è il diritto dello Stato costiero di sfruttare totalmente, esclusivamente e razionalmente le risorse marine, dall’altro permane la

possibilità degli altri Stati di navigare, di sorvolare, di posare cavi sottomarini etc…ma si tratta di un regime che non è

improntato né alla libertà di tutti gli Stati, né alla sovranità dello Stato costiero. I diritti hanno carattere funzionale, nel senso

che all’uno e agli altri sono consentite soltanto quelle attività indispensabili allo sfruttamento delle risorse e alle comunicazioni e

ai traffici marittimi e aerei.

IL MARE INTERNAZIONALE E L’AREA INTERNAZIONALE DEI FONDI MARINI

Negli spazi marini situati oltre la zona economica esclusiva cessa ogni tutela degli interessi degli Stati costieri. Il mare

internazionale è l’unica zona in cui trova ancora applicazione il vecchio principio della libertà dei mari.

Tutti gli Stati hanno eguale diritto a trarre dal mare internazionale le risorse che questo è in grado di offrire, dalla navigazione,

alla pesca, alla posa dei cavi…

Tali fini, però, non possono essere assicurati che attraverso l’azione di uno Stato nei confronti delle proprie navi oppure

attraversala cooperazione internazionale.

Naturalmente, trattandosi spesso di risorse esauribili, non è ammissibile che gli Stati se ne approprino a loro arbitrio fino al

punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri Paesi.

Questo problema è stato affrontato nella Convenzione di Montego Bay con la costituzione dell’Autorità internazionale dei fondi marini destinata a presiedere allo sfruttamento delle risorse del fondo e del sottosuolo del mare internazionale in modo che

tutto avvenga nell’interesse dell’umanità.

Gli organi principali sono : l’Assemblea, il Consiglio, il Segretariato e l’Impresa.

Quest’ultima è un organo operativo attraverso il quale l’Autorità partecipa direttamente allo sfruttamento.

L’ obiettivo della tutela degli interessi dell’umanità verrebbe raggiunto attraverso il sistema dello sfruttamento parallelo,

dividendo ogni area da sfruttare in due parti uguali, l’una attribuita allo Stato che l’ha individuata e l’altra direttamente sfruttata

dall’Autorità.

LA NAVIGAZIONE MARITTIMA

Il principio generale è che ogni nave è sottoposta esclusivamente al potere dello Stato di cui ha nazionalità: lo Stato di bandiera

o Stato nazionale ha diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo sulla comunità navale e esercita siffatto potere

attraverso il comandante (considerato come organo dello Stato).

Vediamo ora le eccezioni che tale principio incontra allorché una nave si avvicini alle coste di un altro Stato:

a. Acque internazionali. La nave pirata può essere catturata da qualsiasi Stato e sottoposta a misure repressive. Lo Stato

nel cui territorio è in corso una guerra civile può visitare e catturare qualsiasi nave che si proponga di recare aiuto (in

armi o armati) agli insorti.

b. Zona economica esclusiva. Lo Stato costiero può visitare e catturare navi e relativo carico per infrazioni alle proprie

leggi sulla pesca o allo sfruttamento delle risorse sottomarine.

c. Mare territoriale. Rilevano i principi già analizzati del diritto di passaggio inoffensivo e della sottrazione alla

giurisdizione penale dello Stato costiero dei fatti puramente interni alla nave

Le navi da guerra o comunque destinate a servizi pubblici possono inseguire una nave straniera che abbia violato le loro leggi

purché l’inseguimento sia continuo e abbia avuto inizio almeno nelle acque contigue al mare territoriale. Se la nave inseguita

entra nelle acque territoriali di un altro Stato l’inseguimento cessa.

Per quanto riguarda la nazionalità delle navi occorre che tra queste e lo Stato che concede la bandiera esista un legame

sostanziale (genuine link).

La protezione dell’ambiente marino

La lotta all’inquinamento marino non può non fondarsi su una stretta cooperazione internazionale. Ecco perchè la Convenzione

di Montego Bay dedica all’argomento più di quaranta articoli. Tuttavia nella prassi non vi sono elementi che inducano ad

affermare l’esistenza di obblighi particolari in materia in capo agli Stati.

Deve ritenersi pertanto che l’art. 192 della Convenzione, quando dichiara che “gli Stati hanno il dovere di proteggere e

preservare l’ambiente marino”, sancisca un principio non codificatorio.

Al contrario, per quanto riguarda il diritto convenzionale numerosi sono gli accordi, sia universali che regionali, stipulati in

materia.

Il secondo problema consiste nello stabilire quale Stato possa esercitare il proprio potere di governo sulle navi onde impedire

fenomeni di inquinamento.

Ad imporre divieti ed a comminare sanzioni saranno lo Stato della bandiera e, nelle zone sottoposte a giurisdizione nazionale, lo

Stato costiero.

