Diletta Varlese - Q'eros AL7 - WordPress.com · 2011. 9. 8. · tutto fa parte del Kausay Puriy...

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  • © 2009 Diletta Varlese per i testi e Fabio Cuttica per le foto

    A cura diCircolo culturale Menocchio33086 Montereale Valcellina (Pn) - via Ciotti, 1tel. e fax 0427 799204 - e-mail: [email protected]

    Sostegno:Regione Autonoma Friuli Venezia GiuliaDirezione centrale istruzione, formazione e culturaL.R. 30.12.2008 n. 17Organismi culturali di interesse regionale 2009

    Grafica, fotocomposizione e impiantiInterattiva - Spilimbergo (Pn)

    StampaAreagrafica s.r.l. - Meduno (Pn)

    Per le copie in libreria:Olmis, via Andervolti, 23 - 33010 Osoppo (Ud)tel. 0432 974095 - fax 0432 891647e-mail: [email protected]

    ISBN 978-88-7562-081-3

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  • q erosviaggio dai sacerdoti delle ande

    reportage scritto da Diletta Varlese, foto di Fabio Cuttica

  • Secondo la tradizione andina quando Wiraqocha, il dio metafisi-co, si manifesta agli esseri umani dice loro: «Ayninakuichis» che significa «Praticate l’ayni, praticate la sacra reciprocità».Può essere considerato il comandamento andino, il modo in cui sulle Ande si può ottenere una vita abbondante. Quando Diletta mi ha chiesto di scrivere una prefazione alla sua opera mi sono sentito onorato e le debbo il mio grazie, mi sta dando un’oppor-tunità per restituire (in piccola parte a dire il vero) l’ayni ad una tradizione, ad una cultura, ad un a terra che tanto mi ha dato nell’ultimo decennio. Ho letto con attenzione il suo scritto e mi pare un resoconto di viaggio toccante, vero, pieno di sentimento ma anche di intenzione, munay lo chiamo sulle Ande, l’amore unito alla volontà. È un racconto vivo, emozionante, coinvol-gente ed allo stesso tempo descrittivo di una realtà che sembra quasi persa nei tempi ma che è invece assolutamente attuale. A proposito di ayni il viaggio a Q’eros di Diletta ha rappresentato anche per il sottoscritto una tappa importante. Ho avuto l’onore di conoscere don Mariano Apaza, che giustamente Diletta de-scrive nel suo scritto come uno degli ultimi grandi maestri della tradizione; quando terminai di scrivere “Il seme dell’Inca” misi la foto di don Mariano nel libro con l’intenzione di rendergli omag-gio. Mai avrei pensato che i figli di don Mariano, don Juan e don Francisco, un giorno si sarebbero commossi nel vedere la foto

    del loro amato padre in un libro pubblicato in Italia.E questo grazie a Diletta che lo ha portato fin lassù. È un picco-lo, piccolissimo ayni che credo di aver avuto la fortuna di poter restituire per il grande lavoro svolto da loro e da don Mariano. Con il suo viaggio Diletta è stata per me tramite di una gioia immensa e non posso che esprimerle, anche per questo, un sincero, profondo e riconoscente grazie.

