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HUMANITAS e HUMILITAS San Francesco, san Carlo e la proposta di Caravaggio di Fabiola Giancotti Carlo Borromeo, per l’intero corso del suo apostolato nella Diocesi di Milano (1565-1584), ha tra i più vicini collaboratori molti fratelli francescani. Vi sono predicatori, confessori, segretari, istitutori. Se l’Humilitas è il motto che san Carlo mantiene nel suo stemma, l’Humanitas è la virtù che rileva dai seguaci di san Francesco. Le stesse che Michelangelo Merisi di Caravaggio restituisce nella sua trovata artistica. San Francesco, al secolo Giovanni di Pietro di Bernardone, nasce a Assisi intorno al 1181 e qui muore il 3 ottobre 1226. Quanto era incantevole, Francesco. Stupendo e glorioso nella sua innocenza, nella semplicità della sua parola, nella purezza di cuore, nell’amore di Dio, nella carità fraterna, nella prontezza dell’obbedienza, nella cortesia… Di carattere mite, calmo di indole, affabile nel parlare, cauto nell’ammonire, accorto nel consigliare, efficace nell’operare, amabile in tutto. [...] Di statura piuttosto piccola, testa regolare e rotonda, volto un po’ ovale e proteso, fronte piana, occhi neri, capelli pure oscuri, sopracciglia diritte, naso sottile, orecchie piccole, tempie piane, lingua mite, bruciante e penetrante, voce robusta, dolce, chiara e sonora, denti uniti, uguali e bianchi, labbra sottili, barba nera e rara, spalle dritte, mani scarne, dita lunghe, unghie sporgenti, gambe snelle, piedi piccoli, pelle delicata, magro, veste ruvida, sonno brevissimo, mano generosissima. Questo è il ritratto che, a pochi anni dalla morte (1228-29), frate Tommaso da Celano fa di Francesco nella Vita prima (1228-9). Arrivano fino a noi molti ritratti, anche nell’arte. A cominciare da Cimabue, il santo di Assisi verrà raffigurato benedicente, in estasi, mentre riceve le stigmate, mentre predica. Una tonaca con il cappuccio e un’altra senza cappuccio, il cingolo e i calzoni. Senza calzature, se non costretto da necessità. L’Ordine, riconosciuto con la Bolla di papa Onorio III il 29 novembre 1223, porta Francesco e i suoi Frati minori da Assisi in varie province dell’Italia di quell’epoca. Viandante speciale, come lo saranno, per altri versi, Marco Polo nelle terre d’oriente, e Dante Alighieri nella Commedia, Francesco, povero, “semplice e idiota” (Fioretti, XXX), intraprende il viaggio libero, leggero, senza bagaglio, senza abito, senza pregiudizio. di 1 16

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HUMANITAS e HUMILITAS San Francesco, san Carlo e la proposta di Caravaggio

di Fabiola Giancotti

Carlo Borromeo, per l’intero corso del suo apostolato nella Diocesi di Milano (1565-1584), ha tra i più vicini collaboratori molti fratelli francescani. Vi sono predicatori, confessori, segretari, istitutori. Se l’Humilitas è il motto che san Carlo mantiene nel suo stemma, l’Humanitas è la virtù che rileva dai seguaci di san Francesco. Le stesse che Michelangelo Merisi di Caravaggio restituisce nella sua trovata artistica.

San Francesco, al secolo Giovanni di Pietro di Bernardone, nasce a Assisi intorno al 1181 e qui muore il 3 ottobre 1226.

Quanto era incantevole, Francesco. Stupendo e glorioso nella sua innocenza, nella semplicità della sua parola, nella purezza di cuore, nell’amore di Dio, nella carità fraterna, nella prontezza dell’obbedienza, nella cortesia… Di carattere mite, calmo di indole, affabile nel parlare, cauto nell’ammonire, accorto nel consigliare, efficace nell’operare, amabile in tutto. [...] Di statura piuttosto piccola, testa regolare e rotonda, volto un po’ ovale e proteso, fronte piana, occhi neri, capelli pure oscuri, sopracciglia diritte, naso sottile, orecchie piccole, tempie piane, lingua mite, bruciante e penetrante, voce robusta, dolce, chiara e sonora, denti uniti, uguali e bianchi, labbra sottili, barba nera e rara, spalle dritte, mani scarne, dita lunghe, unghie sporgenti, gambe snelle, piedi piccoli, pelle delicata, magro, veste ruvida, sonno brevissimo, mano generosissima.

Questo è il ritratto che, a pochi anni dalla morte (1228-29), frate Tommaso da Celano fa di Francesco nella Vita prima (1228-9). Arrivano fino a noi molti ritratti, anche nell’arte. A cominciare da Cimabue, il santo di Assisi verrà raffigurato benedicente, in estasi, mentre riceve le stigmate, mentre predica. Una tonaca con il cappuccio e un’altra senza cappuccio, il cingolo e i calzoni. Senza calzature, se non costretto da necessità. L’Ordine, riconosciuto con la Bolla di papa Onorio III il 29 novembre 1223, porta Francesco e i suoi Frati minori da Assisi in varie province dell’Italia di quell’epoca.

Viandante speciale, come lo saranno, per altri versi, Marco Polo nelle terre d’oriente, e Dante Alighieri nella Commedia, Francesco, povero, “semplice e idiota” (Fioretti, XXX), intraprende il viaggio libero, leggero, senza bagaglio, senza abito, senza pregiudizio.