Inoltre, è ammesso l’intervento eccezionale su una nave altrui in acque internazionali per prendere le misure strettamente

necessarie ad impedire o attenuare i danni derivanti da un incidente già avvenuto.

La violazione delle norme internazionali IL FATTO ILLECITO E I SUOI ELEMENTI COSTITUTIVI

E’ probabile che il diritto interno non riesca, nonostante le norme di adattamento, ad evitare che lo Stato incorra in una

violazione del diritto internazionale o , come si dice, in un fatto illecito internazionale.

Si pone allora il problema della responsabilità internazionale degli Stati, problema che consiste nel chiedersi, anzitutto, quando

esattamente si ha un fatto illecito internazionale, ossia quali sono i suoi elementi costitutivi, e poi quali conseguenze

scaturiscono dal medesimo, in particolare di quali mezzi si dispone nell’ambito della comunità internazionale per reagire contro

di esso.

E’ doveroso ricordare anzitutto, le importantissime ricerche di ANZILOTTI, KELSEN e AGO, che hanno segnato svolte decisive

nella sistemazione della materia. Già all’epoca della Società delle Nazioni vari tentativi di codificazione furono fatti sia ad opera

di istituzioni scientifiche sia in seno alla Società stessa, senza però lasciare traccia. Dal lontano 1953 la Commissione di diritto

internazionale delle Nazioni Unite ha poi intrapreso lo studio dell’argomento, ma un progetto definitivo di codificazione ha visto

la luce solo nel 2001, dopo quasi 50 anni; il che è prova della complessità della materia nonché delle forti implicazioni politiche

che essa presenta.

Nel 1980 la Commissione approvò in prima lettura, la prima parte di un progetto di articoli (il vecchio progetto) redatto

sostanzialmente da AGO, progetto che si limitava ad occuparsi dell’origine della responsabilità, ossia degli elementi dell’illecito

internazionale.

Il progetto definitivo ha visto la luce nell’agosto del 2001. Esso si occupa, in 60 articoli, sia degli elementi, che delle

conseguenze dell’illecito.

Esso si suddivide in tre parti:

PRIMA PARTE = origine della responsabilità che riprende la quasi totalità delle formulazioni del relatore Roberto Ago e

tratta in 35 articoli degli elementi del diritto internazionale; il testo costituisce la base della trattazione del tema della

responsabilità.

SECONDA PARTE = contenuto, forma e gradi della responsabilità, cioè le conseguenze dell’illecito ( artt. 35/53)

TERZA PARTE = soluzione delle controversie (artt. 54/60).

La stesura del progetto relativo alla seconda e alla terza parte fu portato avanti dal relatore Arangio Ruiz. Nel 1996 il testo

completo è stato approvato in prima lettura dalla Commissione e trasmesso al Segretario Generale delle Nazioni Unite.

E’ entrato in vigore nel 2001.

Una caratteristica fondamentale delle varie parti del progetto, già presente nella versione dell’80, è quella di considerare i

principi sulla responsabilità come valevoli in linea di massima per la violazione di qualsiasi norma internazionale.

E in questo bisogna dare atto alla commissione di diritto internazionale di aver compiuto finora uno sforzo notevole per superare

le difficoltà e tendere ad una unificazione.

Preme anzitutto chiarire cosa sia un illecito e come esso si formi. Si tratta del problema della Responsabilità Internazionale che

si determina nel momento in cui un soggetto di diritto internazionale violi degli obblighi internazionalmente assunti.

Per quanto riguarda l’origine della responsabilità (elementi del fatto illecito internazionale), possiamo dire che sulle linee

generali si sia formato ormai un largo consenso.

Data la coincidenza tra Stato come soggetto di diritto internazionale e Stato - organizzazione, possiamo liberamente affermare

che il fatto illecito consiste anzitutto in un comportamento di uno o più organi statali, comprendendo tra questi tutti coloro che

partecipano all’esercizio di governo. Sono solo gli organi statali con i quali lo Stato si identifica, i possibili autori delle violazioni

del diritto internazionale.

Il Progetto, dopo aver indicato all’art 2 come elementi del fatto illecito un comportamento attribuibile allo Stato, specifica poi

all’art. 4 che il primo elemento (elemento soggettivo) consiste nel comportamento di un qualsiasi organo dello Stato, sia esso

legislativo, esecutivo o giudiziario, del governo centrale o di un ente territoriale, e che comunque sia tale in base al diritto

interno.

Gli artt. 5 ss. prevedono poi varie ipotesi di comportamenti tenuti da persone che non sono organi ma agiscono in fatto come

tali oppure agiscono sotto il controllo o dietro istruzioni dello Stato.

Una questione molto discussa è se la responsabilità dello Stato sorga quando l’organo abbia commesso un’azione

internazionalmente illecita avvalendosi di tale qualità , ma al di fuori della sua competenza.