    prefazione di Roberto Sarti

  • La comunità di Q’ero riveste ad oggi un’importanza fondamenta-le per la comprensione delle caratteristiche di continuità storico-culturale che evidenzia come la civiltà incaica sia sopravvissuta fino ai giorni nostri. Per comprendere questa continuità culturale dobbiamo soffermarci su una serie di fatti accaduti nel 1955. In quell’anno due antropologi, Oscar Nuñez del Prado e Efraìn Morote, organizzarono una spedizione in una zona relativamente isolata del paese, la nazione Q’ero. Qualche settimana più tardi i componenti della spedizione tornarono letteralmente euforici. Avevano scoperto l’esistenza di un gruppo di indigeni andini che continuava a mantenere vive molte delle tradizioni degli Inca.Indossavano abiti come quelli degli Inca, intessevano tessuti simili a quelli lavorati dagli Inca nel XVI secolo, facevano ancora uso dei quipus, registri nei quali gli Inca annotavano i dati rela-tivi all’impero durante il XVI secolo. Una delle cose più evidenti ed assolutamente nuova per l’epoca è che questo gruppo di in-digeni aveva dei miti. Avevano conservato la prima versione del mito di Incari, che ora è meglio nota come “Il ritorno dell’Inca”. Il mito di Incari e Qollari è un mito che si riferisce alla fondazio-ne della civiltà inca; sostanzialmente risulta essere equivalente a quanto riportato dai cronisti del XVI secolo e daterebbe la fondazione di questa civiltà agli inizi del XI secolo. Il fatto che un gruppo di indigeni illetterati di una zona assolutamente isolata

    del Perù avesse tramandato oralmente questo mito, dimostrava che la memoria collettiva andina risalirebbe a 900 anni prima, cioè al 1050 circa. Gli stessi Q’ero si considerano non solo Inca ma soprattutto discendenti diretti della coppia fondatrice dell’im-pero. Questo significa che la coscienza dell’appartenenza alla cultura inca non solo era sopravvissuta fino al XVIII secolo, ma era arrivata fino ai giorni nostri, grazie ad un insieme di otto co-munità, circa 6.000 persone, che attualmente costituiscono “La nazione Q’ero”. La spedizione guidata da Oscar Nuñez del Pra-do e Efraìn Morote scoprì l’esistenza di questi miti, suscitando l’interesse anche di altri antropologi che riscontrarono la presen-za di miti simili in diverse altre zone del Perù, in Bolivia, in Ecua-dor. Tutti questi miti avevano una caratteristica molto importante in comune: il tema del ritorno dell’Inca. Partendo da qui, gli stu-diosi ordinarono quel materiale e giunsero alla conclusione che nel mondo andino esistesse un’ideologia messianica. Ciò vuol dire che gli uomini appartenenti al mondo andino, aspettavano il ritorno dell’Inca e, con il suo ritorno, il passaggio definitivo da una situazione disastrosa, che aveva caratterizzato gli ultimi 500 anni, ad una condizione di splendore. Risulta pertanto evidente come i Q’ero possano essere considerati i custodi di un patri-monio culturale ingente ed il punto di contatto tra l’antica civiltà incaica e la cosiddetta tradizione andina contemporanea.

    introduzione di Roberto Sarti

  • il cammino

    Una fievole alba si alza sulla città del Cusco. Nella stagione delle piogge, greggi di nuvole solcano il cielo pulito dei suoi 3.000 metri di altitudine, e gli obliqui raggi del sole tingono contorni dell’antico centro di un arancio tenue. Si parte presto per rag-giungere la terra dei Q’ero. Dalla città sono quattro ore di strada asfaltata, fino all’incrocio da cui si imbocca il percorso, e poi otto ore a piedi, dentro le montagne, se il buon tempo assiste. Don Juan Apaza, guida Q’ero, si presenta con il suo inconfondibile sorriso esteso, e il suo akulliku, il bolo di foglie di coca tenute ben salde tra la gengiva e la guancia. Il pick up strapieno di ogni vettovaglia. «C’è da portarsi di tutto» dice Fredy, la guida quech-wa «non avremo nessun supporto civilizzato». Don Juan è equi-paggiato solo del suo sacchetto con le foglie di coca, le sojota, i sandali di gomma di copertone, e il suo fagotto legato sul petto, che contiene uno zainetto minimo. Sulla testa avara di capelli sta ben calato il chullo (tipico berretto con le orecchie lunghe), ricamato di perline bianche, ornamento che contraddistingue questa popolazione dalle altre quechwa dell’area del Cusco. I Q’eros in città sono avvolti da un alone magico. Chiama sempre all’occhio vedere un chullo siffatto, si sa che questa gente viene da lontano, e viene a piedi, che hanno gambe forti e polmoni

