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L’economia e la finanza nei mercati globali: le cause “filosofiche” dei problemi, la
declinazione dei problemi in banca e finanza e le direzioni per le soluzioni
Leonardo Becchetti, Università Roma Tor Vergata
Mantenere viva la realtà delle democrazie è una sfida di questo momento storico, evitando che la
loro forza reale – forza politica espressiva dei popoli – sia rimossa davanti alla pressione di interessi
multinazionali non universali, che le indeboliscano e le trasformino in sistemi uniformanti di potere
finanziario al servizio di imperi sconosciuti. Questa è una sfida che oggi la storia vi pone.”1
Discorso di Papa Francesco al Parlamento Europeo
1. Premessa
Alla radice dei problemi della finanza e dell’economia ci sono oggi tre mali “filosofici” che possiamo
definire riduzionismi. In particolare si tratta di riduzionismo antropologico, riduzionismo nella
visione dell’impresa e riduzionismo nella concezione del valore (capitolo 2).
Da questi tre errori conseguono tutti i problemi pratici che osserviamo e che descriverò nella seconda
parte (capitolo 3) con applicazione particolare al mondo della finanza. Focalizzando l’attenzione in
particolare su come il vulnus del riduzionismo nella visione dell’impresa (massimizzazione del
profitto) produce: i) allontanamento del sistema finanziario dalla sua missione di sostenere
l’economia reale e ancor più le piccole e medie imprese e di favorire l’accesso al credito dei più
poveri; ii) aumento dei rischi sistemici ed ipervolatilità; iii) amplificazione dei conflitti distributivi a
causa della struttura sbilanciata dei meccanismi di remunerazione di managers e traders. Nella terza
parte (capitolo 4) proporrò alcune piste di lavoro per le soluzioni nell’ottica del magis “ignaziano”,
ovvero del massimo impatto possibile in termini di bene comune coerentemente con la logica del
principio del “tempo superiore allo spazio” molto caro al Pontefice
Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi
di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere
tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di
autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo
significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li
illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di
privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e
gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà,
però con convinzioni chiare e tenaci).
Papa Francesco, Evangelii Gaudium
1 http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/november/documents/papa-
francesco_20141125_strasburgo-parlamento-europeo.html
Il focus sarà in particolare concentrato sui seguenti punti: i) sostegno e stimolo alle iniziative pioniere
per il bene comune in finanza (banche e fondi etici) attraverso la promozione dell’azione dal basso
del voto col portafoglio; ii) iniziative opportune di riforma delle regole del sistema con particolare
attenzione alla tassa sulle transazioni finanziarie, alla riforma delle remunerazioni di manager e alla
tutela della biodiversità bancaria
2. I mali filosofici i tre riduzionismi
2.1 Riduzionismo antropologico
Il riduzionismo antropologico consiste nel concepire l’uomo come homo economicus, tecnicamente
in economia ciò vuol dire che l’utilità/felicità della persona nei modelli di economia dipende
unicamente dall’accrescimento dei beni di cui dispone o delle proprie dotazioni monetarie. E’ questo
quello che di fatto si insegna nelle business schools e nei libri di microeconomia. Da rilevare che non
si tratta di un problema intrinseco al modello perchè l’approccio della razionalità (coerenza mezzi-
fini e uso ottimale delle risorse e delle strategie al fine di ottenere il massimo risultato) di solito
utilizzato nei nostri modelli infatti rende possibile allargare il paradigma a forme di razionalità che
includano reciprocità, altruismo, avversione alla diseguaglianza (o preferenza per l’equità e le pari
opportunità).2 Quello che accade di fatto è che la funzione di utilità viene ristretta ai soli elementi
indicati sopra.
L’homo economicus come sostiene efficacemente il nobel Amarthya Sen è un “idiota sociale”, ovvero
tecnicamente una persona non in grado di generare fertilità sociale. La vita economica è infatti fatta
essenzialmente di dilemmi sociali (giochi di fiducia, dilemmi del prigioniero) ovvero situazioni nelle
quali in presenza di fiducia, cooperazione, meritevolezza di fiducia i soggetti si fanno carico del
“rischio sociale” mettendosi nelle mani dell’altro senza protezione legale, condividendo informazioni
e lavorando in squadra. E’ in questo modo che si genera superadditività (ovvero risultati superiori
alla somma di quanto i singoli avrebbero potuto fare da soli non coordinandosi) - principio che
Francesco ha spiegato efficacemente quando parlando ai cooperatori ha detto “uno più uno fa tre”. E’
ben noto in letteratura economica invece che l’homo economicus produce in questi dilemmi sociali il
2 Come acutamente sottolineano Binmore e Sutton il problema non è il principio di massimizzazione
perché questo è un vestito che può adattarsi sia a S. Francesco che ad Attila. Nonostante la
profonda diversità dei loro obiettivi entrambi si sforzano di perseguire al meglio il loro obiettivo,
nel primo caso la qualità del rapporto con Dio e con l’uomo, nel secondo caso la conquista bellica.
Se è pur vero che molti sono gli ostacoli all’esercizio della razionalità (le dipendenze, i bias
cognitivi) è anche vero che il desiderio di migliorarsi e di ottenere il massimo ci spinge sanamente
all’ottimizzazione . Il problema diventa dunque ciò che si ottimizza e qui si annida il “baco della
teoria”. Economics is not not to be committed to any particular view of how human minds work”.
the methodology “remains the same whether [players in game theory] are Attila the Hun or St.
Francis of Assisi Binmore and Shaked (2010) Binmore, K. . & Shaked, A. (2010), Experimental
Economics:where next ? Rejoinder, Journal of Economic Behavior & Organization, 73, 120–
121
peggior risultato perché paralizzato dalla sfiducia e dall’incapacità di cooperare come spiegato molto
bene in quest’aforisma di Hume
« Il tuo grano è maturo, oggi, il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi se oggi io... lavorassi
per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo nessun particolare sentimento di
benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per
te perché non ho alcuna garanzia che domani tu mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti
lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma il maltempo sopravviene
e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di una
garanzia.» (Hume Trattato sulla natura umana, 1740, libro III).
I risultati su vasta scala dell’economia sperimentale ci dicono che per fortuna l’homo economicus èp
minoranza3 anche se lo sguardo avvilente del riduzionismo antropologico rischia di creare ciò che
teorizza, plasmando i soggetti e riducendoli a ciò che essa osserva. Se insomma, ricordando Toniolo,4
“l’interesse personale esercita una grande funzione nel magistero della vita individuale e collettiva
tutta intera: in armonia con una delle supreme leggi fisiche dell’universo esso rappresenta la forza
di gravità del mondo morale, del quale anzi non solo è condizione e mezzo di equilibrio ma ancora
uno degli elementi o fattori di progresso” è altrettanto vero che la dittatura dell’autointeresse finisce
per allontanarci dalla stessa energia che rende possibili grandi imprese in campo economico perchè
“l’energia del lavoro, la virtù dei risparmi, non solo ma ancora l’idea di quelle grandi imprese che
eccedono la durata della vita dell’individuo”…”ripetono soprattutto l’impulso dagli affetti di
famiglia, dal desiderio di sollevarla in istato, di crescerne il decoro e non già dai calcoli di un gretto
interesse personale”.
Il riduzionismo antropologico dell’homo economicus rappresenta in sintesi un ostacolo alla fertilità
economica e sociale dell’individuo e alla sua realizzazione personale in termini di generatività in
società. Queste due affermazioni sono empiricamente e scientificamente suffragate da tutta la
letteratura della teoria dei giochi e degli studi empirici sulle determinanti della felicità.
2.2 Riduzionismo nella concezione d’impresa.5
3 Engel (2010) in una rassegna dei risultati di 328 diversi esperimenti calcola che soltanto il 36
percento degli individui si comporta da homo economicus rivelandosi del tutto privo di attitudini pro-
sociali in questi esperimenti. La quota più alta è quella degli studenti delle facoltà economiche
(attorno al 40 percento) mentre si scende sensibilmente (sotto il 20 percento) tra gli adulti e gli anziani. 4 “Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche” del 5 dicembre 1873
all’Università di Padova 5 “Si va sempre piu` diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell’impresa non puo`
tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le
altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori
dei vari fattori di produzione, la comunita` di riferimento. Negli ultimi anni si e` notata la crescita di
una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di
riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi”
Caritas in Veritate
Il contributo creativo dell’impresa all’economia è rappresentato dal valore aggiunto, ovvero dalla
differenza dal valore delle materie prime e degli input che l’impresa trova in natura e trasforma in
prodotti finali. La torta creata del valore aggiunto viene poi divisa tra i diversi portatori d’interesse
(stakeholders) che hanno contribuito alla sua realizzazione. Ciò avviene sotto forma di profitto per
gli azionisti, di premi salariali per i lavoratori, di sconti per i consumatori, di iniziative di solidarietà
e di sponsorship per le comunità locali, di condizioni eque per i fornitori. La cultura economica ha
progressivamente travisato questo punto facendo credere che il contributo dell’impresa sia
rappresentato dal profitto. In quasi tutti i modelli economici le imprese sono rappresentate come
massimizzatrici di profitto e si ritiene residuale la presenza di organizzazioni produttive di tipo
diverso (cozzando con la realtà dei fatti dove moltissime organizzazioni produttive hanno obiettivi
diversi da quelli della massimizzazione del profitto). Di fatto confondere il contributo creativo
dell’impresa con il profitto vuol dire confondere la fetta con la torta e l’obiettivo della
massimizzazione del profitto implica che l’obiettivo dell’impresa diventi massimizzare la fetta di uno
dei portatori d’interesse a scapito di tutti gli altri. Ciò implica in concreto che ogni qualvolta
nell’impresa ci sono scelte dilemmatiche o che implicano problemi distributivi tra i diversi portatori
d’interesse l’interesse degli azionisti è di fatto sovraordinato a quello di tutti gli altri. Per fare solo
qualche esempio, se si tratta di scegliere tra più tutele per i lavoratori che riducono gli utili di fine
anno e più utili ma meno tutele dei lavoratori il principio della massimizzazione del profitto impone
di scegliere la seconda strada. Il principio della massimizzazione del profitto (soprattutto di quello a
breve) spinge ad esempio ad aumentare i profitti a breve rinunciando ad investire per migliorare la
sostenibilità ambientale di un impianto industriale (come accaduto a Taranto con l’Ilva e con
conseguenze di medio termine devastanti per la stessa proprietà).
Questo cozza chiaramente con principi di equità e con il primato del lavoro che è un cardine della
dottrina sociale della chiesta. Nonché con il senso comune e i risultati delle determinanti della
soddisfazione e senso della vita che indicano chiaramente come la dimensione del lavoro è centrale e
molto più importante per la persona di quella della crescita del valore delle azioni. Una delle
giustificazioni a posteriori del riduzionismo è che l’azionista è colui che rischia di più nell’impresa e
dunque ha diritto ad un trattamento di favore. In realtà non è affatto così in quanto l’azionista che
dispone di un portafoglio finanziario può diversificare i suoi investimenti e quindi ridurre il rischio
connesso al singolo investimento. Al contrario sono proprio i lavoratori meno specializzati che hanno
investito tutte le loro competenze e capitale umano in una determinata attività ad essere più a rischio
in caso di fallimento di quell’attività, lo testimonia la difficoltà di ricollocare sul mercato del lavoro,
lavoratori di età medio-alta che perdono il loro posto (Blair and Stout, 1999).6 Il riduzionismo nella
concezione d’impresa è di fatto la regola per ogni impresa che si quota in borsa. Quotandosi il
principio fondamentale diventa quello della creazione di valore per gli azionisti e quindi della
massimizzazione del profitto.
Se dunque è vero che l’azionista è un portatore d’interesse fondamentale per la vita dell’azienda e il
suo rischio va opportunamente remunerato per evitare che l’impresa sia a corto di questa preziosa
fonte di finanziamento è altrettanto vero che ma massimizzazione del profitto (e in particolare quella
a breve) ha prodotto paradossi che non solo muovono in direzione contraria del primato della persona
e della dignità del lavoro ma finiscono per essere avversi anche allo stesso buon funzionamento del
sistema economico spiazzando la scelta di investire nel medio-lungo periodo (finanziando attività a
6 Blair, M. M., and L. A. Stout, 1999, A Team Production Theory of Corporate Law, in Virginia
Law Review, Vol. 85(2), pages 247--328
rendimento moderato che si realizza a distanza di tempo) rispetto alla speculazione di breve (che
insegue rendimenti elevati nel breve/brevissimo periodo). Abbiamo bisogno in finanza di più capitali
pazienti e meno “capitali supersonici” ma la massimizzazione del profitto a breve non ci aiuta a
raggiungere l’obiettivo.
Nella terza parte dello scritto approfondiremo lungo questa linea in che modo il riduzionismo nella
concezione d’impresa determina una serie di problemi nei mercati finanziari globali
2.3 Riduzionismo nella concezione del valore
Il terzo riduzionismo in economia riguarda la concezione del valore. Ciò che viene definito come
valore in un sistema socio-economico diventa di fatto l’orizzonte a cui tendere e indica la direzione
di marcia della società. Le tavole della legge laiche contengono due soli comandamenti: e' bene fare
ciò che aumenta il valore è male fare ciò che lo riduce. La scorciatoia riduzionista identifica il valore
con il PIL. Come ha efficacemente spiegato in un famoso discorso Robert Kennedy è evidente che il
PIL non può essere il metro del valore di una società
“Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per
sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le
serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle [...].
Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri
bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca
per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la
polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i
bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro
educazione o della gioia dei loro momenti di svago. [...] Non comprende la bellezza della nostra
poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri
pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti
fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la
nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve,
eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non
se possiamo essere orgogliosi di essere americani”
Robert Kennedy del 18 marzo del 1968,
Il benessere, inteso come soddisfazione di vita e senso della vita, dipende da una serie di fattori che,
come efficacemente illustrato nella citazione riportata sopra, non entrano nel PIL mentre il PIl a sua
volta cresce per fattori che peggiorano e non migliorano la nostra vita. Non ultimi droga,
contrabbando e prostituzione che sono stati recentemente inseriti dagli istituti di statistica europei nel
computo del PIL. Poiché il PIL è la somma dei valori aggiunti prodotti dai vari settori produttivi.
Il riduzionismo del valore che identifica il valore con il PIl è pertanto fuorviante sotto diversi punti
di vista. Primo, il PIl non rappresenta bene neanche il benessere economico che è più propriamente
misurato dal reddito disponibile delle famiglie al netto delle tasse e dopo aver pagato beni e servizi
pubblici essenziali come istruzione e sanità. Il PIl è inoltre una misura che non tiene conto della
distribuzione, in media può salire anche se migliora solo la condizione economica dei più ricchi e le
diseguaglianze crescono. E’ esattamente quello che è successo negli ultimi anni nel mondo dove,
come ci ricorda il rapporto Oxfam la crescita di PIL dal 2000 ad oggi è andata per il 49% al top 1%
dei più ricchi e per l’1% alla metà più povera della popolazione mondiale portando la diseguaglianza
nella ricchezza a livelli particolarmente elevati (i 62 più ricchi del mondo hanno la stessa ricchezza
della metà più povera della popolazione mondiale).
Se la scala dei valori di una società e il contributo al suo benessere è definita dal PIL una “velina”
vale più di un’insegnante. Proprio in riferimento alla finanza negli Stati Uniti ancor più che in Europa
il guadagno è indicatore di prestigio sociale e i differenziali salariali implicano rendite abnormi per
chi dedica le proprie energie ad attività speculative. Si consideri da questo punto di vista che, per
guadagnare quello che l’amministratore delegato di Lehman Brothers ha percepito complessivamente
in emolumenti vari l’anno prima del fallimento della banca d’affari un professore di scuola italiana
impiegherebbe in base al proprio salario medio 4500 anni (dovrebbe iniziare a lavorare dall’età dei
Sumeri). Senza pretendere un totale appiattimento dei salari incorrelato con il merito sarebbe
opportuno che i guadagni fossero correlati al contributo che le persone danno al benessere e alla
crescita delle economie e sicuramente, alla luce di quanto successo con la crisi, il contributo medio
dei secondi è superiore a quello del primo.
Quando mettiamo al centro dei valori la massimizzazione del profitto i difetti dei due riduzionismi si
moltiplicano perché ai problemi creati dal riduzionismo del valore si aggiungono quelli del
riduzionismo d’impresa. Ovvero assistiamo ad una doppia deformazione perché il profitto non è una
corretta approssimazione del valore economico creato da un’impresa (il valore aggiunto) e il PIl che
è la somma dei valori aggiunti non è una corretta approssimazione del benessere e del bene comune.
La risposta culturale al riduzionismo di valore è la costruzione e l’utilizzo per le valutazioni d’impatto
di indicatori di benessere più ampi ed articolati come ad esempio il BES (benessere equo e sostenibile)
costruito in Italia dall’Istat negli ultimi anni.
Una risposta culturale e spirituale ancora più interessante in questa direzione è quella della “ricca
sobrietà” che emerge da una delle parti più originali della Laudato Sii dove la sobrietà è concepita
come un di più e non un di meno.7
7 La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita, e incoraggia
uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente senza essere ossessionati
dal consumo. È importante accogliere un antico insegnamento, presente in diverse tradizioni
religiose, e anche nella Bibbia. Si tratta della convinzione che “meno è di più”. Infatti il costante
cumulo di possibilità di consumare distrae il cuore e impedisce di apprezzare ogni cosa e ogni
momento. Al contrario, rendersi presenti serenamente davanti ad ogni realtà, per quanto piccola
possa essere, ci apre molte più possibilità di comprensione e di realizzazione personale. La
spiritualità cristiana propone una crescita nella sobrietà e una capacità di godere con poco. È un
ritorno alla semplicità che ci permette di fermarci a gustare le piccole cose, di ringraziare delle
possibilità che offre la vita senza attaccarci a ciò che abbiamo né rattristarci per ciò che non
possediamo. Questo richiede di evitare la dinamica del dominio e della mera accumulazione di
piaceri (Laudato Si’, 222).
La sobrietà, vissuta con libertà e consapevolezza, è liberante. Non è meno vita, non è bassa intensità,
ma tutto il contrario. Infatti quelli che gustano di più e vivono meglio ogni momento sono coloro che
smettono di beccare qua e là, cercando sempre quello che non hanno. La felicità richiede di saper
limitare alcune necessità che ci stordiscono, restando così disponibili per le molteplici possibilità
3. La traduzione dei tre riduzionismi nei mali specifici del sistema finanziario
Dai tre riduzionismi derivano come logiche conseguenze alcuni mali specifici del sistema finanziario.
In primis il mission drift delle banche dalla tradizionale funzione di finanziamento agli investimenti
dell’economia reale. La massimizzazione del profitto spinge le banche a prestare sempre meno
soprattutto alle PMI. Dagli stessi riduzionismi (e dall’assenza di regolamentazione in grado di frenare
il fenomeno) deriva la spinta ad eccessive prese di rischio e all’ipervolatilità dei mercati finanziari.
La traduzione del principio riduzionista nei sistemi di remunerazione dei manager produce aumento
di rischi sistemici ed esasperazione dei conflitti distributivi (3.4)
3.1 Il riduzionismo d’impresa (massimizzazione del profitto) spinge gli intermediari finanziari
lontano dalla loro mission originaria di finanziamento all’economia reale e soprattutto alle PMI
L’effetto più deleterio del riduzionismo d’impresa in finanza è il “mission drift” (il progressivo
allontanamento dalla propria missione) degli intermediari finanziari. Fare credito è infatti un’attività
a bassissimo rendimento (soprattutto oggi in un’epoca di tassi zero o negativi) e ad alto rischio. Inoltre
i requisiti regolamentari che impongono alle banche di accantonare capitale a fronte del rischio di
credito diventano sempre più severi. La conclusione è che se una banca massimizza il profitto sarà
sicuramente più redditizio per lei dedicarsi a servizi o a qualunque altra attività diversa dalla
concessione del credito alle imprese. Ciò è ancor più vero per i prestiti alle piccole e medie imprese
che dove il rapporto tra rendimento e rischio per chi presta è ancora più sfavorevole (i guadagni da
interesse su piccoli prestiti sono molto esigui per definizione e i costi fissi di istruttoria e di selezione
del progetto gli stessi di quelli per l’erogazione di un prestito di grandi dimensioni). Neppure gli
algoritmi automatici di merito di credito che in parte aiutano sul credito al consumo riescono a
risolvere il problema in questo caso automatizzando procedure e riducendo costi.
Ergo un sistema finanziario dove vige il criterio della massimizzazione del profitto sarà sempre meno
orientato al credito e sempre più alla finanza pura. La legge è confermata dal fatto che le banche non
massimizzatrici di profitto (cooperative, etiche) prestano molto di più. I dati recenti indicano infatti
che Il rapporto tra impieghi e totale dell’attivo (ovvero l’intensità di credito e la misura in cui le
banche si dedicano a quest’attività) è bassa nelle grandi banche sistemiche (40% in media nel 2014),8
più elevata di circa 10-15 punti percentuali nelle banche cooperative a voto capitario e ancora
superiore nel piccolo insieme delle banche etiche mondiali (Global Alliance for Banking on Values)
(75% in media nello stesso anno). Le Banche di credito cooperativo in Italia rappresentano il 7
che offre la vita. (Laudato sì 223)
8 Becchetti L. Ciciretti R., Paolantonio A., 2014, Is There a Cooperative Bank Difference? AICCON CEIS working paper n.313 (in corso di pubblicazione su International Journal of Money and Finance)
percento del mercato del credito ma il 21% del credito alle imprese artigiane e il 58% del
microcredito.
La tabella riportata di sotto conferma quanto affermato confrontando banche “etiche” facenti parte
della Global Alliance e grandi banche sistemiche ed indicando come le prime hanno un’intensità di
credito sensibilmente maggiore e una minore volatilità del rendimento dell’attivo e del capitale di
rischio.