La questione attiene ai soli illeciti commissivi (consistenti in azioni) e riguarda essenzialmente azioni illecite condotte da organi

di polizia in violazione del proprio diritto interno e contravvenendo agli ordini ricevuti.

Secondo una parte della dottrina ed anche secondo l’art. 7 del Progetto, azioni del genere sarebbero comunque attribuibili allo

Stato, a dispetto del fatto che l’organo abbia esorbitato dai limiti della sua competenza; secondo altri autori, invece, l’azione

resterebbe propria dell’individuo che l’ha compiuta e l’illecito dello Stato consisterebbe nel non aver preso misure idonee a

prevenirla. Il Conforti ritiene che la soluzione dell’art 7 sia la più aderente alla prassi com’è testimoniato anche dalla

Commissione e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Oggi può dirsi che dottrina e prassi siano concordi nel ritenere che lo Stato risponda solo quando non abbia posto in essere le

misure atte a prevenire l’azione o a punirne l’autore.

Il Progetto si occupa agli artt. 16 ss. del secondo elemento del fatto illecito, ossia dell’illiceità ( o dell’antigiuridicità) del

comportamento dell’organo statale. Si tratta dell’elemento oggettivo, contrapposto all’elemento soggettivo.

L’art.16 lo definisce dichiarando: “ si ha violazione di un obbligo internazionale da parte di uno Stato quando un fatto di tale Stato non è conforme a ciò che gli è imposto dal predetto obbligo…”

Gli articoli successivi contengono alcune regole dirette a stabilire quando, e a quali condizioni, una violazione del diritto

internazionale può considerarsi come definitivamente consumata. Tra queste l’art.18 contiene la regolatempus regit actum,

ossia prevede che l’obbligazione debba esistere al momento in cui il comportamento dello Stato è tenuto; a loro volta

gli artt.24 e 25 stabiliscono quando deve ritenersi che si verifichi l’illecito (tempus commissi delicti) negli illeciti istantanei, in

quelli aventi carattere continuo e negli illeciti complessi. La determinazione del tempus commissi delicti è importante a vari fini

ma soprattutto in relazione all’interpretazione dei trattati di arbitrato e di regolamento giudiziario, che di solito dichiarano di non

volersi applicare alle controversie relativa a fatti avvenuti prima della loro entrata in vigore o comunque a una certa data critica.

All’elemento oggettivo dell’illecito internazionale attengono le cause escludenti l’illiceità, che sono quelle circostanze che una

volta verificatesi escludono la responsabilità delo Stato, in quanto viene meno l’elemento oggettivo della stessa, cioè

l’antigiuridicità del fatto. Di tali circostanze se ne occupa il cap. V, agli artt. 29/33 e sono:

consenso dello Stato leso

Forza maggiore o caso fortuito

Estrema necessità

Stato di necessità.

L’art. 29 recita: “ il consenso validamente dato da uno Stato alla commissione da parte di un altro Stato di un fatto determinato esclude l’illiceità di tale fatto nei confronti del primo Stato sempre che il fatto medesimo resti nei limiti del consenso.”

La norma dell’art. 29 trova ampio riscontro nella prassi internazionale ed ha quindi natura consuetudinaria. Si pensi ad esempio,

alle autorizzazioni dello Stato territoriale a che atti coercitivi siano compiuti da organi stranieri.

Anche se apparentemente si presenta come un accordo, la causa di esclusione dell’illiceità è sempre sostanzialmente un atto

unilaterale, per l’appunto un’autorizzazione dello Stato, che altrimenti sarebbe leso, autorizzazione che esplica i suoi effetti in

virtù di una norma ad hoc di diritto internazionale generale.

(tipici sono i casi di intervento militare in territorio straniero, consentito sotto violenza morale).

Il testo dell’art. 29 finisce col confermare la natura unilaterale del consenso, riferendo chiaramente a questo il requisito della

validità.

L’art. 29/2 il paragrafo 1 non si applica se l’obbligo deriva da una norma imperativa del diritto internazionale generale.

Una delle più importanti cause di esclusione dell’illiceità è costituita dall’autotutela ossia dalle azioni che sono dirette a

reprimere l’illecito altrui e che, per tale funzione non possono essere considerate come antigiuridiche anche quando consistono

in violazioni di norme internazionali. (Artt. 30 e 34 del Progetto)

L’art. 31 annovera tra le cause di esclusione dell’illiceità la forza maggiore.

E’ invece controverso se per il diritto internazionale, così come avviene per il diritto penale interno, lo stato di necessità, ossia

l’aver commesso il fatto per evitare un pericolo grave, imminente e non volontariamente causato, possa essere invocato come

circostanza che escluda l’illiceità.

Nessuno, in realtà, dubita che la necessità possa essere invocata quando il pericolo riguardi la vita dell’individuo-organo che

abbia commesso l’illecito o degli individui a lui affidati ( distress), per ci nessuno può dubitare della perfetta conformità al diritto

consuetudinario dell’art 33 del Progetto, dedicata appunto al distress.

