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Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province

di Catanzaro, Cosenza e Crotone

Il Natale

nelle

minoranze

etniche

calabresi

2017

Maria Luisa Albamonte, Pietro Frappi, Nella Infelise, Nicla Macrì,

Lucia Trotta

Cosenza – Piazza Valdesi, 13

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Printed by Tipolitografia F.lli Benvenuto, Srl in Cosenza

Manoscritto completato nel mese di Dicembre 2017

1a edizione

La Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di

Catanzaro, Cosenza e Crotone, o chiunque agisca in suo nome, declina ogni

responsabilità per l’uso dei contenuti della presente pubblicazione.

Cosenza – Ufficio promozione e Divulgazione – 2017

© Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di

Catanzaro, Cosenza e Crotone, 2017.

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Si ringrazia:

Antonella Romeo del Comune di Bova (RC)

Pietro Lanza, parroco della Chiesa del Santissimo Salvatore di rito

greco-bizantino in Cosenza

Flavia D’Agostino, presidente proloco di Civita (CS)

Domenico Iacovo, presidente dell’associazione Gàrdia d'O.c di

Guardia Piemontese (CS)

Claudia Stamile, imprenditrice, Stuzzicherie di Calabria in Guardia

Piemontese (CS)

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Prefazione

La recente riforma del MIBACT ha comportato, accanto

all’estensione dell’autonomia di alcuni grandi Musei e

Parchi archeologici e monumentali e alla costituzione di

Poli Museali regionali, l’istituzione di Soprintendenze

uniche, con funzioni prevalenti di tutela, educazione e

ricerca. Nelle intenzioni, una rinnovata attenzione è

prevista per i beni demoetnoantropologici, così notevoli in

Calabria: purtroppo a tale disegno non è finora seguito un

supporto economico di sostegno adeguato, mentre è stato

ora assegnato al nostro Ufficio un funzionario specifico.

Tuttavia la Soprintendenza di Cosenza, da me diretta, pur

tra le difficoltà organizzative che possono immaginarsi con

la costituzione di un nuovo Ufficio, ha voluto attivare

iniziative sinergiche che permettessero la conoscenza, la

tutela e la valorizzazione di un vasto patrimonio, pubblico

e privato, finora alquanto trascurato. E’ nata così

l’iniziativa della mostra “L’età dell’eleganza”, che ha

comportato la ricerca e l’esposizione di abiti prodotti o

utilizzati in Calabria nel corso dell’Ottocento, sia quelli

delle classi nobiliari e borghesi, che quelli popolari,

splendida espressione di un orgoglio locale calabrese

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ancora oggi non del tutto scomparso. Ne è risultato un

quadro esaustivo della ricchezza e bellezza della

produzione artigianale e proto-industriale calabrese,

ancora oggi esistente, in forma piuttosto flebile, ma che

andrebbe sostenuta e incoraggiata.

Segue ora, in occasione del Natale 2017, in sequela di una

serie già molto notevole, questo quaderno, dedicato ai

molti e diversificati riti e tradizioni popolari del Natale.

Come è noto, la Calabria fu terra di popoli e culture

diversificati, per la sua posizione chiave che costituisce un

ponte fra Oriente e Occidente, a partire dalle radici italiche

e magno-greche, cui si sovrapposero i coloni romani e gli

interessi degli appaltatori e dei commercianti romani e

campani. Seguirono poi, come ora sappiamo dai miei studi

in corso di stampa sulla rivista “Temporis signa” 2017, la

deduzione, all’epoca e per iniziativa di Ricimero, alla metà

del V secolo, di milizie barbare ariane, con funzione anti-

vandalica. In epoca più recente vi fu, fino all’istmo

lametino, la penetrazione dei Longobardi, e poi lo sciamare

di monaci dall’area siro-palestinese e le incursioni arabe, e

il sovrapporsi della chiesa latina a quella, a lungo

prevalente, di rito greco. Più di recente, all’epoca di

Ferrante d’Aragona, lo stanziamento di albanesi cattolici di

rito greco e poi, nel Cinquecento, l’emigrazione in Calabria

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dei Valdesi. Tutte queste vicende hanno lasciato tracce nei

culti, nei monumenti, e nelle tradizioni religiose e popolari,

queste ultime oggetto del presente quaderno, si spera,

augurale per le prossime attività della Soprintendenza.

Mario Pagano

Soprintendente

Archeologia, belle arti e

paesaggio per le province

di Catanzaro, Cosenza e

Crotone

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Indice

Introduzione………………………………………………………………………….….. I

Calò Christòjenna a cura di Nicla Macrì ……………………………………….. 1

Natallet për Arbёreshët a cura di Maria Luisa Albamonte ……………… 9

Bon Deineal! a cura di Nicla Macrì ………………………………….……………. 17

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

I

Introduzione

Terra di Calabria: riti e tradizioni

a cura di Pietro Frappi

Sono molte le tradizioni perpetrate nel tempo in terra di Calabria.

Le molteplici etnie che popolarono e popolano le plaghe calabresi

hanno aggiunto, nel tempo, secondo il proprio Credo, tradizioni e

manifestazioni ormai schematizzate che costituiscono un vero e

proprio patrimonio antropologico che per eterogeneità e

particolarità etniche, risulta essere fra i più ricchi d’Italia. Alla

autoctona comunità calabrese, si affiancano la grecanica,

l’arberësche, l’occitana, l’ebraica per proseguire in tempi moderni,

alla rumena, araba ed africana.

Ci sono tradizioni spettacolari, quelle che tutti conoscono, quelle

dove partecipare anche da turisti e magari fotografare. Poi ci sono

quelle che conoscono in pochi, quelle a cui non tutti possono

partecipare e ancora meno fotografare, sono quelle tradizioni fatte

anche di luoghi della memoria, luoghi della possibilità, dove la

visione è processuale, intima, riservata, esclusiva.

