Diari dal sottosuolo – Anteprima

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Estratto dall'antologia collettiva Diari dal Sottosuolo pubblicata da Diario di Pensieri Persi, a cura di Alessandra Zengo. www.diariodipensieripersi.it

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Diari dal Sottosuolo – AntologiaA cura di Alessandra Zengo

Redazione: Roberto GerilliCorrezione: Cristiana MelisImmagine di copertina: Aégis – Mario S. Nevado Grafica: Petra Zari Ufficio Stampa: Pia [email protected]

Diario di Pensieri Persi © Aprile 2014www.diariodipensieripersi.it Proprietà letteraria riservata.Vietata la riproduzione, anche parziale del testo, senza specifica autorizzazione.

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Sommario

La mamma fantasmadi Stefania auci

Gercai e le catene della libertàdi Sabrina GrappeGGia bernard

Pandoradi Giacomo bernini

Sirenedi romina caSaGrande

Sogni perduti e birra scuradi GiSella laterza

Parcheggio Riservatodi laura maclem

Artùdi Giulia marenGo

La Notte del Destinodi loredana la puma

Nati nel buiodi euGenio SaGuatti

Dancing with Rogerdi federica Soprani

Postfazionedi luca tarenzi

Cover Artist

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La mamma fantasmadi Stefania auci

E ra stato un colpo. Uno solo, secco, improvviso, che l’a-veva sballottata su e giù nell’abitacolo dell’auto strap-pandole un urlo.

Colpa sua, si disse arrancando su per le scale: troppe cose per la testa, con Ennio che non l’aiutava mai a casa e con Giorgio e Sara che le davano il tormento. Non aveva visto il mezzo che le stava venendo addosso perché era presa dal pensiero dei bambi-ni, che quel pomeriggio avrebbero avuto una festa di complean-no. Aveva giusto preso un regalo per il loro amichetto.

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Diari dal sottosuolo

Scadenze da rispettare, impegni da portare a termine e il cer-vello che schizzava a mille.

E adesso?Arrivò sino alla porta di casa. Entrò. Immaginò la faccia di

Ennio e sospirò pesantemente. Di certo le avrebbe fatto una scenata, i danni all’auto erano parecchi. E i bambini?

Mamma, e la festa? Uffa, mamma, come ci vado a calcetto?L’emicrania si trasformò in una morsa che le strinse la testa.

Si portò la mano alla fronte, ma la ritrasse subito dopo, infastidi-ta dalla sensazione collosa del sangue sul palmo. Giusto, si disse. Mi sono fatta male. Devo disinfettarmi.

Soprabito e borsa le scivolarono di dosso quasi senza che lei, Samantha, se ne accorgesse. Cercò il proprio riflesso nello spec-chio. Capelli incollati al viso, la pelle sudata, un profondo taglio tra la tempia e lo zigomo.

Dio santo, che male.Sarebbe dovuta andare in ospedale. Il taglio era profondo, e

le avrebbero dato dei punti. Sfiorò con le dita la camicetta: era sporca, una larga macchia scura che le arrivava quasi fino allo stomaco. Non si era resa conto di aver perso tanto sangue. In verità, non sapeva bene nemmeno come fosse arrivata a casa, visto che l’auto era sfasciata. Era sotto choc, tremava ancora: aveva visto la morte in faccia e ne era rimasta terrorizzata.

Ritornò a fissare la macchia. Chissà, forse sarebbe venuta via con un po’ di candeggina. Sarebbe stato un peccato dover rinunciare a quella blusa, era una delle sue preferite.

E poi.La cucina. Guardò le mani. Avrebbe dovuto preparare il pranzo. Sì, ma

cosa?Si portò di nuovo le mani alle tempie e chiuse gli occhi, cer-

cando conforto nel buio. Il dolore si era fatto di nuovo lanci-nante.

Un’aspirina. Doveva prendere una pillola e stendersi un po’, riposare sul divano. Magari quel giorno si sarebbero arrangiati con dei panini. E se Ennio avesse protestato perché voleva un piatto di pasta… be’, poteva anche cucinarlo da solo.

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La mamma fantasma

Si ritrovò sul divano, la testa sul bracciolo, il braccio sulla fronte. Gli occhi fissi sulla foto in alto, sulla credenza. Lei ed Ennio il giorno del loro matrimonio. Erano stati felici fino a che, un giorno di alcuni anni prima, si erano ritrovati catapultati nella vita reale.

Quel giorno aveva un nome. Sara. Sua figlia. Quando lei era nata, avevano smesso di essere una coppia per diventare fatico-samente una famiglia. C’erano voluti tempo, rabbia e lacrime, e poi ancora sorrisi e pazienza, ma ce l’avevano fatta. Giorgio, poi, li aveva divisi di nuovo. Lui, con quel carattere scorbutico e ombroso. Aveva preso il peggio di entrambi. E il meglio.

