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L’economia e la finanza nei mercati globali: le cause “filosofiche” dei problemi, la declinazione dei problemi in banca e finanza e le direzioni per le soluzioni Leonardo Becchetti, Università Roma Tor Vergata Mantenere viva la realtà delle democrazie è una sfida di questo momento storico, evitando che la loro forza reale forza politica espressiva dei popoli sia rimossa davanti alla pressione di interessi multinazionali non universali, che le indeboliscano e le trasformino in sistemi uniformanti di potere finanziario al servizio di imperi sconosciuti. Questa è una sfida che oggi la storia vi pone.” 1 Discorso di Papa Francesco al Parlamento Europeo 1. Premessa Alla radice dei problemi della finanza e dell’economia ci sono oggi tre mali “filosofici” che possiamo definire riduzionismi. In particolare si tratta di riduzionismo antropologico, riduzionismo nella visione dell’impresa e riduzionismo nella concezione del valore (capitolo 2). Da questi tre errori conseguono tutti i problemi pratici che osserviamo e che descriverò nella seconda parte (capitolo 3) con applicazione particolare al mondo della finanza. Focalizzando l’attenzione in particolare su come il vulnus del riduzionismo nella visione dell’i mpresa (massimizzazione del profitto) produce: i) allontanamento del sistema finanziario dalla sua missione di sostenere l’economia reale e ancor più le piccole e medie imprese e di favorire l’accesso al credito dei più poveri; ii) aumento dei rischi sistemici ed ipervolatilità; iii) amplificazione dei conflitti distributivi a causa della struttura sbilanciata dei meccanismi di remunerazione di managers e traders. Nella terza parte (capitolo 4) proporrò alcune piste di lavoro per le soluzioni nell’ottica del magis “ignaziano”, ovvero del massimo impatto possibile in termini di bene comune coerentemente con la logica del principio del “tempo superiore allo spazio” molto caro al Pontefice Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci). Papa Francesco, Evangelii Gaudium 1 http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/november/documents/papa- francesco_20141125_strasburgo-parlamento-europeo.html

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L’economia e la finanza nei mercati globali: le cause “filosofiche” dei problemi, la

declinazione dei problemi in banca e finanza e le direzioni per le soluzioni

Leonardo Becchetti, Università Roma Tor Vergata

Mantenere viva la realtà delle democrazie è una sfida di questo momento storico, evitando che la

loro forza reale – forza politica espressiva dei popoli – sia rimossa davanti alla pressione di interessi

multinazionali non universali, che le indeboliscano e le trasformino in sistemi uniformanti di potere

finanziario al servizio di imperi sconosciuti. Questa è una sfida che oggi la storia vi pone.”1

Discorso di Papa Francesco al Parlamento Europeo

1. Premessa

Alla radice dei problemi della finanza e dell’economia ci sono oggi tre mali “filosofici” che possiamo

definire riduzionismi. In particolare si tratta di riduzionismo antropologico, riduzionismo nella

visione dell’impresa e riduzionismo nella concezione del valore (capitolo 2).

Da questi tre errori conseguono tutti i problemi pratici che osserviamo e che descriverò nella seconda

parte (capitolo 3) con applicazione particolare al mondo della finanza. Focalizzando l’attenzione in

particolare su come il vulnus del riduzionismo nella visione dell’impresa (massimizzazione del

profitto) produce: i) allontanamento del sistema finanziario dalla sua missione di sostenere

l’economia reale e ancor più le piccole e medie imprese e di favorire l’accesso al credito dei più

poveri; ii) aumento dei rischi sistemici ed ipervolatilità; iii) amplificazione dei conflitti distributivi a

causa della struttura sbilanciata dei meccanismi di remunerazione di managers e traders. Nella terza

parte (capitolo 4) proporrò alcune piste di lavoro per le soluzioni nell’ottica del magis “ignaziano”,

ovvero del massimo impatto possibile in termini di bene comune coerentemente con la logica del

principio del “tempo superiore allo spazio” molto caro al Pontefice

Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi

di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere

tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di

autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo

significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li

illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di

privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e

gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà,

però con convinzioni chiare e tenaci).

Papa Francesco, Evangelii Gaudium

1 http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/november/documents/papa-

francesco_20141125_strasburgo-parlamento-europeo.html

Il focus sarà in particolare concentrato sui seguenti punti: i) sostegno e stimolo alle iniziative pioniere

per il bene comune in finanza (banche e fondi etici) attraverso la promozione dell’azione dal basso

del voto col portafoglio; ii) iniziative opportune di riforma delle regole del sistema con particolare

attenzione alla tassa sulle transazioni finanziarie, alla riforma delle remunerazioni di manager e alla

tutela della biodiversità bancaria

2. I mali filosofici i tre riduzionismi

2.1 Riduzionismo antropologico

Il riduzionismo antropologico consiste nel concepire l’uomo come homo economicus, tecnicamente

in economia ciò vuol dire che l’utilità/felicità della persona nei modelli di economia dipende

unicamente dall’accrescimento dei beni di cui dispone o delle proprie dotazioni monetarie. E’ questo

quello che di fatto si insegna nelle business schools e nei libri di microeconomia. Da rilevare che non

si tratta di un problema intrinseco al modello perchè l’approccio della razionalità (coerenza mezzi-

fini e uso ottimale delle risorse e delle strategie al fine di ottenere il massimo risultato) di solito

utilizzato nei nostri modelli infatti rende possibile allargare il paradigma a forme di razionalità che

includano reciprocità, altruismo, avversione alla diseguaglianza (o preferenza per l’equità e le pari

opportunità).2 Quello che accade di fatto è che la funzione di utilità viene ristretta ai soli elementi

indicati sopra.

L’homo economicus come sostiene efficacemente il nobel Amarthya Sen è un “idiota sociale”, ovvero

tecnicamente una persona non in grado di generare fertilità sociale. La vita economica è infatti fatta

essenzialmente di dilemmi sociali (giochi di fiducia, dilemmi del prigioniero) ovvero situazioni nelle

quali in presenza di fiducia, cooperazione, meritevolezza di fiducia i soggetti si fanno carico del

“rischio sociale” mettendosi nelle mani dell’altro senza protezione legale, condividendo informazioni

e lavorando in squadra. E’ in questo modo che si genera superadditività (ovvero risultati superiori

alla somma di quanto i singoli avrebbero potuto fare da soli non coordinandosi) - principio che

Francesco ha spiegato efficacemente quando parlando ai cooperatori ha detto “uno più uno fa tre”. E’

ben noto in letteratura economica invece che l’homo economicus produce in questi dilemmi sociali il

2 Come acutamente sottolineano Binmore e Sutton il problema non è il principio di massimizzazione

perché questo è un vestito che può adattarsi sia a S. Francesco che ad Attila. Nonostante la

profonda diversità dei loro obiettivi entrambi si sforzano di perseguire al meglio il loro obiettivo,

nel primo caso la qualità del rapporto con Dio e con l’uomo, nel secondo caso la conquista bellica.

Se è pur vero che molti sono gli ostacoli all’esercizio della razionalità (le dipendenze, i bias

cognitivi) è anche vero che il desiderio di migliorarsi e di ottenere il massimo ci spinge sanamente

all’ottimizzazione . Il problema diventa dunque ciò che si ottimizza e qui si annida il “baco della

teoria”. Economics is not not to be committed to any particular view of how human minds work”.

the methodology “remains the same whether [players in game theory] are Attila the Hun or St.

Francis of Assisi Binmore and Shaked (2010) Binmore, K. . & Shaked, A. (2010), Experimental

Economics:where next ? Rejoinder, Journal of Economic Behavior & Organization, 73, 120–

121

peggior risultato perché paralizzato dalla sfiducia e dall’incapacità di cooperare come spiegato molto

bene in quest’aforisma di Hume

« Il tuo grano è maturo, oggi, il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi se oggi io... lavorassi

per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo nessun particolare sentimento di

benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per

te perché non ho alcuna garanzia che domani tu mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti

lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma il maltempo sopravviene

e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di una

garanzia.» (Hume Trattato sulla natura umana, 1740, libro III).

I risultati su vasta scala dell’economia sperimentale ci dicono che per fortuna l’homo economicus èp

minoranza3 anche se lo sguardo avvilente del riduzionismo antropologico rischia di creare ciò che

teorizza, plasmando i soggetti e riducendoli a ciò che essa osserva. Se insomma, ricordando Toniolo,4

“l’interesse personale esercita una grande funzione nel magistero della vita individuale e collettiva

tutta intera: in armonia con una delle supreme leggi fisiche dell’universo esso rappresenta la forza

di gravità del mondo morale, del quale anzi non solo è condizione e mezzo di equilibrio ma ancora

uno degli elementi o fattori di progresso” è altrettanto vero che la dittatura dell’autointeresse finisce

per allontanarci dalla stessa energia che rende possibili grandi imprese in campo economico perchè

“l’energia del lavoro, la virtù dei risparmi, non solo ma ancora l’idea di quelle grandi imprese che

eccedono la durata della vita dell’individuo”…”ripetono soprattutto l’impulso dagli affetti di

famiglia, dal desiderio di sollevarla in istato, di crescerne il decoro e non già dai calcoli di un gretto

interesse personale”.

Il riduzionismo antropologico dell’homo economicus rappresenta in sintesi un ostacolo alla fertilità

economica e sociale dell’individuo e alla sua realizzazione personale in termini di generatività in

società. Queste due affermazioni sono empiricamente e scientificamente suffragate da tutta la

letteratura della teoria dei giochi e degli studi empirici sulle determinanti della felicità.

2.2 Riduzionismo nella concezione d’impresa.5

3 Engel (2010) in una rassegna dei risultati di 328 diversi esperimenti calcola che soltanto il 36

percento degli individui si comporta da homo economicus rivelandosi del tutto privo di attitudini pro-

sociali in questi esperimenti. La quota più alta è quella degli studenti delle facoltà economiche

(attorno al 40 percento) mentre si scende sensibilmente (sotto il 20 percento) tra gli adulti e gli anziani. 4 “Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche” del 5 dicembre 1873

all’Università di Padova 5 “Si va sempre piu` diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell’impresa non puo`

tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le

altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori

dei vari fattori di produzione, la comunita` di riferimento. Negli ultimi anni si e` notata la crescita di

una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di

riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi”

Caritas in Veritate

Il contributo creativo dell’impresa all’economia è rappresentato dal valore aggiunto, ovvero dalla

differenza dal valore delle materie prime e degli input che l’impresa trova in natura e trasforma in

prodotti finali. La torta creata del valore aggiunto viene poi divisa tra i diversi portatori d’interesse

(stakeholders) che hanno contribuito alla sua realizzazione. Ciò avviene sotto forma di profitto per

gli azionisti, di premi salariali per i lavoratori, di sconti per i consumatori, di iniziative di solidarietà

e di sponsorship per le comunità locali, di condizioni eque per i fornitori. La cultura economica ha

progressivamente travisato questo punto facendo credere che il contributo dell’impresa sia

rappresentato dal profitto. In quasi tutti i modelli economici le imprese sono rappresentate come

massimizzatrici di profitto e si ritiene residuale la presenza di organizzazioni produttive di tipo

diverso (cozzando con la realtà dei fatti dove moltissime organizzazioni produttive hanno obiettivi

diversi da quelli della massimizzazione del profitto). Di fatto confondere il contributo creativo

dell’impresa con il profitto vuol dire confondere la fetta con la torta e l’obiettivo della

massimizzazione del profitto implica che l’obiettivo dell’impresa diventi massimizzare la fetta di uno

dei portatori d’interesse a scapito di tutti gli altri. Ciò implica in concreto che ogni qualvolta

nell’impresa ci sono scelte dilemmatiche o che implicano problemi distributivi tra i diversi portatori

d’interesse l’interesse degli azionisti è di fatto sovraordinato a quello di tutti gli altri. Per fare solo

qualche esempio, se si tratta di scegliere tra più tutele per i lavoratori che riducono gli utili di fine

anno e più utili ma meno tutele dei lavoratori il principio della massimizzazione del profitto impone

di scegliere la seconda strada. Il principio della massimizzazione del profitto (soprattutto di quello a

breve) spinge ad esempio ad aumentare i profitti a breve rinunciando ad investire per migliorare la

sostenibilità ambientale di un impianto industriale (come accaduto a Taranto con l’Ilva e con

conseguenze di medio termine devastanti per la stessa proprietà).

