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DIRITTO DI STAMPA 6 Collana diretta da Giuseppe Boncori, Nicola Siciliani de Cumis, Maria Serena Veggetti A11 53

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DIRITTO DI STAMPA

6

Collana diretta daGiuseppe Boncori, Nicola Siciliani de Cumis, Maria Serena Veggetti

A1153

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Università degli Studi “La Sapienza” di RomaFacoltà di filosofiaDipartimento di Ricerche storico–filosofiche e pedagogicheCorso di laurea in Scienze dell’educazione e della formazioneVilla Mirafiori/Via C. Fea, 2 – 00161 RomaTel. 06 8632 0520 – Fax. 06 4991 7210

Cura redazionale di:Andrea Funtò e Maria Pia Musso

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Maria Pia Musso

Il “gioco” e il Fascismo

Il ruolo dell’ideologia nelle esperienze del ludicodurante il Ventennio

Presentazioni di Nicola Siciliani de Cumis e Giacomo Cives

Postfazione di Aldo Visalberghi

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ISBN 88-548-0158-2

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

I edizione: luglio 2005

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Il gioco […] non ha soltanto regole, ma anche un succo.

Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, 1953.

La cultura sorge in forma ludica, la cultura è dapprima giocata. […]

Nei giochi e con i giochi la vita sociale si riveste di forme soprabiologiche che le conferiscono

maggior valore. Con quei giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita e del mondo.

Johan Huizinga, Homo Ludens, 1939.

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Indice Presentazioni

di Nicola Siciliani de Cumis .................................................................. 11 di Giacomo Cives .................................................................................. 17

Avvertenza ................................................................................................ 21 Introduzione............................................................................................... 23 Fonti del materiale fotografico ............................................................... 35 Capitolo I - La Storia ............................................................................. 37

1.1 Cenni sulle condizioni della scuola italiana agli albori del fascismo ....................................................................................................... 37

1.2 Un difficile incastro: l’idealismo e il totalitarismo nella scuola .... 40 1.3 I centri del regime: l’Opera Nazionale Balilla e la scuola ............ 46 1.4 Giovanni Gentile, Giuseppe Lombardo Radice, Nazzareno Pa-

dellaro: i diversi volti del gioco .................................................... 66 1.4.1 Giovanni Gentile ............................................................... 66 1.4.2 Giuseppe Lombardo Radice .............................................. 70 1.4.3 Nazzareno Padellaro ......................................................... 75

Capitolo II - I Testi, la parola ............................................................... 81

2.1 Un punto fermo: l’Enciclopedia delle Enciclopedie dell’editore A.F. Formiggini ............................................................................ 81

2.2 «Moda del fanciullo» ....................................................................... 86 2.3 «Sport» ............................................................................................ 87

2.3.1 «Atletica» .......................................................................... 91 2.3.2 «Calcio (giuoco del) o Football» ....................................... 91 2.3.3 «Ginnastica e educazione fisica» ...................................... 92 2.3.4 «Giuochi invernali» ........................................................... 96 2.3.5 «Lotta» .............................................................................. 96 2.3.6 «Pallone (giuoco del)» ...................................................... 96 2.3.7 «Tiro a segno» ................................................................... 101

2.4 «Giuochi e passatempi» ................................................................... 103 2.4.1 «Dopolavoro» ................................................................... 104 2.4.2 «Enimmistica» ................................................................... 105 2.4.3 «Giuochi all’aperto» ......................................................... 106 2.4.4 «Giuochi e passatempi di società» .................................... 111 2.4.5 «Giuochi infantili» ............................................................ 116 2.4.6 «Organizzazioni giovanili» ............................................... 125

2.5 «Pedagogia» .................................................................................... 132

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8 Indice

2.5.1 «Autoeducazione» ............................................................ 136 2.5.2 «Disciplina e governo della scuola» ................................. 137 2.5.3 «Educazione fisica» .......................................................... 138 2.5.4 «Educazione Nazionale» ................................................... 140 2.5.5 «Giuoco e Lavoro» ........................................................... 143 2.5.6 «Psicologia del fanciullo».................................................. 146

2.6 Due esperienze enciclopediche a confronto: l’Enciclopedia delle Enciclopedie e l’Enciclopedia Italiana Treccani .......................... 149

2.6.1 Una tappa comune: il «giuoco» nell’Enciclopedia Italiana Treccani .......................................................................... 153

2.6.2 Note conclusive ................................................................ 160 2.7 Editoria per ragazzi e testi scolastici: la bibliotechina–tipo .......... 162

2.7.1 «La vita del Duce narrata ai giovanetti d’Italia» ............... 175 2.7.2 Percorso a temi tra i Libri di Testo ................................. 185 2.7.3 Un esempio di lettura: Giuochi per Balilla e Piccole Italiane del Comando Federale della G.I.L. ............................................ 192

2.8 Un percorso di lettura attraverso i “giochi con le parole”: «La settimana enigmistica» ........................................................ 200

Capitolo III - La materia ........................................................................ 211

3.1 Il giocattolo: la fabbrica del consenso indotto (l’immagi- ne) ................................................................................................. 211

3.2 La bambola: un’educazione al femminile ..................................... 212 3.3 Le ditte italiane ............................................................................. 215 3.4 Il meccano ed altri giocattoli per i ragazzi .................................... 221 3.5 Il legno e la latta: due tappe del progresso dell’industria italiana

del giocattolo (la materia) ............................................................. 228 Capitolo IV - Le immagini, il culto ..................................................... 235

4.1 Le immagini oggetto di propaganda ............................................... 235 Appendici ................................................................................................. 249 I. I.Lettura attraverso l’indice dei libri di un campione dell’ En-

ciclopedia dei ragazzi della Mondadori: ............................... 251 a) Premessa ...................................................................................... 251 b) Indice generale (per divisione in libri) ........................................ 255

II. Filmati e immagini della vita quotidiana dei bambini durante il fascismo: a) Cinegiornali Luce (Roma, 1998) ................................................. 263 b) Luce sulla Storia (Roma, 1998): filmati d’epoca ........................ 279

III.La memoria di un Balilla: un incontro con

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Franco Piccinelli ........................................................................... 297

Bibliografia ............................................................................................... 303

1. Opere di carattere generale ................................................................ 304 2. Opere edite durante il regime ............................................................ 308 3. Periodici ............................................................................................ 310 4. Cataloghi ........................................................................................... 311 5. Testi scolastici ................................................................................... 311 6. Video e film ...................................................................................... 312 7. Fonti del materiale fotografico .......................................................... 312

Indice delle tematiche ricorrenti .................................................. 313 Indice dei nomi ........................................................................................ 321

Referenze accademiche Relazione del prof. Nicola Siciliani de Cumis .................................... 327 Autopresentazione di Maria Pia Musso ............................................... 329 Postfazione di Aldo Visalberghi ............................................................ 331

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Presentazione

di Nicola Siciliani de Cumis

Nel rileggerle oggi, a distanza di alcuni anni dalla loro prima redazione per la laurea in filosofia, queste pagine di Maria Pia Musso suggeriscono tra l’altro pensieri ulteriori e diversi, rispetto a quelli puntualmente aderenti alla circostanza della discussione della tesi. Pensieri, intanto, niente affatto condizionati dalle abituali strettoie di una seduta di laurea, nei modi tradizionalmente condivisi nella Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza” di Roma (“Vecchio Ordi-namento”): non più di cinque minuti per il relatore, che descriveva alla Commissione il lavoro del candidato, ne valutava i risultati di contenuto e di forma; e concludeva il proprio intervento con una domanda al laureando, riservandosi per dopo, se gli fosse riuscito, qualche altra battuta in vista della definizione del voto (di norma determinato dalla media, dalla qualità della tesi, dalla resa dialogica durante l’esame di laurea).

Seguivano pertanto: cinque minuti per lo studente, che rispondeva alle questioni poste dal relatore, illustrando a sua volta la propria ricerca; altri cinque minuti per il correlatore, che interveniva nel merito della tesi, esprimendo giudizi e rivolgendosi anche lui inter-rogativamente al candidato; e, dunque, ancora cinque minuti per quest’ultimo, che cercava di dare il meglio di sé, per ottenere un buon voto e, se la media ed il tono generale della discussone lo avessero consentito, magari la lode. La cui richiesta, secondo le consuetudini di Facoltà, era prerogativa del correlatore, mai del relatore; e per la quale doveva esserci l’unanimità della Commissione.

Conclusione: la votazione collegiale a porte chiuse. Di modo che, fatto rientrare in aula il laureando (con o senza corte di parenti e amici, a sua scelta), si arrivava alla nomina del neo–dottore, al voto, alla stretta di mano del Presidente e del relatore e del correlatore. Ancora a discrezione, infine, possibili ulteriori strette di mano agli altri componenti della Commissione; ed applausi, foto, film, fiori.

Insomma, una ventina di minuti in tutto, almeno nelle regole… Ricordo però che contrariamente al solito, forando i tempi previsti, nella discussione di laurea di Musso, più di un Collega della Com-missione chiese di intervenire in coda ai rituali venti minuti: il “gioco”, il “fascismo”, l’“ideologia”, risultavano infatti, lì per lì, una

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intrigante miscela di mozione degli affetti, di curiosità intellettuale, di provocazione culturale, capace di suscitare un subitaneo, più largo coinvolgimento degli astanti professori, di sciogliere loro la lingua, stimolarne gli interrogativi: ora per l’affiorare di un ricordo di giovinezza o di famiglia; ora per saperne qualcosa di più, viste le par-ticolarità della tesi discussa, la rarità delle sue illustrazioni, la molteplicità delle direzioni d’indagine prefigurate.

Fino a che punto, cioè, i giochi e i giocattoli dell’epoca potevano dirsi generalmente “rispecchiare” la temperie ideologica del fascismo (nella sua genesi, nel suo farsi, nei suoi sviluppi ed esiti)? Se c’è, come sembra, una datazione interna al Ventennio, nella successione e diversificazione delle sue “fasi”, in che misura le consuete proposte di datazione risultavano confermate o contraddette nelle espressioni ludiche collettive del tempo (tra fascismo delle “origini” e fascismo “movimento”, fascismo “regime” e fascismo “dissoluzione”)? In che misura il gioco, come dimensione spontanea e tendenzialmente libera dell’intelligenza, nonostante le inerzie e i condizionamenti della cultura dominante, per l’appunto per la sua costitutiva carica di creati-vità, e dunque per i suoi possibili esiti “divergenti” ed “anti-peda-gogici”, poteva finire, anziché con il confermare una propensione al conformismo, con il rompere gli schemi dell’ideologia prevalente?

