Desktop Art - la Repubblica...lasciato in pace durante le partite di cui una volta ogni scompar-sa...

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DOMENICA 12 APRILE 2009 D omenica La di Repubblica i sapori La sfida colomba-pastiera CORRADO ASSENZA e LICIA GRANELLO cultura Cacciatori e mercanti di libri perduti PAOLO MAURI e FRANCESCO MERLO spettacoli Gli scintillanti palcoscenici del rock GINO CASTALDO e GIULIANO SANGIORGI le tendenze Mobili anfibi, per dentro e fuori AURELIO MAGISTÀ l’incontro Paolo Villaggio, l’uomo che non ride DARIO CRESTO-DINA la società La Pasqua dei rom e di Gomorra MARINO NIOLA MICHELE SMARGIASSI «E se non fai subito il bravo», disse Alice minac- ciosa al suo gattino, «ti metto dentro lo spec- chio, cosa ne diresti?». Quando Lewis Carrol scriveva questo, gli specchi erano ancora dure lastre di vetro argentato, magiche, ma attraversabili solo con la fantasia. Oggi, che ci vuole? Basta allungare la mano (la manina bianca con l’indice puntato in alto) e clic, sei già dall’altra parte, in un altro mondo. Oggi chiunque di noi sa attraversare uno specchio, lo facciamo tutti i giorni, perché la loro diafana superficie s’è fatta davvero, come immaginava il reverendo di Oxford, «morbida come un ve- lo, come una specie di nebbia». Non riflette più quel che c’è di qua, ma quel che c’è di là, il mondo catturato nella Rete. Gli specchi elettronici davanti ai quali passiamo sempre più ore delle nostre giornate sono interfacce, membrane osmotiche tra noi e il mon- do fisico: sono gli schermi piatti o ciccioni dei nostri computer, portatili o mastodontici, ruderi o ultimo grido, di casa o d’ufficio. (segue nelle pagine successive) UMBERTO ECO C i sono delle cose che io non faccio e tuttavia ne ri- conosco l’impatto e il significato sociale. Per esem- pio non uso il telefonino, se non per chiamare i taxi se sono in giro, e per il resto resta lo lascio spento perché il fine primario della mia vita è non ricevere mai messaggi da tutta quella gente che c’è qui in- torno, e possibilmente non inviarne, se non via Repubblica. Ep- pure capisco come questo strumento stia cambiando la vita di molte persone, e in certi rari casi persino in senso positivo. Non seguo abitualmente le partite di calcio se non una volta al- l’anno. Quando non esisteva neppure il telefonino, un cronista ha tentato di disturbarmi mentre ne guardavo una con mio figlio quattordicenne, e il ragazzo ha risposto mirabilmente «papà non può venire al telefono perché sta ascoltando Brahms». L’episo- dio ha fatto il giro delle redazioni sportive e da allora sono stato lasciato in pace durante le partite di cui una volta ogni scompar- sa di presule uso compiacermi se sono giocate bene. (segue nelle pagine successive) Desktop Art Oltre quattromila sono le immagini del proprio pc inviate dai lettori a Repubblica.it Ecco gli sfondi su cui cliccano gli italiani FOTO CORBIS Repubblica Nazionale

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DOMENICA 12 APRILE 2009

DomenicaLa

di Repubblica

i sapori

La sfida colomba-pastieraCORRADO ASSENZA e LICIA GRANELLO

cultura

Cacciatori e mercanti di libri perdutiPAOLO MAURI e FRANCESCO MERLO

spettacoli

Gli scintillanti palcoscenici del rockGINO CASTALDO e GIULIANO SANGIORGI

le tendenze

Mobili anfibi, per dentro e fuoriAURELIO MAGISTÀ

l’incontro

Paolo Villaggio, l’uomo che non rideDARIO CRESTO-DINA

la società

La Pasqua dei rom e di GomorraMARINO NIOLA

MICHELE SMARGIASSI

«Ese non fai subito il bravo», disse Alice minac-ciosa al suo gattino, «ti metto dentro lo spec-chio, cosa ne diresti?». Quando Lewis Carrolscriveva questo, gli specchi erano ancoradure lastre di vetro argentato, magiche, maattraversabili solo con la fantasia. Oggi, che

ci vuole? Basta allungare la mano (la manina bianca con l’indicepuntato in alto) e clic, sei già dall’altra parte, in un altro mondo.Oggi chiunque di noi sa attraversare uno specchio, lo facciamotutti i giorni, perché la loro diafana superficie s’è fatta davvero,come immaginava il reverendo di Oxford, «morbida come un ve-lo, come una specie di nebbia». Non riflette più quel che c’è di qua,ma quel che c’è di là, il mondo catturato nella Rete. Gli specchielettronici davanti ai quali passiamo sempre più ore delle nostregiornate sono interfacce, membrane osmotiche tra noi e il mon-do fisico: sono gli schermi piatti o ciccioni dei nostri computer,portatili o mastodontici, ruderi o ultimo grido, di casa o d’ufficio.

(segue nelle pagine successive)

UMBERTO ECO

Ci sono delle cose che io non faccio e tuttavia ne ri-conosco l’impatto e il significato sociale. Per esem-pio non uso il telefonino, se non per chiamare i taxise sono in giro, e per il resto resta lo lascio spentoperché il fine primario della mia vita è non riceveremai messaggi da tutta quella gente che c’è qui in-

torno, e possibilmente non inviarne, se non via Repubblica. Ep-pure capisco come questo strumento stia cambiando la vita dimolte persone, e in certi rari casi persino in senso positivo.

Non seguo abitualmente le partite di calcio se non una volta al-l’anno. Quando non esisteva neppure il telefonino, un cronistaha tentato di disturbarmi mentre ne guardavo una con mio figlioquattordicenne, e il ragazzo ha risposto mirabilmente «papà nonpuò venire al telefono perché sta ascoltando Brahms». L’episo-dio ha fatto il giro delle redazioni sportive e da allora sono statolasciato in pace durante le partite di cui una volta ogni scompar-sa di presule uso compiacermi se sono giocate bene.

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Oltre quattromilasono le immaginidel proprio pcinviate dai lettoria Repubblica.itEcco gli sfondisu cui cliccanogli italiani

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Autobiografia collettivaracchiusa in un clic

MICHELE SMARGIASSI

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Così permeabili che possiamo davve-ro metterci in castigo il micetto di-sobbediente, volendo. Infatti ce lomettiamo davvero. Il gatto: ecco il reincontrastato dei desktop, il domi-natore dei monitor, il personaggio di

gran lunga più ricorrente su tutti gli schermi. Ilcampione di cui disponiamo è sufficiente per es-serne certi: sono tremilaseicento i lettori di Re-pubblica.it che hanno accettato di mostrare a tut-ti «Il mio desktop», l’immagine fissa che ciascunodi loro ha scelto come sfondo per le lunghe ore dilavoro o divertimento davanti a un mouse e a unatastiera. Quasi certi, perché un dubbio ci assale:che l’autocensura dei partecipanti abbia filtratoed escluso i desktop del desiderio maschile, lenuove pin-up, equivalenti elettronici dei calenda-ri da gommista, insomma gli sfondi che vengonodi scatto coperti da noiosissimi fogli di Excel quan-do passa la collega d’ufficio. Scontando questa so-spetta assenza, comunque i gatti sbaragliano i ca-ni, ma anche i tramonti sul mare, le cime inneva-te, i prati fioriti, le vedute pittoresche. Curioso:compriamo l’attrezzo più tecnologico oggi dispo-nibile e lo tappezziamo di cliché visuali da vecchiacartolina. Dev’essere un bisogno di rassicurazio-ne, di relax, come le musichette chill-out; un mo-do per riscaldare il freddo dei bit (c’è anche un sor-prendente numero di camini accesi, sui desktopdegli italiani). La finestra che ci si illumina davan-ti agli occhi ogni mattina, prima di iniziare il lavo-ro, deve darci un saluto benaugurante. Il desktopè un talismano.

Desktop, nel mondo fisico, è il ripiano della scri-vania, la superficie di lavoro su cui disponiamo, aportata di mano, gli oggetti materiali di un lavorointellettuale. Il loro (dis)ordine è quello delle nostrementi: «È un caos, ma io mi oriento». Nel mondovirtuale, il desktop è tutto questo ma anche qual-cosa di più: è la soglia tra noi e tutto il resto. «Una re-tina esterna» per il guru del virtuale Derrick De Ker-chove: protesi visuale su cui viene a proiettarsi l’im-magine del mondo. Una meravigliosa porta ma an-che un pericoloso buco nero che può inghiottirci. Iproduttori di computer lo hanno capito. E genero-samente ci permettono di «personalizzare» quellospazio di trapasso, mettendo a guardia un’imma-gine votiva e consolatrice (per i più timorosi) o ag-gressiva e seduttrice (per gli avventurosi).

È la nostra nuova porta di casa. I navigatori losanno. Per questo in tanti ci hanno inviato non lapura e semplice copia elettronica della scherma-ta, ma una fotografia della postazione di lavoro,della scrivania reale, di quella porzione dello stu-dio, del salotto, dell’ufficio in cui lo schermo (spes-so gli schermi, due, tre, anche sei affiancati, un ve-ra iconostasi cibernetica) si erge solenne comenuovo tabernacolo per il rito dell’immacolata in-terconnessione. Sono immagini che rincuorano:non ci siamo ancora trasferiti a pié pari nella vir-tualità. Penne, fogli, post-it, ma anche tradiziona-

li foto dei figli in cornice, la piantina grassa, le cia-batte sul pavimento, il sacchetto delle patatine e latazza del tè, peluche e ninnoli sul corpo del pc co-me soprammobili su un comò: lo spazio del lavo-ro è ancora a misura d’uomo, dei suoi bisogni ma-teriali, delle sue fatiche reali (la caffettiera su unfornello da campo: notti insonni per consegnare intempo quel lavoro...). Ma il confine va sbiadendo.L’immagine sintetica sullo schermo tende a man-giarsi il contesto reale. C’è un gatto che sonnecchiadi fianco alla tastiera: ma c’è lo stesso gatto dentrolo schermo (sarà quello, birichino, messo in puni-zione da Alice). Oggetti e luoghi d’affezione, ritrat-ti di amici e di persone care, vengono trasferiti nelquadro luminoso. È l’ambiente reale che inglobal’intruso elettronico, o viceversa?