Questo cozza chiaramente con principi di equità e con il primato del lavoro che è un cardine della

dottrina sociale della chiesta. Nonché con il senso comune e i risultati delle determinanti della

soddisfazione e senso della vita che indicano chiaramente come la dimensione del lavoro è centrale e

molto più importante per la persona di quella della crescita del valore delle azioni. Una delle

giustificazioni a posteriori del riduzionismo è che l’azionista è colui che rischia di più nell’impresa e

dunque ha diritto ad un trattamento di favore. In realtà non è affatto così in quanto l’azionista che

dispone di un portafoglio finanziario può diversificare i suoi investimenti e quindi ridurre il rischio

connesso al singolo investimento. Al contrario sono proprio i lavoratori meno specializzati che hanno

investito tutte le loro competenze e capitale umano in una determinata attività ad essere più a rischio

in caso di fallimento di quell’attività, lo testimonia la difficoltà di ricollocare sul mercato del lavoro,

lavoratori di età medio-alta che perdono il loro posto (Blair and Stout, 1999).6 Il riduzionismo nella

concezione d’impresa è di fatto la regola per ogni impresa che si quota in borsa. Quotandosi il

principio fondamentale diventa quello della creazione di valore per gli azionisti e quindi della

massimizzazione del profitto.

Se dunque è vero che l’azionista è un portatore d’interesse fondamentale per la vita dell’azienda e il

suo rischio va opportunamente remunerato per evitare che l’impresa sia a corto di questa preziosa

fonte di finanziamento è altrettanto vero che ma massimizzazione del profitto (e in particolare quella

a breve) ha prodotto paradossi che non solo muovono in direzione contraria del primato della persona

e della dignità del lavoro ma finiscono per essere avversi anche allo stesso buon funzionamento del

sistema economico spiazzando la scelta di investire nel medio-lungo periodo (finanziando attività a

6 Blair, M. M., and L. A. Stout, 1999, A Team Production Theory of Corporate Law, in Virginia

Law Review, Vol. 85(2), pages 247--328

rendimento moderato che si realizza a distanza di tempo) rispetto alla speculazione di breve (che

insegue rendimenti elevati nel breve/brevissimo periodo). Abbiamo bisogno in finanza di più capitali

pazienti e meno “capitali supersonici” ma la massimizzazione del profitto a breve non ci aiuta a

raggiungere l’obiettivo.

Nella terza parte dello scritto approfondiremo lungo questa linea in che modo il riduzionismo nella

concezione d’impresa determina una serie di problemi nei mercati finanziari globali

2.3 Riduzionismo nella concezione del valore

Il terzo riduzionismo in economia riguarda la concezione del valore. Ciò che viene definito come

valore in un sistema socio-economico diventa di fatto l’orizzonte a cui tendere e indica la direzione

di marcia della società. Le tavole della legge laiche contengono due soli comandamenti: e' bene fare

ciò che aumenta il valore è male fare ciò che lo riduce. La scorciatoia riduzionista identifica il valore

con il PIL. Come ha efficacemente spiegato in un famoso discorso Robert Kennedy è evidente che il

PIL non può essere il metro del valore di una società

“Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per

sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le

serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle [...].

Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri

bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca

per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la

polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i

bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro

educazione o della gioia dei loro momenti di svago. [...] Non comprende la bellezza della nostra

poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri

pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti

fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la

nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve,

eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non

se possiamo essere orgogliosi di essere americani”

Robert Kennedy del 18 marzo del 1968,

Il benessere, inteso come soddisfazione di vita e senso della vita, dipende da una serie di fattori che,

come efficacemente illustrato nella citazione riportata sopra, non entrano nel PIL mentre il PIl a sua

volta cresce per fattori che peggiorano e non migliorano la nostra vita. Non ultimi droga,

contrabbando e prostituzione che sono stati recentemente inseriti dagli istituti di statistica europei nel

computo del PIL. Poiché il PIL è la somma dei valori aggiunti prodotti dai vari settori produttivi.

Il riduzionismo del valore che identifica il valore con il PIl è pertanto fuorviante sotto diversi punti

di vista. Primo, il PIl non rappresenta bene neanche il benessere economico che è più propriamente

misurato dal reddito disponibile delle famiglie al netto delle tasse e dopo aver pagato beni e servizi

pubblici essenziali come istruzione e sanità. Il PIl è inoltre una misura che non tiene conto della

distribuzione, in media può salire anche se migliora solo la condizione economica dei più ricchi e le

diseguaglianze crescono. E’ esattamente quello che è successo negli ultimi anni nel mondo dove,

come ci ricorda il rapporto Oxfam la crescita di PIL dal 2000 ad oggi è andata per il 49% al top 1%

dei più ricchi e per l’1% alla metà più povera della popolazione mondiale portando la diseguaglianza

nella ricchezza a livelli particolarmente elevati (i 62 più ricchi del mondo hanno la stessa ricchezza

della metà più povera della popolazione mondiale).

Se la scala dei valori di una società e il contributo al suo benessere è definita dal PIL una “velina”

vale più di un’insegnante. Proprio in riferimento alla finanza negli Stati Uniti ancor più che in Europa

il guadagno è indicatore di prestigio sociale e i differenziali salariali implicano rendite abnormi per

chi dedica le proprie energie ad attività speculative. Si consideri da questo punto di vista che, per

guadagnare quello che l’amministratore delegato di Lehman Brothers ha percepito complessivamente

in emolumenti vari l’anno prima del fallimento della banca d’affari un professore di scuola italiana

impiegherebbe in base al proprio salario medio 4500 anni (dovrebbe iniziare a lavorare dall’età dei

Sumeri). Senza pretendere un totale appiattimento dei salari incorrelato con il merito sarebbe

opportuno che i guadagni fossero correlati al contributo che le persone danno al benessere e alla

crescita delle economie e sicuramente, alla luce di quanto successo con la crisi, il contributo medio

dei secondi è superiore a quello del primo.

Quando mettiamo al centro dei valori la massimizzazione del profitto i difetti dei due riduzionismi si

moltiplicano perché ai problemi creati dal riduzionismo del valore si aggiungono quelli del

riduzionismo d’impresa. Ovvero assistiamo ad una doppia deformazione perché il profitto non è una

corretta approssimazione del valore economico creato da un’impresa (il valore aggiunto) e il PIl che

è la somma dei valori aggiunti non è una corretta approssimazione del benessere e del bene comune.

La risposta culturale al riduzionismo di valore è la costruzione e l’utilizzo per le valutazioni d’impatto

di indicatori di benessere più ampi ed articolati come ad esempio il BES (benessere equo e sostenibile)

costruito in Italia dall’Istat negli ultimi anni.

Una risposta culturale e spirituale ancora più interessante in questa direzione è quella della “ricca

sobrietà” che emerge da una delle parti più originali della Laudato Sii dove la sobrietà è concepita

come un di più e non un di meno.7

7 La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita, e incoraggia

uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente senza essere ossessionati

dal consumo. È importante accogliere un antico insegnamento, presente in diverse tradizioni

religiose, e anche nella Bibbia. Si tratta della convinzione che “meno è di più”. Infatti il costante

cumulo di possibilità di consumare distrae il cuore e impedisce di apprezzare ogni cosa e ogni

momento. Al contrario, rendersi presenti serenamente davanti ad ogni realtà, per quanto piccola

possa essere, ci apre molte più possibilità di comprensione e di realizzazione personale. La

spiritualità cristiana propone una crescita nella sobrietà e una capacità di godere con poco. È un

ritorno alla semplicità che ci permette di fermarci a gustare le piccole cose, di ringraziare delle

possibilità che offre la vita senza attaccarci a ciò che abbiamo né rattristarci per ciò che non

possediamo. Questo richiede di evitare la dinamica del dominio e della mera accumulazione di

piaceri (Laudato Si’, 222).

La sobrietà, vissuta con libertà e consapevolezza, è liberante. Non è meno vita, non è bassa intensità,

ma tutto il contrario. Infatti quelli che gustano di più e vivono meglio ogni momento sono coloro che

smettono di beccare qua e là, cercando sempre quello che non hanno. La felicità richiede di saper

limitare alcune necessità che ci stordiscono, restando così disponibili per le molteplici possibilità

3. La traduzione dei tre riduzionismi nei mali specifici del sistema finanziario

Dai tre riduzionismi derivano come logiche conseguenze alcuni mali specifici del sistema finanziario.

In primis il mission drift delle banche dalla tradizionale funzione di finanziamento agli investimenti

dell’economia reale. La massimizzazione del profitto spinge le banche a prestare sempre meno

soprattutto alle PMI. Dagli stessi riduzionismi (e dall’assenza di regolamentazione in grado di frenare

il fenomeno) deriva la spinta ad eccessive prese di rischio e all’ipervolatilità dei mercati finanziari.

La traduzione del principio riduzionista nei sistemi di remunerazione dei manager produce aumento

di rischi sistemici ed esasperazione dei conflitti distributivi (3.4)

3.1 Il riduzionismo d’impresa (massimizzazione del profitto) spinge gli intermediari finanziari

lontano dalla loro mission originaria di finanziamento all’economia reale e soprattutto alle PMI

L’effetto più deleterio del riduzionismo d’impresa in finanza è il “mission drift” (il progressivo

allontanamento dalla propria missione) degli intermediari finanziari. Fare credito è infatti un’attività

a bassissimo rendimento (soprattutto oggi in un’epoca di tassi zero o negativi) e ad alto rischio. Inoltre

i requisiti regolamentari che impongono alle banche di accantonare capitale a fronte del rischio di

credito diventano sempre più severi. La conclusione è che se una banca massimizza il profitto sarà

sicuramente più redditizio per lei dedicarsi a servizi o a qualunque altra attività diversa dalla

concessione del credito alle imprese. Ciò è ancor più vero per i prestiti alle piccole e medie imprese

che dove il rapporto tra rendimento e rischio per chi presta è ancora più sfavorevole (i guadagni da

interesse su piccoli prestiti sono molto esigui per definizione e i costi fissi di istruttoria e di selezione

del progetto gli stessi di quelli per l’erogazione di un prestito di grandi dimensioni). Neppure gli

algoritmi automatici di merito di credito che in parte aiutano sul credito al consumo riescono a

risolvere il problema in questo caso automatizzando procedure e riducendo costi.