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“Vivendo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità”. Sorpreso e meravigliato della vita. Ciascuna cosa è viva, si nutre e cresce nella natura, e nessuno sa dove nasce e dove muore, da dove viene e dove va, a che serve e quanto vive. La Regola, su cui si fondano la disciplina, il sacrificio, il lavoro, stabilisce il modo. Ed è un pretesto per incominciare questo viaggio. La condizione è la solitudine, a cui nulla potrà porre rimedio. Con nessuno dialoga Francesco, ma, quando occorre, racconta parabole non scritte e episodi mai accaduti prima. Il Cantico delle creature è il suo inno alla vita. Nessuna alternativa tra il cielo e la terra. Cielo e terra, senza alternativa, sono l’apertura alla vita. Alto-basso, la barra e l’orizzonte, la croce, l’albero. Nessuna scelta tra la vita e la morte. Nel Cantico delle creature (1226), le cose alte e quelle basse non assumono connotazioni negative o positive, buone o cattive. Sono vive, e tanto basta.

Primo Codice conosciuto del Cantico delle Creature

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Altissimu, onnipotente, bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria, l’honore et onne benedizione. Ad te solo, Altissimo, se konfane, e nullu homo ène dignu te mentovare. Laudato sie, mi’ Signore, cum tutte le Tue creature, spezialmente messor lo frate Sole, lo quale è iorno et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significazione. Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le Stelle: in celu l’ài formate clarite e preziose e belle. Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento E per aere e nubilo e sereno et onne tempo, per lo quale a le Tue creature dài sustentamento. Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Acqua, la quale è multo utile et humile e pretiosa e casta. Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu, per lo quale ennallumini la notte: et ello è bello e iocundo e robustoso e forte. Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta e governa, e produce diversi frutti con coloriti flori et herba. Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore e sostengo infirmitate e tribulazione. Beati quelli ke ‘l sosterranno in pace, ka da Te, Altissimo sirano incoronati. Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ skappare: guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le Tue santissime voluntati, ka la morte seconda no ‘l farrà male. Laudate e benedicete mi’ Signore e rengraziate e serviateli cum grande humiltate.

Di Francesco sappiamo poco, non abbiamo tanti scritti, ma molti scrittori si sono provati a tracciare la biografia, contribuendo alla sua leggenda. Quando nulla è scritto, quindi stabilito, quando nulla può costruirsi su fonti e documenti storici e inconfutabili, ciò che, tuttavia, continua a narrarsi entra e si tramanda nell’oralità, provocando effetti che nessun “fatto storico” può provocare. La figura di Francesco investe e interroga ciascuno, religioso e non, istruito e non, ricco e povero, fanciullo o vecchio, donna o uomo, retto o iniquo, italiano o straniero. Arriva forte e chiara poiché la sua non è dottrina fondata sulla conoscenza, ma perché, per capire, occorre, semplicemente, intraprendere il viaggio e disporsi all’ascolto. Scritto di suo pugno, pochi giorni prima di morire, nel 1226, è il suo Testamento. Francesco ringrazia l’istituto della penitenza: se, “per penitenza, non fosse stato costretto a soccorrere i lebbrosi non avrebbe mai affrontato la paura della contaminazione”, e non avrebbe capito che, per la salute, occorre la misericordia. “Esce dal mondo”, Francesco, perché non conosce il mondo e non vuole spiegarlo, così come non sa e non conferma che la terra sia piana e tonda come una sfera. Francesco non considera il “peccato”, perché dalla croce procede anche l’assoluzione. E accoglie i frati, perché con loro può coltivare il terreno dell’humanitas. L’humus, la terra, non è più il luogo dell’inumazione del cadavere, della cenere, della fine, della morte. Ecco quanto si legge nel Testamento:

Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi. E il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.

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E dopo che il Signore mi diede dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io feci scrivere [questa regola] con poche parole e con semplicità […] Eravamo illetterati e sottomessi a tutti. Ed io lavoravo con le mie mani […].

Sempre nel Testamento, Francesco scrive: “Il Signore ti dia la pace”. Sarà questo il saluto per gli ospiti, i forestieri e i pellegrini. Il saluto come via della salute. Costituita la Fraternità, al ministro generale, Francesco raccomanda solo l’obbedienza. La nozione di frater, fratello e sorella, implica che nessun fratello sia uguale all’altro, poiché se lo fosse confermerebbe il concetto di copia, di clonazione, di insieme. La fratellanza esclude il sistema dell’uguale, del luogo comune, della compagnia. Frate Francesco non evoca nessuna identità e non rivendica nessun diritto di primogenitura. Fratello Sole, sorella Luna. Fratello nella casa, nella città. Fratello che viene da lontano e che va lontano. Francesco prega e viaggia, e molti lo seguono, pregando e viaggiando. Incontra per strada il conte Orlando Catani che lo invita a sostare sul monte della Verna: se mai questo monte gli piacesse, volentieri glielo darebbe:

“Io ho in Toscana uno monte divotissimo il quale si chiama monte della Vernia, lo quale è molto solitario e salvatico ed è troppo bene atto a chi volesse fare penitenza, in luogo rimosso dalle gente, o a chi desidera fare vita solitaria. S’egli ti piacesse, volentieri Io ti donerei a te e a’ tuoi compagni per salute dell’anima mia”. (Conte Orlando Catani di Chiusi della Verna prima di donare il monte a San Francesco di Assisi, 1213.)