Alle feste religiose si affiancano le tradizioni culinarie, contadine e

paesane, sparse in tutto l’arco dell’anno: il morzello di baccalà per

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Introduzione

II

il venerdì santo a Catanzaro, il pranzo rituale dell’invito a San

Giuseppe a Guardia Piemontese, le frittole di maiale o “caddara” a

Catanzaro per il periodo natalizio, i “ginetti” di Roggiano Gravina in

occasione delle feste pasquali e la torta degli ziti tipici dolci dei

pranzi nuziali, la “mussulupa” tipico formaggio ellefone (Bova) da

accompagnare alla “lestopitta” ed ai “maccheroni al sugo di capra”

nei periodi pasquali più precisamente nella domenica delle Palme

quando a Bova si celebra il rito delle Pupazze. “A Gerocarne

(comune che dista circa 3 Km da Soriano Calabro) durante il rito in

onore di San Rocco i fedeli usavano acquistare Mostaccioli presso

le bancarelle per poi porli in casse di legno presso la Chiesa del

Santo. Infine i fedeli riacquistavano all’asta i Mostaccioli di Soriano

Calabro per poi consumarli. E ancora, come ricorda Martino Michele

Battaglia, docente presso l’Università degli studi di Messina, i

Mostaccioli di Soriano Calabro vengono usati dai fedeli anche come

ex-voto anatomorfi (braccia, seni, gambe, cuori, piedi, mani e così

via) in numerosi Santuari Calabresi e in tutto il Mezzogiorno spesso

eseguiti anche su commissione.” (Sergio Straface)

Nei festeggiamenti del Natale, i Calabresi rimangono legati al

classico, tutto inevitabilmente in famiglia, dal cenone del 24

Dicembre allo scambio dei regali, per non tradire il vecchio detto:

Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. Nel Catanzarese a tavola

non devono mancare 13 pietanze, forse in riferimento ai 13

apostoli. A Cassano le pietanze devono essere 9, quanto i mesi

d'attesa di una gravidanza. Fervidi i preparativi con il supporto

anche dei vicini perché avere meno piatti in tavola non è di buon

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

III

auspicio. I piatti principali che si preparano sono: baccalà, broccoli,

spaghetti con le alici, con la mollica di pane abbrustolita, finocchi,

zucca fritta. E durante tutto il periodo natalizio, si consumano "i

cullurialli" o zeppole, delle tipiche ciambelle fritte. A Cosenza e in

Sila è immancabile sulle tavole la pasta 'mullicata con le acciughe.

Sempre nel cosentino è ancora d'usanza fare il pane di Natale "u

Natalisi". Si diceva che addirittura i morti si scomodassero per fare

il pane perché "a Pasqua e a Natali si susinu i morti a far u pani".

La sera della vigilia, la tavola si lascia apparecchiata con le pietanze

ancora nei piatti, in attesa che "u bomminiallu" (il Bambino Gesù)

venga a mangiare. A spasso per le vie si possono trovare anche gli

zampognari che suonano davanti ai presepi pregustando il vino e

le fritture che ogni padrone di casa offre loro come ricompensa.

Molti villaggi calabresi conservano costumi di origine greca e

romana anche per quanto riguarda le pratiche e i rituali di nozze.

L'usanza più antica riferita ai rituali di nozze è senz'altro quella del

matrimonio per ratto, derivata direttamente dalle consuetudini

spartane e latine, rivendicazione del diritto della forza e

documentata dalle pinakes di Locri, tavolette votive in terracotta

su cui è rappresentata la scena di Plutone che rapisce Proserpina.

Del matrimonio per ratto restano solo il ricordo di alcuni gesti

simbolici che compiva l'uomo per mostrare alla comunità e alla

famiglia della fanciulla, la sua assoluta intenzione di prendere

moglie. Era uso in molti villaggi che il pretendente si avvicinasse

alla ragazza nei giorni di festa, all'uscita dalla chiesa e con gesto

deciso togliesse dal capo il fazzoletto che le giovani usavano

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Introduzione

IV

durante la funzione religiosa, tagliando con un coltello i nastri

dell'abito della ragazza. Questi gesti mostravano

inequivocabilmente alla comunità il diritto acquisito sulla promessa

sposa, tanto che la fanciulla veniva detta scapigliata o segnata, per

indicare l'appartenenza al giovane che aveva compiuto il rituale.

A Trebisacce e molti altri paesi dell'Alto Ionio era costume portare

il corredo in corteo festoso dalla casa della famiglia della sposa a

quella dello sposo: questa usanza è ancora viva nei paesi del

Magreb e rappresenta un momento di festa per l'intera comunità.

Nel banchetto, il giovane portava un canestro pieno di pane e

intonava un inno di auguri. Il corteo nuziale avveniva fra canti e

lancio di fiori e semi: quando la sposa giungeva sulla soglia della

sua nuova casa trovava ad attenderla la suocera che le offriva in

dono del miele, dei semi, della seta o gli strumenti del telaio,

simbolo del suo nuovo status e della sua nuova appartenenza.

Prima che si perdesse completamente l'uso del costume popolare,

le spose non portavano l'abito bianco, ma indossavano per le nozze

il costume della festa adornandolo con abbondanza di nastri e di

gioielli. Grande importanza aveva la cintura con cui la sposa legava

in vita il grembiule e il nodo con cui lo annodava drappeggiandolo

sul fianco sinistro, in maniera del tutto simile al nodus herculeus

dell'abito nuziale delle spose latine, nodo rituale che veniva sciolto

dallo sposo la notte delle nozze.

Sia i Greci che i Latini commemoravano i morti nel mese di

febbraio, il mese delle purificazioni, celebrando le Antesterie e le

Feriali, con offerte votive di cibo e vini sulle tombe, in questo

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

V

periodo era credenza che i morti uscissero dalle dimore dell'Ade e

vagassero ansiosi di cibo sulla terra; solo con offerte rituali,

banchetti e danze, i vivi potevano placare quelle anime e rafforzare

il loro legame con i morti.

I calabresi conservano memoria di questo antico costume nei

banchetti di carnevale dove, in molti paesi, si mangia e si beve in

suffragio delle anime dei propri morti; a Lago si usava ergere un

catafalco in ricordo dei trapassati intorno al quale venivano posti

pane, vino, uova e legumi.

Nei paesi di origine albanese ancora oggi si cuoce una focaccia di

forma particolare, bucata al centro, la pizzàtuglit, simile per forma

e funzione ai pani dei morti di cui parla Tucidide.

I rituali funebri ricordano molto da vicino le usanze antiche.