Ergo un sistema finanziario dove vige il criterio della massimizzazione del profitto sarà sempre meno

orientato al credito e sempre più alla finanza pura. La legge è confermata dal fatto che le banche non

massimizzatrici di profitto (cooperative, etiche) prestano molto di più. I dati recenti indicano infatti

che Il rapporto tra impieghi e totale dell’attivo (ovvero l’intensità di credito e la misura in cui le

banche si dedicano a quest’attività) è bassa nelle grandi banche sistemiche (40% in media nel 2014),8

più elevata di circa 10-15 punti percentuali nelle banche cooperative a voto capitario e ancora

superiore nel piccolo insieme delle banche etiche mondiali (Global Alliance for Banking on Values)

(75% in media nello stesso anno). Le Banche di credito cooperativo in Italia rappresentano il 7

che offre la vita. (Laudato sì 223)

8 Becchetti L. Ciciretti R., Paolantonio A., 2014, Is There a Cooperative Bank Difference? AICCON CEIS working paper n.313 (in corso di pubblicazione su International Journal of Money and Finance)

percento del mercato del credito ma il 21% del credito alle imprese artigiane e il 58% del

microcredito.

La tabella riportata di sotto conferma quanto affermato confrontando banche “etiche” facenti parte

della Global Alliance e grandi banche sistemiche ed indicando come le prime hanno un’intensità di

credito sensibilmente maggiore e una minore volatilità del rendimento dell’attivo e del capitale di

rischio.

Martin Wolf, uno dei massimi editorialisti del Financial Times, consapevole dei problemi generati

dal riduzionismo della massimizzazione del profitto nel settore bancario, qualche tempo fà si

lamentava del fatto che gli impulsi monetari delle banche centrali (leggasi quantitative easing) non

si trasformavano in credito alle imprese perché le banche non usavano tali risorse per aumentare i

prestiti e che dunque, di fatto, la politica monetaria era inefficace in presenza del modello di banca

oggi dominante. Wolf finiva il suo pezzo auspicando addirittura il ritorno ad una forma di banca

pubblica (evidentemente assunta come più fedele nella trasmissione delle politiche monetarie).

Piuttosto che oscillare perennemente tra questi due pendoli faremmo bene a valorizzare il terzo genere

della banca “sociale” (cooperativa od etica) di mercato che ha come propria mission non quella della

massimizzazione del profitto ma del servizio al territorio e che ha nel suo dna i valori della mutualità

e della solidarietà. L’Italia ha nel credito cooperativo una ricchissima tradizione in materia e nella

banca Etica un’esponente che ha rinnovato ed innovato rispetto a questa tradizione. Tutto ciò è

coerente con i dati storici delle banche cooperative che nel mondo negli ultimi trent’anni hanno un

rapporto di prestiti alla clientela sul totale degli attivi di molti punti percentuali superiore alle banche

spa (e una volatilità degli indici di redditività di gran lunga inferiore). Se poi in particolare in Italia le

BCC erogano il 7,1% del credito totale ma più del 21% del credito alle imprese artigiane qualche

ragione ci sarà nella preoccupazione delle associazioni di categoria relativamente alle sorti della

banca cooperativa. Per ovviare alla legge di Murphy del credito bancario ci sono due strade. La prima

(separazione tra banca commerciale e banca d’affari) consiste nel costringere la banca di oggi ad

occuparsi di credito. La seconda sta nel rafforzare la biodiversità bancaria. Il sistema finanziario come

gli ecosistemi diventa più resiliente quando la biodiversità aumenta perché alcuni modelli di banca

sono più resistenti ad alcuni tipi di crisi di altre.

3.2 il riduzionismo d’impresa aumenta l’uso supersonico e non paziente dei capitali producendo

rischi sistemici e ipervolatilità

Il problema è che il sistema finanziario globale soffre di una grave malattia di azzardo compulsivo e

shortermismo. Mediamente sui vari mercati il 65% delle transazioni sono in mano ad algoritmi

automatici di trading ad alta frequenza che hanno fatto precipitare la durata media di detenzione di

un titolo alla sbalorditiva durata di circa 22 secondi. Per la “crisi cinese” la borsa americana ha perso

in due giorni più di quanto aveva perso col fallimento di Lehman Brothers e la gravità del secondo

evento non è minimamente comparabile alla quasi “non notizia” del primo. La differenza sta nella

continua crescita degli algoritmi di trading automatico perché il picco della perdita di borsa

nell’ultimo evento si è materializzato in una brevissima unità di tempo. Per molto tempo in letteratura

finanziaria e bancaria abbiamo magnificato le virtù della liquidità dei mercati finanziari. E’ ora

arrivato il momento di chiederci se la velocità e la liquidità non siano troppe e non costituiscano un

ostacolo invece che un aiuto all’economia reale. Non a caso la ben nota relazione econometrica

positiva tra sviluppo del settore finanziario ed economia reale si è arrestata nell’ultimo decennio fino

a far arrivare molti studiosi a domandarsi se il sistema finanziario non sia diventato ipertrofico

Una delle novità principali dell’ultimo decennio nei mercati finanziari è stata lo sviluppo impetuoso

degli strumenti di finanza derivata. Haiss e Sammer (2010) documentano che nel primo trimestre del

1990 i derivati rappresentavano il 433.8% del PIL mondiale, leggermente meno delle obbligazioni

(477.2%). Quasi vent’anni dopo nel terzo trimestre del 2008 erano arrivati al 4,880.2% del PIL

mondiale superando di gran lunga il totale combinato di azioni, obbligazioni e attivi bancari. Nello

stesso periodo negli Stati Uniti il volume dei derivati sui cambi era aumentato del 544.8%, dei derivati

sui tassi d’interesse del 42,132.9% e di quelli sul credito del 84.889.5%.

Proprio i derivati del credito giocano un ruolo cruciale nella crisi finanziaria. La causa forse più

importante della stessa sta nell’errore concettuale di aver creduto che la cartolarizzazione di prestiti

molto rischiosi (erogati da banche a mutuatari che avevano scarsa possibilità di restituzione) assieme

a prestiti meno rischiosi avrebbe consentito l’emissione di derivati del credito meno rischiosi e ad

alto rating creditizio per via della diversificazione del rischio. Con questa illusione si è realizzata una

moltiplicazione dei derivati del credito (collateralised debt options) e dei derivati di copertura dei

CDO chiamati CDS (credit default swaps), dove questi ultimi avrebbero garantito i possessori dei

CDO dall’eventuale rischio di perdita di valore dell’asset con un risarcimento assicurativo da parte

del venditore del CDS stesso.

Come sappiamo, poiché tutti i mutuatari i cui pagamenti tenevano in piedi i derivati del credito erano

in realtà esposti alla stessa fonte di rischio (la dinamica dei prezzi delle case in bolla speculativa negli

Stati Uniti a quel tempo), il meccanismo non ha funzionato dimostrando che, più che essere efficaci

nella copertura e nella diversificazione del rischio, i derivati hanno in realtà sparso il rischio tra molti

più attori aumentando incertezze e confusione e incrementando significativamente gli specifici rischi

di interconnessione e di controparte. Le banche “troppo grandi per fallire”, imbottite di derivati del

credito sono infatti fallite o finite sull’orlo del fallimento trascinando con sé tutti coloro che avevano

relazioni di credito/debito con le stesse.

Da notare anche che, in parallelo all’esplosione degli strumenti di finanza derivata negli attivi bancari

(e alla commistione tra attività di erogazione del credito tradizionale e di trading sui derivati stessi)

si è per la prima volta verificata l’anomalia dell’interruzione del rapporto econometrico positivo e

significativo tra dimensione del settore finanziario e crescita economica. Gli studi più recenti

verificano infatti l’interruzione di tale nesso dopo il 1989 e addirittura la nascita di una relazione

negativa che viene definita come vera e propria ipertrofia della finanza (Rousseau e Wachtel, 2000).

Tale relazione è stata dimostrata valida indipendentemente dagli eventi specifici della crisi finanziaria

globale e dunque anche al di fuori di quel periodo particolare.

La crisi finanziaria globale ha svelato dunque molte delle insidie nascoste nei derivati che erano nati

con nobili intenti.

Il più importante di questi nobili intenti è quello di fungere da “adattatori” tra sistemi finanziari diversi

consentendo ai loro possessori di coprirsi principalmente dal rischio cambio e da quello di variazioni

dei tassi d’interesse (particolarmente importante per le banche che possono spesso presentare

disallineamenti tra attività e passività in bilancio quanto alla rispettiva componente a tasso fisso e a

tasso variabile) (Merton and Bodie, 2005).

Il problema principale è che l’uso di assicurazione o di hedging del derivato è stato di gran lunga

soppiantato dall’utilizzo meramente speculativo.

Per rendere chiaro il problema posso aver bisogno di un derivato per coprirmi dal rischio cambio se

voglio fare un prestito in “valuta forte” (euro o dollaro) ad un‘organizzazione di microcredito

operante in un paese del Sud del mondo con propria valuta. In questo caso la copertura dal rischio è

fondamentale per effettuare l’operazione e per evitare di scaricare un rischio di apprezzamento della

valuta in cui il prestito viene fatto rispetto alla valuta del paese ricevente che costringerebbe

l’organizzazione di microcredito a remunerare il prestito a tassi esorbitanti (il tasso effettivo del

prestito più la percentuale di rivalutazione del cambio). In questo caso il derivato verrebbe

correttamente utilizzato per copertura assicurativa anche se va specificato che la protezione

assicurativa fornita è sempre approssimativa e potrebbe essere sostituita dalla nascita di un

intermediario assicurativo vero e proprio in grado di compiere tali operazioni (anch’esso comunque

con derivati in portafoglio per proteggere i propri rischi).

Nella seconda fattispecie però (l’uso dei derivati con finalità speculative) molti operatori grandi e

piccoli sono semplicemente attratti dal rapporto non lineare tra prezzo dei derivati e prezzo delle

attività sottostanti cui sono collegati, ovvero dagli elevati guadagni in conto capitale che possono

essere realizzati comprando e vendendo derivati in brevissimi intervalli di tempo. Un operatore

grande o piccolo che acquista contratti future sul MIB in Italia per provare a rivenderli appena il loro

prezzo sale a pochi minuti di distanza non sta svolgendo nessun’operazione di carattere assicurativo.

Mediobanca in un recente rapporto ci dice che il 97% delle operazioni sui derivati di banche europee

sono del secondo tipo.

Aggiungiamo a tutto questo, come evidenziato nel quaderno di ricerca OCSE di Blundell e Atkinson

(2010), che i mercati dei derivati sono tra i più opachi e concentrati. Opachi perché è praticamente

impossibile per l’acquirente capire quanto può valere il prodotto che il venditore gli offre, a meno di

padroneggiare tecniche complesse di pricing e di conoscere concetti di fisica come quelli dei moti

browniani che sono alla base della valutazione dei prezzi dei derivati. Per usare un’immagine

semplice se è difficile vendere una mela a 200 euro a chicchessia è molto meno difficile fare

l’equivalente con i prodotti derivati. I mercati dei derivati sono inoltre talmente concentrati da essere

controllati da tre/quattro operatori in ciascun segmento (Blundell and Atkinson, 2011). Difficoltà di

capire il vero valore dei prodotti e concentrazione monopolistica dal lato dell’offerta sono, come è

evidente, una combinazione di fattori fatale per ridurre i benefici dal lato degli acquirenti.

L’altro significativo elemento di opacità ed incertezza è determinato dal fatto che la stragrande

maggioranza di questi prodotti è contrattato informalmente tra venditore e acquirente fuori dai mercati

regolamentati (l’espressione utilizzata è derivato OTC o Over the Counter). Non esistono dunque

stanze di compensazione ed intermediari in grado di intervenire in caso di problemi nella conclusione

o nel saldo delle transazioni tra le controparti.

