DELEUZE L'Atto Di Creazione (1987)

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DELEUZE Che cos’è l’atto di creazione? - 17/05/1987 Vorrei anch’io porre delle domande. E ponendole a voi, porle a me stesso. Qualcosa… qualcosa del tipo: che cosa fate voi, di preciso, quando fate del cinema? Ed io, che cosa metto in atto precisamente quando faccio (o quando spero di fare) della fi losofia? Abbiamo dav ver o qua lcosa da dirci, a tale pro pos ito? Cer to, va male dalle vostre parti; ma va pi uttosto male anche dalle mie! [risata del pubblico] Ma non è solo questo che ci possiamo dire. O meglio, io porrei la questione in maniera diversa: cosa significa avere un’idea nel cinema? Se si fa del cinema, o se si vuol fare del cinema, cosa significa avere un’idea, nel momento in cui diciamo: “ecco, ho un’idea”? Perché da un lato tutti sanno che avere un’idea è un evento raro, succede di rado. Avere un’idea è una specie di festa, ma non succede spesso. D’altra parte, avere un’idea non è qualcosa di generico, non si ha un’idea in generale. Ogni idea è già votata, proprio come chi la partorisce, a questo o quel dominio. Voglio dire che un’idea è talvolta un’idea in pittura, talvolta un’idea nel romanzo, talvolta un’idea in filosofia, talvolta un’idea scientifica. Ed evidentemente non è la stessa persona che può assommare in sé tutto questo. Se preferite, le idee bisogna trattarle come delle specie di potenziali; le idee sono dei potenziali, ma dei potenziali gi à compromessi con questo o quel sistema espressivo ed inseparabili da esso, tanto che non posso mai dire: “ho un’idea in generale”. In funzione delle tecniche che padr oneggio, io posso avere un’idea nell’ambito di un dominio: un’idea nel cinema, o di un altro dominio: un’idea in filosofia. Cosa significa avere un’idea in un certo campo? Ritornerei al fatto che io faccio della filosofia e voi fate del cinema. Allora sarebbe troppo facile dire “beh, sì, tutti sanno che la filosofia si presta alla riflessione su qualsiasi cosa; perché allora non potrebbe riflettere sul cinema”? Ora, questa è un’idea indegna. La filosofia non è fatta per riflettere su qualsiasi cosa; e non è fatta nemmeno per riflettere su cose diverse da quelle qualsiasi. Voglio dire che trattando la filosofia come una potenza di riflessione su, si ha l’aria di concederle molto, ma di fatto la si spoglia di tutto. Perché nessuno ha bisogno della filosofia per riflettere. Con questo voglio dire che i soli capaci effettivamente di riflettere sul cinema sono i cineasti, o i critici cinematografici, o gli amanti del cinema. Nessuno di loro ha bisogno della filosofia per riflettere sul cinema. L’idea che i matematici abbiano bisogno della filosofia per riflettere sulle discipline matematiche è un’idea comica. Se la filosofia dovesse riflettere su qualche cosa, allora non avrebbe alcun bisogno di esistere. Se la filosofia esiste è perché ha il suo proprio contenuto. Se ci chiediamo: “qual è il contenuto della filosofia”? è affatto semplice:

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DELEUZE

Che cos’è l’atto di creazione? - 17/05/1987

Vorrei anch’io porre delle domande. E ponendole a voi, porle a mestesso. Qualcosa… qualcosa del tipo: che cosa fate voi, di preciso,quando fate del cinema? Ed io, che cosa metto in atto precisamentequando faccio (o quando spero di fare) della filosofia? Abbiamodavvero qualcosa da dirci, a tale proposito? Certo, va male dallevostre parti; ma va piuttosto male anche dalle mie! [risata delpubblico] Ma non è solo questo che ci possiamo dire.O meglio, io porrei la questione in maniera diversa: cosa significaavere un’idea nel cinema? Se si fa del cinema, o se si vuol fare delcinema, cosa significa avere un’idea, nel momento in cui diciamo:“ecco, ho un’idea”?Perché da un lato tutti sanno che avere un’idea è un evento raro,succede di rado. Avere un’idea è una specie di festa, ma non succedespesso. D’altra parte, avere un’idea non è qualcosa di generico, non siha un’idea in generale. Ogni idea è già votata, proprio come chi lapartorisce, a questo o quel dominio. Voglio dire che un’idea è talvoltaun’idea in pittura, talvolta un’idea nel romanzo, talvolta un’idea infilosofia, talvolta un’idea scientifica. Ed evidentemente non è la stessapersona che può assommare in sé tutto questo. Se preferite, le ideebisogna trattarle come delle specie di potenziali; le idee sono deipotenziali, ma dei potenziali già compromessi con questo o quel