Quando una famiglia viene colpita da un lutto, si spegne il fuoco e

le donne sciolgono i capelli, mentre gli uomini restano col cappello

e non si rasano. La consuetudine del pianto delle prefiche era

comune in tutti i paesi della Calabria e ancora perdura in alcuni

villaggi: alcune donne erano chiamate per piangere intorno al

catafalco del morto e svolgevano la loro funzione a pagamento.

Anche fra i congiunti era importante che vi fossero delle aperte

manifestazioni di dolore, tanto che nella tradizione popolare si

tramandano vari canti funebri e lamentazioni che compiono le

donne parenti del defunto accompagnate dagli altri conoscenti che

partecipano al lutto.

Nella città di Bisignano le famiglie più legate alla tradizione usano

ancora porre accanto al cadavere un braciere in cui arde l'incenso,

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Introduzione

VI

perpetuando un rituale di purificazione della casa e degli uomini

contaminati dalla morte, simile in tutto alla suffitio dei Romani.

Come presso gli antichi Greci, anche i calabresi danno una grande

importanza agli onori funebri e hanno grande orrore della loro

mancanza considerando che questo possa impedire la pace nel

regno dei morti. Per favorire l'ultimo viaggio e sconfiggere gli spiriti

maligni che erano nell'aria, gli antichi usavano percuotere con forza

su dei vasi di rame. Ovidio ricorda come per compiere il rituale si

dovessero percuotere l'uno contro l'altro dei bacili fabbricati a

Temesa, l'antica città mineraria calabrese. Col Cristianesimo la

tradizione originaria è stata sostituita dal suono delle campane che

più è intenso e prolungato, più è utile al defunto.

Ad Atene si usava tenere dei banchetti funebri il terzo, il nono e il

trentesimo giorno dalla morte, reputando che i giorni multipli di tre

potessero essere dei momenti di crisi e lo spettro potesse ritornare

nella casa che aveva lasciato; il consumo di cibo rituale allontanava

i pericoli di contaminazione con il regno delle ombre e assicurava

ai vivi la protezione del defunto che diveniva un antenato benefico

per la famiglia. La stessa consuetudine è viva in tutti i paesi della

Calabria, ma i banchetti rituali sono stati sostituiti dalle funzioni

religiose e dalla partecipazione all'Eucaristia. (Vivere Calabria)

Così come si celebra la morte, i calabresi d’etnia ebrea celebrano il

ritorno alla vita per la ritrovata libertà, sul finire del periodo estivo

i Rabbini delle diverse comunità ebraiche, con i loro payot o boccoli

laterali giungono a Santa Maria del Cedro per raccogliere

personalmente i “frutti dell’albero più bello”. Frutti da impiegare

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

VII

durante la festa del Sukkoth, la festa delle Capanne celebrata

durante la prima metà di Ottobre, e in particolare per preparare

il lulav da adoperare durante le preghiere.

Dopo la raccolta, ogni singolo frutto viene attentamente

ispezionato, e questo perché la tradizione ebraica prescrive che il

frutto sia “immacolato”, senza macchie, dalla forma conica, deve

conservare il peduncolo e soprattutto deve essere di una pianta

non innestata e preferibilmente al quarto anno di produzione.

Durante la festa del Sukkoth (festa che commemora

l’attraversamento del deserto per raggiungere Israele) gli ebrei

usano costruire capanne e preparare il lulav. Il lulav è formato da

un ramo di palma, due rami di salice e tre di mirto, infine un cedro

è posto sulla sua base e impugnato per essere agitato in diverse

direzioni.

Tradizioni e usanze prosperano dunque nell’ospitale terra di

Calabria, tramandate da una generazione all'altra, esse

costituiscono testimonianze vive di una cultura contadina legata

alla natura e alle stagioni, ai cicli della vita, ai riti ed alla devozione

religiosa.

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Introduzione

VIII

Pane benedetto natalizio

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

1

Calò Christòjenna

a cura di Nicla Macrì

Assoluta, eterna, fatata, non pura rappresentazione estetica, ma

elemento palpitante, la bellezza assume in determinati luoghi una

tale espressione di potenza, quasi prepotenza, supremazia, una

spontanea concentrazione e concertazione di qualità e condizioni,

da catturare e dominare i nostri sensi, diventando incanto. La

Calabria custodisce in sé diversi territori con tali fattezze:

considerata nella sua totalità, l’“Area Grecanica” è uno di questi.

Gli occhi sono la guida istintiva, imparziale, sincera e sicura per

recepire tanta bontà, ammaliati, “aggrediti”, captati da

un’esposizione che obbliga all’attenzione, alla resa incondizionata

dello spirito, del riconoscere e riconoscersi parte dell’immensa,

generosa manifestazione di molteplici componenti: valli ai limiti

della praticabilità, rocce, paesaggi, specie in alcuni periodi

dell’anno, trascendenti da ogni materialità, ascese ardite, antichi

borghi arroccati incredibilmente, monasteri, ruderi di castelli

imperiosi e dominanti, e di contro, fiumare (Amendolea), cascate

(Colella, Puzzurrati, Maesano, quest’ultima in particolare, nota

meta del Parco Nazionale dell’Aspromonte) a compensare la

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Calò Christòjenna

2

durezza della terra, con la levità di fluidi e colori come il verde

della vegetazione, come le infinite sfumature del mare rilucente di

toni accesi e tenui, verso cui, con progressiva dolcezza, rocce e

pendii vanno lentamente a digradare. Apertura degli occhi su diluvi

di luce.