Interrogativi, questi, che la stessa Musso, non solo nella tesi, ma anche dopo la laurea, continuando a riflettere sull’argomento della propria ricerca, ha trovato il modo di riproporre, da diversi punti di vista: così, per esempio, approfondendo il tema “film–Luce, fascismo e gioco”; oppure, ragionando di Antonio Gramsci e delle sue “favole di libertà”, nelle carceri del Regime; ovvero intervenendo su talune tematiche culturali di contesto, a proposito di alcuni “nodi pro-blematici” nella ricezione di Antonio Labriola durante il Ventennio fascista… Del Labriola cioè che, com’è noto, era stato grande maestro d’ironia e d’autoironia; del professor Labriola, anzi, dallo humour incline alla satira e al sarcasmo; e che, non caso, s’era trovato ad avere tra i propri allievi quell’Angelo Fortunato Formiggini, della cui attività di editore Musso opportunamente discorre nella tesi, per l’appunto nella chiave “enciclopedica” del “riso” e del “gioco”.

Ma c’è da chiedersi: come si combinano il “fato tragico” dell’uomo Formiggini ed il suo background labrioliano? C’è una qualche rela-zione tra la sua personale opposizione al razzismo del Regime, estrema, fino al limite dell’autodistruzione (lo spettacolare suicidio), ed il suo dinamismo umoristico–pedagogico? Si può dire, nel caso di

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Formiggini, di un ipotetico nesso tra estensione del ludico, disperazione esistenziale e rivolta morale?

Non è una risposta, ma per associazione di idee viene subito in mente Labriola e il suo professato antirazzismo; si ripensa al per-sistente suo socratismo (per Socrate, sfuggire alla morte, sarebbe stato «come violare la legge, la cui santità dee rimanere inalterata, anche quando gl’interpreti di essa siano ingiusti e parziali»); e dunque alla ferma persuasione labrioliana, che tra serietà della vita e giuochi dell’infanzia non solo non vi fosse soluzione di continuità, ma vi fosse piuttosto un’intima congruenza e produttività formativa:

I giuochi dell’infanzia, non paia detto per celia, sono il primo principio ed il

primo fondamento di tutta la serietà della vita; come quelli, che, servendo d’im-mediata scarica e di sfogo naturale alle movenze interiori, dànno via via luogo ad atti di accorgimento, e ad un lento trapasso da una in altra forma della consapevolezza. Al colmo di questa nasce poi l’illusione che il dominio acquisito (di noi sopra di noi stessi) sia originaria potenza e causa costante di quei visibili effetti, di cui s’ha e noi e gli altri l’evidenza obiettiva delle operazioni.

In questo senso, la ricerca di Musso, per quanto già proficuamente

svolta su una molteplicità di piani, non s’acquieta nemmeno prov-visoriamente in se stessa. Riesce se mai a proporsi, in prospettiva, più come una “rosa” di propositi metodici aperti all’ulteriorità delle analisi, che come un risultato storiografico in sé compiuto. Più che un particolare studio “sul campo”, sembra così essere un “campo di studi”, che viene assommando e ampliando via via nel “da farsi” le sue peculiarità disciplinari e interdisciplinari; e, dunque, l’ampia gamma delle proprie possibilità euristiche.

Basti riflettere, in tale ottica, sulla specie di questionario, che sembra in qualche modo deducibile della filigrana della tesi. Sulle domande, che lo stesso “gioco” delle parole–chiave in abbinamento reciproco (gioco, fascismo, ideologia) porta con sé. Sui quesiti, che vengono quindi ad affiorare a mano a mano che ciascun termine dell’indagine, nelle diverse combinazioni possibili, viene a “giocare” con gli altri due il proprio ruolo di “termine di confronto”. E dunque: se c’è un “fascismo” che si condensa, per così dire, anche nei giochi e nei giocattoli di tutto un tempo, in che consiste il “gioco” proprio e nuovo del fascismo nel suo tempo? Se il “gioco” è in qualche modo un prodotto delle idee dell’epoca, fino a che punto può accadere che, nella stessa “ideologia dominante”, non si determini lo “strappo” di un qualche nuovo, non prevedibile gioco “altro”? Se l’“ideologia” del

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fascismo (meglio, al plurale, le ideologie dei fascismi) sta/stanno a monte di quei giochi, di quei giocattoli, che ne veicolano le note ludiche caratteristiche, che cosa ne risulta a valle? Davvero il “gioco”, se è tale sul serio per i soggetti che lo praticano e ne recepiscono gli effetti, resta identico a se stesso, non fa che veicolare materialmente (meccanicamente, passivamente) l’unilateralità, la compattezza e la pienezza (presunte) del “messaggio”?

Domande su domande. Domande–gioco, che retrodatando e radicalizzando i termini delle questioni ideologiche, si lasciano para-dossalmente alle spalle il fascismo e i suoi “valori” caratterizzanti. Domande sul cosiddetto “uomo nuovo” del fascismo, sulle tipologie di giochi e giocattoli che concorrono alla formazione e alla crescita di tutto il suo mondo. E domande, tuttavia, sulla pur coesistente, sopra-vanzante “premodernità” del regime. Sull’indifferenza o sulla impotenza del ludico ad intervenire controcorrente, nella gravità degli indirizzi e nella tragicità delle scelte del Regime.

Domande, altrimenti, del tipo: ma a che giochi, con quali giocattoli, aveva giocato Benito Mussolini, da bambino? Quale (eventualmente) il rapporto, tra i giochi e i giocattoli di quel figlio di fabbro e di maestra elementare, ed il risultato storico e politico, tragicamente (ludicamente) disastroso, della sua complessiva esperienza culturale ed umana? Che c’entra in fin dei conti l’eventuale piacevolezza del gioco, con la dolorosità dei suoi esiti?

E ancora (ma su un altro piano): come è possibile che il meneur Mussolini, dal Balcone della Grande Piazza ricolma di Popolo, sia stato davvero preso sul serio come “comunicatore” dagli uomini del suo tempo, mentre oggi quella stessa “serietà” può risultare addirittura comica, risibile? E dunque: se è vero che la Storia, nel gioco delle sue repliche, si presenta la prima volta come tragedia, la seconda come farsa, qual potrà mai essere il tipo di “drammaturgia” prevalente nell’ipotesi di una terza, di una quarta volta? E se noi, mutatis mutandis, senza accorgercene punto (o, pur accorgendocene, senza trovare la forza di reagire), ci trovassimo precisamente immersi qui ed ora nel contesto di una replica tragi–comica ulteriore? Si collocano in qualche modo, in tale ordine di problemi, i giochi e giochini quotidiani d’ogni tipo che ci propina la nostra televisione (tutti i canali, pubblici e privati) e le riflessioni dell’“ultimo momento” (scri-vo il giorno di Pasqua 2005), sul «regime di Populismo Mediatico» che ci sommerge (Umberto Eco), ovvero su «Chi gioca a rubamazzo col popolo sovrano» (Eugenio Scalfari)?

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In altri termini: c’è o non c’è speranza che ci si accorga, non solo come singoli individui, ma come massa di cittadini votanti, che questo “gioco”, che sembra relativamente diverso, può essere assolutamente lo stesso? Di che pasta ideologica è fatta la nostra propria capacità di comprendere, che c’è “gioco” e “gioco”, “fascismo” e “fascismo”, “ideologia” ed “ideologia”, l’una all’altra accostabile, ed entrambe riconoscibili, confrontabili, distinguibili, tra analogie e differenze?

E in ultima analisi: quanto aiuta l’attuale nostro ragionamento “ludico–ideologico” sul gioco, sull’ideologia, sul fascismo durante il Ventennio, a non lasciarsi incantare, oggi, dalle sirene del “nuovo che avanza”, mentre il “vecchio che permane”, confidando nel lifting che buca lo schermo e nella pedagogia della rimozione del passato prossimo e remoto, che rende ludicamente accettabile la regressione (culturale, morale, politica), continua ad avere la meglio? Fino a che punto, cioè, la stessa “neutralità” del gioco, che negli anni Venti e Trenta indicava la possibilità di aperture in senso critico ed auto-critico, nei nostri giorni, non finisce invece con il veicolare ot-tundimenti, chiusure, steccati di inconsapevolezza, di lassismo, di compromissione? Non è per questa strada, che giocando giocando nei mari del conformismo, si finisce col perdere di vista le alture della distinzione, della differenza, dell’opposizione?

Roma, aprile 2005

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Presentazione

di Giacomo Cives

La storia sociale dell’educazione va sviluppandosi e istituzio-nalizzandosi in anni recenti, recependo in primo luogo le suggestioni della scuola francese delle “Annales”. Batte sugli aspetti della storia del vissuto, del quotidiano, dell’immaginario, dei più vari aspetti del sociale, recuperando anche larghi spazi di marginalità e tra l’altro le dimensioni della donna e del bambino. Così alle più collaudate dimensioni della storia della pedagogia teorica e della scuola e delle istituzioni educative (si ricordi come già René Hubert parlasse di storia dei “fatti” e di storia delle “dottrine” per la storia della pedagogia) si aggiunge ora questa più giovane della storia sociale dell’educazione, aperta ai temi, ai contenuti, ai materiali di docu-mentazione, ai metodi di indagine più diversi.

Alla storia sociale dell’educazione il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Firenze ha il 15 e il 16 gennaio 2004 dedicato un importante e riuscito Convegno nazionale. In quel Convegno Franco Cambi, che ne è stato il promotore, ha felicemente osservato:

Potremmo dire che la storia sociale, meglio di altre storie, simboleggia oggi al

meglio la complessità e la problematicità del fare–storia. Anche in educazione, in storia dell’educazione, la storia sociale si è inserita come una rivoluzione storiografica di cui si stanno sondando frontiere e modelli, tipologie d’indagine e la stessa tradizione (pur recente), proprio per decantarne il ruolo storiografico, lo stemma metodologico e tematico, la ricchezza interna e la voca-zione interpretativa che fanno della storia sociale dell’educazione il luogo più sofisticato della ricerca storico–educativa e, al tempo stesso, quello più inquieto e significativo. Ma proprio per questo anche il più esemplare. Oggi e ancora forse domani.

In quella sede anche chi scrive, se ha rilevato che è difficile

distinguere nettamente la storia generale della pedagogia dalla storia sociale dell’educazione, perché l’elemento sociale è sempre presente (la differenza è solo sfumata e negli accenti), ha sottolineato i vasti campi di ricerca che si aprono a questa nuova, giovane disciplina. Infatti, ha osservato,

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18 Presentazione

in rapporto alle ricchissime possibilità di ricerca la storia sociale dell’educazione si muove con entusiasmo col gusto della scoperta, arricchendosi di nuovi risultati e nuove ricostruzioni, illustrando i processi di formazione nella vita sociale senza esclusione di momenti, aspetti, protagonisti. Un campo di lavoro ricco e suggestivo che mostra il fascino delle indagini storico–educative sociali condotte fin qui e che ancora possono esser svolte. Un campo che dalla sua fluidità e dall’assenza di confini ben definiti, se vogliamo dalla sua stessa debolezza ricava slancio, fre-schezza, vivacità e stimoli per il complessivo rinnovamento degli studi di storia della pedagogia e dell’educazione e della storia tout court.