sistema espressivo ed inseparabili da esso, tanto che non posso maidire: “ho un’idea in generale”. In funzione delle tecniche chepadroneggio, io posso avere un’idea nell’ambito di un dominio:un’idea nel cinema, o di un altro dominio: un’idea in filosofia.Cosa significa avere un’idea in un certo campo? Ritornerei al fatto cheio faccio della filosofia e voi fate del cinema. Allora sarebbe troppofacile dire “beh, sì, tutti sanno che la filosofia si presta alla riflessionesu qualsiasi cosa; perché allora non potrebbe riflettere sul cinema”?Ora, questa è un’idea indegna. La filosofia non è fatta per riflettere suqualsiasi cosa; e non è fatta nemmeno per riflettere su cose diverseda quelle qualsiasi.

Voglio dire che trattando la filosofia come una potenza di riflessionesu, si ha l’aria di concederle molto, ma di fatto la si spoglia di tutto.Perché nessuno ha bisogno della filosofia per riflettere. Con questovoglio dire che i soli capaci effettivamente di riflettere sul cinemasono i cineasti, o i critici cinematografici, o gli amanti del cinema.Nessuno di loro ha bisogno della filosofia per riflettere sul cinema.L’idea che i matematici abbiano bisogno della filosofia per rifletteresulle discipline matematiche è un’idea comica. Se la filosofia dovesseriflettere su qualche cosa, allora non avrebbe alcun bisogno diesistere. Se la filosofia esiste è perché ha il suo proprio contenuto. Se

ci chiediamo: “qual è il contenuto della filosofia”? è affatto semplice:

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la filosofia è una disciplina creatrice, tanto ricca di invenzioni quantole altre discipline. La filosofia è una disciplina che consiste nel creareo inventare concetti. E i concetti non esistono belli e fatti, non sitrovano in una specie di cielo dal quale attendono che un filosofo li

colga. I concetti bisogna fabbricarli.Certo, non si possono fabbricare così; non ci si può dire, un giorno,“ecco, costruirò questo concetto o inventerò quell’altro”. Né più némeno di un pittore che dica “ecco, farò un quadro così”. Bisogna chesorga una necessità. Ma, tanto in filosofia come altrove (anche ilcineasta non può dire: “Ecco, farò questo film”) bisogna che sorgauna necessità, altrimenti non c’è nulla da fare. Rimane il fatto chequesta necessità è qualcosa di estremamente complesso e, se sipresenta, fa sì che io sappia almeno di cosa si occupa un filosofo e,soprattutto, ciò di cui non si occupa affatto, cioè di riflettere,nemmeno sul cinema: egli si propone di inventare, di creare concetti.Se dico di fare della filosofia, ciò significa che cerco di inventareconcetti. Non che cerchi di riflettere su qualcosa d’altro. Se dico a voi,che fate del cinema, “cos’è ciò che fate”? Ne do ora una definizioneun po’ puerile, vi prego di accordarmela, anche se ce ne sonosicuramente di migliori: ecco, direi che ciò che voi inventate non sonoconcetti (che non sono affar vostro); ciò che inventate è piuttostoqualcosa che potremmo chiamare dei blocchi di movimento-durata.Se si fabbricano dei blocchi di movimento-durata, forse, ecco che sista facendo del cinema. Osservate che non si tratta affatto diinvocare una storia o di negarla. Tutto ha una storia. Anche la filosofia

racconta delle storie, delle storie con dei concetti. Supponiamo orache il cinema racconti delle storie attraverso dei blocchi dimovimento-durata. Posso dire allora che ciò che la pittura inventa èun tutt’altro tipo di blocchi: non si tratta né di blocchi di concetti, nédi blocchi di movimento-durata, ma possiamo supporre che siano delblocchi di linee-colore. La musica inventa ancora un altro tipo diblocco molto, molto particolare…Ma in mezzo a tutto questo, sapete, la scienza non è meno creatrice;non vedo un così gran termine d’opposizione tra le scienze e le arti.Se chiedo ad uno scienziato cos’è ciò che fa, anche lì egli inventa, nonscopre. Non che la scoperta non esista, ma non è attraverso di essa

che si definisce un’attualità scientifica in quanto tale. Dunque, perrestare nell’ambito di definizioni altrettanto sommarie come quelledalle quali sono partito, direi che uno scienziato è qualcuno cheinventa o che crea funzioni. Ed è il solo a farlo. Non crea concetti; unoscienziato non ha nulla a che fare, in quanto scienziato, con deiconcetti. È proprio per questo, fortunatamente, che c’è la filosofia. Incompenso c’è qualcosa che uno scienziato e solo uno scienziato safare: inventare e creare funzioni. Ma che cos’è una funzione?Potremmo definirla semplicemente così, come ho cercato di farlofinora, in modo da rimanere ad un livello rudimentale. Non certoperché penso che voi non capireste, ma perché sono io ad aver