Da notare altresì che non tutti gli strumenti derivati (anche quando non vengono comprati e venduti

per motivi speculativi) hanno sempre una finalità assicurativa credibile. E’ il caso dei credit default

swap sugli stati sovrani nei quali l’assicuratore (un intermediario finanziario di grandi dimensioni) si

impegna a risarcire i possessori di titoli di stato in caso di fallimento di un paese. Pensando

all’esempio dei credit default swap sugli Stati Uniti, ma non solo, possiamo immaginare la follia di

ritenere che l’“assicuratore” che vende tali titoli possa essere in grado di risarcire i loro possessori. I

Credit default swaps (soprattutto quelli sugli stati sovrani) violano dunque due fondamentali

caratteristiche di un contratto assicurativo: i) il limitare la possibilità di stipula di tale contratto

soltanto a chi possiede l’attività sottostante da assicurare (si possono comprare credit default swaps

su stati sovrani senza essere in possesso di titoli pubblici di quel paese); ii) l’escludere la possibilità

che l’evento sia così catastrofico da rendere in possibile la sopravvivenza dell’assicuratore e la sua

capacità di corrispondere l’indennizzo. Per inciso quest’ultimo elemento nel caso della crisi

finanziaria globale fu garantito dal salvataggio del tesoro americano nei confronti della XXX che era

la principale venditrice di credit default swap sulla Lehman Brothers.

3.3 Le banche too big to fail prendono troppi rischi Il rischio sistemico non si è ridotto dopo il

2007

Il rapporto Liikanen, redatto da una commissione indipendente di esperti incaricata dalla

Commissione Europea (e con esso il rapporto Vickers commissionato dal governo del Regno Unito)

ha evidenziato tra i problemi principali del sistema bancario-finanziario quello della commistione tra

banca d’affari e banca commerciale, ovvero la commistione in seno agli istituto di credito dell’attività

di intermediazione creditizia tradizionale con quella del trading speculativo.

Il rapporto Liikanen ci ricorda come la letteratura empirica economica sottolinei che, anche dal punto

di vista dei guadagni di efficienza, la dimensione di una banca non dovrebbe secondo superare i 20

miliardi di attivo di titoli. In assenza di un’efficace attività di antitrust esistono in realtà oggi banche

che hanno superato di molto questa soglia e raggiunto dimensioni tali da destare serie preoccupazioni

per la stabilità sistemica. E’ uso comune definire tali banche “troppo grandi per fallire” (too big too

fail) o “troppo complesse per essere regolate o per essere salvate”. I rischi per l’intero sistema in caso

di un loro fallimento sono dunque altissimi. Il rapporto Liikanen illustra chiaramente che in molti casi

esse sono più grandi (sempre in termini di totale dell’attivo) del PIL dei paesi di origine (è il caso del

Banco Santander in Spagna, della Barclays e della Royal Bank of Scotland nel Regno Unito, di ING

in Olanda) e questo è di per sé un problema per i regolatori che rischiano di essere seriamente

condizionati da regolati così grandi. Dati recenti mostrano come queste banche sistemiche o troppo

grandi per fallire, massimizzando il profitto e dedicandosi, in gran parte, ad attività puramente

speculative, hanno investito una quota molto inferiore del proprio attivo in prestiti alla clientela

rispetto alle banche etiche o cooperative. La massimizzazione del profitto e la ricerca di guadagni

speculativi a breve termine riduce infatti gli incentivi ad effettuare un’attività (quella del credito

tradizionale a cittadini e imprese) che ormai ha rendimenti piuttosto contenuti e costi elevati.

Come sottolinea l’autorevole rapporto Vickers, queste grandi conglomerate hanno una parte

tradizionale, relativamente stabile e meno rischiosa che si occupa di concessione di crediti mentre

quella dedita al trading speculativo è fortemente instabile e più rischiosa e può far fallire l’intero

conglomerato. Poiché l’attività di trading è finanziata in realtà con fondi diretti ad attività a basso

rischio e a basso rendimento (i depositi bancari), attività che in virtù del basso rischio sono remunerate

poco dalla banca, il trading speculativo gode di un sussidio implicito. Se infatti fosse scorporato

dall’attività commerciale e chiedesse fondi sul mercato per quella specifica attività sarebbe costretto

a remunerarli a tasso molto più elevato. Con un rapporto tra capitale preso a debito e capitale proprio

che arriva e può superare il rapporto di 30 a 1, perdite sul trading pari al 3 percento di tutto il

patrimonio possono far fallire una banca. Il problema è che, in caso di fallimento, il conglomerato

può chiedere e facilmente ottenere da parte delle autorità di vigilanza il salvataggio a spese dei

contribuenti, adducendo il fatto che dal suo fallimento verrebbero travolti i depositanti (correntisti)

della banca. I depositanti della banca che mischia attività tradizionale con il trading speculativo

diventano dunque gli ostaggi che obbligano le autorità al salvataggio. Sapendo ciò la conglomerata

sarà ancora meno restia a limitare il rischio delle proprie operazioni speculative confidando nel fatto

di un salvataggio che comunque avverrà per proteggere i depositanti (questo problema viene definito

azzardo morale).

Un autorevole collega come Marco Pagano membro dell’Advisory Scientific Committee dello

European Systemic Risk Board in audizione presso la commissione europea ha sottolineato come le

grandi banche spa “abbelliscano” (“tweak”) i loro coefficienti di patrimonializzazione con ampio uso

di obbligazioni ibride, meccanismi di rating interno e cartolarizzazioni con derivati del credito.

Sottolineando come la correlazione tra coefficienti di patrimonializzazione “abbelliti” e leva cruda

sia del tuto sparita, con alcune grandi banche sono tornate ad avere rapporti tra debito e capitale

proprio (fino a 50) superiore ai livelli pre-crisi che erano a attorno a 30 per le quattro grandi banche

d’affari americane.9

3.4 Il riduzionismo d’impresa si traduce in sistemi di remunerazione di manager che

amplificano il conflitto distributivo

Il problema dell’eccessiva presa di rischio ha però radici più profonde e dipende dalla struttura

imperfetta dei meccanismi di remunerazione di traders e managers all’interno di queste

organizzazioni. Avere stipendi con una enorme quota in variabile rappresentata da bonus e stock

options che scattano quando i corsi azionari dell’impresa salgono ha rappresentato spesso un

formidabile incentivo perverso per “eccitare” artificialmente il prezzo dell’azione al fine di intascare

il bonus. Nel caso in cui le cose vanno male per l’azienda il manager generalmente non paga (almeno

dal punto di vista economico) ed esce di solito dall’azienda con liquidazioni miliardarie (i cosiddetti

golden parachutes). Il problema di queste remunerazioni non sta solo nella quota eccessiva di

variabile ma anche nella loro asimmetria. Se le cose vanno bene si guadagna molto se vanno male

non si partecipa alle perdite ma si continua a guadagnare lo stesso. Poiché in finanza non esistono

pasti gratis e i progetti sono generalmente ordinati su una retta rendimento-rischio inclinata

positivamente (ovvero tutto ciò che rende potenzialmente di più è anche più rischioso) il modello di

remunerazione vigente (che consente loro di partecipare al rendimento senza accollarsi il rischio)

spinge i manager a collocarsi nel punto più alto possibile della retta rendimento-rischio mettendo in

pericolo la sopravvivenza delle organizzazioni. Il problema dell’eccessiva presa di rischio delle

9 Pagano, Marco, Lessons from the European Financial Crisis (September 8, 2014). CFS Working Paper No. 486. Available at SSRN: http://ssrn.com/abstract=2517318

banche too big to fail può dunque essere risolto alla radice solo modificando la struttura delle

remunerazioni dei manager.

Il problema delle distorsioni nei meccanismi di incentivo non si limita però a questo punto. La

presenza all’interno dei sistemi di remunerazione dei manager di una componente troppo alta di

remunerazione variabile (bonus e stock options) e il fatto che la componente variabile sia legata

unicamente a indicatori di profitto esasperano i conflitti distributivi all’interno delle imprese. Se

infatti la torta del valore aggiunto crescono le fette di tutti gli stakeholders (incluso il profitto) e il

manager può maturare il bonus in variabile legato alla crescita dei profitti. Se la situazione

dell’azienda è meno positiva e la torta del valore aggiunto non cresce il manager per poter maturare

il bonus può aumentare la fetta dei profitti solo a scapito delle dimensioni delle altre fette, riducendo

pertanto il benessere degli altri stakeholders.

Il sistema di remunerazioni con percentuale in variabile molto elevata legata alla crescita dei profitti

si fonda sul principio riduzionista e rischia di aumentare il conflitto distributivo all’interno

dell’impresa.

Aggiornamenti Sociali forth,

4. Le proposte per il magis

Dai tre problemi originari (riduzionismo antropologico, di concezione d’impresa e di concezione del

valore) scaturiscono una serie di problemi strutturali negli odierni mercati bancari e finanziari

(mission drift, o abbandono della missione di finanziamento all’economia reale, eccessiva volatilità

ed instabilità per via dell’aumento dei rischi sistemici, sistemi d’incentivo di managers e traders che

rendono il sistema ancora più rischioso). In quanto segue proviamo a delineare alcune vie di riforma.

La prima (il voto col portafoglio e il sostegno ai pionieri etici) può essere realizzata direttamente dai

cittadini senza l’intervento delle istituzioni .Le altre implicano invece una riforma delle regole

4.1 Sostenere il magis dei pionieri: banche etiche e fondi etici e sollecitare il voto col portafoglio 10

Di fronte a queste crisi strutturali e a questi macro-fenomeni dove solo grandi attori sembrano contare

c’è il rischio di sentirsi schiacciati. E’ una sensazione sbagliata e con conseguenze negative che

mortificano il nostro senso d’iniziativa, spirito di libertà e dovere della speranza. I muri crollano in

un attimo e tutto può cambiare molto rapidamente se solo lo vogliamo e capiamo con intelligenza

10 Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario, aziendale. Nascono Centri di studio

e percorsi formativi di business ethics; si diffonde nel mondo sviluppato il sistema delle certificazioni

etiche, sulla scia del movimento di idee nato intorno alla responsabilita` sociale dell’impresa. Le

banche propongono conti e fondi di investimento cosiddetti « etici ». Si sviluppa una « finanza etica

», soprattutto mediante il microcredito e, piu` in generale, la microfinanza. Questi processi suscitano

apprezzamento e meritano un ampio sostegno. I loro effetti positivi si fanno sentire anche nelle aree

meno sviluppate della terra.

Caritas in Veritate

come è più urgente ed efficace agire. I mercati infatti siamo noi, o meglio i mercati sono fatti di

domanda ed offerta e da uno dei due lati, ci sono sempre i cittadini che consumano e risparmiano.

Esiste pertanto una soluzione-uovo di Colombo in grado di risolvere i problemi che abbiamo di fronte

ed è il voto nel portafoglio. Ovvero la scelta di premiare con i propri consumi e risparmi quelle

aziende socialmente responsabili ed “efficienti a tre dimensioni”, che si rivelano particolarmente

capaci di internalizzare il problema di creazione di valore economico socialmente ed ambientalmente

responsabile di cui abbiamo bisogno per uscire dalle quattro crisi. Se i cittadini diventano consapevoli

che le loro scelte di consumo e risparmio sono atti politici attraverso i quali esprimono gradimento

nei confronti delle imprese che vendono loro i prodotti il mondo può cambiare. E’ bene dire

immediatamente che, dando piena consapevolezza dell’importanza e del ruolo del voto col

portafoglio nei sistemi economici contemporanei, non si intende affatto svalutare gli strumenti

tradizionali di partecipazione politica (come il voto elettorale o referendario e l’attività politica

tradizionale). Al contrario, partendo dall’osservazione disincantata della realtà che ci dice che la

politica è oggi subordinata all’economia e che, a sua volta, l’economia è subordinata alla finanza,

scopriamo che l’urna più importante nella quale esercitare, ogni giorno e non una volta ogni quattro

anni, il nostro voto è proprio il consumo e risparmio responsabile. Poiché i veti dividono mentre i

premi uniscono e stimolano chi li riceve a far meglio è opportuno sottolineare come il voto col

portafoglio va concepito come un premio per chi riceve il voto prima ancora che come un non voto

per l’impresa di cui decidiamo di non comprare il prodotto. E di uno stimolo che le stesse imprese

chiedono a gran voce per poter rendere i loro sforzi di responsabilità sociale sostenibili e praticabili

sui mercati.