Ebbene, è in questa nuova dimensione della pedagogia sociale

dell’educazione che ci sembra si muova la ricerca di Maria Pia Musso su Il “gioco” e il Fascismo, caratterizzandosi per la vastità della mate-ria trattata, dei testi consultati, delle pubblicazioni esaminate, nel qua-dro di una molto vasta e puntuale bibliografia, corredando il tutto con una ricca e ben selezionata documentazione fotografica.

Con felice scelta di merito l’esame dell’Autrice non si chiude in un ambito ristretto, ma spazia in una ricca gamma di problemi e di realtà: si va dalla scuola dell’età liberale a quella del fascismo, dai pro-grammi della scuola elementare del 1923 all’espansione crescente dell’O.N.B., dalla concezione del gioco in Gentile, in G. Lombardo Radice, in Padellaro (Provveditore agli studi a Roma, figura se non di primo piano però ben presente nel quadro dei dibattiti sulla scuola del Regime) alle varie forme di sport, dai giochi da tavolo a quelli praticati all’aperto, dall’esercizio dell’educazione fisica alla dinamica (fondamentalmente concettuale) del rapporto tra gioco e lavoro, dalla “biblioteca–tipo” suggerita (dove gran posto occupano le biografie divulgative del Duce) ai vari tipi di giocattolo, ben distinti tra quelli per le bambine, future madri e donne di casa, e per i bambini, destinati ad esser guerrieri, e le immagini cinematografiche, con la propaganda di alcuni film specificamente fascisti e dei vari giornali Luce.

Al centro del lavoro un’analisi intelligente e minuziosa del gioco e della pedagogia relativa intesi nella forma allargata che si è detta, quali figurano negli anni ‘30, da una parte, nell’Enciclopedia delle Enciclopedie edita dal vivacissimo editore Angelo Fortunato Formig-gini, ebreo destinato poi a buttarsi dalla Ghirlandina di Modena per protesta contro le leggi razziali del 1938, di cui sono considerati i volumi Enciclopedia domestica curata da Giuseppe Fumagalli e Pedagogia a cura di Emilia Formiggini Santamaria, la collaboratrice di Luigi Credaro su cui possiamo leggere ora le riuscite monografie di Sabrina Fava e (in questa stessa collana) di Carlotta Padroni, e dall’altra nella ben nota e impegnativa Enciclopedia italiana Treccani,

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Presentazione 19

diretta da Gentile. Non manca nella prima appendice anche la consultazione di un volume campione dell’Enciclopedia dei ragazzi Mondadori.

Dalla comparazione delle due enciclopedie risulta che non mancano le analogie e le parti comuni, riferite soprattutto ai giochi del folklore e della tradizione. Ma poi ben presto le differenze compaiono e non sono lievi. Il fatto è che l’enciclopedia dei Formaggini non è fascista, e la Treccani lo è e come, con la guida del più autorevole teorico del Regime. Appare allora come nel gioco, nello sport, nella scuola e nell’extra–scuola, nelle letture suggerite, nei film e nei cinegiornali di quel periodo l’ideologia fascista è assiduamente proposta, in forma esplicita o nascosta.

La propaganda fascista penetra in profondità nelle dimensioni del gioco, dello sport, del tempo libero, cioè proprio là dove dovrebbe aversi il massimo di libertà, spontaneità, creatività. Ha ragione allora la Musso, che ben lo dimostra in tutto questo documentatissimo e originale lavoro, a sostenere che il gioco è «un termometro, un possibile indicatore del livello di indottrinamento subito dai bambini e accettato dagli adulti». Vi si riverberano, pur nel suo essere tra spon-taneità e serietà, oltre alle esperienze del passato la concezione di una società, specie se «con una identità forte», e aggiungiamo autoritaria e pervasiva.

In particolare rileviamo l’acutezza della notazione del passaggio storico dal giocattolo artigianale di pezza o di legno a quello indu-striale di latta. Uno sviluppo, una trasformazione che sono stati rilevati con finezza in una bella rassegna anche per le vicende dei vari giochi ispirati a Pinocchio (non vi sono solo quelli ispirati a Topolino e Paperino: non si dimentichi che il burattino di Collodi ha avuto e continua ad avere una fortuna mondiale). Il volume che se ne è oc-cupato, con bellissime illustrazioni a colori, è quello di Maurizio Sessa, Pinocchio balocco. Cent’anni del burattino fra artigianato e industria del giocattolo (Pisa, Edizioni ETS, 2003).

A questo riguardo vorremmo aggiungere una testimonianza perso-nale. Una volta, negli anni ‘30, c’era una distanza profonda tra i giocattoli del bambino ricco e quello (come anche chi scrive) che ricco proprio non era. Il primo poteva avere il trenino elettrico, di marca, il cinema in casa col proiettore Pathé Baby e i film della produzione relativa, il fucile Flobert. Per il secondo (non senza frustrazione) pote-va esserci al più il trenino a molla, che si rompeva subito, la rara frequentazione (perché non c’erano i soldi per il biglietto) del cinema

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20 Presentazione

periferico di terza categoria, e magari il fucile a tappi. Oggi la tecnologia e la “riproducibilità meccanica” ha ridotto le distanze, vi sono treni elettrici a prezzi accessibili a tutti, o quasi, e le cassette dei film da vedere in televisione, magari in affitto, consentono a tutti, a quasi a tutti, di avere il cinema a casa. Viene però anche un po’ di malinconia.

Così sono finiti anche i giochi di costruzione (la costruzione dell’aquilone, della teleferica per attraversare cogli oggetti il cortile, del “carrettone”, della radio a galena) e lo stesso meccano, quale avvio alla cotruttività, è in forte declino. E il fare, il costruire, la stessa lettura, sempre interpretativa e ricostruttiva, premesse a una positiva fantasia, hanno sempre meno sviluppo, soppiantati dalla civiltà della immagine e del consumismo.

Questa, ed altre riflessioni suggerisce la bella ricerca di Maria Pia Musso Il “gioco” e il Fascismo, che si muove con misura tra una quantità di informazioni raccolte e penetrazione critica.

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Avvertenza

Questo lavoro è il risultato di una revisione integrale dell’elaborato di tesi di Laurea discussa il 13 aprile 1999, presso l’Università di Ro-ma “La Sapienza”, dal titolo: Il “gioco” e il Fascismo. Il ruolo dell’ideologia nelle esperienze del ludico durante il Ventennio. Sul testo è stato svolto un lavoro di editing e di limatura, necessario per una pubblicazione scientifica.

Le modifiche apportate riguardano soprattutto il materiale foto-grafico, originariamente integrato nel testo e accorpato nell’Appen-dice IIc: si è scelto, dietro il prezioso consiglio del Prof. Aldo Visalberghi, di razionalizzare il materiale raccolto dividendo le foto per temi corrispondenti ai quattro capitoli. Si è fatta inoltre una “dolorosa” ma necessaria selezione del materiale fotografico che nel lavoro di tesi era più ricco e corposo.

Si è ritenuto anche opportuno aggiornare la Bibliografia con libri, saggi e cataloghi di mostre, usciti dal 1999 al 2005. A questo proposito si vuole dar notizia che da pochi mesi ha aperto a Zagarolo (Roma) un Museo del Giocattolo che raccoglie e conserva molti reperti storici.

Tuttavia rimangono aperte prospettive d’indagine legate alla problematica dei punti di contraddizione e delle linee di continuità tra gioco e tradizione, e tra gioco e ideologia nel Ventennio.

Questo saggio viene pubblicato anche grazie al continuo confronto e aggiornamento sul tema (dalla discussione della tesi fino ad oggi) che la sottoscritta ha avuto con i professori Aldo Visalberghi, Nicola Siciliani de Cumis e Giacomo Cives a cui va un sentito ringrazia-mento. Inoltre è stato essenziale per la riuscita di questo lavoro, il so-tegno e l’aiuto di un compagno di lunga data, Andrea Funtò, della mia famiglia e in particolare dei preziosi racconti di mia nonna, Ornella Cappelli, che figura in copertina, con i quali sono cresciuta.

Roma, giugno 2005

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Capitolo Terzo La materia

3.1 Il giocattolo: la fabbrica del consenso indotto (l’immagine) Il giocattolo, lo strumento di gioco o il materiale di cui si serve il

bambino, è in sé educativo quando costituisce un momento di auto-formazione, fondamentale per la crescita; quando diviene oggetto transizionale,1 commutatore tra l’essere e il fare; quando permette la costituzione di un’area simbolica che favorisce la sempre maggiore distinzione tra realtà interna e realtà esterna.

Il giocattolo, in quanto strumento del gioco, oggetto permanente che sintetizza la rappresentazione del mondo di una data società (inse-rita in un tempo e in uno spazio) tende a saldare la connessione tra passato e presente e a sintetizzarla in un oggetto ludico che acquista il valore di significante diacronico inserito in un significante sincronico. Nel giocattolo c’è una sintesi dialettica tra passato e presente, tra idee (elementi) di ieri e forma (materia) di oggi: l’oggetto diventa il signi-ficante della storia.

In questo capitolo si analizzeranno per temi, i giocattoli più diffusi durante il Ventennio: il punto di partenza è il paragrafo su “I gio-cattoli” scritto da Cesare Zavattini2 negli anni Trenta, il cui incipit re-cita:

I giocattoli sono indispensabili come l’acqua, l’aria, la luce. Vi sono infatti nel

mondo grandi fabbriche di cannoni, di navi, ma altresì grandi fabbriche di giocattoli. Vi entrano lunghe file di operai, quello che conta i soldatini di piombo, quello che dipinge i palloncini, quello che fa i buchi nei flauti di latta.3

Occorre tuttavia chiarire che la produzione italiana di giocattoli

inizia e si sviluppa imitando quella straniera, soprattutto la Germania, la Francia e gli Stati Uniti. I costi dei giocattoli italiani sono però

1 V. D.W. Winnicott, Gioco e realtà, Roma, Armando, 1974. 2 Cfr. C. Zavattini, Al macero, Torino, Einaudi, 1976, pp. 74−77. 3 Cfr. ivi, p. 74.

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Capitolo terzo

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inferiori e quindi, più economici per gli acquirenti, rispetto a quelli dei paesi stranieri.4

3.2 La bambola: un’educazione al femminile Oggetto ludico per eccellenza che trova spazio in ogni tempo e rap-

presenta in ogni epoca storica, un simbolo−simulacro polivalente ad uso dell’uomo: il rito−gioco (o il gioco−rito) è l’elemento costitutivo della bambola.