Le incertezze riguardano invece la necessità riferita allo Stato nel suo complesso, vale a dire le azioni illecite commesse per

evitare che sia compromesso un interesse vitale dello Stato. La dottrina è unanime nel ripudiare la vecchia tesi che legava la

pretesa di un diritto “ di conservazione” dello Stato e che su tale base finiva col giustificare ogni sorta di abuso e fenomeni

come la conquista e l’ingrandimento a danno di altri Stati. La disputa, in definitiva riguarda il punto se una sia pur limitata sfera

di operatività allo stato di necessità sia da ammettere.

L’art. 33 del Progetto si pronuncia in senso favorevole:

“ Lo Stato non può invocare lo stato di necessità come causa di esclusione dell’illiceità di un fatto non conforme ad un obbligo internazionale quando tale fatto

A. Costituisca l’unico mezzo per proteggere un interesse essenziale contro un pericolo grave ed imminente

B. il fatto nn leda gravemente un interesse essenziale dello Stato o degli Stati nei confronti dei quali l’obbligo sussisteva,

oppure della comunità internazionale nel suo complesso. In ogni caso lo stato di necessità non può essere invocato

A. se l’obbligo internazionale in questione esclude la possibilità di invocare lo stato di necessità

B. se lo Stato ha contribuito al verificarsi di detta situazione. “ Per il diritto internazionale consuetudinario la prassi è estremamente incerta al riguardo. Il Conforti condivide l’opinione sulla

configuarabilità della necessità come mezzo di protezione di interessi vitali o essenziali dello Stato.

In realtà, una volta bandito l’uso della forza cogente in tutte le sue manifestazioni, gli spazi per l’utilizzazione della necessità si

riducono a nulla.

Non è del tutto azzardata, inoltre, la tesi per cui l’illiceità sia esclusa quando l’osservanza di una norma internazionale urti contro

i principi fondamentali della Costituzione dello Stato. La Corte Costituzionale italiana ha annullato le norme interne di esecuzione

di norme internazionali pattizie contrarie a principi costituz. Ma ciò non trova riscontro nel progetto, infatti tale tesi urta contro

l’art. ___ secondo cui il diritto interno non può avere alcuna influenza sulle conseguenze dell’illecito internazionale.

Tuttavia questa non è una posizione estremamente rigida.

GLI ELEMENTI CONTROVERSI: LA COLPA E IL DANNO

A parte gli elementi fin qui considerati ci si chiede se altri elementi, o condizioni, siano necessari perché l’illecito si verifichi.

Una questione a lungo dibattuta riguarda la necessità o meno che sussista la colpa dell’organo statale autore della violazione.

Con ampia generalizzazione possono distinguersi, in riferimento al problema della colpa, tre tipi di responsabilità:

1. Dolo - si ha quando l’autore dell’illecito ha commesso quest’ ultimo intenzionalmente

2. Colpa grave - si verifica quando l’autore ha commesso il fatto con negligenza, trascurando di adottare le misure

necessarie per prevenire il danno.

3. Responsabilità oggettiva

Relativa: si ha quando la responsabilità sorge per effetto del solo compimento dell’illecito, ma l’autore di quest’

ultimo può invocare, per sottrarsi alla responsabilità una causa di giustificazione consistente in un evento esterno

che gli ha reso impossibile il rispetto della norma.

Assoluta: sorge automaticamente dal comportamento contrario ad una norma giuridica e non ammette alcuna

causa di giustificazione.

Venendo al diritto internazionale per molto tempo, sulle orme del Grozio, la responsabilità dello Stato fu configurata come

responsabilità per colpa ritenendosi indispensabile ai fini del sorgere della responsabilità, che il comportamento dello Stato fosse

intenzionale o frutto di negligenza.

Agli inizi del nostro secolo, l’Anzilotti diede un colpo vigoroso alla tradizione sostenendo la natura oggettiva relativa della

responsabilità internazionale.

Nella definizione di responsabilità internazionale dello Stato si afferma che essa sorge in capo allo Stato indipendentemente

dall’esistenza a suo carico di una specifica colpa, intesa come violazione di un obbligo di diligenza, perizia o prudenza

nell’evitare che si produca l’evento dannoso. La soluzione generalmente accolta dalla dottrina internazionalistica esclude che per

aversi responsabilità internazionale dello Stato sia necessario l’elemento della colpa, al contrario il regime generale sarebbe

quello della responsabilità oggettiva secondo la quale quando si stabilisce un legame tra il comportamento dell’organo

(elemento soggettivo) e l’antigiuridicità di tale comportamento (elemento oggettivo) lo Stato è da ritenersi ipso facto

responsabile, a prescindere da qualsiasi elemento colposo. E’ comunque possibile per lo Stato accusato dimostrare l’esistenza di

una circostanza che escluda tale responsabilità. La responsabilità oggettiva, quindi rappresenta la soluzione più valida per

assicurare migliori relazioni internazionali e per garantire l’effettiva riparazione dell’illecito.

