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1 DIOGENE LAERZIO LIBRO VI ANTISTENE ( c. 446 - 366 a. C.) [VI,1] Antistene, figlio di Antistene, era Ateniese. Si diceva però che non fosse di puro sangue Attico; laonde, a chi gli rinfacciava ciò, si narra che egli rispondesse: “Anche la madre degli dei è Frigia”. Sem- brava infatti che egli fosse di madre Tracia. Questo è il motivo per cui dopo la battaglia di Tanagra, nel- la quale egli si era distinto, Socrate ebbe l’occasione di affermare che da due Ateniesi purosangue non sarebbe potuto nascere un uomo così valoroso. Ed a quegli Ateniesi che si davano delle arie per essere autoctoni dell’Attica, Antistene diceva in tono sprezzante che essi non erano più purosangue delle di lei chiocciole e cavallette. Da principio Antistene fu uditore del retore Gorgia. È da lui che egli trasfonde lo stile retorico nei suoi dialoghi, soprattutto in quello ‘Sulla verità’ e nei ‘Dialoghi protrettici’. [VI,2] Ermippo afferma che in occasione delle solenni feste Istmiche, egli aveva preso la decisione sia di denigrare che di lodare gli Ateniesi, i Tebani e gli Spartani; ma che poi evitò di farlo quando vide che era arrivata moltissima gente da quelle città. Successivamente entrò in contatto con Socrate, e fu tanto grande il guadagno che ne trasse, da esortare i suoi discepoli a diventare con lui condiscepoli di Socrate. Poiché abitava al Pireo, percorreva ogni giorno quaranta stadi per andare su ad ascoltare Socrate; e prendendone la forza d’animo ed emulando- ne il dominio sulle passioni, mostrò per primo la via del Cinismo. Egli stabilì poi che la fatica è un bene, mettendo insieme le figure del grande Eracle e di Ciro, traendo il primo esempio dai Greci e il secondo dai Barbari. [VI,3] Antistene fu il primo a definire così il discorso: “Il discorso rende manifesto cos’era o è qualco- sa”. Soleva ripetere continuamente: “Possa io cadere preda della pazzia piuttosto che dell’ebbrezza per il godimento fisico”. Ed anche: “È d’uopo accostarsi sessualmente a donne tali che ce ne saranno gra- te”. Ad un adolescente del Ponto che stava per frequentare la sua scuola e che cercava di sapere da lui di quali cose avesse bisogno a questo scopo, Antistene rispose: “Nuovamente un libretto, nuovamente uno stilo e nuovamente una tavoletta per scrivere”, intendendo con ciò indicare una ‘nuova mente’. A chi gli chiedeva che sorta di donna sposare, Antistene disse: “Se è avvenente pagherai il fio d’averla in comune con altri; se è laida pagherai il fio”. Una volta, dopo aver sentito dire che Platone sparlava di lui, affermò: “È da re agire bene e sentir parlare male di sé”. [VI,4] Una volta, mentre veniva iniziato ai misteri Orfici, al sacerdote che affermava che gli iniziati a questi misteri partecipano di molti beni nell’Ade, disse: “Perché dunque tu non schiatti?”. Poiché una volta gli veniva rinfacciato di non essere figlio di due persone libere, rispose: “Neppure sono figlio di due lottatori, eppure io sono un lottatore”. Interrogato sul perché avesse pochi discepoli, disse: “Il fatto è che io li caccio via con una bacchetta magica d’argento”. Richiesto del perché fosse rigoroso nel cen- surare gli allievi, rispose: “Anche i medici lo fanno con i pazienti”. Una volta, vedendo un adultero che scappava a gambe levate, disse: “O sciagurato! Che gran pericolo potresti sfuggire al prezzo di un obo- lo!”. Secondo quanto afferma Ecatone nei suoi ‘Detti sentenziosi’, Antistene diceva che è meglio imbat- tersi nei corvi che negli adulatori, giacché i primi mangiano i cadaveri ma i secondi mangiano i vivi. [VI,5] Richiesto su quale fosse tra gli uomini la fine più beata, rispose: “Morire godendo di buona for- tuna”. Una volta un conoscente prorompeva con lui in lamenti per avere perduto i propri Appunti, e Antistene gli disse: “Bisognava trascriverli nell’animo e non sulle carte”. Diceva che come il ferro è di- vorato dalla ruggine, così gli invidiosi sono divorati dal loro stesso carattere. Soleva anche dire che quanti vogliono essere immortali devono vivere in modo pio e giusto; e che gli Stati allora vanno in ro- vina quando non sono più in grado di distinguere gli insipienti dagli industriosi. Una volta, poiché veni- va lodato da persone malvagie, disse: “Sono in ansia perché temo d’avere fatto male qualcosa”. [VI,6] Affermava che la comunanza di vita di fratelli che vanno d’accordo è più potente di qualunque muro. Diceva poi che bisogna approntare per se stessi un viatico tale da poter nuotare con esso anche se si fa naufragio. Una volta, poiché gli veniva rinfacciato di farsela con gente malvagia, disse: “Anche i medici stanno con gli ammalati, ma non per questo hanno la febbre”. Diceva che è assurdo selezionare

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DIOGENE LAERZIO LIBRO VI

ANTISTENE (c. 446 - 366 a. C.) [VI,1] Antistene, figlio di Antistene, era Ateniese. Si diceva però che non fosse di puro sangue Attico; laonde, a chi gli rinfacciava ciò, si narra che egli rispondesse: “Anche la madre degli dei è Frigia”. Sem-brava infatti che egli fosse di madre Tracia. Questo è il motivo per cui dopo la battaglia di Tanagra, nel-la quale egli si era distinto, Socrate ebbe l’occasione di affermare che da due Ateniesi purosangue non sarebbe potuto nascere un uomo così valoroso. Ed a quegli Ateniesi che si davano delle arie per essere autoctoni dell’Attica, Antistene diceva in tono sprezzante che essi non erano più purosangue delle di lei chiocciole e cavallette. Da principio Antistene fu uditore del retore Gorgia. È da lui che egli trasfonde lo stile retorico nei suoi dialoghi, soprattutto in quello ‘Sulla verità’ e nei ‘Dialoghi protrettici’. [VI,2] Ermippo afferma che in occasione delle solenni feste Istmiche, egli aveva preso la decisione sia di denigrare che di lodare gli Ateniesi, i Tebani e gli Spartani; ma che poi evitò di farlo quando vide che era arrivata moltissima gente da quelle città. Successivamente entrò in contatto con Socrate, e fu tanto grande il guadagno che ne trasse, da esortare i suoi discepoli a diventare con lui condiscepoli di Socrate. Poiché abitava al Pireo, percorreva ogni giorno quaranta stadi per andare su ad ascoltare Socrate; e prendendone la forza d’animo ed emulando-ne il dominio sulle passioni, mostrò per primo la via del Cinismo. Egli stabilì poi che la fatica è un bene, mettendo insieme le figure del grande Eracle e di Ciro, traendo il primo esempio dai Greci e il secondo dai Barbari. [VI,3] Antistene fu il primo a definire così il discorso: “Il discorso rende manifesto cos’era o è qualco-sa”. Soleva ripetere continuamente: “Possa io cadere preda della pazzia piuttosto che dell’ebbrezza per il godimento fisico”. Ed anche: “È d’uopo accostarsi sessualmente a donne tali che ce ne saranno gra-te”. Ad un adolescente del Ponto che stava per frequentare la sua scuola e che cercava di sapere da lui di quali cose avesse bisogno a questo scopo, Antistene rispose: “Nuovamente un libretto, nuovamente uno stilo e nuovamente una tavoletta per scrivere”, intendendo con ciò indicare una ‘nuova mente’. A chi gli chiedeva che sorta di donna sposare, Antistene disse: “Se è avvenente pagherai il fio d’averla in comune con altri; se è laida pagherai il fio”. Una volta, dopo aver sentito dire che Platone sparlava di lui, affermò: “È da re agire bene e sentir parlare male di sé”. [VI,4] Una volta, mentre veniva iniziato ai misteri Orfici, al sacerdote che affermava che gli iniziati a questi misteri partecipano di molti beni nell’Ade, disse: “Perché dunque tu non schiatti?”. Poiché una volta gli veniva rinfacciato di non essere figlio di due persone libere, rispose: “Neppure sono figlio di due lottatori, eppure io sono un lottatore”. Interrogato sul perché avesse pochi discepoli, disse: “Il fatto è che io li caccio via con una bacchetta magica d’argento”. Richiesto del perché fosse rigoroso nel cen-surare gli allievi, rispose: “Anche i medici lo fanno con i pazienti”. Una volta, vedendo un adultero che scappava a gambe levate, disse: “O sciagurato! Che gran pericolo potresti sfuggire al prezzo di un obo-lo!”. Secondo quanto afferma Ecatone nei suoi ‘Detti sentenziosi’, Antistene diceva che è meglio imbat-tersi nei corvi che negli adulatori, giacché i primi mangiano i cadaveri ma i secondi mangiano i vivi. [VI,5] Richiesto su quale fosse tra gli uomini la fine più beata, rispose: “Morire godendo di buona for-tuna”. Una volta un conoscente prorompeva con lui in lamenti per avere perduto i propri Appunti, e Antistene gli disse: “Bisognava trascriverli nell’animo e non sulle carte”. Diceva che come il ferro è di-vorato dalla ruggine, così gli invidiosi sono divorati dal loro stesso carattere. Soleva anche dire che quanti vogliono essere immortali devono vivere in modo pio e giusto; e che gli Stati allora vanno in ro-vina quando non sono più in grado di distinguere gli insipienti dagli industriosi. Una volta, poiché veni-va lodato da persone malvagie, disse: “Sono in ansia perché temo d’avere fatto male qualcosa”. [VI,6] Affermava che la comunanza di vita di fratelli che vanno d’accordo è più potente di qualunque muro. Diceva poi che bisogna approntare per se stessi un viatico tale da poter nuotare con esso anche se si fa naufragio. Una volta, poiché gli veniva rinfacciato di farsela con gente malvagia, disse: “Anche i medici stanno con gli ammalati, ma non per questo hanno la febbre”. Diceva che è assurdo selezionare