Se per essere luce del mondo possono bastare le gesta di alcuni grandi santi o eroi isolati, per

provocare trasformazioni politiche virtuose e durature che facciano da lievito all’interno di una

società abbiamo bisogno di gesti coordinati e continuativi di una maggioranza di persone di buona

volontà e dunque di strategie o proposte che non richiedano realisticamente livelli troppo elevati di

altruismo in modo tale da poter essere abbracciate da grandi masse.

Il voto col portafoglio ha dunque alcune proprietà fondamentali: i) è pragmatico, perché non propone

un mondo ideale o un’utopia al di là da venire ma premia quell’imprenditore che oggi concretamente

nelle difficoltà e con i vincoli della competizione globale è il migliore nel creare valore economico

in modo socialmente ed ambientalmente sostenibile, ovvero l’imprenditore dotato di maggiori

capacità generative ai fini del bene comune; ii) la sua attivazione richiede una condizione di socialità

non particolarmente forte bastando per esso una forma di autointeresse lungimirante. Quando un

consumatore/risparmiatore sceglie un bene o servizio di un’azienda all’avanguardia nella sostenibilità

ambientale sta infatti riducendo per sé (e per la società) conseguenze negative dell’insostenibilità

come inquinamento e malattie ad esso connesse, riscaldamento climatico, ecc. Quando lo stesso

sceglie un ben o servizio di un’azienda all’avanguardia nella sostenibilità sociale sta premiando una

società che tutela i diritti del lavoro dando al mercato e alle altre imprese un segnale ed un

incoraggiamento a procedere in quella stessa direzione con eventuali effetti benefici per la propria

stessa condizione di lavoratore.

L’obiezione più comune su questo punto è che il voto col portafoglio è in fondo un voto di censo (può

esercitarlo solo chi dispone delle risorse economiche per farlo) che spesso richiede un sovrappiù che

molti cittadini non possono permettersi. Evidenze empiriche su vasta scala sulle abitudini di consumo

dimostrano invece che il consumo è un atto profondamente simbolico attraverso il quale le persone

soddisfano bisogni complessi (di status, di esclusività o alternativamente di socialità e conformità a

gruppi di riferimento) andando pertanto quasi sempre oltre la ricerca del prezzo minimo. Sul fronte

più specifico della responsabilità socioambientale esistono evidenze consolidate che circa un terzo

della popolazione è disposto a pagare di più per le caratteristiche socioambientali del prodotto e che

la quasi totalità dei cittadini preferisce un prodotto “etico” ad un corrispettivo equivalente in termini

di prezzo/qualità quando il differenziale di prezzo non esiste. Il terzo di cui parliamo è più che

sufficiente per generare enormi processi di contagio e di trasformazione del modo di produrre in grado

di orientare i sistemi economici al perseguimento del bene comune.

Proprio in finanza il voto col portafoglio trova oggi la sua espressione migliore. Nell’ambito dei fondi

d’investimento i fondi etici hanno rendimenti corretti per il rischio non inferiori a quelli dei fondi

tradizionali. Ciò significa che per chi vota col portafoglio in questo ambito non c’è un “sacrificio”

economico.

“Non è un caso che il voto col portafoglio attraverso la scelta dei fondi etici stia crescendo in modo

molto significativo arrivando alla quota di mercato ragguardevole di quasi il 40% di tutta la finanza

gestita in Europa secondo i dati Eurosif.11

Già prima della Conferenza di Parigi una coalizione significativa di fondi etici ha pensato di utilizzare

questa leva così significativa in direzione della sostenibilità ambientale con un’iniziativa

particolarmente importante. Il 25 settembre 2014 una rete una rete di fondi con un patrimonio

complessivo di circa 3 trilioni di dollari ha siglato il Montreal Carbon Pledge impegnandosi a

misurare la “carbon footprint” del proprio portafoglio ovvero l’impatto in termini di emissioni di CO2

del complesso dei titoli detenuti in portafoglio con l’obiettivo di ridurre progressivamente tale

impronta.12 Non a caso questo gruppo di fondi è anche noto come la Portfolio Decarbonisation

Coalition ovvero come la coalizione per la decarbonizzazione dei portafogli titoli. Le conseguenze

pratiche di questa scelta si iniziano a cogliere da subito. Qualche mese dopo uno dei maggiori fondi

etici mondiali, il fondo pensione dello stato Norvegese, ha annunciato l’uscita da tutte le società che

operano nel settore delle fonti fossili di energia.13 Grazie alla crescita del coordinamento del voto col

portafoglio dei fondi etici le imprese quotate in borsa sui mercati internazionali sanno che una loro

scelta in direzione di una minore sostenibilità ambientale può ottenere la sanzione dei fondi etici e la

perdita di importanti quote di risparmio.” (Becchetti 2016, La Ricca Sobrietà)

L’autointeresse lungimirante del voto col portafoglio sta costruendo e costruirà progressivamente una

società più empatica, sostenibile e partecipata ma per arrivare a questo obiettivo i consumatori devono

crescere nella consapevolezza dell’importanza e delle potenzialità delle loro scelte mentre dal lato

dell’offerta è necessario organizzare al meglio le condizioni che facilitano il voto nel portafoglio. La

consapevolezza dei consumatori potrà maturare se essi coglieranno fino in fondo le potenzialità di

contagio che anche singoli gesti hanno sul sistema. Le evidenze empiriche degli ultimi anni

dimostrano che l’iniziale alleanza tra imprese pioniere (dedicate al 100 percento alla sostenibilità

sociale ed ambientale) e cittadini che votano col portafoglio ha fatto progressivamente emergere

piccole quote di mercato che contraddicevano nei fatti i due assunti del riduzionismo antropologico

e d’impresa (se siamo tutti homines economici ed esistono o sopravvivono solo le imprese che

11 http://www.oekom-research.com/index_en.php?content=news_20140930111513 12 http://montrealpledge.org/ 13 http://www.theguardian.com/environment/2015/mar/16/norways-sovereign-wealth-fund-drops-

over-50-coal-companies

massimizzano il profitto tali quote di mercato non possono esistere). L’effetto più importante di tali

quote di mercato è stato quello di generare processi di contagio che hanno a loro volta prodotto

imitazione da parte delle imprese tradizionali massimizzatrici di profitto. Tali imprese, di fronte alla

scoperta per molte di esse nuova dell’invalidità dei riduzionismi, hanno constatato che la risposta

ottimale, coerente con il loro obiettivo di massimizzazione del profitto, era quella di imitare

parzialmente i pionieri introducendo nella gamma dei loro prodotti alcuni prodotti socialmente ed

ambientalmente responsabili. Tutto questo ha generato il cosiddetto mainstreaming della

responsabilità sociale che comincia ad essere evidente ai giorni nostri anche agli occhi degli

osservatori meno attenti.14 Per fare l’esempio di una filiera pioniera, i prodotti equosolidali sono

entrati prepotentemente nella grande distribuzione conquistando in alcuni casi quote di mercato

ragguardevoli. Un esempio su tutti quello delle banane nel Regno Unito, scelto come prodotto

simbolo delle più importanti catene della grande distribuzione tradizionale (Tesco e Sainsbury). Con

il risultato che oggi, oltre alle tradizionali botteghe e alle cooperative della distribuzione al consumo

(Coop UK) e appunto tali grandi catene vendono esclusivamente o prevalentemente banane

equosolidali che hanno conquistato rapidamente un quarto della quota di mercato complessiva

nazionale. Il mainstreaming presenta come ovvio aspetti controversi. Esso mette innanzitutto

parzialmente in crisi i pionieri che si trovano a dover competere con i colossi del settore che grazie

alle loro economie di scala possono fare dumping sociale e vendere il prodotto equosolidale

sottocosto. I pionieri per competere non possono più dunque puntare sulla differenza relativa al

singolo prodotto ma sul vero vantaggio competitivo non imitabile che possiedono, la loro dedizione

al 100 percento alla causa della responsabilità sociale che l’impresa massimizzatrice di profitto che

imita parzialmente non potrà mai copiare. Tale vantaggio competitivo è “già e non ancora”, in parte

realizzato ma in parte ancora più importante potenzialità futura. I pionieri possono infatti promettere

che, una volta cresciuti a dimensioni simili a quelle degli attuali competitori massimizzatori di

profitto, dedicheranno molte più risorse ed energie all’obiettivo della responsabilità socioambientale

come è implicito nella loro governance e nei loro obiettivi istitutivi. Un aspetto controverso ma

senz’altro importante del mainstreaming è che esso aiuta a far crescere in modo imponente la

conoscenza e le abitudini di acquisto dei prodotti socialmente responsabili presso il grande pubblico.

Le analisi di mercato nel Regno Unito documentano che a fronte di circa un terzo di cittadini sensibili

disposti a pagare per i contenuti di responsabilità socioambientali dei prodotti esiste generalmente

una massa di due terzi di “ignavi” che seguono pedissequamente le abitudini dei consumi di marca.

Nel momento in cui le grandi marche cominciano a vendere prodotti a marchio equosolidale anche

tali consumatori iniziano ad acquistare i prodotti e soprattutto il grado di conoscenza dell’economia

solidale e delle potenzialità del voto nel portafoglio cresce sospinto dall’investimento in marketing

degli imitatori parziali. 15

14 Secondo la KPMG (2005) il 90 per cento delle aziende giapponesi, il 71 per cento di quelle del

Regno Unito e il 32 per cento di quelle USA hanno un bilancio sociale. Nel 2010 l’ICCA global

report survey (2010) mostra che il 31 per cento delle aziende che sono tra le prime 500 del mondo

secondo il Fortune hanno un dipartimento separato di CSR. Il Global Consumer Report della Nielsen

(2012) documenta che il 46 percento del campione di cittadini mondiali intervistati è disposto a pagare

di più per prodotti socialmente ed ambientalmente responsabili. 15 Un importante riconoscimento alla capacità di contagio del voto nel portafoglio viene dalla

commissione UE che nel maggio 2009 afferma a proposito del commercio equo e solidale (uno degli

ambiti di maggior successo di questo principio) che “Il commercio equo e solidale ha giocato un

ruolo pionieristico nell’illuminare questioni di responsabilità e solidarietà, impattando con questo

su altri operatori e stimolando la creazione di altri regimi di sostenibilità. Iniziative private sulla

sostenibilità collegate al commercio utilizzano oggi vari standard di sostenibilità sociale ed

Tornando al quadro di riferimento da cui siamo partiti, quello dei divari di tenore di vita e di costo

del lavoro tra aree, osserviamo che il voto con il portafoglio rappresenta una strategia nella direzione

giusta per affrontare tali divari. Non è infatti una reazione protezionista o una porta chiusa in faccia

agli ultimi, nè un mero sfruttamento acritico dei vantaggi di prezzo che i divari di costo del lavoro

offrono al consumatore finale da noi grazie alla delocalizzazione produttiva. Esso si pone invece

correttamente nell’ottica di stimolare un riequilibrio più rapido possibile verso l’alto di tali divari

premiando quelle imprese che più rapidamente trasferiscono tutele e diritti ai lavoratori più diseredati

di quei paesi nell’auspicata direzione della globalizzazione di tali diritti. E’ del voto col portafoglio

che abbiamo urgentemente bisogno se vogliamo aggredire il problema più importante alla radice delle

quattro crisi, quello dei divari di costo del lavoro e della vita tra le diverse aree del pianeta.