Fu allora che udì la voce di Ennio.Stava singhiozzando.«No, no» ripeteva. Era addolorato. No, era qualcosa di più.

Che avesse già saputo dell’incidente e fosse affranto per la mac-china? Possibile che stesse piangendo a quel modo per i danni dell’auto? Doveva trattarsi di qualcosa di più. Il dolore di cui la voce era intrisa la colpì dritta al cuore e la riempì di un’angoscia amara.

Sentì le chiavi penetrare a fatica nella toppa, il peso della borsa da lavoro di suo marito scagliato via.

Il rumore di un corpo che rovinava a terra la costrinse ad alzarsi, a correre verso l’ingresso.

«Eh, amore» chiamò, spaventata. «Cosa c’è? Che hai?»Idee terribili si riversarono nella mente, simili a cascate di

acqua gelida. Era successo qualcosa. Suo marito non piangeva mai, e quello non era un pianto, era un insieme di urli straziati.

Ennio batteva i pugni sul pavimento, incurante della porta ri-masta spalancata. “Non è vero.” Ripeteva la frase come un man-tra. La sua disperazione era palpabile, dolorosa come uno schiz-zo di acido. «Samantha» la chiamò, disperato. «SAMANTHA!»

Lei gli corse accanto. «Sono qui, amore mio.» Allungò la mano per aiutarlo a risollevarsi. Avrebbero affrontato tutto in-sieme, come sempre. Loro erano forti, potevano superare qua-lunque cosa. Purché non si trattasse dei bambini, perché se era così…

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Samantha si fissò le dita. La sua mano era quella di sempre: grassoccia, con la pelle screpolata e la fede nuziale sull’anulare. Una cicatrice, ricordo di una brutta caduta in bicicletta, le detur-pava l’attaccatura del polso.

Ma allora… perché non riusciva a toccare suo marito? Ennio si contorceva. Gridava. Gridava il suo nome fram-

misto a parole senza senso e piangeva come se non riuscisse a vederla.

Doveva toccarlo, doveva fargli sentire che era lì, che era…Le dita sfiorarono il cappotto di suo marito. I polpastrelli

affondarono attraverso gli strati di stoffa, si fecero largo tra le cuciture, fino alla pelle. Riuscì a sentire persino il calore della spalla.

Era lui a non sentire nulla. Più nulla.Trasalì. Qualcosa, o forse qualcuno, dentro di lei – non

avrebbe saputo dire chi o cosa – le suggerì di alzarsi e andare allo specchio dell’ingresso. Di guardarsi.

Tremando, Samantha si avvicinò allo specchio, un piccolo rettangolo a poca distanza dall’attaccapanni. Si voltò. Non c’era traccia né del soprabito, né della borsa. Eppure era sicurissima di averli lasciati al loro posto. Era lì che li riponeva.

Lo faccio sempre quando rientro a casa.Si guardò. Chiuse gli occhi e osservò di nuovo il proprio

riflesso incredulo.Ricordò.Lo schianto, il finestrino che andava in frantumi, la testa che

sbatteva contro il parabrezza. Il vuoto, il buio, il silenzio più intenso che potesse immaginare. E poi… casa. Senza le chiavi, senza nulla che le appartenesse davvero.

Si portò le mani alla bocca per impedirsi di gridare, ma fu inutile.

L’urlo che le proruppe dalle labbra fu straziante. E rimase inascoltato.

Se Ennio non fosse stato sconvolto dal dolore per la notizia che aveva appena ricevuto, avrebbe udito un sibilo sottile, simi-le a un soffio di vento che s’insinua attraverso le porte. Invece rimase a singhiozzare riverso a terra, prosciugato da un dolore

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che – lo sapeva – lo avrebbe cambiato per sempre.Rimase sordo. Non riuscì a sentire che sua moglie era ancora

accanto a lui. Sua moglie Samantha, deceduta in un incidente stradale poco

meno di un’ora prima.

Una settimana dopo

Samantha era seduta sul bordo del letto che le era appartenuto fino a pochi giorni prima.

Era l’alba, faceva freddo. Del resto era gennaio e, si sa, in quel periodo vien sempre a nevicare.

Si voltò verso Ennio. Dormiva, finalmente, dopo aver tra-scorso la notte a osservare i bambini nei loro letti.

Ciò che lui ignorava era che, non appena era andato via, Giorgio aveva chiesto a Sara di dormire con lei e di essere ab-bracciato. Senza dire una parola, la sorella maggiore aveva solle-vato il lembo della coperta e gli aveva fatto posto.

