Di alcuni stemmi dell’alto ionio tra portali e pietre minori

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189 LUCA IRWIN FRAGALE Di alcuni stemmi dell’Alto Ionio, tra portali e pietre minori: Canna e il circondario in un’ipotesi migratoria delle maestranze. Se già l’araldica è una disciplina relegata a torto nello spazio delle cosiddette discipline ausiliarie della Storia (e talvolta della già subalterna Diplomatistica), quella del Mezzogiorno ha subìto pure una tendenziale estromissione da parte di blasonari di impianto postunitario che hanno finito per attribuire in modo arbitrario maggiore ufficialità a certo patriziato d’altra estrazione geografica e storica, strumentalmente a un revisionismo in chiave subalpina. La massiccia e ingenerosa minimizzazione nei riguardi del ricco e prestigioso patrimonio araldi- co meridionale ha tra le conseguenze quella di aver messo ancora più in difficoltà i tentativi di ricostruzione storica relativi tanto alle genealogie quanto alla descri- zione artistica degli stemmi. 1 In un quadro siffatto appare quindi temerario cer- care di individuare addirittura filoni di maestranze e scuole artigiane, siano esse riferibili a scalpellini, marmorari o intagliatori. Ci proviamo lo stesso, e con qual- che risultato, partendo paradossalmente dall’estrema periferia della Provincia di Cosenza. Anzi da un brandello di territorio che storicamente ha altalenato nella sua pertinenza ora alla Calabria ora alla Basilicata. Perché se l’attuale territorio di questa provincia corrisponde pressoché fedelmente a quello della plurisecolare Provincia di Calabria Citeriore, è pur vero che il suo ultimo lembo nordorientale si trova attualmente al di là di quella Petra Roseti che ha sempre segnato il confine fra la Val di Crati e la Terra Giordana, indicando perciò l’ingresso in Lucania. La scelta poi ricade proprio su un preciso paese, perché questo ha diritto – ritengo – a una maggiore considerazione: Canna resta per nulla indagata (e non mi correggo: l’aggettivazione al femminile, apposta inavvertitamente, si giustifi- ca in realtà con la parlata locale, che vuole si vada ‘alla’ Canna, che si sia ‘della’ Canna e così via) e la pubblicistica locale è muta, non esistendo neppure una sola monografia sulla storia del paese, e sì che meriterebbe. 2 Altra ragione per aver scelto questo campo d’indagine sta nel fatto che il patrimonio araldico di Canna è stranamente e quasi sfrontatamente superiore a quello di qualsivoglia paese del medesimo circondario. Se escludiamo i paesi più meridionali dell’Alto Ionio cosentino, troviamo comunque ben pochi episodi araldici: non più di quattro nel borgo di Oriolo Calabro (due Pignone e due Giannettasio), 3 poco materiale ad Alessandria del Carretto (tre stemmi della famiglia Chidichimo), pochissimo ad Albidona (altro stemma Chidichimo), 4 nulla a Castroregio e nulla di particolare rilievo a Rocca Imperiale 5 mentre è di proposito che tengo da parte Roseto Capo Spulico, Montegiordano, Amendolara e Nocara, poiché saranno funzionali a ri- mandi successivi).

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Luca IrwIn FragaLe

Di alcuni stemmi dell’Alto Ionio,tra portali e pietre minori:

Canna e il circondario in un’ipotesi migratoriadelle maestranze.

Se già l’araldica è una disciplina relegata a torto nello spazio delle cosiddette discipline ausiliarie della Storia (e talvolta della già subalterna Diplomatistica), quella del Mezzogiorno ha subìto pure una tendenziale estromissione da parte di blasonari di impianto postunitario che hanno finito per attribuire in modo arbitrario maggiore ufficialità a certo patriziato d’altra estrazione geografica e storica, strumentalmente a un revisionismo in chiave subalpina. La massiccia e ingenerosa minimizzazione nei riguardi del ricco e prestigioso patrimonio araldi-co meridionale ha tra le conseguenze quella di aver messo ancora più in difficoltà i tentativi di ricostruzione storica relativi tanto alle genealogie quanto alla descri-zione artistica degli stemmi.1 In un quadro siffatto appare quindi temerario cer-care di individuare addirittura filoni di maestranze e scuole artigiane, siano esse riferibili a scalpellini, marmorari o intagliatori. Ci proviamo lo stesso, e con qual-che risultato, partendo paradossalmente dall’estrema periferia della Provincia di Cosenza. Anzi da un brandello di territorio che storicamente ha altalenato nella sua pertinenza ora alla Calabria ora alla Basilicata. Perché se l’attuale territorio di questa provincia corrisponde pressoché fedelmente a quello della plurisecolare Provincia di Calabria Citeriore, è pur vero che il suo ultimo lembo nordorientale si trova attualmente al di là di quella Petra Roseti che ha sempre segnato il confine fra la Val di Crati e la Terra Giordana, indicando perciò l’ingresso in Lucania.

La scelta poi ricade proprio su un preciso paese, perché questo ha diritto – ritengo – a una maggiore considerazione: Canna resta per nulla indagata (e non mi correggo: l’aggettivazione al femminile, apposta inavvertitamente, si giustifi-ca in realtà con la parlata locale, che vuole si vada ‘alla’ Canna, che si sia ‘della’ Canna e così via) e la pubblicistica locale è muta, non esistendo neppure una sola monografia sulla storia del paese, e sì che meriterebbe.2 Altra ragione per aver scelto questo campo d’indagine sta nel fatto che il patrimonio araldico di Canna è stranamente e quasi sfrontatamente superiore a quello di qualsivoglia paese del medesimo circondario. Se escludiamo i paesi più meridionali dell’Alto Ionio cosentino, troviamo comunque ben pochi episodi araldici: non più di quattro nel borgo di Oriolo Calabro (due Pignone e due Giannettasio),3 poco materiale ad Alessandria del Carretto (tre stemmi della famiglia Chidichimo), pochissimo ad Albidona (altro stemma Chidichimo),4 nulla a Castroregio e nulla di particolare rilievo a Rocca Imperiale5 mentre è di proposito che tengo da parte Roseto Capo Spulico, Montegiordano, Amendolara e Nocara, poiché saranno funzionali a ri-mandi successivi).

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A Canna, invece, tra le quinte di una ridottissima manciata di vicoli si accal-cano ben undici portali di qualche rilevanza artistica, per un totale di ben quin-dici stemmi. Non si spiega altrimenti tale densità di manufatti di pregio, in un borgo tanto minuscolo, se non attraverso l’interpretazione che vado proponen-do. La storia di Canna va sempre letta in stretta connessione con quella di due paesi limitrofi, Rocca Imperiale e Nocara. Ma questa stessa lettura comparata suggerisce una prima considerazione in termini urbanistici. Rocca Imperiale – in perfetto accordo col suo nome – restituisce visivamente l’impianto medievale, con un castello (di notevoli dimensioni e impatto visivo) posto sulla sommità di un colle, in cima a un rovescio di case popolaresche digradanti verso la piana che conduce al mare (un po’ come succede, mare a parte, a Morano Calabro). Nocara, per contro, rimanda all’idea di un vecchio avamposto d’avvistamento, una sorta di accampamento rude, resosi nel tempo stanziale sulla cima di un’ino-spitale scarpata. Nel mezzo di questi luoghi – e dunque, volendo, tra l’autorità, il popolo e la difesa – si pone Canna, che appare subito come qualcosa di diverso, una sorta di appartato buen retiro per la nobiltà e la borghesia locale. Intendo dire che a Canna deve essere successo qualcosa, ed esserci stato quantomeno un momento in cui il paese cominciò ad essere letteralmente di moda, quando pos-sedervi un palazzo con un portale pregiato e possibilmente uno stemma (nonché una cappella privata)6 dovette essere una sorta di status symbol irrinunciabile per il notabilato del circondario.

Eccoci perciò davanti alla sfida interpretativa di questo conforto araldico, e la definisco così perché in alcuni casi i blasoni cannesi (e talvolta i palazzi tout court) si rivelano di attribuzione ardua: a complicare il lavoro sono anzitutto l’as-senza (originaria o successiva, fraudolenta o meno) di uno stemma; il continuo avvicendarsi di passaggi di proprietà; l’uso, da parte della vulgata, d’identificare un fabbricato col cognome degli ultimi proprietari – o di quelli che lo sono stati per più tempo – dimenticando i precedenti (e, soprattutto, quelli iniziali); e, va ripetuto, l’assoluta assenza di una bibliografia non dico specifica ma neppure vagamente attinente alla combinazione dei due temi prescelti, quello simbolico-iconografico e quello territoriale.