Tuttavia, se si esamina la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e della Corte comunitaria, ci si rende conto che

un’indagine sul dolo o sulla colpa degli organi dello Stato non è mai stata condotta.

Il Progetto non dedica alla colpa alcun articolo e da tale circostanza può dedursi che il regime di responsabilità oggettiva relativa

sia considerato come il regime generale applicabile.

Resta da chiedersi però come mai la commissione non abbia fatto salvi neanche i regimi specifici di responsabilità per colpa.

Altra questione controversa è se elemento dell’illecito sia il danno sia materiale che morale, ossia la lesione di un interesse

diretto e concreto dello Stato nei cui confronti l’illecito è perpetrato. La Commissione ha preso posizione negativa a riguardo già

all’epoca del vecchio progetto, in vista del fatto che vi sono oggi norme di diritto internazionale la cui inosservanza da parte di

uno dei loro destinatari è certamente sentita come un illecito nei confronti di tutti gli altri, anche quando un interesse diretto e

concreto di questi ultimi non sia leso. La posizione della Commissione è certamente da condividere.

LE CONSEGUENZE DEL FATTO ILLECITO

Una volta commessa una violazione del diritto internazionale lo Stato deve risponderne. Ma in cosa consiste la sua

responsabilità e quali sono le conseguenze del suo fatto illecito?

La II parte del Progetto si riferisce al contenuto, forme e gradi della responsabilità internazionale, si riferisce cioè a ciò che si

deve fare nel momento in cui si verifica un illecito internazionale.

Le conseguenze del fatto illecito internazionale hanno formato oggetto di una estesa interpretazione che ha contribuito in modo

notevole alla sistemazione della materia.

ANZILOTTI

L’opinione oggi più diffusa è che le conseguenze dell’illecito consistano in una nuova relazione giuridica tra lo Stato offeso e lo

Stato offensore, discendente da una norma apposita, la c.d. norma secondaria contrapposta alla norma primaria ossia alla

norma violata.

Secondo L’Anzilotti, le cui indagini sono alla base di questa opinione, le conseguenze del fatto illecito consisterebbero

unicamente nel diritto dello Stato offeso di pretendere, e nell’obbligo dello Stato offensore di fornire adeguata riparazione:

quest’ultima comprenderebbe sia il ripristino della situazione quo ante sia il risarcimento del danno, oppure, nel cosa di danno

immateriale, la “soddisfazione” dello Stato offeso.

Lo schema dell’Anzilotti è stato seguito da molti autori lungo tutto questo secolo con varie aggiunte e modificazioni.

AGO

Importante è la tendenza a riportare sotto la norma secondaria anche i mezzi di autotutela (che prima non avevano un

autonomo rilievo) in particolare le rappresaglie o contromisure: dal fatto illecito discenderebbe per lo Stato offeso sia il diritto di

chiedere la riparazione, sia il diritto di ricorrere a contromisure coercitive aventi il precipuo e autonomo scopo di infliggere una

vera e propria punizione allo Stato offensore.

KELSEN ribadisce l'inutilità di costruire le conseguenze dell'illecito in termini di diritti/obblighi alla riparazione, ma l'unica

conseguenza immediata è il ricorso alle misure di autotutela e la riparazione sarebbe solo eventuale e dipenderebbe dalla

volontà dello Stato offeso e offensore di evitare l'uso della coercizione e ricorrere ad un accordo o all'arbitrato [concezione

fortemente imperativistica del diritto].

Noi crediamo che l'illecito non produca rapporti giuridici. La fase patologica del diritto internazionale è poco normativa. Le

misure di autotutela sono fondamentalmente dirette a reintegrare l'ordine giuridico, cioè a far cessare l'illecito e a cancellarne

gli effetti. Se lo Stato offensore ha l'obbligo di porre fine all'illecito e cancellarne gli effetti, non lo deve fare in base ad un nuovo

rapporto o una nuova norma.

L'altra forma di riparazione (risarcimento del danno) è prevista da un'autonoma norma di diritto internazionale generale.

Le conseguenze dell’illecito internazionale, pertanto, sono essenzialmente tre:

1. obbligo di cessazione dell’illecito

2. obbligo di riparazione dell’illecito

3. obbligo di tollerare che lo Stato leso adotti delle misure di autotutela nei confronti dell’autore dell’illecito.

ART. 41 – CESSAZIONE: Uno Stato il cui comportamento costituisce un atto internazionalmente illecito avente carattere continuato ha l’obbligo di cessare tale comportamento, senza pregiudizio della responsabilità in cui sia già incorso. = La

cessazione ha senso solo quando si è in presenza di un illecito continuato, un illecito di durata: quando si tratta di un illecito

istantaneo, l’illecito è già cessato, non è più in atto, pertanto non ha senso chiedere la cessazione dell’illecito. Infatti, tale

obbligo è prescritto in ogni caso di violazione continuativa di una norma in cui l’esistenza di una situazione illecita non si

estingue in un’azione puntuale ma si perpetua nel tempo. In questo caso si impone la cessazione dell’azione o omissione

contraria al diritto internazionale, senza pregiudizio della responsabilità in cui lo Stato autore del fatto è incorso.