Il piccolo aveva nascosto la testa nell’incavo del collo della bambina. Proprio come fa con me quando si infila nel lettone, pensò Samantha.

Il ricordo del calore del corpo di Giorgio contro il suo si ir-radiò dal centro del suo petto fino alle membra, eco labile di una sensazione fisica che non avrebbe provato mai più.

Sentì di nuovo le lacrime pungerle gli occhi. Niente più paro-le sussurrate sotto le coperte, niente più bronci e musi lunghi da consolare, niente più capricci da ignorare, o mani da stringere.

Non avrebbe più potuto toccare né lui, né Sara, né Ennio. Non avrebbe più potuto abbracciare i suoi bambini, non avreb-be mai più sentito il tepore dei loro corpi che si fondevano con il suo.

Chiuse gli occhi. A quanto pareva, nella sua condizione non le era consentito piangere. Così dovette limitarsi a stringere le palpebre, e ingoiare a vuoto quell’emozione dolorosa, talmente fisica da farle provare una stretta alla gola.

Così aveva affrontato i giorni precedenti. Il suo funerale. La sepoltura.

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Non aveva voluto vedere il suo corpo. Immaginava non fos-se dissimile dall’immagine pallida e stravolta che lo specchio le restituiva. Una donna in gonna beige e blusa di cotone sporca di sangue, con i capelli in disordine e un taglio sulla testa. Quella ferita, unico simbolo evidente del trauma cranico che l’aveva uccisa quando un tir aveva sbagliato manovra e aveva sfondato la fiancata della sua utilitaria.

Per tutta la settimana era rimasta accanto a Ennio e ai suoi bambini, sfiorandoli, cercando di far sentire che era ancor con loro, che non li aveva lasciati e mai lo avrebbe fatto, perché li amava.

Ma c’era qualcosa che la respingeva. Era un muro, una parete di gomma che le impediva di raggiungerli. E allora si aggrappava alla quotidianità, a ciò che le apparteneva, che era stato parte della sua vita. Ma anche quello era fuori portata, ormai.

Le sue mani penetravano senza sforzo le ante dei mobili del-la cucina e tentavano invano di stringersi attorno alle tazze per la colazione e apparecchiare la tavola. Altre mani, ben più umane, lo facevano al suo posto, privandola di ciò che per lei era più importante: prendersi cura della sua famiglia.

Così assisteva desolata ai gesti della suocera che preparava i pasti per i bambini e per suo marito, o guardava impotente i suoi cuccioli che stavano seduti sui letti con le ginocchia premute contro il petto, in silenzio.

Avrebbe voluto suggerire a Ennio di parlare con loro, o di farsi aiutare da qualcuno. La psicologa della scuola, per esempio, che tanto l’aveva aiutata con Giorgio, quando il bambino aveva avuto delle crisi di aggressività in classe. Sorrise amaramente tra sé: Ennio non sapeva nulla di tutto questo o più probabilmente lo aveva dimenticato.

Si voltò verso il marito addormentato. Una ruga gli segnava la fronte, gli occhi erano gonfi. Solo lei sapeva che aveva pianto, quella notte.

Gli accarezzò la spalla. Non si era mai resa conto di amarlo tanto fino a che non aveva compreso di non poterglielo più dire.

Dalla stanza di Sara giunse un lieve tramestio. A Samantha fu sufficiente immaginare di essere accanto alla figlia per ritrovarsi con lei. Non aveva ben capito come accadesse, ma era una delle

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prime cose che aveva imparato: nel suo stato il pensiero equiva-leva all’azione. Non poteva superare le barriere fisiche – altro che Paranormal Activity –, ma poteva restare accanto ai suoi cari.

Sara si stava alzando. Il suo corpo non mostrava ancora i se-gni dell’adolescenza, ma Samantha sapeva che ormai non man-cava molto, che presto le sarebbero spuntati i seni e che poi avrebbe fatto i conti con… altro. Aveva dieci anni, era grande ormai.

E lei non sarebbe stata lì per spiegarlo, per confortarla e aiu-tarla quando il suo corpo avrebbe iniziato a cambiare e a pren-dere una forma che non conosceva.

Vide la bimba restare seduta sul letto mentre Giorgio conti-nuava a dormire, rannicchiato contro il cuscino.

Sara si morse il labbro. Stava per piangere ma non voleva farlo, forse per timore di svegliare il fratellino. «Mamma.» Una parola sola, detta con voce accorata e infinitamente triste.

Samantha si sedette accanto a lei, le cinse le spalle con un braccio e le baciò la fronte più volte. Era inutile, lo sapeva be-nissimo, poiché non poteva sentirla. Ma se da una parte questo la faceva sentire impotente e piena di rabbia, dall’altra le offriva una consolazione.