L’Ordine dei Frati Minori nasce nel 1209. Fino al 1525 avrà varie diramazioni e cambierà molte cose. Nel 1525, l’esigenza di tornare alla pratica della regola originaria del santo Francesco viene fortemente predicata da frate Matteo da Bascio, francescano del ramo degli Osservanti. Il Papa accoglie tale domanda e il nuovo Ordine sarà quello dei Frati Minori Cappuccini. I Frati vestiranno un saio di tessuto ruvido, con un cappuccio più lungo e appuntito.

Il 3 settembre 1579, Carlo Borromeo, cardinale della Basilica romana di Santa Prassede e arcivescovo di Milano, scrive, dalla Verna, alle Cappuccine di Santa Prassede (ordine monacale di clausura da lui promosso, e approvato dal Papa nel 1578, per accogliere le vergini senza dote di Milano). Al tempo di frate Francesco, Chiara d'Assisi, assumendo la regola francescana, fondò l’ordine delle Clarisse. Questa volta, a fondare l’Ordine delle Cappuccine ci pensò il Borromeo1:

Con l’occasione dell’andata mia alla Santa casa di Loreto, son venuto oggi alla Verna per visitare et gustar spiritualmente della devozione di questo sacro luogo, dove il glorioso San Francesco fu segnato dalle stimate del Salvator nostro Christo Gesù, et egli ha lasciato infinite memorie dell’ardentissima carità sua verso Iddio con tanti atti di virtù et penitenza: però, come mi son ricordato di loro nella visita et considerazione di questi pij misteri, così mi è parso significarglielo con questa mia, la quale mi servirà manco per benedirle, che faccio per raccomandare alle istanti sue orazioni, specialmente per due mesi a venire, un negozio di molto servizio a Dio, dal quale le prego ogni abbondanza della sua gratia. (C. Borromeo, Dalla Verna, 3 settembre 1579. Lettere conservate alla Biblioteca Braidense, Codice Morbio)

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Con i Cappuccini della Verna, il vescovo di Milano rimane qualche giorno “per partecipare con loro della consolazione spirituale ch’io aveva sentito in rivedere quelle sante memorie del beatissimo padre loro Francesco” (C. Borromeo, Dalla Verna, Ibid., 17 settembre 1579). In entrambe le lettere, partite dal Monte del ritiro francescano, il Borromeo fa riferimento e nomina san Francesco stabilendo così un patto di collaborazione e di fraternità. Carlo Borromeo si occuperà per sempre della intera Famiglia francescana e cercherà in essa — come fa con i gesuiti, i teatini, i barnabiti — quegli uomini devoti che faranno parte della sua famiglia e saranno lavoratori, predicatori, suoi umili e fedeli collaboratori. “Ladro rapacissimo di uomini”, lo appellerà Filippo Neri, quando prenderà al suo servizio vari oratoriani. I frati seguono saldamente Francesco, praticano l’umiltà, non hanno beni materiali, sono eccellenti predicatori. Carlo Borromeo diviene protettore dell’ordine dei Frati Minori Cappuccini, li raccomanda ai notabili civili e religiosi delle varie città italiane, e non solo. Apre per loro e a loro nome numerosi conventi. I francescani non erano mai vissuti e non vivevano nei conventi, ma la collaborazione con l'arcivescovo di Milano richiede che ora la famiglia francescana abbia a disposizione dei conventi in cui vivere. Nel 1581 sarà costruito il convento di Vimercate: “…quest’opera può partorire molto frutto et notabile aiuto a quel luogo con l’esempio, orazioni et altre fatiche et ministeri di quei devoti religiosi”. La disciplina, l’austerità, la devozione, la preghiera ispirate al santo di Assisi regoleranno la vita dei frati. Anche a Arona, dov’era nato, nel progetto del Borromeo c’era la fondazione di un altro convento per i Cappuccini e la costruzione, a sue spese, di un Sacro monte con cappelle che raccontassero la vita del Santo umbro, così come il Sacro Monte di Varallo, molto frequentato da san Carlo, raccontava la vita e la passione di Cristo. La collaborazione fra l’arcivescovo di Milano e i francescani è intensa. Con padre Silvestro da Rossano affronta la maniera di informare la diocesi sulla base delle nuove acquisizioni del Concilio tridentino; con altri, discute della difficile questione elvetica e pianifica interventi e strategie a Como, in Valtellina e nei Grigioni. Loda la predicazione di frate Francesco Sirmondi da Bormio. Per la provincia di Mantova, chiede al cardinale Gambara il terreno su cui costruire il convento. Il Vescovo della Diocesi ambrosiana farà in modo che i francescani possano esercitare anche la confessione: lo avrebbero fatto in tempo di peste e di emergenze particolari, per sostenere la diocesi. Tra i predicatori, il Borromeo vuole, insiste e chiama fra’ Mattia Bellintani di Salò, “conosciuto in tutto il mondo per l’austerità della sua vita”, e fra’ Alfonso Lupo, cappuccino spagnolo, predicatore travolgente e profetico che “ogni dì fa piangere molta gente”. Secondo la regola francescana, i frati possono predicare lì dove vengono autorizzati dai vescovi, le prediche devono essere brevi e toccare temi che la gente possa capire. I frati si servono infatti di racconti, di parabole, di esempi. Non affronteranno argomenti né di teologia né di dogmi, né di cose che sono di competenza dei vescovi. Coinvolgeranno la gente solo con la semplicità del loro parlare. “Quando i frati vanno per il mondo, non portino nulla per il viaggio né borsa né bisaccia né pane né danaro né bastone”, dice la Regola, che tanto apprezza san Carlo.