Martin Wolf, uno dei massimi editorialisti del Financial Times, consapevole dei problemi generati
dal riduzionismo della massimizzazione del profitto nel settore bancario, qualche tempo fà si
lamentava del fatto che gli impulsi monetari delle banche centrali (leggasi quantitative easing) non
si trasformavano in credito alle imprese perché le banche non usavano tali risorse per aumentare i
prestiti e che dunque, di fatto, la politica monetaria era inefficace in presenza del modello di banca
oggi dominante. Wolf finiva il suo pezzo auspicando addirittura il ritorno ad una forma di banca
pubblica (evidentemente assunta come più fedele nella trasmissione delle politiche monetarie).
Piuttosto che oscillare perennemente tra questi due pendoli faremmo bene a valorizzare il terzo genere
della banca “sociale” (cooperativa od etica) di mercato che ha come propria mission non quella della
massimizzazione del profitto ma del servizio al territorio e che ha nel suo dna i valori della mutualità
e della solidarietà. L’Italia ha nel credito cooperativo una ricchissima tradizione in materia e nella
banca Etica un’esponente che ha rinnovato ed innovato rispetto a questa tradizione. Tutto ciò è
coerente con i dati storici delle banche cooperative che nel mondo negli ultimi trent’anni hanno un
rapporto di prestiti alla clientela sul totale degli attivi di molti punti percentuali superiore alle banche
spa (e una volatilità degli indici di redditività di gran lunga inferiore). Se poi in particolare in Italia le
BCC erogano il 7,1% del credito totale ma più del 21% del credito alle imprese artigiane qualche
ragione ci sarà nella preoccupazione delle associazioni di categoria relativamente alle sorti della
banca cooperativa. Per ovviare alla legge di Murphy del credito bancario ci sono due strade. La prima
(separazione tra banca commerciale e banca d’affari) consiste nel costringere la banca di oggi ad
occuparsi di credito. La seconda sta nel rafforzare la biodiversità bancaria. Il sistema finanziario come
gli ecosistemi diventa più resiliente quando la biodiversità aumenta perché alcuni modelli di banca
sono più resistenti ad alcuni tipi di crisi di altre.
3.2 il riduzionismo d’impresa aumenta l’uso supersonico e non paziente dei capitali producendo
rischi sistemici e ipervolatilità
Il problema è che il sistema finanziario globale soffre di una grave malattia di azzardo compulsivo e
shortermismo. Mediamente sui vari mercati il 65% delle transazioni sono in mano ad algoritmi
automatici di trading ad alta frequenza che hanno fatto precipitare la durata media di detenzione di
un titolo alla sbalorditiva durata di circa 22 secondi. Per la “crisi cinese” la borsa americana ha perso
in due giorni più di quanto aveva perso col fallimento di Lehman Brothers e la gravità del secondo
evento non è minimamente comparabile alla quasi “non notizia” del primo. La differenza sta nella
continua crescita degli algoritmi di trading automatico perché il picco della perdita di borsa
nell’ultimo evento si è materializzato in una brevissima unità di tempo. Per molto tempo in letteratura
finanziaria e bancaria abbiamo magnificato le virtù della liquidità dei mercati finanziari. E’ ora
arrivato il momento di chiederci se la velocità e la liquidità non siano troppe e non costituiscano un
ostacolo invece che un aiuto all’economia reale. Non a caso la ben nota relazione econometrica
positiva tra sviluppo del settore finanziario ed economia reale si è arrestata nell’ultimo decennio fino
a far arrivare molti studiosi a domandarsi se il sistema finanziario non sia diventato ipertrofico
Una delle novità principali dell’ultimo decennio nei mercati finanziari è stata lo sviluppo impetuoso
degli strumenti di finanza derivata. Haiss e Sammer (2010) documentano che nel primo trimestre del
1990 i derivati rappresentavano il 433.8% del PIL mondiale, leggermente meno delle obbligazioni
(477.2%). Quasi vent’anni dopo nel terzo trimestre del 2008 erano arrivati al 4,880.2% del PIL
mondiale superando di gran lunga il totale combinato di azioni, obbligazioni e attivi bancari. Nello
stesso periodo negli Stati Uniti il volume dei derivati sui cambi era aumentato del 544.8%, dei derivati
sui tassi d’interesse del 42,132.9% e di quelli sul credito del 84.889.5%.
Proprio i derivati del credito giocano un ruolo cruciale nella crisi finanziaria. La causa forse più
importante della stessa sta nell’errore concettuale di aver creduto che la cartolarizzazione di prestiti
molto rischiosi (erogati da banche a mutuatari che avevano scarsa possibilità di restituzione) assieme
a prestiti meno rischiosi avrebbe consentito l’emissione di derivati del credito meno rischiosi e ad
alto rating creditizio per via della diversificazione del rischio. Con questa illusione si è realizzata una
moltiplicazione dei derivati del credito (collateralised debt options) e dei derivati di copertura dei
CDO chiamati CDS (credit default swaps), dove questi ultimi avrebbero garantito i possessori dei
CDO dall’eventuale rischio di perdita di valore dell’asset con un risarcimento assicurativo da parte
del venditore del CDS stesso.
Come sappiamo, poiché tutti i mutuatari i cui pagamenti tenevano in piedi i derivati del credito erano
in realtà esposti alla stessa fonte di rischio (la dinamica dei prezzi delle case in bolla speculativa negli
Stati Uniti a quel tempo), il meccanismo non ha funzionato dimostrando che, più che essere efficaci
nella copertura e nella diversificazione del rischio, i derivati hanno in realtà sparso il rischio tra molti
più attori aumentando incertezze e confusione e incrementando significativamente gli specifici rischi
di interconnessione e di controparte. Le banche “troppo grandi per fallire”, imbottite di derivati del
credito sono infatti fallite o finite sull’orlo del fallimento trascinando con sé tutti coloro che avevano
relazioni di credito/debito con le stesse.
Da notare anche che, in parallelo all’esplosione degli strumenti di finanza derivata negli attivi bancari
(e alla commistione tra attività di erogazione del credito tradizionale e di trading sui derivati stessi)
si è per la prima volta verificata l’anomalia dell’interruzione del rapporto econometrico positivo e
significativo tra dimensione del settore finanziario e crescita economica. Gli studi più recenti
verificano infatti l’interruzione di tale nesso dopo il 1989 e addirittura la nascita di una relazione
negativa che viene definita come vera e propria ipertrofia della finanza (Rousseau e Wachtel, 2000).
Tale relazione è stata dimostrata valida indipendentemente dagli eventi specifici della crisi finanziaria
globale e dunque anche al di fuori di quel periodo particolare.
La crisi finanziaria globale ha svelato dunque molte delle insidie nascoste nei derivati che erano nati
con nobili intenti.
Il più importante di questi nobili intenti è quello di fungere da “adattatori” tra sistemi finanziari diversi
consentendo ai loro possessori di coprirsi principalmente dal rischio cambio e da quello di variazioni
dei tassi d’interesse (particolarmente importante per le banche che possono spesso presentare
disallineamenti tra attività e passività in bilancio quanto alla rispettiva componente a tasso fisso e a
tasso variabile) (Merton and Bodie, 2005).
Il problema principale è che l’uso di assicurazione o di hedging del derivato è stato di gran lunga
soppiantato dall’utilizzo meramente speculativo.
Per rendere chiaro il problema posso aver bisogno di un derivato per coprirmi dal rischio cambio se
voglio fare un prestito in “valuta forte” (euro o dollaro) ad un‘organizzazione di microcredito
operante in un paese del Sud del mondo con propria valuta. In questo caso la copertura dal rischio è
fondamentale per effettuare l’operazione e per evitare di scaricare un rischio di apprezzamento della
valuta in cui il prestito viene fatto rispetto alla valuta del paese ricevente che costringerebbe
l’organizzazione di microcredito a remunerare il prestito a tassi esorbitanti (il tasso effettivo del
prestito più la percentuale di rivalutazione del cambio). In questo caso il derivato verrebbe
correttamente utilizzato per copertura assicurativa anche se va specificato che la protezione
assicurativa fornita è sempre approssimativa e potrebbe essere sostituita dalla nascita di un
intermediario assicurativo vero e proprio in grado di compiere tali operazioni (anch’esso comunque
con derivati in portafoglio per proteggere i propri rischi).
Nella seconda fattispecie però (l’uso dei derivati con finalità speculative) molti operatori grandi e
piccoli sono semplicemente attratti dal rapporto non lineare tra prezzo dei derivati e prezzo delle
attività sottostanti cui sono collegati, ovvero dagli elevati guadagni in conto capitale che possono
essere realizzati comprando e vendendo derivati in brevissimi intervalli di tempo. Un operatore
grande o piccolo che acquista contratti future sul MIB in Italia per provare a rivenderli appena il loro
prezzo sale a pochi minuti di distanza non sta svolgendo nessun’operazione di carattere assicurativo.
Mediobanca in un recente rapporto ci dice che il 97% delle operazioni sui derivati di banche europee
sono del secondo tipo.
Aggiungiamo a tutto questo, come evidenziato nel quaderno di ricerca OCSE di Blundell e Atkinson
(2010), che i mercati dei derivati sono tra i più opachi e concentrati. Opachi perché è praticamente
impossibile per l’acquirente capire quanto può valere il prodotto che il venditore gli offre, a meno di
padroneggiare tecniche complesse di pricing e di conoscere concetti di fisica come quelli dei moti
browniani che sono alla base della valutazione dei prezzi dei derivati. Per usare un’immagine
semplice se è difficile vendere una mela a 200 euro a chicchessia è molto meno difficile fare
l’equivalente con i prodotti derivati. I mercati dei derivati sono inoltre talmente concentrati da essere
controllati da tre/quattro operatori in ciascun segmento (Blundell and Atkinson, 2011). Difficoltà di
capire il vero valore dei prodotti e concentrazione monopolistica dal lato dell’offerta sono, come è
evidente, una combinazione di fattori fatale per ridurre i benefici dal lato degli acquirenti.
L’altro significativo elemento di opacità ed incertezza è determinato dal fatto che la stragrande
maggioranza di questi prodotti è contrattato informalmente tra venditore e acquirente fuori dai mercati
regolamentati (l’espressione utilizzata è derivato OTC o Over the Counter). Non esistono dunque
stanze di compensazione ed intermediari in grado di intervenire in caso di problemi nella conclusione
o nel saldo delle transazioni tra le controparti.
Da notare altresì che non tutti gli strumenti derivati (anche quando non vengono comprati e venduti
per motivi speculativi) hanno sempre una finalità assicurativa credibile. E’ il caso dei credit default
swap sugli stati sovrani nei quali l’assicuratore (un intermediario finanziario di grandi dimensioni) si
impegna a risarcire i possessori di titoli di stato in caso di fallimento di un paese. Pensando
all’esempio dei credit default swap sugli Stati Uniti, ma non solo, possiamo immaginare la follia di
ritenere che l’“assicuratore” che vende tali titoli possa essere in grado di risarcire i loro possessori. I
Credit default swaps (soprattutto quelli sugli stati sovrani) violano dunque due fondamentali
caratteristiche di un contratto assicurativo: i) il limitare la possibilità di stipula di tale contratto
soltanto a chi possiede l’attività sottostante da assicurare (si possono comprare credit default swaps
su stati sovrani senza essere in possesso di titoli pubblici di quel paese); ii) l’escludere la possibilità
che l’evento sia così catastrofico da rendere in possibile la sopravvivenza dell’assicuratore e la sua
capacità di corrispondere l’indennizzo. Per inciso quest’ultimo elemento nel caso della crisi
finanziaria globale fu garantito dal salvataggio del tesoro americano nei confronti della XXX che era
la principale venditrice di credit default swap sulla Lehman Brothers.
3.3 Le banche too big to fail prendono troppi rischi Il rischio sistemico non si è ridotto dopo il
2007
Il rapporto Liikanen, redatto da una commissione indipendente di esperti incaricata dalla
Commissione Europea (e con esso il rapporto Vickers commissionato dal governo del Regno Unito)
ha evidenziato tra i problemi principali del sistema bancario-finanziario quello della commistione tra
banca d’affari e banca commerciale, ovvero la commistione in seno agli istituto di credito dell’attività
di intermediazione creditizia tradizionale con quella del trading speculativo.
Il rapporto Liikanen ci ricorda come la letteratura empirica economica sottolinei che, anche dal punto
di vista dei guadagni di efficienza, la dimensione di una banca non dovrebbe secondo superare i 20
miliardi di attivo di titoli. In assenza di un’efficace attività di antitrust esistono in realtà oggi banche
che hanno superato di molto questa soglia e raggiunto dimensioni tali da destare serie preoccupazioni
per la stabilità sistemica. E’ uso comune definire tali banche “troppo grandi per fallire” (too big too
fail) o “troppo complesse per essere regolate o per essere salvate”. I rischi per l’intero sistema in caso
di un loro fallimento sono dunque altissimi. Il rapporto Liikanen illustra chiaramente che in molti casi
esse sono più grandi (sempre in termini di totale dell’attivo) del PIL dei paesi di origine (è il caso del
Banco Santander in Spagna, della Barclays e della Royal Bank of Scotland nel Regno Unito, di ING
in Olanda) e questo è di per sé un problema per i regolatori che rischiano di essere seriamente
condizionati da regolati così grandi. Dati recenti mostrano come queste banche sistemiche o troppo
grandi per fallire, massimizzando il profitto e dedicandosi, in gran parte, ad attività puramente
speculative, hanno investito una quota molto inferiore del proprio attivo in prestiti alla clientela
rispetto alle banche etiche o cooperative. La massimizzazione del profitto e la ricerca di guadagni
speculativi a breve termine riduce infatti gli incentivi ad effettuare un’attività (quella del credito
tradizionale a cittadini e imprese) che ormai ha rendimenti piuttosto contenuti e costi elevati.
Come sottolinea l’autorevole rapporto Vickers, queste grandi conglomerate hanno una parte
tradizionale, relativamente stabile e meno rischiosa che si occupa di concessione di crediti mentre
quella dedita al trading speculativo è fortemente instabile e più rischiosa e può far fallire l’intero
conglomerato. Poiché l’attività di trading è finanziata in realtà con fondi diretti ad attività a basso
rischio e a basso rendimento (i depositi bancari), attività che in virtù del basso rischio sono remunerate
poco dalla banca, il trading speculativo gode di un sussidio implicito. Se infatti fosse scorporato
dall’attività commerciale e chiedesse fondi sul mercato per quella specifica attività sarebbe costretto
a remunerarli a tasso molto più elevato. Con un rapporto tra capitale preso a debito e capitale proprio
che arriva e può superare il rapporto di 30 a 1, perdite sul trading pari al 3 percento di tutto il
patrimonio possono far fallire una banca. Il problema è che, in caso di fallimento, il conglomerato
può chiedere e facilmente ottenere da parte delle autorità di vigilanza il salvataggio a spese dei
contribuenti, adducendo il fatto che dal suo fallimento verrebbero travolti i depositanti (correntisti)
della banca. I depositanti della banca che mischia attività tradizionale con il trading speculativo
diventano dunque gli ostaggi che obbligano le autorità al salvataggio. Sapendo ciò la conglomerata
sarà ancora meno restia a limitare il rischio delle proprie operazioni speculative confidando nel fatto
di un salvataggio che comunque avverrà per proteggere i depositanti (questo problema viene definito
azzardo morale).
Un autorevole collega come Marco Pagano membro dell’Advisory Scientific Committee dello
European Systemic Risk Board in audizione presso la commissione europea ha sottolineato come le
grandi banche spa “abbelliscano” (“tweak”) i loro coefficienti di patrimonializzazione con ampio uso
di obbligazioni ibride, meccanismi di rating interno e cartolarizzazioni con derivati del credito.
Sottolineando come la correlazione tra coefficienti di patrimonializzazione “abbelliti” e leva cruda
sia del tuto sparita, con alcune grandi banche sono tornate ad avere rapporti tra debito e capitale
proprio (fino a 50) superiore ai livelli pre-crisi che erano a attorno a 30 per le quattro grandi banche
d’affari americane.9
3.4 Il riduzionismo d’impresa si traduce in sistemi di remunerazione di manager che
amplificano il conflitto distributivo
Il problema dell’eccessiva presa di rischio ha però radici più profonde e dipende dalla struttura
imperfetta dei meccanismi di remunerazione di traders e managers all’interno di queste
organizzazioni. Avere stipendi con una enorme quota in variabile rappresentata da bonus e stock
options che scattano quando i corsi azionari dell’impresa salgono ha rappresentato spesso un
formidabile incentivo perverso per “eccitare” artificialmente il prezzo dell’azione al fine di intascare
il bonus. Nel caso in cui le cose vanno male per l’azienda il manager generalmente non paga (almeno
dal punto di vista economico) ed esce di solito dall’azienda con liquidazioni miliardarie (i cosiddetti
golden parachutes). Il problema di queste remunerazioni non sta solo nella quota eccessiva di
variabile ma anche nella loro asimmetria. Se le cose vanno bene si guadagna molto se vanno male
non si partecipa alle perdite ma si continua a guadagnare lo stesso. Poiché in finanza non esistono
pasti gratis e i progetti sono generalmente ordinati su una retta rendimento-rischio inclinata
positivamente (ovvero tutto ciò che rende potenzialmente di più è anche più rischioso) il modello di
remunerazione vigente (che consente loro di partecipare al rendimento senza accollarsi il rischio)
spinge i manager a collocarsi nel punto più alto possibile della retta rendimento-rischio mettendo in
pericolo la sopravvivenza delle organizzazioni. Il problema dell’eccessiva presa di rischio delle
9 Pagano, Marco, Lessons from the European Financial Crisis (September 8, 2014). CFS Working Paper No. 486. Available at SSRN: http://ssrn.com/abstract=2517318
banche too big to fail può dunque essere risolto alla radice solo modificando la struttura delle
remunerazioni dei manager.
Il problema delle distorsioni nei meccanismi di incentivo non si limita però a questo punto. La
presenza all’interno dei sistemi di remunerazione dei manager di una componente troppo alta di
remunerazione variabile (bonus e stock options) e il fatto che la componente variabile sia legata
unicamente a indicatori di profitto esasperano i conflitti distributivi all’interno delle imprese. Se
infatti la torta del valore aggiunto crescono le fette di tutti gli stakeholders (incluso il profitto) e il
manager può maturare il bonus in variabile legato alla crescita dei profitti. Se la situazione
dell’azienda è meno positiva e la torta del valore aggiunto non cresce il manager per poter maturare
il bonus può aumentare la fetta dei profitti solo a scapito delle dimensioni delle altre fette, riducendo
pertanto il benessere degli altri stakeholders.
Il sistema di remunerazioni con percentuale in variabile molto elevata legata alla crescita dei profitti
si fonda sul principio riduzionista e rischia di aumentare il conflitto distributivo all’interno
dell’impresa.
Aggiornamenti Sociali forth,
4. Le proposte per il magis
Dai tre problemi originari (riduzionismo antropologico, di concezione d’impresa e di concezione del
valore) scaturiscono una serie di problemi strutturali negli odierni mercati bancari e finanziari
(mission drift, o abbandono della missione di finanziamento all’economia reale, eccessiva volatilità
ed instabilità per via dell’aumento dei rischi sistemici, sistemi d’incentivo di managers e traders che
rendono il sistema ancora più rischioso). In quanto segue proviamo a delineare alcune vie di riforma.
La prima (il voto col portafoglio e il sostegno ai pionieri etici) può essere realizzata direttamente dai
cittadini senza l’intervento delle istituzioni .Le altre implicano invece una riforma delle regole
4.1 Sostenere il magis dei pionieri: banche etiche e fondi etici e sollecitare il voto col portafoglio 10
Di fronte a queste crisi strutturali e a questi macro-fenomeni dove solo grandi attori sembrano contare
c’è il rischio di sentirsi schiacciati. E’ una sensazione sbagliata e con conseguenze negative che
mortificano il nostro senso d’iniziativa, spirito di libertà e dovere della speranza. I muri crollano in
un attimo e tutto può cambiare molto rapidamente se solo lo vogliamo e capiamo con intelligenza
10 Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario, aziendale. Nascono Centri di studio
e percorsi formativi di business ethics; si diffonde nel mondo sviluppato il sistema delle certificazioni
etiche, sulla scia del movimento di idee nato intorno alla responsabilita` sociale dell’impresa. Le
banche propongono conti e fondi di investimento cosiddetti « etici ». Si sviluppa una « finanza etica
», soprattutto mediante il microcredito e, piu` in generale, la microfinanza. Questi processi suscitano
apprezzamento e meritano un ampio sostegno. I loro effetti positivi si fanno sentire anche nelle aree
meno sviluppate della terra.
Caritas in Veritate
come è più urgente ed efficace agire. I mercati infatti siamo noi, o meglio i mercati sono fatti di
domanda ed offerta e da uno dei due lati, ci sono sempre i cittadini che consumano e risparmiano.
Esiste pertanto una soluzione-uovo di Colombo in grado di risolvere i problemi che abbiamo di fronte
ed è il voto nel portafoglio. Ovvero la scelta di premiare con i propri consumi e risparmi quelle
aziende socialmente responsabili ed “efficienti a tre dimensioni”, che si rivelano particolarmente
capaci di internalizzare il problema di creazione di valore economico socialmente ed ambientalmente
responsabile di cui abbiamo bisogno per uscire dalle quattro crisi. Se i cittadini diventano consapevoli
che le loro scelte di consumo e risparmio sono atti politici attraverso i quali esprimono gradimento
nei confronti delle imprese che vendono loro i prodotti il mondo può cambiare. E’ bene dire
immediatamente che, dando piena consapevolezza dell’importanza e del ruolo del voto col
portafoglio nei sistemi economici contemporanei, non si intende affatto svalutare gli strumenti
tradizionali di partecipazione politica (come il voto elettorale o referendario e l’attività politica
tradizionale). Al contrario, partendo dall’osservazione disincantata della realtà che ci dice che la
politica è oggi subordinata all’economia e che, a sua volta, l’economia è subordinata alla finanza,
scopriamo che l’urna più importante nella quale esercitare, ogni giorno e non una volta ogni quattro
anni, il nostro voto è proprio il consumo e risparmio responsabile. Poiché i veti dividono mentre i
premi uniscono e stimolano chi li riceve a far meglio è opportuno sottolineare come il voto col
portafoglio va concepito come un premio per chi riceve il voto prima ancora che come un non voto
per l’impresa di cui decidiamo di non comprare il prodotto. E di uno stimolo che le stesse imprese
chiedono a gran voce per poter rendere i loro sforzi di responsabilità sociale sostenibili e praticabili
sui mercati.