In tutti i casi quella che affiora ogni volta che ac-cendiamo l’apparecchio è un’immagine nostra,scelta dai nostri sentimenti profondi più che dainostri gusti estetici. Quello del computer, inse-gnano i teorici dei nuovi media, è uno spazio emo-tivamente sovraccaricato. Il rettangolo delloschermo non è come la cornice sul camino, non èun reliquiario di ricordi o una bacheca per le im-magini che ci piace avere sotto gli occhi. È più si-mile a una seconda pelle: una superficie di contat-

to con gli altri. Un’intera generazione è ormai cre-sciuta con questo involucro interattivo addosso,nelle sue disparate versioni: display del cellulare,finestra del gameboy, schermo del pc e del laptop.Sono gli screenagers, neologismo inventato dalmediologo Douglas Rushkoff e prontamente ac-colto dall’Oxford English Dictionary.

I blog dei cyberfanatici sono pieni di dichiara-zioni d’amore passionale per il proprio desktop,perfino di gelosia: «voodoobytesman» per esem-pio racconta che il vero strazio, quando dovette ce-dere il proprio laptop alla figlia seienne, non fu ilmomento in cui lei cancellò tutti i suoi programmie i file d’archivio, ma quando sostituì il suo vecchiodesktop «con un bel cavallo al galoppo. Ho sentitouna fitta al cuore: ecco, il portatile che mi aveva ac-compagnato in tanti viaggi e battaglie non era de-finitivamente più mio». Un pezzo dell’Io, un ricet-tacolo d’identità: «Tanti disinibiti internauti in-viano a repubblica.it la foto del loro desktop, sen-za pudore», confessa «nardi», «io ci ho pensato e ri-pensato, poi ho deciso di astenermi: il mio desktopè una cosa privata».

Sfogliare queste migliaia di immagini fa sentireintrusi, come chi entra in casa d’altri a guardare iletti sfatti e i cassetti in disordine. La disposizionedelle icone tradisce la personalità dell’utente. Al-cuni desktop ne sono interamente ricoperti, alpunto da rendere irriconoscibile l’immagine sullosfondo. Ci sono immagini scelte apposta per la-sciare un angolo di sfondo uniforme in cui poggia-re le icone (il cielo dei panorami, l’ombra di un ri-tratto) che però finiscono sempre per debordare,straripando dove non dovrebbero. E questi sono idisordinati, che lasciano lì dove capita cartelle difile, collegamenti ad applicazioni, il cestino, vec-chi programmi di setup ormai inutili: ci vorrebbeuna colf virtuale che venisse a rassettare ogni tan-to (qualche produttore di software deve averla an-che inventata). All’estremo opposto ci sono gli or-dinatissimi: poche icone, disposte simmetrica-mente, a girotondo, in processione come vagonci-ni, incollate ai fogli di un quaderno disegnato, ap-piccicate come magneti alla foto di un frigo, appe-se ai rami di un finto albero di Natale. Infine, gliorganizzati: con il desktop pulsante di attività au-tomatiche, le previsioni meteo aggiornate, i titolidi Borsa in tempo reale, le ultime news che scorro-no, l’agenda che ti avverte degli appuntamenti.Per tutti costoro l’immagine non è più importantedi una tappezzeria, qualcuno ci rinuncia e lavorasull’azzurro Microsoft in dotazione.

Ma per la grande maggioranza la scrivania vir-tuale non è un piano di lavoro elegante, né una pa-rete decorativa: è una bacheca, un manifesto, unabandiera. Uno spazio enunciativo e identitario. Di-vi del cinema, mostri del rock, eroi della storia, mi-ti politici. Quanti Obama: superano i Che Guevara.Le falci-e-martello scomparse dalle piazze le tro-vate qui. E poi slogan, ironie, raffinatezze grafiche,colpi di genio, ma per chi tutto questo esibire? Laschermologia, neodisciplina che studia le superfi-ci mediali, ci racconta il progressivo restringimen-to del campo: la visione collettiva del cinema, quel-la familiare della tv, quella individuale del compu-ter. Password impediscono che estranei accedanoalle nostre scrivanie elettroniche. «Il mio desktop»è mio come il mio corpo (ecco un desk con la ra-diografia toracica), o come il corpo nudo dell’ama-ta, visibile solo a me. È un’autogratificazione pri-vata, un piacere solitario. Nessun altro può vederelo schermo attraverso cui vediamo tutto: è davverouna finestra a specchio, di quelle che lasciano sbir-ciare solo in una direzione. Ma ne siamo proprio si-curi? I nostri desktop sembrano castelli inaccessi-bili, e invece sono campi di battaglia. Spazi ancoravergini dal mercato, fanno gola alle multinaziona-li del software, che cercano di appropriarsene.Ogni volta che installiamo un programma, quellotenta di piantare la sua bandierina sul nostro scher-mo. La Rete è piena di siti che cercano di vendercio regalarci strepitosi desktop interattivi, magaricon pubblicità allegata. È cominciata la colonizza-zione di un territorio incautamente abbandonatoalla creatività individuale. Speriamo di veder na-scere un Movimento di liberazione dei desktop.

La schermata che s’illuminaquando accendiamo il pc

è la soglia tra noie il mondo virtuale

nel quale passiamo molte oredella nostra giornata

la copertinaDesktop Art

Animali domestici e non (con il gatto al primo posto),ritratti di figli e persone care, paesaggi desiderati e lontaniE poi divi del cinema, mostri del rock, eroi e miti politiciEcco come illustriamo lo sfondo del nostro computer,facendone una bacheca, un manifesto, una bandiera,uno spazio identitario e anche una nuova forma espressiva

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 APRILE 2009

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 12 APRILE 2009

L’INIZIATIVA IN MOSTRA

Una foto di famiglia, uno scatto con l’amicoo la fidanzata, un disegno, una spiaggia tropicale,un cane, un gatto, un pesciolinoL’elenco è una lunga autobiografia collettiva È l’iniziativa Il mio desktop lanciata da Repubblica.ita gennaio: si chiedeva ai lettori di inviare le immagini che usano come sfondo del computer

Oggi sono state pubblicate sul sito centosessantagallerie (oltre quattromila immagini, alcune delle qualiriprodotte in queste pagine). E come era già accadutolo scorso anno con l’iniziativa Le finestre di fronte,un’ampia selezione delle immagini inviate sarannopresentate e mostrate nell'ambito di FotoGrafia,Festival internazionale di Roma (dal 29 maggioal 2 agosto al Palazzo delle esposizioni)

Una rivolta a coloricontro l’anonimato

dell’era digitaleUMBERTO ECO

(segue dalla copertina)

Non annuso cocaina ma sono molto soddisfatto che,annusandone troppa, tanti grandi manager si sianobuttati in speculazioni avventate e ora siano sul la-

strico. Ecco.Ho pertanto riflettuto alla bella esposizione di desktop

che Repubblica mi ha sottoposto. Io ho un desktop pulitissi-mo, ovvero con colore di fondo uniforme, perché ho tanteicone di programmi di diversi che devo essere in grado di tro-vare subito quel che cerco e non potrei permettermi di met-terle ai lati per lasciare al centro neppure un disegno di Raf-faello con dedica autografa. Anche con lo screen saver mi so-no ritirato, dopo molti esperimenti, su quello che mi dà gliorologi con le ore di tutto il mondo, che almeno serve a qual-cosa appena accendo il computer.

Però se molte persone si dedicano a inventare immagini,molte originalissime, per il loro desktop, la cosa deve avereun senso, tanto quanto parlare di calcio, e parlarne magarial telefonino. Così di per sé non avrebbe senso sporcare i mu-ri esterni di casa propria eppure esistono graffitari molto in-teressanti (che però hanno la prudenza di graffitare sui mu-ri altrui).

Farsi un desktop alla cui invenzione si sono dedicati tem-po, fatica, immaginazione e tanta passione vuole dire che,non appena il computer si illumina, noi dobbiamo ritrovarequalcosa di rassicurante, e di nostro. In tal senso il desktoppersonale può essere un modo per reagire all’anonimato acui ci spinge Bill Gates. Lui ci vorrebbe tutti uguali e il desk-top personalizzato sarebbe la nostra risposta rivoluzionaria.

Però ritengo significhi qualcosa di più. Che sia il sostitutodella copertina di Linus, ovvero oggetto transizionale?

Infine si potrebbe pensare al desktop come a una nuovaforma di arte. Ogni nuova tecnologia ha generato la propriaarte specifica, molti artisti avevano persino cominciato apraticare la Fax Art, si pensi ai vari esempi di Computer Art,in fondo nessuno se ne era reso conto ma anche il telefonoaveva generato la propria forma specifica di invenzione ar-tistica, la telefonata poetica sussurrata, la seduzione via tim-pano (o coclea, o labirinto, non so bene), e in fondo una for-ma degenerata dell’arte telefonica è la chiamata del distur-batore notturno in preda a satiriasi.

Ed ecco dunque la Desktop Art, meno effimera di tante al-tre forme artistiche, e al postutto molto — come dire — libe-ra e morale, perché prodotta per un godimento privato e nonper ottenere il plauso delle folle — salvo il caso di concorsonazionale.

E in fondo, non si tratta neppure di qualcosa di insosteni-bilmente nuovo. Dall’invenzione di Gutenberg e sino a par-te del Settecento, i libri venivano venduti a fogli stesi e poiciascuno se li faceva rilegare a proprio gusto. Per non direche, almeno per un secolo, le lettere iniziali si lasciavano inbianco, in modo che il cliente potesse farle miniare dall’ar-tista di fiducia, avendo così l’illusione di possedere ancoraun manoscritto. Amare un libro perché ha una rilegatura edelle iniziali diverse da quelle di tutti gli altri è certamente unpiacere aristocratico (e costoso). Democratico e gratuito èinvece avere invece un computer diverso da tutti coloro cheusano il proprio senza fantasia.

E infine, se qualcuno dedica tempo costruirsi il propriodesktop invece di perdersi in insulse spiate dal buco dellaserratura su You Tube, o addirittura sui siti porno, non è for-se meglio? E il ministro Brunetta potrebbe considerare fan-nulloni anche gli impiegati del catasto che usano le ore d’uf-ficio per farsi un bel desktop?

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la societàAltre Pasque

Al santuario della Madonna dell’Arco, in provincia di Napoli,accorrono a piedi ogni lunedì in Albis migliaia di fedeliIl pellegrinaggio si tramuta in un dramma collettivo,tra furore estatico e superstizione. È solo uno degli antichiriti religiosi che sopravvivono nel nostro Paese,trasformandosi adesso in rappresentazioni postmoderne

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tura che rinasce, diventano una cosa sola.Si chiamano fujenti, letteralmente «i fuggenti»,

questi devoti vestiti di bianco che si struggono peruna Madonna dal volto ferito, forse la prima tra leicone che sanguinano. È proprio la ferita, simbolodi un dolore antico, all’origine di questo culto. Siracconta che il lunedì in Albis del 1500, un giocato-re di palla a maglio (un antenato del baseball), furi-bondo per aver perduta la partita, colpì con la pal-la di legno il volto della Vergine affrescato sotto l’ar-co di un acquedotto romano. Le cronache dell’e-poca raccontano che l’immagine cominciò a san-guinare e il giovane uomo, colto da una frenesia ir-refrenabile, si mise a correre e a saltellare come unposseduto. Era la punizione della Madonna, o al-meno così venne interpretata.