Natale culla di luce, della “Luce del Mondo”, in tale contesto si

espande come eco vibrante tra spirito e materia. L’ Area Grecanica

si sviluppa per circa 500 kmq, custodisce storia, arte, cultura,

natura e paesaggio che, pur avendo subito ineludibili calamità

naturali e fenomeni di spopolamento, si sono come autoprotetti, a

causa di collegamenti assai difficoltosi, sia per percorribilità che per

situazioni climatiche proibitive in lunghi periodi dell’anno, tipiche

dell’entroterra aspro, come quell’ “Aspromonte”, fascinoso e

possente, in cui è immersa. Ne fanno parte diversi comuni, tra cui

Bagaladi, Bova, Condofuri, Melito Porto Salvo, Roccaforte del

Greco, Roghudi, cui vanno aggiunti i numerosi abitanti spostatisi

da queste zone verso Reggio Calabria, nelle località S. Giorgio

Extra, Modena, Arangea e Sbarre. Tutta l’area, quindi è un inno

sfavillante alla natura sovrana e caparbia, fissata nei toponimi che

ricordano di volta in volta, l’asprezza di cardi e dirupi, la forza dei

buoi, la dolcezza delle mandorle e della “bellezza che viene da Dio”,

avvolta nella storia e nel velo sottile di leggende e tradizioni. Luoghi

conservativi per loro stessa essenza e per necessità, ospitano da

tempi lontani comunità greche, considerato che la Calabria, per la

sua posizione geografica ha rappresentato punto essenziale di

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

3

collegamento ed approdo nelle svariate rotte che segnarono il

Mediterraneo.

Dal clamore delle fiorenti e potenti colonie della “Magna Grecia”,

nello snodarsi di una storia millenaria, spessa, costellata di arrivi,

allontanamenti e ritorni, com’è nella dinamica degli eventi, densa

d’arte, pensiero, religione, le presenze di Greci in Calabria

seguirono alterne vicende, di cui oggi rimane traccia nelle comunità

grecaniche, in luoghi, memorie, usanze, nella lingua. Il greco di

Calabria, anche grecanico, idioma attivo nella minoranza linguistica

greca d’Italia, era parlato in determinate parti della Calabria

Meridionale fino ai secc. XV e XVI e secondo alcuni studiosi

potrebbe avere una matrice ellenistico-bizantina, e per altri, basti

pensare a Gerhard Rohlfs, il grande “Maestro di Grecanico”, essere

discendenza del greco parlato nella Magna Grecia, conservando

parole sconosciute che potrebbero risalire finanche al periodo

dorico. Il grecanico sopravvive ed è ancora parlato, specie dagli

anziani, pur se in una dimensione familiare, a Bova, Chorio di

Roghudi, Roccaforte del Greco, Gallicianò di Condofuri che

comprende nel suo territorio la maggior presenza di parlanti la

lingua greca di Calabria è per questo è considerata l’” Acropoli”

dell’area, mentre Bova ne è la capitale e Motta S. Giovanni ne è la

porta d’accesso.

Tratti comuni si ritrovano nei vari riti natalizi conservati nella

memoria ed alcuni ancora praticati, comunque da mettere in

relazione con l’importanza che canto e danza hanno per le

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Calò Christòjenna

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comunità grecaniche, tanto da scandire gli avvenimenti importanti

della vita, ed intesi come mezzi di comunicazione, socializzazione

ed occasione, in particolare per la danza, di mostrare destrezza e

capacità per gli uomini, garbo nel portamento e bellezza del corpo

per le donne.

Varie sono le rappresentazioni dei presepi viventi: a Bova, nel

Borgo di Pentedattilo ed a Bagaladi, dove, da segnalare

particolarmente, ogni anno, dal 26 dicembre al 6 gennaio si tiene

la rappresentazione di uno splendido presepe composto da oltre

200 figuranti, esteso per tutto il paese ed arricchito da musiche

natalizie eseguite con ciaramelle, organetti e tamburelli,

unitamente ad esposizione di vecchie usanze artigiane e contadine

e degustazione di pane caldo, frittole e crespelle. In molti paesi, ed

in parte è ancora attivo, sin dai primi giorni di dicembre si

eseguivano nel corso della giornata, musiche di Natale con le

“ciarameddhe” ed ogni giorno, a partire dal 16 dicembre, dalle

quattro del mattino si celebravano messe.

L’usanza delle “ninarelle” ancora presente a Bova ed a Motta S.

Giovanni, con qualche variante nel testo, prevede che nei giorni

della novena, precedenti il Natale, i bambini si rechino di casa in

casa, cantando una novena diversa per ogni giornata, con

l’accompagnamento di uno “strumento” artigianale costituito da

campanelli legati con nastri e lembi di stoffa ad un cerchio di legno,

spesso ricavato da un vecchio setaccio (crivo). I testi delle ninarelle

sono semplici ed armoniosi: ad esempio, nel 1° giorno- “Novi iorna

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

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di noveni/ novi iorna di diurnati/ e li diuni chi faciti/ oh a Maria ‘nci

prusintati”; nel 2° giorno “Sutta un pedi di nucilla/ c’è na bella

nachicella/ pi ‘nnacari lu bambinu/ oh San Giuseppe e San

Giacchinu/; nel 7° giorno, riferita alla “luce” “Luci, luci bella stella/

pi la via di Galilea/ l’angiuleddhi sunnu partuti/ oh pi rrivari lu

Messia”; nell’ultimo giorno: “Chi ‘iurnata d’alligrizza/ tuttu u

mundu è cuntintizza/ cuntintizza di pasturi/ pirchì nasciu nostru

signuri”. Alla fine dell’ultima ninarella è previsto che i bambini

posino davanti alle case i tamburelli con la richiesta di doni (noci,

frutti, dolci, qualche soldino).

Altra usanza è quella dei “cathamini” (ogni mese), consistente nella

previsione, osservando le condizioni del tempo, ogni giorno dal 13

al 24 dicembre, di come sarà il tempo nei 12 mesi dell’anno

successivo. La notte della vigilia, dopo la messa di mezzanotte,

rituale ancora presente, molte persone accendono dei pezzi

d’abete, portati come fiaccole per illuminare il cammino, con cui si

va di casa in casa, cantando una “ninarella” ed accettando un

bicchiere di vino, in segno d’augurio. Alle fiaccole possono far

seguito veri e propri falò accesi nelle piazze principali, contornati

da canti e danze. La mattina di Natale, consuetudine prevede che

i bambini si rechino in visita presso i nonni ed i padrini per far loro

gli auguri, recando con sé le “cirmùddhe”, sacche da riempire con

i doni ricevuti.