A questo punto corre il noioso ma inevitabile obbligo di dare uno sguardo, almeno rapidissimo, alle successioni feudali di cui Canna fu oggetto (curiosa-mente, servirà proprio a notare come – a parte un paio di casi – i vari stemmi di Canna non siano riferibili neppure ai suoi feudatari): allora se i primi intestatari del feudo furono i Tarsia,7 il testimone passò ancora nel medioevo al ramo dei Sanseverino di Senise. Questi, subentrati attraverso parentele con i nobili Di Leo di Nocara, restarono feudatari fino al 1496. Fu poi la volta dei napoletani Loffredo, duchi di Nocara e marchesi di Canna, i quali ne devolvettero l’effet-tiva reggenza amministrativa ai biscegliesi Melazzi (i quali, nonostante i succes-sivi mutamenti di titolarità feudale di Canna, avrebbero continuato a detenere nel paese una posizione sociale ed economica preminente, almeno fino a tutto l’Ottocento e pur essendo divenuti, nel frattempo, baroni delle lontane terre di Pietragalla e Casalaspro). Da allora fu un susseguirsi di varie e rapide successioni: nel 1653 Canna passò (assieme a Nocara) al marchese Girolamo Merlini, il quale diede il feudo in dote a sua figlia Isabella e lo trasferì dunque, nel 1657, al genero Giovanni Maria Calà;8 passerà poi nel 1681 ai Pignatelli, nel 1686 ai Marifeola, nel 1757 ai Carbone, nel 1777 a Giovambattista Osorio de Figueroa marchese di

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Villanova, nel 1781 ai Virgallita e infine ai baroni Toscani.9 Tengo a sottolineare un dato parallelo che servirà nel prosieguo: nel frattempo la vicinissima Rocca Imperiale era divenuta, dal 1717, feudo dei duchi Crivelli10 i cui più devoti servi-tori furono i cannesi Pitrelli che, sul finire dell’Ottocento, sarebbero riusciti ad acquistare a Canna gran parte dei beni degli ultimi eredi Melazzi. Detto ciò, è ora di affrontare i manufatti e, per completezza, preferisco dar conto anche dei por-tali cannesi privi di stemmi, sia perché alcuni ne erano originariamente provvisti, ed è giusto registrarlo; sia perché meritano comunque attenzione.

Benché si tratti del più recente tra i palazzi storici di Canna,11 non può tra-lasciarsi – almeno per la sua imponenza – un accenno al Palazzo Jelpo, privo di stemma sin dall’origine e caratterizzato da un rigido stile neoclassico e da un por-tale incorniciato da due coppie di colonne doriche. Più antico ma ancora non ab-bastanza interessante è il Palazzo Morano, il cui stemma è stato trafugato tempo addietro e le cui uniche informazioni si ricavano dalle incisioni sotto la chiave di volta: costruito nel 1773 e restaurato nel 1827, due timidi mascheroni ne adorna-no la base dei capitelli.12 Ne segnalo però una curiosità che vale la pena non tra-lasciare. Un’iscrizione rozza e piccola, in alto su una parete esterna del palazzo,

ha suggerito un esame più paziente, che mi ha rivelato trattarsi di un frammento del distico di Catone I, 5: “nemo si/ne crimi/ne vivit”, seguito soltanto da un ultimo laconico rigo, “P.[ositum?] 1605” (fig. 1). Non deve sorprendere troppo: fa il paio con quell’altra citazione latina che troviamo a Cosenza, su una chiave di volta nel rione Portapiana, dove viene scomodato Orazio (Odi, III, 3, 8) e il suo verso “impavidu[m] / ferient / ruin[a]e” che il poeta riferiva all’inattaccabi-le rettitudine umana mentre, con tutta probabilità, il committente seicentesco deve aver riferito alle sorti dell’edificio dopo il terremoto del 1638. È un vez-zo dell’epoca questa citazione di classici latini che costituivano una porzione fin troppo ampia nella formazione dei ceti colti.13 Un’altra iscrizione, più antica e altrettanto consunta ai fini di una rapida decifrazione paleografica è quella di una

lapide cannese (ora custodita presso privati) che credo infine di poter sciogliere così: ha[n]c eccl[esi]am f[ieri] fecer[un]t plures [con]frat[res] / […]co ta-rentino de canna a[…] / [sanc]tissimi rocchi s[tatuerunt] a[nno] d[omini] 1529,14 attestante quindi la costruzione, nel 1529, di una chiesa sotto il titolo di S. Rocco, per volere di alcuni frati (fig. 2).

Probabilmente databile al Cinquecento è pure l’arco – bugnato e carico di decorazioni fitomorfe – da cui si accede al piccolo vestibolo scoperto che fa da antiporta al Palazzo Campolongo (poi Pitrelli), in antichità destinato pure ad al-bergo dei poveri e a carcere, e di cui resta l’annessa cappella privata sotto il titolo

Fig. 1 Verso di Catone su una parete esterna di Palazzo Morano (Canna)

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di S. Giuseppe. In verità questo palazzo custodisce pure uno stemma (non un Campolongo) di cui tratteremo più avanti. Altro Palazzo Campolongo è poi quello datato 1872, con trabeazione a fregi floreali.

Pienamente ottocentesco è ciò che resta del portale del Palazzo Ricciardulli,15 inizialmente adibito a convento della Congregazione dei Minori Osservanti e solo in un secondo momento a residenza gentilizia munita di propria cappelletta (con annessa cripta per le sepolture). Sull’ingresso campeg-giava uno stemma raffigurante una testa di leone coronata16 e tuttavia il portale, arricchito da decori vari (cornucopie, volute e teste poste di profilo), è stato deturpato in duplice maniera durante gli anni Trenta del Novecento: murato, per ricavarne un angusto accesso; e poi divelto in parte nell’arco, per aprirvi un evitabile finestrone. Per quanto ci troviamo davanti a un esemplare mutilo, è l’occasione di poter coniare addirittura un termine, perché possiamo cominciare a parla-re di quel ‘modulo cannese’ che tra poco vedremo ripetuto – in maniera assolutamente identica – altre due volte a Canna e altre nove volte in paesi lucani e calabresi (né è detto che il censimento sia completo).

Di fronte al Ricciardulli fa ottima mostra di sé il portale di un palazzo anonimo ma generalmente attribuito alla fa-miglia Melazzi (e ora anch’esso di proprietà Pitrelli) (fig. 3). L’attribuzione può essere accettata, trattandosi del portale più sontuoso e della famiglia locale più importante (almeno durante il periodo in cui questo è stato costruito). Aggiun-go un sospetto, sulla base del fatto che – palesemente – il portale era fornito di proprio stemma (di cui resta ancora il gancio) e che quest’ultimo doveva essere di considerevoli di-mensioni: ebbene l’ultimo Melazzi di Canna muore nel 1859 lasciando una sola figlia. La cospicua eredità fu in parte ven-duta, in parte da costei donata alla sorella di suo marito (non-ché propria cugina), quella Maria Antonia di casa Andreassi, ricca famiglia di Oriolo e di Montegiordano poi stabilitasi ad Amendolara.17 Questa cugina sposò un Blefari di Crosia, e l’ultimo dei loro tre maschi ebbe il diritto di aggiungere al proprio cognome quello dei Melazzi, come succedeva so-vente in seguito a fedecommessi che univano la disponibilità di un’eredità alla garanzia di sopravvivenza del cognome. E allora va aperta un’ampia parentesi e ci tocca spostarci tem-poraneamente ad Amendolara. In questo paese, i palazzi co-nosciuti come Andreassi e Blefari Melazzi si trovano l’uno a gomito con l’altro nella piazzetta di S. Antonio. Il primo è munito al suo interno di ben tre stemmi (a stucco e di pes-sima, omogenea fattura) posti in cima allo scalone interno: un Coppola18 in posizione centrale, un Melazzi19 sulla rampa di destra e – credo – un partito Sanseverino-Andreassi su

Fig. 2 Lapide cinquecentesca, già presso la chiesa di S. Rocco (Canna)

Fig. 3 Portale di Palazzo Melazzi (Canna)

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quella di sinistra.20 Il secondo, per contro, sfoggia un bell’e-semplare dello stemma Melazzi21 (fig. 4). Ma lo sfoggia in maniera forzata, posticcia, incastonandolo su un brutto sup-porto lapideo e in posizione del tutto inconsueta e inadatta al pregio dell’opera: non in cima al portale (peraltro abba-stanza modesto, come tutto il fabbricato) ma di fianco. Il tutto suona piuttosto disarmonico e, inoltre, un discendente del casato ha pure confidato come quello stemma fosse ini-zialmente ‘custodito’ nel palazzo di fianco: i tasselli condur-rebbero al sospetto iniziale e cioè che lo stemma Melazzi del Palazzo Blefari Melazzi in Amendolara sia quello asportato dal Palazzo Melazzi di Canna (e, appunto, temporaneamente custodito nell’Andreassi, esattamente in linea con i suddetti passaggi ereditari). Peraltro, i cartocci dello stemma amendo-larese richiamano perfettamente le volute del portale canne-se.22 Chiusa questa parentesi, torniamo a Canna per dedicarci ai suoi stemmi superstiti.