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il loglio dal grano e gli inabili alla guerra, e invece in fatto di cittadinanza non cercare di tener lontani i malvagi. Quando gli fu chiesto quale vantaggio gli era venuto dalla filosofia, rispose: “Quello di poter conversare con me stesso”. Poiché durante un simposio un tale gli disse: “Canta”, Antistene gli rispose: “E tu suonami il flauto”. A Diogene che gli chiedeva una tunica, Antistene ordinò di avvolgersi intorno due volte il mantello. [VI,7] Quando gli fu chiesto quale insegnamento fosse il più necessario, rispose: “Togliersi di torno il rifiuto di imparare”. E a coloro che sentivano parlar male di sé, prescriveva di farsi forza più che se uno fosse colpito da delle sassate. Antistene scherniva Platone perché si dava un sacco di arie. Perciò in occasione di una processione, quando vide un cavallo tutto impennate e nitriti, che Platone non smetteva un attimo di lodare, gli dis-se: “Mi sembra che tu pure potresti essere un cavallo che incede bizzoso e fa lo splendido”. Una volta andò a casa di lui quand’era ammalato, e vedendo un bacile nel quale Platone aveva vomitato, disse: “Qua dentro vedo la tua bile, però la tua vanità non vedo”. [VI,8] Antistene soleva consigliare gli Ate-niesi di votare che gli asini sono cavalli. Poiché quelli ritenevano ciò irragionevole, egli replicava: “Ep-pure presso di voi dei comandanti supremi spuntano fuori senza possedere alcuna competenza militare, giacché basta la vostra alzata di mano”. Ad una persona che gli diceva: “Molti ti lodano”, Antistene ri-spose: “Cos’ho fatto, dunque, di male?”. Quando egli rivoltò e mise in vista la parte lacera della sua mantellina, Socrate vedendolo gli disse: “Vedo attraverso la tua mantellina che ci tieni ad essere consi-derato un filosofo”. Come afferma Fania nel suo libro ‘Sui Socratici’ , quando uno gli chiese cosa do-vesse fare per essere un uomo virtuoso, Antistene rispose: “Se imparassi da coloro che sanno che i vizi che tu hai sono da fuggirsi”. Ad uno che lodava l’effeminatezza, disse: “Possano essere effeminati i figli dei miei nemici”. [VI,9] Ad un adolescente che assumeva pose statuarie, Antistene chiese: “Se il bronzo prendesse voce, di cosa credi che andrebbe fiero?”. E poiché quello rispose: “Della sua bellezza”, Antistene gli disse: “Dunque non ti vergogni di gioire delle stesse cose di cui gioisce una cosa inanimata?”. Quando un gio-vanotto del Ponto gli fece solenne professione di tener conto del suo debito con lui se fosse arrivata la nave del pesce salato, Antistene prese lui e un sacco vuoto e con essi se ne venne da una venditrice di farina. Qui giunto, riempì il sacco e fece per andarsene. Poiché la venditrice reclamava l’importo dovu-to, Antistene le disse: “Te lo darà questo giovanotto, non appena arriva la sua nave con il pesce salato”. Sembra anche che Antistene sia stato la causa dell’esilio di Anito e della morte di Meleto. [VI,10] Es-sendosi infatti imbattuto in certi giovanotti del Ponto che erano giunti ad Atene spintivi dalla celebrità di Socrate, egli li condusse da Anito affermando con enfasi che costui era ben più sapiente di Socrate. Ragion per cui i circostanti si sdegnarono fortemente, tanto da scacciarlo dalla città. Se poi gli capitava di vedere una donna agghindata con sfarzo, andava a casa sua e intimava al marito di tirar fuori il caval-lo e le armi. Dopo di che, se quello li aveva, gli diceva di lasciarla pur fare la sfarzosa giacché aveva i mezzi per difendersi; altrimenti di toglierle quegli ornamenti. Queste erano le tesi che avevano il suo beneplacito. Egli dimostrava che la virtù può essere insegnata; che nobili non sono altri che i virtuosi; [VI,11] che per la felicità basta la virtù, poiché essa non abbiso-gna d’altro che della forza d’animo di Socrate; che la virtù è una questione di opere e non ha bisogno di molti discorsi né di molte cognizioni; che il sapiente è autosufficiente, giacché tutti i beni degli altri so-no suoi; che il discredito è un bene pari alla fatica; che il sapiente non si regolerà secondo le vigenti leg-gi dello Stato ma secondo la legge della virtù; che il sapiente avrà relazioni sessuali per avere dei figli, congiungendosi con le donne della migliore natura; e che avrà anche relazioni omosessuali, giacché sol-tanto il sapiente sa chi è d’uopo amare. [VI,12] Diocle gli ascrive anche queste tesi: che per il sapiente nulla è strano o senza via d’uscita; che l’uomo dabbene è degno d’amore; che i virtuosi sono amici; che bisogna farsi alleati gli uomini ardi-mentosi e insieme giusti; che la virtù è un’arma della quale non possiamo essere privati da altri; che è meglio combattere con pochi virtuosi contro tutti i viziosi, che non con molti viziosi contro pochi vir-tuosi; che è opportuno fare molta attenzione ai nemici personali, giacché essi sono i primi ad accorgersi delle nostre aberrazioni; che bisogna tenere l’uomo giusto in maggior considerazione del nostro conge-nere; che identica è la virtù dell’uomo e della donna; che belle sono le opere virtuose e brutte quelle vi-ziose; e legittima come a te estranee tutte quelle malvage; [VI,13] che la saggezza è un muro sicurissimo,

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giacché non può né cadere a pezzi né essere presa a tradimento; e che tali muri vanno strutturati entro i nostri inespugnabili ragionamenti. Antistene teneva le sue conversazioni nel ginnasio del Cinosarge, poco al di là dalle porte di Atene; laonde alcuni ritengono che la sua scuola sia stata denominata ‘Cinica’ dal nome di questo ginnasio. Egli stesso era soprannominato ‘Francocane’. Secondo quanto afferma Diocle, Antistene fu il primo a in-dossare due mantelline e ad utilizzare soltanto questo indumento. Prese anche con sé un bastone e una bisaccia. Neante dice che fu anche il primo a indossare due mantelli. Invece Sosicrate nel terzo libro delle ‘Successioni dei filosofi’ afferma che il primo fu Diodoro di Aspendo, il quale si fece anche cresce-re la barba ed utilizzò bisaccia e bastone. [VI,14] Tra tutti i seguaci di Socrate, Teopompo loda il solo Antistene ed afferma che era abilissimo, attraverso un’armoniosa e ben regolata conversazione, a trarre dalla sua parte chiunque. Questo è mani-festo dalle sue compilazioni, come pure dal ‘Simposio’ di Senofonte. Sembra anche che possa essere fatta risalire a lui l’origine del più virile Stoicismo; laonde l’epigrammatista Ateneo circa gli Stoici si esprime così:

‘O esperti conoscitori dei discorsi stoici, o voi che avete riposto le più che ottime dottrine nelle sacre pagine dove s’afferma che la virtù è l’unico bene dell’animo, giacché essa soltanto

preserva la vita degli uomini e le città. Invece è solo una delle figlie di Memoria, quella che porta a compimento il voluttuoso piacere della carne, che è l’ambìto scopo della vita per altri uomini’.

[VI,15] Antistene aprì la strada al dominio sulle passioni di Diogene, alla padronanza di sé di Cratete e alla fortezza di Zenone, ponendo le fondamenta dei loro modelli di ‘Repubblica’. Senofonte afferma che Antistene era di conversazione piacevolissima e padronissimo di sé quanto al resto. Le sue compilazioni sono contenute in dieci tomi. Il primo contiene: ‘Sull’elocuzione o sugli stili espressivi’, ‘Aiace o Discorso di Aiace’, ‘Odisseo o Su Odisseo’, ‘Difesa di Oreste o Sugli scrittori di discorsi forensi’, ‘Isografia o Lisia e Isocrate’, ‘Contro il ‘Senza testimoni’ di Isocrate’. [VI,16] Il secondo contiene: ‘Sulla natura degli animali’, ‘Sulla generazione di figli o Sul matrimonio (di-scorso amoroso)’, ‘Sui sofisti (trattato fisiognomico)’, ‘Sulla giustizia e sulla virilità (discorso protrettico primo, secondo e terzo)’, ‘Su Teognide (discorso protrettico quarto e quinto)’. Il terzo contiene: ‘Sul bene’, ‘Sulla virilità’, ‘Sulla legge o Sulla repubblica’, ‘Sulla legge o Sul bello e sul giusto’, ‘Sulla libertà e la schiavitù’, ‘Sulla lealtà’, ‘Sul delegato o Sull’ubbidire’, ‘Sulla vittoria (trattato economico)’. Il quarto contiene: ‘Ciro’, ‘Eracle maggiore o Sulla potenza’. Il quinto contiene: ‘Ciro o Sul regno’, ‘Aspasia’. Il sesto contiene: ‘Verità’, ‘Sul dialogare (trattato dialettico)’, ‘Satone o Sul contraddire (tre libri)’, ‘Sulla lingua parlata’. [VI,17] Il settimo contiene: ‘Sull’educazione o Sui nomi (cinque libri)’, ‘Sull’uso dei nomi (trattato eristi-co)’, ‘Sulla domanda e la risposta’, ‘Sull’opinione e la scienza (quattro libri)’, ‘Sul morire’, ‘Sulla vita e la morte’, ‘Sugli uomini nell’Ade’, ‘Sulla natura (due libri)’, ‘Una questione sulla natura (due libri)’, ‘Opi-nioni o L’eristico’, ‘problemi circa l’apprendimento’. L’ottavo contiene: ‘Sulla musica’, ‘Sugli interpreti’, ‘Su Omero’, ‘Sull’ingiustizia e l’empietà’, ‘Su Calcan-te’, ‘Sull’esploratore’, ‘Sul piacere fisico’. Il nono contiene: ‘Sull’Odissea’, ‘Sulla bacchetta magica’, ‘Atena o Su Telemaco’, ‘Su Elena e Penelope’, ‘Su Proteo’, ‘Il Ciclope o Su Odisseo’, [VI,18] ‘Sull’uso del vino o Sull’ubriachezza o Sul Ciclope’, ‘Su Circe’, ‘Su Anfiarao’, ‘Su Odisseo, Penelope e il Cane’. Il decimo contiene: ‘Eracle o Mida’, ‘Eracle o Sulla saggezza o potenza’, ‘Ciro o L’amato’, ‘Ciro o Gli esploratori’, ‘Menesseno o Sul comandare’, ‘Alcibiade’, ‘Archelao o Sul regno’. Queste sono le opere che egli compilò.

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Timone lo rimprovera per la pletora dei suoi scritti e lo chiama ‘ciarlone che produce di tutto’. Antiste-ne morì per una infermità proprio quando Diogene entrò da lui chiedendogli: “Hai forse bisogno di un amico?”. Una volta Diogene era entrato da lui recando con sé una piccola spada, e mentre Antistene si lamentava dicendo: “Chi potrebbe sciogliermi da questi dolori?”, gli mostrò la piccola spada gli disse: “Questa”. Al che Antistene replicò: “Dai dolori, dicevo, non dalla vita”. [VI,19] Antistene sembrava in-fatti più molle del dovuto nel sopportare la malattia a causa del suo amore per la vita. Ci sono dei nostri versi dedicati a lui, di questo tenore:

‘In vita eri un cane, o Antistene, nato per mordere il cuore con le parole, non con i denti. Tu però moristi di consunzione,

e dirà forse qualcuno: “Cos’è questo mai? In ogni caso bisogna avere una qualche guida per scendere all’Ade”.

Ci furono altri tre Antistene. Uno fu un seguace di Eraclito, un altro un nativo di Efeso, il terzo uno storico di Rodi. Poiché abbiamo discusso dei discepoli di Aristippo e di Fedone, ora passeremo in rassegna quelli di An-tistene, tanto Cinici che Stoici. E l’ordine sia questo.

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DIOGENE (404 - 323 a. C.) [VI,20] Diogene era figlio di Icesia, un banchiere di Sinope. Diocle afferma che egli andò in esilio per-ché suo padre, che possedeva la Banca Popolare, contraffece la moneta. Invece Eubulide nel suo libro ‘Su Diogene’ dice che fu lo stesso Diogene ad effettuare questa operazione e che andò poi ramingo con il padre. Nondimeno è lo stesso Diogene che, parlando di sé nel dialogo ‘Pordalo’, dice d’essere stato lui a contraffare la moneta. Taluni riferiscono che egli, divenuto Governatore della Banca, fosse indotto a fare ciò da esperti artigiani, e che sia venuto a Delfi, oppure si sia recato ad un tempio di Apollo in pa-tria, per cercare di sapere se fare ciò cui si intendeva persuaderlo. Il dio convenne sul cambiamento del-la moneta dello Stato, ma Diogene non capì e fece invece adulterare le monete di piccolo taglio. Fu condannato all’esilio, secondo alcuni, quando fu scoperto; secondo altri, egli si allontanò volontaria-mente dal suo paese per paura. [VI,21] Taluni sostengono che ottenne da suo padre la moneta che falsi-ficò, che il padre morì in prigione e che egli fuggendo giunse a Delfi, dove chiese al dio non se contraf-fare la moneta bensì cosa dovesse fare per ottenere un grandissimo credito, e che così ottenne tale re-sponso dall’oracolo. Stando ad Atene, Diogene s’accostò ad Antistene. E poiché questi lo respingeva, non ammettendo alcuno come allievo, Diogene la spuntò di forza grazie all’assiduità della sua frequen-tazione. Una volta Antistene levò contro di lui il suo bastone, ma Diogene gli offrì la testa dicendo: “Batti pure; non troverai un legno così duro col quale tenermi in disparte, fino a che non ti apparirà il caso di dirmi qualcosa”. Per l’appresso divenne suo uditore e, in quanto esule, intraprese una vita sem-plice e modesta. [VI,22] Secondo quanto afferma Teofrasto nel suo ‘Megarico’, Diogene scovò la via d’uscita dalle difficili circostanze nelle quali si trovava, osservando un topo che correva qua e là senza ricercare un giaciglio, senza avere timore del buio, senza bramare quelli che sembrano godimenti. Se-condo alcuni egli per primo utilizzò la doppia mantellina, vista la necessità di usarlo anche per dormire. Portava una bisaccia entro la quale teneva le cibarie, ed usava qualunque luogo per qualunque scopo: per fare colazione, per dormire, per discutere. Talora, mostrando il portico di Zeus e l’edificio del Pompeion ripeteva che gli Ateniesi gli avevano provvisto i luoghi dove dimorare. [VI,23] Da principio si appoggiava al bastone quando si sentiva debole, ma in seguito lo portava sempre con sé; non nel cen-tro della città ma quand’era per strada, insieme con la bisaccia, come riferiscono Olimpiodoro, che fu Governatore degli Ateniesi, il retore Polieucto e Lisania, figlio di Escrione. Quando incaricò un tale di provvedergli una casetta, poiché la faccenda andava per le lunghe, egli prese casa nella botte che si tro-vava nel Metroon, come chiarisce lui stesso nelle sue lettere. D’estate poi si rotolava nella sabbia calda e d’inverno abbracciava le statue innevate, trovando ogni occasione per esercitarsi alle intemperie. [VI,24] Era capace di trattare gli altri con grande alterigia. Soleva chiamare ‘fiele’ la scuola di Euclide, la conver-sazione di Platone una ‘perdita di tempo’, le gare in occasione delle Dionisiache ‘grandi meraviglie per gli stupidi’ e i demagoghi ‘ministri della folla’. Quando gli capitava di vedere dei piloti all’opera, o dei medici o dei filosofi, soleva dire di ritenere l’uomo il più dotato di comprendonio tra tutti gli animali. Quando però vedeva interpreti di sogni, indovini e tutti coloro che a gente simile prestano attenzione, oppure individui pieni di boria per la loro fama o ricchezza di denaro, diceva di ritenere che non ci fos-se animale più folle dell’uomo. E ripeteva di continuo che per la conduzione della nostra vita bisogna essere attrezzati o della ragione o di un laccio. [VI,25] Una volta, in occasione di un pranzo sontuoso, osservando che Platone toccava soltanto olive, Diogene gli disse: “Perché tu, il sapiente che ha navigato fino alla Sicilia per godere di queste tavolate, ora non ne approfitti?”. E Platone gli rispose: “Per gli dei, Diogene, anche là io vissi per la maggior parte di olive e cibi simili”. E Diogene: “Perché dunque biso-gnerebbe navigare fino a Siracusa? O allora l’Attica non produceva olive?”. Favorino, nella sua ‘Storia varia’, afferma però che fu Aristippo a parlare così. Un’altra volta Diogene, mentre mangiava fichi sec-chi, incontrò Platone e gli disse: “Se vuoi, puoi averne in parte”. E siccome Platone prendeva e mangia-va, prendeva e mangiava, Diogene gli disse: “T’avevo detto ‘averne in parte’, non di divorarli tutti”. [VI,26] Una volta Platone aveva invitato presso di sé degli amici giunti da parte di Dionisio, e Diogene camminando sui tappeti di casa sua disse: “Calpesto la futilità di Platone”. Al che Platone replicò: “Diogene, quanta vanità lasci trasparire pur facendo sembiante d’esserne privo!”. Alcuni però afferma-no che Diogene disse: “Calpesto la vanità di Platone”; e che Platone rispose: “Lo fai, o Diogene, con un’altra vanità”. Sozione afferma però nel quarto libro della sua opera che fu il Cinico a rivolgere a Pla-