«Sono qui, bimba mia» le sussurrò. La strinse e le sue dita affondarono nella carne tenera fino a sentire lo scorrere del san-gue, vivo e caldo.

Lacrime silenziose scorrevano sulle guance di Sara. «Perché, mamma?»Vorrei saperlo anche io, cucciola.Sara si strofinò il naso. Mise i piedi a terra e cercò le pan-

tofole, poi si alzò. Rimboccò le coperte al fratellino e guardò l’orologio. Le sei. L’ora in cui Samantha era solita alzarsi. Il mo-mento adatto per sbrigare un paio di faccende prima che la casa si riempisse di voci, che poi si fa tardi e i bambini devono essere in classe alle otto.

Sara si chinò a controllare lo zaino, poi si recò nella stanza del fratello e fece altrettanto. Gli preparò i vestiti, riassettò il letto. Quello sarebbe stato il primo giorno a scuola dopo l’inci-dente. I parenti erano andati via e adesso avrebbero dovuto rico-minciare a vivere, loro tre da soli, come un orologio cui mancava un pezzo ma che continuava, seppur a fatica, a funzionare.

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Sara andò in bagno. Samantha la seguiva, passo dopo passo, stupita. Quando aveva imparato a fare quelle cose? Era la sua routine, quella. E adesso Sara stava cercando di replicarla.

Ma non era giusto. Aveva solo dieci anni, sarebbe dovuta resta-re a letto e dormire e non…

Nulla sarebbe più stato come prima. L’idea la attraversò come una scarica elettrica. L’infanzia di Sara era finita: la sua vita aveva subìto un’accelerazione improvvisa verso l’età adulta, un cambiamento irreversibile che poco aveva a che fare con la biologia del corpo e molto con la sua sensibilità.

Voleva evitare che Giorgio soffrisse, e che suo padre non fosse gravato dal peso di cose che non sapeva o che non cono-sceva.

Sara sapeva. Più di tutti gli altri. Era stata sempre così, sin da piccola: osservatrice, acuta, una bambina attenta e piena di risorse.

Samantha la guardò mentre si faceva la doccia e poi – pro-prio come faceva lei – asciugava le piastrelle. Ripensò a quante volte l’aveva sgridata per il suo essere disordinata o per i vestiti lasciati in giro per casa, a come si era sentita frustrata quando i suoi figli non avevano dato segno di aver capito.

E invece.La bambina indossò una tuta e legò i capelli biondi in una

coda sbilenca. No, quella ancora non le riusciva bene. Poi andò in cucina e iniziò a preparare la colazione.

Al suo posto.

Sospeso tra il sonno e la veglia, Ennio udì un rumore di sto-viglie provenire dalla cucina, e allungò un braccio verso la parte del letto in cui dormiva Samantha. Era freddo. Ma certo, si disse. È stato un orribile incubo. Sammy si è già alzata. Ora la troverò in cucina che prepara la colazione e mi sommergerà con il solito elenco di cose da fare.

Si rivoltò su un fianco, evitando di guardare verso la poltro-na, là dove sua moglie deponeva gli abiti. Da alcuni giorni era sgombra.

Deve essere un incubo, si ripeté mentre opponeva resistenza alle notizie che gli inviava la parte logica del cervello. Non può avermi

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lasciato qui da solo. Dobbiamo invecchiare insieme, e fare tutte le cose che abbiamo progettato. Comprare una casa in campagna e prenderci un cane. Vedere i nostri figli che si laureano.

Si fece forza e si alzò a sedere sul letto. La realtà era incon-futabile, dolorosa come un coltello che incideva la carne viva senza anestesia. Si recò in cucina con i capelli arruffati e gli occhi gonfi e socchiusi, sperando – ancora per un po’, ancora per un istante – che la sua Sammy fosse ancora lì.

Al suo posto vide Sara, gli occhi bassi e le mani che compi-vano gesti impacciati. Le tazze sul tavolo, i biscotti nella ciotola. Ora stava provando faticosamente a chiudere la caffettiera.

Ennio sentì il cuore stringersi. «Tesoro, già sveglia?»Un mugugno di assenso.Il padre si staccò dalla porta e le si andò accanto. «Ti aiuto

io.» Nelle sue mani, la moka si richiuse docile. Accese il fuoco,

poi si avvicinò alla figlia. «Lei ti voleva bene. Tu e Giorgio siete…» Si corresse con un

sospiro. «Eravate la sua ragione di vita.»Sara sbuffò. Si sottrasse all’abbraccio del padre e lo guardò

con espressione seria. Stava per parlare, ma preferì non farlo. Ennio si sentì spaventato – persino sopraffatto – dal dolore che trapelava dagli occhi azzurri di sua figlia.