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superato il limite… E poi, non c’è abbastanza spazio per ciò che vivorrei dire oggi, non c’è modo di andare oltre. Punterò all’essenziale:che cos’è una funzione? Vi è funzione dal momento in cui c’è unacorrispondenza regolata di almeno due insiemi. La nozione di base

della scienza (e non da ieri ma da almeno tre secoli) è quella diinsieme ed un insieme è completamente diverso da un concetto, nonha nulla a che fare con un concetto. E dal momento in cui mettete incorrelazione regolata degli insiemi voi ottenete delle funzioni e potetedire: sto facendo della scienza. E se chiunque può parlare a chiunque,se un cineasta può parlare ad un uomo di scienza, se un uomo discienza può avere qualcosa da dire ad un filosofo e viceversa, ciòavviene nella misura in cui e in funzione dell’attività creatrice propriaa ciascuno. Non che vi sia un luogo per parlare della creazione ingenerale (la creazione è qualcosa di piuttosto solitario) ma è in nomedella mia creazione che ho qualcosa da dire a qualcuno. E seallineassi tutte queste discipline che si definiscono attraverso la loroattività creatrice, se le allineassi, direi piuttosto che c’è un limitecomune a tutte; e questo limite che è comune a tutte le serie, a tuttequeste serie di invenzioni – invenzioni di funzioni, invenzioni di blocchidi durata-movimento, invenzioni di concetti, ecc. – che cos'è? È lospazio-tempo. Anche se tutte le discipline comunicano tra loro, è allivello di ciò che non si sprigiona mai per se stesso ma che è comeimprigionato in ogni disciplina creatrice, che avviene la costituzione diuno spazio-tempo.

Bresson 

Bresson, beh, è cosa nota: raramente si incontrano spazi interi neifilm di Bresson.Sono degli spazi che potremmo definire “scollegati”. Vale a dire chec’è un angolo, ad esempio l’angolo di una cellula, e poi si vedrà unaltro angolo, oppure una sezione di muro, ecc. tutto accade come selo spazio bressoniano si presentasse, sotto certi aspetti, come unaserie di piccoli frammenti la cui connessione non è predeterminata.Serie di piccoli frammenti, dunque, la cui connessione non èpredeterminata: ci sono dei grandissimi cineasti che, al contrario,

impiegano… degli spazi d’insieme: non sto affatto dicendo che unospazio d’insieme sia più facile da maneggiare. Ah, gli spazi… ce nesono talmente tanti nel cinema! Ma io suppongo che questo sia senzadubbio un tipo di spazio. Tanto che in seguito è stato ripreso da altriche se ne sono serviti in modo creativo, rinnovandolo in rapporto aBresson; ma io penso che Bresson sia stato uno dei primi a costruireuno spazio per mezzo di piccoli frammenti scollegati, vale a dire deipiccoli frammenti la cui connessione non sia predeterminata. Quandodicevo, ad ogni modo, che al limite di ogni tentativo di creazione cisono degli spazio-tempi, beh, certo, non c’è altro che questo! È lì che iblocchi di durata-movimento di Bresson tenderanno verso questo tipo

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di spazio. La risposta viene sola: questi piccoli spezzoni di spazi visivi,la cui connessione non è data in anticipo, attraverso che cosa pensateche siano connessi? Beh, attraverso la mano! (D. mostra la sua manoaperta agli spettatori) Questa non è teoria, non è filosofia, niente di