E’ opportuno rilevare come la chiesa cattolica nella più recente riflessione della dottrina sociale abbia

ricnonosciuto pienamente il valore del voto nel portafoglio mettendo a tema delle pratiche avviate il

più delle volte sul campo dalle stesse organizzazioni di ispirazione ecclesiale e religiosa.

Riconoscendone sia la portata strategica sia la coerenza profonda con l’aspirazione a stili di vita

ispirati al Vangelo nell’ottica di una più piena incarnazione che non tenga fuori dalla vita cristiana la

dimensione economica e sociale.

I principi del voto nel portafoglio sono infatti citati già a partire dal Compendio della Dottrina

Sociale16 e poi ripresi in due distinti passi dalla Caritas in Veritate.17

E’ anche opportuno rilevare come da questo principio e dall’accento che esso pone sulla promozione

di pionieri come il commercio equosolidale e la microfinanza emerga un approfondimento del

concetto stesso di caritas. La caritas o l’aiuto agli ultimi non viene infatti più considerato un obolo

che mantiene le distanze ma come uno stimolo all’inclusione e all’operosità che chiede

ambientale che sono cresciuti in numero e quote di mercato. commissione UE in una comunicazione

al Parlamento Europeo del maggio 2009. 16 L’utilizzo del proprio potere d’acquisto va esercitato nel contesto delle esigenze morali della

giustizia e della solidarietà e di precise responsabilità sociale: non bisogna dimenticare “il dovere

della carità, cioè il dovere di sovvenire con il proprio superfluo e talvolta anche col proprio

necessario per dare ciò che è indispensabile alla vita del povero . Tale responsabilità conferisce ai

consumatori la possibilità d’indirizzare, grazie alla maggiore circolazione delle informazioni, il

comportamento dei produttori, mediante la decisione – individuale o collettiva – di preferire i

prodotti di alcune imprese anziché di altre, tenendo conto non solo dei prezzi e della qualità dei

prodotti, ma anche dell’esistenza di corrette condizioni di lavoro nelle imprese, nonché del grado di

tutela assicurato per l’ambiente naturale che lo circonda”Compendio della dottrina sociale della

Chiesa n. 359 17 “E` necessario un effettivo cambiamento di mentalita` che ci induca ad adottare nuovi stili di vita,

‘‘nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una

crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli

investimenti’’ Caritas in Veritate n. 66 e ancora “La interconnessione mondiale ha fatto emergere un

nuovo potere politico, quello dei consumatori e delle loro associazioni. Si tratta di un fenomeno da

approfondire, che contiene elementi positivi da incentivare e anche eccessi da evitare. E` bene che

le persone si rendano conto che acquistare e` sempre un atto morale, oltre che economico. C’e`

dunque una precisa responsabilita` sociale del consumatore, che si accompagna alla responsabilita`

sociale dell’impresa. I consumatori vanno continuamente educati al ruolo che quotidianamente

esercitano e che essi possono svolgere nel rispetto dei principi morali, senza sminuire la razionalita`

economica intrinseca all’atto dell’acquistare.” Caritas in Veritate 144-145.

corresponsabilità e risposta dando in cambio dignità. Se, nell’ottica della Caritas in Veritate la caritas

deve trovare il corrispettivo nella veritas della natura umana, e se tale veritas è a immagine e

somiglianza divina, si fa il bene del povero se lo si mette in condizione di realizzare pienamente la

sua natura umana. Ovvero se lo si mette in condizione di dare e di donare reintegrandone pienamente

diritti e doveri dandogli un ruolo attivo nella società.

Il voto col portafoglio rappresenta infine un progresso importante sul fronte dell’incarnazione. Se

l’incarnazione è un apparente ossimoro (un Dio che si fa uomo), anche in economia il progresso

avviene attraverso apparenti ossimori (commercio equo, finanza e banca etica, economia di

comunione) nei quali il piano ideale, invece di restare separato dal business as usual si incarna in esso

fecondandolo e trasformandolo dall’interno diventando pane spezzato dentro i beni e i servizi che

sono il frutto dell’attività economica ordinaria.

4.1.2 Come la politica e le istituzioni possono stimolare le virtù civili e il voto nel portafoglio

Se il voto col portafoglio ha le grandi potenzialità che abbiamo illustrato, affinchè esse si

concretizzino è necessario sul fronte delle proposte lavorare affinchè alcuni ostacoli di fondo che ne

limitano la pratica e diffusione vengano rimossi. A parte il problema culturale e l’esigenza di rendere

sempre più consapevoli i cittadini di questa loro potenzialità, difficoltà importanti sorgono, come in

ogni settore dell’economia, sul fronte delle asimmetrie informative. Come nei mercati del lavoro, del

prodotto e del credito la relazione economica avviene infatti sempre tra soggetti che non hanno la

stessa qualità di informazioni. E nel caso specifico, il valore socioambientale del prodotto non è un

“bene di esperienza”, ovvero una caratteristica della quale il cittadino responsabile può

progressivamente apprendere di più attraverso ripetute abitudini di acquisto. Sono necessari dunque

intermediari specializzati come marchi, enti di certificazione e società di rating che garantiscano con

la loro reputazione e giochino la loro sopravvivenza testimoniando le qualità socioambientali del

prodotto.

Tutto questo già accade ma alcune specifiche nuove regole del gioco possono dare impulso

significativo all’intero processo. Il traguardo ideale è una situazione nella quale il cittadino sia

perfettamente informato e possa scegliere senza costi addizionali di ricerca del prodotto etico sullo

scaffale di qualunque punto vendita tra un determinato prodotto e il suo equivalente con maggior

grado di responsabilità socioambientale. Si noti che tutto ciò rappresenta un avvicinamento a quelle

condizioni ideali di mercato preconizzate dalla teoria economica che sono oggi ben lontane

dall’essere realizzate. Nei libri di testo universitari gli studenti imparano che il mercato è fatto di

consumatori perfettamente informati che scelgono prodotti ma la realtà di oggi, ben lontana da questa

condizione limite, ci suggerisce che l’unica caratteristica che i consumatori conoscono del prodotto è

il suo prezzo. Avere dunque informazioni sulla tracciabilità ambientale e sul valore socioambientale

del prodotto e dell’impresa rappresenta un progresso in tale direzione che, senza imporre nessun

vincolo aggiuntivo alla scelta libera dei cittadini, aumenta consapevolezza e gamma di opportunità

disponibili.

Suggeriamo in questa prospettiva alcune altre iniziative importanti che potrebbero dare grande

impulso al voto nel portafoglio. La prima è il rating socioambientale obbligatorio. Se esiste la prassi

per la quale i prodotti finanziari, ai fini della tutela dei risparmiatori, devono necessariamente essere

accompagnati al momento della loro collocazione presso il pubblico da valutazioni di rating non si

vede perché questo non debba avvenire anche per le caratteristiche socioambientali dei prodotti che

rappresentano versanti informativi altrettanto delicati (si pensi ad esempio ai riflessi della qualità

ambientale sulla salute dei consumatori). Tutto questo, nonostante l’inevitabile limitatezza e

perfettibilità dei giudizi di rating, avrebbe il grande pregio di stimolare enormemente il dibattito e

l’attenzione sul tema, con effetti di incentivo e pedagogici sui comportamenti rispettivi di imprese e

cittadini.

Un’altra urgenza a nostro avviso fondamentale è quella di spingere sull’acceleratore per quanto

riguarda la creazione di regole sulla vendita dei prodotti che favoriscano la loro qualità

socioambientale. Da questo punto di vista è ben noto che la globalizzazione dei mercati, aprendo

opportunità di concorrenza al ribasso sui costi ambientali e del lavoro, rende sempre meno efficaci le

regole socioambientali dal lato della produzione e sempre più efficaci quelle dal lato della vendita.

Per fare un esempio chiarificatrice se un singolo paese in un’economia globalmente integrata innalza

improvvisamente ed unilateralmente tutele del lavoro e dell’ambiente per le imprese che producono

sul suo territorio esso genera un aggravio di costo che aumenta la convenienza a delocalizzare. Tutto

questo può generare l’effetto paradossale di una fuga delle imprese stesse dal paese che genera declino

e disoccupazione. Le regole sulla vendita invece non perdono di efficacia nel contesto dell’economia

globale. Se lo stesso paese infatti stabilisce che per poter vendere sul proprio territorio nazionale le

imprese, dovunque esse producano, devono rispettare lungo tutta la loro filiera alcuni standard minimi

socioambientali, esso non pone più in condizioni di svantaggio le imprese che producono direttamente

sul suo territorio ma crea invece regole di gara uguali per tutti. E’ evidente la delicatezza delle regole

sulla vendita che, quando utilizzate come criteri di esclusione, sono in gran parte vietate dalle regole

dell’ WTO (l’Organizzazione Internazionale del Commercio) in quanto rischiano di diventare forme

di protezionismo mascherate (un paese può usarle per vietare di fatto le merci provenienti da paesi a

basso costo del lavoro). Per questo motivo al momento le uniche regole di vendita consentite sono

quelle che proibiscono il passaggio alla frontiera di merci prodotte con lavoro forzato. Se non è

possibile utilizzare regole di qualità socioambientale sulla vendita come criteri di esclusione è invece

consentito usarle come criteri premiali ad esempio nelle gare di appalto. Anche da questo punto di

vista l’UE ha fatto passi avanti importanti (si vedano da questo punto di vista i recenti manuali e

normative su green e social procurement). Nel nostro paese uno dei casi di maggior successo in

materia sono le regole sugli appalti per le mense scolastiche con centinaia di comuni che premiano

oggi i prodotti a chilometro zero o quelli equosolidali anche sulla scorta del loro ruolo fondamentale

per l’educazione alla solidarietà e alla mondialità dei ragazzi.

Ulteriori passi in avanti in materia di voto col portafoglio saranno possibili quando un principio che,

se vogliamo appare scontato, sarà maggiormente applicato. Anche se è realistico e ragionevole

riconoscere (e l’esperienza dimostra) che nei fatti le organizzazioni hanno sempre maggiori vincoli

operativi rispetto ai singoli cittadini, le organizzazioni a movente ideale (si pensi alle chiese, alle

fondazioni e alle forze sindacali) infatti dovrebbero, per coerenza ai principi che ne ispirano l’azione,

applicare il voto col portafoglio nelle loro decisioni di consumo e risparmio. Per un sindacato ad

esempio difendere i diritti dei lavoratori con la propria “attività caratteristica” e non farlo quando

amministrano o cogestiscono fondi pensione è una contraddizione nei fatti.