Quando Francesco predica, uomini, piante, uccelli, e tutto quanto ha vita l’ascolterà. Racconta ancora Tommaso da Celano:

[…] Francesco percorreva la valle Spoletana. Giunto presso Bevagna, vide raccolti insieme moltissimi uccelli d’ogni specie, colombe, cornacchie e “monachine“. Il servo di Dio, Francesco, che era uomo pieno di ardente amore e nutriva grande pietà e tenero amore anche per le creature

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inferiori e irrazionali, corse da loro in fretta, lasciando sulla strada i compagni. Fattosi vicino, vedendo che lo attendevano, li salutò secondo il suo costume. Ma notando con grande stupore che non volevano volare via, come erano soliti fare, tutto felice, li esortò a voler ascoltare la parola di Dio. E tra l’altro disse loro: “Fratelli miei uccelli, dovete lodare molto e sempre il vostro Creatore perché vi diede piume per vestirvi, ali per volare e tutto quanto vi è necessario. Dio vi fece nobili tra le altre creature e vi concesse di spaziare nell’aria limpida: voi non seminate e non mietete, eppure Egli vi soccorre e guida, dispensandovi da ogni preoccupazione”. A queste parole, come raccontava lui stesso e i frati che erano stati presenti, gli uccelli manifestarono il loro gaudio secondo la propria natura, con segni vari, allungando il collo, spiegando le ali, aprendo il becco e guardando a lui. Egli poi andava e veniva liberamente in mezzo a loro, sfiorando con la sua tonaca le testine e i corpi. Infine li benedisse col segno di croce dando loro licenza di riprendere il volo. […] Da quel giorno cominciò ad invitare tutti i volatili, tutti gli animali, tutti i rettili ed anche le creature inanimate a lodare e ad amare il Creatore […] Ai suoi occhi un’immensa moltitudine di uditori era come un uomo solo, e con la stessa diligenza che usava per le folle predicava ad una sola persona. Dalla purezza del suo cuore attingeva la sicurezza della sua parola, e anche invitato all’improvviso, sapeva dire cose mirabili e mai udite prima (da Vita Prima, XXI).

Giotto, Predica agli uccelli, 1290-5, Basilica superiore di Assisi

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Anche Carlo Borromeo ha una pratica straordinaria nelle omelie. Le prepara, scrive una scaletta. Noti sono i suoi arbores, disegni che prendono la forma di alberi sui cui rami, che da un tronco alto e forte si stagliano verso il cielo, si dipanano argomenti, citazioni, ragionamenti, direzioni. Scrive e pubblica le Instructiones prædicationis, nel 1575, rivolti a ciascuno che debba pronunciare le omelie dopo la lettura del Vangelo. Dice in modo semplice e efficace qual è l’ufficio del predicatore e come si svolge. E se Francesco parla agli uccelli, Carlo chiama in aiuto il sole.

“Il sole non a tutte le cose istessamente si comunica co’ suoi raggi, ma giusta la loro diversa disposizione genera e produce effetti diversi. E in verità, se chiudete le finestre al sole, può ben egli diffondere splendidissima luce che voi sempre resterete nelle tenebre […] (Carlo Borromeo, Omelie I, domenica IV di Quaresima, Milano, 11.03.1584).

Uno degli arbores di Carlo Borromeo

Contano il messaggio e l’efficacia. Il terreno e i suoi frutti. Il lavoro è incessante. L’humanitas è il terreno su cui cade e germoglia la parola. Il cui frutto è ignoto e inaspettato. Anche il vento partecipa al risultato, poiché il terreno ove si coltiva non ha proprietari e non ha steccati. Nessuna humanitas può trasformarsi in umanesimo. Né san Francesco, nella sua Regola, né san Carlo, nelle sue Istruzioni, possono redigere il concetto o il decalogo dell’humanitas. Se il seme germoglia, la terra non è la sua tomba.

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L’umiltà appartiene a questo humus. Umile è chi raccoglie i frutti lì dove nascono, dove crescono e dove abbondano. Umile è chi non si oppone a tale raccolta credendo, pensando, volendo raccogliere quello che aveva previsto, nel suo pezzo di terra intorno a cui il muro è innalzato e invalicabile. Francesco non ha bisogno di nulla per predicare. Il Borromeo coglie e prende ovunque quanto gli serve, preparando ciascuna cosa per un altro viaggio. L’humilitas di san Carlo, così come l’abbiamo letta, è la disposizione all’ascolto. E l'ascolto comporta che nulla sia paragonabile a un’altra cosa, e che la novità, quando emerge, non sia scansata, rinnegata, combattuta.