Da allora questa Madonna è ritenuta l’emblemastesso della potenza, e la sua immagine viene spia-

ta e interpretata come un segno celeste. All’indo-mani del terremoto del 1980 nei quartieri popolaridi Napoli si sparse la voce che la bocca della Vergi-ne si fosse contratta in una smorfia. Come un si-smografo soprannaturale che indica una corri-spondenza tra la deformazione del viso e il corru-gamento della terra.

Comincia all’alba del lunedì la lunga marcia deifujenti. Molti partono addirittura la notte. Li atten-dono ore di strada e di fatica sull’antico camminodella penitenza e della speranza. Giunti davanti al-la chiesa, i volti si fanno più tesi. E il pellegrinaggiosi trasforma in dramma collettivo. Quando gli uo-mini vestiti di bianco varcano la soglia della basili-ca e vedono l’immagine della Madonna la loroemozione precipita nei gesti da sempre ripetuti diuna ritualità millenaria. Vinti dalla stanchezza, dal-la tensione e dalla sofferenza cadono in preda a un

La Vergine invocatadai rom e da Gomorra

MARINO NIOLA

BORMIO

I “pasquali di Bormio” sono i carri allegoricidei cinque reparti in cui si divide il centro valtellineseche sfilano la mattina di Pasqua. La tradizioneprevedeva la sfilata di cinque agnelli ornati postisu un carro con un bambino e un giovane,“interpreti” di Gesù bambino e Cristo risorto

FIRENZE

Lo scoppio del carro di fuochi d’artificioe della colombina anima il giorno di Pasquaa Firenze, in piazza Duomo. Il fuoco viene accesodalle pietre focaie che, secondo la tradizione,provengono dal Santo Sepolcro. L’esplosionedei fuochi ricorda l’arrivo della primavera

SANT’ANASTASIA (Napoli)

Corrono, piangono, pregano, grida-no, strisciano, implorano, impreca-no, si gettano in ginocchio e avanza-no fino all’altare. Davanti alla Vergi-

ne risplendente d’oro culmina il concitato e dram-matico pellegrinaggio che porta ogni anno, il lu-nedì di Pasqua, un’interminabile schiera di devotiscalzi al santuario della Madonna dell’Arco, la po-tente signora dei terremoti, la «grande domatricedella natura». Siamo a Sant’Anastasia, sotto la mo-le incombente e minacciosa del Vesuvio. A duepassi da Pomigliano d’Arco dove la Fiat di Mar-chionne produce l’Alfa Romeo GT, cassintegrazio-ne permettendo, e dove l’industria aerospazialeAlenia fabbrica tecnologie per la Nasa. Dal mondocontadino a quello postindustriale. Nel volgere dipochi anni qui tutto è diventato post.

Centocinquantamila persone rigorosamentevestite di bianco arrivano a piedi nudi da tutta laCampania. Sventolano stendardi coloratissimi ri-coperti di banconote, portano sulle spalle ceri datrecento chili, avanzano tra il frastuono dei tambu-ri e cantano antiche litanie. Un fiume candido cheirrompe tumultuoso da un passato lontano e fa tra-cimare sul presente tutta la sua arcaica energia. Fa-cendo cortocircuitare la storia in un blob tutto po-stmoderno. Sottoproletari, precari, contadini,operai, malati, disoccupati, cassintegrati, impie-gati, immigrati, camorristi. Umanità periferiche,vite interinali, che abitano secoli diversi della sto-ria, si trovano tutte insieme a celebrare un rito pa-squale dove la penitenza cattolica e l’esplosionepagana della primavera, il Cristo che risorge e la na-

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 12 APRILE 2009

furore estatico. Molti entrano violentemente intrance, come accadeva anticamente nei templidelle grandi dee mediterranee, e soprattutto inquello di Cibele, la divina signora della fertilità. For-se non è un caso che il santuario della Madonnadell’Arco poggi proprio sui resti del tempio di que-sta dea pagana.

Come in un antico rito di passaggio i pellegrini sigettano nell’abisso del sacro a braccia aperte e congli occhi nel nulla. Così la devozione diventa teatro.

Alcuni intonano un canto lungo e modulato chesta fra il richiamo del muezzin e il grido dei vendito-ri, e che chiama a raccolta tutti i «figli della mammadell’Arco». L’invocazione profondissima e remotasembra risvegliare le ombre mediterranee che nonhanno mai abbandonato questi luoghi, facendo af-fiorare una parentela dimenticata tra culti che si ri-chiamano da una sponda all’altra del mare no-

strum. Dalla Grecia al Nord Africa, all’Andalusia.Mentre da fuori giunge il battito ostinato degli

strumenti che accompagnano le tarantelle e letammurriate, nell’oscurità della chiesa la musicacede il posto al grido. I fujenti urlano i loro mali, illoro dolore, si buttano di schianto per terra e si tra-scinano sulle braccia fino all’altare. Alcuni stri-sciano la lingua per terra. Le madri di Scampia, del-la Sanità, dei Quartieri spagnoli camminano in gi-nocchio portando in braccio i figli malati. I disoc-cupati gridano il loro bisogno di lavoro. Giovanitossicodipendenti implorano di essere liberatidalla schiavitù della droga offrendo alla Vergine si-ringhe d’oro che vanno ad arricchire la imponen-te collezione di ex voto del santuario: migliaia dipezzi dai primi del Cinquecento ad oggi, una infi-nita ricapitolazione di sofferenze patite e di graziericevute. Ci sono perfino i guantoni che Patrizio

Oliva offrì alla Madonna dopo essere diventatocampione del mondo dei superleggeri.

Travestiti e femminielli, capelli biondo platino,entrano in chiesa tenuti per mano dalle loro ma-dri, donne senza età con i capelli dell’identicobiondo fai da te. Ai mille volti dolenti della tor-mentata umanità napoletana si aggiungono, dauna decina d’anni, schiere di nuovi devoti: filippi-ni, srilankesi, polacchi, latino-americani e tanti,tantissimi rom.

Di fronte alla folla ondeggiante, i padri domeni-cani schierati ai piedi dell’immagine sembrano fa-re un debole argine all’impetuosa marea umanache monta verso l’altare. I devoti, alcuni esanimi,altri urlanti, altri ancora irrigiditi da un tremitoconvulso, vengono portati fuori da un efficientis-simo servizio d’ordine.

Uno dopo l’altro, i gruppi dei devoti scorronodavanti all’immagine come un fiume inarrestabi-le, dall’alba fino al tramonto. Quando il rito si av-via alla sua conclusione i pellegrini prendono lastrada del ritorno per riporre i loro stendardi finoall’anno successivo. Molti di essi si perdono tra lafolla della fiera che si svolge nelle vie circostantisciogliendo la tensione del voto nell’animazionedella festa.

Di fatto è una sorta di sacralizzazione della ma-ternità che conduce da secoli tanti uomini e don-ne a chiedere protezione e grazia a quella che essichiamano la «mamma di tutte le mamme». Unsimbolismo materno che dalle matres matutae, leoscure madri di pietra che troneggiano nel Museoarcheologico di Capua, si snoda come una sorta difilo rosso che giunge fino alle “madri dolorose” diquelle periferie dove si comincia a lavorare ad ot-to anni e a sedici si è già espulsi dal mercato del la-voro. E dove ogni madre ha sette spade nel cuore.

Le madri di Scampia, della Sanità, dei Quartieri spagnolicamminano in ginocchio portando in braccio i figli malatiI disoccupati gridano il loro bisogno di lavoro. Giovanitossicodipendenti implorano di essere liberati dalla droga,offrendo a Maria siringhe d’oroche vanno ad arricchirela collezione di ex voto che risale ai primi del CinquecentoDa una decina d’anni gli immigrati sono i nuovi devoti

SULMONA

Una vera e propria rappresentazione sacraa Sulmona, con le statue dei santi Pietro e Giovanniche bussano al portone della chiesa di San Filippoper annunciare la Resurrezione. La statua della Madonna fugge in piazza, scorge il Cristo, si libera della veste nera e scopre un abito verde

CASTELVETRANO

In provincia di Trapani si perpetua la messa in scenabarocca dell’“Aurora”. Le statue di Cristo e della Madonna vengono collocate in due angoliopposti di piazza Duomo. L’Angelo Nunzianteper tre volte fa la spola tra i due finché madree figlio si incontrano allo scoppio dei mortaretti

IN PROCESSIONENella parte alta della pagina,alcune immagini della festadella Madonna dell’ArcoI diversi gruppi e comunitàdi fedeli custodisconouna loro immaginedella Madonna,che il lunedì dell’Angeloportano in processionefino al santuario

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Da sempre i librai del lungosenna parigino hanno alimentato i sognidei bibliofili. E, nell’era degli acquisti online c’è ancora chi, rovistandotra volumi polverosi, va a caccia dell’esemplare raro, della copia firmata

dal grande scrittore o di quella che porta sul frontespizio una dedica curiosa. Una mostraa Roma celebra quei piccoli templi del commercio culturale tra memoria e nostalgia

CULTURA*

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 APRILE 2009

PARIGI

Sono “quadri mentali” i bou-quinistes di Parigi, come ilcaffè Flore dove “vediamo”senza vederli gli scrittori che

al loro tavolo stanno creando i capolavo-ri futuri, come le chiese frequentate daigobbi innamorati, come il Pont-Neufdove ci si bacia sotto la regia di Prévert.Allo stesso modo, almeno una volta nel-la vita, siamo tutti caduti nell’illusione ditrovarli davvero, tra quei libri presentatialla rinfusa, sbrandellati e coperti di pol-vere, i famosi stravizi dello spirito, lagrassa segatura dell’ingegno umano.

Hanno infatti la funzione simbolica edecorativa di altari eretti al Sapere que-ste famose bancarelle di legno verde di-sposte in fila sul lungosenna. E benchétutti sappiamo che non esiste l’oro abuon mercato, c’è sempre il bibliofiloimprovvisato che si vanta d’avere l’oc-chio per individuare gli speciali colorinie gli inequivocabili frontespizi delle edi-zioni preziosissime. Insomma, il Comu-ne li mantiene a vita e li protegge comeprotegge i musei, le biblioteche, le Gran-di scuole e tutti gli altri luoghi che qui so-no consacrati al Pensiero perché i turistia Parigi, come i fedeli alla Mecca, hannodavvero bisogno di credere nella banca-rella metafisica.