Non pone gravi problemi lo stemma del cosiddetto Pa-lazzo Favoino. E scrivo ‘cosiddetto’ perché questo cognome non è il più legittimato tra i tre di cui ora dico. Il fabbricato è uno dei più gradevoli, a dispetto dello stato di conservazio-ne: il portale è sormontato da una modesta ma scenografica arcata a tre luci, aperta direttamente sul cortile interno, men-tre i locali abitativi si sviluppano sulla destra (e sulla sinistra campeggia un grosso e particolare comignolo). Inglobata tra i suddetti corpi abitativi vi è anche la cappella, sul cui ingres-so occhieggia la campana che reca fusi su di sé almeno un cognome e una data: Favoino 1787. Ma si tratta soltanto del-la data più recente tra le tre che troviamo: poco più in basso è posta una lapide sulla quale si legge che nel 1779 d. Nicola Pizzi curò che quest’edicola senza rifugio, dedicata a S. An-

tonio, fosse trasferita qui dalla chiesa, in virtù di diploma regio.23 Si potrebbe pensare, anche abbastanza legittimamente, che i facoltosi Pizzi altoionici fossero legati a quelli di Morano Calabro (il cui stemma è simile a quello che campeggia su questo portale)24 ma si sbaglierebbe perché lo stemma in questione è pacifica-mente un Crivelli (fig. 5), sebbene costringa a indulgere in merito a una piccola imperfezione. Si tratterebbe infatti di un “troncato: nel primo (d’oro) all’aquila (di nero); nel secondo inquartato (di rosso e d’argento) al crivello (d’oro) sul tutto”. E l’imperfezione sta nel fatto che, se pur serenamente individuabile, in questo esemplare il crivello è lasciato sospeso su un unico campo vuoto e non sul più confacente inquartato.25 La data incisa sotto la chiave di volta è quella del 1777, dunque la più remota. Ecco forse spiegato anche perché questo Palazzo dei duchi Crivelli (anziché mero Palazzo Favoino) poté vantare del diploma re-gio, di cui sopra, ai fini della sistemazione della cappella.

Col Palazzo cosiddetto Rago si torna al ‘modulo cannese’ e finalmente se ne possono scorgere le fattezze integrali in questo portale del 1846 (fig. 6): alla teoria di cornucopie, volute e profili di teste, si aggiungono qui due festoni fitomorfi uscenti dai fianchi dello stemma nonché, fuori dalla cornice del portale, due piccoli

Fig. 4 Stemma Melazzi (Amendolara)

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mascheroni incastonati nella parete esterna del palazzo. Quanto allo stemma, è uno di quelli di incerta attribuzione e può essere blasonato così: “alla pianta fogliata e fiorita di tre pezzi, uscente da un vaso sostenuto da tre monti moventi dalla pun-ta, e sostenente sul fiore centrale un gallo accompagnato dalle capitali G ed M”. Dunque cos’è questo acronimo? Un nome e un cognome? Viceversa? Un doppio cognome o le iniziali di un motto? Non è dato sapere, e bisogna procedere per ipotesi: ho pensato di indagare tra le rivele del Catasto Onciario di Canna,26 che ci restituiscono un quadro fedele della distribuzione dei cognomi presenti in paese a metà del Settecento. Quelli con la G appartengono tutti a nuclei familiari non parti-colarmente benestanti (compresa quella famiglia Gallo che trarrebbe in errore per la presenza dell’animale nello stemma: un elemento del genere non deve per forza far pensare a una cosiddetta arma parlante). Quelli con la M restituiscono qualche spiraglio in più: escludendo la famiglia Melazzi, di cui già conosciamo lo stemma, restano quattro famiglie di modesta condizione e poi altre due più idonee, ovvero la Mesce – il cui capofamiglia è indicato come giudice a’contratti – e la già citata Morano (e nulla vieta che questo sia un secondo e più recente Palazzo Morano).

Ancora strettamente fedele al ‘modulo cannese’ è il palazzo – sul largo di S. Antonio – appartenuto nel tempo almeno ai Tarsia, ai Troncelliti e ai Bruni: si tratta infatti di una copia conforme del portale precedente (e dunque pure del mutilo portale di Palazzo Ricciardulli). Si ripetono qui anche i mascheroni laterali esterni alla cornice mentre l’unica differenza è individuabile nei festoni,

Fig. 5 Stemma Crivelli (Canna) Fig. 6 Un esempio di ‘modulo cannese’: il portale di Palazzo Mesce o Morano (Canna)

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ora più spioventi e più brevi. Anche in questo caso ci tro-viamo però davanti a un’attribuzione ardua: lo stemma (fig. 7) non è quello, notorio, dei primi proprietari né quello degli attuali, poiché hanno acquistato in epoca infinitamente più recente rispetto a quel 1845 inciso sotto la chiave di volta; e dunque si opterebbe troppo comodamente per i Troncelliti intermedi mentre un po’ di memoria fotografica ha sugge-rito che rimettessi mano a un modesto archivio personale di stemmi calabro-lucani: ebbene ritrovo lo stesso stemma (eseguito certamente finanche dallo stesso scalpellino) sul portale di Palazzo Marcone, a Senise (fig. 8). A dire il vero qualche piccola differenza c’è – ma davvero minima – nei dettagli secondari: quello cannese è “al serpente avvinghiato (in senso antiorario) al fusto dell’albero nodrito su tre monti moventi dalla punta e sostenente un uccello mirante la stella (5) posta nel cantone destro del capo. Il tutto accompagnato a destra da un sinistrocherio uscente dal fianco dello scudo e tenente una bilancia, e da (una vela?); a sinistra da un destro-cherio similmente uscente dal fianco dello scudo e reggente una spada, e da un cannone”. Lo stemma senisese ha invece una stella in più, una pera e un uccello al posto del secondo braccio e del cannone, e il serpente è avvinghiato in senso orario. Dettagli, appunto,27 fatto sta che non vi è traccia di alcun passaggio dei Marcone di Senise a Canna ma, al limite, di un loro ripetuto legame con i Mazzario di Roseto Capo Spulico e con i Rondinelli di Rotondella.28 Ciò è qualcosa ma non è abbastanza per attribuire la titolarità del palazzo ai Mar-cone e, anzi, fa mettere in dubbio anche la titolarità in capo a questi del palazzo senisese: e se il Palazzo Marcone in Senise

fosse appartenuto anche ad altri? Certo è che il cognome dei proprietari intermedi del palazzo cannese, Troncelliti, è presente anche nel circondario di Senise sotto varianti appena diverse ma parrebbe che nessuno di questi rami abbia mai goduto di posizioni sociali che permettessero la titolarità di un palazzo gentilizio. Dob-biamo invece ipotizzare l’attribuzione dell’uno e dell’altro stemma a una famiglia che in quei secoli fiorisse nobilmente in due rami, uno a Canna e uno a Senise. E l’avremmo anche sotto gli occhi, una casata di giuristi, quella “famiglia Persiani di Senise, gentilizia originaria della Terra di Canna”,29 che nel Catasto Onciario di Canna risulta presente con un solo capofamiglia, il magnifico Agostino, dimoran-te – non a caso – in una “casa di quattro membri” nel rione Piazza.30 Dalla sua rivela apprendiamo che il giovane nobile, già vedovo di una nocarese, ha una so-rella maritata con un Barletta: altro cognome presente nobilmente sia a Canna che a Senise.31 Sarebbe papabile anche questo e, a pari probabilità, verrebbe da optare per la denominazione di Palazzo Persiani (non fosse altro per l’evidente ricondu-cibilità dell’ubicazione del portale con la dimora di Agostino) ma non possiamo: lo stemma Persiani è raffigurato – nonché espressamente indicato come tale – su uno degli altari laterali della chiesa matrice di Nocara, ed è del tutto diverso. Non ci resta dunque che optare in via residuale per l’attribuzione alla famiglia Barletta. Ma c’è dell’altro: la pulce dell’analogia tra i due stemmi di Canna e Senise ne ha

Fig. 7 Stemma Barletta (Canna)

Fig. 8 Stemma Barletta (Senise)

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richiamato pure una ulteriore. Palazzo Marcone di Senise non ha soltanto lo stem-ma identico, ma pure il portale: ecco dunque che il ‘modulo cannese’ ha valicato i confini calabri.32 Sarà sufficiente cercarne degli altri e se ne troveranno presto: parlo del portale del Palazzo Donnaperna nella stessa Senise, del Palazzo Rinaldi a Noepoli (1845),33 del Palazzo Guida nella più lontana Tursi,34 del Palazzo Carlo-magno a San Giorgio Lucano (1826) – se non pure, sempre lì, del più complesso portale di Palazzo Silvestri – nonché, in Calabria, del Palazzo de Pirro a Nocara (1825) e del Palazzo Giannettasio a Oriolo Calabro. Una prima traccia, dunque, della mobilità delle maestranze.