Essa fa il suo ingresso nel mondo dei giocattoli nell’Ottocento diventando «sinonimo di un’infanzia tutta al femminile, un’amica docile e silenziosa, che rispecchia fedelmente il modello di donna del-le varie epoche».5

La sua fisionomia antropomorfa può assumere qualsiasi funzione che l’uomo−creatore decide di attribuirle e che risponde alle necessità rappresentative delle diverse società: nella bambola

si intrecciano sacro e profano, mito e fantasia, gioco e magia. […] la bambola appare, prima come segno magico, poi come forma simbolica, a raffigurare diversi, ramificati significati: significati inerenti alla nascita, alla madre, al bambino, alla vita, alla morte, alla persona, alla figura umana, alla femminilità. Non tutti però sono specifici della bambola. […] Essa invece è immagine della figura femminile; è dun-que il simbolo proprio di un solo significato: la femminilità nelle sue valenze sessuali, riproduttive, materne.6

La bambola è dunque il riflesso delle possibili metamorfosi

dell’archetipo femminile all’interno di una società e di una cultura: inscritta in queste coordinate, essa diviene modello comportamentale e «immagine materna finalmente posseduta, figlia ideale e obbediente per prepararsi al difficile gioco della vita».7

Il doppio statuto della bambola è dato dalle sue caratteristiche di: a) oggetto ludico conforme al tipo di società che l’ha ideata; prodotto ideologico−simbolico che si incarna nella figura della Madre, della

4 V. AA.VV., Sognar balocchi, Ravenna, Longo ed., 1986, p. 13. 5 Cfr. ivi, p. 21. 6 Cfr. F. Gicca Palli, La bambola. La storia di un simbolo dall’idolo al balocco,

Firenze, Convivio, 1990, p. 122. 7 Cfr. M. Tosa, Bambole, Milano, Bompiani, 1993, p. 8.

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La materia

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Vergine, della Figlia ideale, a seconda delle circostanze; b) «balocco» che lascia libero il bambino nel percorso immaginativo e nel-l’interpretazione emotiva che ne dà di essa; le è attribuito un significato e un ruolo che la trasforma in modello comportamentale completo di valori, divieti e tabù condivisi dal mondo adulto. In questo senso la bambola è definibile come oggetto−ideologico che in-carna e riproduce un ruolo socio−culturale.8 I cambiamenti formali e costitutivi ai quali è stata sottoposta la bambola, nella sua lunga storia, dipendono da due fattori: 1) dalla maggiore attenzione all’aspetto esteriore che, a partire dal XIX secolo risente del mutato gusto estetico e del modificarsi del modello femminile nella società industrializzata; 2) dal ruolo didattico attribuitole dal mondo adulto, dal momento che spesso essa viene proposta come doppio ideale al quale la bambina deve guardare. Secondo Marco Tosa,

possiamo identificare tre tipologie determinanti tra le bambole prodotte durante tutto l’Ottocento e i primi trent’anni del Novecento, […] che torneranno metodicamente anche nei tempi moderni […].

La prima, quella definita oggi “bambola−manichino”, raffigurava l’immagine di una donna adulta, con le caratteristiche estetiche idealizzate secondo modelli di bellezza tipicamente ottocenteschi. Il colorito del volto in biscuit era assai pallido, illuminato dai profondi occhi in vetro blu e da tocchi di rosa acceso sulle guance. 9

Il secondo tipo, brevettato dalla ditta tedesca Motschmann nel 1857

è un «bebè» articolato (i francesi la battezzano con questo nome) derivato da modelli giapponesi, realizzato in cartapesta ricoperta di cera e telina imbottita. Esso rappresentava, a seconda del colore e dei

8 Questo accade soprattutto durante l’Ottocento, punto di svolta della concezione

dell’infanzia e secolo d’oro per le bambole borghesi. Infatti durante il XIX secolo si assiste al passaggio della bambola come oggetto artigianale ad oggetto di produzione industriale che assume una precisa identità formale e di uso: la bambola è la regina indiscussa dei balocchi. Questi ultimi, grazie alla maggiore diffusione garantita dalla produzione industriale, non sono più appannaggio esclusivo della classe borghese.

Il giocattolo abbandona l’aspetto puramente artigianale che aveva assunto sul finire del XVIII secolo per evolversi in vera e propria industria, senza tuttavia perdere le caratteristiche di qualità che lo identificano. Infatti molte delle fasi necessarie alla realizzazione delle teste (di porcellana lucida, di gesso, in biscuit…) dei corpi e degli abiti per le bambole, ad esempio, rimane vincolata ad una manualità specializzata, attentamente selezionata che impedisce l’uniformità del prodotto finale.

Per approfondire questo tema si veda il libro di M. Tosa, Bambole, cit., pp. 7−74. 9 Cfr. ivi, pp. 28−30.

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vestiti, un bambino o una bambina di sei−otto anni: sempre più perfezionati dai brevetti (soprattutto dell’industria francese) i «bebè» potevano dormire, mangiare, bere, piangere e camminare. Erano costituiti da una testa in biscuit tagliata sulla nuca, con occhi di vetro; orecchie forate per gli orecchini e parrucche o capelli veri. Con-tinuando con Tosa:

I più noti erano i corpi articolati costruiti con legno e cartapesta, ad elementi se-

parati e trattenuti insieme da elastici, molle e corde. La terza grande rivoluzione formale legata all’evolversi della bambola […] si

manifestò verso la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, trovando terreno parti-colarmente fertile in Germania […]. Il nuovo nato venne battezzato ancora alla francese: “bebè−caractère” […]: raffigurazione di neonati o di bambini di pochi mesi, le cui curiose espressioni di pianto, riso, capriccio o altro, venivano direttamente ispirate alla realtà […].

La loro struttura costruttiva era abbastanza semplice: testa di biscuit fortemente caratterizzata con occhi di vetro o dipinti, parrucca o capelli modellati, corpo tipicamente infantile, grassottello e con gli arti incurvati nelle tipiche posizioni dei bambini. Tale corpo veniva realizzato in cartapesta o in un miscuglio di gesso, colla, segatura e cartapesta, facilmente lavorabile in stampi, detto “composizione”.10

La bambola assume un’identità precisa e precisata dalla società in

cui vive; il suo aspetto esteriore è conforme: a) alla moda a cui si ispirano i vestiti; b) al topos di bellezza estetica dell’epoca; c) alla cultura e al folklore che sintetizzano in un tipo e in una icona−oggetto, l’ideale di donna−madre−ragazza decorosa.

Negli anni che vanno dal 1900 al 1915 circa, la Germania si impone come nazione guida nel campo del giocattolo e della bambola: l’idea francese del bebè−caractère fatta propria dai tedeschi, invade i mercati europei e d’oltre oceano. L’aspetto moderno e in qualche mo-do rivoluzionario del bebè−caractère consiste nella realizzazione di bambolotti derivati dalla realtà: il neonato−fantoccio riproduce espressioni tipiche dei bambini piccoli, comprese smorfie o atteg-giamenti di stupore. Marco Tosa dice che

l’interesse per il mondo infantile non più idealizzato e trasferito in termini estetici astratti, ma espresso con accenti veristici, a volte fastidiosi e perfino “brutti”, diviene prerogativa e vanto dell’industria della bambola tedesca.

10 Cfr. ivi, p. 30.

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È l’inizio di una nuova era che certamente trova origini nel sistema sociale e morale tedesco […].

I bebè−caractère tedeschi conquistano subito il cuore di migliaia di bambine ansiose di essere “mamme” e forse un po’ stanche di fare le signore per bene.11

Da qui emerge il legame (o il vincolo) nei diversi secoli, tra

l’immagine della donna e della femminilità, e il meccanismo della macchina industriale, produttrice dell’identità (fisica e morale) della bambola. L’evoluzione del modello della bambola sembra seguire e riproporre la storia delle donne in rapporto alla cultura e alla società: l’immagine della femminilità, superato il rigore ottocentesco, si cri-stallizza in un nuovo ideale che vede la donna come madre attenta e affettuosa. Le bambine giocando con il loro bebè−caractère vengono preparate al futuro ruolo di progenitrici e madri.12

Nel catalogo Sognar balocchi a questo proposito si legge: Nel giro di pochi anni si modifica in modo radicale la struttura familiare, mutano

le condizioni sociali, economiche e politiche. Il gioco acquista una dignità culturale diversa […].

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento anche il processo di iden-tificazione delle bambine nelle romantiche immagini femminili fino ad allora pro-poste finisce gradualmente per evolversi […] ed il tuffo nella realtà è quasi immediato. Il futuro che aspetta le bambine è lì davanti ai loro occhi. Eccole trasformate in piccole mamme e il gioco nel gioco si fa ancor più realistico grazie ai bebè−caractère.13

3.3 Le Ditte Italiane La prima bambola “nazionale” nasce solo nel 1870, grazie a Luigi

Furga Gorini, nobile possidente terriero che investe il suo capitale nell’industria dei giocattoli. Insieme a Ceresa, Luigi Furga avvia in Italia un’industria che produceva maschere e teste per bambole in cartapesta. Il prodotto tuttavia, è molto rudimentale e poco condor-renziale rispetto alla bambola che offre il mercato internazionale: sono bambole con corpo e testa uniti, con volto dipinto e vestiti con abiti

11 Cfr. ivi, pp. 62−63. 12 Per approfondire questo rapporto si veda ivi, p. 57 e sgg. 13 Cfr. AA.VV., Sognar balocchi, cit., p. 23.

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semplici. Misurano dai 12 ai 14 centimetri e costano circa 60 cen-tesimi l’una.

La fabbrica Furga nasce nel 1872 a Canneto sull’Oglio, in provincia di Mantova. Man mano che la produzione delle bambole prende piede, il prodotto si perfeziona: compaiono teste in cera su cartapesta, più competitive delle prime prove. Tuttavia la qualità della Furga non regge il confronto con il successo dei bebè−caractère francesi, in biscuit.14

Dopo la prima guerra mondiale la figlia di Luigi Furga, Carlotta Superti Furga, per abbassare i costi e per svincolare la ditta del padre dalla dipendenza dalle industrie estere di teste in biscuit per le bambole (e soprattutto da quella tedesca15), ne avvia la produzione in proprio: nasce così il modello che reca il marchio «Furga Canneto sull’Oglio» sulla nuca della bambola.

Di maggiore interesse rispetto alle «bambole Furga, di mediocre qualità»16 sono i bebè−caractère, riproduzioni dirette dei fortunati modelli tedeschi.