Se per essere luce del mondo possono bastare le gesta di alcuni grandi santi o eroi isolati, per
provocare trasformazioni politiche virtuose e durature che facciano da lievito all’interno di una
società abbiamo bisogno di gesti coordinati e continuativi di una maggioranza di persone di buona
volontà e dunque di strategie o proposte che non richiedano realisticamente livelli troppo elevati di
altruismo in modo tale da poter essere abbracciate da grandi masse.
Il voto col portafoglio ha dunque alcune proprietà fondamentali: i) è pragmatico, perché non propone
un mondo ideale o un’utopia al di là da venire ma premia quell’imprenditore che oggi concretamente
nelle difficoltà e con i vincoli della competizione globale è il migliore nel creare valore economico
in modo socialmente ed ambientalmente sostenibile, ovvero l’imprenditore dotato di maggiori
capacità generative ai fini del bene comune; ii) la sua attivazione richiede una condizione di socialità
non particolarmente forte bastando per esso una forma di autointeresse lungimirante. Quando un
consumatore/risparmiatore sceglie un bene o servizio di un’azienda all’avanguardia nella sostenibilità
ambientale sta infatti riducendo per sé (e per la società) conseguenze negative dell’insostenibilità
come inquinamento e malattie ad esso connesse, riscaldamento climatico, ecc. Quando lo stesso
sceglie un ben o servizio di un’azienda all’avanguardia nella sostenibilità sociale sta premiando una
società che tutela i diritti del lavoro dando al mercato e alle altre imprese un segnale ed un
incoraggiamento a procedere in quella stessa direzione con eventuali effetti benefici per la propria
stessa condizione di lavoratore.
L’obiezione più comune su questo punto è che il voto col portafoglio è in fondo un voto di censo (può
esercitarlo solo chi dispone delle risorse economiche per farlo) che spesso richiede un sovrappiù che
molti cittadini non possono permettersi. Evidenze empiriche su vasta scala sulle abitudini di consumo
dimostrano invece che il consumo è un atto profondamente simbolico attraverso il quale le persone
soddisfano bisogni complessi (di status, di esclusività o alternativamente di socialità e conformità a
gruppi di riferimento) andando pertanto quasi sempre oltre la ricerca del prezzo minimo. Sul fronte
più specifico della responsabilità socioambientale esistono evidenze consolidate che circa un terzo
della popolazione è disposto a pagare di più per le caratteristiche socioambientali del prodotto e che
la quasi totalità dei cittadini preferisce un prodotto “etico” ad un corrispettivo equivalente in termini
di prezzo/qualità quando il differenziale di prezzo non esiste. Il terzo di cui parliamo è più che
sufficiente per generare enormi processi di contagio e di trasformazione del modo di produrre in grado
di orientare i sistemi economici al perseguimento del bene comune.
Proprio in finanza il voto col portafoglio trova oggi la sua espressione migliore. Nell’ambito dei fondi
d’investimento i fondi etici hanno rendimenti corretti per il rischio non inferiori a quelli dei fondi
tradizionali. Ciò significa che per chi vota col portafoglio in questo ambito non c’è un “sacrificio”
economico.
“Non è un caso che il voto col portafoglio attraverso la scelta dei fondi etici stia crescendo in modo
molto significativo arrivando alla quota di mercato ragguardevole di quasi il 40% di tutta la finanza
gestita in Europa secondo i dati Eurosif.11
Già prima della Conferenza di Parigi una coalizione significativa di fondi etici ha pensato di utilizzare
questa leva così significativa in direzione della sostenibilità ambientale con un’iniziativa
particolarmente importante. Il 25 settembre 2014 una rete una rete di fondi con un patrimonio
complessivo di circa 3 trilioni di dollari ha siglato il Montreal Carbon Pledge impegnandosi a
misurare la “carbon footprint” del proprio portafoglio ovvero l’impatto in termini di emissioni di CO2
del complesso dei titoli detenuti in portafoglio con l’obiettivo di ridurre progressivamente tale
impronta.12 Non a caso questo gruppo di fondi è anche noto come la Portfolio Decarbonisation
Coalition ovvero come la coalizione per la decarbonizzazione dei portafogli titoli. Le conseguenze
pratiche di questa scelta si iniziano a cogliere da subito. Qualche mese dopo uno dei maggiori fondi
etici mondiali, il fondo pensione dello stato Norvegese, ha annunciato l’uscita da tutte le società che
operano nel settore delle fonti fossili di energia.13 Grazie alla crescita del coordinamento del voto col
portafoglio dei fondi etici le imprese quotate in borsa sui mercati internazionali sanno che una loro
scelta in direzione di una minore sostenibilità ambientale può ottenere la sanzione dei fondi etici e la
perdita di importanti quote di risparmio.” (Becchetti 2016, La Ricca Sobrietà)
L’autointeresse lungimirante del voto col portafoglio sta costruendo e costruirà progressivamente una
società più empatica, sostenibile e partecipata ma per arrivare a questo obiettivo i consumatori devono
crescere nella consapevolezza dell’importanza e delle potenzialità delle loro scelte mentre dal lato
dell’offerta è necessario organizzare al meglio le condizioni che facilitano il voto nel portafoglio. La
consapevolezza dei consumatori potrà maturare se essi coglieranno fino in fondo le potenzialità di
contagio che anche singoli gesti hanno sul sistema. Le evidenze empiriche degli ultimi anni
dimostrano che l’iniziale alleanza tra imprese pioniere (dedicate al 100 percento alla sostenibilità
sociale ed ambientale) e cittadini che votano col portafoglio ha fatto progressivamente emergere
piccole quote di mercato che contraddicevano nei fatti i due assunti del riduzionismo antropologico
e d’impresa (se siamo tutti homines economici ed esistono o sopravvivono solo le imprese che
11 http://www.oekom-research.com/index_en.php?content=news_20140930111513 12 http://montrealpledge.org/ 13 http://www.theguardian.com/environment/2015/mar/16/norways-sovereign-wealth-fund-drops-
over-50-coal-companies
massimizzano il profitto tali quote di mercato non possono esistere). L’effetto più importante di tali
quote di mercato è stato quello di generare processi di contagio che hanno a loro volta prodotto
imitazione da parte delle imprese tradizionali massimizzatrici di profitto. Tali imprese, di fronte alla
scoperta per molte di esse nuova dell’invalidità dei riduzionismi, hanno constatato che la risposta
ottimale, coerente con il loro obiettivo di massimizzazione del profitto, era quella di imitare
parzialmente i pionieri introducendo nella gamma dei loro prodotti alcuni prodotti socialmente ed
ambientalmente responsabili. Tutto questo ha generato il cosiddetto mainstreaming della
responsabilità sociale che comincia ad essere evidente ai giorni nostri anche agli occhi degli
osservatori meno attenti.14 Per fare l’esempio di una filiera pioniera, i prodotti equosolidali sono
entrati prepotentemente nella grande distribuzione conquistando in alcuni casi quote di mercato
ragguardevoli. Un esempio su tutti quello delle banane nel Regno Unito, scelto come prodotto
simbolo delle più importanti catene della grande distribuzione tradizionale (Tesco e Sainsbury). Con
il risultato che oggi, oltre alle tradizionali botteghe e alle cooperative della distribuzione al consumo
(Coop UK) e appunto tali grandi catene vendono esclusivamente o prevalentemente banane
equosolidali che hanno conquistato rapidamente un quarto della quota di mercato complessiva
nazionale. Il mainstreaming presenta come ovvio aspetti controversi. Esso mette innanzitutto
parzialmente in crisi i pionieri che si trovano a dover competere con i colossi del settore che grazie
alle loro economie di scala possono fare dumping sociale e vendere il prodotto equosolidale
sottocosto. I pionieri per competere non possono più dunque puntare sulla differenza relativa al
singolo prodotto ma sul vero vantaggio competitivo non imitabile che possiedono, la loro dedizione
al 100 percento alla causa della responsabilità sociale che l’impresa massimizzatrice di profitto che
imita parzialmente non potrà mai copiare. Tale vantaggio competitivo è “già e non ancora”, in parte
realizzato ma in parte ancora più importante potenzialità futura. I pionieri possono infatti promettere
che, una volta cresciuti a dimensioni simili a quelle degli attuali competitori massimizzatori di
profitto, dedicheranno molte più risorse ed energie all’obiettivo della responsabilità socioambientale
come è implicito nella loro governance e nei loro obiettivi istitutivi. Un aspetto controverso ma
senz’altro importante del mainstreaming è che esso aiuta a far crescere in modo imponente la
conoscenza e le abitudini di acquisto dei prodotti socialmente responsabili presso il grande pubblico.
Le analisi di mercato nel Regno Unito documentano che a fronte di circa un terzo di cittadini sensibili
disposti a pagare per i contenuti di responsabilità socioambientali dei prodotti esiste generalmente
una massa di due terzi di “ignavi” che seguono pedissequamente le abitudini dei consumi di marca.
Nel momento in cui le grandi marche cominciano a vendere prodotti a marchio equosolidale anche
tali consumatori iniziano ad acquistare i prodotti e soprattutto il grado di conoscenza dell’economia
solidale e delle potenzialità del voto nel portafoglio cresce sospinto dall’investimento in marketing
degli imitatori parziali. 15
14 Secondo la KPMG (2005) il 90 per cento delle aziende giapponesi, il 71 per cento di quelle del
Regno Unito e il 32 per cento di quelle USA hanno un bilancio sociale. Nel 2010 l’ICCA global
report survey (2010) mostra che il 31 per cento delle aziende che sono tra le prime 500 del mondo
secondo il Fortune hanno un dipartimento separato di CSR. Il Global Consumer Report della Nielsen
(2012) documenta che il 46 percento del campione di cittadini mondiali intervistati è disposto a pagare
di più per prodotti socialmente ed ambientalmente responsabili. 15 Un importante riconoscimento alla capacità di contagio del voto nel portafoglio viene dalla
commissione UE che nel maggio 2009 afferma a proposito del commercio equo e solidale (uno degli
ambiti di maggior successo di questo principio) che “Il commercio equo e solidale ha giocato un
ruolo pionieristico nell’illuminare questioni di responsabilità e solidarietà, impattando con questo
su altri operatori e stimolando la creazione di altri regimi di sostenibilità. Iniziative private sulla
sostenibilità collegate al commercio utilizzano oggi vari standard di sostenibilità sociale ed
Tornando al quadro di riferimento da cui siamo partiti, quello dei divari di tenore di vita e di costo
del lavoro tra aree, osserviamo che il voto con il portafoglio rappresenta una strategia nella direzione
giusta per affrontare tali divari. Non è infatti una reazione protezionista o una porta chiusa in faccia
agli ultimi, nè un mero sfruttamento acritico dei vantaggi di prezzo che i divari di costo del lavoro
offrono al consumatore finale da noi grazie alla delocalizzazione produttiva. Esso si pone invece
correttamente nell’ottica di stimolare un riequilibrio più rapido possibile verso l’alto di tali divari
premiando quelle imprese che più rapidamente trasferiscono tutele e diritti ai lavoratori più diseredati
di quei paesi nell’auspicata direzione della globalizzazione di tali diritti. E’ del voto col portafoglio
che abbiamo urgentemente bisogno se vogliamo aggredire il problema più importante alla radice delle
quattro crisi, quello dei divari di costo del lavoro e della vita tra le diverse aree del pianeta.
E’ opportuno rilevare come la chiesa cattolica nella più recente riflessione della dottrina sociale abbia
ricnonosciuto pienamente il valore del voto nel portafoglio mettendo a tema delle pratiche avviate il
più delle volte sul campo dalle stesse organizzazioni di ispirazione ecclesiale e religiosa.
Riconoscendone sia la portata strategica sia la coerenza profonda con l’aspirazione a stili di vita
ispirati al Vangelo nell’ottica di una più piena incarnazione che non tenga fuori dalla vita cristiana la
dimensione economica e sociale.
I principi del voto nel portafoglio sono infatti citati già a partire dal Compendio della Dottrina
Sociale16 e poi ripresi in due distinti passi dalla Caritas in Veritate.17
E’ anche opportuno rilevare come da questo principio e dall’accento che esso pone sulla promozione
di pionieri come il commercio equosolidale e la microfinanza emerga un approfondimento del
concetto stesso di caritas. La caritas o l’aiuto agli ultimi non viene infatti più considerato un obolo
che mantiene le distanze ma come uno stimolo all’inclusione e all’operosità che chiede
ambientale che sono cresciuti in numero e quote di mercato. commissione UE in una comunicazione
al Parlamento Europeo del maggio 2009. 16 L’utilizzo del proprio potere d’acquisto va esercitato nel contesto delle esigenze morali della
giustizia e della solidarietà e di precise responsabilità sociale: non bisogna dimenticare “il dovere
della carità, cioè il dovere di sovvenire con il proprio superfluo e talvolta anche col proprio
necessario per dare ciò che è indispensabile alla vita del povero . Tale responsabilità conferisce ai
consumatori la possibilità d’indirizzare, grazie alla maggiore circolazione delle informazioni, il
comportamento dei produttori, mediante la decisione – individuale o collettiva – di preferire i
prodotti di alcune imprese anziché di altre, tenendo conto non solo dei prezzi e della qualità dei
prodotti, ma anche dell’esistenza di corrette condizioni di lavoro nelle imprese, nonché del grado di
tutela assicurato per l’ambiente naturale che lo circonda”Compendio della dottrina sociale della
Chiesa n. 359 17 “E` necessario un effettivo cambiamento di mentalita` che ci induca ad adottare nuovi stili di vita,
‘‘nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una
crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli
investimenti’’ Caritas in Veritate n. 66 e ancora “La interconnessione mondiale ha fatto emergere un
nuovo potere politico, quello dei consumatori e delle loro associazioni. Si tratta di un fenomeno da
approfondire, che contiene elementi positivi da incentivare e anche eccessi da evitare. E` bene che
le persone si rendano conto che acquistare e` sempre un atto morale, oltre che economico. C’e`
dunque una precisa responsabilita` sociale del consumatore, che si accompagna alla responsabilita`
sociale dell’impresa. I consumatori vanno continuamente educati al ruolo che quotidianamente
esercitano e che essi possono svolgere nel rispetto dei principi morali, senza sminuire la razionalita`
economica intrinseca all’atto dell’acquistare.” Caritas in Veritate 144-145.
corresponsabilità e risposta dando in cambio dignità. Se, nell’ottica della Caritas in Veritate la caritas
deve trovare il corrispettivo nella veritas della natura umana, e se tale veritas è a immagine e
somiglianza divina, si fa il bene del povero se lo si mette in condizione di realizzare pienamente la
sua natura umana. Ovvero se lo si mette in condizione di dare e di donare reintegrandone pienamente
diritti e doveri dandogli un ruolo attivo nella società.
Il voto col portafoglio rappresenta infine un progresso importante sul fronte dell’incarnazione. Se
l’incarnazione è un apparente ossimoro (un Dio che si fa uomo), anche in economia il progresso
avviene attraverso apparenti ossimori (commercio equo, finanza e banca etica, economia di
comunione) nei quali il piano ideale, invece di restare separato dal business as usual si incarna in esso
fecondandolo e trasformandolo dall’interno diventando pane spezzato dentro i beni e i servizi che
sono il frutto dell’attività economica ordinaria.
4.1.2 Come la politica e le istituzioni possono stimolare le virtù civili e il voto nel portafoglio
Se il voto col portafoglio ha le grandi potenzialità che abbiamo illustrato, affinchè esse si
concretizzino è necessario sul fronte delle proposte lavorare affinchè alcuni ostacoli di fondo che ne
limitano la pratica e diffusione vengano rimossi. A parte il problema culturale e l’esigenza di rendere
sempre più consapevoli i cittadini di questa loro potenzialità, difficoltà importanti sorgono, come in
ogni settore dell’economia, sul fronte delle asimmetrie informative. Come nei mercati del lavoro, del
prodotto e del credito la relazione economica avviene infatti sempre tra soggetti che non hanno la
stessa qualità di informazioni. E nel caso specifico, il valore socioambientale del prodotto non è un
“bene di esperienza”, ovvero una caratteristica della quale il cittadino responsabile può
progressivamente apprendere di più attraverso ripetute abitudini di acquisto. Sono necessari dunque
intermediari specializzati come marchi, enti di certificazione e società di rating che garantiscano con
la loro reputazione e giochino la loro sopravvivenza testimoniando le qualità socioambientali del
prodotto.
Tutto questo già accade ma alcune specifiche nuove regole del gioco possono dare impulso
significativo all’intero processo. Il traguardo ideale è una situazione nella quale il cittadino sia
perfettamente informato e possa scegliere senza costi addizionali di ricerca del prodotto etico sullo
scaffale di qualunque punto vendita tra un determinato prodotto e il suo equivalente con maggior
grado di responsabilità socioambientale. Si noti che tutto ciò rappresenta un avvicinamento a quelle
condizioni ideali di mercato preconizzate dalla teoria economica che sono oggi ben lontane
dall’essere realizzate. Nei libri di testo universitari gli studenti imparano che il mercato è fatto di
consumatori perfettamente informati che scelgono prodotti ma la realtà di oggi, ben lontana da questa
condizione limite, ci suggerisce che l’unica caratteristica che i consumatori conoscono del prodotto è
il suo prezzo. Avere dunque informazioni sulla tracciabilità ambientale e sul valore socioambientale
del prodotto e dell’impresa rappresenta un progresso in tale direzione che, senza imporre nessun
vincolo aggiuntivo alla scelta libera dei cittadini, aumenta consapevolezza e gamma di opportunità
disponibili.
Suggeriamo in questa prospettiva alcune altre iniziative importanti che potrebbero dare grande
impulso al voto nel portafoglio. La prima è il rating socioambientale obbligatorio. Se esiste la prassi
per la quale i prodotti finanziari, ai fini della tutela dei risparmiatori, devono necessariamente essere
accompagnati al momento della loro collocazione presso il pubblico da valutazioni di rating non si
vede perché questo non debba avvenire anche per le caratteristiche socioambientali dei prodotti che
rappresentano versanti informativi altrettanto delicati (si pensi ad esempio ai riflessi della qualità
ambientale sulla salute dei consumatori). Tutto questo, nonostante l’inevitabile limitatezza e
perfettibilità dei giudizi di rating, avrebbe il grande pregio di stimolare enormemente il dibattito e
l’attenzione sul tema, con effetti di incentivo e pedagogici sui comportamenti rispettivi di imprese e
cittadini.
Un’altra urgenza a nostro avviso fondamentale è quella di spingere sull’acceleratore per quanto
riguarda la creazione di regole sulla vendita dei prodotti che favoriscano la loro qualità
socioambientale. Da questo punto di vista è ben noto che la globalizzazione dei mercati, aprendo
opportunità di concorrenza al ribasso sui costi ambientali e del lavoro, rende sempre meno efficaci le
regole socioambientali dal lato della produzione e sempre più efficaci quelle dal lato della vendita.
Per fare un esempio chiarificatrice se un singolo paese in un’economia globalmente integrata innalza
improvvisamente ed unilateralmente tutele del lavoro e dell’ambiente per le imprese che producono
sul suo territorio esso genera un aggravio di costo che aumenta la convenienza a delocalizzare. Tutto
questo può generare l’effetto paradossale di una fuga delle imprese stesse dal paese che genera declino
e disoccupazione. Le regole sulla vendita invece non perdono di efficacia nel contesto dell’economia
globale. Se lo stesso paese infatti stabilisce che per poter vendere sul proprio territorio nazionale le
imprese, dovunque esse producano, devono rispettare lungo tutta la loro filiera alcuni standard minimi
socioambientali, esso non pone più in condizioni di svantaggio le imprese che producono direttamente
sul suo territorio ma crea invece regole di gara uguali per tutti. E’ evidente la delicatezza delle regole
sulla vendita che, quando utilizzate come criteri di esclusione, sono in gran parte vietate dalle regole
dell’ WTO (l’Organizzazione Internazionale del Commercio) in quanto rischiano di diventare forme
di protezionismo mascherate (un paese può usarle per vietare di fatto le merci provenienti da paesi a
basso costo del lavoro). Per questo motivo al momento le uniche regole di vendita consentite sono
quelle che proibiscono il passaggio alla frontiera di merci prodotte con lavoro forzato. Se non è
possibile utilizzare regole di qualità socioambientale sulla vendita come criteri di esclusione è invece
consentito usarle come criteri premiali ad esempio nelle gare di appalto. Anche da questo punto di
vista l’UE ha fatto passi avanti importanti (si vedano da questo punto di vista i recenti manuali e
normative su green e social procurement). Nel nostro paese uno dei casi di maggior successo in
materia sono le regole sugli appalti per le mense scolastiche con centinaia di comuni che premiano
oggi i prodotti a chilometro zero o quelli equosolidali anche sulla scorta del loro ruolo fondamentale
per l’educazione alla solidarietà e alla mondialità dei ragazzi.