«Dobbiamo restare vicini» le disse, cercando di nuovo di stringerla. Questa volta, la bambina lo lasciò fare e per la prima volta il padre si rese conto di quanto fosse cresciuta. Di quanto la morte di Samantha l’avesse fatta crescere dentro.

«Questo pomeriggio Giorgio ha calcetto. Alle cinque.»L’uomo strabuzzò gli occhi. «Oh, accidenti! Non è possibile!

Come faccio? Sono al lavoro.»La severità di Sara si trasformò in un muto rimprovero. Ennio si passò le mani tra i capelli. «D’accordo, d’accordo.

Vedrò di farcela. A che ora hai detto?»«Alle cinque.» Il sibilo della caffettiera annunciò che il caffè

era pronto. «Per me non ti preoccupare. Ho detto a Licia che non andrò più a danza.»

La stretta al cuore divenne uno spasimo. Ennio le appoggiò le mani sulle spalle rigide e contratte. «Sara, ma avevi sempre detto che…»

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La bambina lo allontanò con un gesto nervoso. «Prima, forse.» Si incamminò verso la porta. «Cerca di essere puntuale. Giorgio ha bisogno di stare con gli altri piccoli. Questa notte ha ripreso a succhiarsi il pollice.»

Giusto in quel momento, la scatola di Cheerios cadde dalla mensola sopra il piano cottura, barcollò e rovinò a terra. Erano i cereali che Sara consumava abitualmente al mattino.

Padre e figlia trasalirono. Ennio raccolse la scatola, poi scoc-cò un’occhiata alla mensola. Devo aver urtato la scatola con la testa, pensò. Guardò Sara e vide che aveva gli occhi lucidi, velati di lacrime.

«La mamma li lasciava sempre vicino alla tazza per il latte» mormorò, prima di scoppiare in un pianto a dirotto. Si lanciò tra le braccia del padre e pianse tutte le lacrime che si era tenuta dentro in quei giorni, quando aveva cercato di essere forte per Giorgio e il suo papà, scansando le attenzioni non gradite di parenti che conosceva a malapena. Si era rivestita di indifferen-za e rabbia, imponendosi di essere dura, di comportarsi come avrebbe fatto un adulto. Ma lei aveva solo dieci anni, e non era giusto che cose simili accadessero a bambini come lei e come il suo fratellino, perché restare soli era orribile e ti faceva sentire come se non dovesse mai più sorgere il sole…

Samantha strinse in un abbraccio di aria Ennio e la sua pic-cola, meravigliosa bambina. La sua Sara, così matura e fragile. Appoggiò la testa sulla schiena della figlia e cercò di trasmetterle il suo amore, almeno per un po’. Pregò che le arrivasse, che riu-scisse a sentirlo, ma si scontrò di nuovo con quella sorta di osta-colo, quel muro che le impediva di raggiungere la loro anima.

Pensò a tutto il tempo speso inutilmente nella sua vita, ai giorni trascorsi senza far nulla di importante, alle cose che non aveva portato a termine. Alle volte che era stata sgarbata o im-paziente con i bambini o con Ennio. Avrebbe dato un braccio o una gamba per avere indietro un minuto con i suoi cari, per po-ter dire loro che li amava e che non li avrebbe mai abbandonati. Per sentirli di nuovo caldi e solidi contro il suo petto.

Era come vivere in due mondi separati che pure si accavalla-vano, come i disegni su carta da lucido che aggiungono particolari

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all’immagine principale quando si sovrappongono a essa. Que-sto pensiero la faceva disperare, fin quasi a portarla alla pazzia. Sentiva una forza immensa dentro di sé, generata dall’amore e dal rimpianto, un’energia potente e dolorosa, rinchiusa in un in-volucro che aveva i contorni del suo corpo, ma la stessa consi-stenza dell’aria. Non sentiva più il respiro, il caldo o il freddo, o la fame. Non era più niente e insieme era qualcosa. E questo, unito all’impotenza che provava nel vedere lo strazio dei suoi figli e di Ennio, la faceva soffrire come mai prima.

No, non era stata lei a far cadere la scatola di cereali. Sin da subito aveva provato a far muovere oggetti o a manifesta-re la sua presenza. Era stato tutto inutile. Nessuno sforzo, per quanto potente, era riuscito a smuovere anche solo un granello di polvere. Lei non apparteneva più a quel piano della realtà e i suoi tentativi avevano sortito unicamente l’effetto di farla sentire ridicola.