La ditta Furga, in seguito alla chiusura della fabbrica di porcellana nel 1928,

conosce un graduale sviluppo nella produzione della bambola, ma solo negli anni successivi alla seconda guerra mondiale giunge a connotare prodotti veramente autonomi nel gusto e nella fisionomia, tali da accreditarla a livello internazionale. Sull’esempio della Furga altre piccole fabbriche sorgono in Italia dalla fine circa dell’Ottocento, e restano attive più o meno fino al 1940 circa.17

14 L’impiego del biscuit per le teste delle bambole consente una grande

verosimiglianza: il biscuit viene presto utilizzato da molte ditte. L’aspetto traslucido, i lineamenti dipinti da maestri artigiani dell’epoca, occhi di vetro soffiato, parrucche di mohair o capelli veri, completano l’immagine di realismo voluta da questo tipo di bambola.

Il termine «biscuit» nasce dalle prerogative di tale materiale: dopo la pressione negli stampi, unite le due parti della testa, essiccata, viene passata in forno per una prima cottura. Si procede poi alla decorazione, secondo le qualità richieste dalla ditta pro-duttrice. La testa viene coperta di vernice satinata per poi tornare in forno per una seconda cottura. Da ciò il nome caratteristico: «biscuit».

15 V. AA.VV., Sognar balocchi, Ravenna, Longo ed., 1986, p. 9. 16 V. M. Tosa, Effetto bambola, Milano, Idea Libri, 1987, p. 88 e sgg., dove si legge:

«bambole di mediocre qualità, dalla fisionomia omogenea […]. Prodotte con occhi mobili o fissi, in varie misure, da pochi centimetri fino al metro di altezza, hanno corpi semplici e articolati o, in alcuni esemplari di circa trenta centimetri, in telina imbottita di paglia, con braccia in biscuit e testa e spalle senza snodo al collo».

17 Cfr. ivi, p. 89.

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Nel 1921 Mario Franco, proprietario di una ditta di Torino, deposita un «brevetto negli Stati Uniti e in Germania per un sistema di fabbricazione di bambole in panno: questo metodo è stato proba-bilmente quello usato da Enrico Scavini per la produzione Lenci».18

I coniugi Scavini nel 1919 fondano a Torino una ditta di bambole, che esordisce con il motto: «Ludus Est Nobis Constanter Industria». Il nome e il marchio di fabbrica «Lenci» deriva dalle iniziali di questo motto.

Le bambole della Lenci, fatte di panno, riscuotono ben presto un successo internazionale, di pubblico e di mercato divenendo di moda anche in America. Il segreto stava nell’impiego di giovani artisti ap-pena usciti dall’Accademia di Belle Arti di Torino: l’immediatezza espressiva delle bambole in panno e la vivacità cromatica dei vestiti immetteva sul mercato

un modo innovativo di fare “arte” attraverso prodotti non esplicitamente definiti “artistici” in senso accademico. Questa loro eccezionalità ne decreta l’indiscussa fama, facendo della Lenci una fucina di idee e progetti rivolti anche alle celebri ceramiche, ai costumi e vestiti per bambini, ai mobili e complementi d’arredo, em-blema di una certa Italia benestante.19

Il successo della ditta è crescente: nel novembre del 1922 il

marchio «Lenci di Enrico Scavini» viene depositato in Italia, in In-ghilterra e in America:

possedere una pupa firmata Lenci diventa il desiderio di molte bambine, spesso insoddisfatto, dati i costi non certo bassi. Queste bambole diventano anche dono gradito per le giovani donne, per le signore, per le amiche […] di benestanti signori.20

Le bambole Lenci sono dunque un giocattolo costoso che raggiunge

effettivamente le bambine e le «signore» della medio−alta borghesia. Comunque il successo riscosso dalla ditta porta alla celebrazione della bambola Lenci «in toni trionfalistici come “giocattolo nazionale” dalla

18 Cfr. ibidem. 19 Cfr. M. Tosa, Bambole, già cit., p. 82. 20 Cfr. M. Tosa, Effetto bambola, già cit., p. 92.

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stampa di regime; specialmente quando compaiono vestite da Giovani Italiane»21 o da Balilla.

L’ideologizzazione del balocco trova, nella bambola Lenci vestita da Piccola Italiana una conferma: l’oggetto ludico si fa veicolo del-l’ideologia fascista materializzando il messaggio didattico rivolto alle bambine. Il loro immaginario segue due linee parallele: 1) giocare con la bambola significa prepararsi al ruolo sociale che spetta alla donna, madre premurosa ed ottima massaia. A questo scopo si pensa ad una «Cucina economica per bambola, modello in scala estremamente rigoroso, con gli sportelli per il carbone apribili, i cerchi dei fornelli estraibili, il tubo per il fumo, il secchio per il carbone, la batteria completa di pentole in metallo a 18 lire»;22 2) la bambola ricorda anche la realtà politica nella quale la «buona massaia−madre−donna» deve operare.

Inscritta in questo cerchio didattico (la buona madre è anche buona cittadina italiana, rispettosa della cultura fascista) la bambina viene messa a contatto con balocchi veridici che inscrivono il ruolo fem-minile all’interno dei dogmi fascisti.

La vasta produzione Lenci comprende modelli raffiguranti «donne adulte dalle pose un po’ fatali, sognanti, civettuole […] come la mi-gliore tradizione vuole».23 Il panno con cui sono fatti gli abiti della bambola, secondo la memoria degli alunni dell’Università della Terza Età:

è caldo e ruvido, le mani amano accarezzarlo, ricevono sensazioni tattili che predispongono alla tenerezza. L’abito è corto e lascia scoperte le gambe grassottelle e informi, come i bambini piccoli. I capelli non hanno boccoli, sono lisci, squadrati in grandi frangette […]. Se una bimba l’abbraccia, sente contro di sé il calore d’un corpo vivente. Se stringendo si mette a correre, le braccia e le gambe della Lenci

21 M. Tosa, Bambole, cit., p. 82. Rimando alla visione delle foto che riguardano i giocattoli e in particolare quelle

raffiguranti la bambola «Balilla» con la divisa originale Negli anni Trenta la bambola Lenci vestita da Balilla era quanto di più raffinato venisse prodotto dall’industria di giocattoli. Bellissime bambole ma anche costose. Nel libro a cura di F. Piccinelli, Le perle della memoria. Le ricerche dell’Università della Terza Età, vol. IV, Roma, 50 £ PIU’ ed., 1993 (sez. sulle foto dei giocattoli, p. IV), a proposito della lussuosità delle bambole Lenci si legge: «In realtà era più una soddisfazione per la mamma o per chi aveva donato l’oggetto che non per la bambina per la quale restava un oggetto precluso».

22 G.F. Venè, Mille lire al mese, Milano, Mondadori, 1990, pp. 210−211. 23 M. Tosa, Effetto bambola, cit., p. 92.

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sbattono morbidamente disarticolate tanto da sembrare che anche lei partecipi alla corsa.24

Le bambole Lenci realizzate in feltro, definito erroneamente25

«pannolenci», rappresentavano: a) bambine con espressioni sim-patiche, fortemente caratterizzate, a volte caricaturali; b) donne adulte vestite alla moda e con accessori femminili (il cappello, la borsetta, il libro, il mazzo di fiori in mano).

Rimane aperta, tuttavia una domanda che propone anche Franco Piccinelli:26 «chi poteva permettersi di comperare una bambola Lenci? Quante sono le bambine che la possedettero e poterono giocarci liberamente?».

Oltre alle bambole firmate e costose troviamo le più accessibili bambole in celluloide e di panno. Le prime, erano il frutto di una scoperta della seconda metà del XIX secolo: la celluloide si impone come materiale innovativo per le sue caratteristiche di lavabilità, leggerezza e relativa infrangibilità (rispetto alla porcellana lucida). Il procedimento che porta alla realizzazione della bambola in celluloide è complesso;27 le ditte che usarono questo procedimento furono so-prattutto tedesche («Minerva», «Krammer & Reinhardt», «Bruno

24 F. Piccinelli (a cura di), Le perle della memoria. Le ricerche dell’Università della

Terza Età, già cit., p. 63. 25 M. Tosa, Bambole, cit., p. 212. 26 F. Piccinelli (a cura di), Le perle della memoria. Le ricerche dell’Università della

Terza Età, già cit., p. 63. La risposta di Piccinelli è la seguente: «potevano permettersela gli ufficiali del Regio

Esercito al comando di un battaglione […], gli statali del gruppo A e quelli del gruppo C che facevano gli straordinari. […] quelli del gruppo B stavano meglio di tutti […]. Potevano permettersela gli arcipreti che però non sapevano cosa farsene; i mercanti di bestie […]; le professoresse di pianoforte arricchite dalla musica; qualche levatrice, alcuni agrari, sparsi centurioni della Milizia che avrebbero voluto chiamare Rachele la bambola Lenci ma si accontentavano di un più cauto Rebecca» (Cfr. ivi, p. 63).

Questo volume riporta i risultati di una ricerca effettuata dagli «studenti d’argento» come si autodefiniscono dell’Università della Terza Età, sui ricordi «del gioco di un tempo […] di come giocavamo. […] Il ricordo è diventato cultura e il contenuto delle ricerche, arricchite dalla memoria di tutti, viene ora consegnato alle generazioni più giovani» (Cfr. ivi, p. 6). Una preziosa eredità che andrebbe studiata per essere assorbita e per diventare «cultura», storia di un passato che ci riguarda e ci costituisce. Il pregio di questo libro consiste nella raccolta di numerose testimonianze di vita vissuta, di ricordi di persone comuni e nello stesso tempo speciali, poiché diventano la voce narrante della storia del passato.

27 Rimando pertanto alla consultazione del libro di M. Tosa, Bambole, già cit. p. 209.

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Schmidt»); tra le ditte italiane ricordiamo: «A.N.L.I.», «I.N.C.A.», «Sita e Montoli». A causa dell’alto grado di infiammabilità sul finire degli anni Cinquanta, la Germania dichiara fuori legge la bambola in celluloide.

Le bambine piccoloborghesi, comunque, negli anni Trenta gio-cavano alle «piccole mamme» con i loro

bambolotti in celluloide da spogliare e rivestire, sicuramente maschi per via della pettinatura (a differenza delle bambole avevano i capelli dipinti) se messi a nudo si rivelavano rigorosamente asessuati. […] Alcune venivano messe in vendita con abiti vistosi, zeppi di volants, con le maniche corte a sbuffo, ma non servivano per giocare. Quelle ritenute educative si potevano spogliare e valevano soprattutto come manichini cui cucire addosso un abitino nuovo.28

Le bambine povere giocavano con bambole di pezza, create dalla

mamma o dalla nonna, con stracci logori e la testa gonfia di trucioli o di paglia. La descrizione di queste bambole ce la danno gli alunni dell’Università della Terza Età:

erano ricavate su un pezzo si manico di scopa, un legno rozzo ma assai pertinente alla funzione a cui era chiamato […]. Un vecchio agoraio, ritagliato e ben ricucito sul pezzo di legno, fungeva da testa, e sulla testa, con i pastelli Presbitero o con il sangue d’un cavallo salassato, si disegnavano la bocca, gli occhi, il naso, alcune efelidi, perché una bambola di pezza senza efelidi sulle guance sarebbe come una donna senza ventriera […]. […] fatta dunque la testa si attaccavano al legno due braccine ripiene di segatura. Unite alle braccia, le mani […] con cinque dita, tutte uguali, rigide, distese, tenute assieme dal fil di ferro.