Ulteriori passi in avanti in materia di voto col portafoglio saranno possibili quando un principio che,
se vogliamo appare scontato, sarà maggiormente applicato. Anche se è realistico e ragionevole
riconoscere (e l’esperienza dimostra) che nei fatti le organizzazioni hanno sempre maggiori vincoli
operativi rispetto ai singoli cittadini, le organizzazioni a movente ideale (si pensi alle chiese, alle
fondazioni e alle forze sindacali) infatti dovrebbero, per coerenza ai principi che ne ispirano l’azione,
applicare il voto col portafoglio nelle loro decisioni di consumo e risparmio. Per un sindacato ad
esempio difendere i diritti dei lavoratori con la propria “attività caratteristica” e non farlo quando
amministrano o cogestiscono fondi pensione è una contraddizione nei fatti.
Per quanto riguarda l’iniziativa delle chiese possiamo sottolineare le molte iniziative delle conferenze
episcopali nazionali in materia le più importanti delle quali sono al momento
i) Le iniziative della conferenza episcopale francese che ha lanciato un proprio fondo di
investimento responsabile
(http://www.libres.org/francais/actualite/archives/actualite_0908/091708_a3_ethica.htm)
che intende premiare quelle società che sono all’avanguardia nel promuovere creazione di valore
economico socialmente responsabile. Un primo obiettivo del fondo è quello di essere da stimolo
ed incentivo affinchè le aziende realizzino maggiormente le loro potenzialità positive di impatto
sociale ed ambientale. Un secondo obiettivo non meno importante è quello di declinare alla luce
dei principi cristiani il concetto di responsabilità sociale evitando ambiguità e relativismi etici di
un termine utilizzato da istituzioni ed iniziative orientate da altre scale di valori
ii) L’impegno dell’agenzia cattolica per lo sviluppo della chiesa cattolica di Inghilterra e Galles che
ha prodotto una pubblicazione che declina le linee guida della responsabilità sociale alla luce dei
principi della dottrina cattolica e, assieme ad essa, due guide per la diocesi e la parrocchia
equosolidale (http://www.cafod.org.uk/policy-campaigns/trade-fairtrade).
iii) Il manuale di linee guida per gli investimenti socialmente responsabili Socially Responsible
Investment Guidelines pubblicato dalla conferenza episcopale degli Stati Uniti
(http://www.usccb.org/finance/srig.shtml U.S. CATHOLIC BISHOPS conference)
iv) La dichiarazione sulla responsabilità sociale d’impresa di Cochabamba del 2010 congiunta tra la
CELAM (La conferenza episcopale dell’ America Latina e l’UNIAPAC, l’Unione mondiale degli
imprenditori cattolici)
v) Le iniziative della Conferenza Episcopale dei vescovi canadesi che fissa una serie di linee guida
per gli investimenti responsabili e aderisce alle iniziative di KAIROS e alla Task Force delle
Chiese sulla Responsabilità sociale d’impresa (TCCR)
(http://www.osc.gov.on.ca/documents/en/Securities-Category8-Comments/com_20040726_81-
106_robrien.pdf)
vi) L’impegno di ICCR il secondo fondo etico d’investimento per volume di masse intermediate
istituito da una coalizione di ordini e congregazioni religiose che da anni esercita un
importantissimo ruolo di advocacy partecipando con proprie mozioni alle assemblee degli
azionisti ed esercitando opera di persuasione nei consigli di amministrazione delle grandi imprese
internazionali al fine di renderle sempre più coscienti delle loro responsabilità e potenzialità in
un’economia globalmente integrata
4.2 Un esempio di intermediario finanziario pioniere del bene comune: i fondi etici
La finanza etica o ESG (quella dove i fondi e gli intermediari non guardano solo al profitto ma anche
alla sostenibilità sociale ed ambientale delle iniziative) sta diventando mainstream soprattutto nel
segmento dei fondi etici. Questo perché gli studi più recenti (Nofsinger e Varma ad esempio
(http://www.geneva-summit-on-sustainable-finance.ch/wp-content/uploads/2013/03/nofsinger.pdf)
o quello di Becchetti et al. (2015) (http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2397939))
dimostrano su dati mondiali ed un orizzonte temporale di più di 30 anni che i rendimenti aggiustati
per il rischio dei fondi etici non sono significativamente diversi da quelli dei fondi d’investimento
convenzionali (anzi dopo la crisi finanziaria globale del 2007/2008 i fondi etici sono andati meglio)).
E siccome siamo cercatori di senso e non solo homines economici se si può fare un’azione buona,
“ricca di senso” a costo zero la si farà. E questo spiega perché oggi i fondi etici sono balzati (secondo
i dati Eurosif) ad una quota del 30% dell’intero mercato della finanza gestita in Europa.
I fondi etici dunque non hanno bisogno del governo, ho detto al ministro, ma il governo ha bisogno
di loro. Il governo si pone infatti una serie di obiettivi economici, sociali ed ambientali (crescita,
occupazione in un quadro di sostenibilità) e la finanza etica può essere strumento fondamentale per
il raggiungimento dell’obiettivo.
Una grande opportunità è a portata di mano ma ci vuole un cambiamento di visione politica. La
politica economica oggi a costo zero per il bilancio pubblico può e deve diventare stimolatrice dei
comportamenti virtuosi di cittadini, imprese ed intermediari finanziari. Le vie sono essenzialmente
due. La prima è quella di tasse che riconoscano e premino fiscalmente i comportamenti virtuosi
“punendo” quelli che non lo sono. La logica è semplice. Se la finanza sostenibile crea esternalità
positive sociali ed ambientali deve essere premiata ed incentivata dal decisore pubblico che per ogni
euro in meno di tassazione sulla finanza etica può recuperare con un euro in più di tassazione per la
finanza che invece non adotta comportamenti virtuosi e genera così esternalità negative sociali ed
ambientali. E’ la nuova versione a saldo zero della tassa di Pigou con la quale il famoso economista
proponeva di tassare l’inquinamento in modo di allineare comportamenti privati e obiettivo pubblico.
La variante a Pigou è che, siccome non esistono solo i comportamenti dannosi (che generano effetti
esterni negativi) ma anche quelli virtuosi (che generano effetti esterni positivi) il sistema
premio/punizione è più efficiente di quello basato solo sulla punizione. Niente di nuovo o
rivoluzionario perché è esattamente quello che si fa incentivando i bonus per l’efficientamento
energetico degli edifici, promuovendo conti energia che incentivano chi usa le rinnovabili facendo
pagare il conto sulla bolletta a chi non lo fa (conti energia che esistono ormai in 64 paesi del mondo).
Con una mossa a saldo zero il governo ha dunque l’occasione di produrre effetti enormi sul sistema
risparmiando e prevenendo interventi riparatori ex post in ambito sociale ed ambientale, quelli sì
diretti e costosi per la finanza pubblica.
La seconda mossa, sempre a costo zero, consiste nell’obbligare le imprese alla rendicontazione
accurata sull’informazione degli effetti sociali ed ambientali del loro operato sul modello di quanto
realizzato in Francia con la legge Grenelle dove le aziende sopra i 500 addetti sono obbligate a mettere
in bilancio gli indicatori sociali ed ambientali (leggi simili sono state approvate in India, Indonesia e
Malaysia mentre le imprese quotate del Regno Unito hanno l’obligatorietà del rendiconto delle
emissioni di CO2). Si tratta però di accelerare e di non annacquare In generale promuovere
l’informazione su questi temi aiuta le agenzie di rating sociale ed ambientale a valutare le aziende da
questo punto di vista e i cittadini e i fondi d’investimento a votare con il loro portafoglio e i loro
risparmi. Senza dimenticare che l’informazione sulla responsabilità sociale ed ambientale d’impresa
è un preziosissimo early warning system capace predirne la reputazione futura e di anticipare i
pericoli di comportamenti non virtuosi delle aziende (vedasi la Lehman Brother che aveva pessime
valutazioni dal rating etico e valutazioni eccellenti dal rating tradizionale o le banche che usano il
rating socioambientale per erogare i prestiti che hanno sofferenze (prestiti non restituiti) di gran lunga
inferiori alla media del mercato).
4.3 Le ragioni di una tassa sulle transazioni finanziarie
Una delle riforme più controverse ma sostenute con più vigore dalla società civile dopo la crisi è
quella della tassa sulle transazioni finanziarie.
E’ opportuno interrogarci sul perché la posizione degli economisti e della società civile (a
maggioranza favorevole nell’UE) nei confronti della tassa sulle transazioni finanziarie (TTF) è
cambiata nel corso degli ultimi anni. Lo scorso anno 130 economisti italiani hanno infatti firmato un
appello in suo favore (http://www.dirittiglobali.it/home/categorie/17-globalizzazionesviluppo-
multinazionali/6663-perche-e-il-momento-di-una-tassa-sulle-transazioni-
finanziarie.html?ml=2&mlt=yoo_explorer&tmpl=component) che è poi confluito nell’analogo
appello di 1000 economisti di 53 Paesi consegnato ai ministri finanziari dei Paesi del G20 in
occasione del vertice svoltosi a Washington il 14 e 15 aprile 2011 (tra i firmatari ci sono figure di
primissimo piano come Dani Rodrik, Tony Atkinson, Joseph Stiglitz e Jeffrey Sachs)
(http://www.guardian.co.uk/business/2011/apr/13/robin-hood-tax-economists-letter). Gran parte dei
leader politici, inizialmente contrari, sono ora invece a favore della tassa.
Due i principali motivi di questo cambiamento di opinione: gli eventi della crisi finanziaria globale e
maggiore evidenza in materia che ha aiutato a superare alcuni pregiudizi. Come evidenziato nella
descrizione di scenario con la crisi finanziaria globale i debiti pubblici di alcuni dei principali paesi
occidentali sono significativamente aumentati per le operazioni di salvataggio degli intermediari in
crisi (o per gli effetti indiretti della crisi) e sono successivamente diventati il nuovo obiettivo di
attacchi speculativi. E’ comprensibile pertanto che la maggioranza dell’opinione pubblica sia
dell’avviso che chi opera sui mercati finanziari debba contribuire a pagare i costi di questa crisi, per
ora addossati alle fasce più deboli. Da questo punto di vista si ritiene che la TTF risponda ad
un’esigenza di giustizia e sia addirittura urgente visti gli eventi più recenti per mantenere la coesione
sociale a livello comunitario.
La tassa sulle transazioni finanziarie si richiama solo lontanamente alla cosiddetta Tobin tax, ovvero
alla proposta di tassare i movimenti valutari speculativi dopo la caduta dei sistema di cambi fissi di
Bretton Woods proposta dall’economista James Tobin. In un contesto profondamente mutato essa si
rifà piuttosto all’esigenza di armonizzare le diverse imposizioni di fissato bollato sulle transazioni
finanziarie già esistenti in molti singoli stati (Stati Uniti e Regno Unito inclusi) ma assai diversificate
per aliquota, base imponibile e modalità di imposizione. La ragion d’essere di questa proposta si
fonda prima di tutto su principi di equità e precauzione. Sull’equità, come abbiamo già spiegato in
precedenza, si tratta di correggere l’evidenza dei costi della crisi sopportati prevalentemente dai ceti
medio bassi per via degli sforzi degli stati nazionali per risanare i conti pubblici gravemente
appesantiti dagli interventi di salvataggio sulle banche. Sul principio di precauzione si tratta di creare
meccanismi che modifichino le attuali strategie di gestione di banche, fondi pensione e istituzioni
finanziarie non bancarie (hedge funds, fondi sovrani, ecc.) troppo orientate al trading a breve. Da
questo punto di vista stiamo assistendo nel corso degli ultimi anni ad una profonda trasformazione
dei mercati finanziari dove ormai la maggioranza delle operazioni di compravendita sono attivate
automaticamente da operatori automatici che si avvalgono di algoritmi che, con l’obiettivo di
massimizzare i profitti a breve, realizzano migliaia di operazioni della durata di qualche millisecondo
sfruttando le somme ingenti a loro disposizione ed alcuni piccolissimi vantaggi informativi. Questi
operatori automatici a disposizione delle grandi banche d’affari si avvantaggiano infatti della loro
localizzazione fisica in prossimità dei terminali delle borse da cui partono gli ordini d’acquisto di un
grande operatore tradizionale per leggere in anticipo di qualche millisecondo l’ordine di acquisto
stesso, anticiparlo sostituendosi a quell’acquirente, riuscendo poi a rivendere allo stesso a prezzo
maggiorato. Un'altra operazione tipica, proibita dai regolamenti di borsa in molti paesi ma di fatto
effettuata, è quella dei cosiddetti flash trades, ovvero di falsi ordini di acquisto in grandissime quantità
che appaiono sui terminali degli operatori tradizionali per influenzare il loro orientamento al rialzo al
ribasso e creare una tendenza da sfruttare successivamente ma non vengono di fatto eseguiti.
E’ evidente che siamo del tutto lontani da un’idea di mercati finanziari efficienti dove operatori che
guardano ai fondamentali decidono cosa comprare e vendere sulla base dello scarto tra valore
osservato e valore che loro reputano fondamentale di un titolo. Gli algoritmi per il trading ad alta
frequenza distorcono i mercati sfruttando il loro vantaggio di posizione per creare tendenze di
brevissimo termine che con i fondamentali non hanno nessun collegamento e poi poterle poi sfruttare
a proprio vantaggio. Di più hanno tutto l’interesse ad esasperare divergenze dell’economia reale per
aumentare volatilità e oscillazioni dei prezzi.
Lo squilibrio nei rapporti di forza tra finanza ed economia reale va oltre e capovolge il modo in cui
tradizionalmente abbiamo interpretato il rapporto tra i due mondi. Ancora oggi molti commentatori
attribuiscono ai mercati finanziari una sapienza superiore ed interpretano i loro movimenti come
reazioni razionali e lungimiranti a squilibri dell’economia reale. La verità è che molto spesso la
situazione è esattamente opposta. Sono i mercati finanziari a generare gli squilibri nell’economia reale
(come da tempo spiegano gli economisti con i modelli delle profezie speculative che si auto-
avverano). Per fare l’esempio del problema della sostenibilità dei debiti degli stati sovrani post crisi
non solo tale problema nasce o si inasprisce a causa della crisi finanziaria globale. Successivamente
infatti sono le stesse dinamiche a breve dei mercati finanziari speculativi ad aggravarlo e a renderlo
tale generando spread (differenze di rendimento) sempre maggiori tra paesi presunti sicuri e paesi
con finanze a rischio. L’aumento degli spread a sua volta genera le conseguenze predette
sull’economia reale perché aumenta il costo a cui i paesi attaccati possono rifinanziare il loro debito
sui mercati e dunque provoca le conseguenze sull’economia reale che predice. L’interpretazione che
la variazione degli spread si fondi su precedenti variazioni oggettive di rischio paese è inesatta perché
non esiste nessuna soglia critica oggettiva che determina tali variazioni. Per fare solo un esempio il
Giappone ha un debito pubblico superiore al 200 percento del PIL, quasi interamente finanziato dai
propri cittadini che non mettono in crisi il proprio stato ben sapendo che questo porterebbe una
riduzione di beni e servizi pubblici percepiti. Pertanto non esiste alcun criterio oggettivo per dire che
il rapporto debito/PIL italiano del 120 percento sia una soglia critica, soprattutto in presenza di un
disavanzo quasi in pareggio o, addirittura che la situazione debitoria della Francia sia granchè più
grave di quella tedesca. L’unica vera differenza è che, in questi altri due casi, il debito pubblico è in
misura molto maggiore nelle mani di non residenti o di intermediari speculativi non residenti che non
beneficiano dei beni e servizi pubblici che quegli stati erogano alle loro popolazioni ed hanno come
unico interesse quello di fare guadagni a breve o brevissimo termine dalla compravendita di quei
titoli. Tutto questo non vuol dire ovviamente che non dobbiamo cogliere le occasioni di crisi come
opportunità per migliorare gli aspetti meno validi del modo in cui gli stati gestiscono le risorse.
Diverso è però far questo dal dover sacrificare parte fondamentale della linfa vitale di un paese, del
sostegno ai più deboli con una pistola puntata alla tempia.
Una tassa sulle transazioni finanziarie può fare molto per cambiare radicalmente questo stato di cose.
Se facciamo riferimento alla proposta attualmente al vaglio della commissione UE (0,1 percento per
le attività finanziarie tradizionali e 0,01 percento sul valore nozionale dei derivati), la tassa avrebbe
un’incidenza bassissima sui cosiddetti “cassettisti” (chi compra un titolo per rivenderlo a scadenza o
solo in caso di necessità. Per intenderci chi acquista 10.000 euro di azioni paga un fissato bollato di
10 euro), mentre renderebbe di fatto non più conveniente il trading ad alta frequenza perché basato
su migliaia di operazioni, ciascuna con guadagni minimi e ciascuna soggetta alla tassa. La vera
efficacia della tassa sarebbe dunque quella di modificare radicalmente le strategie di gestione di
portafoglio di questi attori riducendo la loro propensione speculativa a breve.
La proposta di introduzione della tassa dopo la crisi, data l’entità della posta in gioco, ha sollevato
subito un’ondata di sbarramento da parte di chi trae grandi vantaggi dal trading ad alta frequenza. Gli
argomenti iniziali avanzati sono stati piuttosto grossolani e privi di fondamento. Si è sostenuto che la
tassa, se applicata in un solo paese, in pochi paesi o addirittura in aree come l’UE sarebbe stata
inefficace e avrebbe riscosso piccole somme perché avrebbe spostato le operazioni di trading su
piattaforme fuori dal perimetro geografico di applicazione della tassa stessa creando giganteschi
fenomeni di evasione ed elusione che avrebbero di fatto vanificato il gettito e le finalità del
provvedimento. La prova inconfutabile che questo non è vero è che la tassa è già applicata in molti
singoli paesi generando gettiti significativi.18 Il paese che all’inizio ha più strenuamente sostenuto
quest’argomento è il Regno Unito, ovvero paradossalmente quello che oggi raccoglie le somme più
consistenti da una tassa sulle transazioni (la Stamp Duty Tax) che applica da tempo sulla propria
piazza finanziaria utilizzando il criterio della nazionalità dell’asset. Chi oggi vuole diventare
proprietario o vendere un’azione scambiata sulla borsa inglese deve pagare infatti in base alla Stamp
Duty un fissato bollato del 5 per mille. Con tale tassa il Regno Unito riscuote una cifra attorno ai 4
miliardi di sterline l’anno. I fenomeni di elusione ci sono stati ma vanno considerati essi stessi parte
dell’efficacia del provvedimento. Infatti la tassa ha scremato gli operatori del mercato spingendo
quelli con intenti speculativi a creare il cosiddetto market for differences nel quale essi scommettono
direttamente sulle deviazioni di prezzo a breve delle azioni senza possedere i titoli. Tutto questo non
ha impedito di raccogliere somme importanti stabilizzando altresì il mercato azionario tradizionale.
Per limitare la portata dell’evasione o dell’elusione il dibattito verte anche attorno alle modalità di
riscossione della tassa. Il principio attualmente preferito dalle autorità comunitarie è quello della
“broad residence” ovvero della residenza dell’intermediario intesa in senso esteso. La tassa deve
essere pagata se una delle due controparti che effettuano la transazione è residente in un paese UE o
anche solo se esse hanno almeno una filiale con residenza nell’UE pur effettuando la transazione da
filiali non residenti. Da alcune parti si invoca, per rendere più efficace il contrasto all’elusione e
all’evasione, di combinare il principio di residenza con quello di nazionalità dell’asset (secondo il
modello della Stamp Duty inglese). Come nel caso della descrizione degli effetti della Stamp Duty
l’eventuale riallocazione degli intermediari più aggressivi fuori dall’UE (e il loro non poter più
lavorare con clienti UE) non è necessariamente un fatto indesiderabile ma esso stesso parte dei
vantaggi che si intende perseguire attraverso l’applicazione della tassa. Una conseguenza probabile
dell’eventuale applicazione della FTT è dunque la sostituzione da parte degli intermediari di modelli
di trading proprietario con modelli di intermediazione tradizionali.
Quanto all’effettiva capacità di riscossione, soprattutto per quanto riguarda l’ambito dei derivati OTC
non regolamentati, le preoccupazioni paiono eccessive. Due regolamenti europei “Markets in
Financial Instruments Directive" (MiFID)19 e l’ "European Market Infrastructure Regulation"
(EMIR)20 in corso di approvazione impongono agli intermediari di registrare tutte le loro operazioni
incluse quelle su derivati OTC e forniranno la base informativa necessaria per riscuotere la tassa (Art.
25(2) della MiFID). Secondo tali regolamenti ogni modifica o l’eventuale conclusione del contratto
deve essere annotata in un registro delle transazioni che gli intermediary sono obbligati conservare
per 10 anni e a rendere consultabile alle autorità di vigilanza. Un incentivo implicitamente contenuto
in questa regola è che l’eventuale omessa registrazione di una transazione non renderebbe possibile
alcuna controversia davanti a tribunale adito da una delle due controparti.
La UE stima di poter ricavare annualmente dalla tassa 57 miliardi di euro (di cui attorno ai 4 miliardi
di euro per l’Italia) l’anno che andrebbero scalati, secondo le intenzioni dai contributi che gli stati
nazionali attualmente devono al bilancio comunitario. Questo crea un forte incentivo
18 Persaud (2011) riporta da fonti varie come la tassa sia applicata attualmente in 7 paesi (Svizzera,
Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud, Regno Unito, India, Sud Africa). Il gettito annuo più alto è quello
in Corea (6,2 miliardi di dollari seguito dai 5,86 miliardi di dollari nel Regno Unito. THE
ECONOMIC CONSEQUENCES OF THE EU PROPOSAL FOR A FINANCIAL TRANSACTION
TAX AVINASH PERSAUD 19 La direttiva 2004/39/EC è attualmente in fase di revisione presso i legislatori nazionali. 20 Un accordo del Consiglio è stato raggiunto nel Gennaio 2012. Il testo era in fase di prima lettura
presso il parlamento Europeo al maggio 2012.
all’approvazione da parte degli stati nazionali. Al momento in cui scriviamo 22 paesi si sono
dichiarati favorevoli e 5 contrari con la trattativa ancora in corso.