Benedetta quella scatola, anche se l’aveva fatta sobbalzare. Era stata la cosa giusta al momento giusto.

Due mesi dopo

Giorgio fissava lo specchio con la bocca socchiusa, cercando di trovare la giusta angolazione. Due sere prima aveva avuto la sensazione di vedere la mamma là dentro. Un’immagine rubata con la coda dell’occhio, che gli aveva fatto battere forte il cuore e che gli aveva fatto sperare che lei fosse ancora lì.

Si era precipitato a dirlo a papà, ma lui aveva scosso la testa guardandolo con tenerezza. «Mamma è sempre con noi, nanet-to» gli aveva risposto scompigliandogli i capelli. Poi era tornato a stendere la biancheria che lui aveva usato durante il calcetto. Adesso papà aveva capito che calzini e maglietta andavano la-vati dopo ogni allenamento e non conservati nello zaino senza passare dalla lavatrice. La prima volta che lo aveva fatto, la divisa di allenamento aveva puzzato per giorni e, per dirla con Sara, sembrava che nel borsone ci fosse un topo morto.

E poi papà aveva capito anche di dover aiutare Sara con i compiti, perché lei era peggiorata dopo che la mamma era volata in cielo.

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Per le faccende di casa c’era una signora simpatica che veniva a giorni alterni, con la pelle scura e gli occhi allungati. Si chiama-va Mahima, e si occupava di lui e sua sorella quando papà era in ufficio fino a tardi. In quei giorni, la signora cucinava e stirava sotto la guida attenta di Sara, che cercava di spiegarle dove an-davano riposte le cose.

Giorgio sospirò. Uffa. Quella strana ombra non ne voleva sapere di farsi rivedere. Nessuno gli credeva, ma lui era certo di aver visto mammina nello specchio, e gli stava sorridendo. Così come pure sapeva che la mamma gli era vicina, perché a volte sentiva il suo odore: un profumo che sapeva di latte, di pane e fiori, lo stesso che sentiva quando dormiva acciambellato accanto a lei.

Si tirò su la coperta. La televisione accesa sui cartoni non gli interessava più di tanto. Era stanco, invece, e aveva voglia di un pisolino.

Samantha si sedette accanto a Giorgio che si stava addor-mentando. Gli accarezzò i capelli chiari che avrebbero avuto bisogno di una spuntatina. Guardò con tenerezza le palpebre abbassarsi fino a chiudersi.

Era il momento del sonno quello in cui sentiva di più la loro mancanza. Da svegli, riusciva a seguirli, in un modo o nell’altro.

Aveva scoperto, pochi giorni dopo il suo incidente, di non poter più lasciare casa. Lo aveva fatto per il suo funerale ma dopo le era diventato impossibile, chissà come mai. Avrebbe voluto esplorare le strade, cercare altre persone – o fantasmi, era bene che si abituasse a quell’idea – come lei, ma nulla. Era sola. Un muro di gomma la respingeva con violenza, quello stesso muro che sembrava circondare il cuore e i pensieri dei suoi cari e che adesso cingeva anche il loro appartamento.

Poco male. Quelle pareti, la sua casa, erano l’unico luogo dove volesse stare. Erano familiari, amiche. Anche se qualcosa stava cominciando a cambiare.

Un soprammobile spostato. Una foto sostituita. Due piante – due ficus – che erano seccate senza le sue cure. E poi ancora i cibi e i prodotti per la casa, così diversi da quelli che comprava abitualmente. Piccoli, impercettibili cambiamenti. La vita andava

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avanti, ma lei era rimasta lì, inchiodata, coi vestiti del giorno dell’incidente, il taglio sullo zigomo ancora di un bel rosso vivo e i suoi ricordi. Era lei a esser rimasta ferma mentre il resto del mondo correva via.

Ma era giusto che fosse così. Certo, provava una stretta al cuore nel vedere i suoi figli cambiare e crescere. E il dolore era ancora più intenso quando si soffermava a pensare a come sa-rebbero andare le cose se lei non fosse morta. Avrebbe visto i suoi figli diventare adulti, e poi andar via di casa. Sarebbe invec-chiata con Ennio e avrebbero trascorso gli anni che li attende-vano con pazienza, insieme. Era così che sarebbe dovuto essere.

E invece.Sara si era tagliata i capelli e ora iniziava a mostrare un ac-

cenno di seno. Giorgio, invece, la preoccupava. Sembrava essere regredito. Aveva bagnato il letto un paio di volte e per alcuni giorni aveva preteso di essere imboccato per mangiare. Mahima, la governante tuttofare che Ennio aveva trovato, lo trattava con affetto e fermezza, cercando di non essere troppo indulgente ma neanche severa. Insomma, le piaceva.