Per quanto riguarda l’iniziativa delle chiese possiamo sottolineare le molte iniziative delle conferenze

episcopali nazionali in materia le più importanti delle quali sono al momento

i) Le iniziative della conferenza episcopale francese che ha lanciato un proprio fondo di

investimento responsabile

(http://www.libres.org/francais/actualite/archives/actualite_0908/091708_a3_ethica.htm)

che intende premiare quelle società che sono all’avanguardia nel promuovere creazione di valore

economico socialmente responsabile. Un primo obiettivo del fondo è quello di essere da stimolo

ed incentivo affinchè le aziende realizzino maggiormente le loro potenzialità positive di impatto

sociale ed ambientale. Un secondo obiettivo non meno importante è quello di declinare alla luce

dei principi cristiani il concetto di responsabilità sociale evitando ambiguità e relativismi etici di

un termine utilizzato da istituzioni ed iniziative orientate da altre scale di valori

ii) L’impegno dell’agenzia cattolica per lo sviluppo della chiesa cattolica di Inghilterra e Galles che

ha prodotto una pubblicazione che declina le linee guida della responsabilità sociale alla luce dei

principi della dottrina cattolica e, assieme ad essa, due guide per la diocesi e la parrocchia

equosolidale (http://www.cafod.org.uk/policy-campaigns/trade-fairtrade).

iii) Il manuale di linee guida per gli investimenti socialmente responsabili Socially Responsible

Investment Guidelines pubblicato dalla conferenza episcopale degli Stati Uniti

(http://www.usccb.org/finance/srig.shtml U.S. CATHOLIC BISHOPS conference)

iv) La dichiarazione sulla responsabilità sociale d’impresa di Cochabamba del 2010 congiunta tra la

CELAM (La conferenza episcopale dell’ America Latina e l’UNIAPAC, l’Unione mondiale degli

imprenditori cattolici)

v) Le iniziative della Conferenza Episcopale dei vescovi canadesi che fissa una serie di linee guida

per gli investimenti responsabili e aderisce alle iniziative di KAIROS e alla Task Force delle

Chiese sulla Responsabilità sociale d’impresa (TCCR)

(http://www.osc.gov.on.ca/documents/en/Securities-Category8-Comments/com_20040726_81-

106_robrien.pdf)

vi) L’impegno di ICCR il secondo fondo etico d’investimento per volume di masse intermediate

istituito da una coalizione di ordini e congregazioni religiose che da anni esercita un

importantissimo ruolo di advocacy partecipando con proprie mozioni alle assemblee degli

azionisti ed esercitando opera di persuasione nei consigli di amministrazione delle grandi imprese

internazionali al fine di renderle sempre più coscienti delle loro responsabilità e potenzialità in

un’economia globalmente integrata

4.2 Un esempio di intermediario finanziario pioniere del bene comune: i fondi etici

La finanza etica o ESG (quella dove i fondi e gli intermediari non guardano solo al profitto ma anche

alla sostenibilità sociale ed ambientale delle iniziative) sta diventando mainstream soprattutto nel

segmento dei fondi etici. Questo perché gli studi più recenti (Nofsinger e Varma ad esempio

(http://www.geneva-summit-on-sustainable-finance.ch/wp-content/uploads/2013/03/nofsinger.pdf)

o quello di Becchetti et al. (2015) (http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2397939))

dimostrano su dati mondiali ed un orizzonte temporale di più di 30 anni che i rendimenti aggiustati

per il rischio dei fondi etici non sono significativamente diversi da quelli dei fondi d’investimento

convenzionali (anzi dopo la crisi finanziaria globale del 2007/2008 i fondi etici sono andati meglio)).

E siccome siamo cercatori di senso e non solo homines economici se si può fare un’azione buona,

“ricca di senso” a costo zero la si farà. E questo spiega perché oggi i fondi etici sono balzati (secondo

i dati Eurosif) ad una quota del 30% dell’intero mercato della finanza gestita in Europa.

I fondi etici dunque non hanno bisogno del governo, ho detto al ministro, ma il governo ha bisogno

di loro. Il governo si pone infatti una serie di obiettivi economici, sociali ed ambientali (crescita,

occupazione in un quadro di sostenibilità) e la finanza etica può essere strumento fondamentale per

il raggiungimento dell’obiettivo.

Una grande opportunità è a portata di mano ma ci vuole un cambiamento di visione politica. La

politica economica oggi a costo zero per il bilancio pubblico può e deve diventare stimolatrice dei

comportamenti virtuosi di cittadini, imprese ed intermediari finanziari. Le vie sono essenzialmente

due. La prima è quella di tasse che riconoscano e premino fiscalmente i comportamenti virtuosi

“punendo” quelli che non lo sono. La logica è semplice. Se la finanza sostenibile crea esternalità

positive sociali ed ambientali deve essere premiata ed incentivata dal decisore pubblico che per ogni

euro in meno di tassazione sulla finanza etica può recuperare con un euro in più di tassazione per la

finanza che invece non adotta comportamenti virtuosi e genera così esternalità negative sociali ed

ambientali. E’ la nuova versione a saldo zero della tassa di Pigou con la quale il famoso economista

proponeva di tassare l’inquinamento in modo di allineare comportamenti privati e obiettivo pubblico.

La variante a Pigou è che, siccome non esistono solo i comportamenti dannosi (che generano effetti

esterni negativi) ma anche quelli virtuosi (che generano effetti esterni positivi) il sistema

premio/punizione è più efficiente di quello basato solo sulla punizione. Niente di nuovo o

rivoluzionario perché è esattamente quello che si fa incentivando i bonus per l’efficientamento

energetico degli edifici, promuovendo conti energia che incentivano chi usa le rinnovabili facendo

pagare il conto sulla bolletta a chi non lo fa (conti energia che esistono ormai in 64 paesi del mondo).

Con una mossa a saldo zero il governo ha dunque l’occasione di produrre effetti enormi sul sistema

risparmiando e prevenendo interventi riparatori ex post in ambito sociale ed ambientale, quelli sì

diretti e costosi per la finanza pubblica.

La seconda mossa, sempre a costo zero, consiste nell’obbligare le imprese alla rendicontazione

accurata sull’informazione degli effetti sociali ed ambientali del loro operato sul modello di quanto

realizzato in Francia con la legge Grenelle dove le aziende sopra i 500 addetti sono obbligate a mettere

in bilancio gli indicatori sociali ed ambientali (leggi simili sono state approvate in India, Indonesia e

Malaysia mentre le imprese quotate del Regno Unito hanno l’obligatorietà del rendiconto delle

emissioni di CO2). Si tratta però di accelerare e di non annacquare In generale promuovere

l’informazione su questi temi aiuta le agenzie di rating sociale ed ambientale a valutare le aziende da

questo punto di vista e i cittadini e i fondi d’investimento a votare con il loro portafoglio e i loro

risparmi. Senza dimenticare che l’informazione sulla responsabilità sociale ed ambientale d’impresa

è un preziosissimo early warning system capace predirne la reputazione futura e di anticipare i

pericoli di comportamenti non virtuosi delle aziende (vedasi la Lehman Brother che aveva pessime

valutazioni dal rating etico e valutazioni eccellenti dal rating tradizionale o le banche che usano il

rating socioambientale per erogare i prestiti che hanno sofferenze (prestiti non restituiti) di gran lunga

inferiori alla media del mercato).

4.3 Le ragioni di una tassa sulle transazioni finanziarie

Una delle riforme più controverse ma sostenute con più vigore dalla società civile dopo la crisi è

quella della tassa sulle transazioni finanziarie.

E’ opportuno interrogarci sul perché la posizione degli economisti e della società civile (a

maggioranza favorevole nell’UE) nei confronti della tassa sulle transazioni finanziarie (TTF) è

cambiata nel corso degli ultimi anni. Lo scorso anno 130 economisti italiani hanno infatti firmato un

appello in suo favore (http://www.dirittiglobali.it/home/categorie/17-globalizzazionesviluppo-

multinazionali/6663-perche-e-il-momento-di-una-tassa-sulle-transazioni-

finanziarie.html?ml=2&mlt=yoo_explorer&tmpl=component) che è poi confluito nell’analogo

appello di 1000 economisti di 53 Paesi consegnato ai ministri finanziari dei Paesi del G20 in

occasione del vertice svoltosi a Washington il 14 e 15 aprile 2011 (tra i firmatari ci sono figure di

primissimo piano come Dani Rodrik, Tony Atkinson, Joseph Stiglitz e Jeffrey Sachs)

(http://www.guardian.co.uk/business/2011/apr/13/robin-hood-tax-economists-letter). Gran parte dei

leader politici, inizialmente contrari, sono ora invece a favore della tassa.

Due i principali motivi di questo cambiamento di opinione: gli eventi della crisi finanziaria globale e

maggiore evidenza in materia che ha aiutato a superare alcuni pregiudizi. Come evidenziato nella

descrizione di scenario con la crisi finanziaria globale i debiti pubblici di alcuni dei principali paesi

occidentali sono significativamente aumentati per le operazioni di salvataggio degli intermediari in

crisi (o per gli effetti indiretti della crisi) e sono successivamente diventati il nuovo obiettivo di

attacchi speculativi. E’ comprensibile pertanto che la maggioranza dell’opinione pubblica sia

dell’avviso che chi opera sui mercati finanziari debba contribuire a pagare i costi di questa crisi, per

ora addossati alle fasce più deboli. Da questo punto di vista si ritiene che la TTF risponda ad

un’esigenza di giustizia e sia addirittura urgente visti gli eventi più recenti per mantenere la coesione

sociale a livello comunitario.

La tassa sulle transazioni finanziarie si richiama solo lontanamente alla cosiddetta Tobin tax, ovvero

alla proposta di tassare i movimenti valutari speculativi dopo la caduta dei sistema di cambi fissi di

Bretton Woods proposta dall’economista James Tobin. In un contesto profondamente mutato essa si

rifà piuttosto all’esigenza di armonizzare le diverse imposizioni di fissato bollato sulle transazioni

finanziarie già esistenti in molti singoli stati (Stati Uniti e Regno Unito inclusi) ma assai diversificate

per aliquota, base imponibile e modalità di imposizione. La ragion d’essere di questa proposta si

fonda prima di tutto su principi di equità e precauzione. Sull’equità, come abbiamo già spiegato in

precedenza, si tratta di correggere l’evidenza dei costi della crisi sopportati prevalentemente dai ceti

medio bassi per via degli sforzi degli stati nazionali per risanare i conti pubblici gravemente

appesantiti dagli interventi di salvataggio sulle banche. Sul principio di precauzione si tratta di creare

meccanismi che modifichino le attuali strategie di gestione di banche, fondi pensione e istituzioni

finanziarie non bancarie (hedge funds, fondi sovrani, ecc.) troppo orientate al trading a breve. Da

questo punto di vista stiamo assistendo nel corso degli ultimi anni ad una profonda trasformazione

dei mercati finanziari dove ormai la maggioranza delle operazioni di compravendita sono attivate

automaticamente da operatori automatici che si avvalgono di algoritmi che, con l’obiettivo di

massimizzare i profitti a breve, realizzano migliaia di operazioni della durata di qualche millisecondo

sfruttando le somme ingenti a loro disposizione ed alcuni piccolissimi vantaggi informativi. Questi

operatori automatici a disposizione delle grandi banche d’affari si avvantaggiano infatti della loro

localizzazione fisica in prossimità dei terminali delle borse da cui partono gli ordini d’acquisto di un

grande operatore tradizionale per leggere in anticipo di qualche millisecondo l’ordine di acquisto

stesso, anticiparlo sostituendosi a quell’acquirente, riuscendo poi a rivendere allo stesso a prezzo

maggiorato. Un'altra operazione tipica, proibita dai regolamenti di borsa in molti paesi ma di fatto

effettuata, è quella dei cosiddetti flash trades, ovvero di falsi ordini di acquisto in grandissime quantità

che appaiono sui terminali degli operatori tradizionali per influenzare il loro orientamento al rialzo al

ribasso e creare una tendenza da sfruttare successivamente ma non vengono di fatto eseguiti.