Non si tratta di un nuovo obbligo, ma di un obbligo già esistente: se lo Stato commette una violazione, tale Stato, cessando la

sua violazione, non fa altro che adempiere all’obbligo che già aveva di non commettere l’illecito.

ART. 42/1 – RIPARAZIONE: Lo Stato offeso ha diritto di ottenere dallo Stato che ha commesso un atto internazionalmente illecito piena riparazione sotto forma di restituzione in forma specifica, risarcimento, soddisfazione ed assicurazioni e garanzie di non reiterazione, singolarmente o in combinazione. = Vengono messe in evidenza varie forme di riparazione: prima di tutto

la restituzione in forma specifica, la quale indica l’obbligo per lo Stato autore dell’illecito di cancellare tutte le conseguenze del

fatto illecito e ristabilire lo stato di cose che sarebbe verosimilmente esistito, se il suddetto fatto non fosse stato commesso =

(ART. 43). Si tratta della forma principale di riparazione, che l’ART. 43 sottopone a quattro condizioni:

che sia materialmente possibile;

che non comporti la violazione di una norma di jus cogens;

che non sia eccessivamente onerosa per lo Stato autore del fatto illecito internazionale;

che non costituisca un pericolo per l’indipendenza politica e la stabilità economica dello Stato che ha commesso l’illecito:

tale condizione è inefficace se gli stessi effetti si avessero sullo Stato leso nell’ipotesi di mancata restituzione.

Questa forma di restituzione in forma specifica non sempre è possibile, perché potrebbe essere diventata impossibile la

restituzione stessa, ad es. perché l’illecito ha portato alla distruzione degli oggetti. Questa forma di restituzione si concilia con

il risarcimento (ART. 44), che rappresenta una forma di riparazione del danno arrecato che si concretizza nella corresponsione

di una determinata somma, a titolo di indennizzo, allo Stato leso. Esso è corrisposto:

sia a titolo di riparazione per equivalente: lo Stato offensore è tenuto a versare una somma di denaro equivalente al

valore che avrebbe avuto la reintegrazione dello status quo ante. Tale pagamento sostituisce la restituzione in forma

specifica;

sia a titolo di riparazione dei danni provocati: la somma dovuta sarà quindi o aggiunta alla precedente o corrisposta in via

autonoma.

Il risarcimento costituisce una forma di riparazione universalmente accettata, finalizzata alla reintegrazione dei danni materiali e

diretti, subiti dallo Stato leso.

Abbiamo, infine, la soddisfazione (ART. 45), che costituisce una forma di riparazione del pregiudizio morale arrecato dall’illecito

e prescinde dalla corresponsione del risarcimento dei danni. L’ ART. 45 indica diverse forme di soddisfazione:

le scuse fornite da un organo ufficiale;

il versamento di una somma simbolica di denaro a titolo di sanzione o dissuasione per il futuro;

la punizione agli individui responsabili secondo il diritto interno;

l’assicurazione e la garanzia della non ripetizione dell’illecito.

Parlando di risarcimento ai fini dell’ART. 44, si parla di danno morale e patrimoniale subito dallo Stato; l’ART. 45 parla di danno

imputabile all’individuo da parte dello Stato.

AUTOTUTELA

La normale reazione all'illecito è l'autotutela: farsi giustizia da sé. Ne consegue una scarsa efficienza e credibilità dei mezzi

internazionali di attuazione del diritto. Il moderno diritto internazionale impone che l'autotutela non consista nella minaccia o

nell'uso della forza (art. 2 Carta delle Nazioni Unite e previsto anche dalla consuetudine). L'unica eccezione è la risposta ad un

attacco armato già sferrato (art. 51 della Carta): il diritto naturale di legittima difesa individuale e collettiva nel caso che abbia

luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, rispettando il principio di proporzionalità. Il divieto di uso della

forza armata non ha altre eccezioni: né per proteggere la vita dei propri cittadini all'estero, né per grosse violazioni dei diritti

umani nei confronti dei propri cittadini. Quando si parla di uso della forza, non rientra la forza interna nella sovranità territoriale

e nella normale potestà di governo di uno Stato sovrano.

La fattispecie più importante di autotutela è la rappresaglia o contromisura. Consiste in un comportamento che in sé sarebbe

illecito, ma che diventa lecito in risposta ad un illecito altrui. Lo Stato viola, a sua volta, gli obblighi che gravano su di lui.

Ovviamente esistono dei limiti alle contromisure:

1. PROPORZIONALITA' tra violazione e reazione. Non si deve trattare di perfetta coincidenza tra le due violazioni, ma

mancanza di sproporzione.