Sfiorati gli stemmi nocaresi dei Persiani e dei de Pirro, è opportuno ag-giungere qualcosa in merito al patrimonio araldico di quest’altro paese. Anche Nocara vanta una rispettabile quantità di stemmi, specie in proporzione alle di-mensioni dell’abitato: extra moenia, presso il convento degli Antropici, troviamo sul portale – datato 1538 – un partito Loffredo-Spinelli e un anonimo stemma “all’albero accompagnato ai fianchi dalle capitali N e A” (probabilmente emble-ma embrionale della comunità nocarese sia per la prima iniziale che per l’albero di noce che ne costituisce tuttora l’effige). Tre sono invece gli stemmi degli al-trettanti palazzi gentilizi posti nel borgo: il Persiani (fig. 9) e il de Pirro (fig. 10) – che ho citato poco prima – e un altro per cui azzardo la definizione di ‘pseudo-Persiani’ (ubicato sul portale del cosiddetto Palazzo Miceli, ma che certamente non è stemma di tale famiglia) (fig. 11). Nella chiesa madre troviamo altri due

Fig. 10 Stemma de Pirro (Nocara) Fig. 11 Stemma pseudo-Persiani (Nocara)

Fig. 9 Stemma Persiani (Nocara)

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esemplari dello stemma de Pirro (di cui uno munito di didascalia onomastica), un altro dello stemma Persiani (anch’esso con tanto di cognome segnalato) e un al-tro pseudo-Persiani. E lo chiamo così perché se il Persiani è già di per sé, curiosa-mente, un partito,35 questo pseudo-Persiani gli è molto simile ma non abbastanza per accertarne l’identità. Sparisce infatti uno dei due leoni affrontati all’albero del primo campo, il volatile è ritratto in picchiata e, soprattutto, appare un terzo campo (una casa aperta, finestrata, accostata da alcune rocce, su una campagna) ricavato tramite un’interzatura abbastanza forzata che, se costituisce uno strap-po alle regole araldiche, costringe pure a una contorsione descrittiva: “interzato in pergola centrata rovesciata” mi sembra la definizione migliore, prendendo a prestito il primo aggettivo dalla definizione d’uso per la fascia curvata e non potendo ricorrersi a quello “scaglione piegato” che – a ben vedere – in questi due esempi sembra tanto richiamare un arcobaleno.36 Ancora in questa matrice sono presenti altri due stemmi “d’oro alla banda d’azzurro caricata di tre fiori d’argento accompagnata in capo dal lambello di rosso”, che attribuirei proprio ai Petrone benché debbano essere privi del lambello e muniti di tre stelle nel palo anziché dei tre fiori nella banda.37

Di una variante più stilizzata del modulo cannese può parlarsi invece nel caso dell’unico portale degno di nota nel centro storico di Mon-tegiordano, ovvero quello del Palazzo Pignone del Carretto, poi appartenuto ai baroni de Martino e ora di proprietà Solano. Tuttavia questo portale, datato 1860, è più recente rispetto alla costruzione del palazzo, e forse pure all’aggiunta dello stemma (fig. 12): ho nutrito da subito qualche dubbio sulla sua attribu-zione ai de Martino.38 È vero, lo stemma reca in bella vista una M sormontata da tre stelle (e, per il resto, si tratta di una confusa accozzaglia di elementi minori nemmeno chiaramente interpreta-bili, eccezion fatta per una freccia uscente dal fianco destro dello scudo) tuttavia il rigore dell’araldica non permette conclusioni affrettate. Inoltre notoriamente le nobili famiglie de Martino hanno sempre alzato delle armi ben differenti da questa39 e allora c’è da lavorare attorno ad altri cognomi, magari tenendo a mente la lezione amendolarese, laddove abbiamo visto le pareti di Pa-lazzo Andreassi lasciare il posto d’onore allo stemma muliebre. E questa è la chiave che apre: il primo de Martino a ottenere, nel 1748, il titolo di barone di Montegiordano è Giuseppe, fratello di un Francesco che – nello stesso periodo – sposa tale Nicoletta dei baroni Minieri (famiglia abruzzese di stanza a Napoli). Non si tratta soltanto di un cognome con la M iniziale: lo stemma dei

Minieri è “di rosso a tre punte d’argento moventi dalla campagna d’oro e accom-pagnate in capo da tre stelle (6) dello stesso poste in fascia.”40 E cosa sono tre punte se non il profilo di una ridondante M stilizzata? O, al contrario, da cos’è costituita la nostra M montegiordanese se non da due punte? La presenza, poi, delle tre stelle nella stessa posizione, nell’uno e nell’altro stemma, toglie qualsiasi dubbio. Perché poi il palazzo di Montegiordano non alzasse lo stemma del baro-ne ma quello di sua cognata è altra questione, probabilmente dovuta al semplice fatto che, a quell’epoca, il barone abitava senza dubbio a Cosenza (e forse avrà lasciato a suo fratello l’amministrazione degli affari montegiordanesi).41 Conclu-

Fig. 12 Stemma Minieri (Montegiordano)

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so questo giro di ricognizione sul modulo cannese, torniamo agli ultimi due palazzi di Canna.

Ben più pacifico è lo stemma di Palazzo Toscani (fig. 13), ma non senza qualche sorpresa. Lo stemma Toscani, infatti è soltanto quello visibile nel mezzo del manufatto in oggetto: “all’aquila voltata e coronata, accompagnata in pun-ta da tre crescenti posti in banda” (e di cui sappiamo esistere un esemplare più modesto,42 tra i ruderi della cappella fune-raria dell’omonima famiglia, nel vecchio cimitero abbando-nato di Oriolo Calabro, nonché altri due nella stessa chiesa madre di Canna). Tutt’intorno ad esso troviamo altri quattro blasoni di cui invece dobbiamo discorrere. Nessun problema per i due stemmi inferiori: si tratta chiaramente della fascia dei Sanseverino e dello scaccato dei Tarsia. E ciò si spiega per la stretta ascendenza di questo ramo toscaniano da dette famiglie: Pietrantonio, capofamiglia al tempo delle rivele per il Catasto Onciario, aveva sposato la figlia di Lucio Tarsia e di Angela Sanseverino. Non bastasse ciò, viene in soccorso anche la notizia del ritrovamento – all’interno del palazzo – di un più antico stemma, un secco ‘partito’ Tarsia-Sanseve-rino, con tanto di nome degli sposi posto in calce, risalente probabilmente al matrimonio e perciò al primo quarto del Settecento (fig. 14).43 Il problema si pone invece in modo serio per i due stemmi superiori, che ad oggi risultano osti-natamente refrattari a qualsivoglia attribuzione: il primo è “al calice accompagnato in capo da tre bisanti posti in fascia e in punta da tre stelle (8) pure poste in fascia”; il secondo è “al

leone rampante al fusto di un albero accompagnato in capo da tre stelle (8) poste in fascia e sinistrato da un compasso”. E ci si deve arrendere pur mettendo mano agli alberi genealogici: né il calice né il leone rampante all’albero né il compasso riescono a dipanare l’ascrizione di questi due stemmi ad alcuna delle famiglie avite44 (il secondo di questi ultimi è quello cui ho accennato rapidamente parlan-do del primo palazzo Campolongo poiché, all’interno di un vano posto al piano nobile di questo palazzo, si rinviene un grande e rovinato stemma parietale di identiche fattezze e che tuttavia, ripeto, non mi pare ascrivibile ai Campolongo).