    ampi, che coprono distanze inimmaginabili in tempi da record. Ed è risaputo che custodiscono un dialogo preferenziale con la pachamama, un linguaggio antico per parlare con la loro Terra Madre. Da anni il “turismo spirituale” li ha fatti conoscere al mondo occidentale, a discapito di una certa commercializzazio-ne, che ha però dato a molti lavoro e sostegno. Quel lavoro che, in un mercato globalizzato, il solo commercio dei preziosi filati e dei prodotti della terra non è più in in grado si fornire.Ma come sia la terra da cui provengono i Q’ero in pochi lo san-no. Straripante parte il pick up, sulla strada si ferma a raccoglie-re Alfredo, figlio primogenito di 12 anni di Juan. Gli stessi occhi del padre, il chullo sulla testa, l’espressione già adulta e il sorriso ingenuo. Don Juan spiega che troveremo suo fratello, Don Fran-cisco, con i cavalli all’incrocio del sentiero. Alcune domande sulla sua comunità, sugli usi costumi, il rapporto con gli Apu, le montagne circostanti. Juan usa un modo di guardare negli occhi di chi parla con Rimai, il potere della parola per i Quech-wa, lo sguardo accesso e convincente, due parole in spagnolo e cinque in lingua nativa, trascende la parola e si fa intendere perfettamente.«Staremo una settimana, nella loro comunità, è la festa dell’alle-vamento: ringraziano la pachamama per i loro lama, e chiedono protezione e fertilità» dice Fredy. Piove, continua a piovere,

    q’eros, viaggio dai sacerdoti delle ande

  • ininterrottamente. «Non è il periodo migliore per visitarli, ma la festa si fa solo in questo periodo dell’anno e non molti vi hanno partecipato. Siamo accolti in comunità perché arriviamo con Don Juan, non potremmo entrare se fossimo forestieri. Queste comunità così lontane e isolate sono piuttosto chiuse». La strada che porta al sentiero è a sua volta sterrata e percorsa esclusi-vamente da camion che dalle Ande portano gasolio e viveri ai lavoratori in Amazzonia, poco più sotto, ai piedi delle maestose montagne dai 4000 metri, dove si estende la foresta pluviale ric-ca di legno e metalli. Si circumnaviga l’Ausangante, il ghiacciaio maggiore a 300 metri. Lo si percepisce dietro la coltre di nubi. È il guardiano della regione, la sua presenza imponente fa eco a chilometri di distanza. Sul sentiero non c’è traccia di Francisco, né dei cavalli. Il tempo è buono, un cielo clemente ha sospeso il suo pianto, e alza le tende su un azzurro chiaro. «Per arrivare nella terra dei Q’eros si deve chiedere permesso alle montagne, agli Apu protettori, come li chiamiamo in quechua, i saggi spiriti che da millenni abitano le Ande. Nella nostra terra tutto ha vita, tutto fa parte del Kausay Puriy Pacha, il Cosmo vivente». Così Don Juan Apaza, uomo q’ero con occhi limpidi e sorriso genero-so, parla del legame di profondo rispetto tra gli abitanti indigeni delle Ande e la loro terra incantata: la relazione tra la pachama-ma (la Madre Terra, l’antica Gaia della tradizione greco-romana) e i suoi abitanti, un rapporto basato sulla reciprocità, l’ayni. «Prima di entrare in casa di qualcuno, si bussa alla porta, e così facciamo noi». Stringe tre foglie di coca nelle dita scure e dure