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tone questa battuta. Una volta Diogene gli chiese del vino e, visto che c’era, anche dei fichi secchi; e Platone gli mandò un’anfora intera piena di vino. Al che Diogene disse: “Se qualcuno ti chiederà quan-to fa due più due, tu risponderai che fa venti? Sicché tu né dai ciò che ti si chiede, né rispondi a ciò che ti si domanda”. Questo era il suo modo di schernirlo come persona che non finiva mai di parlare. [VI,27] Quando gli fu chiesto dove vedesse in Grecia uomini dabbene, Diogene rispose: “Uomini da nessuna parte, ma ragazzi dabbene a Sparta”. Una volta che nessuno gli si avvicinava mentre stava par-lando di cose serie, si mise a cinguettare. E poiché in tanti gli si radunarono intorno, Diogene inveì loro contro, perché a sentir quisquilie si premuravano di venire, mentre invece per le cose serie se la prende-vano comoda. Soleva dire che gli uomini gareggiano nello scavare sabbia e tirarsi dei calci, e che invece nessuno gareggia nel diventare uomo dabbene. Si stupiva assai che i grammatici indaghino minutamente i mali di Odisseo e che invece ignorino i loro propri; che i musicisti accordino le corde della lira e che lascino invece discordanti i loro stati d’animo; [VI,28] che i matematici volgano lo sguardo al sole e alla luna e non badino invece alle faccende che hanno tra i piedi; che i retori dicano di industriarsi per le co-se giuste senza attuarne assolutamente nessuna, tant’è che denigrano gli avari mentre amano il denaro alla follia. Condannava anche quanti lodano i giusti come persone al di sopra del denaro, e però guar-dano con gelosia gli straricchi. Lo muoveva a sdegno veder fare sacrifici agli dei per invocare salute e poi, nel corso stesso del sacrificio, gavazzare a detrimento della salute. Ammirava poi il fatto che i servi, pur vedendo i padroni mangiare a quattro palmenti, non sottraessero con destrezza alcuna vivanda. [VI,29] Lodava coloro il cui futuro è sposarsi e che non si sposano; coloro il cui futuro è navigare verso casa e che non ci navigano; coloro il cui futuro è occuparsi di faccende politiche e che invece non se ne occupano; coloro il cui futuro è fare figli ed allevarli e che invece non lo fanno; coloro il cui futuro è prepararsi a convivere con dei principi e che invece non vanno alla loro corte. Soleva anche dire che bi-sogna dare la mano agli amici con le dita tese e non piegate. Nella sua opera ‘La vendita di Diogene’, Menippo racconta che quando fu catturato e messo in vendita, gli fu chiesto cosa sapesse fare, e che egli rispose: “Comandare uomini”; ed anche che disse al banditore: “Banditore, grida e chiedi a questa gente se c’è qualcuno che vuole comprarsi un padrone”. E poiché gli fu impedito di sedersi, disse: “Non fa differenza, giacché pure i pesci si smerciano in qualunque posizione giacciano”. [VI,30] Diceva di meravigliarsi del fatto che quando si tratta di comperare una pentola o un piatto, noi ne saggiamo il tintinnio; e che per un uomo ci basta invece la sola vista. Al suo compratore Xeniade, Diogene diceva che doveva ubbidirgli anche se era un suo schiavo, giacché noi ubbidiremmo ad un medico o ad un pi-lota di nave anche se fosse uno schiavo. Nel suo libro intitolato ‘La vendita di Diogene’, Eubulo rac-conta che, oltre le altre discipline, Diogene insegnava ai figli di Xeniade a cavalcare, a tirare con l’arco, a colpire con la fionda ed a lanciare il giavellotto. In seguito, quando frequentarono la palestra, non con-sentiva all’istruttore di ginnastica di allenarli come dei veri e propri atleti, ma quel tanto che bastava a procurar loro il colorito roseo e una buona complessione. [VI,31] I ragazzi si abituavano invece a tenere a mente molti versi di poeti, brani di prosatori e di opere dello stesso Diogene; ed egli li esercitava a percorrere tutte le vie più rapide per ottenere una memoria di ferro. In casa insegnava loro a servirsi da sé, a consumare cibi frugali ed bere soltanto acqua. Rapati a zero e privi di ogni ornamento, li educava ad andare in giro senza tunica, scalzi, silenziosi, badando a se stessi quand’erano per via. Li conduceva anche a caccia. I ragazzi, a loro volta, si prendevano cura di lui, e facevano per lui delle richieste ai geni-tori. Sempre Eubulo riferisce che Diogene invecchiò presso Xeniade, e che quando morì fu sepolto dai suoi figli. In proposito, quando Xeniade cercò di sapere da lui come volesse essere sepolto, egli rispose: “A faccia in giù”. [VI,32] E poiché Xeniade gli chiese: “Perché?”, Diogene disse: “Perché in poco tem-po il culo diventa la faccia”. Diceva questo perché ormai i Macedoni dominavano, ossia da oscura na-zione erano diventati una potenza egemone. Una volta un tale lo introdusse in una casa sontuosa e gli vietava però di sputare. Al che Diogene, dopo essersi schiarito la gola, gli sputò in faccia dicendo di non avere trovato un luogo più sudicio dove sputare. Altri affermano invece che a fare ciò fu Aristippo. Come afferma Ecatone nel primo libro dei ‘Detti sentenziosi’, una volta chiamò a gran voce “Ehi, uo-mini!”, e quando la gente gli si riunì intorno la colpì col bastone dicendo: “Io chiamavo a me degli uo-mini, non della feccia!”. Si afferma anche che Alessandro Magno abbia detto che se non fosse diventato Alessandro avrebbe voluto essere Diogene. [VI,33] Egli diceva che ‘mutilati’ non sono i sordi e i ciechi, ma coloro che non hanno una bisaccia. Secondo il racconto di Metrocle nei suoi ‘Detti sentenziosi’ una

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volta, entrando soltanto mezzo rasato in un convito di giovani, fu preso a botte. Dopodiché egli annotò i nomi di coloro che l’avevano preso a botte su di un albo e andò in giro con questa tavoletta appesa al collo fino a che, stigmatizzati e censurati, non li ebbe circondati di dileggio. Soleva affermare di essere un cane di quelli che la gente loda, ma con il quale nessuno dei lodatori ha però l’ardire di uscire a cac-cia. Ad uno che diceva: “Ai giochi Pitici io sono vincitore tra gli uomini”, Diogene disse: “Io vinco uo-mini, tu schiavi”. [VI,34] A coloro che gli dicevano: “Sei ormai vecchio, lascia stare!”, rispondeva: “Che dici? Se io stessi gareggiando nella corsa lunga allo stadio, quasi all’arrivo dovrei lasciar perdere e non piuttosto intensificare lo sforzo?”. Invitato una volta a pranzo, disse che non ci si sarebbe presentato, giacché neppure il giorno innanzi gli era stato detto grazie per essersi presentato. Soleva calpestava la neve a piedi nudi e fare le altre cose di cui s’è detto sopra. Cercò anche di mangiare carne cruda, ma non riuscì a digerirla. Una volta s’imbatté in Demostene, l’oratore, che faceva colazione in una taverna; e poiché quello si ritraeva da lui, Diogene disse: “<Quanto più ti ritrai>, tanto più a lungo resterai nella taverna”. Una volta, poiché degli stranieri volevano vedere Demostene, Diogene distese il dito medio e disse: “Ecco a voi il demagogo degli Ateniesi!”. [VI,35] Quando buttò via un pane e un tale si vergognò di raccoglierlo, per dargli una lezione Diogene legò una corda attorno al collo di un vaso e lo strascinò per il Ceramico. Soleva dire che bisogna imitare i maestri del coro. Infatti anch’essi intonano la melodia un po’ sopra tono, di modo che i restanti coreuti possano toccare il tono conveniente. Soleva poi dire che la maggioranza degli uomini diventa pazza per un dito. Se infatti uno cammina col dito medio pro-teso, sembrerà a qualcuno che sia pazzo; se invece protende l’indice non sembrerà più pazzo. Diceva che cose di gran valore si smerciano per nulla e viceversa: ad esempio, una statua si smercia per tremila dracme, mentre un chenice di farina per due monete di rame. [VI,36] A Xeniade che l’aveva comprato, Diogene disse: “Orsù, bada di fare ciò che ti ordino”. E quando Xeniade gli citò il verso:

‘rimontano i fiumi alle sorgenti’ Diogene gli disse: “Se tu avessi comprato un medico e fossi ammalato, non gli ubbidiresti ma gli diresti che ‘rimontano i fiumi alle sorgenti’?”. Un tale voleva fare vita filosofica presso di lui e Diogene, datogli da portare un pesce saperda, gli comandò di seguirlo. Quello però ritenne ciò indecoroso, buttò via il pesce e se ne andò. Dopo un certo tempo Diogene lo incontrò e ridendo gli disse: “Un pesce saperda ha dissolto la nostra amicizia”. Diocle però in proposito scrive così. Quando un tale gli disse: “Diogene, dacci degli ordini”, egli lo menò con sé e gli diede da trasportare un pezzo di formaggio da mezzo obo-lo. E poiché quello rifiutò, Diogene gli disse: “Un pezzo di formaggio da mezzo obolo ha dissolto l’amicizia tra me e te”. [VI,37] Quando una volta osservò un ragazzo che beveva dal cavo della mano, prese la ciotola dalla bisaccia e la scagliò via dicendo: “Un ragazzo mi ha vinto in parsimonia”. Buttò via anche la catinella osservando un ragazzo il quale, poiché aveva rotto la scodella, metteva la sua porzione di lenticchie nel cavo di un pezzo di pane. Ragionava anche così: “Tutto è degli dei; i sapienti sono ami-ci degli dei; i beni degli amici sono comuni; dunque tutto è dei sapienti”. Una volta osservò una donna prostrata supplichevolmente davanti agli dei in posizione assai indecente. Volendo spogliarla della su-perstizione, secondo quanto narra Zoilo di Perge, Diogene le si avvicinò e le disse: “Perché non usi la cautela, o donna, se un dio ti sta alle spalle - giacché tutti i luoghi sono pieni della sua presenza - di evi-tare di mostrarti in una posizione indecente?”. [VI,38] Dedicò ad Asclepio un fustigatore che correva a bacchettare coloro che si prostravano col viso fino a terra. Soleva dire che le maledizioni tragiche si erano incontrate tutte in lui. Infatti era