Alfonso Frasnedi, San Carlo Borromeo severo e benedicente nella luce della fede, 2006

L’humilitas è l’accoglienza dell’ospite, che è sempre ignoto. È la solidarietà e la tolleranza. È l’umanità senza riferimento alla morte, all’abito, all’abitudine. L’humilitas ha interessato Carlo Borromeo in modo speciale. Bartolomeo Gavanti, lo testimonia così:

Al Beato, sopra modo, piacque la Humiltà, né altro si ritenne [...]. Leva da ogni lato le insegne Borromee, li Alicorni, i Cameli, le palle de’ Medici, che seco portano concetti maestosi; spezza per così dire il freno, che accenna impeto: sola s’elegge quella parte in cui si legge Humilitas. Anzi né questa manco vuole, per non ambire la Humiltà, coronata massime di corona d’oro.

(B. Gavanti, Oratione in lode della umiltà del b. Carlo Borromeo, Milano 1607)

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Quando Carlo Borromeo, vescovo di Milano, fonda l’ordine degli Oblati, senza dubbio pensa ai francescani, e, come Francesco mantiene un solo voto, quello dell’obbedienza, cioè la disposizione all’ascolto. L’humilitas. Citando san Benedetto:

Quindi, fratelli miei, se vogliamo raggiungere la vetta più eccelsa dell’umiltà e arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste, a cui si ascende attraverso l’umiliazione della vita presente, bisogna che con il nostro esercizio ascetico innalziamo la scala che apparve in sogno a Giacobbe e lungo la quale questi vide scendere e salire gli angeli. Non c’è dubbio che per noi quella discesa e quella salita possono essere interpretate solo nel senso che con la superbia si scende e con l’umiltà si sale. La scala così eretta, poi, è la nostra vita terrena che, se il cuore è umile, Dio solleva fino al cielo; noi riteniamo infatti che i due lati della scala siano il corpo e l’anima nostra, nei quali la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico per cui bisogna salire.

e parodiando sant’Agostino:

E quali sono codesti gradini, o Madre di misericordia? Il primo qual è? l’umiltà, essa risponde; e il secondo? l’umiltà; e il terzo? l’umiltà; e gli altri? tutti l’umiltà, o figli; e se m’interrogaste mille volte, mille volte risponderei l’umiltà.

“Humilissimo servitore”, si firma Carlo Borromeo. Nudo, povero e “piccolino”, viene descritto Francesco. Carlo Borromeo individua ancora uno tra i francescani cappuccini che chiamerà a Milano per predicare. Francesco Panigarola, di nobile famiglia milanese, studiò a Pavia, Padova, Pisa, Parigi e a Bologna. A vent’anni entrò nei Frati minori francescani, e come predicatore era tra i più noti. Ovunque andasse a predicare, tutta la gente di quella città veniva a sentirlo e rispondeva acclamandolo con entusiasmo. Scriverà opere di teologia, compendi, commenti, lezioni e varie raccolte di prediche. Diventerà vescovo di Asti. Arriva a Milano su invito del Borromeo, qualche tempo prima della morte dell’Arcivescovo. Sarà proprio Francesco Panigarola, frate minore, a pronunciare l’orazione funebre, a quattro giorni dalla morte, nel novembre 1584, di Carlo Borromeo. Questa la cronaca di quel giorno a Milano descritta da Antonio Sala:

Aprivano il funebre convoglio le confraternite e le scuole pie della città, poi tutti gli Ordini regolari e tutto il clero secolare con cerei accesi; indi i canonici ordinari tirandosi dietro Io strascico delle lunghe cappe lugubri, subito dopo il cardinale Sfondrato vescovo di Cremona che fu poi papa Gregorio XIV, e i tre vescovi d’Alessandria, di Vigevano e di Castro pontificalmente vestiti; infine la bara, e dietro quella l’abate Federico Borromeo, cui stavano a’ fianchi il fratello Renato e il conte Annibale d’Altaemps. Lo chiudevano i vicari del defunto Arcivescovo, e tutta l’arcivescovile famiglia in abito da corruccio, con larghi veli che loro pendeano dal capo insino al petto; il Governatore, il Senato, e gli altri magistrati in gran lutto, e tutta la nobiltà essa pure in gramaglie; splendida cosa a vedersi, se in tanto infortunio della città avesse potuto darsi spettacolo che a’ cittadini sembrasse giocondo. Gli fece i funerali il cardinale Sfondrato. Piangeva egli tanto, che più volte dovette mutare il sudario inzuppato di lagrime, nè meno piansero i vescovi che l’assistevano. Il padre Panigarola gli recitò la funebre orazione, e non potendo egli farsi forza e contenere le lagrime, anche tutta l’udienza si sciolse in dirottissimo pianto (Antonio Sala, Biografia di san Carlo Borromeo, 1858).

Tutti piangevano, mentre predicava fra’ Panigarola, “...et si videro tanti pianti et lacrime che pareva che a ciascuno fosse morto il proprio padre”, testimonia Ludovico Settala.

È un evento talmente eccezionale che tutta la città di Milano ne è coinvolta. Uomini, donne, ragazzi. Da piazza del Duomo, tutt’intorno.