Le varie usanze citate sono state oggetto di un meritorio progetto

di recupero dei beni culturali del paese, organizzato dal Comune e

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Calò Christòjenna

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dall’Associazione Proloco di Motta S. Giovanni con la collaborazione

dell’allora Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, in

Reggio Calabria, dal titolo “Dicembre all’Antiquarium”, svoltosi dal

13 al 28 dicembre 2014, presso l’Antiquarium di Leucopetra.

Altra usanza, ancora presente in alcuni luoghi è la sfilata, per le

strade di vari paesi, nel giorno di Natale, di pastori, annunciati dal

suono di campanacci e tamburi, insieme alle proprie capre, mucche

e con asini al seguito, bardati a festa, per chiedere, bussando alle

porte delle varie case, qualche dono (cibo, dolci, soldi) che, chi

desidera, pone nelle ceste di vimini legate, quale soma, sugli asini.

Il pasto della vigilia, nel ricordo della tradizione, è ricco di pesce,

dolcetti fritti con impasto di patate, frittelle lievitate e fritte nell’olio

con acciughe e zucchero a Motta S. Giovanni; la “carni di poveri”,

“i ciciari zukkarati” con procedimento di cottura nella sabbia per

essere, ancora caldi, avvolti nello zucchero, le “zzippùli” (Zeppole)

e i “curùnesci”, frittelle di pasta dolce, a Condofuri; i “pretali”, dolci

con fichi, mandorle, noci, miele e vino cotto, la “pignolata” e i

Preparazione dei "Pretali" "Pretali"

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

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“nacatuli” a Bova (e non solo) ed ovunque abbondanza di

mandorle, arance, fichi, fichi d’india.

Il periodo natalizio e la vigilia sono naturalmente allietati da canti,

tra i quali, diffuso in Calabria, con precise attestazioni nel reggino

(S. Martino di Taurianova, Laureana di Borrello), nel vibonese (Vibo

Valentia, Dinami, Tropea, S. Onofrio) e nel catanzarese

(Guardavalle), recante alcune varianti testuali, è “Allestitivi, cari

amici”, dolce ed armonioso: “Allestitivi, cari amici,/ che su Jorna di

Natali,/ o chi festa, o chi trionfali/ gloria Patri!”, “Risplendenti chi

siti a li Celi/ risplendenti chi siti a la grutta,/ risplendenti pe’ ll’aria

tutta/ ch’è maiestosa”. E che dire della disarmante semplicità di un

canto tramandato in Aspromonte “A mezzanotti nesciu nostru

Signuri/ scuru ca facie ‘nta ‘na gruttella/” ed in altra strofa “n’

Angiulu di lu Celu scindiu’nterra/ e cantau lu nostru Ddiu la

ninnarella”.

Il nostro grande conterraneo Corrado Alvaro affermò, riferendosi

all’Aspromonte, “E’ una vita alla quale occorre essere iniziati per

capirla, esserci nati per amarla, tanto è piena, come la contrada,

di pietre e di spine”, percepibile, per chi ne è all’esterno, nel senso

di pienezza e fierezza impresse in cose, persone, natura. Ed è

proprio su tanta pietra, su tanta spina, che arriva dolcissimo il

Natale, aiutandoci a ritrovarci e riconoscerci in memorie e

gestualità comuni, con la levità di un’Immensa Luce, che,

strappandoci alla freddezza del buio, illumina il mondo.

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Calò Christòjenna

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Bivongi (RC) – Monastero di San Giovanni Theristis

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

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Natallet për Arbёreshët

a cura di Maria Luisa Albamonte

A partire dalla seconda metà del ‘400 ci fu una notevole

immigrazione di albanesi verso le regioni meridionali, sollecitati da

Alfonso I d’Aragona, che si serviva di questa popolazione, costituita

per lo più da soldati di ventura, per rafforzare le proprie truppe. E’

con l’arrivo di Giorgio Castriota Scanderbeg (Gjergj Kastrioti

Skënderbeu in albanese), in aiuto degli Aragonesi contro gli

Angioini, che il fenomeno assume notevole rilievo. Molti dei soldati

giunti al suo seguito, decisero di stabilirsi sulle nostre terre e

soprattutto dopo la morte di Scanderbeg nel 1468, quando le forze

dell’Impero Ottomano presero il sopravvento, gli Albanesi

preferirono l’esilio alla servitù. Questo spiega come l’esodo verso il

Sud della nostra penisola non fu una emigrazione di gruppi

sbandati e disorganizzati, ma un vero e proprio trasferimento di

una popolazione decisa a conservare i propri caratteri culturali e

religiosi. Caratteristici e originali, gli arbëreshe costituiscono

ancora oggi, un patrimonio antropologico-culturale e architettonico

urbanistico molto ricco.

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Natallet për Arbёreshët

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L’evento centrale del ciclo delle festività invernali è il solstizio

d’inverno, che segna il momento del ritorno del sole, presupposto

della rigenerazione periodica della natura, che culmina nella

primavera. Per questo motivo esso fu celebrato da tempo

immemorabile da tutte le religioni e reinterpretato

successivamente dal Cristianesimo come Natività di Gesù Cristo,

luce del mondo.

La maggior parte delle ritualità folkloristiche di questo periodo, che

conservano tracce di culto religioso e festeggiamenti antichissimi è

concentrata per gli arbëreshe intorno al Natale.

Gli Italo-Albanesi di Calabria della Eparchia di Lungro, Diocesi della

Chiesa Cattolica, di osservanza bizantina, si preparano alla festa

della nascita di Gesù Cristo, con un periodo di quaranta giorni,

chiamato Quaresima di Natale, che inizia il 15 novembre e si

conclude il 25 dicembre.

Le ufficiature liturgiche di questo periodo presentano, con forme

letterarie belle e nello stesso tempo contrastanti, una serie di

personaggi e di figure che riepilogano l’attesa fiduciosa e la miseria

dell’umanità. La preparazione della celebrazione dell’evento si

intensifica nelle due domeniche precedenti il Natale. Gesù, Figlio di

Dio, per incarnarsi non disdegna la meschinità umana, non crea un

corpo nuovo, speciale, ma prende il corpo medesimo dell’uomo,

infirmato nel peccato e assoggettato alla morte.

In questo tempo liturgico gli inni presentano la Vergine Maria che

si dirige verso la grotta per partorire, Ella invita la terra tutta a

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

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coinvolgersi nella danza della festa per la bellezza che avrà

l’umanità redenta.