‘senza città, senza casa, privato della patria, povero, errante, uno che vive alla giornata’

Soleva ripetere di contrapporre alla fortuna il coraggio, alla legge la natura, alla passione la ragione. Una volta che prendeva il sole nel Craneo, Alessandro Magno standogli davanti gli disse: “Chiedimi quel che vuoi”. Al che Diogene rispose: “Non farmi ombra”. Un tale stava leggendo ad alta voce da lungo tem-po. Quando verso la fine del rotolo fece capolino la parte non scritta, Diogene disse: “Coraggio, uomi-ni, vedo terra”. A colui che gli dimostrava mediante un sillogismo di avere le corna, toccandogli la fron-

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te Diogene disse: “Io almeno non le vedo”. [VI,39] Similmente, a chi diceva che il movimento non esi-ste, levatosi in piedi si mise a camminare. E a chi parlava di fenomeni celesti disse: “Da quanti giorni sei qui venuto giù dal cielo?”. Poiché un eunuco depravato aveva fatto scrivere sulla porta di casa: “Non entri alcun male”, disse: “E allora il padrone di casa da dove entra?”. Quando si ungeva i piedi con olio profumato, soleva dire che dal capo il profumo si spande nell’aria, mentre dai piedi sale verso il naso. Poiché gli Ateniesi lo sollecitavano a farsi iniziare ai Misteri, affermando che quando sono nell’Ade agli iniziati toccano posti privilegiati, Diogene rispondeva: “È ridicolo che Agesilao ed Epaminonda se la passino nel brago, mentre gente da quattro soldi che però è stata iniziata ai Misteri dimora nelle Isole dei Beati”. [VI,40] Circa i topi che si arrampicavano sulla sua tavola, diceva: “Ma guarda un po’, anche Diogene nutre dei parassiti”. Poiché Platone lo chiamava ‘cane’, “Sì”, diceva, “infatti io ritorno conti-nuamente da coloro che mi hanno venduto”. Uscendo dai bagni pubblici, a chi cercava di sapere da lui se erano molti gli uomini che facevano il bagno, rispondeva di no. A chi invece gli chiedeva se c’era molta folla, diceva di sì. Platone aveva appena dato dell’uomo questa definizione: “L’uomo è un anima-le bipede e implume”, ed era stato applaudito. Allora Diogene spennò un gallo e lo portò nella sala di-cendo: “Questo è l’uomo di Platone”. Onde alla definizione fu aggiunto: “e dalle unghie larghe”. A chi cercava di sapere da lui a che ora si deve fare colazione, rispose: “Se sei ricco quando vuoi, se sei pove-ro quando puoi”. [VI,41] Vedendo che a Megara le pecore avevano il vello protetto da pelli mentre i fi-gli dei Megaresi andavano nudi, disse: “È più vantaggioso essere il montone di un Megarese piuttosto che il figlio”. Ad un tale che lo aveva prima spintonato con una trave e poi gli aveva detto: “Sta’ atten-to!”, ribatté: “Stai di nuovo per colpirmi?”. Soleva dire che i demagoghi sono i ministri della folla e che le loro corone sono degli esantemi di fama. Una volta che se ne stava fermo sotto una forte pioggia, poiché i circostanti ne avevano compassione, Platone, che era presente, disse: “Se volete averne com-passione, andatevene”, alludendo alla vanità di Diogene. Quando un tale gli assestò un pugno, disse: “Che razza di dimenticanza è stata la mia nel passeggiare senza un elmetto in testa!”. [VI,42] Ma anche Meidia l’aveva preso a pugni e poi gli aveva detto: “Ci sono tremila dracme a tuo credito in banca!”. Al che Diogene, il giorno dopo, si mise dei guanti da pugile e lo fracassò di pugni, dicendogli: “Ci sono tremila dracme a tuo credito in banca!”. Poiché il farmacista Lisia gli domandava se credeva nell’esistenza degli dei, Diogene gli rispose: “E come posso non creder loro, dal momento che concepi-sco proprio te come persona invisa agli dei?”. Altri però affermano che a dire questo sia stato Teodoro. Quando vide un tale che si sottoponeva ad aspersioni purificatorie, soggiunse: “O infelice, non sai che con le aspersioni purificatorie, come non potresti sbarazzarti degli errori di grammatica che fai, così neppure puoi sbarazzarti delle azioni aberranti che fai nella vita?”. Circa gli auspici, incolpava gli uomini affermando che essi chiedono quelli che a loro sembrano beni e non quelli che davvero lo sono. [VI,43] Soleva dire di coloro che si lasciano sconvolgere dai sogni, che essi non si impensieriscono delle azioni che effettuano da svegli e però s’impicciano di quelle che fantasticano dormendo. Quando ad Olimpia l’araldo annunciò: “Dioxippo è vincitore tra gli uomini”, Diogene disse: “Costui vince schiavi, io invece uomini”. Era comunque caro agli Ateniesi, giacché quando un adolescente ruppe la sua botte, al costui essi diedero le botte ed a Diogene procurano un’altra botte. Dionisio lo stoico racconta che dopo la battaglia di Cheronea Diogene fu preso prigioniero e condotto davanti a Filippo. Quando gli fu chiesto chi fosse, egli rispose: “Io sono l’esploratore della tua insaziabilità”. Questa risposta gli procurò ammi-razione e così fu rilasciato. [VI,44] Una volta, in Atene, Diogene fu presente all’arrivo di una lettera di Alessandro Magno ad Antipatro, recapitata attraverso un certo Atlio, e il suo commento fu:

‘un meschino, discendente di un meschino, attraverso un meschino, ad un meschino’ Quando Perdicca minacciò di ucciderlo se non fosse venuto a vivere con lui, Diogene disse: “Nulla di straordinario, infatti anche uno scarafaggio o una tarantola lo farebbero”; giacché si aspettava piuttosto che la minaccia di Perdicca fosse “di vivere felicemente pur non vivendo in mia compagnia”. Soleva spesso gridare che gli dei hanno dato agli uomini una vita facile da fare, ma che questa verità è stata ce-lata; visto che essi ricercano le focacce col miele e gli oli odorosi e cose similari. Ragion per cui a chi si faceva calzare da un domestico, disse: “Non sei ancora beato finché costui non ti soffia anche il naso; e ciò accadrà quando avrai perso l’uso delle mani”. [VI,45] Osservando una volta i magistrati custodi de-

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gli oggetti sacri mentre portavano via uno dei tesorieri che aveva sottratto una coppa, commentò: “I grandi ladri ne portano via uno piccolo”. Osservando una volta un adolescente che tirava pietre contro una croce, disse: “Bene ragazzo, centrerai il tuo scopo”. A degli adolescenti che gli stavano intorno e dicevano: “Vediamo di non farci mordere”, disse: “Ragazzi, un cane non mangia bietole”. Ad un tale che si pavoneggiava con indosso una pelle di leone, disse: “Smettila di svergognare il paramento della virtù”. A chi chiamava beato Callistene ed affermava che presso Alessandro poteva godere d’ogni splendore, Diogene disse: “Dunque di sicuro è infelice, lui che fa colazione e pranzo quando così pare ad Alessandro”. [VI,46] Quando aveva bisogno di denaro, soleva dire che lo richiedeva agli amici in re-stituzione, non che lo chiedeva. Una volta, mentre si masturbava nella piazza del mercato, affermò: “Magari fosse possibile non avere più fame semplicemente sfregandosi il ventre!”. Quando vide un adolescente che stava andando a pranzo con dei satrapi, lo staccò da loro e lo condusse dai familiari, in-timando loro di fargli la guardia. A un adolescente agghindato con sfarzo che gli rivolse una domanda, disse che non gli avrebbe risposto se non si fosse prima tirato su le vesti per mostrargli se era femmina o maschio. Ad un adolescente che giocava al cottabo nei bagni pubblici, disse: “Quanto meglio giochi, tanto peggio è per te”. Nel corso di un pranzo, taluni gli gettarono delle ossa, come si fa coi cani. Al che Diogene, quando se ne andò, orinò loro sopra, come fa un cane. [VI,47] I retori e tutti coloro che cer-cano fama nell’eloquenza li soprannominava ‘tre volte uomini’, intendendo dire ‘tre volte meschini’. Di-ceva poi che la persona ricca di denaro ma incolta è una pecora dal vello d’oro. Osservando sulla casa di un depravato ubriacone la scritta ‘Si vende’, disse: “Lo sapevo che dopo tutte quelle ubriacature avresti facilmente vomitato il possessore”. All’adolescente che se la prendeva per la moltitudine di coloro che lo importunavano, disse: “Anche tu, però, smettila di portare in giro i segni di chi ha impuri desideri”. A proposito di un bagno pubblico sudicio, disse: “E coloro che hanno fatto il bagno qui, dove vanno poi a lavarsi?”. Diogene era il solo a lodare citaredo grande e grosso che era invece da tutti biasimato. Quando gli fu chiesto il perché, egli rispose: “Perché pur essendo così grande e grosso fa il citaredo e non il brigante”. [VI,48] Una volta Diogene ossequiò così un certo citaredo che veniva sempre lasciato solo dagli ascoltatori: “Salve, galletto!”. Al che quello gli chiese: “Perché galletto?”, e lui gli rispose: “Perché quando suoni e canti tu, fai alzare e andar via tutti quanti”. Mentre un adolescente stava decla-mando in pubblico, Diogene, con la piega anteriore della tunica piena di lupini, gli si piazzò dirimpetto e cominciò a mangiarne avidamente. Poiché la folla, a quel punto, cominciò a tenere gli occhi su lui, Diogene disse di stupirsi e di non capire come mai essi guardassero lui trascurando l’oratore. Ad un tale estremamente superstizioso che gli disse: “Con un colpo solo ti spaccherò la testa”, Diogene rispose: “E io ti farò tremare con uno starnuto da sinistra”. A Egesia che lo pregava di prestargli qualcuno dei suoi scritti, Diogene disse: “Tu sei matto, Egesia; perché scegli per te non i fichi secchi dipinti ma quelli veri, e però metti da parte la pratica della virtù nella vita vera e ti affanni soltanto a scriverne”. [VI,49] Ad un tale che gli imputava ad onta l’esilio, Diogene disse: “O infelice, ma è grazie all’esilio che ho po-tuto pervenire alla vita da filosofo!”. Quando un tale a sua volta gli disse: “Sono i cittadini di Sinope che ti hanno condannato all’esilio”, Diogene gli rispose: “Ma sono io che ho condannato loro a rimanere a Sinope”. Una volta, vedendo un vincitore ad Olimpia che pascolava le pecore, disse: “Ottimo amico mio, sei passato in fretta dai giochi Olimpici a quelli Nemei”. Quando fu interrogato sul perché gli atleti sono persone insensibili, rispose: “Perché sono stati rimpinzati di carni suine e bovine”. Una volta chiedeva l’elemosina ad una statua, e interrogato sul perché lo facesse rispose: “Mi esercito a fallire il mio scopo”. Per chiedere l’elemosina ad un tale - infatti fece ciò essendovi dapprima costretto dalla mancanza di mezzi di sussistenza - disse: “Se hai già dato ad un altro, dà anche a me. Se no, comincia da me”. [VI,50] Richiesto da un tiranno di quale fosse il miglior bronzo per una statua, rispose: “Quello col quale furono fatte le statue di Armodio e di Aristogitone”. Quando gli fu chiesto in che modo Dio-nisio trattasse gli amici, disse: “Come sacchi, giacché appende quelli pieni e butta via quelli vuoti”. Poi-ché un novello sposo aveva fatto scrivere sulla porta di casa:

‘Qui dimora Eracle vittorioso, figlio di Zeus. Non entri alcun male’

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vi aggiunse: “Dopo la guerra, l’alleanza”. Diceva anche che l’avidità di denaro è la metropoli di tutti i vizi. Osservando in una taverna un dissoluto che mangiava olive disse: “Se tu facessi colazione così, non pranzeresti così”. [VI,51] Affermava che gli uomini virtuosi sono immagini degli dei e che la pas-sione amorosa è occupazione di disoccupati. Richiesto di cosa sia meschino nella vita, rispose: “Un vecchio privo di mezzi di sussistenza”. Quando gli fu chiesto di quali belve sia peggiore il morso, rispo-se: “Di quelle selvatiche, il morso del sicofante; di quelle addomesticate, il morso dell’adulatore”. Una volta, vedendo due centauri pessimamente dipinti, disse: “Quale di questi due è Chirone?”. Affermava che il discorso fatto per ingraziarsi qualcuno è una corda da impiccagione spalmata di miele. Soleva dire che il ventre è la Cariddi della vita. Una volta, sentendo dire che il flautista Didimo era stato colto in flagrante adulterio, commentò: “Già per il suo nome merita di essere impiccato”. Richiesto del perché la moneta d’oro è di un giallo pallido, disse: “Perché ha molti insidiatori”. Vedendo una donna in letti-ga, disse: “La gabbia non s’accorda con la bestia”. [VI,52] Una volta, vedendo uno schiavo fuggitivo se-duto sull’orlo di un pozzo, gli disse: “Giovanottello, bada di non caderci dentro”. Vedendo un ladro di mantelli in un bagno pubblico, gli disse: “Sei qui per una piccola unzione o per un altro mantello?”. Una volta, vedendo delle donne impiccate ad un olivo, disse: “Magari tutti gli alberi facessero simili frutti!”. Quando vide un rubavestiti, disse:

‘Che ci fai tu qui, o prode? Sei forse qui per spogliare qualche cadavere?’