tutto questo. Non è qualcosa che si possa dedurre così, ma io dicoquesto: che il tipo di spazio di Bresson e la valorizzazionecinematografica della mano sono evidentemente legati. Voglio direche il raccordo di piccoli pezzi di spazio bressoniano, per il fattostesso di essere dei pezzi, dei frammenti scollegati di spazio, non puòessere che un raccordo manuale. Di qui la funzione esaustiva dellamano in tutto il cinema di Bresson... Beh, si potrebbe continuare alungo, perché attraverso questo percorso il blocco d'estensione-movimento di Bresson riceverebbe dunque, come segno proprio alsuo creatore, il carattere di questo spazio particolare, il ruolo dellamano che ne scaturisce direttamente... non c'è che la mano a potereffettivamente operare delle connessioni da una parte all'altra dellospazio. Bresson è senza dubbio il più gran cineasta ad averreintrodotto nel cinema i valori tattili, e non semplicemente perché sariprendere le mani in modo ammirabile. Anzi, se sari prendere inmodo ammirabile le mani è perché ha bisogno delle mani.Un creatore non è qualcuno che lavora per il piacere. Un creatore nonfa che ciò di cui ha assolutamente bisogno.

Storia dell'idiota e dei sette samurai 

Avere un'idea al cinema, ancora una volta, non è la stessa cosa cheavere un'idea altrove. E pertanto ci sono delle idee, nel cinema, chepotrebbero valere anche in altre discipline. Ci sono delle idee nelcinema che potrebbero essere delle eccellenti idee romanzesche, manon avrebbero affatto lo stesso svolgimento. Inoltre ci sono delle ideenel cinema che non possono essere che cinematografiche. Ciòtuttavia non impedisce, nemmeno quando si tratti di ideecinematografiche che potrebbero avere valore romanzesco, che taliidee siano già inviluppate in un processo cinematografico come vi sifossero votate in anticipo. Ciò che dico è importante, perché è unmodo di porre una questione che mi interessa molto: cos'è che fa sì

che un cineasta senta il desiderio di adattare, ad esempio, unromanzo?Mi sembra evidente che, se sente il desiderio di adattare un romanzo,è perché ha delle idee cinematografiche che entrano in risonanza conciò che il romanzo presenta come idee romanzesche. E che lì a volte,anzi, spesso, si fanno dei grandi incontri. È qualcosa di diverso: nonpongo il problema del cineasta che adatta un romanzo notoriamentemediocre. Può avere bisogno del romanzo mediocre e se ne habisogno, ciò non esclude che il film possa essere geniale. Sarebbeinteressante trattare a fondo il problema, ma vorrei porre ora unaquestione un po' diversa, cioè quando un romanzo è un grande

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romanzo; quando si rivela, in altre parole, quella specie di affinità oquando qualcuno ha, nel cinema, un'idea che corrisponde all'idea delromanzo.Uno dei casi più felici è quello di Kurosawa. Ma perché Kurosawa si

trova in una sorta di affinità con Shakespeare e Dostoevskij? Perché civuole un giapponese per entrare così in familiarità con Shakespeare eDostoevskij? Bene, a me sembra – ma è una risposta tra mille altrepossibili, che credo tocchi un po' anche la filosofia – che ai personaggidi Dostoevskij (può essere magari un piccolo dettaglio) succedanospesso cose assai curiose.Generalmente sono molto irrequieti. Un personaggio se ne va, scendein istrada, così tanto per fare e dice: “una persona, la donna che amo, Tania, mi chiama in suo aiuto. Vado, sì, corro, corro... Tania morirà senon vado da lei”. Scende le scale ed incontra un amico, oppure vedeun cane che è stato investito e dimentica completamente tutto. Siscorda. Scorda del tutto che Tania lo aspetta, che sta morendo.Incrocia un amico ed inizia a parlare, se ne va con lui a prendere un tèe poi, tutto a un tratto, esclama: “Tania mi aspetta, bisogna chevada”. [risate in sala] Ma cosa significa tutto questo? Beh, inDostoevskij i personaggi sono presi all'infinito in stati d'urgenza ementre si trovano in tali stati, che sono questione di vita o di morte,sanno che c'è qualcosa di ancora più urgente, ma non sanno cosa siaed è questo che li blocca. Tutto succede come nel massimo pericolo –Al fuoco! Al fuoco! – bisogna che me ne vada, mi dicevo; ma poi no,no, c'è qualcosa di più urgente e non mi muoverò di qui finché non

saprò cos'è.Questo è l'idiota. È la formula dell'idiota. “Ah, sapeste... no, no, c'è unproblema più profondo – ma qual è? – Non ci vedo chiaro, malasciatemi, lasciatemi! Tutto può bruciare, ma solo quando ci saremoarrivati. Bisogna scoprire questo problema più urgente”... Tuttoquesto Kurosawa non l'ha certo imparato da Dostoevskij; tutti ipersonaggi di Kurosawa sono così. Io direi: ecco un incontro, unbell'incontro. Se Kurosawa può adattare Dostoevskij è perché può direalmeno: “Ho un problema in comune con lui. Ho un problema incomune, quel problema lì”. I personaggi di Kurosawa si trovanoesattamente nella medesima situazione, sono presi in situazioni