Una parte importante del dibattito verte com’è ovvio sugli effetti macroeconomici della tassa. Usando
i modelli economici considerati oggi di frontiera (modelli di dinamici di equilibrio economico
generale ad equazioni stocastiche) l’UE stima che la tassa potrebbe nell’equilibrio di lungo periodo
di tali modelli generare una perdita totale cumulata dello 0,5% del PIL in 40 anni. A parte l’entità
minima dell’effetto il modello utilizzato è fortemente lacunoso e i suoi risultati si basano su alcune
assunzioni irrealistiche che, una volta rilassate, modificano lo scenario. In quel tipo di modelli si
ipotizza ad esempio che le imprese finanzino tutti i loro investimenti produttivi attraverso emissioni
di azioni ed obbligazioni sui mercati finanziari (che sarebbero soggette alla tassa) mentre è ben noto
che una parte fondamentale degli investimenti avviene attraverso prestiti bancari tradizionali (non
soggetti alla tassa). Portando ad 80 percento la quota di finanziamento degli investimenti tramite
azioni ed obbligazioni l’effetto negativo di lungo periodo si dimezza a -0,21%. Inoltre non vi è nessun
riferimento in questo calcolo all’ipotesi che le risorse ricavate potrebbero essere utilizzate dagli stati
per generare investimenti pubblici produttivi o per ridurre le tasse sul lavoro e sui redditi dei ceti
medio bassi rilanciando in questo modo investimenti e consumi pubblici e privati. Assumendo ipotesi
meno ottimistiche possibili sulla produttività di queste risorse liberate si arriva facilmente a un effetto
macroeconomico positivo. In aggiunta a ciò alcuni economisti come Persaud ipotizzano come
ulteriore effetto positivo la riduzione anche minima della probabilità di nuove crisi finanziarie. La
Reihnardt (2009) calcola nel suo famoso studio sulle crisi finanziarie che esse generano mediamente
una riduzione del 9 percento del PIL. Applicando un modello standard di stima della relazione tra
finanza e crescita (Rousseau e Wacthel, 2010) su un campione dei maggiori 37 paesi del mondo
Becchetti e Ciampoli (2012) calcolano che il solo effetto del 2009 genera nel caso di questa crisi
finanziaria una riduzione del PIL del 9 percento medio per tali paesi (senza calcolare l’impatto degli
anni successivi e quello specifico negativo degli attivi bancari inquinati dai titoli tossici). Dunque se
soltanto l’eliminazione dell’high frequency trading riducesse del 5 percento la possibilità di una crisi
esso porterebbe al risparmio di 0.5 punti percentuali di PIL sotto un’ipotesi prudenziale di caduta
complessiva a seguito delle crisi del 10 percento del PIL stesso.
Un’ultima interessante osservazione sul calcolo delle ricadute macroeconomiche della tassa è quella
di Persaud che ritiene che, rendendo il trading ad alta frequenza non più redditizio, molte menti
brillanti che ad esso si dedicano potrebbero applicare i loro sforzi a settori dell’economia reale più
redditizi favorendo nuove scoperte, sviluppo ed innovazione. E’ innegabile infatti che gli altri salari
offerti dai mercati finanziari abbiano attratto in questi ultimi anni molti cervelli. Si tratta del famoso
argomento della diversione dei talenti attraverso il quale Murphy e Shleifer spiegano in un famoso
lavoro perché la rivoluzione industriale non scoppia in Cina prima che nel Regno Unito pur essendo
presenti in questo continente tutte le condizioni di contorno (un vastissimo mercato interno,
omogeneità culturale e stabilità politica, cervelli e scoperte tecnologiche). La loro conclusione è che
ciò avvenne perché il sistema culturale di allora stimolava le menti migliori ad applicarsi alle arti
dell’amministrazione pubblica e non a quelle della creazione e del rischio d’impresa, perché le norme
sociali allora vigenti non premiavano chi rischiava e guadagnava denaro attraverso l’attività
imprenditoriale. Si consideri da questo punto di vista che, per guadagnare quello che l’amministratore
delegato di Lehman Brothers ha percepito complessivamente in emolumenti vari l’anno prima del
fallimento della banca d’affari un professore di scuola italiana impiegherebbe in base al proprio
salario medio medio 4500 anni (dovrebbe iniziare a lavoare dall’età dei Sumeri). Senza pretendere
un totale appiattimento dei salari incorrelato con il merito sarebbe opportuno che i guadagni fossero
correlati al contributo che le persone danno al benessere e alla crescita e sicuramente il contributo
medio dei secondi è superiore a quello del primo. Da questo punto di vista la nostra società ha
sicuramente maggior bisogno di ricercatori in grado di ideare prodotti innovativi e far avanzare le
frontiere della tecnologia e di meno traders on line.
Una delle obiezioni più recenti alla tassa è che essa finirebbe per essere scaricata dai grandi
intermediari sui loro clienti finali. Uno degli esempi più frequentemente additati è quello dei fondi
pensione che utilizzano oggi strategie di trading aggressive e trasformerebbero i maggiori costi di
transazione in minori rendimenti per i beneficiari delle future pensioni integrative. Le simulazioni
della Commisione UE suggeriscono invece effetti diversi. Come evidenziato dai reclami delle stesse
autorità di vigilanza i fondi pensione tendono infatti oggi ad adottare strategie di gestione troppo
aggressive di cui beneficiano solo gli intermediari. La differenza tra tali strategie con scambi ad alta
frequenza e più prudenti gestioni tradizionali può costare fino ad un 10 percento dei rendimenti ai
clienti del fondo. La tassa sulle transazioni, rendendo tali gestioni aggressive non più praticabili,
potrebbe al contrario riportare alle vecchie modalità aumentando e non riducendo i rendimenti per i
destinatari finali.
Uno degli argomenti più tradizionali contro la tassa è che essa ridurrebbe l’efficienza dei mercati
finanziari (riducendo ad esempio la liquidità degli scambi ed aumentando pertanto gli spread tra
denaro e lettera, ovvero i costi di acquisto dei titoli). Ma di quanta liquidità abbiamo bisogno? Dean
Baker in un suo commento sul tema dice che la tassa ci riporterebbe ai costi di transazione e alla
liquidità di dieci anni fa, ovvero ad un periodo più florido di quello che stiamo vivendo
(http://www.cepr.net/index.php/blogs/cepr-blog/ken-rogoff-misses-the-boat-on-financial-
speculation-taxes). La verità è che non esiste nessun evidenza certa sugli effetti della tassa sulla
volatilità ma solo una serie di diversi modelli che trovano risultati opposti a seconda del tipo di
microstruttura dei mercati finanziari e del modello di competizione ipotizzato tra gli intermediari.21
Ma in maniera più profonda bisogna considerare che giudicare la validità sotto il solo profilo
dell’efficienza (ovvero della potenza di azione del singolo operatore) è profondamente limitante. Se
così facessimo in altri settori come quello delle regole della circolazione stradale dovremmo allora
eliminare ogni limite di velocità e consentire alle vetture di andare anche a 250 all’ora sulle autostrade
o nei raccordi dei centri abitati perché questo minimizza i tempi di percorrenza per i singoli individui.
Come è invece ragionevole che sia il principio dell’efficienza va necessariamente temperato con
quello della sicurezza e della precauzione. In innumerevoli campi la civiltà contemporanea si è
sottoposta a vincoli stringenti per applicare il principio di precauzione, mentre in finanza ha
recentemente proceduto in direzione opposta rimuovendo ogni vincolo. Mettere caschi, cinture di
sicurezza può non essere piacevole ma lo si fa per evitare problemi maggiori. Se consentissimo alle
automobili di viaggiare a 400 all’ora in autostrada potremmo arrivare tutti prima e l’”efficienza”
aumenterebbe. Non lo facciamo perché abbiamo paura dell’aumento degli incidenti e della riduzione
della sicurezza stradale. Sulle strade abbiamo limiti di velocità, ma in finanza abbiamo tolto ogni
limite di velocità abbassando i costi di transazione e portando la leva degli intermediari finanziari a
21 Mannaro et al. (2008) dimostrano che l’introduzione della tassa riduce la liquidità aumentando la
volatilità. Westerhof e Dieci (2006) documentano che se la tassa riduce il numero di noise traders sui
mercati la volatilità si riduce. .Pellizzari and Westerhof (2009) generalizzano il problema dimostrando
in particolare che in un mercato ad asta doppia continua (ovvero nelle borse valori) l’introduzione di
una tassa sulle transazioni non è in grado di stabilizzare il mercato a causa di una riduzione della
liquidità. Di contro in un mercato con dealer, in cui la liquidità è garantita dagli specialisti, la tassa
può ridurre la volatilità diminuendo gli ordini speculativi.
livelli abnormi e consentendo loro di spingere il rischio fino a livello che ha scatenato la crisi. Siamo
innamorati dell’idea di togliere lacci e lacciuoli ma non sempre si tratta di una scelta saggia. Negli
Stati Uniti erano stati tolti lacci e lacciuoli alla compravendita di case e le case erano diventate come
titoli di borsa con il 40 percento di acquisti sulla carta solo per movente speculativo per realizzare
guadagni o perdite in conto capitale. Questa decisione ha contribuito in modo significativo a creare
la bolla dei prezzi degli immobili alla radice della crisi finanziaria globaale. Una volta scoppiata la
bolla, per via della cartolarizzazione dei derivati del credito oggi le banche americane si trovano con
una quantità enorme di abitazioni da vendere sul mercato. Per questo motivo difficilmente
l’abitazione potrà tornare ad essere per gli americani un bene rifugio in grado di mantenere valore nel
tempo.
4.4 Modificare la struttura delle remunerazioni apicali negli intermediari finanziari
La proposta migliore per superare il problema della distorsione nei sistemi di remunerazione dei
manager che, come spiegato al punto 3.3, producono eccessiva presa di rischio degli intermediari
finanziari ed esasperano il conflitto distributivo all’interno di intermediari finanziari e imprese, è
quella di rendere trasparenti le regole di bonus e incentivi, ridurre il più possibile la componente
variabile rispetto alla fissa ed inserire nei criteri che definiscono i premi della componente variabile
indicatori di responsabilità sociale ed ambientale in modo da orientare gli incentivi dei manager, e di
conseguenza quelli di tutta l’azienda, verso la creazione di valore socialmente ed ambientalmente
sostenibile. Un buon esempio di come ciò può avvenire è rappresentato dalla griglia di indicatori
attraverso i quali i fondi etici come Etica sgr esercitano il loro ruolo di azionariato attivo nelle
assemblee delle società quotate votando a favore o contro le politiche d’incentivo.
Alcuni primi timidi esempi di questo tipo sono l’inclusione dell’obiettivo della riduzione di infortuni
sul lavoro per i premi dei manager di Snam e di alcuni indicatori di sostenibilità ambientale per i
manager di Veolia.
4.5 Tutelare la biodiversità Finanziaria
La biodiversità è un pregio nei mercati finanziari come negli ecosistemi come ricordato dal rapporto
Liikanen e da un pregevole lavoro di sintesi pubblicato dall’ILO nel 2013 e considerazioni sviluppate
sul Financial Times. L’esistenza di diverse specie di intermediari finanziari aumenta la resilienza del
sistema e dunque la sua resistenza a shocks. Un parassita (fattore di crisi nel nostro caso) può attaccare
una specie bancaria ma non le altre. Ad esempio le troppo-grandi-per-fallire sono più sensibili a shock
sui derivati e le piccole e medie a quelli sul credito (tipici delle fasi conclusive di un ciclo recessivo).
Eliminare una specie dall’ecosistema (le grandi popolari) rende l’ecosistema più fragile ed è quindi
un errore.
Come è noto la maggiore o minore rischiosità di una banca dipende da fattori quali volatilità degli
utili, diversificazione del portafoglio crediti, stabilità della raccolta fondi, facilità di reperire capitali
in momenti di crisi, leva bancaria cruda. Su molti di questi indicatori le banche a voto capitario non
fanno affatto peggio delle banche spa. In termini di volatilità degli utili è notorio che le banche a voto
capitario fanno molto meglio e ciò è la diretta conseguenza di quel ridotto conflitto d’interesse tra
azionisti e soci. Sempre i dati Bankscope (140.660 osservazioni banca-anno) ci dicono che nel
periodo 1998-2010 la deviazione standard del ROA è più di 4 volte maggiore per le banche non
cooperative e la deviazione standard del ROE doppia. Anche in termini intertemporali la volatilità di
ROA e ROE delle banche non coperative resta di gran lunga superiore confermando risultati
consolidati in letteratura. Hesse e Cihák (2007)22 all’FMI e International Labour Office (2013)
rilevano la maggiore stabilità delle banche cooperative nel confronto internazionale, cosa che in Italia
vale per le popolari (Bongini e Ferri, 2007);23 per l’Europa, Ferri et al. (2013 e 2014a) mostrano,
rispettivamente, che le banche cooperative né prima né con la crisi performano peggio delle spa e che
dal 2007 Fitch e Moody’s hanno ridotto i rating alle cooperative meno che alle spa; De Jonghe e
Oztekin (2015) trovano che, nonostante il minore accesso ai capitali esterni, la capitalizzazione delle
banche cooperative non è inferiore alle spa. E mantenere la diversità nelle forme organizzative (cioè
la coesistenza di banche for-profit e banche orientate ai soci) è cruciale a preservare servizi finanziari
ben funzionanti e inclusivi (Bulbul et al., 2013; Michie e Oughton 2013). Un lavoro molto
interessante recente è quello di Ayadi e de Groen (2014) che identificano quattro tipologie di banche
(investment, wholesale, diversified retail, focused retail).24 Le banche a voto capitario prevalgono nel
secondo e terzo modello che sono significativamente meno rischiosi sotto quasi tutti gli indicatori
considerati sopra. Dovrebbe preoccupare da questo punto di vista il fatto che i regolatori europei
abbiano costruito gli stress test guardando solo ai coefficienti di patrimonializzazione.
Come la letteratura economica ci suggerisce da tempo dunque, ogni modello di banca ha i suoi pregi
e i suoi limiti. Semplificando al massimo dati i vincoli di spazio le spa che massimizzano il profitto
non trovano particolarmente interessante fare credito, soprattutto di piccola taglia, perché attività
poco redditizia e ad alto costo. Le grandi banche spa hanno il difetto di prendere spesso troppi rischi
contando sul fatto di essere troppo grandi per fallire. Le banche locali hanno il vantaggio informativo
della distanza breve con il mondo produttivo locale che può aiutarle a ridurre l’asimmetria
informativa e favorire il credito. Ma rischiano anche la cattura da parte della politica locale e dunque
il credito facile in alcune circostanze nelle quali bisognerebbe essere più severi e selettivi. E il voto
mutualistico può generare opacità e difficoltà di ricambio della classe dirigente. Insomma ogni
modello ha i suoi problemi e per ogni modello ci sono ricette consigliate per attenuarli: regole più
severe sulla leva e limiti all’attività speculativa per le grandi banche spa, miglioramento della
governance per le popolari e vincoli di diversificazione del portafoglio e regole più severe per evitare
la cattura della politica locale per le banche locali (spa o mutualistiche che siano). Un’importante
prova di autoconsapevolezza è da questo punto di vista probabilmente quello del credito cooperativo
che, conoscendo i suoi limiti e opportunamente sollecitato da governo e banca d’Italia, ha messo a
22 H. Hesse, and M. Cihák. Cooperative Banks and Financial Stability. IMF Working
Paper No. 07/2. SSRN: http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=956767,
January 2007.
23 Bongini, and G. Ferri. Governance, Diversification and Performance: The Case of
Italy’s Banche Popolari. Paper given at the meeting on Corporate Governance in
Financial Institutions, organized by SUERF and the Central Bank of Cyprus, Nicosia,
2007.
24 Ayadi, R. and W.P. De Groen (2014), Banking Business
Models Monitor 2014 - Europe, CEPS and HEC Montreal -Observatoire
PublicaFons.
punto una riforma che si propone di emendarne le principali debolezze. Quello che sicuramente non
dobbiamo fare è prendercela aprioristicamente con uno dei diversi generi riducendo la biodiversità.
Per evitare il rischio che le banche facciano la fine delle banane. Mezzo secolo fà era infatti
predominante una specie di banana, la Grosse Michel che fu attaccata negli anni ‘50 dalla malattia di
Panama causata da un fungo, il Fusarium oxysporum, che rischiò di danneggiare seriamente la
produzione mondiale. Per fortuna si riuscì a puntare su una specie differente (la Cavendish) resistente
a quel parassita. Oggi la Cavendish è a sua volta ad alto rischio e sotto attacco a causa di una malattia
la Fusarium wilt, e in particolare la varietà Tropical Race 4 (TR4). La storia delle banane ricorda
quella delle banche. Nel 2007 il parassita dei derivati del credito attaccò la specie delle grandi banche
spa provocando una gravissima crisi finanziaria mondiale. Allora si lodarono le banche cooperative
e locali che avevano investito poco o per nulla in derivati per essere state maggiormente in grado di
resistere alla crisi. Seguirono sette anni di vacche magre in Europa (anche a causa dei limiti delle
politiche macroeconomiche post crisi) che misero stavolta a dura prova proprio le banche cooperative
e locali più esposte nel credito alle imprese. Quelle meno attente e rigorose nell’erogazione dei prestiti
finirono in crisi ed arriviamo dunque alla storia delle quattro banche italiane (non quattro popolari,
ma tre casse di risparmio e una popolare). La lezione per le banche come per le banane è la stessa.
Non si deve avere la memoria corta e puntare solo sul genere che ha resistito meglio all’ultima crisi
ma rinforzare la biodiversità e ciascun genere curando quelle che sono le sue debolezze specifiche.
4.6. Lottare contro l’elusione fiscale
Papa Francesco ha giustamente parlato contro l’idea che la “ricaduta favorevole” (trickle down) possa
rendere accettabili le crescenti diseguaglianze mondiali per via del fatto che la ricchezza dei ricchi
sgocciola in basso e produce comunque un miglioramento delle condizioni dei poveri. Il limite
fondamentale a questo ragionamento è proprio nell’elusione fiscale. Come ha recentemente affermato
in modo molto efficace il premio nobel Stiglitz “la ricchezza che doveva sgocciolare in basso è
evaporata al clima tropicale dei paradisi fiscali”. Il rapporto Oxfam sottolinea che se i 400 miliardi di
ricchezza africana che elude il fisco nei paradisi fiscali fosse rimpatriata e pagasse le tasse nel
continente ci sarebbero risorse e cure per salvare 4 milioni di bambini o per garantire l’istruzione a
tutti. La ONG britannica Christian Aid ha calcolato che gli introiti sottratti ai paesi in via di sviluppo
a causa di abusi fiscali perpetrati dalle multinazionali corrispondano a 160 miliardi di dollari l’anno.
Questa cifra supera di molto il totale degli aiuti donati dai paesi del Nord del mondo, cifra che nel
2012 ammontava a 125 miliardi di dollari. Si tratta anche di tre volte la cifra che si stima dovrebbe
essere investita ogni anno per porre fine alle fame nel mondo (50.2 miliardi di dollari).
La lotta all’elusione fiscale è dunque oggi una priorità.
Riportiamo a questo proposito di seguito la scheda costruita con la campagna 005 per la riforma della
finanza.
SCHEDA DELLA CAMPAGNA 005
L’elusione fiscale
Nei termini più generali, un paradiso fiscale è una giurisdizione che permette di evadere o eludere le
leggi e le normative di un altro Paese. Come indica il nome, il caso più ricorrente è legato al
pagamento delle tasse, ma possono presentarsi molte altre situazioni. Infatti sarebbe più corretto
parlare di giurisdizioni “segrete” che non cooperano volutamente con le altre giurisdizioni e le
istituzioni internazionali e quindi agiscono da paradisi fiscali (evasione ed elusione), bancari
(aggiramento di regole contabili e supervisori) e societari (copertura delle informazioni concernenti
la proprietà e l'operato delle aziende).
Solitamente una giurisdizione si specializza nel consentire alcune operazioni finanziarie o giuridiche,
attirando così i capitali e le imprese che possono trarre vantaggio da specifiche lacune nella
legislazione internazionale. Una sorta di nicchia di mercato per imprese, persone facoltose e
organizzazioni criminali che hanno tratto profitto dalla liberalizzazione selvaggia dei mercati, di
quelli finanziari in particolare, e dalla corrispondente mancanza di leggi e di istituzioni che potessero
coprire i vuoti normativi e le “zone grigie” tra le diverse giurisdizioni. Si aggiunga che i vari paradisi
operano strettamente in connessione tra di loro, formando di fatto una rete di giurisdizioni segrete a
livello globale che impatta l'intera economia mondiale (quello che qualcuno vede come un cancro che
sta lentamente divorando l'economia).
2. Qual è il problema
I paradisi fiscali hanno diversi impatti. Tra i più rilevanti:
L’evasione fiscale e la fuga di capitali causano un peggioramento delle finanze pubbliche e
hanno quindi impatti diretti sul welfare e lo Stato sociale. Il peso del fisco è scaricato sulle
fasce più povere della popolazione e sul lavoro. Viene minato il principio di redistribuzione
della ricchezza e quello di progressività fiscale previsto dalla nostra Costituzione.
La stessa segretezza facilita e rende possibile il riciclaggio del denaro e le attività criminali
quali la corruzione o i traffici di armi, di droga e di materie prime.
I paradisi fiscali hanno contribuito all’attuale instabilità finanziaria e al susseguirsi di crisi
finanziarie, e più in generale all'opacità del sistema bancario e finanziario. Si pensi solamente
che la stragrande maggioranza dei fondi hedge e di private equity e di tutte le società veicolo
tramite cui le banche hanno portato fuori bilancio ingenti asset legati alla cartolarizzazione
dei propri crediti – il cosiddetto sistema bancario ombra.
Le imprese multinazionali che possono eludere il fisco tramite i paradisi fiscali esercitano una
concorrenza sleale nei confronti delle piccole imprese che non sfruttano gli stessi meccanismi.