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C’era fra questi, un ragazzo di nome Michelangelo Merisi, apprendista pittore. Nato a Milano nel 1571, ancora bambino, nel periodo della peste detta di san Carlo (1576), fu portato a Caravaggio per evitare il contagio. Torna giovanetto, e va a bottega da Simone Peterzano (veneziano, allievo di Tiziano), nella zona che oggi è la vecchia Corsia dei Servi. Molte le commesse eseguite da Peterzano nei luoghi borromaici di Milano. Per la Certosa di Garegnano, dove l’Arcivescovo si ritira ogni tanto per pregare, esegue gli affreschi. Ci sono dipinti nella chiesa di San Barnaba, di San Fedele, di Sant’Angelo (già allora affidata ai Frati minori), di San Maurizio, del Duomo. Anche san Francesco è tra i soggetti religiosi dipinti dal Peterzano e commissionati dal Borromeo. Per la chiesetta di San Vito in Pasquirolo, il pittore esegue nel 1589 una Madonna con Bambino con i santi Francesco e Margherita (oggi nella collezione della Quadreria dell’Arcivescovado a Milano). Margherita dei Medici era la mamma di Carlo Borromeo. E a quest’opera sembra abbia collaborato anche il giovane Caravaggio.

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Madonna con Bambino con i santi Francesco e Margherita, 1589 (oggi nella collezione della Quadreria dell’Arcivescovado a Milano)

Nella bottega di Simone Peterzano, il 6 aprile 1584, giunge come apprendista pittore, un tredicenne che viene da Caravaggio. Carlo Borromeo muore, dicevamo, il 3 novembre 1584. Ai funerali, assistono, con l’intera città di Milano, il Peterzano e i suoi allievi. La cronaca di quella giornata resta nella memoria di quanti erano lì. Alcuni dei presenti testimonieranno dei miracoli di Carlo Borromeo durante il processo di canonizzazione, che incomincia a Milano nel 1602 e che si conclude a Roma nel 1610, anno della morte di Caravaggio. Non sappiamo gli effetti di queste vicende nella vita del giovane Michelangelo. Ma con la famiglia Borromeo avrà ancora tanto a che fare. A Roma è ospite e protetto del cardinal Del Monte, amico di Federico. Federico Borromeo sarà nominato arcivescovo di Milano nel 1595 (come il cugino Carlo, suo predecessore), e darà il via al suo grande progetto: l’apertura della prima biblioteca e pinacoteca pubblica in Europa. Sarà lo stesso Federico a seguire il processo di canonizzazione di san Carlo. Per la sua collezione, il cardinal Federico, noto per la sua parte letteraria nel romanzo di Alessandro Manzoni, entra in possesso di un’opera pregevole di Caravaggio, probabilmente realizzata a Roma, durante la frequentazione della casa del Cardinal Del Monte, crocevia degli intellettuali di quell’epoca. Si tratta della Canestra di frutta, da allora esposta nella Pinacoteca Ambrosiana. Anche per Caravaggio sono poche e contraddittorie le fonti storiche attendibili. Sia Giovanni Baglione, nella sua opera Le vite de’ pittori, scultori et architetti (1642), sia Giovanni Pietro Bellori, nelle Vite de’ pittori, scultori e architecti moderni (1672), riportano episodi che vengono riferiti da testimoni di parte. Dalla trascrizione del processo Baglione-Caravaggio-Gentileschi e altri, traiamo anche la notizia che Caravaggio fosse in possesso di un saio francescano prestatogli dal Gentileschi. Ciò però non ci dice quale fosse l’interesse del pittore verso san Francesco.

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Caravaggio, San Francesco in estasi, 1594-5, Wadsworth Atheneum, Hartford

La permanenza presso il cardinal Del Monte si protrae dal 1597 per alcuni anni. Francesco Maria Del Monte, mecenate, cultore delle arti e delle scienze, vicino alle lettere classiche e alla musica, è devotissimo a san Francesco. Tra i vari dipinti a firma del Caravaggio, c’è notizia che il cardinale gli commissioni un San Francesco in estasi intorno al 1595. Sorretto da un angelo, san Francesco viene colto in estasi sul monte della Verna nel momento in cui riceve le stimmate. L’iconografia dei santi prima del Concilio di Trento prediligeva degli episodi della vita quotidiana, dopo il Concilio la narrazione ha risvolti più esemplari, più diretti, più votati a rappresentare il sacrificio e la preghiera. Senza contorni, senza abbellimenti artistici, senza altro che non sia essenziale al messaggio delle Scritture. Promotore del culto dei santi, contrariamente a quanto voleva la Riforma, Carlo Borromeo scrive con Gabriele Paleotti, vescovo di Bologna e vicinissimo al cardinale di Milano, varie istruzioni che promuovono le immagini sacre dei santi (utili per la didattica, la narrazione del loro martirio, l’intercessione presso Dio per l’ottenimento di grazie). In quegli anni a Roma, c’era un frate cappuccino molto popolare che attraversava la città, poverissimo, a piedi nudi, predicando. Se ne erano occupati molti pittori, tra cui quel Cavalier d’Arpino, specialista in “fiori e frutti”, dal quale Caravaggio era stato accolto a bottega appena giunto a Roma e con il quale probabilmente si esercitò nel fare “un quadro buono di fiori come di figure”, come la Canestra. Il Cavalier D’Arpino fa molte opere su san Francesco: quando riceve le stigmate, in preghiera, in estasi, e con il teschio intorno. E le esegue prima e dopo l’amicizia con Caravaggio. Perché Caravaggio si occupa dei santi, e nel caso specifico di san Francesco? Caravaggio può interessarsi a san Francesco per questioni di lavoro (le commissioni nella bottega del Peterzano, il cardinal Del Monte). Può informarsi sulla leggenda francescana per interesse di vita. Può avere ascoltato le predicazioni, più che del Panigarola o di Carlo Borromeo a Milano, dei vari frati cappuccini mendicanti e predicatori a Roma. Può avere studiato varie composizioni narrative dove inserire Francesco che, con altri santi, è in preghiera con Dio e la Madonna.

