Dipartimen to di Scien ze Politiche Università degli Studi ... · Marco Penchini, in...

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degli Stud

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014 – 201

nze Politich

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Indice 3 Programma

Inaugurazione dell’Anno Accademico 2014-2015 5 Prolusione a.a. 2014-2015

Sergio Bertelli Machiavelli attraverso il suo epistolario

29 Prolusione a.a. 2013-2014

Franco Crespi Il ruolo delle scienze politiche e sociali oggi

2

3

Inaugurazione dell’Anno Accademico 2014-2015

Mercoledì 12 novembre 2014 ore 11

Aula 1 del Dipartimento di Scienze Politiche

Programma

Ore 11.00

Presiede il Prof. Carlo Carini, Decano del Dipartimento

Saluti del Magnifico Rettore, Prof. Franco Moriconi

Relazione del Prof. Ambrogio Santambrogio,

Direttore del Dipartimento

Intervento del Dott. Marco Penchini, in rappresentanza del Personale

Tecnico e Amministrativo

Intervento del Sig. Francesco Caiello, in rappresentanza degli studenti

Ore 12.00

Prolusione

Prof. Sergio Bertelli

Machiavelli attraverso il suo epistolario

Ore 12.40

Intrattenimento pianistico

a cura di Khalid W. Shomali

Docenti, studenti e cittadinanza sono invitati a partecipare

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PROLUSIONE

SERGIO BERTELLI

Machiavelli attraverso il suo epistolario

6

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Antefatto: il mio incontro con Machiavelli

Mi è stato chiesto di parlare, prima del tema che mi è stato asse-

gnato per questa Prolusione, un poco di me e del mio incontro con Nic-

colò Machiavelli. Lo farò il più brevemente possibile. A diciasset-

te/diciotto anni, studiavo al liceo classico romano Torquato Tasso,

avendo due professori d’eccezione: Raffaello Prati, per l’italiano, Bru-

no Nardi per storia e filosofia. Arricchivo i miei studi frequentando le

conversazioni che Giuseppe Berti teneva ad un gruppo di giovani, in

una elegante casa dei Parioli, sull’Illuminismo francese, e ancora su

Dobroljubov, Belinsky, letti nelle edizioni moscovite della Foreign

Languages Publishing House, e il populismo russo. Quegli incontri mi

avevano acceso l’interesse per la Francia settecentesca e negli anni uni-

versitari (mi ero iscritto a Lettere e filosofia alla Sapienza), giunto il

tempo di scegliere il tema della tesi di laurea, attratto dall’Illuminismo,

chiesi consiglio a Cesare Luporini, che stava pubblicando il suo Voltai-

re e le “Lettres philosophiques”, saggio che aveva per sottotitolo Il concetto

della storia e l’Illuminismo (Sansoni, Firenze 1955). Andai apposta a tro-

varlo a Firenze, ma Luporini rilanciò con una proposta del tutta diver-

sa da quella che mi sarei aspettato: Togliatti, mi disse, parlando a Mo-

dena di recente, ha ricordato il grande Muratori. Ecco un tema ancora

non bene studiato e che potresti affrontare con profitto. Anziché rien-

trare a Roma, andai dal nonno a Bologna e di lì a Ferrara, il cui sindaco

Curti ero amico di mio padre. Cominciai così delle ricerche archivisti-

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che del tutto nuove per me, sia alla Biblioteca Estense, sia

nell’Archivio comunale ferrarese (qui, sopra a tutto, per la questione di

Comacchio). Con Paolo Basevi, a quel tempo responsabile per

l’Istituto Feltrinelli delle ricerche sulla stampa periodica operaia di fine

Ottocento, avevo discusso a lungo sui metodi da adottare per organiz-

zare uno schedario di lavoro e così riempii diligentemente numerose

schede su quanto venivo adesso raccogliendo. Occorreva a questo

punto trovare il relatore della mia futura tesi di laurea. Sapevo che non

avrebbe potuto essere Carlo Antoni, i cui corsi di Filosofia della storia

avevo seguito sino ad allora diligentemente. Ero invece restato affasci-

nato dalle introduzioni che Chabod usava anteporre ai suoi corsi uni-

versitari (le Questioni metodologiche) e decisi che lo avrei scelto come mia

guida. Ne parlai con Salvatore Francesco Romano, allora suo assisten-

te, e Romano mi disse che non vi era nessuna speranza che Chabod mi

accettasse, perché troppo oberato da altre tesi di laurea. Chiesi co-

munque un colloquio e mi recai nel suo studio alla Sapienza, con una

scatola da scarpe, piena di schede con gli appunti che avevo steso nei

viaggi modenese e ferrarese. Presi il discorso alla larga, ricordandogli

gli ammonimenti che mi aveva dato al momento dell’esame di storia

moderna, che avevo sostenuto con lui (come testo libero avevo scelto

La guerra dei contadini in Germania di Engels). Chabod afferrò la scatola e

si tuffò nella lettura delle schede, segnando con la matita rossa e blu

quello che riteneva mi potesse interessare e quello che giudicava super-

fluo. Infine, colto da un dubbio, mi chiese: con chi ti laurei? Ed io, con

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la massima sincerità risposi: con lei professore! Colto di sorpresa, non

gli rimase che chiamare Romano e dirgli di prendere il mio nome!

Cominciai da allora a seguire assiduamente il suo insegnamento,

a Roma e, dopo la laurea, a Napoli, all’Istituto Italiano per gli studi

storici, dove avevo vinto una borsa di studio. I corsi di Chabod

all’Istituto vertevano allora (erano gli anni 1958-1959) sulle Legazioni

machiavelliane. Io ero tutto impegnato nella rielaborazione della mia

tesi di laurea su Muratori, destinata alla pubblicazione nella collana

dell’Istituto. Chabod, ormai devastato dal cancro, fece appena in tem-

po a rivedere e correggere di proprio pugno le bozze del mio libro,

uscito nel 1960. Nel frattempo, Carlo Muscetta, consulente della Fel-

trinelli, mi aveva assegnato l’edizione dell’autobiografia di Pietro

Giannone, che condussi a termine superando l’ostilità di Fausto Nico-

lini, fermato da un brusco intervento a mio favore di Raffaele Mattioli.

Ma, subito dopo, Muscetta mi affidò un nuovo e più impegnativo

compito: un’edizione tascabile di Niccolò Machiavelli, per la “Bibliote-

ca dei classici italiani”, avendo a fianco, per gli scritti letterari e le Lette-

re, l’amico Franco Gaeta. Mi trovai così preso fra due interessi comple-

tamente diversi: il primo illuminismo italiano (Muratori e Giannone) e

Machiavelli. Tornavo adesso a mettere a frutto le lezioni chabodiane.