Poi il legno era inguainato da un vestitino […] un capolavoro di sartoria, essendo le nonne quasi tutte sarte.

[…] E non c’era gioia più grande per le bambine: che con la bambola di pezza diventavano subito responsabili, adulte. […] Le parlavano, se la portavano a letto, ed era una bambola animata dagli affetti dell’intera famiglia.29

Un altro settore che si afferma durante il corso del Novecento è

quello della produzione di bambole in stoffa, di solito in tela di cotone tagliata, dipinta e imbottita. Il tessuto, impiegato in passato per costruire pupattole povere, permette alla luce di nuovi orientamenti nel

28 G.F. Venè, Mille lire al mese, cit., p. 210. 29 F. Piccinelli (a cura di), Le perle della memoria. Le ricerche dell’Università della

Terza Età, cit., p. 64.

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mondo della progettazione delle bambole, una nuova sperimentazione, soprattutto in Germania.

La bambola come gioco prettamente femminile, oggetto−veridico che comunica e trasmette un messaggio culturale e pedagogico, strumento didattico con un valore d’uso strumentale alle credenze della società. L’aspetto antropomorfo della bambola, sempre più si-mile per aspetto esteriore e per atteggiamenti al mondo umano, porta alla miniaturizzazione del mondo adulto e alla riproduzione nel gioco, delle regole e dei valori condivisi dalla società.

Il regime si preoccupa di educare le bambine al ruolo futuro di mamme e di massaie servendosi dei molteplici canali educativi (nella scuola con l’insegnamento dell’economia domestica e dei «lavori manuali e donneschi»; attraverso le attività svolte nelle Organizzazioni femminili; i giochi «adatti alle fanciulle», e quant’altro): la pub-blicizzata produzione di bambole vestite da Balilla o da Giovani Italiane nel corso degli anni Trenta è un ulteriore strumento nelle mani del regime che contribuisce a consolidare il progetto di omologazione culturale e di asservimento all’ideologia dominante della popolazione giovanile.

3.4 Il Meccano e altri giocattoli per i ragazzi Il corrispettivo maschile del gioco della bambola può considerarsi il

meccano, gioco per gli adolescenti (fino all’età in cui si conseguiva il diploma dell’Istituto Tecnico) e per i più piccoli. L’età adatta veniva indicata nella parte esterna della confezione. Il meccano per bambini consisteva in una scatola di montaggio con pezzi geometrici di ferro smaltato, di forme triangolari, rettangolari e quadrate. Per comporre l’oggetto occorreva incastrarne le estremità e fissarle con un perno. Ne risultava di solito, un carrettino, un camion o un carro, una chiesetta.30 Gian Franco Vené31 parla anche di un tipo di meccano più complesso:

il meccano Marklin o di tipo Marklin, riservato agli adolescenti. Le scatole partivano dal numero zero, consigliato ai ragazzi dai 6 agli 8 anni, e ascendevano fino a toccare età incompatibili con i giocattoli. Fin dal numero zero questo tipo di

30 V. G.F. Venè, Mille lire al mese, cit., p. 201. 31 Id., ivi, p. 202.

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meccano presupponeva che un bambino sapesse distinguere tra dadi, controdadi e bulloni e arrangiarsi con la filettatura delle viti. Il gioco si componeva di listelle d’alluminio di varia lunghezza, ogni centimetro un foro dove infilare le viti: già nella scatola numero zero erano comprese una manovella e quattro ruote scanalate adatte a far funzionare una puleggia.

Il libretto delle istruzioni numero zero suggeriva di costruire un semaforo a braccio da ferrovia nel quale il faro luminoso era sostituito da una rotella d’ottone, un carretto trainato da un cavallo la cui sagoma era risolta da una serie di sbarre, un carrello ferroviario, una piccola gru, oppure pupazzi […] che allora erano definiti dal manuale Pinocchio o Pagliaccio da circo.

Il meccano è un gioco che esige attenzione, ordine, scrupolo

nell’osservare le istruzioni; era inoltre un giocattolo tanto pub-blicizzato32 quanto costoso, che non tutti potevano permettersi: si regalava di solito a Natale o durante la Befana fascista.

I bambini più piccoli venivano iniziati al meccano con le costruzioni di legno: scatole che contenevano una serie di paral-lelepipedi di vari colori e misure; la sagoma di un arco che poteva servire sia come ponticello sia come portale, «un frontale triangolare, un rettangolo che recava dipinto un orologio e un numero variabile di colonnine. Qui le istruzioni erano sommarie».33 I pezzi si tenevano insieme grazie all’equilibrio cercato ed imposto dal bambino.

I giochi in scatola del «Piccolo Architetto» e del «Piccolo Falegname» erano la versione economica (anche se non troppo, visto che il «Piccolo Architetto» costava sei lire) del meccano: li regalavano i nonni o gli zii, in occasione del compleanno o dell’onomastico. Gian Franco Vené sostiene che

il Piccolo Falegname era più impegnativo che divertente, eppure non c’era famiglia piccoloborghese nella quale un ragazzino non fosse condannato ad apprendere i

32 Sul giornalino per ragazzi «Il Corriere dei Piccoli» la pubblicità del meccano

ricorre in diversi spazi pubblicitari riservati ai giocattoli. Alla «Mostra permanente» che si è tenuta a Pian delle Orme (LT) nel

dicembre−gennaio 1998−1999, nel capannone riservato ai «Giocattoli d’epoca» erano esposti: a) un meccano che riproduce una giostra (1935−1936) in metallo colorato (rosso, verde e giallo): sulle braccia della ruota sono disegnate delle svastiche tedesche (in nero sullo sfondo bianco) e porta in cima la bandiera italiana. Il meccano fa parte della Collezione Nino Ancillotti; b) aeroplani in miniatura di legno o di metallo, fatti a mano, che sono la riproduzione esatta dei modelli aerei italiani e tedeschi, con il fascio disegnato sulle ali o la svastica. Questi modelli aerei insieme a quelli navali fanno parte della Collezione Michele e Giovanni Canterani.

33 G.F. Venè, Mille lire al mese, cit., p. 202.

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rudimenti dell’arte del traforo. Era l’equivalente del ricamo per le bambine e del pianoforte delle ragazze ricche.34

Un altro gioco in scatola diffuso era il «Piccolo Inventore»: un

manuale del «fai da te» che suggeriva di costruire oggetti inutili e spesso impraticabili.

Per esempio il cannone ad acqua. Farsi dare dalla mamma un tubetto vuoto di

latta, di quelli da pasticche tipo Formitrol. Riempirlo d’acqua e tapparlo con un turacciolo ben premuto. Costruire, col traforo, due supporti di legno in modo che il tubetto resti sollevato orizzontalmente.

Prendere un moccolo di candela, accenderlo e porlo all’estremità senza turacciolo del tubetto. […] Quando l’acqua bollirà vedrete il vostro cannone sparare il turacciolo a una bella distanza.35

Più silenziosi ed economici, giocattoli da usare in casa erano dei

modelli in cartoncino da ritagliare per costruire, in tre dimensioni, un castello da fiaba, un aeroplano fedele a quello vero, una caravella di Cristoforo Colombo, un carro armato. È un gioco che nasconde delle insidie. Ritagliare le sagome non è tanto facile come può sembrare; bisognava essere precisi ed usare le forbici con la punta, proibite ai bambini. Occorreva dunque l’aiuto della mamma. «Il gioco finì nel novero di quelli ritenuti più adatti durante una malattia, quando il ragazzino stava a letto e la mamma sedeva al suo fianco».36

Tra gli altri giochi per ragazzi troviamo: le biglie, gioco tipi-camente maschile che presenta numerose varianti. Questo gioco era molto popolare specie tra gli scolari di età compresa fra i sette e i dieci anni, di estrazione sociale indifferente. Lo si praticava ovunque: nei cortili, nei giardini, sulla spiaggia. Le più comuni erano quelle fatte di creta, di una sostanza simile alla malta indurita: dalla ricerca fatta dall’Università della Terza Età37 risulta che

34 G.F. Venè, Mille lire al mese, cit., p. 203. L’autore offre anche una precisa descrizione degli attrezzi inclusi nella scatola del

«Piccolo Falegname» e del «Piccolo Inventore» (V. ivi, pp. 203−204). 35 Id., ivi, pp. 204−205. 36 Id., ivi, p. 206. 37 F. Piccinelli (a cura di), Le perle della memoria. Le ricerche dell’Università della

Terza Età, già cit., p. 75.

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ne circolavano di vetro, ma […] negli usuali baratti infantili, una bilia di vetro ne valeva dieci di creta (e un bottone da pastrano militare o da pelliccia di finto astrakan ne valeva venti di comuni, cioè di bottoni facilmente reperibili). Perciò esse co-stituivano un autentico tesoro, erano tenute di riserva, nel caso la provvista si esaurisse.

Tra i giochi popolari ed economici ci sono: la trottola (curlo al Sud

e pitoro nell’Italia Centrale38) che era sia di legno, semplice o colorata, con una punta d’acciaio, sia di latta, colorata e sonora, più moderna e più costosa. Quest’ultima, più grande di quella di legno, aveva una forma simile ad un mappamondo, mobile attorno ad un perno.

Il gioco della bandiera veniva usato anche come esercizio fisico nelle ore di educazione fisica. È un gioco competitivo con finalità educativo−nazionalistiche: se si è attenti al segnale di partenza, veloci nella corsa che «rinvigorisce» il corpo, astuti nel prendere per primi la bandiera, si assegna un punto alla propria squadra. L’ordine, la di-sciplina, la forza, il senso del gruppo, sono i presupposti per questo gioco−simbolo dell’Italia fascista (come anche del tiro alla fune).