Dal 20 dicembre iniziano i giorni della proeorthia (pre-festa) e la

preparazione diventa più intensa in tutti gli uffici della preghiera e

si canta nell’antica lingua greca il tropario: Preparati, o Betlemme,

a tutti si apre l’Eden; esulta o Èfrata, poiché nella grotta sta per

fiorire dalla Vergine l’albero della vita. Il di lei seno appare come

un giardino spirituale, nel quale germoglia il frutto divino, e noi

mangiandone vivremo e non morremo come Adamo. Cristo nasce

per rialzare la decaduta immagine dell’uomo.

La vigilia della festa è caratterizzata dalle “Grandi Ore”, uffici

speciali che si ritrovano solamente alla vigilia dell’Epifania e il

Venerdì Santo e che solennizzano ulteriormente il tempo

dell’attesa. Si continua con il Vespro e la Liturgia di San Basilio.

Tempo di attesa e di digiuno, per prepararsi al degno incontro con

la Luce che illumina, l’acqua che toglie la sete, il cibo superiore ad

ogni altro cibo, per ricevere il quale si è disposti a rinunciare a

qualsiasi cosa.

Gli inni della festa, nella esecuzione e nell’ascolto del canto

(kalimere), uniscono i fedeli nella preghiera degna da elevarsi a

Dio per la somma misericordia e trovano completamento nella

iconografia del Natale.

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Natallet për Arbёreshët

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Chiunque si avvicina all’icona del Natale o canta gli inni di festa

viene invitato a rendersi partecipe dello stupore e della gioia degli

angeli, piegando la mente, con umiltà, come i magi, di fronte a ciò

che la mente ritiene impossibile e ad unirsi al canto di gioia dell’inno

Natività – Icona della Chiesa Santissimo Salvatore in Cosenza

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

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natalizio: I Ghènnisis su, Christèo Theòs imòn, *anètile to kòsmo*

to fòs tis gnòseos; *en aftì gar i tis àstris latrèvondes *ipò astèros

edhidh°skondo *se proskinìn* ton Ilion tis dhikeosìnis, * ke se

ghinòskin ex ìpsus * Anatolìn. Kìrie, dhòxa si. (La tua Natività, o

Cristo Dio nostro, fece spuntare nel mondo la luce della verità. Per

essa infatti gli adoratori degli astri vennero ammaestrati da una

stella da adorare Te, sole di giustizia, e a riconoscere Te aurora

celeste; o Signore, gloria a Te).

Le feste tradizionali tendono a scomparire, facendo sì che con loro

scompaiano in molti paesi arbëreshe, anche le feste religiose,

tradizioni profane e i canti a esse legati. Si può comunque dire che

presso gli albanesi d’Italia, la maggior parte delle usanze annuali

hanno valore sia dal punto di vista teologico che popolare. Le

cerimonie si succedono secondo il calendario solare. Presso molte

comunità arbëreshe sopravvivono ancora oggi riti particolari che il

popolo tuttora rispetta.

Il Natale richiama alla riconsacrazione degli affetti e dei legami ed

è il momento in cui il popolo si abbandona più liberamente alla

frivolezza.

Gli Albanesi d’Italia sono ricchi di tradizioni popolari oltre che

religiose; si rivivevano e si rivivono per l’occasione antiche usanze

tramandate da secoli, tra cui quella di imbandire la tavola avendo

cura di offrire ai commensali non meno di tredici pietanze,

probabilmente in riferimento alla cena degli apostoli.

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Natallet për Arbёreshët

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A San benedetto Ullano si usa preparare dei pani che raffigurano

pupazzetti in curiosi atteggiamenti rappresentanti Capodanno e

l’Epifania (Kapudhani e Befania). La sera della vigilia nei paesi della

zona del Pollino si metteva ad ardere nel camino un grosso ceppo

(Kucari) che si era conservato per l’occasione. Ma in quella sera

bisognava lasciare la mensa imbandita, perché si credeva che Gesù

visitasse la casa.

A Frascineto, nell’ebbrezza della festa i fanciulli solevano cantare:

“La notte di Natale galli e galline vanno per danze” e si credeva che

non solo gli animali parlassero, ma anche gli alberi fiorivano e

davano frutti, che scorrevano dai fiumi olio, miele e le fontane e gli

oggetti mutavano in perle e oro. A San Benedetto Ullano, Santa

Sofia, Caraffa di Catanzaro, Pallagorio, la vigilia di Natale la piazza

principale del paese diventava il focolare di tutti (Vatra Katundit),

intorno al quale, dopo la cena, la comunità si riunisce per aspettare

tra canti e balli la messa di mezzanotte. Tutti i paesani

concorrevano a dare un po’ di legna dalla propria riserva affinchè

il fuoco riuscisse bene. La sera della vigilia verso le sei in chiesa si

radunava il popolo per la celebrazione del vespro con la lettura del

vecchio testamento che predice la nascita del Redentore. Uscendo

dalla chiesa si dava fuoco alla grande catasta di legna; attorno a

esso, dopo il cenone si radunavano Karramunxa e tamburelli.

Secondo la credenza popolare il fuoco veniva acceso per il Bambino

che nato in una fredda mangiatoia si sarebbe riscaldato con il

fuoco, che assumeva un sacro significato. Anticamente si andava

a raccogliere la cenere e si conservava nelle case, poi quando si

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

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scatenava qualche tempesta che poteva rovinare la campagna la

si spargeva per aria e la tempesta sarebbe dovuta cessare.

A Caraffa il fuoco veniva acceso verso le 22,00 e i balli e i canti

intorno a esso andavano avanti fino all’alba, tanto che per i tre

giorni consecutivi l’area intorno al fuoco simbolo del mutare delle

cose, diventava il centro della vita del paese.

A Falconara si formava un corteo che a lume di candela con in testa

gli zampognari si dirigeva in chiesa, spari di fucili completavano lo

stupendo spettacolo folkloristico.

Un’altra consuetudine è quella di prendere nota, dal 13 al 24

dicembre, delle condizioni climatiche; ogni giorno equivale ad un

mese dell’anno successivo corrispondente alle condizioni

metereologiche che si sono verificate in quei giorni.