Richiesto se avesse una servetta o un servetto, rispose: “No”. E poiché un tale gli chiese: “Se dunque tu morissi, chi ti farà il funerale?”, Diogene rispose: “Chi ha bisogno della mia casa”. [VI,53] Vedendo un adolescente di bell’aspetto che s’era coricato e dormiva senza vestiti, lo scosse e gli disse: “Svegliati”

‘che qualcuno nel tergo una lancia non t’infigga mentre dormi’; e ad un tale che spendeva moltissimo per i cibi

‘di breve vita mi sarai, figliolo, per quanto cibo compri’ Quando Platone disquisiva delle idee e nominava la ‘tavolità’ e la ‘ciatità’, Diogene gli disse: “Platone, io vedo il tavolo e il ciato, ma non la tavolità e la ciatità. Al che Platone replicò: “Lo dici a ragione, giacché hai gli occhi per discernere il tavolo e il ciato, ma non hai la mente con la quale si vedono tavolità e cia-tità”. [VI,54] Quando un tale chiese a Platone: “Chi ti sembra essere Diogene?”, Platone rispose: “Un Socrate impazzito”. Richiesto di quale sia l’età opportuna per sposarsi, Diogene rispose: “Se si è giovani non ancora, se si è vecchi mai più”. Richiesto di quale vantaggio potesse trarre da un pugno, rispose: “Un elmetto”. Quando vedeva un adolescente tutto imbellettato, soleva dire: “Se lo fai per gli uomini sei un malpensante; se lo fai per le donne sei un malfattore”. Una volta, vedendo un adolescente arros-sire disse: “Coraggio, siffatto è il colore della virtù”. Una volta, dopo avere ascoltato parlare due legulei li condannò entrambi, decretando che uno aveva rubato e che l’altro nulla aveva perduto. Richiesto di quale vino bevesse con piacere, rispose: “Quello altrui”. A chi gli diceva: “Molti ti deridono”, soleva ri-spondere: “Io invece non mi derido”. [VI,55] A chi affermava che il vivere è un male, Diogene rispon-deva dicendo: “Male non è il vivere, ma il vivere male”. A coloro che gli consigliavano di andare in cer-ca del suo schiavo che era fuggito, soleva dire: “È ridicolo pensare che Mane possa vivere senza Dioge-ne, e che invece Diogene non potrà vivere senza Mane”. Mentre faceva colazione con delle olive gli fu servita anche una focaccia, che Diogene respinse dicendo:

‘Straniero, va fuori dai piedi di chi è signore assoluto’ e in un’altra occasione:

‘Frustò l’oliva’.

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Richiesto di qual razza di cane fosse, soleva rispondere: “Quando ho fame sono un Maltese e quando sono ben foraggiato un Molosso. Queste sono razze che i più lodano e con le quali non ardiscono però andare a caccia, per tema della fatica da reggere; così come voi non potete convivere con me per tema delle sofferenze da patire”. [VI,56] Quando gli fu chiesto se i sapienti mangiano delle focacce, rispose: “Sì, senz’altro, come tutti gli uomini”. Richiesto del perché gli uomini danno l’elemosina a chi vive mendicando e non a chi fa vita filosofica, soleva rispondere: “Perché stimano in cuor loro di poter di-ventare zoppi e ciechi, ma giammai di fare vita filosofica”. Una volta chiedeva l’elemosina ad un indivi-duo avido di denaro, e poiché costui la menava per le lunghe gli disse: “Uomo, ti chiedo l’elemosina per il sostentamento, non per il sotterramento”. Quando gli veniva rinfacciato d’avere contraffatto la mo-neta, Diogene rispondeva: “Ci fu un tempo nel quale io fui tale e quale sei tu adesso. Ma quale io sono adesso, tu non lo sarai mai”. E ad un altro che gli rinfacciava la stessa cosa, disse: “Allora sulla gente ci pisciavo, ma adesso no”. [VI,57] Arrivato a Mindo e osservando che le porte erano grandi ma la città era piccola, disse: “Uomini di Mindo chiudete le porte, ché la vostra città non abbia ad uscirsene”. Os-servando una volta un ladro di porpora colto in flagrante, disse:

‘lo colse la morte purpurea e la potente Moira’. Quando Cratero lo sollecitò a venire ospite da lui, Diogene disse: “Voglio leccare sale ad Atene piutto-sto che fruire della sontuosa mensa di Cratero”. Quando avvicinò il retore Anassimene, che era di pin-gue corporatura, disse: “Dà anche a noi poveracci un po’ del tuo ventre; così tu ne sarai alleggerito ed a noi sarà di giovamento”. Mentre Anassimene teneva un discorso, Diogene gli porse un pesce salato e ciò distolse l’attenzione degli ascoltatori. Poiché Anassimene per questo s’adirò molto, Diogene com-mentò: “Un pesce secco da un obolo è stato capace di dissolvere la facondia di Anassimene”. [VI,58] Rimproverato una volta perché mangiava nella piazza del mercato, Diogene disse: “Anche nella piazza del mercato ebbi fame”. Taluni affermano che è riferito a lui anche il seguente aneddoto. Una volta Pla-tone, osservandolo mentre lavava della verdura gli si avvicinò e gli disse tranquillamente: “Se tu servissi alla corte di Dionisio non laveresti la verdura”. Al che Diogene rispose con la stessa tranquillità: “Pure tu laveresti la verdura, se non servissi alla corte di Dionisio”. A chi gli diceva: “Gli uomini in maggio-ranza ti deridono”, Diogene rispose: “Forse anche gli asini deridono gli uomini; ma come quelli non si danno pensiero degli asini, così io pure non mi do pensiero di loro”. Osservando una volta un adole-scente che faceva vita filosofica, disse: “Bravo! Perché fai volgere gli amanti del corpo alla bellezza dell’animo”. [VI,59] Poiché un tale era pieno di stupore e di ammirazione per i doni votivi in Samotra-cia, Diogene disse: “Sarebbero molti di più se anche coloro che non si salvarono avessero potuto dedi-care i loro”. Alcuni però affermano che a dire ciò sia stato Diagora di Milo. Ad un adolescente di bell’aspetto che se ne andava ad un convito, disse: “Tornerai peggiore”. Quello tornò e il giorno dopo gli disse: “Sono tornato e non sono diventato peggiore”. Al che Diogene soggiunse: “Chirone non sei tornato, ma Euritione sì”. Una volta chiedeva l’elemosina ad un tipo scorbutico, il quale gli disse: “Se mi persuaderai a farlo”. Al che Diogene ribatté: “Se io potessi persuaderti, ti avrei già persuaso da un pezzo ad impiccarti”. Una volta tornava da Sparta ad Atene, ed a chi gli chiese: “Da dove vieni e dove vai?”, rispose: “Dai locali degli uomini a quelli delle donne”. [VI,60] Mentre tornava da Olimpia, ad uno che gli chiedeva se colà vi fosse molta folla rispose: “Folla sì, molta; uomini, pochi”. A proposito dei dissoluti, diceva che essi sono simili a quei fichi che nascono e crescono sul bordo dei burroni: fichi i cui frutti nessun uomo gusta, ma che i corvi e gli avvoltoi mangiano. Ad una statuetta in oro di Afrodi-te, dedicata da Frine in Delfi, si racconta che Diogene abbia apposto questa dedica: “Dono della srego-latezza dei Greci”. Ad Alessandro che una volta gli stava dinnanzi e gli disse: “Io sono Alessandro il grande re”, rispose: “E io sono Diogene, il cane”. Richiesto quindi di dire cosa facesse per essere chia-mato cane, spiegò: “Scodinzolo davanti a chi mi dà qualcosa, abbaio a chi nulla mi dà, mordo i malva-gi”. [VI,61] Stava raccogliendo frutti da un fico, quando il custode del terreno gli disse: “Stamattina un uomo è stato impiccato a quel fico”; ed egli rispose: “Io lo purificherò”. Vedendo che un vincitore di Olimpia teneva gli occhi fissi su un’etera, disse: “Ecco come un ariete di Arimane è tirato per il collo da una ragazzotta qualunque”. Soleva infatti dire che le etere di bell’aspetto sono simili ad una pozione le-

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tale di idromele. Quando faceva colazione nella piazza del mercato, coloro che gli stavano intorno ripe-tevano in continuazione “Cane!”. Al che lui diceva: “Cani siete voi che mi state intorno mentre faccio colazione. Quando due effeminati mollaccioni cercavano di nascondersi alla sua vista, Diogene diceva loro: “Non cautelatevi, un cane non mangia bietole”. Richiesto di dove fosse un ragazzo che si era dato alla prostituzione, rispose: “È di Tegea”. [VI,62] Osservando che un lottatore privo di talento per la lot-ta s’era dato a praticare la medicina, Diogene commentò: “Cos’è questa storia? Lo fai per poter adesso atterrare coloro che una volta ti vincevano?”. Vedendo che il figlio di un’etera tirava pietre alla folla, gli disse: “Sta attento a non colpire tuo padre”. Quando un giovanetto gli mostrò un pugnale ricevuto in dono dall’amante, Diogene gli disse: “Bello è il pugnale, ma brutto è il manico”. Quando un tale gli chiese in restituzione una mantellina, gli disse: “Se me ne hai fatto dono, è mia; se me l’hai prestata, la sto usando io”. Quando un ragazzo suppositizio gli disse che aveva dell’oro nel mantello, Diogene gli rispose: “Sì, è per questo che io me lo metto sotto quando mi corico”. [VI,63] Richiesto di quale van-taggio gli fosse venuto dalla filosofia, rispose: “Se non altro l’essere preparato a qualunque caso di for-tuna”. Richiesto di dove fosse, rispose: “Sono cittadino del mondo”. Poiché dei tali offrivano sacrifici agli dei per avere un figlio, Diogene disse: “E per essere sicuri di che specie di figlio verrà fuori, non fa-te sacrifici?”. Quando una volta gli fu chiesto di versare una quota di sottoscrizione, disse al collettore dei contributi:

‘Chiedi la quota agli altri, ma tieni le mani lontane da Ettore’. Diceva che le etere sono le regine dei re, giacché questi effettuano qualunque cosa paia ad esse. Quando gli Ateniesi votarono che Alessandro Magno era Dioniso, Diogene disse: “E me, fatemi Serapide”. A chi gli rinfacciava di entrare in luoghi sudici, soleva rispondere: “Anche il sole illumina gli escrementi e non per questo si contamina”. [VI,64] Mentre pranzava in un tempio, prese dei pani sozzi che nel frat-tempo erano stati imbanditi e li scagliò lontano, dicendo che nulla di sozzo deve fare ingresso in un tempio. A chi lo apostrofava dicendogli: “Tu nulla sai e fai il filosofo”, soleva rispondere: “Pur se io si-mulo sapienza, anche questo è fare filosofia”. A chi gli raccomandava il figlio dicendolo molto dotato e di eccellenti costumi, Diogene disse: “Ma allora che bisogno ha di me?”. Soleva dire che quanti parlano della virtù e non la praticano, non differiscono dalla cetra. Anche questa, infatti, nulla sente e di nulla si rende conto. Entrava a teatro quando gli altri ne uscivano. Richiesto del perché lo facesse, rispose: “Questo è il mestiere di tutta la mia vita”. [VI,65] Vedendo una volta un giovanotto muoversi con mo-venze femminili, gli disse: “Non ti vergogni di deliberare per te cose peggiori di quelle che ha deliberato per te la natura? La natura, infatti, ti ha fatto uomo mentre tu, invece, ti fai violenza e ti costringi ad es-sere donna”. Vedendo uno stolto che accordava un salterio, gli disse: “Non ti vergogni di applicarti ad accordare i suoni di uno strumento di legno e di non accordare l’animo tuo alla vita?”. A chi diceva: “Sono inidoneo alla vita filosofica”, rispose: “Perché dunque vivi, se non t’importa di vivere bene?”. A chi spregiava il proprio padre, soleva dire: “Non ti vergogni di spregiare colui grazie al quale tu vai così fiero di te?”. Vedendo un giovanotto di bell’aspetto che parlava in modo indecente, gli disse: “Non ti vergogni di sguainare un pugnale di piombo da un fodero d’avorio?”. [VI,66] Poiché gli veniva rinfac-ciato di bere in una bettola, disse: “Anche dal barbiere mi taglio i capelli”. Quando gli fu rinfacciato d’avere accettato una mantellina da Antipatro, disse:

‘Non sono da rigettarsi gli splendidi doni degli dei’ Ad un tale che lo aveva prima urtato malamente con una trave e poi gli aveva detto: “Sta’ attento!”, prima diede una bastonata e poi disse: “Sta’ attento!”. A chi supplicava con insistenza un’etera, disse: “O disgraziato, perché vuoi ottenere qualcosa che è meglio non ottenere?” Ad uno che si profumava i capelli, disse: “Bada che il buon odore della tua testa non procuri un cattivo odore alla tua vita”. Soleva dire che i domestici sono servi dei loro padroni, come gli insipienti sono servi delle loro smanie. [VI,67] Richiesto del perché i prigionieri di guerra fossero stati chiamati ‘appiedati’, rispose: “Perché avevano i piedi degli uomini, ma l’animo tal quale l’hai tu che mi fai ora questa domanda”. Una volta chiedeva l’elemosina di una mina ad un dissoluto, e poiché quello gli domandava perché dagli altri mendicava un

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obolo e da lui invece una mina, Diogene rispose: “Perché dagli altri ho speranza di ottenere di nuovo qualcosa, mentre se otterrò ancora qualcosa da te è posto sulle ginocchia degli dei”. Quando gli veniva rinfacciato di mendicare mentre invece Platone non mendicava, rispondeva: “Anche lui mendica, ma

‘avvicinando il capo, sì che gli altri non vengano a saperlo’. Vedendo un arciere incapace, Diogene si mise a sedere vicino al bersaglio dicendo: “<Lo faccio> per non essere colpito”. Soleva dire che dal piacere fisico gli amanti riescono a trarre sventure. [VI,68] Ri-chiesto se la morte sia un male, rispose: “E come può essere un male ciò della cui presenza non ci ac-corgiamo?”. Ad Alessandro che gli sta davanti e gli diceva: “Non hai paura di me?”, chiese: “Chi sei tu? Un bene o un male?”. Alessandro gli rispose: “Un bene”. E Diogene: “Chi, dunque, ha paura del be-ne?”. Soleva dire che l’educazione per i giovani, è temperanza; per gli anziani, consolazione, per i pove-ri, ricchezza; per i ricchi, compostezza. All’adultero Didimone che medicava l’occhio di una ragazza, disse: “Mentre curi l’occhio della ragazza, guarda bene di non rovinare la pupilla!”. A chi gli diceva che degli amici stavano tramando insidie contro di lui, rispose: “Cosa bisogna fare, se si devono trattare amici e nemici allo stesso modo?”. [VI,69] Richiesto di quale sia la cosa più bella tra gli uomini, rispose: “La libertà di parola”. Entrando in una scuola e vedendovi molte statue delle Muse ma pochi discepoli, disse: “Per gli dei, maestro, hai molti discepoli!”. Soleva fare ogni cosa sotto gli occhi di tutti, anche ciò che riguarda Demetra e Afrodite. Usava prospettare dei ragionamenti di questo genere: “Se non è fuori luogo fare colazione, non è fuori luogo farla nella piazza del mercato; ma fare colazione non è fuori luogo, dunque neppure è fuori luogo farla nella piazza del mercato”. Quando si masturbava sotto gli occhi di tutti, diceva di frequente: “Magari fosse possibile far cessare la fame semplicemente sfregando-si il ventre!”. Di lui si riferiscono anche altri aneddoti, che però sarebbe lungo elencare giacché sono molti. [VI,70] Diogene soleva dire che l’esercizio pratico della vita filosofica è di due tipi: dell’animo e del corpo. Questo esercizio pratico è quello grazie a cui le rappresentazioni che nascono nel corso di un costante allenamento ci procurano facilità e speditezza alla realizzazione delle opere della virtù. Infatti l’un tipo di esercizio, sia in relazione all’animo sia in relazione al corpo, è imperfetto senza l’altro, poi-ché vigoria dell’animo e robustezza del corpo nascono congiuntamente. Egli citava inoltre le prove del fatto che attraverso l’allenamento si perviene all’eccellenza della virtù. Nelle arti manuali come pure in altre arti, è dato infatti vedere che gli artisti si sono procacciati la loro destrezza manuale grazie ad una pratica costante; e che anche i flautisti e gli atleti eccellono entrambi grazie al loro quotidiano e costante impegno; sicché se costoro trasferissero l’esercizio anche all’animo, si affaticherebbero certo non senza giovamento e non senza risultati. [VI,71] Soleva anche dire che nella vita assolutamente nessun succes-so è ottenibile senza strenuo esercizio, e che questo è capace di vincere qualunque ostacolo. È dunque necessario che quanti scelgono le fatiche che sono in armonia con la natura, invece di quelle improfi-cue, vivano felicemente; mentre coloro che scelgono, contro natura, la dissennatezza siano infelici. Lo stesso abito acquisito di spregiare il piacere fisico è piacevolissimo; e come quanti sono abituati ad una vita piacevole si dispiacciono se vanno incontro al suo contrario, così coloro che sono esercitati al loro contrario spregiano con gran piacere proprio i piaceri fisici. Di questo genere erano i discorsi che faceva e che dimostrava mettendoli in pratica: contraffacendo effettivamente la moneta, non concedendo alla legalità l’autorità che invece concedeva alla natura, e affermando di condurre la stessa sorta di vita che era stata di Eracle, il quale nulla anteponeva alla libertà. [VI,72] Egli diceva che tutto è dei sapienti e prospettava i ragionamenti che abbiamo più sopra citato. Tutto è degli dei; gli dei sono amici dei sa-pienti; ma i beni degli amici sono comuni, dunque tutto è dei sapienti. Circa la legge e l’impossibilità di un governo della città senza di essa, Diogene affermava che non c’è alcun pro della convenzione urbana in assenza di una città e che la città è una convenzione urbana. Ma in assenza di una città non c’è alcun pro della legge; dunque la legge è una convenzione urbana. Si prendeva gioco della nobiltà di stirpe, del-la fama e di tutte quante le cose di questo genere, affermando che si trattava di ornamenti esteriori del vizio, e che l’unica retta costituzione è quella che regge il cosmo. Soleva anche dire che le donne devo-no essere comuni, poiché non legittimava alcuna forma di matrimonio ma la convivenza consensuale di uomo e donna; e perciò diceva che pure i figli devono essere comuni. [VI,73] Non riteneva fuori luogo portar via qualcosa da un tempio o gustare le carni di un qualunque animale; e neppure riteneva sacrile-

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go cibarsi di carne umana, com’era manifesto dai costumi di popoli stranieri, poiché diceva che per la retta ragione tutto è contenuto in tutto e pervade tutto. Infatti della carne è contenuta nel pane, del pa-ne è contenuto nella verdura, e anche i restanti corpi sono contenuti in tutti gli altri poiché vi penetrano attraverso degli invisibili pori e qui le loro particelle si vaporizzano. Ciò egli lo rende manifesto nel ‘Tie-ste’, se le tragedie sono davvero sue e non di Filisco di Egina, che era un suo conoscente, o di Pasifonte di Licia, composte dopo la sua morte come afferma Favorino nella sua ‘Storia varia’. Delle musica, della geometria, dell’astrologia e di argomenti simili diceva di non interessarsi, perché improficui e non ne-cessari. [VI,74] Fu dunque estremamente sagace e pronto nel rispondere alle domande che gli venivano poste, come è manifesto dagli esempi che abbiamo riferito. Sopportò la sua vendita come schiavo con straordinaria nobiltà d’animo. Infatti, mentre navigava verso Egina fu catturato dai pirati comandati da Scirpalo, condotto a Creta e qui posto in vendita. Quando l’araldo gli domandò cosa sapesse fare, ri-spose: “Comandare uomini”. Fu allora che indicando un certo uomo di Corinto che portava un abito fregiato di porpora, il già citato Xeniade, disse: “Vendimi a costui, perché quest’uomo ha bisogno di un padrone”. Xeniade lo comprò, e condottolo a Corinto lo istituì tutore dei suo figli e gli mise in mano l’amministrazione di tutta la casa. Diogene, a sua volta, dispose di essa ad ogni riguardo in modo tale che Xeniade andava in giro dicendo: “Un buon demone è entrato in casa mia!”. [VI,75] Nell’opera inti-tolata ‘Pedagogico’, Cleomene riferisce che i suoi conoscenti volevano pagare il riscatto, ma che Dioge-ne li chiamò sempliciotti: giacché i leoni non sono schiavi di chi li nutre, bensì è chi li nutre ad essere schiavo dei leoni. Infatti l’aver paura è da schiavi, e sono gli uomini ad avere paura delle belve. La capa-cità di persuasione di un simile uomo era straordinaria, tanto che facilmente portava dalla sua parte qua-lunque persona su qualunque argomento. Si racconta che un certo Onesicrito di Egina, il quale aveva due figli, ne mandò uno, di nome Androstene, ad Atene. Questo, ascoltati i discorsi di Diogene, tosto decise di fermarsi in città. Allora il padre inviò il figlio più anziano, il già citato Filisco, alla ricerca del primo; ma in modo simile anche Filisco fu trattenuto in città. [VI,76] Per terzo giunse ad Atene Onesi-crito in persona, e nondimeno anch’egli rimase con i figli e con loro intraprese la vita filosofica. Tale era il fascino magico congiunto ai discorsi di Diogene. Furono suoi uditori anche Focione, soprannominato il Probo, Stilpone di Megara e molti altri uomini politici. Si dice che avesse circa novant’anni quando morì. Della sua morte si riferiscono diverse versioni. Secondo alcuni, dopo avere mangiato un polpo crudo Diogene fu preso dal colera e così morì. Secondo altri, egli morì per aver trattenuto il respiro. Tra i sostenitori di questa versione vi è Cercida di Megalopoli (o di Creta), il quale in versi coliambici dice così:

‘Non è più, chi era innanzi cittadino di Sinope, celebre per il bastone che portava, per il doppio mantello e il vivere all’aria aperta.

[VI,77] S’imbarcò premendo il labbro contro i denti e mordendo il respiro. Era Diogene, un vero figlio di Zeus, un cane celeste.

Altri affermano che mentre stava dividendo un polpo tra vari cani fu morso da uno di essi al tendine del piede, e così perse la vita. Però i suoi conoscenti, secondo quanto afferma Antistene nelle sue ‘Suc-cessioni dei filosofi’, congetturarono che egli fosse morto per avere trattenuto il respiro. Capitò infatti che egli si stesse trattenendo nel Craneo, la palestra nei sobborghi di Corinto. Come d’abitudine erano venuti a trovarlo i suoi conoscenti, i quali lo rinvennero tutto avvolto e nascosto nel mantello ed imma-ginarono che stesse dormendo. Ma poiché Diogene era un tipo né dormiglione né sonnolento, dispie-gata la mantellina lo rinvennero senza respiro, e concepirono che egli avesse fatto ciò volendo di pro-posito uscir di vita. [VI,78] A questo punto, come si racconta, nacque tra i suoi conoscenti una lite furi-bonda su chi dovesse seppellirlo, e si venne persino alle mani. Quando giunsero i padri ed altri perso-naggi eminenti, fu da questi stabilito che Diogene fosse sepolto presso la porta della città che conduce verso l’Istmo. Sulla sua tomba eressero una colonna, in cima alla quale posero un cane scolpito in mar-mo di Paro. Successivamente anche i concittadini l’onorarono con immagini in bronzo sulle quali scris-sero così:

‘Anche il bronzo invecchia col tempo, ma la tua gloria,

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o Diogene, non la demolirà l’eternità. Perché tu solo insegnasti ai mortali la lezione di un’esistenza bastante a se stessa

e mostrasti il percorso della più semplice vita’. [VI,79] Ci sono anche dei nostri versi in metro proceleusmatico:

‘Orsù Diogene, dì quale destino ti colse e ti portò nell’Ade. Mi ci portò il dente rabbioso di un cane’.