Oggetti comuni ad ogni bambino erano l’automobilina, l’aeroplano che ricordava l’idrovolante di Italo Balbo e le sue trionfali traversate transoceaniche degli anni Trenta; il trenino: «il primo trenino degno di attenzione anche da parte degli adulti fu il Marklin tedesco, verso il 1935, e l’italiano Ingap di Padova, la maggiore industria del giocattolo in Italia».39 Naturalmente i trenini di metallo erano dati in regalo ai bambini delle famiglie piccoloborghesi: giocare senza rompere i gio-cattoli meccanici era «la massima prova di buona condotta e lasciava presagire un futuro da buon cittadino».40

Nei parchi pubblici c’era la pista per le automobiline a pedali, i monopattini e le biciclette.41 Le automobiline erano tinte di rosso e di blu. Il modello a cui si ispiravano era quello usato per le macchine da corsa vere sulle quali, fino al 1932, correvano due piloti affiancati. Le

38 Id., ivi, p. 76. Nella stessa pagina c’è la descrizione della trottola sonora secondo la memoria di

un’alunna dell’Università della Terza Età. V. ivi, ai paragrafi: «Colorata e sonora», «Nonna Rosa», «Sculacciate», alle pp.

76−77. 39 G.F. Venè, Mille lire al mese, cit., p. 199. 40 Id., ivi, p. 201. 41 La fonte di queste notizie è G.F. Venè, Mille lire al mese, cit., pp. 186 e sgg.

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macchinine avevano infatti un’assicella per due bambini e doppia pedaliera, ma il volante era singolo.

Tra i giochi all’aperto preferiti dai ragazzi c’era il pallone; la fion-da, gioco che misurava la bravura di ciascun partecipante su un bersaglio a distanza; la lippa (per i romani nizza), un gioco tanto semplice quanto pericoloso: occorre un bastone robusto ed un pezzo di legno lungo una ventina di centimetri, a forma cilindrica. Il gioco consiste nel colpire con il bastone il pezzo di legno cilindrico posato per terra, facendolo saltare in alto lo si batte al volo, per scagliarlo contro l’avversario che a sua volta lo ribatte.

Questo gioco era precluso alle ragazze per due motivi: 1) per far alzare la lippa occorreva batterla con rapidità, forza e precisione; 2) nel gioco si dovevano assumere posizioni non «adatte» alle ragazze perché non conformi alla morale dominante.

L’oggetto più caro ai ragazzi negli anni Trenta era la «Pistola centocolpi» di latta, verniciata di nero: «funzionava inserendo dall’alto un rotolino di carta rossa che conteneva, a ogni centimetro, un’ombra di polvere da sparo. Costava una lira e mezzo; il rotolino di cartucce racchiusa in una scatoletta di cartoncino verde, 30 centesimi».42

Tra i giochi ispirati direttamente dal mondo degli adulti e da una società appena uscita dalla grande guerra c’è il gioco della guerra:

la guerra come divertimento infantile di evidente imitazione dei tragici eventi che non sempre sembrano tali quando si è bambini.

Si disegnavano tanti circoletti in terra, ciascuno dei quali rappresentava una Nazione impersonata da un ragazzo. Quando uno di costoro annunciava di voler dichiarare guerra, pronunciava il nome del Paese che intendeva aggredire, e allora il ragazzo che tale Paese rappresentava, doveva fuggire, e se stava per essere raggiunto gli era consentito di chiedere aiuto, stabilendo così un’alleanza volante […]. Il co–belligerante […] faceva in modo di ostacolare l’aggressore, gli rallentava la corsa.43

La prima metà del Novecento vede susseguirsi due conflitti

mondiali: la carenza di materie prime durante le guerre, fa sì che i giocattoli vengano per la maggior parte realizzati con materiali poveri o comuni; d’altra parte le difficoltà economiche delle famiglie impediva l’acquisto di giocattoli costosi, come il meccano, le bambole

42 Id., ivi, p. 139. 43 F. Piccinelli (a cura di), Le perle della memoria. Le ricerche dell’Università della

Terza Età, cit., p. 103.

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di porcellana o quelle Lenci. Così bastava un rocchetto, un elastico, un po’ di cera, due stecchini per costruirsi un carro−armato44 funzionale e completo di ruote cingolate: poteva correre, arrampicarsi anche su pendenze e salite, superare ostacoli.

Il libro di Gian Franco Vené riporta le parole di un quaderno di un bambino della seconda classe elementare di un centro rurale; è il 1940:

Domanda. Il giuoco che più mi piace? Il giuoco che più mi piace è alla guerra

[…]. È il giuoco che più mi piace perché mi pare di essere anch’io un soldato del DUCE che combatte. W l’Italia!45

Le martellanti suggestioni politiche provocavano nei ragazzi il

desiderio di imitare il modello di vita militare degli uomini adulti: inquadrati fin dall’età prescolare nelle organizzazioni fasciste i bam-bini ambivano al possesso del «giocattolo più prezioso». Il fucile modello ‘91 messo in produzione dall’Opera Balilla era un’arma lunga circa ottanta centimetri, dal peso di un chilo e 780 grammi. Nel libro Mille lire al mese46 a questo proposito si legge:

Era […] la copia fedele dell’originale funzionante, a parte le dimensioni […]. Per compensare le spese di produzione (l’Opera Balilla ne ordinò un quantitativo

limitato) il fucile finì nelle vetrine dei giocattolai, non certo a buon prezzo. Per i genitori fu imbarazzante dover tergiversare sull’unico giocattolo progettato dal regime. Il funzionamento dell’arma era identico a quello vero, tranne che per due particolari. La baionetta aveva la punta arrotondata e il percussore aveva la testa larga come il diametro dei bossoli. Il ‘91 era corredato da due caricatori di sei cartucce: uno a salve, uno no. I bossoli delle cartucce andavano riempiti con qualche “fulminante”, dischetti di carta con una punta di polvere da sparo. Quelli a salve facevano il botto e tutto finiva lì, il proiettile era tutt’uno col bossolo. Le cartucce funzionanti avevano invece la pallottola di legno che l’esplosione dei fulminanti espelleva per una decina di metri.

Più comuni e diffuse erano le spade di legno, i fucili e le pistole di

latta che si caricavano a pressione infilando nella canna un’asta alla cui estremità c’era una ventosa. I negozi di giocattoli vendevano anche divise dell’esercito a misura di bambini, ricche di rifiniture: erano

44 Id., ivi, p. 101, dove c’è la descrizione del carro armato fatto con un rocchetto di

filo usato. V. anche: G.F. Venè, Mille lire al mese, cit., p. 50. 45 G.F. Venè, cit., p. 88. 46 Id., ivi, p. 197.

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compresi l’elmo di latta col piumetto dei bersaglieri; le sciarpe ricamate da alta tenuta; medaglieri; gradi da generale. «Allora […] si giocava […] a italiani contro abissini e gli abissini, con le guance tinte di nerofumo e un vecchio asciugamano sulle spalle a simulare lo sciamma, armati di lance di canna e archi ricavati da un ramoscello».47

I cannoncini di latta degli anni Trenta, i soldatini di latta o di piombo, gli aeroplani di legno e di metallo, i carri armati di vario materiale, il fucile modello ‘91, erano riproduzioni miniaturizzate del mondo degli adulti, veicolo dell’ideologia fascista che attraverso l’immagine e l’oggetto, ribadisce ed impone il suo messaggio politico−culturale. I bambini si abituano ad immaginarsi pic-coli−soldati, che vivono per la Patria e per distinguersi in azioni gloriose e «virili»; i più benestanti si mettono anche in divisa da generali per recitare il ruolo affidatogli.

Così mentre le bambine crescono tra gli abitini per le bambole fatti con la piccola macchina da cucire «Necchi», il ditale e l’ago di celluloide, le formine e gli stampi in miniatura per i dolci, la bambola Lenci o quella di pezza, tra le lezioni di economia domestica e gli esercizi ginnici conformi alla femminilità, i bambini si ritrovano a giocare alla guerra, con tanto di carrarmati di metallo, di latta o di legno per i meno ricchi; a raccogliere per terra i bossoli delle pallottole esplose dai fucili o dalle pistole: i proiettili per i bambini diventano oggetti preziosi, cimeli da conservare o barattare a caro prezzo.48

L’opera di mascolinizzazione portata avanti dal regime nel campo culturale e politico influisce anche sulla rappresentazione dell’im-maginario dei bambini: qui emerge la faccia non autonoma del gioco; il giocattolo veicola messaggi ideologici ed è strumento di pro-paganda.

Tuttavia l’argomento è tutt’altro che concluso e presenta zone d’ombra e sfumature da ricostruire: rimangono aperte alcune domande cui occorrerebbe dare una risposta. L’operazione della ditta Lenci che

47 Id., cit., p. 198 48 V. a questo proposito l’intervista a Franco Piccinelli nell’Appendice III, in cui

parla dei bossoli dei proiettili come oggetto ludico, usato di norma, nei giochi di strada dei bambini.

V. anche F. Piccinelli (a cura di), Le perle della memoria. Le ricerche dell’Università della Terza Età, cit., p. 37; e il volume di Piccinelli, Tre civette sul comò. Roma, Newton Compton, 1990.

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crea una bambola Balilla e una Giovane Italiana, rimane un’operazione isolata, un’eccezione riservata alle classi della me-dio−alta borghesia? Ci sono state altre ditte che sull’esempio della Lenci hanno prodotto bambole conformi all’ideologia del regime, con costi più contenuti e dunque più accessibili alle classi popolari? La fantasia e l’immaginario del bambino quanto si esauriva nei gio-cattoli−prodotti ideologici propinati (il carro armato; l’aeroplano con il fascio sulle ali; le pistole di latta; l’elmetto di latta; le divise militari; i bossoli)? L’ideologia diventava gioco, immagine ludica che il bam-bino fissava sul suo giocattolo, disegnando un fascio o una svastica, per sentirsi parte del gioco degli adulti (vedi i disegni sul meccano a forma di giostra o gli aeroplanini di legno e metallo)?

Per approfondire questo tema che sembra non trovare spazio nei libri, si può procedere per due vie: 1) sondare il terreno inesplorato delle collezioni private: i collezionisti privati sono i maggiori custodi di quella parte di storia non riprodotta sui libri, degli oggetti d’epoca, prodotti nel clima culturale e politico di cui sono il riflesso (vedi i giocattoli d’epoca, le foto o i filmati amatoriali).

2) incontrare il maggior numero di persone che hanno vissuto direttamente, come bambini o adolescenti, l’esperienza del fascismo per sottoporre a verifica le teorie elaborate in merito. L’Appendice III di questo mio lavoro, può considerarsi un primo passo verso quella che la tradizione degli Annales chiama “microstoria”.

3.5 Il legno e la latta: due tappe del progresso dell’industria italiana del giocattolo (la materia)

Agli inizi del Novecento i cataloghi delle prime ditte di giocattoli

che vendevano per corrispondenza, ospitano disegni di giocattoli di legno, soprattutto di importazione. Con l’avvento dei cartoni animati nel cinema e dei personaggi dei fumetti la produzione di giocattoli in legno si moltiplica. Invadono il mercato i personaggi di Walt Disney: Topolino, Biancaneve e i Sette Nani, Pinocchio ed il Grillo Parlante, sono il regalo più gradito dai bambini, in occasione del Natale o della Befana fascista.