E difatti il mondo è pieno di feticistiche, se bene stimolati, raccontano diaver trovato lisciando, sfogliando e fiu-tando il vital nutrimento, non so qualerarità dimenticata e pur modesta all’a-spetto: un volumetto tarchiato, di coloreoscuro ma con qualcosa di irrequieto

che subito ti tocca il cuore e ti commuo-ve. E, guarda caso, stava proprio lì dovenon può stare e dove mai l’abbiamo tro-vato: dal bouquiniste sulla Senna, un si-gnore più falso dei suoi libri, patacca giànella tunica grigia e nel baschetto neroalla parigina, con il bricco di caffè caldo eil sorrisetto sovvenzionato dal Comune.

Ce n’è uno, Mathieu Delarue si chia-ma, che al convegno turistico letterariointitolato Papiers de Paris, Paris de pa-pier in una sala messa a disposizione dalMunicipio del sedicesimo arrondisse-

ment in rue de la Pompe, dice di consi-derarsi come «un farmacista della mora-le». Delarue si è messo raccontare che«tra poesie di nozze, primi saggi di poetifalliti, romanzi rachitici, almanacchi,vecchie copertine della Bardot, libelli,capricci, corbellerie, cenci e cocci dellaletteratura» lui regolarmente «imprigio-na» lì a casaccio, come fosse un gratta evinci, «una perla da biblioteca dello spi-rito». E una volta persino ci mise — dice— una prima edizione numerata e fir-mata di Victor Hugo, e un’altra il calepi-

no triangolare che era stato di Breton. Tutti pensano che c’è stato un tempo

in cui le bancarelle erano davvero pienedi meraviglie, quando gli scrittori eranopochi e quando i lettori erano gli happyfew di Stendhal o i venticinque di Ales-sandro Manzoni. E invece ride di com-piacenza, monsieur le bouquiniste, e la-scia intendere che in fondo la bancarel-la anche allora era già una menzogna eche mai ci sono finiti i tesori di lettura delfunzionario ottomano caduto in disgra-zia e/o del rifugiato della corte zarista. Alpunto che se oggi ci fosse davvero unabancarella piena di libri preziosi e rarinessun turista la frequenterebbe e il Co-mune costringerebbe l’incauto bouqui-niste a traslocare in un vero negozio, inuna vera libreria, in un vero quartiere.

E infatti secondo lui nessuno mai siaccorge di quelle splendide fantasie del-l’universo che egli cela — per celia versoil proprio mestiere — tra tanti inutili vo-lumetti uniformi e poveri. La gente com-pra invece la tazza con la Tour Eiffel da unlato e la Giocondadall’altro. E, se propriosi decide a prendere un libro da una diquelle lunghe file schierate come eserci-ti, ebbene sceglie una banalità che abbiaperò l’aria della rovina, qualcosa che al-trove avrebbe guardato con indifferenzae trattato con pochi riguardi ma che quidiventa una copia impreziosita dalla vi-ta, dell’Étranger di Camus per esempio:alla Fnac, in edizione più elegante, co-sterebbe persino meno.

Dal bouquiniste il libro d’occasionedeve avere l’aspetto logoro che hanno ituristi, e magari anche le sottolineaturea penna che gli danno un’aria di abitosmesso, e le pagine piegate che sporgo-no un po’ come una barba e i margini

che, segnati da unghie sconosciute, so-no visi rugosi… Alla fine della conferen-za gli chiedo se non li invecchia da sé cer-ti libri; se non gli dà lui, per esempio, quelfondotinta di retorica che si chiama de-dica e che spinge anche un tipo scanzo-nato come me a sfogliare, non importaquale titolo, per trovare in apertura di Leseffets psychologiques du vinla frase data-ta 13 luglio1953 «in regalo al signor pre-fetto di polizia da parte del compagnosocialista Bruno, tre volte arrestato trevolte innocente: suo uguale, ma non ser-vo». Mi racconta di una copia di Fram-menti di un discorso amoroso imprezio-sita da una dedica in inglese che gli reseben 35 euro: «A Joe, l’uomo della mia vi-ta, da parte di Dag, l’uomo della sua vita».

Io ricordo invece un Prévert che Ro-bert comprò «per Jacqueline, compa-gna… delle mie vite». E ancora un LuHsün con su scritto un misterioso «dav-vero mi rincresce di piacerti».

È probabile che esistano i collezionistidi dediche e si sa che anche i libri posso-no diventare un vizio, ma non è dal bou-quiniste che trova soddisfazione il per-vertito che si placa quando palpa un’e-dizione originale e trae fremiti di voluttàdalle copertine d’antiquariato. Per i vi-ziosi del libro che si incapricciano di vez-zose legature aristocratiche e fiutano ifrontespizi d’antan, il mercato è semprepiù specializzato. Per loro, come per ipervertiti sessuali, la vetrina delle occa-sioni sta sul web, la sola bancarella pienadi sorprese che ti restituisce persino i li-bri che ti hanno formato e che proprioper questo non possiedi più.

NeI libri nella mia vita, delizioso librosui libri, Henry Miller smonta infatti labibliofilia, ossessione di possedere, per-

FRANCESCO MERLO

Illusioni perdutesulle bancarelle dei libri

LE COLLEZIONI ESPOSTEUna stampa litografica di inizio Ottocento che raffigura un bouquinisteIn alto, una cartolina francese in cui si vede il Louvre. I materiali in mostraa Roma provengono dalla collezione Ceccarius della Biblioteca nazionalee da quella del Museo parigino a Roma

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 12 APRILE 2009

ché l’amore per i libri è un sentimentoben diverso dall’amore per la lettura.Racconta che negli scaffali che tappez-zano la sua stanza non ci sono i titoli cheha amato di più. Un libro, non appena lohai letto, diventa molto più bello se lo re-gali. Ci sono libri, che altri ci hanno datoo abbiamo acchiappato chissà dove, cheancora viaggiano, passano di mano etanto più profonda è la traccia che la-sciano quanto prima ce ne sbarazziamo.

Della biblioteca di una vita rimanedunque la bancarella con i libri da deco-

ro, libri senza dignità che nessuno vuole,nessuno compra e nessuno ruba. Mon-sieur Delarue spiega come il fenomenodel furto del libro, che è un problema peri librai di Parigi, sia quasi inesistente peri bouquinistes. Appassionati, gentili eraffinati, pieni di interessi e di sentimen-ti, i ladri di libri sono gli ultimi ladri per-bene che ci sono in giro. I bravi librai san-no che un libro rubato è comunque un li-bro che sarà letto e perciò susciterà nuo-ve curiosità e nuove letture piuttosto chenuovi furti e nuovi crimini. Meglio dun-que un libro rubato che un libro non let-to: «Una volta sola mi è capitato il ladro.Mi aveva rubato — pensate — Le suici-dologe,dizionario dei suicidi celebri edi-to da Le Castor Astral. L’ho invitato a ce-na e gli ho salvato la vita».

Gli eterni esploratoridell’edizione alfa

PAOLO MAURI

Il raccontoè sempre avvincente, dunque tanto vale ri-peterlo. Il 2 febbraio del 1922, alle sette del mattino,Sylvia Beach, che era la proprietaria a Parigi della li-

breria inglese Shakespeare and Company, aspettava al-la Gare de l’Est il treno proveniente da Digione. Il convo-glio non si era ancora fermato del tutto che un control-lore le andò incontro e le porse un pacchetto: contenevadue copie della prima edizione dell’Ulysses da lei stessapubblicato. Una copia fu data subito a Joyce e l’altramessa in vetrina e ben presto attirò l’attenzione dei let-tori. La copertina era blu. Quel romanzo, tirato in circaun migliaio di copie, in parte su carta di lusso e con firmadell’autore, in parte in forma più economica, era desti-nato a suscitare lo scandalo dei benpensanti, ma rap-presentava una vera rivoluzione letteraria. Tra i primi il-lustri lettori troviamo Gide, Yeats, Pound, Eliot,Sherwood Anderson, Dos Passos. Ma non basta: Law-rence Rainey, cui dobbiamo queste notizie (vedi Il veroscandalo dell’Ulysses in L’oggetto libro ’98edito da Sylve-

stre Bonnard) racconta anche che il ritrova-mento di certi taccuini dellaBeach hanno permesso di sa-pere chi erano i successivi eanonimi acquirenti, visto che labravissima intellettuale libraiaprendeva nota di tutto.

Un caso eccezionale, non c’èdubbio. Ma spesso capita, cer-cando e trovando libri vecchi oaddirittura libri antichi, di incon-trare le cosiddette “tracce d’uso”,quando non addirittura il nome diun precedente proprietario. Tal-volta notissimo. Una parte della bi-blioteca di Arturo Carlo Jemolo finìin mano ai bouquinistes della capi-tale: uno di loro, un certo Mario, ave-va una bancarella in piazza Cairoli aRoma. Spesso con libri a prezzi strac-ciatissimi. Lì trovai molti anni fa un’e-dizione delle opere dell’Alfieri in unatrentina di volumi degli anni Venti del-l’Ottocento.

Noi cerchiamo i libri e i libri cercanonoi. Giulio Einaudi, negli ultimi anni, comprava d’anti-quariato i libri che lui stesso aveva pubblicato mezzo se-colo prima e che aveva perduto. Anche i luoghi a voltecontano, Nel recente e appassionato libro di GiampieroMughini in veste di bibliofilo pubblicato da Einaudi c’èun capitolo su Marradi (luogo di origine della famigliapaterna) e dunque su Campana e il suo dannato esordio.Un libretto, Canti orfici, stampato dal poeta alla bell’emeglio a proprie spese e che oggi è quasi introvabile edunque molto costoso. Ironia della sorte: vivo l’autorenon si riusciva quasi a vendere. Del resto anche gli Ossidi seppia di Montale ebbero una sorte simile, anche senon ci fu mai quell’aura maledetta che avvolge tutta lastoria di Campana.

Cercare le prime edizioni dei nostri poeti è impresanon semplice: erano spesso plaquettes di poche pagine,stampate in poche centinaia di copie. Però, facendo unsalto indietro di due secoli, ho visto qualche settimana fasul catalogo della libreria antiquaria Mediolanum la pri-ma edizione del Mattino di Giuseppe Parini: un librettodi una sessantina di pagine, uscito nel 1763. Troppo ca-ra per me, ma mi fa piacere che ci sia. A proposito di gran-di lombardi e dei loro libri, mi è tornata in mente l’ulti-ma volta che incontrai Dante Isella. Avevo appena com-prato le poesie di Carl’Antonio Tanzi pubblicate postu-me a Milano nel 1766. Il volume ha appunto una bella in-troduzione del Parini, che racconta come Tanzi fosse unuomo spiritoso e un po’ collerico, bravo soprattutto nel-le poesie in dialetto milanese. Isella si complimentò: «Ioce l’ho, naturalmente. Ma l’avrei comprato anch’io. Èuna bella edizione, averne due copie non guasta. Sa chece n’erano anche degli esemplari su carta azzurra?»