La tradizione culinaria presso gli arbëreshe, durante il periodo

natalizio, prevede la preparazione di dolci: krustulë, kanalleta,

bukunote, petulla.

Anche l’Epifania viene festeggiata con la stessa solennità del

Natale, resistono ancora antiche usanze: durante la notte

dell’Epifania bisognava, secondo le credenze popolari, pensare

anche agli animali che erano nelle stalle e dar da mangiare anche

a loro, perché potevano parlare come racconta una leggenda, nella

quale si narra che un uomo a mezzanotte passò vicino a una stalla

e sentì le bestie che si lamentavano per il modo in cui le aveva

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Natallet për Arbёreshët

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trattato, ma solo per averle ascoltate, durante la notte sarebbe poi

morto.

Nella maggior parte delle comunità arbëreshe l’Epifania ripropone

il battesimo di Gesù, dopo la messa era ed è consuetudine recarsi

in processione verso la fontana pubblica per la benedizione

dell’acqua da parte del sacerdote.

Chiesa del Santissimo Salvatore - Cosenza

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

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Bon Deineal!

a cura di Nicla Macrì

Natale è storia di luce, stelle, cielo. Dal cielo, imprendibile, non

assoggettabile a misurazioni spaziali e temporali, così sfuggente a

criteri di quantificazione e materializzazione, si muovono immagini,

sensazioni, comunicazioni che mirabilmente ed inaspettatamente

accostano e fondono pensieri, percezioni, idealità, nutrimento della

sentimentalità umana. Dal cielo, prorompente ed avvolgente

provengono segni, elementi, colori che paiono trasferire,

“sottrarre” a tanta potente rarefatta evanescenza, il Natale,

magico, sacro, divino per trasferirlo e consegnarlo alla terra, agli

uomini.

Natale è evento di luce. È preceduto nel calendario gregoriano dalla

Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, ricorrenza che

fa da battistrada alle festività natalizie, giorno in cui nelle case si

dà inizio all’allestimento dell’albero e del presepe ed alla

preparazione di tipiche pietanze che si riproporranno anche per la

vigilia natalizia. È anticipato da quella che è la vera e propria porta

aperta sui festeggiamenti natalizi, legata al solstizio d’inverno del

calendario giuliano, la festa di Santa Lucia Vergine e Martire che

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Bon Deineal!

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ricorda la Santa, martorizzata con l’asportazione degli occhi e la

decapitazione, protettrice, a pieno titolo, della vista, oggetto di

grande devozione, al centro di riti assai diffusi, tutti convergenti

nel celebrare la luce, segno di vita e rinascita. Si pensi alla Svezia

dove la Santa è reputata la “Regina della Luce”, considerato che il

13 dicembre, data della ricorrenza, segna il ritorno della luce, nel

superamento del giorno più corto dell’anno, ed è salutata con

processioni guidate da ragazze che impersonano Lucia, e affollate

da bambini, tutti rigorosamente vestiti con tuniche ed abiti bianchi,

con in mano candele accese e con corone di candele elettriche

poste in testa; si pensi all’imponente processione della statua

argentea reliquiario della Santa, a Siracusa, sua città natale,

sorretta da fortissima vibrante partecipazione popolare e costellata

da accensione di ceri e fuochi d’artificio, e si pensi anche alle

singole espressioni di devozione sparse per varie città italiane, tra

cui la nostra amata Cosenza, dove per l’intera giornata del 13

dicembre vengono celebrate messe ed accese candele in segno di

ringraziamento, nella piccola chiesa dedicata alla Santa, ubicata in

un vicolo del centro storico. Ed ancora antesignano del Natale è,

non a caso, il solstizio d’inverno foriero della crescita quotidiana

della luce e del progressivo lento accorciarsi e sfinire del buio.

Su tutti questi eventi prorompe la vivida luce della cometa, la stella

di Betlemme per indicare la nascita di Gesù, annunciata sempre da

una creatura celestiale, l’Arcangelo Gabriele. Luce, contro le

tenebre, del manifestarsi agli uomini del bambino scansato a

ricerche affannose e vicende drammatiche, il figlio di Dio, luce –

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

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guida dell’umanità che adulto, rivelerà <<Io sono la luce del

Mondo, chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce

della vita>> (Giov., 8,12), <<Finchè sono nel mondo, sono la luce

del Mondo>> (Giov. 9,5).

Natale avvolge con la sua grande luce la storia, il mondo che ne

mutua ed assorbe significati, miscelandoli con riti e culture

provenienti dalle più ampie latitudini. La Calabria, con la sua

grande comunità cristiana, ricca di variegate bellezze naturali, così

spiccate e copiose, tali da conferirle, tra le altre, una dimensione

potentemente spirituale, non poteva non essere luogo di

attenzione, accoglienza, celebrazione del Natale con riti ed usanze

che risentono di energie comuni che popolano il pianeta, che si

accostano, incontrandosi, a volte scontrandosi, per ritrovarsi e

riconoscersi in gestualità, movenze, parole, un’altalena della

memoria - immagine. Ad un’osservazione attenta si nota come riti

ed usanze natalizie (e non solo) delle minoranze etniche e

linguistiche presenti nel nostro territorio regionale, tra cui la

comunità occitano valdese di Guardia Piemontese, in provincia di

Cosenza, si siano armonizzate con quelle della popolazione

calabrese.

I seguaci del Valdismo, movimento di pensiero e religioso così

denominato, secondo tradizione, da Valdo di Lione,

rappresentazione simbolica di una continua “fuga in Egitto”, ebbero

sorte assai travagliata. In contrasto con la Chiesa Cattolica, e per

non essersi attenuti al divieto di predicazione evangelica, furono

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Bon Deineal!

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scacciati da Lione e cercarono riparo tra la Francia meridionale e

l’Italia Settentrionale, in Lombardia e Piemonte, nelle valli alpine di

Chisona, Pellice e nella Val d’Angrogna ed in seguito, per ovviare a

situazioni d’impoverimento, si spinsero in Puglia ed in Calabria: S.