    del lavoro dei campi. «È un kintu – dice – un’offerta che faccia-mo agli Apu perché ci aprano il cammino», guarda la montagna nei suoi 4000 metri e con devozione soffia tre volte sulle foglie verdi e iridescenti nel sole dell’alba. «Nel soffio c’è lo spirito, così diamo tutto il nostro potere personale all’Apu, per chiedere per-messo e protezione a procedere». Alla terra dei Q’eros s’arriva con 10 ore di cammino a piedi, tra i 3 e i 5 mila metri, perduti nelle Ande, a passo lento e respiro stanco per la rarefazione dell’ossigeno, i cavalli a seguito, carichi di tutto il necessario per accampare. Lì non c’è niente, né luce, né bagno, né letti, solo acqua dal ghiacciaio e fuoco di sterco di vacca perché di alberi, a quell’altitudine, nemmeno l’ombra. Vietato ammalarsi, il primo ospedale sta a Cusco, 200 km di distanza, e i cellulari, ovviamente, non prendono. Natura incontaminata, puntellata da lama e vigogne allo stato brado, la terra dei Q’eros si apre in una piega nella pancia delle Ande, fatta di licheni verdi, picchi inne-vati, scoscese di pietra, e acqua, tanta acqua. Lasciano il segno solo piccole orme di suole di gomma. Marcano il sentiero che per chilometri si snoda nelle valli di questa pachamama fredda e austera. Lo accompagna, di tanto in tanto, il canto del flauto intonato da un variopinto berretto andino.Alla sommità di ogni passo di montagna si erge un cumulo ordi-nato di piccole pietre. Sono le apachetas, le offerte dei viandanti che ringraziano gli Apu della valle appena attraversata e si ingra-ziano i guardiani di quella a venire. Nebbia fitta si alza dalla sel-va amazzonica sottostante, che delimita la regione di Cusco da

  • quella di Madre de Dios, nel basso Perù. Il territorio dei Q’eros è spesso avvolto dalla nebbia, ma quando il cielo offre il suo squarcio di azzurro intenso, il fiato viene a mancare per la bel-lezza che si apre agli occhi: il Huamanlipa, l’Apu protettore della zona, scende irruento con le sue cascate di neve fresca appena sciolta, piccole case di fango e paglia fanno capolino tra le rocce e le praterie, un paesaggio delle favole dei Grimm.

    la gente

    I Q’eros sono miti uomini e donne in tradizionali vestiti di alpaca, tinti e tessuti a mano, dai colori sgargianti. Gambe forti e nude, su piedi di cartavetro, avvolti da sandali ricavati dai copertoni, perennemente nel fango. Un chullo calato sulla testa degli uo-mini e intarsiato di perline bianche, che loro stessi ricamano per sé e per i figli maschi. Un cappello di feltro per le donne, da cui spuntano ordinate, lunghe e lucide trecce di color nero corvino. Un sorriso gentile e discreto, una zuppa di patate calda per chiunque si affacci alla loro porta. Nelle case dei Q’eros gli stipiti sono bassi, si entra chini e si toglie il cappello perché, dicono, «quando si entra in una casa si porge prima la testa, come quando si viene al mondo». Loro sono la popolazione indigena peruviana diretta discendente degli Incas, quella che meglio ha conservato usi e costumi, grazie anche all’isolamento forzato. Così li hanno definiti, in più spedizioni, antropologi e archeologi

    dell’Inc (Istituto Nazionale di Cultura del Perù, massima fonte di studi antropologici del paese), e l’Unesco, dichiarando le loro usanze patrimonio dell’umanità. Fu Oscar Nuñez del Prado, illu-stre antropologo peruviano e successivamente direttore dell’Inc, ad entrare per primo in questa zona quasi per nulla conosciuta. Li trovò con i lunghi capelli neri intrecciati, gli sguardi fieri su nasi aquilini, vestiti con l’unku, tradizionale tunica e calzoncini neri di alpaca portati sotto il poncho, che solo aveva visto in di-segni del 1500. Le case, la struttura sociale e la forma del villag-gio ma, soprattutto, i rituali e le cerimonie religiose, rispecchia-vano la fedele rappresentazione di quanto scritto nelle cronache del XVI secolo, agli albori della colonia, dai primi scrittori indige-ni, come Juan Santa Cruz Pachacuti. I Q’ero, sono i discendenti della nobiltà degli Inca, probabilmente fuggiti in queste terre per scappare alla persecuzione spagnola. Tramandano il mito di fondazione della civiltà incaica e il mito di riscatto, il così chia-mato Inkarry, il ritorno dell’Inca. Dice la leggenda che arriverà un tempo in cui uomini illuminati governeranno il mondo, in cui le qualità dei figli indigeni e occidentali del dio metafisico Wiracocha saranno incluse in una sola umanità. In quel tempo l’armonia, la saggezza e l’equità torneranno a guidare il mondo. I Q’eros, oggi, conservano e tramandano la cosmovisione andina, fatta di relazioni di reciprocità e scambio generoso tra tutti gli esseri viventi, officiano le cerimonie e mantengono i riti iniziatici del “sacerdozio” andino, il paqo.