Toccare con mano. Lo diceva bene Dionisotti che unacosa è leggere un testo in una edizione nuova e un contoè prendere in mano la prima edizione: fare i conti, cioè,con l’infanzia di un’opera e magari di una grande opera.Chi cerca un libro in particolare è meglio che si affidi a In-ternet mentre il bello del cercare tra bouquinistes e simi-li è che si va alla ventura e non si sa mai che cosa si puòtrovare. Spesso, viaggiando all’estero, si possono farescoperte di vecchi o antichi libri nostri che chissà come,e chissà con chi, hanno viaggiato anche loro. Negli anniOttanta mi capitò a Lisbona di trovare a O mundo do li-vro Le ultime lettere di Jacopo Ortis in una terza edizionedel 1802. È quello l’anno in cui Foscolo, dopo una di-sgraziata edizione pirata bolognese da lui ripudiata per-ché pubblicata a sua insaputa e per giunta completata daun altro, dà alle stampe per la prima volta il suo celebreromanzo. Oggi lo leggiamo nell’edizione zurighese diqualche anno dopo, ma quella del 1802 è preziosa.

Qualche volta sarebbe sciocco fermarsi alla primaedizione, che è la fissazione dei collezionisti: del Pastic-ciaccio, per esempio, ho comprato per niente da un li-braio romano la seconda edizione del settembre 1957 (laprima è del luglio dello stesso anno). Poi ho letto in unanota gaddiana di Giorgio Pinotti che quella edizione ri-sultava introvabile. Insomma andar per librerie o ban-carelle è sempre un bell’andare. Pontiggia, che era uneccellente bibliofilo, quando viaggiava visitava sempregli antiquari del luogo. Una volta a Buenos Aires con Ni-co Orengo decidemmo di andar per librerie. Siccomepioveva senza tregua prendemmo un taxi, che lì non co-sta niente, e con le pagine gialle in mano girammo permezzo pomeriggio. La preda, naturalmente, fu un librodi Borges.

LA MOSTRA

Con Les Bouquinistes - Librai ambulanti tra Parigi e Roma la Biblioteca nazionalecentrale di Roma propone dal 21 aprileal 20 giugno una carrellata di immagini(alcune sono in queste pagine)e documenti dell’editoria parigina a cavallotra Ottocento e NovecentoL’evento si inserisce nella rassegnaSous le ciel de Paris 2009

La capitale franceseli protegge come facon i musei e i luoghiconsacrati al Pensiero

SCORCI DI FINE OTTOCENTONella foto sopra, cacciaal libro tra i bouquinistesdel lungosenna; da destra,in senso orario,una veduta di Parigi,una figurinacon un bouquiniste romano,una litografia di Grassete una stampadal Figaro Illustré

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La sobrietà di Springsteen, le invenzioni dei Pink Floyd,gli scenari alieni di David Bowie, le macchine febbrili degli U2Per ogni loro concerto, un luogo e una scenografia diversa,

spesso rivoluzionaria, a volte semplice guscio vuoto della caduta creativa. Ora un libroraccoglie i dietro le quinte dei luoghi in cui si celebral’unico rito pagano collettivo, il live

SPETTACOLI

I Kraftwerk usaronoquattro robotal loro posto:volevano mostrareche si poteva farea meno degli artisti

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 APRILE 2009

Dietro i palcoscenici delrock c’è tutta l’ambiziosamagia del sogno, la virtùillusionistica di una cul-tura che ha coltivato l’in-sano desiderio di creare

eventi dello spazio-tempo fuori dallanormalità della percezione quotidiana.Quella delle scenografie del rock è unastoria nella storia, una definizione arti-stica degli spazi che ha assorbito (comedel resto il rock ha fatto a partire dalle suematrici musicali) linguaggi diversi: il tea-tro, la mimica, la pittura, l’architettura, ilcinema e la fotografia, spesso mescolan-doli con spudoratezza, con audacia,creando magnifiche illusioni, a voltefraudolente, per coprire con sfarzi inim-maginabili un vuoto di creatività artisti-ca, altre volte generando moduli avan-zati e spiazzanti, idee innovative che poisono stati riassorbite dalle stesse disci-pline saccheggiate inizialmente dallaonnivora e tentacolare natura del rock.

Grazie al rock sono state possibili ri-cerche notevolmente avanzate a livellotecnologico, talvolta spericolate, audacianche nelle proporzioni, vista l’attitudi-ne ai grandi spazi, alle adunate oceani-che di cui il rock ha dato prova in molteoccasioni. Fronte del palco aveva intito-lato Vasco Rossi il suo celebre doppio li-ve del 1990 registrato nel Blasco Tourdel-l’anno prima richiamando gli echi di lot-ta nei docks di New York di Fronte delporto. Fatica e violenza, energia e catar-si, buio e colpi di tamburo, Vasco e Mar-lon Brando. Tutto insieme, tutto dal vivoe nell’unico luogo in cui il più granderocker italiano continua a dare il megliodi sé, sul palco.

Questa unicità è ben messa in rilievoda un libro, On the stage. I grandi palchidel rock di Cesare Molinari con fotogra-fie di Bruno Marzi (Stampa Alternativa)nel quale viene descritta la natura ibridae multilinguistica dello spettacolo rock.«Il palco è il luogo della luce, della pre-senza, della rilevanza. La platea il luogodell’ombra, dell’assenza, del sogno. Lapenombra in cui è adagiata la platea de-termina una situazione favorevole agliincantesimi dell’immaginazione emarca una soglia invalicabile nei con-fronti della rappresentazione che avvie-ne sul palco», racconta Molinari. Ma èanche la celebrazione di un rito, la piùgrande festa pagana concessa alla mo-dernità, una sfida di emozioni forti pro-nunciata con gli strumenti musicali,certo, ma anche con fasci di luce, enor-mi pupazzi semoventi, schermi poten-ti, robot, fumi, oggetti immaginifici. Ec’è un mondo di cose da riepilogare, dafotografare, da analizzare, per costruireuna possibile storia di questa speciale,imparagonabile, estrema branca delladimensione spettacolare.

Il rock ha davvero praticato ogni sen-tiero possibile, ha cercato spesso avvol-genti minimalismi, la scena l’ha a voltenegata, rifiutata, oppure blandita, sug-gerita, o esaltata, lanciata verso costru-zioni smisurate. Difficile dire se il rocknella sua essenza ha davvero bisogno diqueste complesse costruzioni. Ovvioche quando la musica perde di tensionecreativa, gli allestimenti perdono di ori-ginalità in maniera direttamente pro-porzionale. Le cattedrali che girano og-gi negli stadi del mondo sono spesso gu-sci fragorosi e poco nutriti all’interno diadeguata sostanza, ma è indubbio chein passato i palchi del rock abbiano vis-

suto momenti inarrivabili, sprazzi di so-gnate avanguardie, soluzioni avvincen-ti e perfettamente adeguate alla propo-sta musicale.

Da un estremo all’altro delle possibi-lità. A uno come Bruce Springsteen nonserve molto, la sobria crudezza dei suoipalchi corrisponde al messaggio, la sce-na è appena un contenitore dove posso-no materializzarsi energie fiammeg-gianti, una tavola che deve rimanereneutra in attesa di pennellate musicali.Ma pensiamo ai Pink Floyd. Cosa sareb-be stata la loro musica senza le genialimise en scene che hanno fatto epoca? Iloro allestimenti sono giustamente pas-sati alla storia perché rappresentavanomolto di più di una semplice illustrazio-ne, andavano oltre i limiti imposti dallatraduzione di quanto veniva già prodot-to nei dischi. Ogni volta che andavano intour la scena occupava gran parte dei lo-ro pensieri. C’era un’attenzione mania-cale, un punto di vista progettuale, raffi-natissimo. Il prodotto finale era, in lineacon la totalità che il teatro musicale ave-va sperimentato nella classicità del me-lodramma, un’opera audiovisualecompleta, nella quale i musicisti (incontrotendenza col culto della perso-nalità diffuso nel rock) quasi scompari-vano, annullati da macchine di propor-zioni disumane.

La scena può essere ogni cosa, ancheil suo esatto contrario, come quando iKraftwerk misero sul palco quattro ro-bot al loro posto, come dire una costru-zione talmente autosufficiente da poterfare a meno perfino degli stessi musici-sti. Ma quella era una provocazione, unmonito sugli artifici che stavano minac-ciosamente prendendo il posto degli in-dividui. Anche Peter Gabriel una volta

GINO CASTALDO Lo stesso vale per chi ha avuto il pri-vilegio di “vedere” i concerti storici deiPink Floyd (The Wallin primo luogo), legeniali mise en scene di Peter Gabriel(che una volta creò un sistema di lucimobili che interagivano con lui comepersonaggi incombenti) o le macchi-nazioni febbrili e multiple degli U2, havissuto i vertici assoluti della costruzio-ne spettacolare, una globalità coinvol-gente ed estrema, la sperimentazionedi una frontiera che non ha avuto con-fronti possibili con nessun’altra formadi spettacolo.

Le effimere cattedrali rockTHE WALL WORLD TOURSopra, disegno quadrangolaredi Mark Fisher per il Wall World Tourdei Pink Floyd; nella foto grande,i Pink Floyd a Torinoper il Division Bell TourNell’altra pagina dall’alto,Ligabue, Madonna,i Radiohead e i Rolling Stones

in libreriaSerge Latouche

Mondializzazione e decrescitaL’alternativa africana

prefazione di M. Giannini

e V. D’Amico

www.edizionidedalo.it

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 12 APRILE 2009

Per antonomasia: l’abito non fa il monaco, soprattuttose il monaco in questione è ROCK... così dovrebbe an-dare. Il rock, coerentemente con i suoi principi di

“strafottenza” estetica e noncuranza della forma, pensereb-be solo alla sostanza della sua voce: la musica. Per cui, pesonon avrebbero alcuno, ai fini della sua essenza, abiti da ceri-monia, luoghi più o meno sacri, illuminazioni idolatranti oimmaginette iconografiche. Basterebbe un posto qualsiasi,un buio o un abito qualsiasi perché quel monaco rock entriin scena a professare “substantia”: e musica sarebbe ovun-que! Così dovrebbe andare.