impossibili: ah, sì, ma attenzione! C'è un problema più urgente ebisogna che io sappia qual è questo problema. Forse Vivere è uno deifilm di Kurosawa che va più lontano in questa direzione; ma tutti i suoifilm vanno in questa direzione. I sette samurai è un film che mi hasempre colpito molto, perché tutti gli spazi di Kurosawa dipendono daesso. È giocoforza che sia una sorta di spazio ovale battuto dallapioggia... ma alla fine poco importa; tutto questo ci porterebbe viatroppo tempo. Anche qui ripiomberemmo sul limite del tutto, che èancora uno spazio-tempo. Ma i sette samurai, vedete, sono presi inuna situazione di urgenza estrema. Hanno accettato di difendere ilvillaggio e, da un capo all'altro, sono lavorati da una questione più

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profonda. C'è una questione più profonda che attraversa tutto questo.E sarà enunciata alla fine dal comandante dei samurai, quando se nevanno: che cos'è un samurai? Che cos'è un samurai, ma non ingenerale, bensì che cos'è un samurai in quell'epoca lì. Forse qualcuno

che non è più buono a nulla. I signori non hanno più bisogno di lui e icontadini saranno presto in grado di difendersi da soli. E lungo tutto ilfilm, malgrado l'urgenza della situazione, i samurai sono ossessionatida questa domanda che è degna de L'idiota, che è una domandaidiota: noi samurai, che cosa siamo? Ecco, io direi che un'idea nelcinema è qualcosa del genere. Voi mi direte che no, dato che è allostesso tempo un'idea romanzesca. Ma un'idea cinematografica è diquesto tipo solo dal momento in cui è già assunta in un processocinematografico; è allora che potrete dire “ho un'idea”, anche sepresa a prestito da Dostoevskij.Direi anche – cerco di farlo velocemente – che un'idea è qualcosa dimolto semplice; ripeto, non è un concetto, non è filosofia. Un concettoè un'altra cosa; da ogni idea si può forse tracciare un concetto. Pensoa Minnelli. A me sembra che in Minnelli vi sia un'idea straordinaria sulsogno. Si può dire che sia un'idea semplice e che sia strettamenteconnessa con tutto un processo cinematografico che è l'opera stessadi Minnelli. La grande idea di Minnelli sul sogno, a mio parere, è che ilsogno riguardi prima di tutto coloro che non sognano affatto. I sognidi chi sogna riguardano coloro che non sognano, ma perché liriguarda? Perché dal momento in cui vi è un sogno dell'altro, vi èpericolo. Forse i sogni delle persone sono sempre sogni divoranti che

rischiano di inghiottirci. E che gli altri sognino, è pericoloso; e che ilsogno sia una terribile volontà di potenza; e che ciascuno di noi siapiù o meno vittima del sogno dell'altro, anche quando si tratta dellafanciulla più graziosa. Anche quando si tratta della fanciulla piùgraziosa è un divoratore terribile, non per la sua anima, ma per i suoisogni. Diffidate del sogno dell'altro, perché quando siete presi nelsogno dell'altro, siete fottuti.

Cadavere 

Ora vorrei parlarvi, altro esempio, di un'idea propriamente

cinematografica: della famosa dissociazione vedere/parlare in uncinema relativamente recente. Anche qui prenderò i casi più noti.Considerate Syberberg, gli Straub, Marguerite Duras: che cos'hannoin comune questi registi, in cosa consiste l'elemento propriamentecinematografico? Questa è un'idea cinematografica: operare unadisgiunzione tra il visuale e il sonoro. Perché questo non si può farenel teatro? O meglio, si può fare, ma allora applicato al teatro – salvoeccezioni e ammesso che il teatro abbia i mezzi per farlo – potremmodire che il teatro l'ha preso a prestito dal cinema. Il che non è unmale, ovviamente, ma si tratta di un'idea talmente cinematograficada assicurare la separazione del vedere e del parlare, del visuale e