  • la comunità

    Ñañay è il nome con cui in quechwa si chiamano tra loro le sorelle. Nella comunità Q’ero tutte le donne si nominano con questo appellativo. Turay sono i fratelli, gli uomini. La gentilez-za nel modo di porsi tra le persone è di casa qui. Chi entra in questa comunità, come in molte comunità indigene, è automa-ticamente un ñañay o turay. Come i bambini, che sono figli di tutti. Alfredo, Augusto, Miguelito e Aurelia sono tra loro cugini, ma nessuno ricorda esattamente di chi siano figli fino all’ora di andare a dormire nelle proprie case. I bambini sono i guardiani del bestiame. Aurelia è una ragazzina bellissima, di 10 anni. Porta sulle spalle le lunghe trecce nere e sulle labbra un peren-ne sorriso che le accende le gote bruciate dal sole. Aurelia ha vissuto alcuni anni in un paesino vicino a Cuzco, per cui parla abbastanza lo spagnolo. I suoi fratelli e cugini no, solo quechu-wa. Dice che il maestro lì non si vede quasi mai. Arriva una o due volte al mese a far lezione. Li avvisa dell’arrivo il suo papà, don Francisco, quando lo incrocia di mattina presto, dopo aver recuperato i cavalli che la notte scendono diversi chilometri più a valle verso il pascolo. Ad Aurelia piace studiare e vorrebbe tor-nare a vivere in paese solo per poter continuare la scuola. Ma le piace tanto anche badare al loro bestiame, ai lama e agli alpaca della comunità. Li conosce tutti per nome e fa un verso guttu-rale e acuto per richiamarli a raccolta. I lama di Aurelia hanno gli orecchini: i lobi sono adornati di nastrini di lana sgargiante,

    come pennacchi, che li distinguono da altri greggi. Aurelia sa capire quando i lama sono nel periodo dell’amore: si prendono a testate tra maschi per coprire le femmine, e fanno dei versi biz-zarri e imbarazzanti nell’accoppiamento. I Q’eros non ci fanno proprio caso. Officiano cerimonie alla pachamama, ringraziando del loro bestiame nella festa del axata uxuchichis, mentre questi amoreggiano impudichi alle loro spalle, nel giorno che benedice la loro fertilità. Alla fine della celebrazione i bambini conducono i lama al pascolo e vengono accompagnati da una pioggia di fiori rossi, rarissimi a queste alture. Le cerimonie sono sempre con-dite da alcool puro, il vino costa troppo. L’alcool etilico si mischia con erbe e aromatizzanti, un sorso alla pachamama, il resto giù per la gola, ad infuocare lo stomaco. Mosse precise scandiscono il rituale: si riempie la coppa di coccio, se ne versa un poco a terra, si beve fino alla goccia, si riversa il liquido e lo si passa al prossimo. E via così, giri e giri, ore e ore, finché la testa non cede e l’ebbrezza inebria. Don Ricardo, il minore dei tre fratelli sacerdoti, si commuove. Cadono le inibizioni e lasciano uscire le emozioni, lacrime di ringraziamento per ciò che gli da la Madre Terra, amarezza per una vita tanto impervia. Doña Ramona, la moglie di Francisco anche lei officiante, canta come un mantra una cantilena in lingua nativa. Alla fine di ogni strofa un urpi-chay sonq’ochay – “colombina del mio cuore”, ovvero “grazie” in questa lingua gentile che è il quechuwa – e sorsate di liquido trasparente ad innaffiare l’esofago. Per i bambini chocolate con leche, oggi festa grande. Latte e cioccolato è come dire Natale.