Il giocattolo di legno resta legato al mondo artigianale: i singoli pezzi vengono lavorati in luoghi diversi, poi assemblati, decorati e confezionati per il negozio. La facile reperibilità e la larga

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disponibilità del legno, inoltre, rende la produzione artigianale del giocattolo, popolare.

Un altro materiale usato per costruire giocattoli è il cartone che ha visto stampate figurine in un’ottica ed in una prospettiva tendente al verismo; mantiene una funzione importante per la ditta Cardini che lo utilizza per le scatole dei giochi, nell’autopubblicità dell’involucro della confezione. I primi cavallini e le prime bambole prodotte dalla Furga all’inizio della sua attività, sono composti di cartapesta.

A partire dagli anni Trenta il giocattolo di legno e di cartapesta perde il suo fascino: il perfezionamento delle tecniche di lavorazione su scala industriale, l’influsso della moda e delle immagini cine-matografiche o stampate modificano il modo di giocare e i relativi strumenti di gioco. I giocattoli vengono colorati con vernici sempre più brillanti tanto che

la laccatura diviene elemento creativo, essenziale al successo del giocattolo. Nuovi modelli di veicoli sostituiscono il classico, ma ormai superato, cavallo e carretto. Auto, treni e navi di legno diventano sinonimo di novità e progresso. Al legno, l’industria del giocattolo unì altri materiali, come ferro, lamiera e bachelite, per facilitare la costruzione e, soprattutto, far muovere con i meccanismi a molla questi mezzi di trasporto che la gente iniziava a conoscere ed usare.

La plastica e le nuove leghe metalliche segnano dapprima la contraddizione e poi la quasi totale scomparsa della produzione di giocattoli in legno.49

Nella produzione del giocattolo in legno occupano una parte

considerevole l’artigianato della Val Gardena (Bolzano) e delle Valli di Omegna (Novara): sembra che la prima fabbrica di giocattoli di legno sia nata ad Asiago (Vicenza) verso il 1885 per opera di Giovanni Lobbia.50

Nell’Italia della rinascita industriale prendono piede nuovi materiali che immessi sul mercato, finiscono per sostituirsi al legno, materiale povero ma che richiedeva l’impiego di artigiani specializzati. L’industria italiana dunque, inizia e si sviluppa imitando quella stra-niera: i primi giocattoli in latta compaiono in America verso la metà del XIX secolo, ma il centro della lavorazione della latta è Norimberga. Le teste delle bambole in porcellana e in biscuit vengono

49 AA.VV., Il giocattolo di legno, Roma, De Luca ed., 1994, p. 31. 50 V. ivi, p. 36.

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importate dall’Italia fino alla prima guerra mondiale: la Germania (Norimberga soprattutto) è la maggior produttrice.

La dipendenza dell’Italia in questi primi decenni del XX secolo non impedisce lo sviluppo del settore dei giocattoli italiani che lentamente conquistano una specifica identità: la prima esposizione, a dimostrare la qualità dei prodotti italiani e a testimoniare la maturità economica raggiunta dal settore, risale al 1916 e si tiene a Milano. Fra le ditte espositrici figura la Cardini di Omega, che rimarrà sul mercato dal 1921 al 1930. Nel catalogo Sognar balocchi51 a proposito della ditta Cardini, si legge:

La sua pubblicità, attraverso le pagine della «Domenica del Corriere» e del

«Corriere dei Piccoli», entra nelle famiglie borghesi e piccolo−borghesi: Papà, se tu comperi un giocattolo Cardini, il più bravo, il più studioso diverrò tra i bambini. Il messaggio veicolato è molto chiaro. Il giocattolo è un premio, un incentivo. Ma

sulla parola fa aggio l’immagine. Ai treni in miniatura si sono aggiunte vetture tramviarie, automobili e aereoplani in grado di librarsi in aria con il sistema della giostra. Tutti questi nuovi oggetti pronti ad entrare nelle case, […] hanno la ca-ratteristica di essere attraenti […] anche in virtù di un gadget come la scatola che li contiene.

La latta è il materiale più usato dalle industrie dei giocattoli durante

il Ventennio: la Ingap di Padova (attiva dal 1919 fino agli anni Sessanta) cerca di

venire incontro al crescente interesse per gli aereoplani, un mezzo che è il simbolo di progresso e di modernizzazione, ma che risente anche di influssi politici, quando si producono nel 1934 gli idrovolanti di Italo Balbo, gloria del regime, oppure, a partire dal 1936, aerei e mezzi militari mimetizzati. Il giocattolo veicola allora messaggi ideologici.52

Il giocattolo in lamiera, materiale scadente e facilmente defor-

mabile ma dal costo contenuto e nobilitato da disegni e colori di elevata qualità, aveva a suo vantaggio anche la capacità di durata (non era semplice rompere una macchinina di latta) e la riproducibilità in

51 AA.VV., Sognar balocchi, Ravenna, Longo ed., 1986, p. 9. 52 Cfr. ivi, p. 10.

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serie. I giocattoli erano dal punto di vista estetico, meno perfetti ma anche meno costosi e, dunque, riservati ai bambini dei ceti sociali meno abbienti.

I bambini della medio e alta borghesia ricevevano in dono per il compleanno o per la Befana, giocattoli meccanici, di marca;

il bambino ricco viene addestrato, anche con i giocattoli, al comando, al predominio; analogamente, il bambino di un altro ambiente si trova a disposizione oggetti che mostrano una evidente affinità tra gioco e lavoro, quasi fossero una preparazione all’attività lavorativa o al futuro ruolo sociale: si pensi ai giocattoli per le bambine.53

Il legame dei giocattoli con la realtà storica ed ambientale è dunque

testimoniato dalle caratteristiche tecniche, dall’aggancio con l’attualità e da elementi databili storicamente: i motociclisti in latta, ad esempio, sono sempre dotati di occhiali che tengono sulla fronte se hanno un passeggero, abbassati sugli occhi (come la maschera dell’Uomo Mascherato) quando devono dare l’idea della velocità.54 Inoltre,

ogni oggetto, fatto con un certo materiale, ha un proprio colore, quello imposto dalla situazione e dal ruolo. Ma il colore è circoscritto dalla forma, dalla chiusura delle linee, rinvia alla realtà di cui l’oggetto è portatore, sia essa vera o immaginaria. In tal senso il colore dei giocattoli rinvia a significazioni culturali obbligate.

Il colore ha valore in sé. Ma talora, soprattutto in ambiente borghese, si riduce alla discrezione delle nuances e dei toni, perché, se troppo spettacolare, è una minaccia per l’interiorità: le automobili ad esempio impiegheranno alcune generazioni prima di smettere di essere nere.55

Così se da un lato il regime sembra non interessarsi in modo

analitico e diretto del gioco in sé, in quanto esperienza ludica, dal-l’altro non trascura il valore pedagogico e didattico del giocattolo. L’intervento del regime opera su due livelli: 1) strutturale: l’Opera Nazionale Balilla mette in produzione il fucile modello ‘91 che rispecchia fedelmente il modello reale funzionante. Nel giocattolo vengono fusi gli archetipi dell’ideologia fascista: il motto «Libro e Moschetto» trova una sua concretezza e realizzabilità; 2) formale: la linea politica e culturale del regime invade anche gli spazi della produzione industriale; le innovazioni e i traguardi scientifici (il treno,

53 Ivi, p. 10. 54 Ibidem. 55 Ivi, p. 11.

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Capitolo terzo

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la macchina, il cinema, l’aereo) vengono esaltati come risultato dell’opera del fascismo ed utilizzati dal regime come strumenti di propaganda economica, politica e culturale. Il forte consenso raggiunto nella seconda metà degli anni Trenta consente al regime di continuare ad elaborare la sua teoria della cultura56 in ampia libertà, ap-propriandosi in modo esponenziale dei diversi settori della vita pubblica e privata. I principi del fascismo sono ora fatti osservare dall’interno: la censura in qualche modo è stata assimilata dagli organi che producono cultura. Gli oggetti e i contenuti fabbricati contengono in sé i dettami del fascismo.

La produzione dei giocattoli durante gli anni Trenta si standardizza: il balocco, tendenzialmente, perde il suo carattere disinteressato per rappresentare un tipo di cultura che porta alla celebrazione dei nuovi mezzi conquistati. Il trenino, il carro armato, il fucile, l’aeroplanino, i soldatini di piombo, la bambola−figlia, la cucina per la bambola: i giocattoli incarnano i due volti del fascismo (l’istanza della modernità e il retaggio conservativo) con i suoi valori, riproducendone gli ideali in un meccanismo di automatica ap-propriazione. I bambini si trovano a giocare con gli stessi oggetti di cui gli adulti dispongono (ma in dimensioni diverse): il figlio di un capostazione di treno giocherà con il trenino elettrico regalatogli al compleanno mentre sua sorella accudirà la “bambola−neonata”.

La divisione dei ruoli è riproposta anche nella scelta dei giocattoli, diversi per bambini e per bambine e che, in linea di massima corrisponde all’educazione alla virilità, alla forza e al coraggio per i maschi; alla femminilità e alla dimensione della donna mo-glie−madre−massaia per le femmine. Ciò che unisce i due mondi, il vertice della parabola è l’amore incondizionato che i bambini devono dimostrare verso la Patria, la Terra e il Duce.

La linea ufficiale del regime, quella che risulta dalla lettura di libri dell’epoca, dal confronto dei temi trattati sulle riviste e sulle enci-clopedie, dalle foto e dai cinegiornali, sembra riuscire nel suo intento di organizzare e pianificare «l’insicurezza delle masse»;57 la scelta dei materiali e dei significanti ideologici dei giocattoli sottende una forte

56 V. L. Cavalli (a cura di), Il fascismo nell’analisi sociologica, Bologna, Il Mulino,

1975, pp. 85 e sgg. 57 V. P. Giovannini, Ideologia e masse: Karl Mannheim, in L. Cavalli (a cura di), già

cit., pp. 45−66.

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La materia

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posizione culturale che porta a riprodurre le condizioni socio−culturali degli adulti.

La linea ufficiosa, quella meno pubblicizzata e ricordata, andrebbe ricostruita attraverso testimonianze dirette: incontri e interviste con persone di diverse estrazioni sociali, che potrebbero confermare o smentire alcuni dati acquisiti, ma che in ogni caso restituirebbero un approccio più complesso e dinamico a questo tema.

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Bambino con la cerbottana. [Fonte B]