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del sonoro. Questo corrisponderebbe alla domanda: “che cosasignifica avere un'idea cinematografica?”. Tutti sanno in cosaconsiste, ma lo dirò a mio modo: una voce parla di qualcosa e allostesso tempo ci si fa vedere un'altra cosa e, alla fine, ciò di cui ci

parla è al di sotto di ciò che ci viene mostrato. Questo terzo punto èmolto importante. Sentite bene che è lì che il teatro non potrebberiuscire. Il teatro potrebbe assumere le prime due proposizioni:qualcuno ci parla di qualcosa e ce ne fa vedere un'altra. Ma ciò di cuisi parla si mette contemporaneamente al di sotto di ciò che ci vienefatto vedere. Ed è necessario, altrimenti le prime due operazioni nonavrebbero alcun senso, alcun interesse. Se preferite, si potrebbe direin termini più... La parola si leva nell'aria al tempo stesso in cui laterra che vediamo sprofonda sempre più. O piuttosto che nello stessoistante in cui questa parola si eleva nell'aria e ci parla, ciò di cui ciparla sprofonda sotto terra.Cos'è dunque questo? Se non c'è che il cinema che lo possa fare. Nonsto affatto dicendo che lo debba fare – lo avrà fatto sì e no due o trevolte – posso solo dire che coloro i quali hanno avuto questa ideasono dei grandi cineasti. Non si tratta affatto di dire se sia qualcosada fare oppure No. Bisogna avere delle idee, qualunque siano. Ah,questa è un'idea cinematografica! Io dico che è prodigiosa, perchéassicura a livello cinematografico una vera trasformazione deglielementi. Un ciclo di grandi elementi che fa sì che di colpo il cinemafaccia eco con... come dire... con una fisica qualitativa degli elementi.Ciò dà luogo ad una specie di trasformazione: l'aria, la terra e l'acqua

e il fuoco perché, bisognerebbe aggiungere... non ne abbiamo iltempo, evidentemente, ma scopriremmo il ruolo di altri due elementi,una grande circolazione di elementi nel cinema. In mezzo a tuttoquesto, per di più, la storia non scompare; la storia è sempre lì, maciò che ci interessa capire è che la storia è così interessante proprioperché c’è dietro tutto questo. È proprio questo ciclo, così come l'hoappena definito in modo così rapido: la voce si innalzacontemporaneamente a ciò di cui si parla e fugge sulla terra.Avrete riconosciuto buona parte dei film di Straub, il grande ciclodegli elementi di Straub. Ciò che vediamo è unicamente la terradeserta, ma questa terra deserta è come carica di ciò che vi è sotto.

Voi mi direte: “che cosa c'è sotto, cosa ne sappiamo?” Beh, è propriociò di cui la voce ci parla. È come se la terra, là, si deformasse acausa di ciò che la voce ci dice e che viene a posarsi sulla terra, a suotempo e luogo. E se la terra e se la voce ci parlano di cadaveri, è tuttoil lignaggio dei cadaveri che viene a prendervi posto, nonostante inquel momento il minimo fremito di vento sulla terra deserta, sullospazio vuoto sotto i vostri occhi, la più piccola cavità, tutto assuma unsenso.

Che cos’è l’atto di creazione? 

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Vedete bene che avere un'idea, in ogni caso, non è qualcosadell'ordine della comunicazione. Ed è qui che volevo arrivare, perchéciò riguarda delle domande che mi sono state gentilmente poste.Vorrei spiegare fino a che punto ciò di cui stiamo parlando sia

irriducibile ad ogni forma di comunicazione. Niente di grave, ma cosavuol dire? A me sembra che si potrebbe dire, in prima istanza, che lacomunicazione sia trasmissione e propagazione di un'informazione.Ora, che cos'è un'informazione? Non è così complicato, tutti lo sanno:un'informazione è un insieme di parole d'ordine. Quando vi si informa,vi si dice ciò che si suppone dobbiate credere. In altre parole,informare è far circolare una parola d'ordine. Le dichiarazioni dellapolizia, non a caso, sono dette “comunicati”. Ci viene comunicataun'informazione: vale a dire che ci viene detto ciò che si suppone noisi debba credere, ciò che siamo tenuti a credere. Magari nemmeno acredere, ma di fare come se ci si credesse; non ci viene chiesto dicredere: ci viene chiesto di comportarci come se ci credessimo.Questa è l'informazione, la comunicazione e, al di fuori di questeparole d'ordine, della trasmissione di queste parole d'ordine, non c'ècomunicazione, non c'è informazione. La logica conclusione è chel'informazione è esattamente il sistema di controllo.È vero, sto dicendo delle banalità, se non fosse per il fatto che tuttociò oggi ci riguarda in modo particolare. Ci riguarda, perché stiamoentrando in una società che potremmo definire “società di controllo”.Sapete, un pensatore come Michel Foucault aveva fatto l'analisi didue tipi di società assai prossime alla nostra. Le prime le chiamò