Un pomeriggio, quando era sola in casa, aveva parlato con lei. Non nel senso che la donna l’aveva vista, sia chiaro. Quella era roba da film o, peggio, da trasmissioni che puntavano alla parte idiota dell’audience. Ma quella signora di mezza età che pro-veniva da un oscuro villaggio dello Sri Lanka e che viveva in Italia da dodici anni aveva chiesto alla sua anima il permesso di potersi occupare della sua casa e dei suoi figli e le aveva garantito che lo avrebbe fatto con amore.

Samantha si era sentita consolata, persino rassicurata dalle sue parole. Così aveva accettato la sua presenza e le era persino grata.

Giorgio si agitò nel sonno. Un incubo, forse, o un pensiero spiacevole. Samantha si distese accanto a lui e appoggiò la fronte contro la sua.

Fu allora che lo sentì.

Non era una sensazione chiara: era nebulosa, come una can-zone alla radio su una frequenza disturbata. Un insieme di figure e emozioni confuse, ma così vive che la donna le percepì subito,

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rimanendone imprigionata. Si lasciò risucchiare in quel vortice di vapore e vento abbandonandosi a esso fino ad approdare in un luogo che esisteva solo nella coscienza di suo figlio.

Giorgio la stava sognando.Timorosa, piena di incertezza, Samantha scivolò tra le imma-

gini che la circondavano, sino a sentire il figlio vicino a sé in un modo del tutto nuovo, concreto e labile insieme, così come ac-cade nei sogni, quando tutto sembra così vivido da trasmetterti delle sensazioni fisiche.

Avvertì una manina che la cercava a tentoni e poi vide lo sguardo stupefatto e felice. Lì, nella dimensione del sogno, lei e Giorgio erano della stessa sostanza: evanescenti e al contempo reali.

Il bambino spalancò gli occhi e la abbracciò. Piangeva. Per la prima volta dopo mesi, Samantha riuscì a sentire suo figlio, percepì quanto era diventato alto. Come le era mancato. Quanto. Nel terreno del sogno, quel corpicino era reale, consistente, e così era il suo. Sentiva le minuscole dita di suo figlio conficcarsi nelle spalle, le sue lacrime bagnarle il petto.

Provò a parlare, a dirgli che era ancora lì con lui, con tutti loro. Avvertì un dolore lacerante alla gola, come se qualcuno la stesse ferendo con una lama rovente per impedirle di rivelare la sua presenza. Le parole le costavano uno sforzo immane ma lottò per farle uscire, una dopo l’altra. «Ti voglio bene, piccolo, hai capito? A te, a papà e a Sara. Non vi lascio soli.»

Non le importava del dolore. Gli sorrise perché voleva che lui sapesse che stava bene, e che era felice di averlo abbracciato, ed era così. Erano insieme, e forse quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe potuto toccarlo o parlargli, ma proprio per questo era importante che lui sapesse, che tutti loro sapessero che l’amore non muore.

Poi, di colpo, si sentì risucchiata via. Tornò al suo essere fat-to di nulla, accanto a Giorgio che invece si stava svegliando. Il bambino aveva gli occhi bagnati di pianto, era scosso ma, per la prima volta da mesi, aveva un sorriso sereno.

Mamma, sillabò senza voce, gli occhi puntati sul vuoto dove c’era Samantha. Mamma.

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Sei mesi dopo

Era arrivata la bella stagione.I bambini erano alla colonia estiva. Era stata un’idea di En-

nio: aveva pensato che fosse giusto rispettare le vecchie abitudi-ni, lasciare che alcune cose restassero come quando Sammy era con loro. I suoi figli avevano il diritto di divertirsi, liberi del peso del passato e delle preoccupazioni per il futuro.

Così, quel mattino, era solo in casa. Il letto matrimoniale sembrava vuoto e immenso, l’appartamento silenzioso. Il sole dell’alba filtrava attraverso le tapparelle e una danza di luce e polvere si stava svolgendo proprio sopra di lui, dinanzi agli occhi socchiusi, ancora impastati di sonno.

Si girò verso l’armadio. Prima o poi avrebbe dovuto mettere via i suoi vestiti, ma non ne aveva avuto ancora la forza. Oltre-tutto, era qualcosa che voleva fare con i bambini, o per lo meno con Sara. Giorgio era piccolo, ed era ancora scosso. Lo aveva trovato dinanzi all’armadio, un paio di volte, intento ad annusare gli abiti di Samantha.

«C’è ancora l’odore della mamma» gli aveva detto come se gli stesse confidando un segreto.

Ennio si passò la mano dinanzi al viso. In autunno Giorgio avrebbe dovuto frequentare la prima elementare, affrontare una nuova classe, spiegare che non aveva più la mamma… sarebbe stata dura.