Il perdurare delle ingiustizie richiamate nei punti precedenti genera sfiducia e causa un
indebolimento e il rischio di una vera e propria rottura del “contratto sociale” tra cittadini,
imprese e istituzioni.
I paradisi fiscali sono alla base della “corsa verso il fondo” tra i Paesi per attrarre capitali e
imprese, esasperando un approccio non di cooperazione ma di competizione sfrenata su scala
internazionale.
3. Cosa si sta facendo
Anche a seguito della crisi finanziaria che ha colpito l'economia mondiale ed alla mancanza di risorse
pubbliche per i governi delle economie avanzate in un momento di grave recessione, il tema della
lotta ai paradisi fiscali sembra essere rientrato nell'agenda dei governi e dei vertici internazionali. Al
di là delle dichiarazioni, però, le iniziative concrete sono poche e per lo più inefficaci. Si continua a
identificare i paradisi fiscali con l'isoletta tropicale di turno, mentre nella realtà tali territori sono
spesso nel cuore dell'Europa o comunque legati a doppio filo alle potenze del G20. Si pensi che circa
un terzo dei paradisi fiscali fanno riferimento al Commnowealth e quindi alla City di Londra. E la
stessa area Euro ospita Lussemburgo, Cipro, l'Olanda come ben noti paradisi fiscali, bancari o
societari.
Il lavoro dell'OCSE che pubblica periodicamente delle liste nere e grigie dei Paesi che non cooperano
in ambito fiscale si è dimostrato di fatto incapace di contrastare il fenomeno. Stesso discorso per la
firma di accordi bilaterali che prevedono lo scambio di informazioni in materia fiscale su richiesta di
una delle due nazioni firmatarie.
4. Cosa si potrebbe fare
Le proposte sono diverse. Come in altri ambiti le difficoltà non sono tanto di natura tecnica, quanto
nella volontà politica di realizzarle. Serve un accordo multilaterale, e non una serie di trattati bilaterali,
che preveda uno scambio automatico di informazioni, e non su richiesta. Ancora a monte, occorre
adottare una definizione univoca e stringente di paradiso fiscale su scala internazionale. Enti quali i
trust, che garantiscono un completo anonimato e un'assoluta segretezza, devono essere dichiarati
illegali.
Una delle misure che singolarmente darebbe maggiore impulso alla lotta contro i paradisi fiscali è la
rendicontazione Paese per Paese (Country by Country reporting) dei dati contabili e fiscali delle
imprese multinazionali. Queste ultime devono oggi riportare nei propri bilanci unicamente dati
aggregati per macro-regioni. In questo modo è impossibile sapere cosa avviene in ogni Paese, e in
particolare se le imprese pagano in ogni giurisdizione le tasse dovute per le attività di produzione e
commercio e per i profitti realizzati. L'obbligo di pubblicazione dei bilanci e dei dati relativi a profitti
e tasse pagate in ogni giurisdizione consentirebbe un decisivo salto di qualità nella lotta contro
l'evasione fiscale, la corruzione, il riciclaggio e la criminalità organizzata. Va sottolineato che il
country by country reporting non richiede la cooperazione dei paradisi fiscali, perché le
multinazionali hanno quasi tutte la loro madrepatria in paesi non paradisi e quindi la rendicontazione
cadrebbe nella giurisdizione di questi.
Inoltre è centrale agire anche sulla trasparenza delle informazioni che riguardano la composizione
societaria delle varie imprese (la cosiddetta beneficial ownership), ossia sapere chi sono i veri
proprietari delle imprese. Questa questione si collega strettamente alla lotta al riciclaggio e la
necessità di rendere più stringenti le attuali raccomandazioni internazionali recepite nella legislazione
europea ed italiana (in revisione nel corso del 2013 a Bruxelles). Infine, è anche necessario agire sul
cosiddetto “trade mispricing”, ossia su quella pratica usata dalle multinazionali per alterare in maniera
legale la base imponibile in alcuni paesi spostando i profitti all'interno dello stesso gruppo verso
paradisi fiscali o paesi a più bassa tassazione al fine di pagare meno tasse.
Ancora prima di introdurre nuove normative internazionali, è necessario guardare in casa nostra. Sia
a livello europeo, sia in Italia, partendo dalle imprese nostrane, anche quelle nel quale lo stesso
ministero dell'Economia ha una partecipazione azionaria, e che troppo spesso hanno filiali, sussidiarie
e controllate nei peggiori paradisi fiscali del pianeta. Perché gli organi di controllo non vietano alle
nostre compagnie di realizzare operazioni con tali territori? Perché governi e banche centrali non
impediscono alle nostre banche di aprire filiali offshore?
5. Perché riguarda anche noi?
E’ praticamente impossibile tenere in piedi l’eurozona con all’interno dei paradisi fiscali. Come
abbiamo visto con lo scandalo Luxleaks le imprese cercano di pagare meno tasse possibili in paesi
come il nostro dove il prelievo è molto elevato. Se un’azienda produce 100 in Italia farà di tutto per
dimostrare di produrre 10 spostando fittiziamente 90 in paesi interni all’UE come il Lussemburgo o
altri che offrono condizioni di favore. Influendo in modo pesantemente negativo sui dati
dell’economia italiana.
Più in generale la lotta contro i paradisi fiscali, bancari e societari è una parte fondamentale della
costruzione di un modello finanziario radicalmente diverso, che sia uno strumento al servizio della
società e dell'economia produttiva e operi in maniera trasparente e nell'interesse dei cittadini. Il tema
va quindi esattamente nella stessa direzione dell'introduzione di una tassa sulle transazioni
finanziarie.
Inoltre, così come la tassa sulle transazioni finanziarie la lotta a questi paradisi e chi ne beneficia in
maniera illegittima se non illegale aumenterebbe la stabilità finanziaria a livello nazionale ed
internazionale e ridurrebbe l'invadenza dei mercati finanziari nella sfera produttiva e della finanza
pubblica.
Ancora più direttamente, l'opacità dei paradisi fiscali rende più complessa l'applicazione della tassa
sulle transazioni finanziarie. Viene aperta una possibilità di eludere o evadere la tassa tramite
operazioni di triangolazione, ovvero realizzando le operazioni finanziarie passando da giurisdizioni
che da un lato non applicano la tassa e dall'altro consentono l'anonimato e negano qualsiasi
trasparenza sui flussi finanziari, chi li controlla e il beneficiario finale della singola operazione.
5.Conclusioni
Alla radice dei problemi del sistema economico e finanziario nell’economia globale troviamo tre
malattie “filosofiche” rappresentate da visioni distorte della persona, dell’impresa e del valore che
limitano la fertilità e la generatività del sistema economico e la sua capacità di contribuire pienamente
al bene comune. Il riduzionismo della persona trasforma l’uomo-in-relazione, creato ad immagine e
somiglianza e dunque strutturalmente essere in relazione, e in homo economicus, monade isolata e
paralizzata dalla sfiducia, povera di capitale sociale ed incapace di correre il rischio della relazione
sociale e della cooperazione. Tale riduzionismo oltre ad immiserire il senso dell’esistere impedisce
di generare superadditività nei dilemmi sociali che tipicamente caratterizzano il vivere economico e
sociale.
Nel settore bancario-finanziario tuttavia il problema maggiore proviene dal riduzionismo nella
concezione d’impresa combinato con il riduzionismo nella concezione del valore. La somma dei due
riduzionismi identifica prima erroneamente il fine dell’attività economica nella crescita del Pil e
successivamente, a livello d’impresa, la crescita del Pil nella massimizzazione del profitto. Poiché il
Pil incorpora molte cose che incidono negativamente sulla nostra vita e trascura dimensioni di valore
immateriali fondamentali per il nostro esistere, e poichè il profitto non coincide neanche con il
contributo al PIL dell’impresa ma piuttosto con la fetta di tale contributo appannaggio degli azionisti,
questa doppia scorciatoia “filosofica” su cui si fonda ancora gran parte della cultura economica
produce automaticamente una crescita con diseguaglianze crescenti e incapacità di progresso in
termini di benessere sociale e sostenibilità ambientale.
Nel presente lavoro spieghiamo in particolare come i tre riduzionismi si traducono in finanza in alcuni
problemi specifici. In primo luogo lo scivolamento della missione degli intermediari bancari e
finanziari dal finanziamento dei progetti d’investimento delle imprese (soprattutto di quelle medio-
piccole) alla speculazione a breve termine. Fare credito alle PMI o favorire l’accesso al credito di
persone sprovviste di garanzia patrimoniale è infatti attività a basso rendimento ed alto rischio e
quindi subottimale nell’ottica della massimizzazione del profitto. Non è un caso che le banche più
direttamente orientate alla logica della massimizzazione del profitto prestino meno. La seconda
conseguenza dei tre riduzionismi in finanza è l’abbondanza di capitali “supersonici” (capitali
finanziari utilizzati nel trading ad alta frequenza dove si compiono centinaia di operazioni di acquisto-
vendita al giorno solo per finalità speculative) e la scarsità di capitali “pazienti” (capitali finanziari
che finanziano investimenti reali e attendono pazientemente il risultato del loro investimento).
Il lavoro indica le due direzioni principali del cambiamento per risolvere questi problemi. La prima è
il protagonismo dei cittadini attraverso il voto col portafoglio coerentemente con il principio di
partecipazione e sussidiarietà. Il mercato è fatto di domanda ed offerta e noi siamo la domanda. Il
mercato siamo noi ed ogni volta che acquistiamo e risparmiamo non dobbiamo perdere l’occasione
del magis rappresentata dal premio con la nostra scelta per l’intermediario finanziario alla frontiera
nella creazione di valore socialmente ed ambientalmente sostenibile. Il voto col portafoglio è atto di
autointeresse lungimirante, contagioso e pragmatico. Proprio in finanza è in grado di realizzare il
massimo delle proprie potenzialità attraverso l’operato dei fondi etici che rappresentano oggi una
quota significativa e crescente del risparmio gestito. La seconda direzione d’azione è quella della
riforma delle regole del sistema. Nel nostro lavoro indichiamo come urgenti e prioritarie la tutela
della biodiversità bancaria, con particolare attenzione a quelle forme di intermediari bancari, etici,
solidali e cooperativi che superano la logica della massimizzazione del profitto e per questo motivo
sono più vicini alla missione originaria di servizio all’economia reale e più attenti alla realtà dei
piccoli e dei più deboli nel sistema. Altrettanto importante l’adozione di una tassa molto piccola sulle
transazioni finanziarie in grado di aumentare il costo relativo dell’impiego “supersonico” dei capitali
finanziari rispetto a quello “paziente” ai fini di correggere lo shortermismo e l’eccessiva tendenza
all’attività speculativa sui mercati finanziari.
Un ultimo aspetto chiave riguarda la modifica urgente dei sistemi di remunerazione delle figure
apicali all’interno di banche, imprese e intermediari finanziari. Se tali remunerazioni continuano ad
essere strutturate con una parte eccessivamente alta in variabile con premi legati alla crescita degli
utili la logica della massimizzazione del profitto diventa automaticamente legge, la tendenza ad
assumere rischi eccessivi all’interno di queste organizzazioni diventa regola e i conflitti distributivi
sono esasperati in periodi di bassa crescita.
La voce e l’impegno della comunità dei credenti e di tutti gli uomini di buona volontà su questo fronte
così decisivo ed importante per tutte le altre dimensioni della vita umana è oggi quantomai urgente.
FINE
Introduzione25
Per alimentare la speranza e stimolare il progresso verso il bene comune non basta indicare l’orizzonte
e ragionare di utopie non incarnate. Bisogna anche tracciare i sentieri che ci avvicinano ad esso ed
abitare i luoghi dove il nuovo si costruisce. Come Comitato Etico di Banca Popolare Etica abbiamo
sentito la responsabilità di dare il nostro contributo nell’assolvere a questo compito (assieme a tutta
la squadra costituita da coloro che si impegnano a contribuire alla crescita dell’istituto) lavorando per
chiarire in 23 punti la differenza tra la Banca e gli altri istituti finanziari. Quella differenza per la
quale tutti i portatori d’interesse sono disposti a sacrificare parte dei loro benefici monetari pur di far
camminare e crescere questo sogno divenuto realtà. Se infatti esiste un premio etico che i portatori
d’interesse sono disposti a corrispondere alla Banca, tale premio etico potrà sussistere ed ampliarsi
quanto più chiariamo, tuteliamo e potenziamo la differenza che Banca Etica rappresenta rispetto al
resto del mondo bancario-finanziario.
I 23 punti individuati sottolineano come Banca Etica rappresenti una forma di impresa sociale
originale che, nell’alveo della tradizione cooperativa, costituisce una risposta nuova alle nuove sfide
del tempo della globalizzazione. Una risposta che innova rispetto a tale tradizione, perché intende
competere con le imprese classiche contendendo loro quote di mercato attraverso l’utilizzo dell’etica
come fattore competitivo. E che estende il principio della mutualità circolare tradizionale in direzione
di una mutualità allargata nella quale i portatori d’interesse garantiscono un beneficio alla Banca,
affinché la stessa lo restituisca non necessariamente a loro stessi quanto piuttosto a soggetti terzi
ritenuti particolarmente bisognosi. Da questo punto di vista Banca Etica fa proprio il concetto di
reciprocità indiretta che rappresenta la scintilla più fertile per la diffusione dei principi di reciprocità
e gratuità.
Tra i 23 punti uno fondamentale è la capacità di Banca Etica di stimolare contagio nella responsabilità
sociale attraverso il “voto col portafoglio” dei risparmiatori e il suo stesso “voto col portafoglio” nelle
scelte di risparmio dei propri fondi di investimento. La storia di questi anni del “pioniere” ha
dimostrato come l’uso dei consumi e dei risparmi per premiare le aziende che sono all’avanguardia
nella promozione della responsabilità sociale ed ambientale è una leva potentissima, e ancora solo
parzialmente utilizzata, che può cambiare radicalmente il sistema economico orientandolo verso il
bene comune. Abbiamo nelle nostre tasche le chiavi dei lucchetti delle nostre catene ma ancora non
lo sappiamo. Il mercato siamo noi e la storia di Banca Etica e l’identificazione e la tutela del suo
vantaggio etico hanno un’importanza fondamentale per fare cultura ed aiutare tutti a comprendere
l’enorme potenzialità che abbiamo per promuovere il cambiamento. I 23 punti descritti in questo
libretto rappresentano infatti il risultato e il compimento della storia della Banca ad oggi, ma solo la
perseveranza e la fedeltà agli obiettivi statutari potranno garantire che il vantaggio etico competitivo
sarà mantenuto o accresciuto in futuro. È una foto di quello che la Banca è e ha realizzato ad oggi. La
garanzia che sarà così o meglio in futuro dipenderà soltanto dalla qualità del cammino che le persone
che danno forma alla Banca sapranno fare.
Un altro punto decisivo del vantaggio etico competitivo (e forse quello più faticoso da perseguire e
salvaguardare) è quello dei processi. Fuori dalla logica perversa del consequenzialismo per cui ciò
che conta è il risultato perseguito a qualunque costo, Banca Etica ha scelto la logica del benessere
partecipativo. Ciò che conta non è solo il risultato ma anche e soprattutto ciò che accade nel tragitto
fatto per raggiungerlo. Nella pazienza di costruire un percorso condiviso dal basso tra i vari portatori
25 Il lavoro è frutto di una riflessione su caratteristiche ed operato della Banca ad opera e
responsabilità del Comitato Etico. Si ringraziano tutte le componenti della Banca, in primis il
Consiglio di Amministrazione ed il presidente Ugo Biggeri per aver discusso con il Comitato nel
merito delle tematiche qui affrontate.
d’interesse sta un’altra delle grandi ricchezze della Banca, da preservare affinché la sua differenza
continui ad essere visibile ed efficace nel tempo.
Leonardo Becchetti
Presidente del Comitato Etico
1) Banca Etica è un'istituzione pioniera nel campo della finanza etica che fa leva sul risparmio
responsabile e sul “voto col portafoglio” per generare processi di contaminazione nell'intero
sistema.
Banca Etica è un’istituzione pioniera nel sistema bancario nazionale che ha fornito stimoli ed
ispirazione a livello europeo ed internazionale. La Banca ha fondato la sua azione su valori unici nel
panorama finanziario per promuovere la responsabilità nell’uso del denaro, facendo propri i principi
enunciati nel Manifesto della finanza etica e solidale.
Ai cittadini soci o semplicemente correntisti o risparmiatori dichiara fin da subito come verrà
impiegato il denaro che hanno deciso di darle in custodia e non pone mai l’accento sul rendimento
economico, bensì sul suo rendimento sociale e ambientale.
Questo aspetto cardine, intorno al quale si sviluppa la Banca, stimola i cittadini ad una scelta orientata
al risparmio responsabile e al “voto col portafoglio”, ossia scelte di consumo e di risparmio che
premiano le aziende capaci di creare valore economico socialmente ed ambientalmente sostenibile.
Una tale base valoriale è una caratteristica determinante per la Banca, dunque da conservare con
attenzione, evitando ogni rischio di messa in discussione o di depotenziamento.
Il sistema bancario tradizionale ha reagito a questo approccio dapprima proponendo prodotti etici o
pseudo tali, nel tentativo di risultare competitivo nei confronti della Banca sui suoi stessi principi; poi
offrendo prodotti con finalità sociali ed ambientali verso i quali si è effettivamente orientata parte
della clientela; infine cercando di costituire banche settoriali eticamente orientate che dovrebbero
rendere più chiare finalità e destinazione delle risorse. Questi nuovi istituti mancano di importanti
requisiti per entrare a pieno titolo nel mondo della finanza etica, quali, ad esempio, la partecipazione
ed il controllo della base sociale e la trasparenza negli investimenti.
Banca Etica pertanto ha cominciato a contaminare il sistema finanziario ed è questo, oltre al proprio
diretto operato, uno degli effetti esterni più importanti della sua azione.
2) L’impresa tradizionale prima fa operazioni finanziarie senza preoccuparsi dei loro effetti
sociali poi prova a sanare i danni tramite la filantropia. La finanza etica sostiene attività da
subito orientate a creare valore economico in modo socialmente ed ambientalmente sostenibile.
Banca Etica dedica attenzione esclusiva ad iniziative che fondano la loro attività sul rispetto delle
persone e dell’ambiente e sulla difesa dei diritti umani, in coerenza con l’articolo 5 dello Statuto
sociale.
Ciò costituisce la caratteristica principale e più innovativa che rende la Banca unica in Italia. Ne
consegue che, dedicandosi prioritariamente a soggetti dell'area non profit, da una parte è obbligata a
maggiori accantonamenti per un settore considerato a torto a maggior rischio, dall’altra dedica la
massima attenzione alle condizioni che offre ai propri clienti, sia sul piano dei costi, sia sul piano dei
servizi, cercando di facilitare le relazioni e aiutare chi ha bisogno con operazioni dedicate.
Ne consegue che l’azione della Banca è opposta a quella del sistema tradizionale. Normalmente infatti
le aziende tendono al massimo profitto, senza badare alle conseguenze negative sul piano sociale, sul
rispetto dei diritti dei lavoratori, sull’ambiente. Poi però usano parte degli utili per sostenere iniziative
sociali, culturali, ambientali o di altro genere, pensando di compensare i danni provocati e di comprare
la simpatia di coloro che beneficiano dei loro contributi. È evidente la contraddizione di questo
sistema che Banca Etica intende contrastare mettendo al primo posto i principi ai quali si ispira,
creando valore economico in modo già socialmente ed ambientalmente sostenibile e procurando
benefici ai soci, ai clienti e alle iniziative che finanzia.
Ciò comporta un bilancio annuale con minori utili, ma un agire che favorisce fin da subito nell’azione
quotidiana i propri clienti e soggetti di riferimento. La filantropia non incide sulle cause delle
sperequazioni sociali e delle criticità ambientali, obiettivo cui invece mira la finanza etica.
3) Banca Etica orienta i suoi finanziamenti verso settori ad alto valore sociale ed ambientale e
applica il concetto di mutualità allargata o reciprocità indiretta.
Per svolgere al meglio la propria azione Banca Etica si è dotata di una rete di valutatori
socio/ambientali in grado di esaminare le caratteristiche qualitative dei progetti da finanziare, nel
rispetto dei propri valori.
La scelta di dedicare esclusiva attenzione ad interventi ad alta valenza socio-ambientale, culturale e
di difesa dei diritti umani, privilegiando il mondo non profit senza escludere altri soggetti, purché
rispettino i principi espressi nello Statuto all’art. 5, risulta lungimirante e capace di incidere sulla
qualità della vita collettiva.
I valutatori socio/ambientali sono un’ulteriore significativa caratteristica del modello Banca Etica,
ancora più innovativa considerando che tale compito è svolto da soci volontari presenti sul territorio.
I valutatori sono inseriti nelle reti locali e sono in stretta relazione con gli altri soci. Per questo motivo
sono in grado di avere una visione completa del progetto da finanziare e del suo impatto sulla realtà
locale e dunque sono messi in grado di esprimere una valutazione seria e completa sulla qualità dello
stesso.
Inoltre il sistema di valutazione, comprendendo anche un parere del Gruppo di Iniziativa Territoriale,
permette di realizzare una delle condizioni che consentono un effettivo controllo dello sviluppo della
Banca da parte dei soci.
Un altro aspetto dei finanziamenti concessi con questo sistema di verifiche e garanzie reticolari, grazie
al denaro raccolto da risparmiatori solidali, è l'applicazione di forme di mutualità allargata: io presto
denaro tramite la Banca a soggetti che applicano i criteri etici all'economia; così facendo realizzo una
forma di reciprocità indiretta applicata al sistema finanziario: il risparmiatore presta risorse alla
Banca, talvolta volontariamente a condizioni di vantaggio, sebbene l'istituto non restituisca un
beneficio allo stesso soggetto ma a terzi, sostenendo così chi lavora con le medesime finalità etiche
del risparmiatore.