“società di sovranità”, le seconde “società disciplinari”. La societàdisciplinare – e le sue analisi sono rimaste a giusto titolo celebri – sidefinisce attraverso la costruzione di luoghi di reclusione: prigioni,scuole, laboratori, ospedali. E le società disciplinari avevano bisognodi questo. Ma tutto ciò ha generato non poche ambiguità in certilettori di Foucault, perché hanno creduto che questo fosse l'ultimo suopensiero. Evidentemente No. Foucault non ha mai creduto – e l'hadetto molto chiaramente – che le società disciplinari fossero eterne.Anzi, pensava evidentemente che noi si stesse entrando in un nuovotipo di società. Certo, ci sono residui di società disciplinare di ognitipo, e ce ne saranno per anni e anni. Ma noi sappiamo già di vivere in

società di altro tipo, società che dovremmo chiamare semplicemente– è Borroughs ad aver coniato il termine, e Foucault nutriva unavivissima ammirazione per Borroughs – società di controllo. Entriamonelle società di controllo, che si definiscono in termini molto diversirispetto a quelle disciplinari, dal momento in cui non abbiamo piùbisogno – o meglio, coloro i quali vegliano sul nostro bene non hannopiù bisogno – di luoghi di reclusione.Voi mi direte che non è affatto evidente, visto tutto quel che stasuccedendo oggi; ma non è affatto questo il problema. Si tratteràforse di una cinquantina d'anni, ma già adesso le prigioni, le scuole,gli ospedali sono oggetto permanente di discussione. Non è che per

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caso sarebbe meglio fornire cure a domicilio? Sì, questo è senzadubbio il futuro. I laboratori, le fabbriche... fanno acqua da tutte leparti; non sarebbe meglio un sistema di subappalti, oppure il lavoro adomicilio? E poi il problema delle prigioni: cosa bisogna fare, cosa

bisogna escogitare? Non c'è proprio altro mezzo per punire la genteche metterla in prigione? Sono i vecchi problemi che ritornano,perché, evidentemente, le società di controllo non passeranno piùattraverso dei luoghi di reclusione. Anche la scuola; bisogna cheanche nella scuola vi sia una sorveglianza sull'insorgere di questenuove tematiche. Tutto questo si svilupperà nell'arco di quaranta,cinquant'anni, ma vorrei spiegarvi che la cosa straordinaria consisterànel fare contemporaneamente scuola e professione. Questa sarà unacosa interessante, perché l'identità di scuola e professione nellaformazione permanente – che è il nostro avvenire – non implicheràpiù forzatamente il raggruppamento degli alunni in un luogo direclusione. Tutto questo si potrà fare in altro modo, si farà perminitel... Infine, tutto quel che volete, ma la cosa stupefacentesaranno le forme di controllo. Vedete in cosa un controllo differisce dauna disciplina: io direi, ad esempio, di un'autostrada... Costruendodelle autostrade, voi moltiplicate i mezzi di controllo; non sto dicendoaffatto che questo sia l'unico scopo dell'autostrada, ma resta il fattoche delle persone possano girare all'infinito senza essere per nullarinchiuse, in un regime perfettamente controllato. Questo è il nostroavvenire, le società di controllo e non le società disciplinari.Allora, perché vi racconto tutto questo? Beh, perché l'informazione –

supponendo che l'informazione sia esattamente questo – è il sistemadi controllo delle parole d'ordine, delle parole d'ordine che hannocorso in una determinata società.Cos'ha a che fare l'arte con tutto questo? Cos'è che l'opera d'arte...Voi mi direte “ma suvvia, tutto questo non vuol dir nulla”. Allora nonparliamo affatto di opera d'arte; parliamo, diciamo almeno che c'èdella contro-informazione. Per esempio, ci sono dei paesi nei quali, incondizioni particolarmente dure e crudeli, paesi sotto dittatura, neiquali c'è della contro-informazione. Ai tempi di Hitler, gli ebrei chearrivavano dalla Germania e che furono i primi a dirci dell'esistenzadei campi di sterminio, facevano della contro-informazione. Ciò che

bisogna constatare è che, a mio avviso, mai la controinformazione èservita ad alcunché. Nessuna contro-informazione ha mai messoHitler in difficoltà. No, tranne in un caso, ma in quale? È questol'importante. La mia sola risposta è: la contro-informazione diventaeffettivamente efficace solo dal momento in cui è – e lo è per suanatura – o diviene atto di resistenza. E l'atto di resistenza non è néinformazione né contro-informazione. La contro-informazione èefficace solo dal momento in cui diventa atto di resistenza.