Per la preparazione della tesi di laurea, avevo ottenuto l’accesso – a

quel tempo assai difficile – alla Biblioteca Vaticana, dove adesso pas-

savo gran parte delle mie mattine. Un giorno, monsignor Josè Ruy-

schart, che stava riordinando i fondi Rossiani, mi chiamò chiedendomi

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un parere su un piccolo codice, il Rossiano 884. Non tardai ad accor-

germi di trovarmi davanti ad un autografo di Machiavelli, con il testo

del De rerum natura e il Terenzio. Ne diedi notizia sulla “Rivista storica

italiana” del 1961. La scoperta innestò una penosa querelle col marchese

Ridolfi, geloso di non esserne stato l’autore. Un cardiologo milanese, il

dottor Giovanni Salerno, volle riprendere l’edizione delle opere ma-

chiavelliane della Feltrinelli, trasformandola in un’edizione di lusso per

bibliofili, affidata interamente alla mia cura. La commissione mi con-

sentì di affrontare una nuova e radicale rilettura del corpus machiavel-

liano. Fu una svolta determinante della mia vita per i successivi dieci

anni. Volli rivedere tutti i testi, tornando, dove possibile, sugli originali.

In aggiunta, chiamai in aiuto, per la Bibliografia, due miei giovani amici

bibliotecari della Nazionale fiorentina: Piero Innocenti e Franca Ar-

duini. Dedicati a Raffaele Mattioli, gli undici volumi in quarto, ricca-

mente rilegati in marocchino, in pelle di capra del Capo, uscirono in

un’edizione limitata di seicento esemplari (uno di essi è in consultazio-

ne in Sala stampati della Vaticana) per i tipi Valdonega di Verona, tra il

novembre 1968 e l’aprile 1982.

Ma sul mio tavolo di lavoro esisteva contemporaneamente un al-

tro progetto, legato alla mia passata militanza comunista (nel 1956, ero

stato, con Lucio Colletti e Carlo Muscetta, tra gli estensori della lettera

dei 101, al tempo dell’invasione dell’Ungheria). Da studente, mi ero

guadagnato quello che si suol dire l’argent de poche, lavorando nella se-

greteria di Umberto Terracini. Forte di quel rapporto e rinverdendo

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l’amicizia con Giuseppe Berti, potei raccogliere il materiale necessario

per la scrittura del libro su Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del

PCI, 1936-1948 (Rizzoli 1980).

Il risultato è stato che ho dovuto allestire due tavoli nel mio stu-

dio: uno, riservato a Machiavelli e al primo Rinascimento fiorentino,

l’altro a Togliatti e alla storia del PCI. Due tavoli, ancora in funzione,

pieni di appunti e di progetti di lavoro.

* * *

Ma è tempo ormai di affrontare il tema prescelto: Machiavelli vi-

sto attraverso il suo epistolario. Con una avvertenza preliminare: come

Cancelliere della Seconda cancelleria, segretario dei Dieci e infine

dell’Ordinanza, da lui stesso voluta, Machiavelli scrisse – o dettò – un

numero enorme di lettere e dispacci.

Candidato come impiegato della Seconda Cancelleria il 18 feb-

braio 1498, ma rifiutato, solo il 28 maggio di quello stesso anno il

Consiglio dei richiesti lo designava direttamente come Cancelliere per

quella stessa Seconda cancelleria e l’indicazione sarebbe stata confer-

mata il 15 giugno dal Consiglio degli Ottanta, quindi dal Consiglio

Maggiore. Erano allora passati appena cinque giorni dal supplizio di

Girolamo Savonarola e l’annotazione non è casuale, perché, come ho

appena detto, Machiavelli era già stato proposto una prima volta, vi-

vente il frate, e cassato. L’assalto al convento di San Marco e il succes-

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sivo arresto, processo e condanna del Frate ferrarese avevano compor-

tato il capovolgimento dei rapporti politici nel governo della città.

Viene da chiedersi quale fosse la collocazione di Machiavelli nell’agone

politico fiorentino, se una maggioranza savonaroliana lo avesse rifiuta-

to e un rovescio di potere lo spingesse adesso ai vertici della burocra-

zia statale. La risposta può dedursi da una serie di indizi: sopra a tutto,

a partire dal codice Rossiano 884, dove il giovane Niccolò aveva rico-

piato il De rerum natura, ma in una versione che presentava varianti del

tutto nuove (come mi accorsi collazionando quel manoscritto con la

copia di Marcello Virgilio di Adriano Berti, professore allo Studio fio-

rentino e primo Cancelliere – il Laurenziano 35, 32)1, certo non sue.

Ripensando alla sua cerchia di amicizie giovanili, il pensiero corre a

Michele Marullo Tarcaniota, nobile bizantino, riparato in Italia per

sfuggire all’assedio di Costantinopoli di Solimano I. Uomo d’arme, al

servizio di Caterina Sforza Riario, aveva sposato Alessandra Scala, coe-

tanea e amica di Machiavelli, figlia di Bartolomeo, primo cancelliere

della Repubblica2. Sappiamo inoltre che Michele Marullo era un ap-

passionato seguace di Epicuro e cultore di Lucrezio, così che è lecito

risalire a lui per le varianti suggerite nei passi lacunosi del De rerum na-

tura. Tramite Alessandra, non andremo lontani dall’ipotizzare che pro-

1 Cfr. A. Brown, The Return of Lucretius in Renaissance Florence, Harvard UP 1910 (tr. it.:, Machiavelli e Lucrezio Roma, Carocci 2013) . 2 Su di lui possediamo oggi la biografia di Alison Brown, Bartolomeo Scala, 1430-1497, Chancelor of Florence. The Humanst as Bureaucrat, Princeton U.P. 1979.

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prio Marullo avesse assegnato al giovane Machiavelli la cura della nuo-

va trascrizione del testo lucrezianeo. Il “materialismo” epicureo ci

conduce a ricercare nel gruppo di giovani riuniti attorno a Doffo di

Agnolo Spini (1461-1515) e frequentatori della bottega di un pittore

“aulico” quale Sandro Botticelli3, i referenti politici di Machiavelli. Co-

storo erano soprannominati dai Fiorentini “compagnacci”, non solo

perché strenui avversari di Savonarola, ma, in spregio all’austerità pre-

dicata dai seguaci del Frate e alla loro lotta contro le “vanità”, organiz-

zatori di ricchi simposi. Questo spiegherebbe il rigetto della prima

candidatura all’impiego in Cancelleria del giovane Niccolò da parte di

una maggioranza “piagnona” e il ribaltamento in suo favore da parte

del nuovo regime. La controprova la si può trovare in una delle prime

lettere dell’epistolario “privato”, quella indirizzata a Ricciardo Becchi,

oratore fiorentino a Roma dal 1495, in cui parla in modo spregiativo di

un frate che “secondando e tempi va le sua bugie colorendo”. Nel las-

so di tempo che intercorre tra il febbraio e il maggio del 1498, si era

verificato il rovesciamento dei rapporti politici La morte del frate non

solo permise dunque la riproposizione della candidatura di Machiavel-

li, da chi adesso era divenuto maggioranza in Consiglio, ma addirittura

l’alzarsi della posta: da semplice impiegato a Cancelliere.