Ma il monaco rock, fin dalla notte dei tempi, in verità sce-glie e sceglie una chiesa povera a un’al-tra sfarzosa e ricca e, quando può, si la-scia investire dalla luce di un occhio dibue che simuli quella divina e lasci, co-sì, l’odore e la scia di un’icona di se stes-so nei secoli dei secoli, almeno spera. Èallora che arriva il miracolo. È allora chesi ascolta, si sente, si respira e si vede ilsuo credo. Così il rock sceglie ogni cosasia necessaria a restare nelle orecchie,negli occhi, nelle narici, nelle mani, sul-la pelle dei suoi seguaci. E prima di tut-to seleziona il luogo e la maniera mi-gliore per rendere quest’ultimo “il piùsacro possibile”. Così va.

Eccezion fatta per frati come noi (con-ventuali devoti al dio bacco Negramaro)che cercano di percorrere una via nelmezzo di questa strada. Obiettivo co-mune è scegliere luoghi tanto sacriquanto pagani, tanto celebrativi quanto“casual”. Per cui, sia che si tratti di unpiccolo teatro o di un grande palazzettoo di un infinito stadio, il nostro atteggia-mento è pensare a uno scenario che siada un lato rispettoso del sacro, dall’altro,ossequioso del profano.

Per un palco-evento, abbiamo optatoper una struttura imponente e in acciaioche riproponesse, semplicemente, l’os-satura ferrosa del rock. Tralicci gigantihanno creato uno scheletro su cui reg-gere la pelle sudata di un concerto “ve-ro”, basato sulla sola cruda essenza del-la musica. Solo due schermi giganti al-l’esterno palco che rendessero visibileda ogni distanza quello che in scena sa-rebbe successo di lì a poco. Ci è sembra-to un gesto rispettoso nei confronti di unaltare da attraversare in punta di piedi.

Differente è stato per le scene usatenell’ultimo tour nei palazzetti dellosport di tutta Italia. Qui, siamo già più dicasa. Abbiamo optato per soluzioni chesi spingessero un po’ più oltre nell’uti-lizzo di materiale visual, restando pursempre a servizio completo della musi-ca, unica, assoluta e indiscussa prota-gonista. Proiezioni su tela bianca entra-vano in scena solo quando avrebberodovuto sostenere, con più forza e vigo-re, il nostro suono. Per ogni tipo di pal-

co e di location cerchiamo sempre di dare un unico conceptartistico, coerente con il mood dell’ultimo album. Così, in li-nea con il nostro ultimo lavoro La finestra, il comune deno-minatore, nella scelta di scene e scenografia, è stato l’utiliz-zo di impalcature che meglio rappresentassero fisicamentequesto grande oblò da cui guardare il mondo. In tour diver-si, con strutture diverse, grandi finestre sono state padronedella scena. Nei teatri con dimensioni e illuminazioni moltointime. Nei palazzetti dello sport con estensioni più grandi econ luci più oniriche e diffuse per tutto il tempio. Nello sta-dio con unica finestra, grande tutto il palco.

L’autore è il cantante dei Negramaro

Noi, monaci profani

al servizio della musica

GIULIANO SANGIORGI

volle svelare l’illusione che erasottintesa a ogni spettacolo musicale.

Aprì una valigia al centro del palcosceni-co e come un provetto prestigiatore ci fe-ce entrare tutti i musicisti e poi lui stesso,scomparendo dalla scena. E ai suoi tem-pi migliori Michael Jackson chiese aiutoal mago dei maghi, David Copperfield,per mettere a punto un momento delsuo show in cui spariva all’improvvisoda un lato del gigantesco palco e riappa-riva istantaneamente dal lato opposto.

Senza arrivare a tanto ci sono statescenografie che hanno tradotto in sogni

visivi quello che gli artisti predicavano:la teatrale fantascienza di David Bowie,le lunatiche alchimie dei Radiohead, idisgustosi demoni horror dei metallari,gli afrori erotici di Prince e perfino il rapha avuto i suoi fasti scenici, quando unavolta Dr. Dre, Eminem e Snoop Dogg sicimentarono in una faraonica tournéein cui da scenette girate in video si pas-sava magicamente al palcoscenico. Sulvideo fermavano dei rapinatori, li bloc-cavano puntandogli delle pistole allatempia e poi dal vivo chiedevano al pub-blico: «Che facciamo, spariamo, o no?».

IL LIBRO

Si intitola On the StageI grandi palchi del rock(Stampa Alternativa,167 pagine, 25 euro,in libreria dal 15 aprile)il libro di Cesare Molinaricon fotografie di BrunoMarzi che raccoglie idee,soluzioni, progettie segretidelle scenografie di memorabili concertida The Wall in Berlindei Pink Floyd alle performancebarocche dei RollingStones, alle idee di Peter Gabriel e DavidBowie al PopMart Tourdegli U2 a Vascofino a MadonnaZOOTV TOUR

Accanto, progetti per il palco delloZooTV Tour degli U2; sotto,

il progetto Gigabyte Citydel Voodoo Lounge Tour

dei Rolling Stonese uno storyboard

di Mark Fisher per The Wall

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Dr. Dre, Eminem e Snoop Doggproiettavano videocon rapinatoriPoi chiedevano:“Spariamo?”

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 APRILE 2009

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itinerariSimone Finazzi è il pasticciere di “Vittorio”,ristorante bistellato vicino a Bergamo. Per la sua colomba,farina con germe di frumento, burro di panna,miele di zagara e mandorle siciliane biologiche

ColombacontroPastiera

i saporiSfide di primavera

L’una ha avuto successo come prodotto industriale; l’altra,fragile costruzione che vive di freschezza e di fragranza,è invece patrimonio e creazione esclusivamente famigliareEntrambe sono al meglio quando escono dalle manidi straordinari artigiani. Per contendersi il posto d’onoreal termine del pasto festivo, nel giorno della Resurrezione

«Colomba pasquale Mot-ta, il dolce che sa di pri-mavera». Era il 1934, enel bel manifesto dise-gnato da AdolpheMouron Cassandre per

la ditta dell’ex fornaio Angelo Motta, due co-lombe — l’uccello bianco e il dolce — si so-vrapponevano in un fazzoletto di cielo azzur-rissimo. Un esempio raffinato di marketingalimentare, perfetta coincidenza di produ-zione industriale e sentimento popolare.

Da allora la colomba non ha più smesso diessere identificata con la celebrazione ga-stronomica della Pasqua, miscellanea sa-piente di valenza simbolica e offerta golosa.In teoria, il posto d’onore nel menù dei dolcipasquali dovrebbe essere condiviso con l’uo-vo di cioccolato. Ma i due dolci non sono assi-milabili: dove la colomba è tutto uno sbricio-lio di granella e soffice affondar di denti, l’uo-vo si frammenta in un attimo per svelare lasorpresa, sua vera ragion d’essere, mentre ilcontenitore viene smangiucchiato, senzatroppo curarsi della qualità. E infatti, se perl’uovo valgono le indicazioni stabilite nel2003 a carico del cioccolato (minimo 43 percento per la dizione “finissimo”, obbligo di ci-tazione di grassi diversi dal burro di cacao), daquattro anni la colomba gode di un discipli-nare tutto suo, che obbliga i produttori a uti-lizzare lievito naturale e vieta i grassi idroge-nati.

La pastiera, invece, non è mai stata oggettodi normative specifiche perché è impossibileprodurla industrialmente: troppo fragile lacostruzione di un dolce che, tra pasta frolla efarcitura, vive di freschezza e fragranza. Co-me per il casatiello (la ciambella salata pa-squale), le melanzane al cioccolato o la mine-stra maritata, ogni famiglia vanta un’inter-pretazione originale, un primato di saporicon cui è impossibile scendere a patti.

Così, in un ideale giro di compasso che in-globa Napoli e Costiera, la settimana pre-Pa-squa viene vissuta casa per casa in un tor-mentone di grani bolliti e stampi imburrati.Ma scegliere la ricotta più setosa o procurarsile uova dal parente contadino non basta. Nel-la ricerca della perfezione culinaria, che fa delpranzo pasquale napoletano una passerellatrionfale di carni e primizie, da un anno all’al-tro si programmano la giornata giusta, il nu-

mero di pastiere, e soprattutto si sceglie la cu-cina con il forno migliore: lì, al mattino presto,comincia la produzione in serie, con tre,quattro famiglie e rispettivi vicinati da accon-tentare.

Se i dolci non sono esattamente la vostraspecialità, la pasta frolla si spezza solo a guar-darla o siete turbati dalle trentacinque ore dilievitazione complessive della colomba, at-tingete senza pudore al meglio dell’arte bian-ca, regalandovi una super-pastiera artigiana-le, la sfiziosa colomba al mandarino tardivo diCiaculli — creata da Loison in accordo con ilpresidio Slow Food — o quella squisita pro-dotta dai detenuti del carcere di Padova(commercializzata anche on line suwww.idolcidigiotto.it).

In caso di avanzi, invece di riesumare il caf-felatte d’antàn, fate un tortino freddo con lacolomba a cubetti, cioccolato bianco e fon-dente sciolti a bagnomaria, latte, colla di pe-sce ammollata e panna montata. Lo chef mi-lanese Giancarlo Morelli garantisce una Pa-squetta golosamente memorabile.

LICIA GRANELLO Due modi italiani di direPasqua con dolcezza

Per far sorridere mia moglieci voleva la pastieraOra dovrò aspettare la prossima Pasquaper vederla sorridere di nuovo

FERDINANDO II DI BORBONE su Maria Teresad’Austria, “La regina che non sorrideva mai”

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 12 APRILE 2009

Colomba Pastiera

Lievito madreLa miscela di acqua e farina,costantemente rinfrescatae nutrita con succhi di fruttae miele, può durare ancheanni. Così l’impasto subisceuna lievitazione naturaleche garantisce la fragranza

MandorleIntere, dimezzate,polverizzate o tagliate in lamelle, le mandorletostate vengono usate per preparare la glassaNelle produzioni industrialisi trovano spesso le armelline

GlassaBianchi d’uovo, zucchero a velo e frusta: così si lavorala ghiaccia che rifinisce la colomba. Prima di spalmare l’impastosi aggiungonole mandorle macinate

UovaFreschissime le uova da inserire a una a unanell’impasto, cominciandodai tuorli e dimezzando la quota albumi. Nella ricettavegana, le uova vengonosostituite dall’olio di mais

RicottaDi pecora e mucca insieme,

o di sola pecora (secondo i puristi), va setacciata e lavorata con gli altri

ingredienti. La suafreschezza è importante

per bilanciare le note dolci

GranoLasciato a lungo in ammollo(cambiando l’acqua), viene

cotto lentamente nel lattePuò essere tritato per meglio

impastarlo con la ricottaNella farcitura tradizionale

i chicchi sono interi

Fiori d’arancioL’essenza ottenuta lasciando

in infusione i fiori di arancioamaro (zagare) per un giorno

intero in acqua, scuotendoe filtrando il liquido,

è la “firma” della pastieraSi trova anche in fialetta

CanditiBen diversi dai tocchetti di rapa colorata di certe

produzioni a basso costo, si producono con scorze di agrumi biologici cotte

a bassa temperatura in bagnidi sciroppo di zucchero

Sono stato invitato come arbitro imparziale — vivo su un’isola dove non c’ètradizione né di colomba, né di pastiera — di una disfida a suon di dolci pri-maverili, profumi di bontà. Al di là della ricorrenza religiosa, votata alla pa-

ce e alla riconciliazione, il periodo tormentato della vita delle gente che nel no-stro Paese vive e lavora mi suggerisce di frugare tra similitudini e sintonie più cheoccuparmi di chi primeggia e siede sul trono.