2. RISPETTO DEL DIRITTO COGENTE

Non si può violare il diritto cogente, neanche quando si tratti di reazione per violazione dello stesso tipo. L'unica

eccezione è l'uso della forza per respingere un attacco armato.

3. RISPETTO DEI PRINCIPI UMANITARI

L'art. 50 del Progetto dispone anche che a titolo di contromisura non possa essere compromessa in alcun caso

l'inviolabilità degli agenti, locali, archivi e documenti consolari e diplomatici.

4. PREVIO ESAURIMENTO DEI MEZZI PER UNA SOLUZIONE CONCORDATA DALLA CONTROVERSIA (arbitrato,

conciliazione, negoziato).

La contromisura tende a reintegrare l'ordine giuridico violato. Lo scopo afflittivo è secondario.

La ritorsione si distingue dalla rappresaglia perché non consiste in una violazione di norma internazionale, ma in un

comportamento inamichevole (come l'attenzione o la rottura dei rapporti diplomatici o della collaborazione economica). Non è

una forma di autotutela perché uno Stato potrebbe tenere questo comportamento anche senza aver subito un illecito. Tuttavia,

nella prassi dei rapporti tra gli Stati, la ritorsione reagisce ad azioni di rilievo puramente politico e a violazioni di diritto

internazionale o ad entrambe contemporaneamente, perché in genere gli Stati collaborano tra loro. E' difficile, nella ritorsione,

distinguere tra motivazioni politiche e giuridiche, ma non si può non considerarla una forma di autotutela quando le secondi

sono presenti.

L'autotutela collettiva consiste in un intervento degli Stati che non hanno subito nessuna lesione in risposta ad una violazione

dei diritti umani, obblighi erga omnes, crimini internazionali per i quali tutti gli Stati possono considerarsi lesi.

Non si può dire che ciascuno Stato abbia diritto di reagire con misure di autotutela in caso di violazione in nome dell'interesse

comune. Le norme consuetudinarie prevedono forme di intervento per Stati terzi in ordine a specifici obblighi internazionali. Si

presuppone una richiesta da parte dello Stato aggredito.

Per le norme consuetudinarie all'autotutela collettiva si può ricorrere per negare effetti extraterritoriali agli atti di governo

emanati in un territorio acquistato con la forza (per il principio di autodeterminazione dei popoli) e nei casi di aiuti militari ai

movimenti di liberazione.

Il diritto pattizio tende a limitare piuttosto che estendere l'esercizio dell'autotutela e prevede la creazione di meccanismi

internazionali di controllo che possono essere messi in moto da ciascuno Stato contraente ma che comunque difettano di poteri

sanzionatori.

Non esistono principi generali che consentano ad uno Stato di intervanire a tutela di un interesse fondamentale della comunità

internazionale o di un interesse collettivo (solo singole norme consuetudinarie). E' auspicabile che si consolidi una tendenza

verso l'autotutela collettiva come iniziativa dei singoli Stati che agiscono in nome della comunità internazionale nel suo

complesso, ma che non sono esenti da atteggiamenti arbitrari.

Uno Stato può obbligarsi con trattato a non ricorrere a misure di autotutela o a ricorrervi solo a certe condizioni. E' importante

comunque sottolineare che deve essere intesa come extrema ratio.

La WTO subordina l'adozione di contromisure in caso di mancato rispetto delle decisioni di carattere giurisprudenziale emesse in

seno all'organizzazione, all'autorizzazione dell'organo per la soluzione delle controversie. L'art. 51 del Progetto dispone che

l'attacco armato come legittima difesa può essere esercitato finché il Consiglio si sicurezza non abbia preso le misure necessarie

per mantenere la pace e la sicurezza internazionale.

La funzione giurisdizionale internazionale La funzione giurisdizionale internazionale ha ancora oggi natura arbitrale, essendo ancorata al principio per cui un giudice

internazionale, comunque costituito, non può mai giudicare se la sua giurisdizione non è stata preventivamente accettata da

tutti gli Stati parti di una controversia. Ed è proprio questo fatto che fa sì che si privilegi il momento interno dell'applicazione del

diritto internazionale.

Gli Stati sono liberi di deferire ad un Tribunale internazionale una qualsiasi controversia che riguardi i loro rapporti: ciò che

importa è che siano d'accordo sulla scelta e accettino come vincolante la sua decisione.

Il processo internazionale ha quindi sostanzialmente carattere arbitrale, poiché riposa sulla volontà degli Stati.