Tratto per ultimo quello individuato generalmente come Palazzo Pitrelli, perché fa da ponte per un discorso conclusivo. Questo gradevole edificio, che ingloba al pianterreno una cappelletta gentilizia,45 è arricchito da un imponen-te portale neoclassico affiancato da due colonne corinzie poggianti su due alti piedistalli. Anche in questo caso la denominazione corrente è però errata, ri-ferendosi ai meri ultimi proprietari. La committenza del palazzo è facilmente individuabile avendo cura d’osservare il principale dei ben quattro stemmi che esso ci mostra. Ma cominciamo dai minori: il meno importante, cui accenniamo appena poiché realizzato in stucchi bicromi, è posto su una volta interna al pa-lazzo ed è “al monte di cinque cime sostenente un uccello accompagnato in capo da tre stelle male ordinate e, a destra, da un crescente rivolto”. Una forte identità possiamo individuarla in uno dei due campi dello stemma Persiani46 e, di conse-guenza, pure nello stemma dei Rondinelli di Rotondella47 benché in quest’ultimo

Fig. 13 Stemma Toscani (Canna)

Fig. 14 Stemma Tarsia-Sanseverino (Canna)

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mancherebbe il crescente, l’uccello sarebbe rivolto e i monti sarebbero posti su una terrazza ondata (ma, ripetiamo, sulle imprecisioni delle raffigurazioni araldi-che potrebbero scriversi degli annali). Problematica è anche l’attribuzione degli altri due stemmi, posti ai lati del principale (fig. 15): il primo è “al fascio di grano posto in palo”, il secondo “al leone rampante con la fascia diminuita sul tutto”.48 Stemmi dunque di una semplicità disarmante: se il secondo, così com’è, senza smalti, è potenzialmente attribuibile a un’eccessiva pluralità di casati, il primo non porrebbe problemi per il fatto di essere inconsueto eppure è taciuto dai blasonari. Deve dunque trattarsi anche in questo caso, come nel Toscani, di altre meno note famiglie imparentate con il committente. E veniamo a lui: nel registro superiore del portale, in posizione centrale, appare infatti un ulteriore esemplare di stemma Crivelli, anche questo – come nel precedente Palazzo Crivelli (poi Favoino) – viziato da un difetto araldico (forse sopravvenuto): in questo caso il secondo campo del troncato è, sì, un perfetto inquartato ma manca proprio il crivello (strano dover pensare che si trattasse di un elemento aggiunto in vario modo al supporto principale, e staccatosi per via di agenti esterni).49

Dicevo che quest’ultimo palazzo di Canna offre l’occasione di affrontare un argomento conclusivo: se è vero che la prima datazione reperibile sul palazzo è

Fig. 15 Stemmi Crivelli (bis) e di parentado (Canna)

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quella posta su una finestra posteriore (p.a.p.f.f.a.d. 1834)50 è anche vero che il portale reca in maniera evidente, sull’architrave, la sottoscrizione del capomastro (pascalis calienno fecit) e, sotto la chiave di volta, una datazione appena suc-cessiva (A. D. 1848). Ma questo nome l’abbiamo letto anche altrove: “m. rafae. e / pasca. calie. / nm / a. d. 1821” è quanto troviamo scritto sotto la chiave di volta di Palazzo Mazzario, a Roseto Capo Spulico (e il monogramma NM sta per le iniziali del committente Nicola Mazzario).51 Attardiamoci un po’ sullo stemma52 di quest’altro palazzo, e torneremo a breve sulle maestranze. A voler essere pignoli, questo stemma non è un Mazzario ma un troncato Reca-Mazzario (fig. 16), e non c’è da stupirsi: le due famiglie – come vedremo rapidamente – si sono intrecciate per secoli. Non è per nulla raro riscontrare l’uso più remoto del doppio cognome Reca-Mazzario (talvolta documentato pure nella forma grafica Recamazzario).53 Certo è che la famiglia Reca54 non si risparmiava complessità onomastiche: a tal proposito è interessante notare come, nell’Oriolo seicentesca, lo speziale Marcantonio Reca o Greca si arricchisse di un secondo cognome, comunemente a quanto accadde ad uno dei suoi fratelli (il sacerdote Carlo) e diversamente dagli altri (in particolare dal fratello Rotilio): i primi due, infatti, aggiunsero al proprio il cognome Bavila, per fedecommesso del dottor fisico Giulio Bavila. Il terzo aggiunse al proprio il cognome Di Paula, per fedecom-messo di Francesco Di Paula dei nobili d’Amendolara (entrambi Giulio e Fran-cesco erano, in maniera differente, zii della madre di questi tre fratelli Reca).55 Il procedimento in questione deve ritenersi verosimilmente uguale per tutti e tre i cognomi composti: Reca Mazzario, Reca Di Paula, e Reca Bavila (o Reca di Bavi-la). Le stesse rivele del Catasto Onciario di Roseto parlano chiaro: sebbene, dalla metà del Settecento in poi, i Mazzario locali abbiano preferito essere identificati con il solo secondo cognome, gli stessi dichiaravano ufficialmente d’esser figli di Giuseppe Reca Mazzario di Noepoli.56 Dunque la blasonatura corretta dello stemma posto sul portale di Palazzo Mazzario è la seguente: “troncato: nel pri-mo (d’argento) all’aquila bicipite (di nero) spiegata e coronata di cinque punte, uscente dalla partizione; nel secondo d’azzurro57 al monte di tre cime sostenente due scettri in decusse e accompagnati in capo da una stella (6). Alla fascia sulla partizione, (il tutto d’oro)”.58 Qualcuno potrebbe pensare che lo scettro tradisca una parentela con la figura araldica della mazza, e che pertanto lo stemma dei Mazzario possa essere anche una cosiddetta arma parlante. Si possono muovere numerose obiezioni: anzitutto la mazza, in araldica, è di solito ferrata; in secondo luogo è da sottolineare come sia incerta l’etimologia balcanica del cognome, per cui al limite si tratterebbe solo involontariamente di un’arma parlante ‘putativa’. Ma l’obiezione principale è altra: l’unica fonte che attesti lo stemma dei soli Mazzario lo segnala appunto come “un’aquila bicipite uscente”59 (cara, peraltro, a tutta l’iconografia d’ascendenza albanese) mentre si può confermare in diversi modi che la parte inferiore dello stemma rosetano è quello della sola famiglia Reca. È il caso di permettersi uno sconfinamento nella diplomatistica pura, poi-ché ho sempre ritenuto sottovalutate le commistioni tra l’araldica e l’iconografia notarile: Guglielmo Greca, notaio di Oriolo rogante in Roseto, nel 1487 usa-va come tabellionato personale non una consueta crux variamente decorata ma qualcosa di assai simile alle chiavi incrociate, attributo sì dei notai apostolici e tut-tavia unite in cima da una sorta di piccolo occhiello (che rimanderebbe alla stella a sei punte posta tra i due scettri)60 e, alla base, dalle ‘mappe con scontri’ proprie

Fig. 16 Stemma Reca-Mazzario (Roseto Capo Spulico)

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delle chiavi, che probabilmente sono state nel tempo deformate nei profili dei tre monti. Detta così sembrerebbe una forzatura logica ma ancora più chiarifi-catrice è la pergamena di laurea di tale Geronimo Greca di Noepoli, risalente al 6 gennaio 1536 e non a caso custodita ancora oggi tra i documenti dell’ultimo discendente dei Mazzario: essa riporta sui margini due riproduzioni dello stem-ma Reca, ovvero “d’azzurro alla fascia sostenente tre monti su cui poggiano due scettri in decusse accompagnati in capo da una stella (6), il tutto d’oro”.61 Ecco ulteriormente spiegate le interessanti notizie già parzialmente fornite dalla Storia di Taranto di De Vincentiis, secondo il quale lo stemma della famiglia Reca di Noepoli era uno scudo a fondo azzurro con fascia d’oro orizzontale verso la base, e su di essa 3 monti d’oro il cui medio sovrastava i laterali, su’ quali s’incrociavano obliquamente due scettri d’oro con sei raggi. Il predetto imperatore [Carlo V]62 avendo riconosciuto lo stemma da 4 generazioni, con apposito diploma l’accrebbe di questi altri segni: in cima allo scudo un fondo bianco e nel mezzo un’aquila bicipite, sormontato da un cimiero con 3 piume una delle quali di oro, un’altra azzurra, e l’altra rossa.63

Chiusa anche questa parentesi, torniamo al portale64 e alle maestranze: pos-siamo attribuire agli stessi Calienno pure il modulo cannese? Oserei una rispo-sta affermativa. Confrontiamo un leone di modulo cannese e uno dei Calienno, ovvero il leone nello stemma di Palazzo de Pirro, a Nocara, e quello sul portale del Palazzo Crivelli bis (poi Pitrelli): la mano è assolutamente la stessa. È quella mano che taglia la criniera in modo netto, dal garrese al petto, che scava oltre-modo l’occhio, che allunga a dismisura la lingua e si fa goffa nell’eseguire gli arti posteriori. Vi si può aggiungere pure – al di là del modulo e dei portali dei Calienno – il leone dello stemma Melazzi di Amendolara (che ci porterebbe per-ciò indirettamente ad attribuire ai Calienno pure l’omonimo portale di Canna) nonché il leone del secondo stemma nell’inquartato cui è accollato il Toscani. Dunque cosa sappiamo di questi Calienno, richiestissimi e abili scalpellini (ma un po’ meno abili disegnatori di leoni)? Abbiamo visto Raffaele e Pasquale fir-mare assieme, nel 1821, il Palazzo Mazzario. E abbiamo visto solo il secondo firmare, nel 1848, il Palazzo Crivelli bis. Fratelli, dunque, più che padre e figlio: da quanto si può ricavare dagli atti dello Stato Civile di Amendolara, Pasquale è meno rintracciabile mentre il nucleo familiare di Raffaele ci pare già abbastanza completo. Egli, scalpellino e marmoraro, nasce a Napoli – da Salvatore – intorno al 1798 e muore ad Amendolara65 nel 186966 (e tra i suoi otto figli non compare alcun Pasquale).67 Ma sono stati loro a portare nell’Alto Ionio i segreti dell’arte? Suppongo di no, e per due motivi: scorrendo gli atti ottocenteschi dello Stato Civile della città di Napoli si nota che i non pochi Calienno sono per la maggior parte servitori, camerieri, domestici, portieri. A parte un cappellaro, uno scarparo e due falegnami, troviamo solo due artigiani indicati con la più sottile definizione di ebanisti: Serafino e Vincenzo.68 Non pare quindi essere famiglia di scalpellini: l’arte sarà stata appresa altrove e forse proprio in Calabria: Raffaele sposa infatti una giovane amendolarese69 nata in una vera e propria stirpe di scalpellini, stret-tamente legati da generazioni a questo mestiere, ovvero quei Fragale – l’omoni-mia con chi scrive è del tutto casuale70 – che per almeno un paio di secoli aveva-no già peregrinato lungo la Calabria Citeriore. E le opere dei Calienno (quando databili) sono tutte successive a questo matrimonio (fig. 17). La giovane è infatti figlia di Francesco fabbricatore, fratello di Domenico fabbricatore, maestro muratore e falegname nato a Castrovillari.71 Nonno di questi due è poi il mastro muratore Giu-