Annotazione a latere. Benché la sua famiglia sfoggiasse un’arma

araldica, una croce centrale e, ai quattro lati, i mali clavelli del supplizio,

3 Su di lui C. Tripodi, Gli Spini tra XIV e XV secolo, Firenze, Olschki 1913, pp. 84, 104-105, 211.

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il nostro Segretario fiorentino non ricoprì mai cariche onorifiche, nelle

sue numerose missioni diplomatiche non assurse mai al rango di “ora-

tore” (cioè ambasciatore della Repubblica). In tutti i suoi viaggi fuori

dai confini del territorio fiorentino, egli fu sempre e solo “mandata-

rio”. Nonostante la nomina in Cancelleria, l’opposizione savonaroliana

non demorse. Nel febbraio 1500 sia Virgilio Adriani, primo cancellie-

re, sia lo stesso Machiavelli (come testimonia il cronista Bartolomeo

Cerretani) si videro molte volte respinta la propria riconferma ”onde

l’ultima volta montorono in bigoncia [pulpito] et parlarono egregia-

mente et vinsono la loro raferma”4. Attesta Francesco Guicciardini

che, quando Pier Soderini, gonfaloniere perpetuo di Firenze, tentò di

inviarlo ambasciatore a Consalvo di Cordova, nel 1505, la nomina in-

contrò “grandissima difficultà” e fu cassata5, e che quando volle inviar-

lo all’imperatore col titolo di oratore, nel dicembre del 1509, “comin-

ciorono a gridare molti uomini da bene [il termine indica il patriziato]

essendo in Firenze tanti giovani da bene atti ad andarvi, ed e quali era

bene che si esercitassero. E però mutata la elezione, fu deputato Fran-

cesco di Piero Vettori…”6. Dunque se ne deduce che il nostro Nicco-

lò non rispondeva ai requisiti di “uomo da bene”. La spiegazione risie-

de in una frase sibillina contenuta in una successiva lettera di Biagio

Bonaccorsi, collega di Machiavelli in Cancelleria, e suo affezionato

4 B. Cerretani, Ricordi, ed. G. Berti, Firenze, Olschki 1993, p. 34. 5 F. Guicciardini, Storie fiorentine, ed. Palmarocchi, p. 277. 6 Storie fiorentine, ed. Palmarocchi, p. 297.

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amico, spedita il 28 dicembre 1509, “hora secunda noctis” e firmata

“quem nosti”7. In quei giorni Machiavelli era a Verona, in missione

presso l’imperatore Massimiliano. Buonaccorsi l’informava che nei

giorni passati (“È sarà domani octo dì”) “un turato” – cioè un uomo

col viso coperto – si era presentato “ad casa el notaio de’ Conservato-

ri, et presente loro li dette una notificazione, con protestarli se non la

dava etc. Conteneva che per essere voi nato di padre etc. non potete

ad modo alcuno exercitare lo ufficio che voi tenete etc. Et benché la

cosa sia stata in facto altra volta e che la legge sia in favore quanto la

può, nientedimeno la qualità de’ tempi et uno numero grande che s’è

levato ad bociare questa cosa e gridarla per tutto et minacciare se non

è facto etc. fa che la cosa non è in molto buon termine et ha bisogno

d’uno grande adiuto et di una delicata cura”. Il consiglio dato “da chi

vi ama, et è persona che voi ne fate capitale” (lo stesso Soderini?) era

“che voi soprastiate dove vi trovate et non torniate per nulla, perché la

cosa si va mitigando, et sanza dubio harà migliore fine non ci sendo

voi che essendoci, per più conti…”8.

Lo stretto rapporto che si era instaurato fra Machiavelli e il

Gonfaloniere gli aveva dunque procurato forti inimicizie. Ricordiamo-

ci della sprezzante frase pronunciata da Alamanno Salviati, mentre era

a tavola a Bibbona con Giovanni Ridolfi, a quel tempo commissario

generale all’assedio contro Pisa, e comunicatagli anche questa da Bia-

7 Vedi la mia edizione dell’Epistolario, n° 159. 8 Nella mia edizione dell’Epistolario, n° 159.

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gio Bonaccorsi, mentre era in missione a Roma, il 6 ottobre 1506, fir-

mata come la successiva del 1509, “Quem Nosti B.”9. Avrebbe dun-

que asserito Alamanno: “Io non comissi ma nula a cotesto ribaldo, poi

io sono de’ Dieci” proseguendo “el parlare in questa sententia o me-

glio”, tanto da far esortare l’amico Niccolò a raggiungere Firenze

“avanti le raferme”, cioè le conferme delle cariche in Cancelleria.

Alamanno, il quale era stato il grande elettore di Soderini (non

avendo lui stesso l’età richiesta per concorrere alla carica di gonfalo-

niere) si era visto tradito dal programma iniziale, quello concordato

per un rafforzamento del Consiglio degli Ottanta in senso oligarchico,

al cui controllo Pier Soderini, una volta eletto, aveva voluto sottrarsi.

L’accenno di Biagio alla paternità lascia pensare che Bernardo

Machiavelli fosse un illegittimo successivamente riconosciuto e questo

fosse l’impedimento che avrebbe escluso messer Niccolò dai ranghi

del patriziato (“uomo da bene”).

A ben guardare, infatti, di Bernardo abbiamo ben scarse notizie,

pur in presenza dei suoi Ricordi, editi da Cesare Olschki nel 1954. Sap-

piamo che era nato nel 1428, da Nicolò di Buoninsegna, il quale, però,

nelle prime partite catastali del 1427 risulta celibe e scomparso proprio

l’anno seguente. Aveva legittimato il figlio in punto di morte? Scrive

Cesare Olschki che Bernardo “esercitò l’ufficio di tesoriere e giurecon-

sulto” nella Marca e che avrebbe sposato nel 1458 Bartolomea di Ste-

fano Nelli, vedova di Niccolò Benizzi, mettendo al mondo quattro fi- 9 Nella mia edizione dell’Epistolario, n° 109.

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gli, tra i quali il nostro Niccolò, scomparendo nel 1500. Ma il titolo di

tesoriere sembra più onorifico che fattuale. Godette comunque di una

certa levatura intellettuale, se a fine agosto 1475 comprava una copia

del Decreto di Graziano (p. 1910); l’11 maggio dell’anno seguente re-

stituiva a Francesco Lapaccini “il suo Ptolomeo, cioè la Cosmografia

sanza pittura” (p. 31); il 5 luglio consegnava a Niccolò Tedesco (“prete

e astrologo”) un suo lavoro, in dodici quaderni in quarto, dove aveva

segnato “tutte città e provincie e fiumi insule e monti de’ quali si fa

menzione nelle Deche di Livio” (p. 35); nel giugno 1477 restituiva a

Giovanni Benci un commento al Codice del bartolista Bartolomeo da

Saliceto (p. 53); nell’aprile dell’anno seguente prendeva in prestito dal

cappellano di San Giovanni “uno Plinio in volgare” (probabilmente

l’edizione appena uscita dai torchi veneziani del Jenson) prestando a

sua volta “uno mio Macrobio sopra Somno Scipionis et De Saturnalibus

in forma, legato in assi coperto di cuoio rosso stampato” (di nuovo

un’edizione dello Jenson, questa del 1472), denotando un attento ag-

giornamento librario. Un anno più tardi restituiva “a ser Giovanni di

Francesco, sta all’Arte di Porta Santa Maria [cioè l’Arte della seta]

l’Etica d’Aristotile e Tullio [Cicerone] De Officijs con altre operette di

Tullio in forma, sciolte, le quali lui m’avea prestato più settimane” (p.