Malraux 

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Qual è il rapporto tra l'opera d'arte e la comunicazione?Nessuno, nessuno.L'opera d'arte non è uno strumento di comunicazione. L'opera d'artenon ha nulla a che fare con la comunicazione. L'opera d'arte non

contiene, a rigor di termini, la minima informazione. In compenso… incompenso c'è un'affinità fondamentale tra l'opera d'arte e l'atto diresistenza. Allora lì sì, che ha qualcosa a che fare con l'informazione econ la comunicazione, a titolo di atto di resistenza. Ma qual è ilrapporto misterioso che intercorre tra un'opera d'arte e un atto diresistenza? Dal momento in cui gli uomini che resistono non hanno néil tempo né talvolta la cultura necessari per avere alcun rapporto conl'arte... non so. Malraux sviluppa un buon concetto filosofico. Malrauxdice una cosa molto semplice sull'arte; dice: “È la sola cosa cheresiste alla morte”.Ritorniamo al mio discorso di poco fa, all'inizio, su cosa significhi faredella filosofia; in filosofia si inventano concetti. E io trovo che quellasia la base di un buon concetto filosofico. Riflettete. Cos'è che resistealla morte? Senza dubbio è sufficiente osservare una statuettavecchia di tremila anni per rendersi conto che la risposta di Malraux èuna risposta piuttosto buona. Allora potremmo dire, un po' menobene ma dal nostro punto di vista, che l'arte è ciò che resiste; forsenon è la sola cosa a resistere, ma è ciò che resiste. Di qui, il rapportocosì stretto tra l'atto di resistenza e l'opera d'arte. Nessun atto diresistenza è un'opera d'arte, benché lo sia in un certo qual modo.Nessuna opera d'arte è un atto di resistenza, benché in un certo qual

modo lo sia. Ci sarebbe bisogno di un'altra riflessione, una lungariflessione per... Voglio dire, se mi permettete di ritornare a “che cos'èavere un'idea nel cinema?” o “che cos'è avere un'ideacinematografica?” Quando vi dicevo di prendere il caso, per esempio,degli Straub quando operano questa disgiunzione voce / sonoro nellecondizioni descritte in precedenza.Ora, qual è questo atto di parola che si eleva nell'aria mentre il suooggetto passa sotto la terra? Resistenza. Atto di resistenza. E in tuttal'opera di Straub l'atto di parola è un atto di resistenza. Da Mosèall'ultimo Kafka, passando per Bach. Fate uno sforzo di memoria: checos'è l'atto di parola di Bach? È la sua musica. È la sua musica ad

essere atto di resistenza. Ma atto di resistenza contro cosa? Non è unatto di resistenza astratto; è atto di resistenza e di lotta attiva controla ripartizione del sacro e del profano. E questo atto di resistenza inmusica culmina in un grido. Così come c'è un grido di Woyzeck, c'è ungrido di Bach: “fuori, fuori, andatevene, non voglio più vedervi!”Questo è l'atto di resistenza. Allora, quando gli Straub valorizzanoquesto grido, il grido di Bach, o quando valorizzano il grido dellavecchia schizofrenica, tutto questo deve rendere conto di unacoscienza. A me sembra che l'atto di resistenza abbia due facce: èatto umano ma è anche atto artistico. Solo l'atto di resistenza resistealla morte, sia sotto forma di un'opera d'arte, sia sotto forma di una

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lotta tra gli uomini. E in quale rapporto sta questa lotta tra uomini conl'opera d'arte? Il rapporto più stretto e per me più misterioso:esattamente ciò che Paul Klee voleva dire quando diceva: “Sapete, ilpopolo manca”. Il popolo manca e, al contempo, non manca affatto. Il

popolo manca, vuol dire – non è chiaro, non sarà mai chiaro – questaaffinità fondamentale tra l'opera d'arte e un popolo che non esisteancora. Bene, eccoci giunti alla fine... mi sento molto onorato, per lavostra grande gentilezza nell'avermi ascoltato. Vi ringrazio molto.

 Traduzione di Giovanni Fazzini