Taluni però affermano che morendo egli diede istruzione di gettarlo via insepolto, così che qualunque belva potesse averne per sé una parte, oppure di spingere il suo cadavere giù in un fosso e di ammon-ticchiarvi sopra un po’ di polvere. Altri invece di buttarlo nell’Ilisso, così da poter diventare di qualche utilità ai suoi fratelli. Demetrio, nei suoi ‘Omonimi’ afferma che Diogene morì a Corinto lo stesso gior-no in cui Alessandro Magno morì a Babilonia. Era vecchio al tempo della CXIII Olimpiade. [VI,80] Di lui si riportano i seguenti libri. Dialoghi: ‘Cefalione’, ‘Ictias’, ‘Cornacchia’, ‘Pordalo’, ‘Il popolo di Ate-ne’, ‘La repubblica’, ‘Arte etica’, ‘Sulla ricchezza’, ‘Erotico’, ‘Teodoro’, ‘Ipsias’, ‘Aristarco’, ‘Sulla morte’, ‘Lettere’. Sette tragedie: ‘Elena’, ‘Tieste’, ‘Eracle’, ‘Achille’, ‘Medea’, ‘Crisippo’, ‘Edipo’. Sosicrate nel primo libro delle ‘Successioni’, e Satiro nel quarto libro delle ‘Vite’ affermano che nessuna di tali opere è di Diogene. Satiro afferma anche che le tragedie sono di Filisco di Egina, un conoscente di Diogene. Sozione nel settimo libro afferma che soltanto queste sono opere di Diogene: ‘Sulla virtù’, ‘Sul bene’, ‘Erotico’, ‘il Poveraccio’, ‘Tolmeo’, ‘Pordalo’, ‘Casandro’, ‘Cefalione’, ‘Filisco’, ‘Aristarco’, ‘Sisifo’, ‘Ga-nimede’, ‘Detti sentenziosi’, ‘Lettere’. [VI,81] Ci sono stati cinque Diogene. Il primo, di Apollonia, filo-sofo della natura. Questo è l’inizio del suo trattato: “Quando si comincia un qualunque ragionamento, a me sembra indispensabile fornirsi di un principio incontrovertibile”. Il secondo, di Sicione, il quale scrisse una ‘Storia del Peloponneso’. Terzo è il nostro, di Sinope. Quarto col nome Diogene fu lo Stoi-co, originario di Seleucia ma chiamato ‘di Babilonia’ per vicinato. Il quinto, di Tarso, il quale ha scritto su questioni, che egli tenta di risolvere, concernenti la poesia. A sua volta Atenodoro, nell’ottavo libro delle sue ‘Passeggiate’ afferma che il nostro Diogene aveva sempre la pelle splendente perché usava un-gersela.

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MONIMO (IV secolo a. C.) [VI,82] Monimo di Siracusa fu discepolo di Diogene ed era, secondo quanto afferma Sosicrate, al servi-zio di un banchiere di Corinto. Xeniade, il compratore di Diogene, faceva frequenti visite a questo ban-chiere e nel corso di esse si dilungava a narrare la virtù di quell’uomo nei fatti e nelle parole. Finì così per istillare in Monimo una passione amorosa per Diogene. Nel giro di poco tempo, Monimo simulò di essere impazzito e si mise a buttar per aria le monete di piccolo taglio e tutto il denaro che si trovava sul banco, sicché il suo padrone lo mise alla porta. In questo modo Monimo entrò direttamente nella cer-chia di Diogene. Sovente seguiva dappresso anche il cinico Cratete e soleva intrattenersi con persone simili; sicché il suo padrone, vedendolo comportarsi così, tanto più si convinse che era impazzito. [VI,83] Divenne una personalità di grande spicco, tanto che lo ricorda anche il comico Menandro, il quale in una delle sue commedie ‘Il palafreniere’ dice così:

‘-O Filone, Monimo era un uomo sapiente ma un po’ meno famoso. -Monimo chi? Quello che portava la bisaccia?

-Tre bisacce portava! Quell’uomo nulla tuttavia pronunciò di affine, per Zeus, al ‘Riconosci te stesso’ né a queste altisonanti massime;

ma qualcosa ben al di sopra di esse, proprio lui che era un sudicio mendicante, giacché affermava che ogni umana concezione è vana’.

Monimo fu un pensatore di profonda gravità, e tale da tenere in spregio le semplici opinioni ed incitare unicamente alla verità. Scrisse degli scherzi poetici nei quali è mescolata una nascosta serietà, due libri ‘Sugli impulsi’ e un ‘Protrettico’. ONESICRITO (floruit 330 a. C.)

[VI,84] Secondo alcuni Onesicrito era nato ad Egina, ma Demetrio di Magnesia afferma che fosse nati-vo di Astipalea. Fu uno degli allievi di maggior spicco di Diogene. Sembra avere avuto una carriera assai simile a quella di Senofonte. Come infatti Senofonte partecipò alla campagna militare di Ciro, così One-sicrito partecipò a quella di Alessandro Magno. Come quello scrisse la ‘Ciropedia’, così il nostro scrisse come fu allevato Alessandro. Quello fece un encomio di Ciro, e il nostro di Alessandro. Anche quanto allo stile di scrittura essi sono simili; salvo che, in quanto imitatore, Onesicrito è inferiore al modello. Allievi di Diogene furono anche Menandro, soprannominato ‘Querceto’ e ammiratore di Omero; Ege-sia di Sinope, di soprannome ‘Collare’; e Filisco di Egina, come abbiamo già detto in precedenza.

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CRATETE (floruit 326 a. C.) [VI,85] Cratete, figlio di Asconda, era nativo di Tebe. Fu anch’egli uno dei discepoli di grande spicco del Cane. Ippoboto afferma però che egli non fu discepolo di Diogene, bensì di Brisone l’Acheo. A Cratete si attribuiscono degli ‘Scherzi poetici’ come i seguenti:

‘In mezzo alla livida, fosca vanità, c’è una città, Bisaccia, bella e pingue, sudicia certo, con niente dentro: verso di essa non naviga uno stupido parassita,

non naviga un ghiottone, né uno che gode delle chiappe di una puttana. Quando però porta in sé timo, e aglio e fichi e pani, questi non si fanno la guerra gli uni contro gli altri,

e per i quattrini o per la gloria non imbracciano le armi’. [VI,86] A lui è attribuito anche un libro dei conti giornalieri, molto divulgato e nel quale si legge:

‘Metti da parte per un cuoco, dieci mine; per un medico, una dracma; per un adulatore, cinque talenti; per un consigliere, del fumo;

per una puttana, un talento; per un filosofo, tre oboli’. Cratete era anche chiamato ‘Apriporte’ perché entrava in qualunque casa e vi portava del senno. È suo anche questo componimento:

‘Ho quel che imparai e pensai e quel che di solenne appresi dalle Muse;

tante esultanze furono invece frutto di vanità’. Egli dice anche che dalla filosofia questo gli venne:

‘Un chenice di lupini e l’immischiarmi di nulla’. Come suoi si citano pure questi versi:

‘La passione amorosa la fa cessare la fame, se no la fa cessare il tempo; se poi non potrai essere servito dall’una o dall’altro, usa una corda!’

[VI,87] Cratete era nel fior degli anni al tempo della CXIII Olimpiade. Nelle sue ‘Successioni dei filoso-fi’ Antistene afferma che Cratete si aprì alla filosofia cinica vedendo Telefo, in una tragedia, passarsela ben miseramente con un cestino in mano. Monetizzò allora il suo patrimonio - apparteneva infatti ad una delle famiglie più in vista - e mise così insieme circa duecento talenti, che ripartì poi tra i cittadini. Dice pure che egli abbracciò la vita cinica così decisamente che anche il comico Filemone lo ricorda quando fa dire ad un personaggio:

‘D’estate portava un mantello felpato, per essere come Cratete, e d’inverno un cencio’.

Diocle afferma che Diogene lo persuase ad abbandonare i suoi campi al pascolo delle pecore ed a but-tare in mare il denaro che avesse. [VI,88] Dice anche che Alessandro Magno dimorò in casa di Cratete, come Filippo dimorò in quella di Ipparchia. Spesso gli capitò gli inseguire col bastone dei parenti che venivano a trovarlo per trattenerlo dai suoi propositi, nel mantenere i quali egli fu eroico. Demetrio di Magnesia racconta invece che egli diede il denaro in deposito ad un certo banchiere, con l’intesa di con-segnarlo ai suoi figli se essi fossero diventati persone ordinarie, e di ripartirlo invece tra il popolo se essi

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fossero diventati filosofi, giacché facendo vita filosofica non ne avrebbero avuto bisogno. Eratostene afferma che da Ipparchia - della quale parleremo - Cratete ebbe un figlio, cui fu dato il nome di Pasicle. Quando Pasicle uscì dallo stato di efebo, Cratete lo condusse nella stanza di una giovane servetta di-cendogli che questo era l’opportuno rapporto sessuale secondo il patrio costume; [VI,89] e spiegandogli che i rapporti sessuali tra adulteri sono relazioni tragiche, poiché hanno come ricompensa esili ed omi-cidi; mentre quelli di coloro che vanno con le etere sono relazioni comiche, poiché dissolutezza e ubria-chezza rendono pazzi. Cratete ebbe anche un fratello di nome Pasicle, che fu discepolo di Euclide. Nel secondo libro dei suoi ‘Memorabili’ Favorino riferisce su Cratete una storiella carina. Racconta infatti che mentre rivolgeva un certo invito al ginnasiarca gli toccò le anche. E poiché quello si adirò assai, Cratete gli disse: ‘E perché? Le anche non sono forse tue, come le ginocchia?’. Soleva dire che è impos-sibile trovare un uomo assolutamente privo di difetti giacché, come nella melagrana, c’è sempre un chicco marcio. Una volta, poiché aveva fatto irritare il citaredo Nicodromo, questi lo percosse in viso. Cratete allora s’applicò in fronte un cartellino con sopra scritto: ‘Opera di Nicodromo’. [VI,90] Soleva ingiuriare le puttane a bella posta, per allenarsi così ad essere coperto di parole blasfeme. Rimbrottò Demetrio Falereo che gli aveva mandato dei pani e del vino, dicendo: “Magari le sorgenti ci dessero an-che dei pani!”. È perciò manifesto che egli beveva soltanto acqua. Quando, ad Atene, fu rimproverato dagli ispettori di polizia perché portava addosso una veste trasparente di mussolina, disse loro: “Vi mo-strerò anche Teofrasto cinto con una veste trasparente di mussolina”. E poiché quelli non gli credeva-no, li condusse in una bottega di barbiere e mostrò loro Teofrasto che s’era fatto radere barba e capelli. A Tebe, quando fu frustato dal ginnasiarca - secondo altri però questo avvenne a Corinto e ad opera di Euticrate - e trascinato per un piede, come se non si desse alcun pensiero di ciò, recitò il verso:

‘Afferratolo per un piede lo trascinò attraverso la soglia sacra’. [VI,91] Diocle riferisce invece che a trascinarlo per il piede fu Menedemo di Eretria. Poiché infatti co-stui era di bell’aspetto e si diceva che avesse rapporti intimi con Asclepiade di Fliunte, una volta Cratete gli si attaccò alle cosce e disse: “Dentro, Asclepiade”. Menedemo allora s’infuriò e mentre lo trascinava per il piede Cratete recitò il verso riferito. Nei suoi ‘Detti sentenziosi’, Zenone di Cizio afferma che una volta Cratete, con tutta noncuranza, appiccò un vello di pecora alla mantellina. Era brutto d’aspetto, e quando faceva gli esercizi ginnici veniva deriso. Allora egli levava in alto le braccia e soleva dire: “Co-raggio, Cratete, lo fai a beneficio dei tuoi occhi e del resto del tuo corpo. [VI,92] Costoro che ti derido-no, li vedrai ormai rattrappiti da qualche malattia; e li sentirai chiamare te beato, mentre biasimeranno se stessi per la loro inerzia”. Affermava poi che bisogna filosofare fino ad arrivare al punto in cui i ge-nerali ci sembreranno dei semplici asinai. Diceva anche che quanti sono circondati da adulatori sono isolati come i vitelli in mezzo ai lupi, giacché né quelli né questi hanno intorno chi può soccorrerli ma soltanto chi li insidia. Quando si rese conto che stava per morire, cantò a se stesso questo ritornello:

‘Stai proprio avanzando, gobbo mio caro, te ne vai verso le dimore dell’Ade curvo per la vecchiaia’,

gli anni l’avevano infatti reso curvo. [VI,93] Ad Alessandro Magno che gli chiedeva se volesse che la sua città fosse ricostruita, rispose: “Perché farlo? Tanto, un altro Alessandro la ridurrà di nuovo in mace-rie”. Diceva di avere come patria il discredito e la povertà, inespugnabili dalla fortuna; e come concitta-dino Diogene, immune alle trame dell’indivia. Anche Menandro si ricorda di lui e nei ‘Gemelli’ dice co-sì:

‘Camminerai insieme a me indossando una mantellina, come faceva un tempo la moglie del cinico Cratete’.