88); nel dicembre restituiva “a Matteo cartolaio la Rettorica Nuova [la

Rhetorica ad Herennium]”; “a Zenobi cartolaio Tullio De Oratore m’avea

prestato più dì fa” e “a ser Piero, nostro vicino qui dirimpetto, il Giu- 10 B. Machiavelli, Ricordi, Firenze, Olschki 1954.

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stino [il Compendium historiarum]”, mentre il successivo 5 febbraio face-

va rilegare l’incunabolo appena stampato a Venezia da Marco de’ Con-

ti e Gerardo d’Alessandria dell’opera di Prisciano (p. 123) e “a France-

sco d’Andrea di Bartolomeo cartolaio”, il 21 giugno 1486, dava la stes-

sa incombenza per “una lettura dell’abate di Sicilia [il giureconsulto

Niccolò de’ Tedeschi, detto anche Abbas panormitanus] sopra il 4° delle

Decretali” [probabilmente l’incunabolo pavese del 1482] e più le Deche

tre co[l]l’epitome de’ libri 140 di Tito Livio [forse un’altra edizione pa-

vese, questa del 1483]”; infine il 27 giugno dava a legare “la Novella di

Giovanni Andrea sopra Sexto […] e debbe legare insieme con le Mer-

curiali” [si tratta ancora di un’edizione pavese dello stesso anno] (p.

222). Insomma, un profilo di tutto rispetto, anche se non è chiaro se

avesse trasmesso al suo celebre figlio l’amore da lui denotato per la

giurisprudenza, tanto da essere richiesto di parere da Lorenzo

d’Antonio Machiavelli, a proposito di un testamento di una sua amica

livornese (p. 33). Molti libri presi a prestito, fanno pensare a ristrettez-

ze economiche, che ben si accordano con la dichiarazione del figlio,

“Io nacqui povero e imparai pima a stentare che a godere”11.

Certo questi Ricordi di Bernardo gettano una inedita luce sulla

giovinezza e i primi studi del giovane Niccolò, affidato a sette anni a

maestro Matteo, poi a ser Battista di Filippo da Poppi per

l’insegnamento del Donatello (l’edizione minore dell’Ars grammatica di

Elio Donato). 11 R. Ridolfi, Vita di N. M., Roma 1954, p. 8.

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Le lettere di Niccolò abbracciano un arco di tempo che va dal

1498 al 1527. Quelle di cancelleria erano regolarmente firmate o siglate

col suo nome, anche in giorni nei quali sappiamo da altre fonti che il

Segretario fiorentino era in missione fuori dai confini della Repubblica.

Chi si accingesse a stampare (o ristampare) questa copiosa corrispon-

denza dovrà dunque distinguere tra un Machiavelli “dictante et scri-

bente”, da un Machiavelli solo “dictante” e le restanti, stese in Cancel-

leria dai suoi sottoposti a suo nome. Inoltre, l’intero corpus

dell’epistolario machiavelliano andrà distinto, riconducendo i testi alle

varie cancellerie alle quali Machiavelli prestò il proprio contributo: la II

Cancelleria (investita della politica ”interna”); quella della magistratura

dei Dieci di libertà e pace (in periodi eccezionali, detta anche “di ba-

lìa”), abilitata ai rapporti esteri; dei Nove dell’Ordinanza (le fanterie

autoctone volute da Machiavelli sull’esempio borgesco); infine, per il

più tardo periodo mediceo, la cancelleria dei Provveditori alle Mura.

In assenza di un copialettere, è sempre stato difficile ricostruire

il carteggio machiavelliano. Un primo tentativo fu compiuto dai nipoti

Giuliano de’ Ricci e il canonico Niccolò, accingendosi ad allestire

un’edizione purgata dell’opera dell’avo (“donec corrigatur”). Scriveva

Giuliano, il 3 agosto 1573: “… et se bene si faticò attorno alla detta

revisione et si corressono tutte et a Roma si mandò le corretioni delle

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historie sino adesso che siamo nel 1594 non si è condotta questa ope-

ra”12 (tornerò su tutto questo più avanti).

Introducendo il lettore alla raccolta degli scritti del nonno, Giu-

liano scriveva: “Io ho sempre, humanissimi lettori, tenuto gran conto

delle memorie antiche et sempre mi è parso debito di ciascuno di cer-

care di mantenere le cose dei suoi il più possibile, et anco risuscitarle et

metterle in luce et in consideratione alli posteri (non si partendo però

mai dalla verità). Et in questo mi sono testimonio le fatiche che ho du-

rate nella investigatione delle actioni et delli huomini della famiglia de’

Ricci. Testimonio non piccolo ne rende ancora la presente fatica at-

torno alle cose di Niccolò Machiavelli, mio avolo. Et questa è la cagio-

ne che havendo trovato una lettera scritta da detto Machiavello a

Francesco Vettori sopra la tregua fatta l’anno 1513 infra il Re di Fran-

cia et quello di Spagna, ricercandolo che discorresse sopra questa ma-

teria, gli scrisse il Vettori, mi sono capitate molte lettere sue, le quali

parendomi che in esse oltre alla piacevolezza et garbatezza vi sia noti-

zia di molte cose seguìte in quelli tempi, non narrate semplicemente,

ma discorsovi sopra fondatamente et con bellissimo giuditio, mi sono

resoluto registrarle tutte per ordine inserendovi le risposte del Machia-

velli dove le troverrò, che saranno poche perché non se ne salva regi-

stro.”13

12 G. de’ Ricci, Priorista, BNF, Latino E. B. 14,1, c. 160v. 13 G. deì Ricci, Apografo, BNF, Palatino E. B. 15, c. 143.

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Era l’inizio di quella raccolta di scritti che è anche il più impor-

tante relitto del corpus della sua corrispondenza. Quel manipolo di let-

tere si distingue nell’epistolario, per il carattere semi-privato. Lo deno-

ta una missiva dello stesso Vettori del 30 dicembre 1514: “L’una e

l’altra lettera vostra circa e quesiti vi feci, hanno visto il Papa e il Car-

dinale di Bibbiena e Medici, e tutti si sono meravigliati dello ingegno,

lodato il iudicio”.

Certo, una lettera destinata ad una più ampia cerchia di amici,

che non al solo destinatario, dovette essere quella spedita da Verona,

mentre era in missione presso l’Imperatore, l’8 dicembre 1509, di pret-

to stampo burchiellesco, (una “cantafavola”, la definì il suo stesso au-

tore), e ripresa da Pietro Aretino, a divertimento della cerchia di omo-

sessuali dei quali si era circondato al suo giungere a Venezia, dopo la

fuga da Roma.