Il punto di partenza dell'evoluzione dell'istituto è l'arbitrato isolato. Esso si svolgeva solitamente in questo modo: sorta una

controversia tra due o più Stati, si stipulava un accordo (il c.d. compromesso arbitrale) con il quale si nominava un arbitro (ad

esempio, un Capo di Stato) o un collegio arbitrale, si stabiliva eventualmente qualche regola procedurale, e ci si obbligava a

rispettarne la sentenza così emessa. L'istituto si è evoluto: per facilitare l'accordo, alla fine del secolo scorso, si è cominciato a

ricorrere a degli accorgimenti per l'instaurazione del processo: sono comparsi i c.d. trattati generali di arbitrato (chiamati anche

"non completi" per distinguerli da quelli successivi "completi") e le clausole compromissorie. Questi obbligavano gli Stati a

ricorrere all'arbitrato per tutte le controversie che sarebbero sorte in futuro in ordine all'applicazione e all'interpretazione della

convenzione tra gli Stati stessi.

Questi, quindi, creano soltanto un obbligo de contrahendo, cioè l'obbligo di stipulare il compromesso arbitrale. Nella seconda

fase, con la fine della prima guerra mondiale, è stata creata la Corte Permanente di Giustizia Internazionale all'epoca delle

Società delle Nazioni, e poi, nel 1945, la Corte Internazionale di Giustizia. Si tratta di un corpo permanente di giudici, eletti

dall'Assemblea generale e dal Consiglio di Sicurezza. Resta comunque un tribunale arbitrale. In questa fase, compare la figura

della clausola compromissoria "completa" e del "trattato generale di arbitrato" completo. Questi non si limitano a creare

l'obbligo di stipulare il compromesso, ma prevedono direttamente l'obbligo di sottoporsi al giudizio di un tribunale internazionale

già predisposto.

Bisogna comunque sottolineare che la funzione giurisdizionale internazionale va sempre cedendo il passo ai mezzi diplomatici.

Inoltre è necessario distinguere i tribunali internazionali (destinati a risolvere le controversie tra Stati) dai tribunali istituiti

all'interno delle organizzazioni internazionali (che risolvono le controversie di lavoro tra funzionari e l'organizzazione).

Un cenno meritano anche alcuni organi giurisdizionali settoriali che presentano caratteristiche proprie: spicca, tra essi, la Corte

di Giustizia delle Comunità Europee (con sede a Lussemburgo), che però si occupa a) dei ricorsi per violazione del Trattato da

parte di uno Stato membro, b) del controllo di legittimità sugli atti degli organi comunitari e c) delle questioni c.d. pregiudiziali

(esempio, quando un giudice interno deve chiedere l'interpretazione del Trattato CE, ha il dovere di sospendere il processo e di

chiedere una pronuncia della Corte al riguardo).

Nel 1988 è stato inoltre istituito il Tribunale di primo grado delle Comunità europee.

La Corte europea dei diritti dell'uomo controlla il rispetto della convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà

fondamentali da parte degli Stati contraenti.

I MEZZI DIPLOMATICI DI SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI

Questi mezzi si distinguono dai mezzi giurisdizionale di soluzione delle controversie in quanto tendono soltanto a facilitare

l'accordo delle parti: di conseguenza non hanno carattere vincolante per le parti.

L'accordo può essere innanzitutto facilitato da negoziati diretti tra le parti medesime, e in genere sono il mezzo più utilizzato.

Si parla poi di buoni uffici o mediazione, quando si verifica l'intervento di uno Stato terzo, o di un organo supremo di uno Stato

o di un'organizzazione internazionale a titolo personale. La differenza tra buoni uffici e mediazione è più teorica che pratica: di

solito con i primi ci si limita a indurre le parti della controversia a negoziare; nella mediazione c'è invece una partecipazione più

attiva del terzo alle trattative.

Molto importante è anche la conciliazione, che si avvicina di più all'arbitrato. Le commissioni di conciliazione sono di solito

composte da individui e da Stati ed hanno il compito di esaminare tutti gli aspetti della controversia e formulare una proposta di

soluzione che le parti sono libere di accettare o meno. Le Commissioni di inchiesta, invece, hanno il compito di accertare il fatto.

Il ricorso alla conciliazione è sempre succedaneo del ricorso all'arbitrato, soprattutto nei trattati multilaterali. Sempre più spesso

è previsto come obbligatorio il ricorso alla conciliazione, con la conseguente possibilità per uno degli Stati contraenti di dare

unilateralmente avvio alla procedura conciliativa.

Ai mezzi diplomatici vanno riportate anche le procedure di soluzione non vincolanti che si svolgono in seno alle organizzazioni

internazionali.

La Carta delle Nazioni Unite stabilisce che gli Stati membri hanno l'obbligo di risolvere le loro controversie con mezzi pacifici.

Una funzione importante è svolta anche dal Consiglio di Sicurezza, che dispone di un potere di inchiesta, da esercitare sia

personalmente, sia per mezzo di un organo ad hoc, come ad esempio un'apposita Commissione. Il Consiglio può anche

sollecitare le parti di una controversia a ricorrere ai mezzi e procedimenti pacifici. Il Consiglio può rivolgere un invito generico o

indicare uno specifico procedimento.