Li definirei entrambi dolci sapienti. La colomba, quella industriale padana, ègenerata dalle esigenze di una produzione stagionale (il panettone), per la neces-sità di ammortizzare i costi degli impianti. La pastiera, figlia della generosa cultu-ra partenopea, solare, mediterranea, è intrisa di mille leggende e novelle che nedatano alla notte dei tempi le forme più ancestrali. Simile, in questo, all’altro dol-ce bandiera della cultura gastronomica del Sud Italia: la cassata siciliana.

Ma la cosa che più di tutte le accosta è il loro stretto legame con la cultura deltempo lento (parlo ovviamente delle preparazioni artigianali dei grandi interpre-ti delle due ricette). Il tempo diventa ingrediente: la lunga preparazione del lievi-to madre, le ripetute lievitazioni dell’impasto nella colomba, la preparazione delgrano ammollato per giorni e cotto a fiamma bassissima nella pastiera. Al di là del-la frenesia della vita moderna, il tempo, tanto, tutto quello necessario, riesce co-me valore intrinseco delle due specialità, restituisce la giusta immagine alla curache il singolo artigiano pone nella preparazione del proprio capolavoro.

Il tempo e gli ingredienti. I più poveri, i più umili: il grano e l’acqua. Il primo, sot-to forma di farina nella colomba e in forma propria nella pastiera, ha fondamen-tale importanza nella leggerezza e nel profumo che il dolce emana a partire dagliimpasti preliminari fino all’arrivo in tavola. Abbiamo imparato quali varietà adot-tare per la preparazione di una grande pasta lievitata, che la parte proteica del gra-no deve reggere, sostenendone lo sviluppo in cottura. La stessa scienza ci regalaindicazioni valide per scegliere il grano da pastiera, che deve reggere il lungo am-mollo ed esprimere delicata fragranza, una volta miscelato con la ricotta e gli altriingredienti aromatici. La seconda ha un ruolo vitale per la miriade di microele-menti che contiene ed è generatrice di vita nel lievito madre, coccola estrema du-rante l’ammollo e la cottura di un cereale dall’involucro tenace come il grano. Usa-re acque di sorgente o acque clorate d’acqedotto fa una differenza incredibile...

Due diversi bouquet, un solo obbiettivo: proclamare a bocca piena l’arrivo del-la primavera. Impossibile scegliere una delle due. Appartengono entrambe aidolci che amo realizzare, sapienti, capaci di raccontare la cultura della gente cheli produce, la bontà della terra e il lavoro dei contadini. Un insegnamento per gliartigiani di domani, purché ancora disposti, a discapito di qualche sacrificio, asfornare dolci come questi, fragranti profumi di primavera. Che sia Pasqua, buo-na Pasqua.

L’autore, uno dei più rinomati artigiani dolciari italiani,gestisce il “Caffè Sicilia” di Noto (Siracusa)

Il tempo, il grano, l’acquagli ingredienti sono gli stessi

CORRADO ASSENZA

PASTICCERIA ALFONSO PEPEVia Nazionale 2/4S. Egidio del MonteAlbino (Sa)Tel. 081-5154151

SCATURCHIO

P.zza San DomenicoMaggiore19 NapoliTel. 081-5516944

PASTICCERIA SCHETTINOVia Napoli 129Castellammaredi Stabia (Na)Tel. 081-8725203

MOCCIA

Via S. Pasquale 77NapoliTel. 081-42506

PASTICCERIAMARIGLIANOVia D’Annunzio 7San Gennarellodi OttavianoTel. 081-5296831

itinerariMario Iaccarino dirige il ristorante di famiglia,il glorioso “Don Alfonso” sulla costiera sorrentinaNel menù primaverile, uno strepitoso soufflé di pastieracon sorbetto di fiori di zagara

L’alter ego primaverile del panettonediventato dolce-simbolo di Pasquagrazie alla Motta negli anni Trenta,è protetto da una legge che vietal’uso di grassi idrogenati

La profumata torta di pasta frollaripiena di un impasto a base di ricotta,

uova e grano cotto, nasce come ciboprimaverile. Il nome deriva dalla pasta

cotta con cui veniva farcita

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 12 APRILE 2009

INTRECCI D’AUTOREVegetal si ispira alla topiaria,

antica arte dei giardiniDei fratelli Bourollec per Vitra

COME TESSUTOL’effetto ondulato del policarbonato

cita il tessuto plissé. Impilabilee in sei colori, è Frilly di Kartell

(ECO)LOGICAL MINDDalla prima collezione esterni RocheBobois, Bel Air, con seduta profonda

e rivestimento riciclabile

le tendenzeSocietà liquida

Gli spazi della casa si ibridano sempre più e gli arredinon sono da meno: tavolini-sgabelli, cucine-armadio,poltrone-chaise longue... I materiali seguono: plastica, pietra,ferro invadono anche l’interno dell’appartamento

Anche il design si fa liquido.Peccato che la metafora diZygmunt Bauman, percolpa della troppa fortu-na, sia un po’ inflazionata,ben oltre i significati che il

sociologo polacco gli attribuiva nel saggioModernità liquida. Quindi è quasi con ri-luttanza che la decliniamo nel design, maè la riluttanza dell’inevitabile. Perché lametafora della liquidità allude alla mute-volezza dei liquidi, che non hanno formama assumono quella del recipiente che licontiene. Il design è elaborazione di for-me. E il design contemporaneo è davvero,appunto, liquido. Liquido perché creaforme mutevoli, destinate a mettere incrisi classificazioni e definizioni consue-te, e i caratteri che lodominano sono l’e-clettismo, la polifun-zionalità, la trasfor-mabilità.

Gli spazi della casasi ibridano: il soggior-no con la cucina, lacamera da letto con ilbagno, fino al casoestremo dello spaziounico, sia il loft deiricchi che il monolocale di chi, single ogiovani coppie, fa di necessità virtù. Nellostesso modo, le distinzioni dei mobili tra-dizionali si indeboliscono: tavolini-sga-belli, cucine-armadio, poltrone-chaiselongue... Le strutture dei mobili incorpo-rano snodi e parti che si muovono e partiche possono essere aggiunte oppure tolteper assecondare i bisogni del momento:l’ormai antico divano letto ha fatto lezio-ne fino a diventare paradigmatico.

Le principali tendenze che già si intui-

scono del prossimo Salone del mobile, inprogramma alla fiera di Rho dal 22 al 27aprile, sono quasi tutte nel segno di que-sta liquidità. Fra queste scegliamo quellapiù adatta a far da esempio: mobili ibridiin spazi ibridi. La casa è per definizioneuno spazio chiuso che si definisce comein, dentro, in opposizione a un out, fuori.Ma la casa ha le sue eccezioni, spazi dicompromesso e di confine, spazi liquidiche generano mobili anch’essi ibridi:giardini, terrazze, balconi, porticati, ve-rande. In concreto questo che cosa signi-fica? Non solo rimandi di elementi stili-stici fra mobili da esterno e mobili da in-terno. Ma anche materiali tipicamenteda esterno come le plastiche, la pietra, ilferro, che contagiano i mobili da appar-tamento, mentre i mobili per esterno di-ventano raffinati ed eleganti: hanno im-

bottiture, cuscini,dettagli in tessuto.Tutto apparente-mente poco pratico,ma si tratta quasisempre di elementistaccabili che pos-sono essere presi emessi al riparoquando serve.

La contaminazio-ne fra in e out, poi, è

suggerita da altri dettagli che alludono alportare dentro e fuori, come le ruote perchaise longue, tavoli e divani, l’ampliabi-lità (tavoli allungabili), la chiudibilità (se-die pieghevoli), per una casa dove il movi-mento degli arredi racconta una vita di re-lazione altrettanto movimentata. Unavolta si diceva: vestiti, usciamo. Adesso ilfuori, grazie al design, viene risucchiatodentro. Vengono gli amici e si sta in ter-razza, in balcone se di più non si può. I mo-bili lo permettono, e costa molto meno.

Buoni per dentro e fuoriadatti a una vita in movimento

Mobilianfibi

AURELIO MAGISTÀ

OTTOCENTO CONTEMPORANEOCrinoline di B&B Italia ha schienale alto

e rigido - come l’accessorio moda da cuiprende nome - fatto in corda intrecciata

VESTIVAMO ALLA MARINARAMarseille è una delle quattro poltroneDedon Dress Code che Jean-MarieMassaud “veste” con texture moda

DESIGN D’ANTANPatricia Urquiola reinterpreta

il passato con Re-TrouvéIn tondino di ferro, per Emu

NON SOLO VASOCubalibre di Plust,

a forma di bicchiere tumbler,ha illuminazione interna

DOPPIA VOCAZIONEAlison è il sistema divani per interni e esterni di Rodolfo Dordoni

per Minotti. In legno massello d’iroko, stabilizzato in forni di essiccazione

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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 APRILE 2009

l’incontro

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Solitari Non è più nessuno dei personaggitelevisivi che gli dettero fama:Fantozzi, Fracchia, il professor KranzA settantasette anni è un narratore

di nostalgie e di amiciscomparsi:De André,Gassman, Tognazzi...Gli sono compagnela memoria, l’intelligenzaacuminata, la scritturaMentre sta per uscire

il suo nuovo libro, lui si guardaindietro e conclude: “Sì, posso diredi essere stato molto felice”

ROMA

Non riesce a ridere. Sotto ilvetro della sua terrazzaromana di via Anapo tiaspetti che prima poi

una risata si liberi dalla sua grande pan-cia o dalla barba bianca o dalla voce darodomonte e finalmente ti contagi. Manon succede. Attorno tutto è semplice,essenziale, un po’ triste. Un divano ditela grezza, una scrivania di legno sotti-le, un computer, una risma di fogli pie-ni di appunti, due bicchieri di acqua na-turale. Paolo Villaggio non è più Fan-tozzi, non è più Fracchia, non è più ilcattivo tedesco, il professor Kranz. È unnarratore di nostalgie, di rimpianti, diamici che sono scomparsi e si sono ri-velati insostituibili, di solitudini con lequali bisogna fare conti che non qua-drano mai. I ricordi volano come piumeuscite da un cuscino, sono difficili daraccogliere. Villaggio usa una memoriache appare intatta, un’acuminata e dia-bolica intelligenza e la tenacia presa inprestito dal fratello gemello. «Piero è unmarziano. Da ragazzo ogni giorno stu-diava a memoria cento versi dell’Iliadetradotta da Vincenzo Monti. Lo trasci-navo a fatica nelle partite di pallone,non rivolgeva parola a nessuno. Corre-va sul campo ripetendo a alta voce lamorte di Ettore. Alla fine la sapevanotutti, arbitro compreso».