Machiavelli: “E’ se le vedeva prima un ciuffo di capelli fra bian-

chi e neri, cioè canuticci, e benché l’avessi el cocuzolo del capo calvo,

per la cui calvitie ad lo scoperto si vedeva passeggiare qualche pido-

chio, nondimeno e pochi capelli e rari le aggiungevano con le barbe

loro fino in su le ciglia; e nel mezzo della testa piccola e grinzosa have-

va una margine di fuoco che la pareva bollata ad la colonna di Merato;

in ogni puncta delle ciglia di verso gli ochi haveva un mazetto di peli

pieni di lentidini; li ochi haveva uno basso et uno alto, et uno era mag-

giore che l’altro, piene le lagrimatoie di cispa et e nipitelli dipilliciati; il

naso…”

22

Aretino: “Ella avea bavosa e mocciosa la bocca e il naso, e pa-

reano le sue mascelle un pettine d’osso da pidocchiosi con duo denti; i

labbri secchi e il mento aguzzo come il capo d’un genovese; il quale

avea per sua grazia alcuni peli che spuntavano fuora a guisa di quei

d’una leona, ma pungenti (mi penso io) come spine; le poppe pareano

borse d’uomo sanza granelli, che nel petto le stavano attaccati con due

cordelle: il corpo (misericordia) tutto scropoloso, ritirato in dentro con

il bilico in fuora. Vero è che ella avea intorno al pisciatoio una ghirlan-

da di foglie di cavoli che parea che fossero stati un mese nella testa a

un tignoso…”.

Quella stessa cantafavola era ripresa da Marcello Landucci (in

accademia degli Intronati: “il Bizzarro”) nella dedica a Giovan France-

sco Franceschi (“il Moscone archintronato”), presidente di quella stes-

sa Accademia e tornava ne La puttana errante (1531) di Lorenzo Venier,

allievo ed amico dell’Aretino.

Nella sua misoginia, l’Arsiccio intronato (Antonio Vignali, 1501-

1559) asseriva che “il vero fottere è la donna lorda, sudicia, lorcia et

quanto possibil sia sporca; e tanto è meglio quanto ella più puzza di

tanfo”14.

Il lungo carteggio politico col Vettori occupa un posto a sé e

non pare proprio possa considerarsi del tutto “privato”. Privata è certo

la risposta alla lettera di Francesco Vettori del 15 marzo 1512/13, nella

14 A. Vignali, La cazzaria, ed. P. Stoppelli , Roma, Edizioni dell’Elefante 1984, p. 37.

23

quale l’amico, a Roma come ambasciatore, lo informava di aver inter-

ceduto in suo favore presso il Pontefice. Lettere come quelle di Ma-

chiavelli del 29 aprile, del 10 e del 26 agosto 1513, o quelle di Vettori

del 20 agosto 1513, e del 16 maggio 1514 sono tutte suscettibili di es-

sere divulgate e conosciute oltre la cerchia degli amici, ed altrettanto

dicasi per la missiva del 31 gennaio 1514/15, benché a prima vista la-

sciasse pensare ad un carattere più intimo, con quell’apertura col so-

netto “Havea tentato il giovinetto Arciere”, salvo proseguire con una

disamina dei progetti pontifici sul futuro di Giuliano de’ Medici e la

voce che egli potesse diventare signore di Parma, Piacenza, Modena e

Reggio: “mi pare che questa signoria fosse bella et forte et da poterla

in ogni evento tenere, quando nel principio la fosse governata bene”,

con un’eco diretta dei capitoli VI e VII del De principatibus.

In quei giorni Machiavelli è in piena depressione, lontano da Fi-

renze, confinato in Sant’Andrea in Percussina. Il 18 agosto confessa a

Giovanni Vernacci che è lontano, in Pera, che i suoi giorni sono “di

sorte che mi hanno fatto sdimenticare di me medesimo” e la tristezza

ritorna nella lettera seguente, del 19 novembre: “la fortuna non mi ha

lasciato altro che i parenti et gli amici”; e ancora il 15 febbraio

1515/16: “Quanto ad me, io sono diventato inutile ad me, a’ parenti et

alli amici, perché ha voluto così la mia dolorosa sorte”, sino alla con-

fessione: “sto qualche volta un mese che io non mi ricordo di me”

(nella mia edizione le lettere dalla 222 alla 225) .

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Il tono si ravviva solo due anni più tardi, quando scrive a Lodo-

vico Alamanni di aver letto l’Orlando furioso “et veramente il poema è

bello tutto, et in di molti luoghi è mirabile. Et se si truova costì, rac-

comandatemi a lui et diteli che io mi dolgo solo che, havendo ricorda-

to tanti poeti, che m’habbi lasciato indietro come un cazzo et che egli

ha fatto a me quello in sul suo Orlando, che io non farò a lui in sul mio

Asino”.

Battista della Palla, il 26 aprile 1520, gli ha scritto da Roma: “Io

ho parlato de’ casi vostri partichularmente al Papa, et verità, per quan-

to apparisce, lo ho trovato optimamente disposto verso di voi”, ac-

cennando alla possibiltà futura di “una provisione per scrivere”. La

Mandragola è stata rappresentata con successo al matrimonio di Loren-

zo dei Medici il giovane, il 16 febbraio 151815.

Un altro manipolo di lettere che spicca a sé stante e che deve

considerarsi senza dubbio privato (non si inizia certo una lettera desti-

nata ad essere conosciuta, oltre al suo destinatario, dicendogli “Io ero

in sul cesso quando arrivò il vostro messo”!) è quello scambiato con

Francesco Guicciardini, tra il 1521 e il 1527. Machiavelli è stato inviato

dagli Otto di pratica al capitolo dei frati minori, a Carpi, col compito di

impedire l’intromissione dei Senesi nella vita religiosa fiorentina. A

margine, l’Arte della lana gli ha chiesto di reperire un predicatore per la

prossima quaresima. Bella richiesta, commenta Guicciardini, come se

15 Sulla data e compsizione della commedia rinvio al mio saggio When did Ma-chiavelli write Mandragola?, in “Renaissance Quarterly”, IV, 1, Autumn 1971.

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ad un famoso sodomita del tempo di Lorenzo il Magnifico fosse stato

dato il compito “di trovare una bella et galante moglie ad un amico”.