4) Banca Etica applica formule di governance partecipata mettendo in pratica strumenti di
democrazia economica (Organizzazione Territoriale dei Soci, organismi elettivi).
L’ Assemblea dei soci è il momento più importante della vita e del governo di Banca Etica ed è il
punto d’arrivo di tanti percorsi partecipativi che coinvolgono i soci nella gestione della Banca. Questa
modalità collettiva di fare impresa è una delle sue peculiarità, ispirata ai principi della finanza etica e
della cooperazione.
La partecipazione dei soci organizzati attraverso i Gruppi di Iniziativa Territoriale è impegnativa e
richiede risorse umane ed economiche, ma è una delle principali garanzie dell’indipendenza di Banca
Etica, della sua capacità di interagire con i territori in cui opera e di crescere con l’azionariato
popolare.
Tra i percorsi partecipativi più significativi che caratterizzano la governance vi è la modalità del
rinnovo del Consiglio di Amministrazione attraverso l’individuazione dei candidati che si presentano
e vengono votati dall’Assemblea dei soci, frutto di un lungo lavoro di confronto e discussione.
Analogo percorso avviene per l'elezione dei componenti del Comitato Etico.
Accanto al Consiglio di Amministrazione e al Comitato Etico altri organismi elettivi sono i
Coordinamenti di area, il Collegio Sindacale, il Comitato dei Probiviri: tutti insieme compongono un
sistema di partecipazione e governance unico nel settore bancario.
L’interazione tra l'organigramma della struttura imprenditoriale e la vitalità associativa e
partecipativa dei soci è stimolata dalla costruzione e dall’aggiornamento di un apposito diagramma
associativo.
Anche la discussione sui bilanci rappresenta un punto di arrivo di un percorso partecipato, il cui
obiettivo deve essere quello di integrare il bilancio civilistico con quello sociale, un modo per dare
un’anima ai numeri, o meglio rendicontare sui risultati sociali della Banca accompagnandoli con i
numeri della loro sostenibilità.
Per il mantenimento di una viva realtà di partecipazione rimane aperta la necessità di rafforzare forme
di governance condivisa, che può fare leva sui vari organi e livelli intermedi di Banca Etica,
prevedendo un maggiore spazio per la rete dei GIT, che rappresentano il presidio più diretto di
animazione e collegamento con le realtà locali.
5) Banca Etica si dota di organi di controllo autonomi ed elettivi (Comitato Etico,
Coordinamento soci).
Il sistema di governance di Banca Etica è caratterizzato da alcuni organi di controllo, di elaborazione
di proposte e di partecipazione democratica che sono autonomi ed elettivi: il Comitato Etico, il
Coordinamento dei soci ed i Forum d’Area.
La Banca fornisce a questi organi strumenti e informazioni per lo svolgimento dei compiti di verifica,
analisi e proposta che caratterizzano la gestione di un istituto bancario innovativo.
Comitato Etico
Il Comitato Etico è un organismo con funzione consultiva e propositiva finalizzato a garantire che lo
stile di lavoro e le scelte strategiche ed operative della Banca siano in coerenza con i criteri di eticità
enunciati nel suo Statuto e con i principi sanciti nel Codice Etico entrato in vigore nel maggio 2010.
Dopo l'attivazione nel novembre 2010 dell'Organismo di Vigilanza, con funzioni di controllo sia in
relazione a quanto previsto dal D. Lgs. 231/2001 sia in relazione all'applicazione e all'adeguatezza
del Codice Etico, il Comitato Etico elabora indicazioni in merito alle scelte strategiche e collabora
con l'Organismo di Vigilanza riguardo all'applicazione e all'adeguatezza del Codice Etico; continua
inoltre a prestare particolare attenzione alle attese, ai quesiti e alle istanze di coerenza etica espresse
dalla base sociale.
Coordinamento soci
Per facilitare le opportunità che le persone hanno nell'essere soci, lo Statuto di Banca Etica prevede
una dimensione locale (la Circoscrizione e il GIT), una dimensione di area interregionale (il
Coordinamento d’Area e il Forum d’Area) e una dimensione di raccordo nazionale (Interforum).
Le Circoscrizioni raggruppano i soci di un territorio che, riuniti in assemblea, eleggono un GIT
(Gruppo di Iniziativa Territoriale), i cui membri a loro volta nominano un coordinatore. Il GIT ha la
funzione di diffondere la cultura della finanza etica, di cogliere gli stimoli provenienti dal territorio e
di garantire l'informazione sulle attività della Banca.
Il Coordinamento di Area è costituito dai coordinatori dei GIT facenti parte di un'area. Alle
tradizionali quattro aree italiane (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e isole) dal 2013 si è aggiunta
l'area spagnola.
6) Banca Etica applica principi di partecipazione nelle scelte gestionali attraverso forme di
collaborazione attiva tra soci ed operativi tramite uno strumento di programmazione
denominato “comunità di azione”.
Uno dei principi fondamentali della finanza etica consiste nel favorire e garantire la partecipazione al
progetto di tutti i soggetti aderenti, nelle forme e con le modalità innovative che il movimento va
elaborando.
Banca Etica opera per costruire insieme gli strumenti che permettano un nuovo stile di gestione
democratica delle risorse economiche, in quanto nella sua visione il denaro deve servire per il
raggiungimento di obiettivi collettivi e non solamente per interessi personali.
Fin dalla sua fondazione la Banca ha cercato di sperimentare forme di intervento che sviluppassero
questo aspetto, facendo leva da una parte sulla professionalità dell’area operativa e, dall'altra, sul
ruolo di interfaccia che i soci interpretano sul territorio, predisponendo i contatti, lavorando con le
realtà locali e occupandosi della valutazione socio-ambientale.
Su queste basi si sono sviluppate a livello territoriale esperienze diverse, dalle più semplici, quale la
verifica anagrafica dei soci, a quelle più strutturate, quasi sempre relative al microcredito.
Si è constatato con questi esperimenti come la condizione irrinunciabile per la riuscita dei progetti sia
la collaborazione tra soci e dipendenti, così che sul territorio l'azione della Banca risulti coerente ed
efficace.
Da qui l'elaborazione di una strategia denominata “comunità di azione”, tesa ad individuare le forme
migliori di collaborazione anche nella fase istruttoria del credito.
Il miglioramento della comunicazione, la condivisione di processi e strategie, la determinazione di
ampliare gli spazi di intervento e la ricerca di soluzioni innovative autorizzate possono dare il giusto
rilievo a questo originale percorso.
7) Banca Etica non effettua attività speculative di qualsiasi genere.
Banca Etica non svolge attività di trading speculativo su strumenti di finanza derivata, né di carattere
proprietario né su mandato dei propri clienti, essendo contraria a questo tipo di utilizzo del risparmio
raccolto. Allo stesso modo non svolge né per proprio conto né su mandato dei clienti attività
speculativa (compravendita a breve termine per lucrare differenze in conto capitale) su attività
finanziarie tradizionali.
La Banca dispone di un portafoglio titoli, in larga parte titoli di stato o obbligazioni, per garantire il
normale flusso di liquidità alla propria attività caratteristica di intermediazione creditizia. Il
portafoglio titoli è investito in attività finanziarie coerenti con la mission della Banca.
Banca Etica utilizza strumenti di copertura dal rischio (soglie di tassi minimi sui prestiti) come
garanzie necessarie per evitare l’erosione della redditività minima indispensabile per assicurare il
funzionamento della propria attività. L’assenza di operazioni speculative riduce uno dei fattori di
rischio principali per il sistema bancario e con essa il rischio che il dissesto della Banca richieda
l’intervento di salvataggio pubblico con costi per i contribuenti, come accaduto durante la recente
crisi finanziaria mondiale in molti paesi.
Per questo motivo la Banca sostiene, tra le altre proposte contenute nella campagna per la riforma
della finanza mondiale, quella di separazione tra banche commerciali e banche d’affari, con divieto
per le prime di trading proprietario. Consapevole della difficoltà di definire e di applicare in maniera
univoca tale proposta, interpreta il divieto di trading proprietario intendendo con quest’ultimo un
comportamento simile a quello da essa adottato tramite la gestione prudente e non speculativa di un
portafoglio titoli per esigenze di liquidità e l'uso di strumenti quali i derivati indiretti solamente per
operazioni di assicurazione e copertura.
8) Banca Etica è trasparente sull'impiego del denaro dei risparmiatori tramite la pubblicazione
dei prestiti alle persone giuridiche.
Banca Etica consente ai cittadini di verificare l’utilizzo dei soldi depositati pubblicando i riferimenti
alle realtà e ai progetti finanziati sul proprio sito internet, dove nel dettaglio vengono specificati
titolarità, importi, finalità e scadenze.
Questa operazione di trasparenza avviene limitatamente alle persone giuridiche in quanto motivi di
privacy impediscono di rendere pubblici i finanziamenti alle persone fisiche. Per gli investimenti
privati sono comunque disponibili dati aggregati di volumi per tipologie di operazioni e territorio.
Questa caratteristica unica si somma alla conoscenza diretta dei finanziamenti che i soci sul territorio
possono esperire tramite la “comunità di azione”, che li vede partecipi dell'istruttoria e della riuscita
dei finanziamenti. Gli stretti rapporti col territorio riducono le tradizionali asimmetrie informative tra
banca e cliente contribuendo al risultato, superiore alla media, che la Banca ha sinora realizzato in
termini di basso livello di sofferenze sui prestiti totali.
In parallelo alla trasparenza l'altra caratteristica di Banca Etica mutuata dai suoi principi fondanti
risiede nella scelta dei campi di impiego del denaro che le viene affidato: è possibile per i risparmiatori
indicare la destinazione privilegiata della raccolta per macro-categorie (es. microcredito,
cooperazione internazionale, cooperazione sociale, ambiente) o scegliere la sottoscrizione di
obbligazioni dedicate al finanziamento di particolari iniziative o ambiti di attività.
In questo modo è possibile per il cittadino verificare l’impegno percentuale della Banca in ciascuno
dei settori di rilevanza sociale ed ambientale che rappresentano l’universo tipico dei crediti erogati.
9) Banca Etica è impegnata nella difesa e promozione della legalità.
La difesa della legalità e lo sviluppo di attività imprenditoriali e culturali che contrastino la presenza
sui territori della criminalità organizzata costituiscono uno dei settori di intervento privilegiati per
l’erogazione del credito da parte di Banca Etica.
Questo posizionamento avviene in coerenza con il primo e principale vantaggio competitivo della
Banca, che le impone di usare la raccolta per finanziare progetti d’investimento che affianchino alla
sostenibilità finanziaria una valutazione positiva dal punto di vista della sostenibilità ambientale e
sociale.
Ritenendo la difesa della legalità una delle questioni prioritarie nel nostro paese, Banca Etica è in
prima linea nel sostenere progetti di imprese e cooperative che gestiscono attività produttive sui
terreni confiscati alle mafie, iniziative che contrastino l'usura o le infiltrazioni criminali nell'economia
e nella società civile, o comunque nel finanziare progetti che abbiano come obiettivo quello della
difesa della legalità e dei diritti civili.
Inoltre l'apparato culturale della Banca, in stretta collaborazione con la sua base sociale, partendo da
queste posizioni ideali sostiene con forza movimenti e campagne per il rispetto della legge e la difesa
e lo sviluppo degli strumenti di democrazia nel nostro paese e nel mondo.
10) Banca Etica si impegna per il Sud d’Italia, dove impiega più di quanto raccoglie.
Il sistema del credito nel Meridione, sia per il mondo delle aziende che per le famiglie, rappresenta
un vero e proprio limite per lo sviluppo dell’economia meridionale. Nonostante da sempre si dichiari
nelle intenzioni l’importanza di politiche di aiuti ed incentivi che dovrebbero costituire un volano di
crescita per le piccole e medie imprese del Sud Italia, nei fatti il costo del denaro è molto più elevato
rispetto alle regioni del Nord e in ogni caso vi è una maggiore difficoltà nell’erogazione dei
finanziamenti.
Gli interessi pagati sui mutui e prestiti a breve termine per le imprese - secondo i dati di Banca d'Italia
relativi al 2012 - variano anche di 3,5 punti percentuali (6,03 Lombardia – 9,31 Calabria), mentre
anche gli interessi riconosciuti sui vari strumenti di risparmio presentano una forbice non indifferente:
meno 40% rispetto al Nord.
Nel Sud si assiste inoltre alla chiusura massiccia di sportelli e uffici bancari, specie nei piccoli centri
e nelle aree dell'entroterra, con ulteriori difficoltà per gli attori dell'economia rurale e solidale.
Banca Etica al contrario ha deciso fino dalla sua fondazione di investire nel Meridione più di quanto
ricava, prestando più di quello che raccoglie sotto forma di risparmi e capitale societario e mettendo
in atto uno sforzo perequativo tra Nord e Sud. Ha inoltre con coerenza deciso di aprire filiali (Palermo,
Napoli, Bari) e uffici dei promotori finanziari in luoghi-simbolo della lotta alle mafie, nonostante i
ritorni di questa scelta siano meno elevati di quelli derivanti dallo svolgimento delle medesime attività
in altre aree del paese.
11) Banca Etica non è orientata al puro profitto e coinvolge nel progetto tutti i portatori di
interesse. È in controtendenza rispetto alle banche tradizionali nel praticare una politica di
concessione di crediti nei periodi di congiuntura economica negativa.
Banca Etica opera in modo circolare e non piramidale gerarchico, cooperativo e non competitivo,
coinvolgendo e valorizzando tutti i portatori di interesse: lavoratori,
azionisti, clienti, consumatori, fornitori, creditori, comunità locali, associazioni, istituzioni pubbliche,
generazioni future. Nel progetto Banca Etica tutti possono essere attori e protagonisti: “L'interesse
più alto è quello di tutti” è il concetto fondante del suo operare.
Banca Etica mette al centro le persone, i diritti, l'ambiente. Riesce a trasformare il denaro in un bene
comune, utile alle collettività per un reale sviluppo umano e sociale, a sostegno delle esigenze
primarie delle comunità e della salvaguardia del creato.
Per far questo e per alleviare le difficoltà provocate dalla crisi finanziaria, la Banca ha operato in
controtendenza rispetto al sistema registrando incrementi nell'erogazione dei crediti verso privati,
associazioni ed imprese di fronte alle riduzioni in atto nel sistema bancario tradizionale nei periodi di
recessione, cercando così di contrastare il declino dell'economia nazionale, specie nei settori di
maggiore utilità collettiva. Nonostante questa impegnativa scelta di campo per sostenere l’economia
reale, la Banca ha costantemente registrato in tutta la sua storia tassi di crediti in sofferenza sul totale
di gran lunga inferiori a quelli del resto del sistema.
Il mondo finanziario odierno, operando solamente per ricercare il livello massimo di remunerazione
degli investimenti, non si preoccupa delle conseguenze non economiche delle scelte economico-
finanziarie, incidendo negativamente sulla vita di intere popolazioni, sul clima, sul rispetto dei diritti
delle persone e dell'ambiente. Tutto questo accade spesso senza che i risparmiatori ne prendano
coscienza; l'attività culturale della Banca intende aiutare il cittadino ad accrescere il proprio grado di
consapevolezza circa gli effetti che le proprie scelte di consumo e di risparmio possono avere sul suo
benessere e sul bene comune.
12) Banca Etica ha il controllo di una società di gestione del risparmio, Etica sgr, che applica il
“voto col portafoglio” in Borsa, scegliendo per i suoi fondi comuni solo aziende che rispondano
ai criteri più elevati di responsabilità socio-ambientale d'impresa.
L'azione operativa e culturale di Banca Etica è orientata alla Responsabilità Sociale d'Impresa; quindi
riconosce e premia come valore sociale la responsabilità che ogni azienda o organizzazione si assume
per tutte le conseguenze delle proprie decisioni e dei propri comportamenti, oltre che sul piano
economico, anche su quello sociale e ambientale, lungo tutta la catena di creazione di questo valore.
Il valore sociale, coerentemente con l'approccio di valutazione delle "conseguenze non economiche
delle azioni economiche" proprio della finanza etica, si estende a tutti i portatori di interesse.
L'obiettivo ambizioso e prioritario per le imprese sostenibili è quello di realizzare, non sulla carta, ma
con concretezza, trasparenza e coerenza le tre dimensioni della sostenibilità: economica, ambientale
e sociale.
Per far sì che il mondo dell'economia reale si avvicini a questo obiettivo non solamente per motivi
commerciali ma per convinzione, le istituzioni della finanza etica provano a contaminare anche il
mondo della Borsa con i loro criteri di eticità.
Di conseguenza Etica sgr, la società di gestione del risparmio fondata e controllata da Banca Etica,
per comporre i portafogli dei suoi fondi di investimento ha deciso di scegliere solo le imprese che,
superando le analisi di due organismi (Eiris ed il proprio Comitato Etico), raggiungono i massimi
punteggi nella valutazione di Responsabilità Sociale d'Impresa. In questo modo il “voto col
portafoglio” di Etica sgr prova ad aiutare società civile, attori economici e istituzioni a gettare le basi
per un cambiamento del sistema finanziario attuale.
13) Banca Etica raccoglie dalla clientela, tramite Etica Sgr, fondi di garanzia per il microcredito
assistenziale e imprenditoriale.
Etica Sgr, la società di gestione del risparmio del gruppo Banca Etica, colloca sul mercato finanziario
un pacchetto di fondi etici certificati denominato Sistema Valori Responsabili, garantiti da una doppia
griglia di valutazione sulla responsabilità socio-ambientale d'impresa. Tra le sue attività, che
comprendono la ricerca e l'analisi delle società quotate e le iniziative di azionariato attivo, spicca la
costituzione di un Fondo di garanzia per il microcredito.
Chi sottoscrive i fondi di investimento di Etica Sgr contribuisce con un euro ogni mille investiti alla
formazione di un Fondo di garanzia grazie al quale Banca Etica può concedere piccoli prestiti a
persone che vogliono avviare iniziative imprenditoriali o che si trovano in stato di bisogno, oppure a
cooperative sociali.
Inoltre Etica Sgr devolve ogni anno a detto Fondo di garanzia lo 0,1% delle commissioni attive di sua
pertinenza.
Con questo sistema il gruppo Banca Etica risulta il maggiore erogatore di microcredito in Italia con
la concessione di diverse decine di finanziamenti di questo genere (le cifre aggiornate si trovano sul
Bilancio sociale della Banca).
Concedere piccoli crediti a soggetti svantaggiati o privi di garanzie patrimoniali nei paesi occidentali
risulta rischioso e molto più costoso in termini di costi fissi di istruttoria per un istituto di credito di
quanto lo è il concedere prestiti tradizionali.
Per questo è necessario predisporre sistemi che diano garanzie a chi non ne ha, ma che
contemporaneamente tutelino il risparmiatore responsabile che affida i suoi denari alla Banca.
Per raggiungere questi obiettivi, ma anche per soddisfare i principi di mutualità e di sostenibilità
perseguiti da Banca Etica, vengono affiancate al prestito forme di assistenza e di educazione
finanziaria nei confronti dei beneficiari.
La Banca può, oltre ai meccanismi posti in atto da Etica sgr, costituire riserve a garanzia dei prestiti
in partnership con altri attori, enti pubblici, associazioni di carattere nazionale o locale, individui che
desiderano contribuire volontariamente, oppure può autonomamente accumulare risorse finanziarie
per istituire questo essenziale strumento.
14) Banca Etica effettua attività di azionariato critico e di azionariato attivo nei confronti delle
imprese quotate in Borsa.
Banca Etica per prima ha portato in Italia una metodologia di interazione con le imprese quotate in
Borsa mutuandola dalla esperienza di istituzioni internazionali, attuando politiche e modalità di
azionariato critico e di azionariato attivo nei confronti delle imprese quotate, in particolare attraverso
la Fondazione Culturale Responsabilità Etica (azionariato critico) e Etica Sgr (azionariato attivo).
L'azionariato critico consiste in una forma di intervento e di pressione nei confronti di imprese
responsabili di particolari violazioni dei diritti umani, sociali o ambientali e si concretizza tramite
l’acquisto di poche azioni dell’azienda in questione così da poter partecipare alle assemblee dei soci,
prendere la parola per interventi critici e stimolare riflessioni al fine di apportare cambiamenti tesi a
migliorare gli aspetti sociali, ambientali e di governance dell’impresa stessa. Si tende inoltre a
stimolare la consapevolezza sui diritti e sui doveri degli azionisti, affinché questi assumano piena
responsabilità in merito alle modalità di realizzazione dei profitti ed alle conseguenze dei loro
investimenti, nonché agli impatti negativi che le multinazionali stanno producendo nella vita delle
comunità dei territori in cui operano.
Contemporaneamente sul versante dell'azionariato attivo Banca Etica, tramite la Fondazione ed Etica
Sgr, implementa azioni di dialogo con i vertici delle aziende presenti nell'universo investibile dei suoi
Fondi e già in possesso di buoni livelli di responsabilità sociale d'impresa, allo scopo di spingerli ad
adottare nuovi impegni concreti e attivare comportamenti ancora più responsabili.
15) Banca Etica riconosce il premio etico attribuitole dai soci grazie a tassi di interesse più
contenuti, garantendo loro l'uso responsabile del denaro e condizioni medie bancarie più basse.
Banca Etica, grazie alle sue caratteristiche di istituzione finanziaria diversa che applica criteri di
gestione del denaro orientati ai principi descritti in questo documento e nella sua carta dei valori,
riceve dai risparmiatori un consistente premio etico derivante dalla loro accettazione di una redditività
più modesta.
Questo valore aggiunto monetario consente alla Banca di operare con modalità leggere, senza doversi
indebitare nei confronti del sistema bancario tradizionale e senza lanciarsi in operazioni speculative,
limitando il suo lavoro alla tradizionale attività bancaria, consistente nel raccogliere il denaro dei
risparmiatori e di prestarlo ad associazioni, imprese e privati cittadini.