Sara, invece, era cresciuta moltissimo. Si era fatta introversa, seria, ma Ennio sospettava che si trattasse del suo modo per di-fendersi dal mondo. Aveva sofferto e stava soffrendo troppo per una bambina di undici anni. Un casino. E, come se non bastasse, Mahima aveva annunciato che entro l’estate la piccola sarebbe diventata signorina.

Si passò la mano sul viso.«Samantha»Sono qui. Ci sono sempre stata.,Si girò bocconi sul letto. «Ho paura. Cosa devo fare, amore

mio?»Nulla. Amali. Parla con loro. Sara sta diventando un’adolescente,

Giorgio si confronterà con un mondo del tutto nuovo. Puoi solo farli sentire amati.

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Diari dal sottosuolo

Lacrime. Silenziose, calde, trattenute per troppo tempo. «Mi manchi.»

I ricordi, le memorie che Ennio aveva trattenuto per molto tempo, iniziarono a sgocciolare via dalle crepe della coscienza. Li aveva nascosti per bene, chiusi in fondo alla mente, circondati da un muro di buio per nasconderli alla vista, per non essere costretto a fare i conti con ciò che aveva davvero perduto.

Se vi inciampava, sia pure per errore, si ritraeva e si attaccava al presente, impedendosi di guardare indietro. I ricordi non consola-no, aveva letto tempo prima in un libro. Sono un abisso. Sono le immagini di quello che non riavrai mai più indietro.

Ora, però, i muri si stavano sgretolando, lasciando riaffiorare le immagini di una vita insieme, momenti felici e meno felici. L’infanzia di Sara. La nascita di Giorgio. Il trasloco nella casa nuova. Samantha che si voltava e gli diceva che sì, lo avrebbe sposato.

Le crepe si allargarono. Le gocce si trasformarono in torren-ti, e i torrenti in fiumi.

In un’alba come questa, una pigra mattina d’estate di tanti anni prima, avevano concepito Sara.

Il muro dei ricordi crollò.

Seduta sulla poltrona, le braccia conserte, Samantha vide En-nio piangere. In quel momento avvertì una sorta di scossa, quasi un terremoto che le lambiva i piedi e le arrivava sino al capo, scuotendola tutta. Come una folata di vento caldo, i ricordi di Ennio la avvolsero, stringendola in un abbraccio. Le aprirono la porta del suo animo.

Ennio era lì, con lei. Samantha si sentì sopraffatta da un’e-mozione difficile da definire: non era soddisfazione o gioia, era più… sollievo.

La barriera che le impediva di toccare il suo cuore, di conso-larlo, si era dissolta.

Si sentì pervasa da uno strano tepore, un benessere nuovo e caldo.

Era il dolore a tenerla fuori. Con un sorriso di contentezza, Samantha comprese che an-

che le difese che circondavano il cuore di Sara sarebbero crollate e che un giorno avrebbe potuto esserle accanto.

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La mamma fantasma

Del resto, le mamme sono angeli custodi. Anche quelle fantasma.Si alzò e si stese accanto a suo marito che continuava a pian-

gere sommessamente. Appoggiò la testa sul suo petto e gli mise una mano sul cuore.

Ennio avvertì un’insolita quiete irradiarsi dal centro del suo torace e chiuse gli occhi. Finalmente, dopo tutto quel tempo, aveva la certezza che Samantha non lo avrebbe mai lasciato. Sa-rebbe stata sempre con lui, in un modo o nell’altro. L’avrebbe portata dentro di sé, come una gemma tagliente e infinitamente preziosa. Il suo tesoro più grande.

Samantha lo guardò addormentarsi di nuovo. Chissà, forse prima o poi sarebbe riuscita a entrare anche nei suoi sogni e a fargli capire che era sempre rimasta con lui e con i loro bambini. Non importava quando sarebbe successo, poteva aspettare. Ora era davvero con lui, dentro di lui. Non c’era più nulla che la re-spingesse, o che la tenesse lontana dalla sua vita.

All’improvviso, gli abiti sporchi del giorno dell’incidente spa-rirono, lasciando il posto a una vecchia camicia da notte, quella di lino bianco che lei usava d’estate.

Dalla finestra, il sole entrò con forza e illuminò la stanza.Iniziava un nuovo giorno.

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Diari dal sottosuolo

Stefania Auci

Trapanese, vive a Palermo. Ha pubblicato due romance storici con Harlequin Mondadori e una raccolta di racconti gotici. Col-labora attivamente con Diario di Pensieri Persi e la rivista Speechless, e ha pubblicato numerosi racconti in antologie e blog letterari.