  • Fradici per la continua pioggia che li inzuppa mentre sono al pa-scolo, arrivano emozionati per l’inaspettata sorpresa. Gli occhi a mandorla dei piccoli Q’eros sono ancora più brillanti e limpidi di quelli degli adulti, sempre accesi e curiosi, come quelli dei bam-bini di ogni latitudine del globo. Li accompagna il fedele Leon, uno sporchissimo quanto bel cane grigio meticcio, il capo bran-co della zona. Non c’è comunità indigena in tutta l’America Lati-na, dalle Ande all’Amazzonia, dove non ci siano cani in branco, come non c’è città o metropoli che non sia piena di cani randa-gi. Per i Q’eros i cani accompagnano le persone appena morte nel loro cammino verso l’Hanak Pacha, il mondo di sopra. Dice la tradizione che esiste un paradiso dei cani, Añu Kara llakta, attraverso cui si deve passare per superare il fiume Urkan Mayu e accedere alla montagna del mondo di sopra, da cui veniamo e a cui torniamo. Ci verrà incontro un cane, e solo lui sa dove sta il passaggio per guadare il fiume. Se saremo stati amorevoli con i cani in vita, non avremo alcun problema. Altrimenti dovremo soffermarci un po’ e apprendere la lezione. I cani q’ero aiutano i bambini nella pastorizia e con loro prendono litri di pioggia al giorno. Leon, capo indiscusso di circa cinque anni, è l’unico intrepido che si azzarda ad appostarsi sulle porte delle case e tentare una furtiva entrata per rubare i resti di cibo che cadono sul pavimento in terra battuta. Alla peggio, rischia scarpe che volano. Dalla casa di Aurelia e Miguelito esce, dal tetto in paglia senza canna fumaria, un fumo denso. Quando il buio è ancora fitto negli occhi e la nebbia avvolge cotonosa il piccolo villaggio,

    nelle case dei Q’ero si consuma il rituale intimo del risveglio, che si ritrova identico in ogni famiglia umana, nelle prime ore delle mattine d’inverno. L’aria densa e odorosa della notte, poca luce a illuminare gli occhi appiccicosi del sonno, piccole mani e gambe rannicchiate attorno al fuoco con il latte o una zuppa fumante davanti al viso. L’intimità di questa scena è un quadro emotivo conosciuto, ha solo una cornice diversa. Un’unica gran-de stanza in cui dormono insieme genitori e bambini, sui giacigli di paglia e pelli di lama. Qui si dorme vestiti, fa troppo freddo per spogliarsi, e non esiste l’usanza del pigiama. Ci si toglie solo i sandali e il cappello, e poi strati di coperte su coperte a difen-dere dai morsi esterni del gelo e dell’umidità. Chili di vestiti, pul-ci, adulti e bambini, che più stretti si sta e meno freddo si sente. Le braci della notte restano calde con lo sterco di pecora, la mattina le ravviva il fuoco prodotto da quello di vacca. L’olfatto si abitua presto a questo odore intenso, resta solo impregnato nei vestiti, fino alle mutande. Te ne accorgi al primo contatto con la civilizzazione delle città, quando sull’autobus che porta a Cusco il malcapitato vicino di posto arriccia ripetutamente il naso.

    la cosmogonia

    La cosmogonia andina di basa su un concetto molto semplice: tutto è vivo. Kausay Pacha, ovvero tutto il cosmo è vivo. La montagna Apu è viva, l’Acqua Mama Cocha è viva, il Vento Tata