Si comincia da Genova. Metà deglianni Sessanta. Appena dopo l’esperien-za sulla “Federico C.”, nave da crocieradella Costa. Sul ponte Villaggio e De An-dré a fare i menestrelli. «Due piani sotto,al night, un pianista bravissimo. Lui, Sil-vio Berlusconi, una voce straordinaria,la sua vera vocazione. Un incantatore, econtinua a esserlo. Berlusconi non è unfascista. È piuttosto un utilitarista entra-

to in politica per difendere le sue azien-de e la sua felicità. Oggi è un imperatoreappena punzecchiato da una sinistrache non esiste, con capi improvvisatiche si azzannano tra di loro con una fe-rocia da portineria. Veltroni ha un ta-lento da aiuto regista, Franceschini nonso, forse ha dalla sua il vantaggio di esse-re un po’ più giovane…».

Genova, si diceva. Una balera, siga-rette e vino bianco. Canzoni popolaristorpiate, luride, scollacciate più degliabiti delle ragazzotte appena carine chespiccavano in una platea in prevalenzamaschile. Paolo voce per così dire nar-rante, Fabrizio alla chitarra. «Una sera infondo alla sala compare un signoregrassottello e con i baffi che assomiglia aMaurizio Costanzo. È proprio lui. Mi siavvicina e mi fa: sono un giornalista diGrazia, venga a Roma, le garantisco cheavrà un grande successo. Io lo guardocome si guarda uno squilibrato e mi trat-tengo a fatica dal mandarlo a cagare».

Paolo Villaggio lavora all’Italsider, èun impiegato di secondo livello, unbanco all’ufficio servizi, uno stipendiodi 120mila lire al mese. È Fantozzi pri-ma della sua nascita. Nella coppia verala parte forte è la moglie Maura. È lei aspingerlo al di là della sua codardia. Glidice, più o meno come farà qualche an-no dopo la signora Pina con Ugo: «Sce-gli l’incerto per il certo». Gli domando seun uomo cattivo, una carogna, è quasisempre anche un vigliacco. Dice: «Lepeggiori carogne sono le persone che siammantano di bontà. Sono stato tra le180 suore di Calcutta e ho incontratomadre Teresa, quando il suo sguardo siè posato su di me non mi è piaciuto af-fatto, non era uno sguardo buono. Io so-no soprattutto pigro, la pigrizia, comemi disse Leo Benvenuti, mi ha impedi-to di diventare un grand’uomo. Sono fi-sicamente un vigliacco e non sono ungeneroso, uso il denaro come mezzo dicorruzione. Ma non sono avaro. La leg-genda sulla tirchieria dei genovesi è unaballa, gli avari autentici sono i piccoliborghesi romani, gentaglia».

A Roma Villaggio arriva nel ‘66, sullascena esordisce che è ottobre. «Al “Set-te per Otto” di Trastevere, via del Mat-tonato. Una specie di museo, un sotto-scala. Ci sono Garinei, Giovannini,Marco Ferreri incazzato in un angolo.Tognazzi va via indispettito perché c’ètroppa gente e lui non riesce a respira-re, Flaiano cade dalla sedia per il tropporidere, Sergio Saviane scriverà di esserevenuto a vedermi in una cantina pienodi diffidenza e di avere scoperto unospettacolo straordinario e un linguag-gio completamente nuovo». La strada sitrasforma in una discesa. Milano, la tv,

il sodalizio con Vaime, Terzoli e Marcel-lo Marchesi. L’incontro con Cochi e Re-nato: «Grandissimi, due scemi veri.Pozzetto mi ha sempre divertito molto,il comico deve essere uno squilibrato,un malato di mente. Per strada la gentelo abbracciava e rideva, a me mostrava-no i pugni. Mi odiavano».

Volti che si affollano. Amicizie, gestiche sembrano muoversi ancora adessonell’aria di questa terrazza al sole. Vitto-rio Gassman: «Un genio. Lui, sì, buonodavvero, leale e per nulla ipocrita, un si-gnore sia con gli umili sia con i potenti.Siamo a Madrid, invitati a Villa Italia perun ricevimento con il re Juan Carlos. Vit-torio è ubriaco, precipita lungo lungocom’è lui su un tavolo pieno di bicchie-ri che cadono e si frantumano con ru-more orrendo. Lui grida mentre ancorasta volando con la sua voce da baritono:“Non vi preoccupate, rispondo di tut-to…”». Ugo Tognazzi: «Il più intelligen-te e il più vero. Un uomo che sapeva do-nare allegria e che vendicava le massaieperché era orgoglioso di essere un pro-vinciale. Lo ricordo in un CostanzoShow con Sgarbi e Zecchi che discute-vano animatamente e dottamente di ar-

te e filosofia. Costanzo a un certo puntodella trasmissione gli chiede le ragionidel suo silenzio e lui: “Mi scusi dottorCostanzo, non ho detto una parola per-ché data la mia ignoranza non ho anco-ra capito un cazzo”». Alberto Sordi: «Ilprimo comico italiano veramente catti-vo. Sublime». Totò e Peppino: «Buoni,ignoranti e poveri. Totò è il nostro Cha-plin». Marco Ferreri: «Autenticamenteinvidioso, a volte insopportabile, afasi-co, ma con un ingegno acuto e lampeg-giante». Fabrizio De André: «Più simile ame lui di mio fratello gemello. Gli piace-va giocare a fare l’esagerato, come quel-la volta che per fregare ventimila lire aGigi Rizzi mangiò un topo morto. Neglianni del successo ci siamo un po’ persidi vista. Fabrizio era ossessionato dal ri-schio dell’oblio, di essere dimenticato.Lo vado a trovare l’ultima volta in ospe-dale, al San Raffaele di Milano. So che lotroverò consumato dalla malattia. Met-to su un’espressione gioiosa, voglio cer-care di rasserenarlo. Lui mi vede e fa:“Smonta quella faccia, so benissimoquello che mi aspetta. Ricordati chequando ti chiederanno di me, dovrai di-re che non sono stato un cantautore, maun grande poeta”. Ecco, ora lo dico cre-dendoci».

Paolo Villaggio ha settantasette anni.Scrive libri. La sua Storia della libertà dipensiero edito da Feltrinelli è stato lettoda moltissimi ragazzi tra i quindici e i di-ciassette anni. Tra pochi giorni uscirà daMondadori Storie di donne straordina-rie, biografie delle mamme di uomini fa-mosi, da Mosè a San Francesco, da Gesùa Dante, da Proust a Hitler. Una mac-china del tempo. «Mi piacerebbe mori-re e ricominciare, vivere nel 36.500 do-po Cristo. Oggi abitiamo un mondo im-barazzante, prigionieri del presenziali-smo, della mediocrità nelle arti e della fi-losofia ereditata dall’America: non con-ta essere felici ma sembrarlo. E viviamonell’invenzione di Dio. Mi domando co-me si faccia a credere in Dio, con questoPapa vestito da monaco medievale chepensa di essere il solo depositario dellaverità, con un Vaticano dove regnanosodomia e pedofilia, con una Chiesa cheè stata peggio dello stalinismo, che hainventato la tortura e che bruciava chiosava anche soltanto ipotizzare che for-se la terra non era piatta. Abbiamo ven-duto tutto e buttato via tutto, anche gliodori del mare, dei fiori, delle donne».

Torno sulla felicità, mi viene in men-te che qualcuno ha detto che vivere èuna preghiera che solo l’amore di unadonna può esaudire. Villaggio mi spiegadi avere sempre evitato il dolore. «Astu-tamente, come un ebreo, non ho maicercato fortune impossibili. Ho il terro-

re delle sconfitte. Due donne, è vero, mihanno fatto felice. Mia madre, alla qua-le ho fatto credere che volevo fare l’avia-tore, e mia moglie. Sì, grazie alla mia te-nacia assoluta posso dire di essere statomolto felice. Nel ’45 la guerra era appe-na finita quando mio padre condussemio fratello e me sulla spiaggia. Genovaera segnata dai bombardamenti, erava-mo spaventati. Papà ci fece un sorrisobellissimo e disse: “Non sarà sempre co-sì, la vita è una cosa meravigliosa”. Piùtardi, col successo, mi sono gonfiato co-me una rana e così ho perduto mio pa-dre. Quando ero libero invece di torna-re a casa da lui preferivo andare in Sar-degna a fare il coglione. È il mio più gran-de rimpianto, vorrei poterlo incontrareancora una volta, mi basterebbe un po-meriggio, sentirlo leggere per me qual-che pagina di un libro. È l’ultimo pezzodi felicità che mi manca».

Si alza dalla sedia. Deve andare in ca-sa a prendere un’altra bottiglia d’acqua.L’ampio saio di cotone gli copre il corpopallido, ma non gli stinchi che sono gla-bri, i vecchi si pelano come pulcini.Quanto è lontano il ragionier Ugo Fan-tozzi, il suo «com’è umano lei», la sua «èuna cagata pazzesca» che fece crollare ilsantuario intellettuale di sinistra dellaCorazzata Potëmkin. «Eppure Fantozziesiste più che mai. Io l’avevo vestito daclown, oggi si è travestito. Porta gli orec-chini, esibisce l’abbronzatura artificia-le e i capelli impomatati. La dittatura te-levisiva gli impone desideri comuni edisperati, il confronto con Berlusconi ei tronisti di Maria De Filippi. I Fantozzidi oggi non ce la fanno, il mio a guardarbene sì. È stato assunto a ventitré anni,ha il posto fisso, una moglie che lo amabenché ripugnante, la sua Bianchina, lagita sul mare di Ostia e la settimanabianca aziendale. Sta in un inferno, malui ne è consapevole ed è orgoglioso del-le cose semplici che possiede. In fondonon è infelice, è soltanto sfigato». ‘‘

DARIO CRESTO-DINA

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Mi piacerebbe moriree ricominciare,vivere nel 36.500dopo Cristo. Oggiabitiamo un mondoimbarazzante,prigionieridel presenzialismoe della mediocrità

Paolo Villaggio

Repubblica Nazionale