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seppe.72 Ma nel Catasto Onciario di Castrovillari è registrato un singolo ‘fuoco’ fragaliano73 e ciò è notoriamente spia del fatto che il cognome debba provenire da altri luoghi (a pat-to di non voler considerare l’improbabile ipotesi di ripetute generazioni di figli unici). Ritengo verosimile che anche il nucleo castrovillarese abbia potuto avere radici comuni ai ceppi di Altomonte, Malvito e San Marco Argentano/San Sosti, ovvero radici cetraresi. Del resto una certa promiscu-ità tra questi diversi nuclei può essere avallata non tanto per il ricorrere dei medesimi nomi di battesimo ma soprattutto per l’identità dei mestieri svolti: non voglio dilungarmi ma tutti appartengono saldamente al ceto artigiano e, in par-ticolare, si tratta in prevalenza di fabbricatori, costruttori, capimastri e, solo in misura minore, di fabbri, carpentieri e falegnami. A Cetraro, dunque, nell’arco del solo Settecento si registrano con questo cognome un paio di sarti e un solo pescatore contro ben quattordici capimastri: e i loro nomi si rinvengono assai spesso, da quell’epoca in poi, in qual-sivoglia atto notarile cetrarese che abbia a che vedere con compravendite di immobili, poiché questi mastri fabbricatori venivano pure incaricati di compiere le stime sugli edifici. Non è tutto: a due fratelli Fragale furono affidati, nel 1761, i lavori di ristrutturazione della Torre di Rienzo.74 I due erano

figli di Domenico, capomastro come i suoi fratelli Leonardo e Giuseppe.75 E ci avviciniamo a un punto chiave per la storia delle maestranze artigiane: per cono-scere il nome del genitore di questi tre fratelli deve ricorrersi a tutt’altro archivio. Lo ritroviamo, fortunosamente, citato in quello della Curia Arcivescovile di San Marco Argentano.76 Già il fatto che Domenico avesse avuto padrini di battesimo provenienti da Pedace,77 avrebbe dovuto mettere in guardia: il padre è infatti Sal-vatore Fragale Terrae Rogliani il quale, nel 1686, sposa Agata del Trono, dell’omo-nima nobile famiglia cetrarese.78 Cosa avesse spinto il roglianese fino a Cetraro è soltanto ipotizzabile: con tutta probabilità si trattava anche in questo caso di un capomastro, al pari di tutta la sua progenie maschile. E non deve apparire d’ostacolo la lontananza fra i due paesi: la chiesa cetrarese di San Benedetto fu oggetto – ancora nella seconda metà del Settecento – di ristrutturazioni proprio da parte di maestranze roglianesi.79 Del resto, anche il maggiore dei predetti tre fratelli, Leonardo, a metà del Settecento avrebbe dato in sposa sua figlia Brigida a tale Cesare Nicoletta di Rogliano.80

Il ceppo roglianese di questa famiglia di scalpellini muore intorno alla metà del Settecento, come attestato dal relativo Catasto Onciario81 ma risulta esse-re abbastanza antico, evidenziando presenze sin dalla metà del Quattrocento. Anche qui conviene glissare sulla vasta ramificazione più remota e mi limito a segnalare soltanto un paio di ulteriori punti di contatto con l’ambito artigiano: più che a quel fabbro Salvo (o Salvatore) Fraghale,82 mi riferisco a quell’Angelo Antonio Fragale83 il quale nel 1606 riceve, in qualità di mastro fabricatore prattico nell’arte, l’incarico di dividere con la collaborazione di Filippo Arabia una casa di Alfonso e Cola Altomare, sita in Rogliano. Benché non mi sia noto, è del tutto verosimile che anche altri suoi predecessori abbiano svolto la medesima attività:

Fig. 17 Tabella riassuntiva dei manufatti, qui collegati per ubicazione o artefici e muovendo dagli stemmi datati ai non datati, ai non attribuibili e infine al corredo architettonico di impianto riconducibile ai precedenti

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Rogliano è stata notoria culla di maestranze, in ambito scultoreo e architettonico, la cui accortezza ha lasciato testimonianze celebri. Credo, e mi ripeto, che questa sorta di fortunato monopolio artistico debba essere indagato più a fondo, senza tralasciare l’aspetto strettamente genealogico che molto può rivelare di inatteso, e senza temere di spingere lo sguardo verso l’architettura gentilizia di luoghi pe-riferici, solo apparentemente insospettabili.

Note1 Vedi pure un mio breve intervento (raccolto, in questo stesso volume, nel contributo di Antonella Salatino) in merito ai cinquecenteschi stemmi

Lewis di Cassano e Mormanno.2 Vi si stava accingendo il compianto dott. Salvatore Lizzano e dispiace che il suo prematuro decesso non gli abbia consentito di ripetere i pregevoli

risultati già ottenuti nell’altra sua opera, S. Lizzano, Roseto nella storia, Matera 1988.3 A parte questi quattro stemmi (posti rispettivamente su due pareti esterne del castello, sul portale del palazzo omonimo e su una lapide nella chiesa

madre) altri due sono posti extra moenia: un ulteriore Pignone (sulla facciata della chiesetta di S. Maria delle Virtù) e un Toscani di cui diremo più avanti.4 Dei primi tre, quello sull’omonimo palazzo è assai recente, altri due sono a stucchi nella chiesa madre; l’episodio albidonese è invece in ferro battuto,

a decoro di un balcone dell’altro palazzo omonimo. Che gli stemmi possano essere di buon auspicio non è dato verificare. Approfitto però di quest’occa-sione per segnalare una curiosità del genere: lo stemma Chidichimo è descrivibile “d’azzurro al cuore di rosso caricato della gemella di nero posta in banda e accompagnato da due rami d’olivo in decusse”. Tradotto in termini profani, un cuore fasciato: forse nessun Chidichimo aveva mai immaginato che un esponente della loro casata avrebbe brillato, nel Novecento, nel campo della cardiologia internazionale.

5 Laddove si segnalano comunque i palazzi Moliterni e de Pirro (poi Giacobini).6 Sono almeno sei i palazzi cannesi che hanno o hanno avuto cappelle annesse: Toscani, Ricciardulli, Campolongo, Barletta (poi Bruni), Crivelli (poi

Favoino) e Crivelli bis (poi Pitrelli).7 G. Fiore, Della Calabria illustrata, Napoli 1691 ma rist. an. Sala Bolognese 1974, I, p. 248 e B. Candida Gonzaga, Memorie delle famiglie nobili delle province

Meridionali dell’Italia, Napoli 1875, I, pp. 57 e ss.8 J.M. Panarace, Nocara e il suo territorio, Cosenza 1997, p. 59.9 M. Pellicano Castagna, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari della Calabria, vol. I, Chiaravalle Centrale 1984, p. 367.10 V. Manfredi, Rocca Imperiale nella diocesi di Anglona e Tursi, Canna 1996. Sui Crivelli vedi A. Bozza, La Lucania. Studii storico-archeologici, Rionero in Vul-

ture 1888-1889 ma rist. an. Sala Bolognese 1979, vol. II, p. 269 nonché G. Stigliano, Nova Siri nella storia e nella tradizione, st. Scanzano Jonico 1983, pp. 26 e ss.11 Il portale reca la data del 1924 ma un portoncino laterale riporta la dicitura “G.P. 1887”.12 Notizie del sequestro brigantesco ai danni di un Morano di Canna stanno in G. Rizzo-A. La Rocca, La banda di Antonio Franco. Il brigantaggio post-

unitario nel Pollino calabro-lucano, Castrovillari 2002, p. 398.13 Certo, ci si potrebbe chiedere come mai la scelta di quell’assai ambiguo verso di Catone, ma è una curiosità che lasciamo volentieri a entusiasmi

più semplici.14 Ciò che rende ostica la lettura è che tale lapide si presenta involontariamente come un bel compendio delle più svariate brachigrafie latine: dalle

abbreviature per contrazione con lineetta sovrascritta – in ha[n]c e in fecer[un]t – a quelle per troncamento finale con lettere sovrapposte – in eccl[esi]am –, per arrivare a quelle con segni abbreviativi propri (il 9 di [con]fratres).