  • Waira è vivo, la Terra Pachamama è viva, la Luna Mama Killa è viva, le Stelle Chaska sono vive, e via di seguito alberi, animali ed esseri umani in coro. E come gli appartenenti ad una stessa specie comunicano fra loro, così avviene anche tra specie di-verse, tutte vive, tutte fatte della stessa sostanza viva, energia. Ci sono abitanti del Cosmo più anziani, e quindi più autorevoli, come le montagne, che sono protettori di comunità come il Hua-manlipa, di regioni come l’Ausangate, di nazioni come il Monte Bianco, o di tutto il mondo come l’Everest. Certamente anche vicino alle vostre case c’è un Apu, grande o piccolo che sia. Gli Inca, prima di loro la civiltà Tihuanacota popoli nati 6.000 anni a.C. attorno al lago Titicaca tra Bolivia e Perù sull’altopiano andino, oggi i Quechuwa e tra loro i Q’ero, hanno mantenuto la conoscenza dell’antico alfabeto che permette la comunicazione profonda con gli altri abitanti della terra, e del cosmo tutto. Se non si chiede permesso prima di entrare in un luogo o una valle si possono avere spiacevoli inconvenienti, perché è sempre buona educazione bussare. Così non offrire un kintu, un dono di tre foglie di coca imbevute del nostro alito, può creare dei problemi di accoglienza. Come trovarsi con la jeep carica di tutto il necessario per accampare, ferma nel bel mezzo di un fiume in piena, di acqua gelata dei 4.000 metri. Dopo quattro ore intrap-polati dalle acque turbinanti, alla decisione di guadare a piedi, neppure le migliori scarpe da trekking allevieranno i crampi ai piedi prossimi al congelamento. Nella mattina limpida, mentre i panni e le scarpe gocciolanti stanno ancora ad asciugare, con

    un kintu tra le dita di ciascuno, don Juan rimprovera allegro gli sprovveduti, invitando a praticare il rituale con umiltà o «anche oggi – dice sorridendo – non passeremo». Comunicare con la pachamama non è difficile, ma bisogna sapere come prender-la, è pur sempre una mamma, una donna, una femmina fatta dall’eterno meccanismo del yanantin, lo scambio di energia ma-schile e femminile che da millenni nel suo grembo forgia la vita. A seconda di ciò che si chiede, le offerte, i despacho, vengono composte da elementi diversi: per una buona salute, una buona famiglia, una buona semina e un buon raccolto, una buona unione fertile in un matrimonio, un buon commercio, una buona giornata per camminare, una buona nascitao una buona dipartita. I paqo, i sacerdoti delle Ande, compiono pellegrinaggi fino ai 6000 metri più volte in una vita, vestiti di nuda pelle, sandali e poncho per ricevere l’iniziazione dell’Apu. Ci sono sacerdoti, uomini e donne, che vengono invece scelti dal Fulmine, i qoñi runa, in una regione in cui piovono spesso tempeste di elettricità dal cielo. C’è chi viene toccato mentre è al pascolo o nell’appezzamento di terra, la chakra, a lavorare. Si dice che il fulmine tocchi tre volte: uccide, smembra e poi risuscita, una morte e rinascita profonda, come simboleggia ogni rito di passaggio. C’è anche chi vi muore. Può anche ca-dere solo molto vicino, e in ogni caso il prescelto dovrà cercare un maestro per ricevere un’iniziazione e apprendere l’arte della tradizione andina.