Caravaggio, Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d'Assisi, 1600, opera perduta

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Per esempio, in una Natività con san Lorenzo, 1600 (opera realizzata per l’Oratorio San Lorenzo di Palermo, e rubata nel 1969), san Francesco ha il volto e veste il saio di un altro umile francescano. Volti e figure che compaiono su pale d’altare commissionate al Caravaggio hanno sembianze che egli ritrae da modelli ingaggiati dalla vita di ogni giorno. Si dice infatti che Caravaggio prendesse spunto dalla strada, ritraesse quelle persone che incontrava nelle sue giornate, così come li trovava: sporchi, inquieti, poveri di spirito e di nutrimento, vivi e morti. E che a questi umani donasse, con l’arte sua, quell’umanità che dalla sua vita era stata ignorata. Coglieva nel terreno fangoso della capitale e in quello arido del deserto l’humanitas che avrebbe reso eterno quell’istante. Sono riconoscibili le persone ritratte? Non lo sono, né oggi né allora. Poiché già la trasposizione nella sua pittura li rendeva altri e differenti. E perché le circostanze instauravano un malinteso che non può dissiparsi neanche dando nome e cognome alle figure. Poi, Michelangelo Merisi, forse per un incarico che prende direttamente dai Cappuccini di Roma, trova il modo di proporre il suo san Francesco.

Il san Francesco di Caravaggio mostra tristezza, amarezza, contemplazione della morte? Caravaggio cerca i volti nella sua epoca, ma il ritratto di Francesco risente anche della leggenda di Francesco. Si diceva che Francesco non fosse triste nelle sue peregrinazioni. E che anzi avesse trovato la perfetta letizia (I fioretti, cap.VIII):

Venendo una volta santo Francesco da Perugia a Santa Maria degli Angeli con frate Leone a tempo di verno, e il freddo grandissimo fortemente il cruciava, chiamò frate Leone il quale andava un poco innanzi, e disse così: “Frate Leone, avvegnadio ch’e frati minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e buona edificazione, nondimeno scrivi, e nota diligentemente, che non è ivi perfetta letizia”. E andando più oltre, santo Francesco il chiamò la seconda volta: “O frate Leone, benché ‘l frate minore illumini i ciechi, distenda gli attratti, cacci i demoni, renda l’udire a’ sordi, l’andare a’ zoppi, il parlare a’ mutoli e (maggior cosa è) risusciti il morto di quattro dì, scrivi che non è in ciò perfetta letizia”. E andando un poco, santo Francesco grida forte: “O frate Leone, se ‘l frate minore sapesse tutte le lingue e tutte le scienzie e tutte le scritture, sì ch’e sapesse profetare e rivelare non solamente le cose future, ma eziandio i segreti delle coscienzie e degli animi, scrivi che non è in ciò perfetta letizia”. Andando un poco più oltre, santo Francesco ancora chiamò forte: “O frate Leone, pecorella di Dio, benché ‘l frate minore parli con lingua d’angeli e sappi i corsi delle stelle e le virtù dell’erbe e fossongli rivelati tutti i tesori della terra e cognoscesse le nature degli uccelli e de’ pesci e di tutti gli animali e degli uomini e degli arbori e delle pietre e delle radici e dell’acque, scrivi che non ci è perfetta letizia”. E andando anche un pezzo, santo Francesco chiama forte: “O frate Leone, benché ‘l frate minore sapesse sì bene predicare, che convertisse tutti gl’infedeli alla fede di Cristo, scrivi che non è ivi perfetta letizia”. ...E durando questo modo di parlare ben di due miglia, Frate Lione con grande ammirazione il domandò: «Padre, io ti prego dalla parte di Dio, che tu mi dica dov’è perfetta letizia». E Santo Francesco sì gli rispose: «Quando noi saremo a Santa Maria degli Angeli, cosi bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo, e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo alla porta; e il portinaio verrà adirato e dirà: “Chi siete voi?”, e noi diremo: “Noi siamo due de’ vostri Frati”. E colui dirà: “Voi non dite vero: anzi siete due ribaldi che andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andate via”; e non ci aprirà, e faracci star di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e con la fame insino alla notte; allora se noi tanta ingiura e tanta crudeltate sosterremo pazientemente senza turbarsene e senza mormorare di lui; e penseremo umilmente e caritativamente che quello portinaio veramente ci cognosca, e che Iddio il fa parlare contra a noi: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta

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letizia. E se noi perseveriamo picchiando, e egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate, dicendo: “Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, che qui non mangerete né albergherete”. Se noi questo sosterremo con pazienza e con allegrezza e con amore: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia. E se noi, pur costretti dalla fame e dal freddo, più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore di Dio con grande pianto, che ci apra e mettaci dentro; e quello più scandalizzato dirà: “Costoro son gaglioffi importuni, io gli pagherò bene come sono degni”; e uscirà fuori con un bastone nocchieruto e piglieracci per lo cappuccio e getteracci in terra e involgeracci nella neve, e batteracci nodo a nodo con quello bastone: se noi tutto questo sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia. E però odi la conclusione: sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere se medesimo e volentieri per amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e disagi. Imperocché in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, perché non sono nostri, ma di Dio; onde dice l’Apostolo: “Che hai tu, che tu non abbi da Dio?”... Ma nella croce della tribolazione ben ci possiamo gloriare, perocché questo è nostro; e perciò dice l’Apostolo: “Io non mi voglio gloriare, se non nella croce del Nostro Signor Gesù Cristo”.