Come Cratete stesso afferma, egli diede una figlia in matrimonio di prova per trenta giorni. E veniamo ora ai suoi discepoli.

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METROCLE (c. 300 a. C.) [VI,94] Metrocle era nativo di Maronea, ed era fratello di Ipparchia. Fu dapprima uditore del peripateti-co Teofrasto. Era così malandato in salute che una volta, nel corso di un esercizio scolastico di decla-mazione, scoreggiò. Si scoraggiò allora a tal punto da chiudersi in casa e da decidere di lasciarsi morire d’inedia. Quando Cratete apprese il fatto, in seguito ad un invito andò da lui dopo avere mangiato a bel-la posta dei lupini. Cercò quindi di persuaderlo con il ragionamento che non aveva commesso nulla di vizioso, giacché sarebbe stato invece mostruoso che egli non avesse dato il suo naturale sfogo all’aria del ventre. Alla fine del discorso anche Cratete scoreggiò, e così riuscì a risollevarlo, consolandolo con la perfetta somiglianza delle due opere. Da quel momento Metrocle fu uditore di Cratete e diventò un filosofo di rilievo. [VI,95] Come afferma Ecatone nel primo libro dei suoi ‘Detti sentenziosi’, Metrocle dette alle fiamme i propri scritti commentando:

‘Queste sono fantasticherie di sogni di morti’. Altri dicono che egli bruciò gli appunti presi alle lezioni di Teofrasto, commentando:

‘Efesto, vieni qua; Teti ora ha bisogno di te’. Metrocle soleva dire che delle cose, alcune si possono comprare col denaro: per esempio, una casa. Al-tre, come l’educazione, per essere acquisite hanno bisogno di tempo e di impegno solerte. La ricchezza di denaro è dannosa, se non la si sa utilizzare in modo degno. Morì vecchio, annegandosi. Suoi discepo-li furono Teombroto e Cleomene. Di Teombroto fu discepolo Demetrio di Alessandria. Di Cleomene furono discepoli Timarco di Alessandria ed Echecle di Efeso. Nondimeno Echecle fu uditore anche di Teombroto, del quale fu allievo Menedemo, di cui parleremo. Anche Menippo di Sinope acquistò noto-rietà tra i suoi discepoli.

IPPARCHIA (c. 300 a. C.) [VI,96] Fu catturata dalle dottrine dei Cinici anche la sorella di Metrocle, Ipparchia. Entrambi erano na-tivi di Maronea. Ipparchia era perdutamente innamorata di Cratete, del suo modo di ragionare e di vive-re; per cui non si dava alcun pensiero di coloro che chiedevano la sua mano e non badava né alle loro ricchezze, né alla nobiltà dei natali o alla loro bellezza: per lei Cratete era tutto. E invero minacciò i suoi genitori di suicidarsi qualora non fosse data in sposa a lui. Quindi Cratete, invitato dai genitori di lei a dissuadere la ragazza, fece di tutto a questo fine; ma non riuscendo a persuaderla di cambiare avviso, levatosi finalmente in piedi e toltosi senz’altro il vestito davanti ai suoi occhi, le disse: “Questo è lo spo-so e questo è il suo patrimonio: davanti a questa evidenza prendi una decisione, giacché non potrà fare meco vita comune se non chi avesse le mie stesse occupazioni”. [VI,97] La ragazza fece la sua scelta e adottò il medesimo abito di vita, per cui andava in giro col marito, aveva con lui rapporti sessuali in pubblico e con lui partecipava ai pranzi. Quando una volta partecipò ad un convito offerto da Lisima-co, confutò Teodoro, soprannominato l’Ateo, formulando un sofisma di questo genere. ‘Ciò che non si direbbe ingiusto quando fosse fatto da Teodoro, non si direbbe ingiusto anche quando fosse fatto da Ipparchia. Ora, se quando Teodoro percuote se stesso non commette ingiustizia, neppure Ipparchia commette ingiustizia quando percuote Teodoro’. Alle parole di Ipparchia Teodoro non rispose, e però la denudò tirandole via il mantello. Ipparchia non ne rimase sbalordita né sconvolta, come avrebbe in-vece fatto una qualunque donna. [VI,98] E poiché Teodoro le recitava il verso:

‘È questa colei che lasciò le spole presso i telai?’,

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Ipparchia gli rispose: “Sì, Teodoro, questa sono io. Ti pare forse che io abbia deciso male su di me, quando il tempo che stavo per consumare sui telai l’ho invece utilizzato per la mia educazione?”. Di questa donna filosofo si riferiscono questo e innumerevoli altri aneddoti. Si cita come opera di Cratete un suo libro di ‘Lettere’, nel quale ella si mostra eccellente filosofo e il cui stile è simile a quello di Platone. Scrisse anche tragedie di elevata impronta filosofica come, per esem-pio, in questo passaggio:

‘Patria non m’è una torre, non m’è un tetto, ma d’ogni continente una città, una dimora, preparata ad accoglierci e lasciarci vivere’.

Ipparchia morì in tarda età e fu sepolta in Beozia.

MENIPPO [VI,99] Era un Cinico anche Menippo: Fenicio d’origine, schiavo; come afferma Acaico nella sua ‘Eti-ca’. Diocle riferisce che il suo padrone era un cittadino del Ponto e che si chiamava Batone. Menippo chiedeva l’elemosina perché era più d’ogni altra cosa accecato dall’avidità di denaro, e riuscì pure a di-ventare cittadino Tebano. Egli non ci offre comunque nulla di serio. I suoi libri traboccano di molte ri-dicolaggini, pari a quelle di quel Meleagro che nacque dopo di lui. Ermippo riferisce che Menippo era diventato, ed era chiamato, ‘usuraio a giornata’, giacché prestava denaro a interesse contro garanzia del-la nave e contro ipoteca, tanto che ammassò un’enorme quantità di denaro. [VI,100] Alla fine fu però vittima di un complotto e fu defraudato di tutto. Per lo scoramento mise allora fine alla sua vita impic-candosi. Anche noi abbiamo composto su di lui dei versi scherzosi:

‘Fenicio di nascita, ma Cane di Creta, usuraio a giornata - così era soprannominato -

forse tu conosci Menippo. A Tebe costui, siccome una volta fu derubato

e perse tutto e non capiva la natura di un Cane, s’impiccò’.

Taluni affermano che i suoi libri in verità non sono suoi, ma di Dionisio e di Zopiro, entrambi di Colo-fone, i quali li scrissero tanto per scherzare e poi li diedero a Menippo in quanto capace di meglio di-sporne la diffusione. [VI,101] Sono stati in sei a chiamarsi Menippo. Il primo è colui che scrisse un’opera ‘Sui Lidi’ e compose un’epitome dell’opera di Xanto. Il secondo è questo nostro. Il terzo è un sofista di Stratonicea, originario della Caria. Il quarto è uno scultore di statue. Il quinto e il sesto sono due pittori, entrambi ricordati da Apollodoro. I libri del Cinico Menippo sono tredici: ‘L’evocazione dei morti’, ‘Testamenti’, ‘Lettere fittizie a firma degli dei’, ‘Contro i fisici, i matematici e i grammatici’, ‘Na-scita di Epicuro’, ‘Le onoranze che quelli della sua scuola rendevano ad Epicuro il venti di ogni mese’, e altri.

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MENEDEMO

[VI,102] Menedemo fu discepolo di Colote di Lampsaco. Secondo quanto afferma Ippoboto, Menede-mo si spinse a tal punto di ciarlataneria da andarsene in giro travestito da Erinni, affermando di essere venuto dall’Ade per prendere nota delle azioni colpevoli che venivano commesse, al fine di riferirle ai demoni di laggiù una volta che fosse colà ridisceso. Il suo abbigliamento era questo: una tunica di colo-re grigio scuro lunga fino ai piedi, stretta da una cintura color rosso porpora. In testa il cappello tipico dell’Arcadia, sul quale erano ricamati i dodici segni zodiacali; ai piedi i coturni che usano gli attori tragi-ci; un gran barbone e in mano una verga di frassino. [VI,103] Queste sono le vite di ciascuno dei Cinici. Ora abbozzeremo altresì le tesi che hanno il comu-ne beneplacito di tutti loro, giacché secondo noi anche il Cinismo è una scuola filosofica e non soltan-to, come affermano alcuni, un istituto di vita. Ha il loro beneplacito, come anche quello di Aristone di Chio, la rimozione dall’ambito filosofico della Logica e della Fisica, e l’attenzione alla sola Etica. E l’affermazione che alcuni ascrivono a Socrate, Diocle la ascrive invece a Diogene, poiché è dell’avviso che fosse quest’ultimo a dire che bisogna ricercare:

‘quel che di cattivo e di buono c’è nella magione’. I Cinici, poi, ricusano di dare importanza alle nozioni enciclopediche. Antistene era dell’avviso che co-loro i quali sono diventati virtuosi non hanno alcun bisogno di apprendere la letteratura, per non essere eventualmente distratti da attrattive estranee alla filosofia. [VI,104] Essi tolgono di mezzo anche la geometria, la musica e tutte le nozioni di questo genere. A chi gli mostrava una meridiana, Diogene di-ceva: “Questo aggeggio è utile per non arrivare in ritardo a pranzo”. E ad uno che sfoggiava le proprie doti musicali, disse:

‘Le città sono ben governate dall’intelligenza degli uomini, e anche le case lo sono; non dai suoni vibrati né dai trilli’.

Ha il loro beneplacito la dottrina, come afferma Antistene nel suo ‘Eracle’, secondo la quale il sommo bene è la vita in armonia con la virtù. Questa dottrina è esattamente simile a quella degli Stoici, poiché vi è una certa comunanza tra queste due scuole filosofiche. Questa è anche la ragione per cui è stato detto che il Cinismo è una ‘scorciatoia’ per la virtù. Del resto, proprio in questo modo condusse la sua vita Zenone di Cizio. Ha il loro beneplacito anche la dottrina secondo la quale si deve vivere frugalmen-te, utilizzando cibi non cotti e già naturalmente pronti per il consumo; vestirsi unicamente con delle mantelline; spregiare la ricchezza, la gloria mondana e la nobiltà di natali. Taluni Cinici sono pertanto integralmente vegetariani, bevono soltanto acqua fresca e utilizzano come dimora i ripari che capitano ed anche le botti: come faceva Diogene, il quale era dell’avviso che l’aver bisogno di nulla è proprio de-gli dei e che proprio degli uomini simili a dei è l’avere bisogno di poco. [VI,105] Ha anche il loro bene-placito la dottrina per cui, secondo quanto afferma Antistene nel suo ‘Eracle’, la virtù può essere inse-gnata e che la virtù, una volta acquisita, non può essere persa; che il sapiente è degno d’amore, è al ripa-ro dalle aberrazioni, è amico del suo simile e che egli nulla delega alla fortuna. I Cinici, similmente ad Aristone di Chio, chiamano ‘indifferente’ tutto ciò che sta frammezzo alla virtù e al vizio. Questi sono i Cinici. Bisogna ora passare agli Stoici, primo dei quali fu Zenone di Cizio, che era stato discepolo di Cratete.