15 Casata di ecclesiastici di Rotondella.16 Opinione diffusa ma non verificata è che lo stemma di questo palazzo sia tuttora conservato nei suoi locali di servizio, e ce lo auguriamo. Proba-

bilmente possono ricondursi a questo edificio anche le due teste zoomorfe presenti nelle stesse pertinenze private che custodiscono l’ultima lapide di cui ho detto.

17 E di cui è certa una pregressa familiarità con i paesi di Canna e Nocara, per alcuni matrimoni che la legarono a casate di questi paesi (e mi riferisco di nuovo ai Di Leo, ai Morano e ai Favoino). Vedi pure C. Mundo, Il catasto onciario di Montegiordano (1742-43), Cosenza 2013, ad nomen.

18 Che in teoria è “d’azzurro alla coppa d’oro accompagnata da cinque gigli dello stesso, posti 1, 2, 2” ma che una pesante riverniciatura ha qui reso simile a una manciata di conchiglie. L’omaggio ai Coppola, peraltro in tale forma tanto ossequiosa (la posizione d’onore sullo scalone), è dovuto al fatto che nonna paterna della suddetta cugina ereditiera era stata Isabella dei nobili Coppola d’Altomonte.

19 “Ai due leoni controrampanti al fusto di un albero di melo fruttato e accompagnato ai lati da due stelle (8)”. 20 “Partito: nel primo (d’argento) alla fascia (di rosso). Nel secondo alla gru sulla campagna”. In verità, l’animale assomiglia più a un volatile di tipo più

comune che non alla notoria gru degli Andreassi ma, vista la resa generale di questi tre stemmi, non credo sia il caso di porsi eccessivi scrupoli. A supporto dell’ipotesi andreassiana va pure notato che il nostro stemma è accollato alla Croce di Malta e che la famiglia Andreassi era ascritta a quest’Ordine. Per contro, è vero che lo erano pure i Sanseverino ma parrebbe strano se il palazzo di Tizio fosse decorato dagli stemmi di Sempronio, Caio e Mevio meno che dal suo. Quanto all’omaggio ai Sanseverino è forse da far rimontare all’ascendenza sanseveriniana dei suddetti Di Leo. Sugli Andreassi vedi F. Bonazzi, I registri della nobiltà delle province napoletane con un discorso preliminare e poche note, Napoli 1879 ma rist. an. Cosenza 1997, p. 50.

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21 I leoni sono visibilmente linguati, unghiati e dettagliatamente criniti, i frutti sono chiaramente delle mele (per l’arma parlante).22 Analogo stemma Melazzi, ma in marmo, è quello che ritroviamo sull’altra sponda della Provincia di Cosenza, nell’altrettanto periferico paese di

Tortora, e precisamente sul Palazzo Lomonaco Melazzi. Esso riprende esattamente la blasonatura degli amendolaresi, non fosse che per l’albero – reso qui più simile a un palmizio – e per la presenza di un elmo posto di profilo, tra due piume, a cimare lo scudo (i due segni sul bordo inferiore – una P e un monogramma per LM – pongono la committenza in capo a Pietro Lomonaco Melazzi, figlio di Emanuele Lomonaco Cosentino e Vincenza Melazzi, ultima superstite del ramo stabilitosi a Tortora già dal Cinquecento, sui quali vedi R. Liberti, Tortora, st. Bovalino 1999, diffusamente).

23 d[eo] o[ptimo] m[aximo] / aediculam hanc d[ivo] antonio deditam / sine asylo / ex eccl[esi]a regio diplomate transferri / huc curavit / d. nicolaus pizzi a[nno] d[omini] mdcclxxix.

24 “D’argento all’aquila spiegata di nero, posata su di un masso al naturale movente dalla punta”, vedi U. Ferrari, Armerista calabrese, Bassano del Grappa 1971, p. 71.

25 Vero è che il campo inferiore dello stemma Crivelli è di rosso pieno già per F. Castiglione Morelli, De patricia cosentina nobilitate monimentorum epitome, Venezia 1713 ma rist. an. Sala Bolognese 1977, p. 76.

26 Archivio di Stato di Napoli (da ora ASNA), Regia Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Canna, 1743 (da ora C.O.Canna).27 In cima alla pera è posto altro elemento non identificabile.28 Nella seconda metà del Settecento, i fratelli Giuseppe, Clarice e Caterina Mazzario sposarono rispettivamente Vittoria Marcone, Nicola Marcone

e Nicola Rondinelli: questi ultimi due sarebbero diventati a loro volta consuoceri per il matrimonio tra i loro figli Antonio Marcone e Felicia Rondinelli.29 F. Scardaccione-C. Cudemo, Raccolta delle famiglie nobili e notabili di Basilicata tra il XVI ed il XIX secolo, st. Anzi 2005, ad nomen.30 C.O.Canna, cc. 36r e ss. 31 Almeno per la corrente ed errata attribuzione del più antico Palazzo Mandarini, in Senise.32 L’assenza di un piccolo spigolo nell’arco è l’unica differenza del portale senisese rispetto al modulo.33 Addirittura munito degli stessi mascheroni esterni degli ultimi due palazzi cannesi esaminati, e dei festoni spioventi dell’ultimo di questi.34 Per i Guida vedi Scardaccione-Cudemo, Raccolta…, cit., ad nomen e R. Bruno, Le famiglie di Tursi dal XVI al XIX secolo, Moliterno st. 1989, diffusa-

mente.35 Probabile segnale di una pregressa e importante alleanza matrimoniale: i due campi assomigliano molto l’uno allo stemma Melazzi, l’altro allo

stemma Rondinelli benché in Panarace, Nocara, cit., non risulti alcuna traccia di tale ultima famiglia.36 Neppure viene in aiuto scorrere i cognomi nocaresi presenti nelle rivele del relativo Catasto Onciario, vedi ASNA, Regia Camera della Sommaria,

Catasto Onciario di Nocara, 1743.37 Vedi di G.B. Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890, ad nomen.38 Contrariamente a quella, troppo disinvolta, operata da qualche pur volenterosa appassionata locale le cui conclusioni – ipoteticamente anche cor-

rette – non poggiano però su fonti documentate né affidabili.39 V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare italiana, Milano 1931, vol. IV, p. 438 e suppl. II, p. 277, nonché Ferrari, Armerista, cit., ad nomen.40 Per lo stemma Minieri di Napoli, vedi V. Rolland, V. & H. V. Rolland’s Illustrations to the Armorial général by J.-B. Rietstap, vol. IV, London 1967, piatto

CCXV.41 Sul fatto che ancora nel 1756 il nostro barone di Montegiordano dimorasse con i numerosi figli a Cosenza, nello stesso Palazzo de Martino abitato

già nel Cinquecento dai propri antenati provenienti da Pietrafitta, vedi asna, Regia Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Cosenza, 1756, ad nomen e A. Ceccarelli, Cosenza sul finire del XVI secolo, Chiaravalle Centrale 1978, pp. 52 e 68, per le dettagliate fonti cinquecentesche. Fatto sta che a Pietrafitta pure campeggia, isolato su un anonimo fabbricato, un antico stemma “alla fascia merlata sostenente un monte di tre cime accompagnato da tre stelle ordinate in fascia” (vedi I. Pucci, Gli stemmi araldici nel contesto urbano di Cosenza e dei suoi casali, Cosenza 2011, p. 76) ma non sapremo se è davvero quello dei de Martino o una curiosa coincidenza. Delle vicende genealogiche di Giuseppe de Martino mi dovetti occupare in passato durante la ricostruzione di quelle del cogna-to, barone Giuseppe Antonio Monaco, per un lungo scritto tuttora inedito (Spigolature araldiche attraverso le vicende genealogiche e patrimoniali dei nobili Monaco di Cosenza) di cui una editio minor, scevra dai dati prettamente genealogici, è L.I. Fragale, Di un anomalo episodio nell’araldica dell’Archiginnasio: lo stemma Monaco, ne “Il Carrobbio. Tradizioni, problemi, immagini dell’Emilia Romagna”, a. XXXIX, 2013, pp. 103 e ss. Più genericamente, sui de Martino e i Monaco, vedi Documenti esclusivi nommeno del preteso sedile chiuso; ma finanche dell’asserita discretiva, e separazione del ceto de’Nobili da quello de’Cittadini, ms. 5797 della Raccolta Salfi, Biblioteca Civica di Cosenza, pp. 31, 54 e 111.