Vincenzo La Costa, Rose, Montalto Uffugo, Guardia Piemontese,

“La guardia” che da loro estese la denominazione in “Piemontese”

furono le località in cui si stabilirono dedicandosi ad agricoltura,

pastorizia, eccellendo nell’arte della lavorazione di seta, lana,

cotone, canapa e ginestra. A Guardia, cittadina gemellata dal 1981

con il comune di Bobbio Pellice, in provincia di Torino, di forte e

nutrita presenza valdese, fu attuata la tragica strage del 5 giugno

1561, ricordata, a perenne memoria, dalla Porta del Sangue, non

certo la prima cui furono sottoposti i Valdesi in secoli di cruente

persecuzioni a loro danno.

Porta del Sangue

Guardia Piemontese (CS) (Archivio Storico Fotografico, SABAP-CS)

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

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L’asse ideale Occitania – valli piemontesi - meridione d’Italia è

quindi quello attraverso cui hanno circolato e sono state

trasportate idee, cultura, usanze, avvolte in una comune matrice

intellettuale e religiosa.Provenienti dalla Provenza, mutuati nelle

valli Piemontesi, e tra gli Occitani d’Italia sono riconoscibili riti con

ampi richiami tra loro. La tradizione tipica natalizia occitana

contempla il presepio detto “Betelen” o “Bèlem”, dal nome di

Betlemme. In proposito numerosi ed interessanti gli affreschi sulla

Natività presenti in diverse località delle valli occitane (Sampeyre

in Val Varaita, Marmora in Val Maira), pregevoli opere pittoriche

ricche di simbologia.

La Messa di mezzanotte, risalente al V secolo, è preceduta dalla

veglia, ”contenitore” di rappresentazioni sacre, musica, con antichi

canti sulla Natività, i Novè, riservati inizialmente solo agli

ecclesiastici, ed in seguito diffusi tra la popolazione. Una nota laude

del XVI secolo, cantata e tramandata nella comunità cuneese,

Rielaborazione grafica di un affresco delle valli occitane

raffigurante la Natività

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Bon Deineal!

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recita la gloria della Nascita “Venite lieti pastori/ venite alla

capanna/ a sentire cantare gloria ed osanna/ troverete giacere sul

fieno chi ha creato il cielo e la terra/ alla gioia apriamo il cuore/ il

Natal del Salvatore/ solleciti venite con amore/ nel ciel vedrete

lucente una stella”.

Altra tradizione tipica degli occitani di Piemonte è ricordare

Gelindo, il primo pastore che si narra accorse ad adorare Gesù

appena nato, offrendogli un piccolo agnello: così nelle valli occitane

ed in Provenza un pastore si presenta alla messa di Natale con gli

abiti da lavoro, portando una candela ed un piccolo agnello in

offerta al prete, accompagnato dalla musica di flauti e tamburi. La

cena della Vigilia, opportunità per variare, un’alimentazione che in

altri tempi, in contesti di vita essenziale, si articolava in maniera

piuttosto scarna, è abbondante, a base di “maigre” con esclusione

della carne rossa, prevede “lo merluç”, e “lo capon” un tempo

preferito dai nobli e dai ricchi e “las binhas abo la crama, o lo pan

de farina de melha pastandeaa abo lo lach e qualque grana de

fenolh sarvatge”. Ancora nel cibo consuetudini tipiche della

Provenza mutuate nelle valli occitane, con la preparazione dei 13

dolci di Natale, raffiguranti Cristo ed i 12 apostoli, disposti in tavola

contemporaneamente, da assaggiare per scacciare il maligno e

quale segno augurale, a ricordo dei quattro ordini religiosi

mendicanti, a base di noci e nocciole, simbolo degli Agostiniani,

fichi secchi per i Francescani, mandorle per i Carmelitani, uva passa

per i Domenicani, il tutto di corredo alla Focaccia d’Arles, detta

“pompa a l’oil” o “gibassiè”, un pane simbolo del Cristo, simile ad

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

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una ruota a quattro raggi, da non tagliare, ma rompere a mano

come l’ostia. Tutto servito alla fine del “Gros Souper”, pasto magro,

ma abbondante costituito da sette portate, a ricordo delle sette

piaghe di Cristo.

Tra i riti natalizi occitani, le persone anziane ricordano le questue

fatte di casa in casa, sia da poveri che da abbienti, in segno di

umiltà o l’usanza delle donne di filare, tra Natale e Santo Stefano,

un po’ di lana per creare una croce disposta quale adorno sulle

mantelle, benaugurante e protettiva.

In tali varie usanze circola un’emozionalità vicina a quella delle

tradizioni natalizie calabresi: la partecipazione alla Messa di

mezzanotte, la cena della Vigilia con tredici portate ed a base di

pesce ed i “cuddureddi” preparati per l’Immacolata e come pasto

Natale in famiglia

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Bon Deineal!

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diurno della vigilia di Natale; il pane di Natale calabrese, ricco di

decorazioni a strisce ed a croce fatte con l’impasto di farina; i dolci,

come la “pitta ‘mpigliata”, infarcita di uva passa, miele, noci, pinoli;

alla strina natalizia che propone comunque, pur riverente, festosa

e cantata, una richiesta d’accoglienza ed offerta “Senza essere

chiamati simu vinuti/ oi simu vinuti/ ari patruni avia i bon truvati/

chini di gintilizza e curtisia; Sentu lu strusciu di lu tavulinu/di lu

tavulinu/ è u patruni ca pripara u vinu; Sento lu strusciu di la

tavulata/ di la tavulata / è a signora ca porta a suprissata/ è a

signora ca porta a suprissata; Sento lu strusciu di la cascitella/ di

la cascitella /chisti su i guagliuni ca piglianu a custatella/ chisti su

i guaglioni ca piglianu a custatella; Nun è vrigogna si purtamu la

strina/ la strina l’ha lassata nostru Signuri/ la strina l’ha lassata

nostru Signuri”.

Natale favola, ricordo, festa, sacramento, accarezzato dal sottile

filo che abbraccia il pianeta congiungendo sentimenti, idee,

evocazioni comuni a luoghi e persone distanti tra loro, tanto

diverse quanto simili, come la luce, le stelle, il cielo.

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Il Natale nelle minoranze etniche calabresi

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Chiesa di Sant’Andrea Apostolo – Guardia Piemontese (CS)

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