Aggiungeva Guicciardini: “Credo gli servirete secondo l’expettazione

che si ha di voi et secondo che ricerca l’honore vostro, quale si oscure-

rebbe se in questa età vi dessi all’anima, perché, havendo sempre vivu-

to in contraria professione, sarebbe attribuito piuttosto al rimbambito

che al buono”. E Machiavelli di rimando lo rassicurava: i membri

dell’Arte della lana desideravano “un predicatore che insegnasse loro la

via del Paradiso”? Per parte sua, avrebbe voluto “trovarne uno che in-

segnassi loro la via di andare a casa il diavolo; vorrebbero appresso che

fosse huomo prudente, intero reale, et ine vorrei trovare uno più paz-

zo che il Ponzo [un antisavonaroliano], più versuto che fra’ Girolamo,

più ippocrito che frate Alberto [da Orvieto], perché mi parrebbe una

bella cosa, et degna alla bontà di questi tempi, che tutto quello che noi

habbiamo sperimentato in molti frati, si esperimentasse in uno; perché

io credo che questo sarebbe il vero modo andare in Paradiso: imparare

la via dello Inferno per fuggirla”.

Il carteggio è tutto intimo e scherzoso. Machiavelli è ospite di

un carpigiano, Sigismondo Santi, e Guicciardini lo qualifica col titolo

altisonante di “nuntio fiorentino”. Per aumentarne l’autorità agli occhi

dell’ospite, il 18 maggio gli invia dispacci a mezzo di balestrieri, ai quali

ha imposto che vengano “con somma celerità, per essere cosa impor-

tantissima”, confidando che il giungere del messo “et quello che dirà

per lui alli astanti si crederrà per tutti voi essere gran personaggio et il

26

maneggio vostro di altro che di frati, et perché la qualità del piego

grosso faccia fede a l’hoste, vi ho messo certi avvenuti da Zurich, de’

quali vi potete valere o mostrandoli o tenendoli in mano, secondo che

giudicherete più expediente”. Per soprammercato, lui stesso ha scritto

a Messer Sigismondo “voi essere persona rarissima”. Senonché lo stes-

so Santi gli ha risposto “pregando lo avisi in che consista questa vostra

rarità”, e non si capacita di che mai possano essere i compiti del suo

ospite”, in quei “deserti di Arabia”. In realtà, ben presto lo scherzo

conosce una svolta amara: “Machiavelli carissimo. Quando io leggo i

vostri titoli di oratore di Republica et di frati et considero con quanti

Re, Duchi et Principi voi havete altre volte negociato, mi ricordo di

Lysandro, a chi doppo tante victorie et trophei fu dato cura di distri-

buire la carne a quelli medesimi soldati a chi sì gloriosamente haveva

comandato”.

La consolazione è che, finalmente, all’amico sia stata la cura di

“voltolare un sasso”: come lui stesso aveva chiesto al tempo dell’esilio

in Percussina. Gli Ufficiali dello Studio gli hanno affidato la commis-

sione di scrivere le storie di Firenze e Guicciardini ci trasmette un trat-

to caratteriale dell’amico, per noi illuminante: “essendo voi sempre sta-

to ut plurimum extravagante di opinione dalle comune et inventore di

cose nuove et insolite, penso che quelli Signori Consoli et ciaschuno

che harà notitia della vostra commissione expectino che voi conducia-

te qualche frate di quelli, come dixe colui, che non si trovano”.

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Anche nella quotidianità la vita è adesso cambiata, e Guicciardini

sa che in essa è entrata una nuova fiamma: la cantante Barbara Raf-

facani Salutati.

Ma per conoscere davvero chi fosse il Segretario fiorentino, bi-

sogna tornare al suo carteggio diplomatico, dal quale risalta una inso-

spettata fierezza e un forte ego. Al cardinale Georges d’Amboise, po-

tente ministro di Luigi XII, non esita ad impartire una lezione, che an-

ticipa ciò che scriverà nel De principatibus: “Che questa Maestà si dove-

va bene guardare da coloro che cercavano la distruzione degli amici

suoi, non per altro che per fare più potenti loro, e più facile ad trarli

l’Italia dalle mani; ad che questa Maestà doveva riparare e seguire

l’ordine di coloro che hanno volsuto possedere una provincia esterna,

che è diminuire e potenti, vezeggiare li sudditi, mantenere li amici, e

guardarsi da’ compagni, cioè da coloro che vogliono in tale luogo ave-

re equale autorità: e quando questa Maestà ragguardassi chi in Italia lo

volessi essere compagno, troverebbe che non sarieno né le S.V., né

Ferrara né Bologna, ma quelli che sempre per lo addietro hanno cerco

dominarla”16.

Quando il cardinale, in modo arrogante, gli dice che gli Italiani

“non si intendevano della guerra” ha pronta la replica, altrettanto or-

gogliosa e sprezzante: “io li risposi che e Francesi non si intendevano

dello stato; perché, se se ne intendevano, non lascerebbero venire la

Chiesa in tanta grandezza. E per esperienzia si è visto che la grandez- 16 Dispaccio da Tours del 21 novembre 1500.

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za, in Italia, di quella e di Spagna, è stata causata da Francia, e la ruina

sua causata da loro. Da che si cava una regola generale, la quale mai o

raro falla, che chi è cagione che uno diventi potente, ruina; perché

quella potenzia è causata da colui o con industria o con forza, e l’una e

l’altra di queste due è sospetta a chi è divenuto potente”. 17

Ha una tale sicurezza di sé, da travalicare ogni confine gerarchi-

co, osando scrivere ai propri Signori, mentre si addensano nuvole di

guerra, “e credino le Signorie vostre, come le credono il Vangelo, che

se fra il Papa e questa Maestà sarà guerra, quelle non potranno fare

senza dichiararsi in favore d’una parte, posposto tutti e rispetti che si

avesse ad l’altra”18.

È in questa sicurezza – che manca così vistosamente nel gruppo

politico riunito attorno a Soderini, il cui motto era di “godere il bene-

fizio del tempo” – che ci appare quella Dämonie der Macht nella quale è

tutto racchiuso l’essere Machiavelli.

17 Principe, III. 18 Legazioni e Commissarie, 9 agosto 1510.

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PROLUSIONE

FRANCO CRESPI

Il ruolo delle scienze politiche e sociali oggi

in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico 2013-2014

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Desidero ringraziare il Preside prof. Giorgio Edoardo Montanari

e il nuovo Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche, prof. Am-

brogio Santambrogio, per avermi invitato a tenere questa Lectio in oc-

casione dell’inaugurazione dei corsi. È con viva emozione che ritrovo i

miei Colleghi degli anni passati e che ne incontro di nuovi: ed è per me

una grande soddisfazione cogliere una linea di continuità nel salutare

colui che è stato mio Preside e colui che ho il privilegio di poter consi-

derare come un mio carissimo allievo.

Per comprendere le sfide di fronte alle quali si trovano oggi le

Scienze Politiche, Storiche e Sociali credo si debba anzitutto fare rife-

rimento al fatto che, da ormai diversi anni, abbiamo assistito,

all’interno del clima diffuso nella società attuale, a un processo di cre-

scente sfavore e svalutazione nei confronti del ruolo tradizionalmente

svolto da tali scienze.