Caravaggio, San Francesco in meditazione, collezione privata. Opera esposta nella Chiesa di San Carlo Borromeo, Lugano dal 20 febbraio al 26 aprile 2019

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Nell’opera San Francesco in meditazione esposta qui, nella Chiesta di San Carlo Borromeo a Lugano (collezione privata) la composizione è caravaggesca, poco importa se altri o l'artista stesso, di quest’opera, ne facciano una replica o delle copie. San Francesco è in ginocchio, vestito con un saio di tela consunto e stracciato. Le pieghe, i tagli, la corda e i fili dell’umile veste mettono in rilievo l’irruenza della sua nudità, che insorge da un piccolo strappo sulla spalla. Sullo sfondo, le rocce del monte da cui Francesco intraprende il suo cammino. La luce viene dall’esterno dell’opera. Ed è una luce che non fa ombra.

Caravaggio, San Francesco in meditazione, 1605-6; Museo Civico Ala Ponzone Cremona Caravaggio, San Francesco in meditazione, Galleria Nazionale d'arte antica, Roma (in origine nella Chiesa di S. Piatro in Carpineto)

Sul terreno, appoggiata su un sasso, la croce. Senza più il crocefisso (che invece c’è nella versione di Cremona, dove croce e crocefisso sono poggiati sulla Bibbia, e accanto al teschio, quasi come in una composizione di natura morta). Qui invece (come nelle versioni romane dello stesso soggetto — quella dei Cappuccini e di Carpineto ora al Museo d’arte antica), il crocefisso non c'è. Su questa croce non si piange il Cristo morto. La croce, in tempi antichi, aveva rappresentato la pena, la tortura e la morte, ma in tempi ancora più remoti era la combinazione della barra verticale, cielo-terra, e di quella orizzontale, l’umanità vivente sulla superficie della terra. La croce è la combinazione, non lineare, di due barre, non uguali, non contrarie. La figura “retorica”, non geometrica, della croce è l’ossimoro, non l’aut-aut.

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La croce di Caravaggio, la croce senza il crocefisso, la croce i cui bracci sono differenti, è la croce da cui procede la resurrezione. Il teschio, impropriamente associato alla vanitas e alla caducità della vita, cessa la sua funzione di significazione della morte con la resurrezione. Nessun cadavere che restituisce ossa inanimate dall’humus della terra (il teschio, nelle opere di Caravaggio, c’è solo nei San Francesco e nei San Gerolamo). Qui, la postura orante (la figura è presa di fianco, mentre quella di Cremona è frontale) di Francesco non contempla e non conferma la morte. La preghiera è anzitutto il modo del ringraziamento, dice Carlo Borromeo, nelle sue omelie e nelle sue istituzioni. Ed è costante, senza interruzione. La formula “sorella morte” di Francesco dice che anche il teschio fa parte della vita, poiché il suo destino è la resurrezione. Caravaggio, inquieto, errante, in estrema solitudine, incapace e inadeguato a comprendere e gestire la sua vita, racconta così ciò che intende, con le sue opere e senza riferimento al suo “vissuto” (nessun autoritratto in questa battaglia della vita). Il suo sguardo sembra scrutare, interrogare. Non c’è rassegnazione, e non c’è la paura della morte, e neanche la pena della condanna, nella mano di Francesco. Nessuna irriverenza di Caravaggio alla parabola di Cristo raccolta dai francescani e avvalorata da Carlo Borromeo. Per ragioni salute, nessuno tra gli umani è condannato alla morte. E la speranza, in questa tela, si nota da quel filo d’erba che, in basso a destra, comincia a germogliare da un terreno che sembrava non dare frutti. E anche da quel fiore che si scorge più in là.

Caravaggio, San Francesco in meditazione, collezione privata. Opera esposta nella Chiesa di San Carlo Borromeo, Lugano dal 20 febbraio al 26 aprile 2019

Particolare

1 Il Borromeo voleva un seminario costruito sulla Regola di Francesco. In un regime di povertà assoluta che non ammetteva alcun tipo di proprietà nemmeno quella comunitaria. Nessuna di loro era però obbligata al versamento della dote. Vivevano in clausura, e avevano un confessore e un fratello cercante che procacciasse loro quanto necessario per vivere. Alla fondazione le giovani donne erano 19, alla fine del Cinquecento se ne contavano 5300. Testimone di vari eventi miracolosi. Il monastero era situato a porta Tosa tra via Rastrelli e via Larga, dove oggi c’è il Comune di Milano e l’antico Teatro lirico.

Lugano, Chiesa di San Carlo Borromeo, 20 febbraio 2019 Conferenza di Fabiola Giancotti. Testi letti da Gualtiero Scola

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