Detto premio etico dimostra concretamente la fidelizzazione dei soci nei confronti di Banca Etica che
in cambio si impegna - oltre che a compensare indirettamente i soci attraverso il finanziamento di
realtà ad alto valore sociale ed ambientale secondo il principio di mutualità indiretta - ad assicurare
alla sua base sociale nuovi strumenti di democrazia finanziaria insieme a riconoscimenti economici
concreti.
La parte più significativa e più ambita dai soci è quella relativa alle forme di partecipazione e di
controllo che Statuto e regolamenti della Banca garantiscono consentendo loro un effettivo
coinvolgimento nelle attività dell'istituto e nella sua governance.
Si va dalla semplice partecipazione alla vita associativa in qualità di soci attivi con la facoltà di
impegnarsi nei Gruppi di Iniziativa Territoriale, alla possibilità di promuovere la finanza etica come
“cantastorie”, all'opzione di diventare valutatori socio/ambientali con l'incarico di analizzare i progetti
da finanziare, alla presenza attiva nei Coordinamenti di area, alla possibilità di candidare e venire
eletti negli organi deliberanti e di controllo della banca.
L'altro aspetto della contropartita al premio etico, quello economico, viene praticato tramite
condizioni bancarie migliorative viste come riconoscimento di un rapporto di reciproca fiducia e
mutualità: minori costi di esercizio (sui conti correnti, sulle carte di credito, su commissioni varie)
oppure condizioni migliorative sui prestiti concessi (tassi più bassi, condizioni privilegiate per
categorie, minori spese) o ancora prodotti riservati ai soli soci della Banca.
A queste facilitazioni commerciali si devono aggiungere le rivalutazioni periodiche delle quote sociali
che, in presenza di sufficienti utili di bilancio, sono tese a rivalutare il capitale sottoscritto dal socio.
16) Banca Etica svolge il 100% della sua attività per fini sociali e non speculativi e ha costruito
presidi sia statutari che amministrativi per garantire il rispetto di questo principio.
Banca Etica nasce sulla scorta dei criteri base della finanza etica riguardo alle transazioni finanziarie
ed alla gestione del denaro.
La rivoluzione delle tecnologie di comunicazione ed informazione e la globalizzazione delle
economie e dei mercati hanno aumentato enormemente volumi e velocità delle transazioni finanziarie
accrescendo significativamente il potenziale delle operazioni speculative con ricadute devastanti in
termini di ingiustizia sociale e di un modello di sviluppo dissipativo indifferente ai limiti del pianeta.
L'esistenza di istituti di finanza alternativa in vari paesi del mondo, la difficile situazione economica
italiana e l'evidente necessità di fornire credito a settori importanti e trascurati dal sistema creditizio
quali il volontariato sociale, la cooperazione, il commercio equo, hanno indotto alcuni pionieri a
intraprendere il percorso che ha portato alla fondazione in Italia di Banca Popolare Etica.
La Banca ha da subito inserito nel suo Statuto i principi classici della finanza etica: la partecipazione,
la trasparenza, l'accesso al credito come diritto, l'efficienza e l'attenzione alle conseguenze non
economiche delle attività economiche. Esiste poi un principio non scritto, perché implicito nell'idea
fondante, che le impone l'obbligo morale di svolgere l'intera sua attività all'interno della creazione di
valore sociale.
Da questo scaturisce un impegno preciso a finanziare progetti ed associazioni che si pongano come
obiettivo il miglioramento dell'uomo e della società negli ambiti previsti dallo Statuto: la
cooperazione sociale, la cooperazione internazionale, l'ambiente, la cultura ed il tempo libero.
Questo vale anche per i finanziamenti alla persona, previsti soltanto per motivazioni di accrescimento
della condizione personale e familiare dei soggetti: (microcredito imprenditoriale, microcredito
sociale, prima casa, ecc.).
Garanti di questa linea sono gli innovativi organismi interni alla Banca quali il Comitato Etico e
l'Organizzazione Territoriale dei Soci, che la differenziano dalle banche classiche.
17) Banca Etica gestisce eticamente e correttamente il proprio portafoglio titoli, che pubblica
nel bilancio sociale.
Qualsiasi banca investe la propria liquidità al netto degli impieghi, per non lasciarla infruttifera, in un
portafoglio titoli che comprende svariate forme di investimento atte a far fruttare il denaro dei
risparmiatori procurando utili all'istituto.
Come e dove una banca investa non è quasi mai reso noto nel dettaglio; di solito si tende ad acquisire
prodotti molto remunerativi prescindendo dalla loro provenienza o strumenti che servano a finanziare
imprese o settori collegati alla banca stessa o suoi partner.
Anche Banca Etica adotta questa forma di utilizzo delle eccedenze di liquidità allo scopo di non
lasciare improduttivo il capitale dei risparmiatori e di costituire le riserve necessarie per fronteggiare
eventuali richieste di rimborso dei depositi ed altre necessità operativo/gestionali, quali le richieste di
utilizzo dei finanziamenti deliberati ma non ancora erogati.
Però lo fa applicando anche a queste operazioni i criteri di esclusione e di inclusione previsti dai
dettami della finanza etica, autonomamente adottati da Banca Etica e controllati dai suoi organi di
vigilanza nonché dalla sua base sociale.
Ciò è reso possibile in quanto il principio della trasparenza viene ottemperato dalla Banca tramite la
pubblicazione nel Bilancio Sociale dell'intero portafoglio titoli, consentendo in questo modo forme
democratiche di controllo non consuete in ambito finanziario ma indispensabili in un'ottica di
esercizio coerente della finanza etica.
In sostanza la composizione del portafoglio titoli di proprietà di Banca Etica, che ha comunque una
funzione secondaria rispetto agli impieghi, comprende: titoli di stato (di stati con rating etico
soddisfacente) in misura largamente prevalente, fondi di Etica Sgr (società di gestione del risparmio
del gruppo), prestiti obbligazionari di Banche di Credito Cooperativo o di istituti appartenenti al
mondo della finanza etica, quote di capitale di organizzazioni con alto rating etico.
Un giusto mix di questi prodotti da parte della Tesoreria consente di raggiungere obiettivi di
flessibilità nella gestione economica ma soprattutto garanzie di maggiore sicurezza negli
investimenti, anche grazie al fatto che Banca Etica, applicando detti criteri, resta al di fuori del mondo
opaco della speculazione finanziaria.
18) Banca Etica non ha sedi nei paradisi fiscali.
Banca Etica, in linea con i propri valori e con le prassi che ha adottato, non detiene sedi nei paradisi
fiscali, cioè in quelle giurisdizioni che permettono di evadere o di eludere le leggi e le normative
riguardanti le tassazioni, la trasparenza, la leale concorrenza sul mercato.
I paradisi fiscali sostengono infatti un sistema di potere finanziario, economico e politico che agevola
il riciclaggio del denaro sporco, l’evasione fiscale di grosse cifre sottratte ai bilanci pubblici di paesi
sia ricchi che poveri, il segreto bancario che alimenta attività criminali, lo sfruttamento umano,
l’irresponsabilità verso l’ambiente. Creando un indebito vantaggio fiscale per le grandi imprese che
sfruttano solitamente questi meccanismi per eludere il fisco a svantaggio delle imprese medio-piccole
e delle popolazioni.
Mentre il sistema bancario internazionale nel suo complesso si serve abbondantemente di tali servizi,
Banca Etica ha rifiutato ad esempio di accettare capitali “sanati” dallo Scudo fiscale, in linea con
quanto esigono coloro che scelgono di diventare suoi clienti: che sia garantita la provenienza lecita
delle somme depositate e la piena tracciabilitá del percorso del denaro.
Nelle ultime elezioni, attraverso la campagna “Cambiare la finanza per cambiare l’Italia”, Banca
Etica ha richiesto esplicitamente ai futuri leader politici l’impegno nella regolamentazione di nuove
norme bancarie e finanziarie, tra cui l’adozione di misure atte a contrastare la fuga di capitali verso i
paradisi fiscali e la riduzione della presenza delle società italiane controllate dal Ministero del Tesoro
nei paesi in cui si effettuano pratiche di elusione ed evasione fiscale, anticipando in questo le prese
di posizione nella medesima direzione di organismi internazionali come l’OCSE. Ci si aspetta che
alle promesse giunte da molte parti politiche italiane ed internazionali seguano misure adeguate.
19) Banca Etica è una realtà unica nel dotarsi di un'area socio-culturale e di una Fondazione
Culturale che diffondono idee e prassi della finanza etica e creano capitale sociale ed umano.
Dotandosi di un’area socio-culturale Banca Etica ha introdotto ulteriori processi innovativi nel
sistema bancario italiano. Tenendo l’etica al centro del proprio operato, come concetto dinamico e
non statico, la Banca ha estrinsecato il bisogno sia di continue elaborazioni culturali che di percorsi
partecipativi e di condivisione con i propri compagni di viaggio sui temi che caratterizzano la finanza
etica.
L’area socio-culturale ha tra i propri obiettivi quello di cooperare con le diverse funzioni aziendali e
con la base associativa al fine di coniugare al meglio le specificità ideali e quelle tecnico/operative
della Banca. Essa ha inoltre il compito di proporre strategie ed azioni che rendano visibili i principi
etici affinché si incarnino nell’operatività, mettendo in atto processi di responsabilità sociale
condivisa al fine di contribuire ad una crescita economica etica e sostenibile.
Poiché non esistono altre esperienze bancarie caratterizzate dalla presenza di questa area, ci si muove
in un ambito innovativo che, come tale, richiede un continuo lavoro di ricerca, studio, formazione e
sperimentazione.
Un contributo prezioso in questa direzione proviene dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica
che supporta la ricerca relativa a strumenti di sviluppo di finanza etica e che è impegnata in campagne
di sensibilizzazione e coinvolgimento sulle scelte etiche per una finanza al servizio dello sviluppo
umano, sociale e ambientale.
20) Banca Etica mantiene un differenziale salariale molto più contenuto rispetto al resto del
sistema.
La retribuzione economica in Banca Etica, determinata in base al Contratto nazionale di lavoro e alla
funzione professionale specifica del lavoratore, è orientata a garantire un livello di vita dignitoso per
il collaboratore e la sua famiglia. Sobrietà ed equità sono due valori che devono essere presenti anche
nella sfera retributiva, senza penalizzare il riconoscimento del merito, delle competenze e del carico
di responsabilità.
Il rapporto tra la retribuzione più bassa riconosciuta ai lavoratori e la retribuzione più alta riconosciuta
ai dirigenti non deve superare, per deliberazione dell'Assemblea dei soci, il rapporto di uno a sei. Su
istanza avanzata da un gruppo di lavoratori l'Organismo di Vigilanza ha verificato che nel 2011 tale
rapporto è stato di 4.80, nettamente inferiore anche a quello praticato in Europa dalle altre banche
etiche, per non parlare dei moltiplicatori nell'ordine delle centinaia o delle migliaia in vigore in molte
grandi banche, multipli che rappresentano vere e proprie rendite che non hanno nulla a che fare con
la produttività di chi ne beneficia. Gli effetti dell’applicazione di questa politica di contenimento dei
differenziali salariali sono che le figure apicali e di responsabilità hanno retribuzioni notevolmente
inferiori alla media di mercato. Per contro le posizioni dei livelli più bassi sono poco penalizzate e
compensate da una particolare attenzione alla conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
L'intento è di fidelizzare il lavoratore sul piano della condivisione valoriale della mission, non su
quello della offerta di redditi più elevati.
Banca Etica si astiene dall'adottare meccanismi di incentivazione per i dirigenti, pratica che, collegata
ai ben noti meccanismi delle stock options, ha prodotto nel mondo finanziario sperequazioni
scandalose e deprecate dall'opinione pubblica. Un correttivo a questo sistema fuori controllo è stato
deciso dall'Unione Europea: nel 2014 entra in vigore una norma che fissa come limite massimo ai
bonus dei banchieri il doppio dello stipendio fisso.
Nel caso di Banca Etica la parte variabile del trattamento economico per i dirigenti non è superiore
al 15% del compenso totale ed è correlato ai risultati aziendali raggiunti dalla Banca, alle
responsabilità individuali e alla qualità del lavoro svolto. L'aspetto retributivo di dirigenti e lavoratori
viene considerato nell'ottica per cui tutti i portatori di interesse del sistema Banca Etica devono
acquisire la consapevolezza di lavorare per un progetto alto e “altro” di finanza, del quale la società
ha bisogno per tentare di rompere l'egemonia di poteri finanziari dediti soltanto alla massimizzazione
del profitto, prescindendo dalle conseguenze ambientali e sociali.
21) Banca Etica applica un contratto per i promotori finanziari, che qui sono chiamati banchieri
ambulanti, in virtù del loro ruolo anche culturale.
Una delle specificità di Banca Etica è la figura del Banchiere Ambulante o Promotore Finanziario,
che garantisce la presenza della Banca in aree sprovviste di filiali. Il rapporto di lavoro dei Banchieri
Ambulanti è regolato dal Contratto di agenzia, che garantisce autonomia nella gestione dei tempi e
delle modalità di lavoro. Rispetto ai tradizionali promotori finanziari però il Banchiere Ambulante di
Banca Etica non viene retribuito percentualmente solo in base all'ammontare delle operazioni
commerciali da lui concluse.
Nel corso del 2012 è entrato in vigore un nuovo contratto che ha costituito un modello innovativo a
livello nazionale nell'ambito dei contratti di agenzia, tanto da rappresentare un punto di riferimento
anche per le altre banche.
È stata recepita l'indicazione del Comitato Etico di evitare il rischio che il lavoro del Banchiere
Ambulante fosse orientato soltanto verso obiettivi e risultati di tipo economico, in quanto, come per
tutti gli operatori della finanza etica, si è ritenuto indispensabile valorizzare adeguatamente il loro
coinvolgimento nell'attività socio-culturale e nello sviluppo della Banca. Questo si può ottenere
attraverso un proficuo rapporto con i GIT, che sono un imprescindibile punto di riferimento sul
territorio; senza Banchiere Ambulante un GIT si spegne e si demotiva, ma senza un GIT un Banchiere
Ambulante stenta a mettere radici nel territorio; da ciò deriva che il Banchiere Ambulante deve saper
coniugare attività di promozione finanziaria propriamente detta e attività di promozione culturale
della finanza etica.
Banca Etica instaura con i Banchieri Ambulanti un rapporto di collaborazione duraturo e garantisce
loro una parte fissa di compenso. La parte variabile della retribuzione del Banchiere Ambulante, non
superiore al 55% del totale, punta alla valorizzazione della professionalità e delle masse amministrate,
alla componente socio-culturale della sua attività, al sostegno delle spese straordinarie sostenute per
lo svolgimento delle prestazioni lavorative, alla copertura in caso di malattia o maternità ed alla
previdenza integrativa.
22) Banca Etica è indipendente e autonoma e, avendo forma cooperativa, il meccanismo “una
testa un voto” garantisce la coerenza dell'assetto proprietario rispetto alla mission dichiarata.
Banca Etica all'atto della sua fondazione, per poter operare su tutto il territorio nazionale, ha scelto di
appartenere al mondo delle Banche Popolari, istituzioni finanziarie sorte in Italia a partire dal 1864
al fine di erogare credito ad operai, artigiani e piccoli industriali che, all'indomani dell'Unità d'Italia
e dopo aver sperimentato il mutualismo previdenziale tipico delle società di mutuo soccorso,
sentivano il bisogno di unirsi con lo scopo di concedersi reciprocamente i finanziamenti necessari
alla loro attività.
Da qui la forma di società cooperativa per le Banche Popolari, che fin da subito dimostrarono, con la
loro feconda presenza nelle realtà locali, di costituire un'istituzione di pubblica utilità, in quanto,
mentre diffondevano le idee del risparmio e della previdenza, si ponevano come obiettivo di
contribuire allo sviluppo economico e civile del territorio di appartenenza.
Una delle motivazioni principali della crisi finanziaria attuale va individuata nel fatto che il sistema
bancario ha rinunciato al suo originario servizio all'economia reale per subordinarsi alla logica della
finanziarizzazione globale e proiettarsi alla ricerca del massimo profitto a breve termine e
dell'incremento di valore per gli azionisti. Questi processi sono stati preceduti dallo smantellamento
della democrazia interna agli istituti bancari, garantita dal principio “una testa un voto”.
Meccanismo che, oltre a rappresentare un fondamentale elemento di uguaglianza effettiva tra tutti gli
aderenti, impedisce di fatto qualsiasi tentativo di “scalata” alla proprietà di una banca da parte di
gruppi di interesse amici o nemici, conservandola nelle mani della sua base sociale.
A questi principi fondativi di democrazia economica Banca Etica si attiene, poiché li considera
garanzia di indipendenza in un mercato finanziario sempre più concentrato e condizione per una
crescita coerente con la sua identità, i suoi valori, la sua mission.
23) Banca Etica è un’esperienza riconosciuta ed apprezzata a livello internazionale, si impegna
attivamente per la diffusione e fa parte di reti ed attività volte alla promozione della finanza
etica a livello internazionale. Sta allargando le sue attività in Spagna a seguito di un percorso
cooperativo partecipato.
Affinché le idee del “voto col portafoglio”, dell’economia civile e delle imprese pioniere che creano
valore economico in modo socialmente ed ambientalmente sostenibile si diffondano e producano un
nuovo modello economico che metta al centro l’obiettivo del ben-vivere e il progresso verso il bene
comune è necessario fare massa critica per incidere. Banca Etica è consapevole di ciò e, sin dalle sue
origini, si è impegnata attivamente per lo sviluppo e la crescita di esperienze simili a livello
internazionale lavorando attivamente all’interno di reti della finanza etica europea come Febea
(http://www.ethicalbankingeurope.com/).
Recentemente assieme a banche etiche di altri paesi ha dato vita alla Global Alliance for Banking on
Values (http://www.gabv.org/), una rete di banche etiche mondiali che operano in 25 nazioni
incidendo sulla vita di più di 10 milioni di persone con un attivo che complessivamente supera i 50
miliardi di dollari. La G.A.B.V. ha recentemente dimostrato dati alla mano di aver fatto sensibilmente
meglio negli ultimi dieci anni delle banche sistemiche, troppo grandi per fallire, in termini di capacità
di utilizzo dei propri asset per l’erogazione del credito e l’impegno a promuovere sostenibilità sociale
ed ambientale.
Nel solco di questo obiettivo di internazionalizzazione la Banca sta progressivamente diventando una
banca etica che opera a livello sovranazionale allargando la propria attività in Spagna in partnership
con Fiare, organizzazione che condivide gli stessi obiettivi e principi ideali.
Appendice 2
REGOLE ETICA SGR
in base a obiettivi predefiniti e approvati dal Consiglio di amministrazione;
• le performance realizzate in campo socio-ambientale.
Etica SGR auspica che:
• le remunerazioni degli amministratori esecutivi e dei top manager siano configurate secondo linee
guida semplici, chiare e comprensibili da tutti i portatori di interesse dell’impresa;
• la componente variabile e la componente fissa siano riportate, nel loro ammontare, in modo chiaro
e separato e adeguatamente bilanciate in funzione degli obiettivi strategici e della politica di
gestione dei rischi dell’impresa, tenuto conto anche del settore di attività d’impresa e delle
caratteristiche intrinseche
dell’attività stessa;
• gli obiettivi di performance, cui sono legate le parti variabili delle remunerazioni, siano
predeterminati, oggettivamente misurabili e collegati alla creazione di valore per gli azionisti nel
medio-lungo periodo;
• le componenti variabili di breve e di lungo periodo abbiano limiti massimi e soglie di
raggiungimento minimo degli obiettivi per l’erogazione delle stesse;
• la componente variabile di lungo periodo sia erogata dopo un lasso di tempo adeguato (in funzione
delle attività e dei rischi d’impresa) rispetto al momento della maturazione;
• nel caso di ricorso a piani di remunerazione basati su strumenti finanziari, le azioni, le opzioni e
ogni altro diritto as segnato abbiano un vesting period di almeno tre anni;
• venga chiaramente indicata la presenza di clausole di clawback riferite agli incentivi percepiti dagli
amministratori e dai dirigenti con responsabilità strategiche della Società;
• ogni aumento significativo della remunerazione da un anno con l’altro sia ampiamente spiegato e
giustificato, anche nel caso in cui ci siano stati cambiamenti nella struttura societaria;
• vengano adottati parametri di responsabilità socio-ambientale nella definizione della parte variabile
delle remunerazioni;
• ci sia un riferimento relativo alla remunerazione media di mercato per incarichi analoghi e al ricorso
alla consulenza fornita da società specializzate nella definizione di politiche retributive;
• venga pubblicato, nei documenti societari, il dato relativo alle differenze esistenti tra il salario
dell’amministratore delegato o del direttore generale e il salario medio dei dipendenti dell’impresa;
• la remunerazione degli amministratori non esecutivi sia commisurata all’impegno richiesto e alla
partecipazione a uno o più comitati, che sia slegata da risultati economici dell’impresa e che non
comprenda piani basati su azioni;
• il Comitato per la remunerazione, composto da amministratori indipendenti con competenze
adeguate in materia finanziaria o di politiche retributive, svolga un efficace compito di definizione
delle proposte dei compensi degli amministratori e dei dirigenti con responsabilità strategiche,
da sottoporre all’approvazione del Consiglio di amministrazione, valutandone periodicamente
l’adeguatezza, la coerenza e la concreta applicazione di quanto indicato nella politica di
remunerazione, anche in riferimento all’effettivo raggiungimento degli obiettivi di performance.
Desjardins in Canada ha un attivo di 223 miliardi di dollari canadesi, 44,900 addetti e 5,6 milioni di
soci. Il gruppo eroga un milione al giorno in borse studio e donazioni. Bloomberg ha definito nel
2014 Desjardins la prima banca più solida dell’America del Nord e la seconda del mondo (WCM,
2014). “Come cooperativa non guardiamo solo ai profitti a breve ma all’impatto di lungo termine.