Credo siamo tutti consapevoli che l’affermarsi, soprattutto nel

periodo successivo alla caduta del muro di Berlino, dell’ideologia pro-

pria del capitalismo neo-liberista, fondata sulla supremazia senza limiti

del mercato economico e finanziario e sull’esaltazione della tecnologia

produttiva, sia stata la principale responsabile delle scelte estremamen-

te riduttive di cui ancor oggi, in una situazione di grave crisi economi-

ca, subiamo le conseguenze. È infatti all’interno di tale ideologia che è

venuto affermandosi un sapere di tipo tecnocratico, una sorta di nuo-

vo scientismo positivista, che ha posto l’accento esclusivamente sulla

pretesa concretezza dei dati empirici e quantitativi, in nome di

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un’efficienza produttiva che ha teso a svalutare ogni contributo che

non fosse ricalcato sul modello delle scienze matematico-naturali.

Già negli anni Ottanta del secolo scorso, Margaret Thatcher

aveva affermato “La società non esiste”, sanzionando in tal modo il

declino del Welfare State ed esaltando i valori dell’individualismo

competitivo. Ma è soprattutto con lo sviluppo del processo di globa-

lizzazione che è venuta determinandosi la crisi progressiva degli Stati

nazionali e delle altre istituzioni politiche tradizionali: le decisioni più

importanti vengono prese sempre di più a livello transnazionale

(ONU, Unione Europea, Banca Centrale Europea, Banca Mondiale,

Federal Reserve, OCSE, centri multinazionali privati di potere finan-

ziario, ecc.). Le funzioni tradizionali degli Stati sembrano passare in

secondo piano, con la conseguenza di un riflesso negativo su tutte le

istituzioni politiche (parlamento, partiti, sindacati).

Non è certo mio compito qui sviluppare un’analisi esaustiva di

tali fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti: quello che mi importa

sottolineare sono i riflessi che tale situazione ha avuto sull’immagine

delle scienze politiche e storico-sociali.

Nell’euforia seguita alla fine della guerra fredda, vi è stato persi-

no chi, in nome di un presentismo, di un malposto accento sul presente,

ha ipotizzato la fine della storia, ma, rispetto all’efficientismo tecnocra-

tico imperante, sono stati anche numerosi coloro che hanno messo in

dubbio l’utilità delle scienze politiche e sociali.

33

Negli ultimi anni, abbiamo assistito alle conseguenze catastrofi-

che di tale prospettiva ideologica: la crisi economico-finanziaria che, a

livello mondiale, ha investito quasi tutte le società è tuttora in corso e

la sua soluzione appare ancora del tutto problematica. Tale crisi sem-

bra avere ulteriormente aggravato la situazione delle scienze politico-

sociali. A seguito di tale crisi, la carenza dei fondi universitari disponi-

bili ha comportato, in diverse parti del mondo e, in particolare, in Eu-

ropa e negli Stati Uniti, tagli incisivi per tutti i Dipartimenti dedicati

alla ricerca e alla didattica delle cosidette Scienze Umane (letteratura, fi-

losofia, storia, scienze politiche e sociali) a favore dei Dipartimenti de-

dicati alle cosidette Scienze Esatte.

Quale reazione a tale indebita discriminazione, diversi studiosi

delle scienze umane hanno cercato una nuova legittimazione, cercando

di adeguarsi ai nuovi modelli prevalenti nel secondo tipo di scienze.

Per fare un solo esempio, alcuni studiosi, per corrispondere alle richie-

ste del nuovo clima scientistico, hanno preteso di ridurre la sociologia

alla pura registrazione di dati di tipo empirico-quantitativo, dimenti-

cando la lezione di Theodor Adorno che, già nella seconda metà del

secolo scorso, aveva sottolineato come i dati empirici non debbono

essere considerati isolatamente, ma acquistano significato solo se col-

legati al riferimento alla totalità del contesto storico, politico e sociale

nel quale il dato emerge. In assenza di tale riferimento, manca la pos-

sibilità di interpretare il fenomeno studiato ponendolo in relazione alle

cause strutturali, alle caratteristiche organizzative e istituzionali che lo

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hanno determinato. Ignorando tale requisito fondamentale, i medesimi

studiosi sono giunti a negare l’utilità della teoria, senza rendersi conto

che la negazione della teoria è, a sua volta, inevitabilmente una teoria,

ma una teoria cieca, in quanto incapace di tener conto dell’inaggirabile

riferimento al valore presente in ogni osservazione e in ogni rilevazione,

che Max Weber aveva chiaramente sottolineato come una condizione

essenziale di ogni interpretazione che aspiri a una forma adeguata di

relativa “oggettività”.

A seguito delle conseguenze altamente distruttive derivanti

dall’ideologia del neo-liberismo tecnocratico e dal riduzionismo scien-

tistico ad esso collegato, occorre rendersi conto che ci troviamo di

fronte a una vera svolta epocale, la quale richiede ora come non mai un

profondo ripensamento delle categorie concettuali in grado di orienta-

re la politica, l’economia, la sociologia, la conoscenza storica, aprendo

nuove prospettive di ampio raggio, nelle quali assumono la massima

rilevanza la capacità teorica e interpretativa, l’efficienza critica di giudi-

zio e di valutazione, la ricerca di nuove soluzioni.

Permettetemi di indicare molto brevemente alcuni nodi cruciali

rispetto ai quali le nostre conoscenze devono oggi fare la loro prova.

In primo luogo la scienza politica. Come ha mostrato recente-

mente il sociologo Danilo Martuccelli, ordinario di Sociologia alla Sor-

bona, sulla base di numerose ricerche empiriche da lui condotte e da

altri in varie parti del mondo, in particolare negli Stati Uniti,

nell’America Latina e in Europa, tre sono gli aspetti principali che ca-

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ratterizzano l’attuale atteggiamento verso la politica. In primo luogo,

un diffuso sentimento di disillusione: nessuno crede più nel progresso

quale tendenza inarrestabile presente nella storia umana. Si fa sempre

più evidente, a fronte degli squilibri ambientali, che occorre porre dei

limiti allo sviluppo tecnologico e produttivo. In secondo luogo,

l’affermarsi di una generale diffidenza nei confronti della funzione poli-

tica e dell’impegno nella vita collettiva. Infine il permanere nonostante

tutto di una volontà di partecipazione anche se con riserva, animata dal dif-

fuso sentimento delle gravi ingiustizie presenti nel nostro mondo, uni-

tamente a un senso di disagio e di disorientamento.

Coerentemente con tali atteggiamenti, gli individui non sembra-

no rinchiudersi unicamente nel loro privato, ma, come ha mostrato

anche il sociologo tedesco Ulrich Beck, appaiono consapevoli dei vin-

coli che li legano agli altri. Se l’accento viene prevalentemente posto

sull’autorealizzazione personale, sulla difesa della propria singolarità,

sulla qualità della vita quotidiana, sull’importanza di avere un lavoro

soddisfacente e sull’amore di coppia e nei confronti dei figli, tali orien-

tamenti vanno di pari passo con la volontà di una difesa collettiva di

tali valori, con la denuncia delle disuguaglianze economico-sociali e

con il riconoscimento della rilevanza delle relazioni intersoggettive.