  • il rituale

    Don Juan e Don Francisco Apaza sono figli di uno degli ultimi grandi maestri e sacerdoti andini, Don Mariano Apaza, un ku-raq akulleq, che nella scala del sacerdozio è il più alto grado di iniziazione a cui un paqo sia arrivato in tempo moderni, benché la tradizione antica ne riporti altri tre. Una grande pietra levigata e piana sta nel mezzo della comunità. È la pietra dove officiava Don Mariano, dove oggi con rispetto officiano i suoi figli. La commozione bagna gli occhi scuri dei due sacerdoti. “Hampuy hampuy!” Don Juan e Don Francisco chiamano a raccolta gli spiriti degli Apu e la Santa Tierra Pachamama: nelle giornate speciali, di festa e di ringraziamento per il raccolto e per il be-stiame, nelle comunità si fa un despacho, un’offerta. Entrando nella casa di fango e paglia un odore dolciastro e denso accoglie le narici. È palo santo e agua florida, il primo un legno aromatico tropicale usato come incenso di purificazione, la seconda un ac-qua profumata, usata come acqua santa. Ci si bagna il viso e le mani, gli uomini siedono a destra, le donne a sinistra, maschile e femminile, yanantin, ciò che da sempre crea il mondo. Il cri-stianesimo è stato assorbito dalla tradizione andina nelle sue for-me di rappresentazione metafisica del maschile e del femminile, visti nel Cristo e in Maria. Così la pachamama diventa “santa”, accogliendo l’accezione di sacralità che le dà la religione cri-stiana. Su un foglio bianco si dispiegano circolari forme di fiori, conchiglie, miniature di zucchero che ricordano oggetti, fili d’oro

    e d’argento, biscotti, grasso di lama. Pare un mandala. I due sa-cerdoti tengono un kintu di foglie di coca in ogni coppia di dita, 12 in tutto. Ad ogni soffio invocano il Humanalipa, l’Ausangate (ghiacciaio maggiore della regione del Cusco), la pachamama, il Monte Bianco – Apu protettore dell’Italia – e gli elementi della natura vicini a casa di tutti i presenti. Ognuno soffia sul proprio kintu, ognuno dona il proprio potere personale: «Munay, yachay, yancay, gli esseri umani hanno tre poteri: l’amore, l’intelletto e il lavoro fisico. Soffiando li offriamo ai nostri interlocutori». Una rigogliosa ghirlanda di kintu va a completare l’opera. Si chiude in un bellissimo pacchetto fatto di fili di alpaca colorati, spruz-zato con vino e agua ardiente (una sorta di grappa), omelie in quechua, e l’offerta è pronta. «Dovremo aspettare che scenda la notte, perché gli Apu non vogliono essere visti quando festeggia-no». Due coppe di vino rosso, rarità preziosa, campeggiano sulla pietra di Don Mariano. La notte di pece senza luna viene accesa da un fuoco vivace. Il despacho va bruciato, perché il fumo rag-giunga gli Apu. Si voltano le spalle, non si può sbirciare, perché non si offendano gli invitati speciali.

  • bibliografia minima

    Roberto Sarti, Il seme dell’Inca, Il cigno, 2007.Aa.Vv., Q’ero, el ultimo ally Inca, Cepredim, 2005.

    ringraziamenti

    Alla grande pachamama e agli Apu, Illimani, Ausangate, Gu-glielmo; ai maestri Q’ero; ai miei maestri, Don Juan Nuñez del Prado, Ivan Nuñez del Prado e Roberto Sarti; a Fabio Cuttica, meraviglioso fotografo, eccellente collega, forte e gentile com-pagno di questa avventura; a Gigi Riva dell’Espresso per averci creduto e dato la possibilità di intraprenderla; ad Aldo Colonnel-lo, al Circolo culturale Menocchio e Interattiva, per la dedizione. Ai miei cari, che aprono le braccia per lasciarmi andare e le mantengono aperte per accogliermi al ritorno. Alla Lola, fidata guida nella vita, che si specchia, e mi segue, in tutti i cani che accompagnano questi viaggi e che, sempre, sorniona, mi aspet-ta di ritorno a casa. A tutti e tutte coloro che mi leggono, che danno nutrimento al mio desiderio di raccontare scorci di vite lontane, e che vi si appassionano.

  • Collana Album

    1 Mario Boccia, Kurdistan (2002)2 Lionello Fioretti, Bosplans (2004)3 Claudio Tura, Yanomami (2005)4 Paolo Gallo, Sarò breve (2005)5 Tito Maniacco, Cartoline (2006)6 Tito Maniacco, Oltris (2009)