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42 L’esemplare è più chiaramente “troncato: nel primo all’aquila voltata, con gli artigli poggianti sulla partizione; nel secondo alla sbarra caricata di tre crescenti”.

43 Il palazzo era stato oggetto di studio nel lavoro della dott.ssa marilena Cospito, Il Palazzo e la Casupola, tesi in Storia dell’Architettura, Corso di Laurea in Storia e Conservazione del Patrimonio Artistico, Archeologico e Musicale, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, a.a. 2004-2005 (relatore prof. Ilario Principe), alla quale va il mio ringraziamento per queste e molte altre notizie su Canna. Per gli stessi motivi, altro ringraziamento doveroso va rivolto al dott. Roberto Campolongo.

44 Planco (cognome della madre del predetto Pietrantonio), Coquino, De Ursio, Marini (cognomi appartenenti al ramo della nuora), Miglionico, Vi-vacqua, Colomba, Ramundo, Bonelli e Di Giliberto (cognomi affini ai rami toscaniani più remoti), vedi G. Toscano, La storia di Oriolo. Testo del XVII secolo, a cura di Pina Basile, s. l. 1994.

45 E il cognome Pitrelli si legge pure sulla campana.46 Vedi, ante, a proposito degli stemmi nocaresi.47 Che già citavamo nelle prime note e per il quale vedi G. Montesano, Rotondella e il suo territorio nell’eta moderna, Venosa 1997, diffusamente.48 Travisato per un cinghiale da L. Odoguardi, Alto jonio calabrese, Lucca 1983, p. 253.49 Stabilita l’esatta definizione dello stemma e del palazzo, possiamo aggiungere che per individuare i tre stemmi precedenti è vano pure pensare ai

Marincola – famiglia della consorte del duca Crivelli – il cui stemma è ben altro.50 Probabilmente un “Pietro Antonio Pitrelli fieri fecit, anno Domini 1834”51 Sui Mazzario, vedi L.I. Fragale, Napoli, il Regno e il colera nel 1836, dall’inedito diario di viaggio di Alessandro Mazzàrio, in “Archivio Storico per le Province

Napoletane”, a. CXXXII, 2014, pp. 55 e ss.52 Da circa un decennio trasferito all’interno del palazzo.53 Vedi F. Bastanzio, Senise nella luce della storia, Palo del Colle 1950, p. 282, F. Elefante, Monasteri e Grance nella storia di Senise, s.l. st. 2003, p. 67 e n non-

ché ASNA, Regia Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Senise, 1753 e Archivio di Stato di Potenza, Atti notarili, Distretto di Lagonegro, I versamento (1649-1689), Atti del notaio Giacomo Satriani di Senise, vol. 432, Indice.

54 Tra i più illustri e remoti Reca dimoranti in Oriolo è appena il caso di menzionare Guglielmo, notaio al 1487, di cui diremo poco più avanti; Teren-zio, notaio nel 1523; Lorenzo, notaio nel 1553 e altro Guglielmo, notaio nel 1566, vedi P. Basile (a cura di), Memorie di famiglia. Genealogie e cronache calabresi in Giorgio Toscano. Secolo XVII, Napoli 1996, pp. 156, 180, 182 e 198.

55 Basile, Memorie di famiglia, cit., pp. 87-88.56 asna, Regia Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Roseto Capo Spulico, 1743, ad nomen.57 Laddove non metto tra parentesi il colore poiché, una volta tanto, il tratteggio convenzionale per lo smalto è perfetto.58 “Alla filiera dello stesso. Il tutto timbrato dell’elmo frontale, lambrecchinato e graticolato di undici affibbiature”. Una copia è stata incisa pure, negli

ultimi anni del Novecento, su una lapide marmorea nella cappella funeraria di famiglia, presso il cimitero di Roseto Capo Spulico.59 A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903 ma rist. an. ivi, 1927, p. 205.60 Archivio di Stato di Cosenza (da ora ASCS), Pergamene, doc. n. 545. Benché le note dorsali rechino l’indicazione Julianus Greca, l’inventario dell’Ar-

chivio riporta Guglielmo Greca, nome effettivamente esistito come notaio rogante in quell’anno.61 Pergamena di laurea di Geronimo Greca, datata 6 gennaio 1536, gentilmente fornitaci in lettura dal prof. Andrea Mazzario.62 Nella pergamena del 1536 lo stemma è ancora privo del capo all’aquila bicipite, ragion per cui le quattro generazioni di cui al diploma sono da

computare con un dies a quo da posizionare tra quest’anno e il 1558 (quando Carlo V muore).63 D.L. De Vincentiis, Storia di Taranto, Taranto 1878-1879, pp. 389-391.64 Peraltro, nella sua semplicità, assai simile a quello di Palazzo Camodeca, uno dei pochi di rilievo nel centro storico della vicina Castroregio.65 Ancora oggi persiste il cognome Calienni, tra Amendolara e Roseto Capo Spulico.66 ASCS, Stato Civile, Amendolara, Registro dei Morti, atto del 4 novembre 1869.67 Ivi, Registro delle Nascite, atti di nascita di Mariangela, Salvatore, Francesco, Giovanni, Vincenzo e Maria Domenica Calienno, anni 1824, 1826,

1829, 1832, 1835 e 1840, ad nomen.68 Nati intorno al 1801 e al 1813, quindi probabili fratelli di Raffaele. Ad exemplum vedi ASNA, Stato Civile della Restaurazione, Quartiere Avvocata, atti

di nascita di Francesca Filomena Calienno e Giuseppe Stanislao Pasquale Calienno, 10 dicembre 1845 e 22 novembre 1825.

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69 ASCS, Stato Civile, Amendolara, Registro dei Matrimoni, atto del 22 aprile 1820.70 Queste mie ricostruzioni genealogiche nacquero incidentalmente, durante quelle finalizzate a far luce sulla biografia e la provenienza del canonico

cinquecentesco Pietro Antonio Frugali (tuttora inedite).71 ASCS, Stato Civile, Amendolara, Registro dei Morti, atto del 12 marzo 1844.72 Francesco, Domenico, Leonardo e Vittoria Fragale risultano figli di Tommaso, morto ad Amendolara il 27 marzo 1800 ma nato a Castrovillari

intorno al 1748, da quel Giuseppe lì deceduto il 3 dicembre 1810, vedi ASCS, Stato Civile, Castrovillari, Registro dei Morti, ad annum.73 ASNA, Regia Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Castrovillari, 1746, ad nomen.74 ASCS, Atti notarili, Notaio Giacomo Lattaro di Cetraro, atto del 15 marzo 1761, c. 33v.75 ASCS, Atti notarili, Notai Domenico Picarelli e Benedetto Picarelli di Cetraro, anni 1712, 1717, 1732 e 1743, ad indicem. Gli stessi Leonardo, Giusep-

pe e Domenico risultano essere – concordemente alle notizie tratte dai coevi atti notarili – gli unici tre capifamiglia con tale cognome, ASNA, Regia Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Cetraro, 1743.

76 Archivio della Curia Arcivescovile di San Marco Argentano, Liber matrimoniorum della Parrocchia di San Michele in Cetraro, anno 1686, ad nomen.77 Ivi, Liber renatorum della Parrocchia di San Michele in Cetraro, anno 1701, ad nomen.78 Agata è probabilmente figlia di quel Giuseppe del Trono, sindaco di Cetraro nel 1650, cui spettava la tutela delle fortezze di Cetraro e Fella, vedi F.

Arcidiacono, I La Costa: due paesi, una famiglia, Malvito 2008, p. 47.79 Per l’esattezza si trattò di Nicola Mauro, Vincenzo Piro e Filippo Noto.80 Il cognome roglianese Nicoletta è tipico di altra storica stirpe di mastri fabbricatori ed è quindi probabile che anche questo Cesare si fosse trovato

a Cetraro per ragioni di lavoro, più che per pregresse parentele con i nostri scalpellini.81 ASCS, copia digitalizzata del Catasto Onciario di Rogliano (Marzi e Spani), 1753, nonché Liber animarum del Primicerio della parrocchia di San Giorgio di

Rogliano, 1795, copia fotostatica del ms. originale, custodita presso la Biblioteca Civica di Cosenza.82 ASCS, Atti notarili, Notaio Angelino Altimari di Rogliano, anno 1611, ad indicem nonché Notaio Giovanni Alfonso Dodaro di Rogliano, atti del 14

febbraio 1585, 23 settembre 1585, 27 settembre 1585, 27 settembre 1586 e 26 settembre 1587.83 ASCS, Atti notarili, Notaio Angelino Altimari di Rogliano, atto del 20 agosto 1606, cc. 82r-83v, citato da B. Mussari-G. Scamardì, Artisti, architetti e

“mastri fabricatori”, in Valtieri S. (a cura di), Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, st. Roma 2002, p. 166.