Tali caratteristiche possono essere colte, con diverse accentua-

zioni, negli attuali movimenti degli indignados manifestatisi in molte

parti del mondo, che trovano la loro possibilità di sviluppo e di espres-

sione nella enorme diffusione delle comunicazioni via Web, per lo più

36

all’origine delle diverse manifestazioni nelle piazze e in altri luoghi

pubblici.

Come ha sottolineato di recente il filosofo francese Michel Ser-

res, la diffusione assunta oggi dal Web e il suo impatto sulle relazioni

sociali rappresenta una componente importante, la cui influenza va at-

tentamente studiata nei suoi diversi aspetti e che sembra costituire,

analogamente a quanto è avvenuto in passato con l’invenzione della

scrittura e, in seguito, della stampa, un elemento decisivo nella svolta

epocale cui prima accennavo. Si manifesta, a questo proposito, un

problema cruciale per l’attuale riflessione sull’atteggiamento verso la

vita politica e sulle forme di partecipazione ad essa.

Con la crisi delle ideologie utopiche imperanti nel secolo scorso,

in particolare quella del marxismo, sembra che si debba oggi rilevare la

generale assenza di riferimenti specifici di tipo politico, di nuovi codici

del discorso politico: la protesta infatti non riesce a trasformarsi in un

effettivo progetto politico, ma si lascia facilmente influenzare da forme

illusorie di tipo populistico oppure dà luogo, in certi casi, a espressioni

violente di tipo nazi-fascista o dettate da fanatismo religioso.

Vi è qui indubbiamente un immenso lavoro di analisi e di aper-

tura di prospettive non solo per gli studiosi di scienze politiche e per i

sociologi, ma anche per gli storici: la memoria storica appare infatti in-

dispensabile per poter adeguatamente valutare i processi in corso.

Un altro ambito con il quale le scienze politico-sociali devono

confrontarsi, aprendo nuove prospettive e offrendo nuove soluzioni, è

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quello dell’economia, che credo sia loro compito considerato soprat-

tutto sotto il profilo della giustizia redistributiva e, quindi, in stretta re-

lazione a problemi di tipo giuridico.

Già da diversi anni, importanti economisti come Albert Hirsch-

man, il premio Nobel dell’economia Amartya Sen, insieme a molti al-

tri, tra i quali di recente Daniel Cohen, hanno rivolto le loro critiche al

liberismo economico e, in particolare, al concetto di homo oeconomicus,

ovvero all’idea di origine utilitarista che gli individui siano mossi uni-

camente dal calcolo dei loro interessi egoistici. Un concetto che il so-

ciologo Pierre Bourdieu ha definito come una vera e propria “mo-

struosità antropologica”. A parte il fatto che gli esseri umani riescano

effettivamente a comportarsi secondo regole razionali nel persegui-

mento dei loro obiettivi di benessere materiale, tenuto conto della

complessità delle diverse situazioni caratterizzate dall’incertezza e

dall’imprevedibilità, già Hegel aveva mostrato che gli individui solo

apparentemente sono motivati dall’interesse per le cose concrete, men-

tre più profondamente quello che desiderano è di essere riconosciuti

dagli altri, di essere visti, come del resto aveva già rilevato Rousseau,

quali persone degne di onore.

La realizzazione dei diversi progetti si rivela di fatto, per tutti co-

loro che vi collaborano, come un pretesto per ottenere in ogni modo un

reciproco riconoscimento.

A supporto, forse anche involontario, di tale analisi critica,

Amartya Sen, nel suo libro L’idea di giustizia, apre una prospettiva nella

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quale assumono massima rilevanza l’idea di giustizia redistributiva e

l’esigenza di uno sviluppo economico rispettoso dell’equilibrio am-

bientale. Ponendo al centro dell’attenzione la legittimità della ricerca

individuale della felicità, Sen la formula come l’effettiva possibilità per

gli esseri umani di ottenere condizioni e risorse che permettano loro di

scegliere la vita che desiderano. Nel concetto da lui elaborato di capability,

Sen pone l’accento sulle condizioni materiali e culturali che assicurano

una vera abilitazione degli individui a realizzare se stessi.

Sulla base di tali presupposti, è evidente che si apre l’esigenza di

un radicale ripensamento di quelle che sono state finora considerate le

leggi immutabili dell’economia e del rapporto che quest’ultima intrat-

tiene con il diritto, la politica e le scienze sociali. A tale rinnovamento

stanno dando un contributo decisivo studiosi come Axel Honneth,

Nancy Fraser e Lucio Cortella, che, in questi anni, hanno ulteriormen-

te sviluppato la teoria hegeliana del riconoscimento reciproco. Anche

nel campo dell’economia e del diritto resta quindi da compiere un im-

menso lavoro di riflessione.

Infine, tra i tanti aspetti che si potrebbero rilevare, vorrei ricor-

dare, a conclusione di questa breve rassegna, uno dei problemi più im-

portanti che, a mio avviso, costituiscono una sfida per le scienze socia-

li, ovvero quello che va sotto il nome di multiculturalismo. Il giusto prin-

cipio, che è andato affermandosi nella tarda modernità, del rispetto per

ogni cultura e per ogni scelta di stile di vita sta rischiando di trasfor-

marsi nell’intolleranza di alcune minoranze rispetto ad altre e di favori-

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re fenomeni di fanatismo religioso e di conflitto interetnico. Vengono

in tal modo minate alla radice la condizioni della solidarietà generale. A

questo proposito, nelle riflessioni teoriche che ho condotto in questi

anni, ho molto insistito sulla necessità di riconoscere la base comune

di tutti gli esseri umani rappresentata dai caratteri propri della situazio-

ne esistenziale: riflessività dell’autocoscienza, l’insuperabile ambivalen-

za che essa fatalmente determina tra la finitezza dell’esistere e il desi-

derio di un infinito compimento e via dicendo. La consapevolezza del-

le condizioni comuni a tutti dell’esistenza sottolinea il carattere neces-

sariamente riduttivo delle diverse culture, in quanto insieme di signifi-

cati che, proprio per essere determinati e per la loro funzione di ridu-

zioni della complessità, non possono mai pretendere di costituirsi come

dati assoluti. È in questa direzione che credo vadano affrontati i pro-

blemi della critica e dell’opposizione a ogni forma di comunitarismo

intollerante.

Questo mio breve elenco, non certo esaustivo, delle grandi sfide

che le scienze politiche e storico-sociali devono oggi affrontare non

deve portarci allo scoraggiamento, bensì a un impegno responsabile, a

un lavoro per molti aspetti entusiasmante sia per i docenti che per gli

studenti del nostro Dipartimento. Un impegno che favorisca una pro-

spettiva interdisciplinare nella quale ogni forma di conoscenza teorica

ed empirica sia in grado di dare il suo specifico contributo. Si tratta

evidentemente di procedere per gradi, per successivi stadi di avanza-

mento, ma anche con continuità, nel comune intento di difendere e

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promuovere sempre di più i valori di un’autentica società democratica.

È questo l’augurio che vorrei condividere con tutti voi.