E’ evidente che siamo del tutto lontani da un’idea di mercati finanziari efficienti dove operatori che

guardano ai fondamentali decidono cosa comprare e vendere sulla base dello scarto tra valore

osservato e valore che loro reputano fondamentale di un titolo. Gli algoritmi per il trading ad alta

frequenza distorcono i mercati sfruttando il loro vantaggio di posizione per creare tendenze di

brevissimo termine che con i fondamentali non hanno nessun collegamento e poi poterle poi sfruttare

a proprio vantaggio. Di più hanno tutto l’interesse ad esasperare divergenze dell’economia reale per

aumentare volatilità e oscillazioni dei prezzi.

Lo squilibrio nei rapporti di forza tra finanza ed economia reale va oltre e capovolge il modo in cui

tradizionalmente abbiamo interpretato il rapporto tra i due mondi. Ancora oggi molti commentatori

attribuiscono ai mercati finanziari una sapienza superiore ed interpretano i loro movimenti come

reazioni razionali e lungimiranti a squilibri dell’economia reale. La verità è che molto spesso la

situazione è esattamente opposta. Sono i mercati finanziari a generare gli squilibri nell’economia reale

(come da tempo spiegano gli economisti con i modelli delle profezie speculative che si auto-

avverano). Per fare l’esempio del problema della sostenibilità dei debiti degli stati sovrani post crisi

non solo tale problema nasce o si inasprisce a causa della crisi finanziaria globale. Successivamente

infatti sono le stesse dinamiche a breve dei mercati finanziari speculativi ad aggravarlo e a renderlo

tale generando spread (differenze di rendimento) sempre maggiori tra paesi presunti sicuri e paesi

con finanze a rischio. L’aumento degli spread a sua volta genera le conseguenze predette

sull’economia reale perché aumenta il costo a cui i paesi attaccati possono rifinanziare il loro debito

sui mercati e dunque provoca le conseguenze sull’economia reale che predice. L’interpretazione che

la variazione degli spread si fondi su precedenti variazioni oggettive di rischio paese è inesatta perché

non esiste nessuna soglia critica oggettiva che determina tali variazioni. Per fare solo un esempio il

Giappone ha un debito pubblico superiore al 200 percento del PIL, quasi interamente finanziato dai

propri cittadini che non mettono in crisi il proprio stato ben sapendo che questo porterebbe una

riduzione di beni e servizi pubblici percepiti. Pertanto non esiste alcun criterio oggettivo per dire che

il rapporto debito/PIL italiano del 120 percento sia una soglia critica, soprattutto in presenza di un

disavanzo quasi in pareggio o, addirittura che la situazione debitoria della Francia sia granchè più

grave di quella tedesca. L’unica vera differenza è che, in questi altri due casi, il debito pubblico è in

misura molto maggiore nelle mani di non residenti o di intermediari speculativi non residenti che non

beneficiano dei beni e servizi pubblici che quegli stati erogano alle loro popolazioni ed hanno come

unico interesse quello di fare guadagni a breve o brevissimo termine dalla compravendita di quei

titoli. Tutto questo non vuol dire ovviamente che non dobbiamo cogliere le occasioni di crisi come

opportunità per migliorare gli aspetti meno validi del modo in cui gli stati gestiscono le risorse.

Diverso è però far questo dal dover sacrificare parte fondamentale della linfa vitale di un paese, del

sostegno ai più deboli con una pistola puntata alla tempia.

Una tassa sulle transazioni finanziarie può fare molto per cambiare radicalmente questo stato di cose.

Se facciamo riferimento alla proposta attualmente al vaglio della commissione UE (0,1 percento per

le attività finanziarie tradizionali e 0,01 percento sul valore nozionale dei derivati), la tassa avrebbe

un’incidenza bassissima sui cosiddetti “cassettisti” (chi compra un titolo per rivenderlo a scadenza o

solo in caso di necessità. Per intenderci chi acquista 10.000 euro di azioni paga un fissato bollato di

10 euro), mentre renderebbe di fatto non più conveniente il trading ad alta frequenza perché basato

su migliaia di operazioni, ciascuna con guadagni minimi e ciascuna soggetta alla tassa. La vera

efficacia della tassa sarebbe dunque quella di modificare radicalmente le strategie di gestione di

portafoglio di questi attori riducendo la loro propensione speculativa a breve.

La proposta di introduzione della tassa dopo la crisi, data l’entità della posta in gioco, ha sollevato

subito un’ondata di sbarramento da parte di chi trae grandi vantaggi dal trading ad alta frequenza. Gli

argomenti iniziali avanzati sono stati piuttosto grossolani e privi di fondamento. Si è sostenuto che la

tassa, se applicata in un solo paese, in pochi paesi o addirittura in aree come l’UE sarebbe stata

inefficace e avrebbe riscosso piccole somme perché avrebbe spostato le operazioni di trading su

piattaforme fuori dal perimetro geografico di applicazione della tassa stessa creando giganteschi

fenomeni di evasione ed elusione che avrebbero di fatto vanificato il gettito e le finalità del

provvedimento. La prova inconfutabile che questo non è vero è che la tassa è già applicata in molti

singoli paesi generando gettiti significativi.18 Il paese che all’inizio ha più strenuamente sostenuto

quest’argomento è il Regno Unito, ovvero paradossalmente quello che oggi raccoglie le somme più

consistenti da una tassa sulle transazioni (la Stamp Duty Tax) che applica da tempo sulla propria

piazza finanziaria utilizzando il criterio della nazionalità dell’asset. Chi oggi vuole diventare

proprietario o vendere un’azione scambiata sulla borsa inglese deve pagare infatti in base alla Stamp

Duty un fissato bollato del 5 per mille. Con tale tassa il Regno Unito riscuote una cifra attorno ai 4

miliardi di sterline l’anno. I fenomeni di elusione ci sono stati ma vanno considerati essi stessi parte

dell’efficacia del provvedimento. Infatti la tassa ha scremato gli operatori del mercato spingendo

quelli con intenti speculativi a creare il cosiddetto market for differences nel quale essi scommettono

direttamente sulle deviazioni di prezzo a breve delle azioni senza possedere i titoli. Tutto questo non

ha impedito di raccogliere somme importanti stabilizzando altresì il mercato azionario tradizionale.

Per limitare la portata dell’evasione o dell’elusione il dibattito verte anche attorno alle modalità di

riscossione della tassa. Il principio attualmente preferito dalle autorità comunitarie è quello della

“broad residence” ovvero della residenza dell’intermediario intesa in senso esteso. La tassa deve

essere pagata se una delle due controparti che effettuano la transazione è residente in un paese UE o

anche solo se esse hanno almeno una filiale con residenza nell’UE pur effettuando la transazione da

filiali non residenti. Da alcune parti si invoca, per rendere più efficace il contrasto all’elusione e

all’evasione, di combinare il principio di residenza con quello di nazionalità dell’asset (secondo il

modello della Stamp Duty inglese). Come nel caso della descrizione degli effetti della Stamp Duty

l’eventuale riallocazione degli intermediari più aggressivi fuori dall’UE (e il loro non poter più

lavorare con clienti UE) non è necessariamente un fatto indesiderabile ma esso stesso parte dei

vantaggi che si intende perseguire attraverso l’applicazione della tassa. Una conseguenza probabile

dell’eventuale applicazione della FTT è dunque la sostituzione da parte degli intermediari di modelli

di trading proprietario con modelli di intermediazione tradizionali.

Quanto all’effettiva capacità di riscossione, soprattutto per quanto riguarda l’ambito dei derivati OTC

non regolamentati, le preoccupazioni paiono eccessive. Due regolamenti europei “Markets in

Financial Instruments Directive" (MiFID)19 e l’ "European Market Infrastructure Regulation"

(EMIR)20 in corso di approvazione impongono agli intermediari di registrare tutte le loro operazioni

incluse quelle su derivati OTC e forniranno la base informativa necessaria per riscuotere la tassa (Art.

25(2) della MiFID). Secondo tali regolamenti ogni modifica o l’eventuale conclusione del contratto

deve essere annotata in un registro delle transazioni che gli intermediary sono obbligati conservare

per 10 anni e a rendere consultabile alle autorità di vigilanza. Un incentivo implicitamente contenuto

in questa regola è che l’eventuale omessa registrazione di una transazione non renderebbe possibile

alcuna controversia davanti a tribunale adito da una delle due controparti.

La UE stima di poter ricavare annualmente dalla tassa 57 miliardi di euro (di cui attorno ai 4 miliardi

di euro per l’Italia) l’anno che andrebbero scalati, secondo le intenzioni dai contributi che gli stati

nazionali attualmente devono al bilancio comunitario. Questo crea un forte incentivo

18 Persaud (2011) riporta da fonti varie come la tassa sia applicata attualmente in 7 paesi (Svizzera,

Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud, Regno Unito, India, Sud Africa). Il gettito annuo più alto è quello

in Corea (6,2 miliardi di dollari seguito dai 5,86 miliardi di dollari nel Regno Unito. THE

ECONOMIC CONSEQUENCES OF THE EU PROPOSAL FOR A FINANCIAL TRANSACTION

TAX AVINASH PERSAUD 19 La direttiva 2004/39/EC è attualmente in fase di revisione presso i legislatori nazionali. 20 Un accordo del Consiglio è stato raggiunto nel Gennaio 2012. Il testo era in fase di prima lettura

presso il parlamento Europeo al maggio 2012.

all’approvazione da parte degli stati nazionali. Al momento in cui scriviamo 22 paesi si sono

dichiarati favorevoli e 5 contrari con la trattativa ancora in corso.

Una parte importante del dibattito verte com’è ovvio sugli effetti macroeconomici della tassa. Usando

i modelli economici considerati oggi di frontiera (modelli di dinamici di equilibrio economico

generale ad equazioni stocastiche) l’UE stima che la tassa potrebbe nell’equilibrio di lungo periodo

di tali modelli generare una perdita totale cumulata dello 0,5% del PIL in 40 anni. A parte l’entità

minima dell’effetto il modello utilizzato è fortemente lacunoso e i suoi risultati si basano su alcune

assunzioni irrealistiche che, una volta rilassate, modificano lo scenario. In quel tipo di modelli si

ipotizza ad esempio che le imprese finanzino tutti i loro investimenti produttivi attraverso emissioni

di azioni ed obbligazioni sui mercati finanziari (che sarebbero soggette alla tassa) mentre è ben noto

che una parte fondamentale degli investimenti avviene attraverso prestiti bancari tradizionali (non

soggetti alla tassa). Portando ad 80 percento la quota di finanziamento degli investimenti tramite

azioni ed obbligazioni l’effetto negativo di lungo periodo si dimezza a -0,21%. Inoltre non vi è nessun

riferimento in questo calcolo all’ipotesi che le risorse ricavate potrebbero essere utilizzate dagli stati

per generare investimenti pubblici produttivi o per ridurre le tasse sul lavoro e sui redditi dei ceti

medio bassi rilanciando in questo modo investimenti e consumi pubblici e privati. Assumendo ipotesi

meno ottimistiche possibili sulla produttività di queste risorse liberate si arriva facilmente a un effetto

macroeconomico positivo. In aggiunta a ciò alcuni economisti come Persaud ipotizzano come

ulteriore effetto positivo la riduzione anche minima della probabilità di nuove crisi finanziarie. La

Reihnardt (2009) calcola nel suo famoso studio sulle crisi finanziarie che esse generano mediamente

una riduzione del 9 percento del PIL. Applicando un modello standard di stima della relazione tra

finanza e crescita (Rousseau e Wacthel, 2010) su un campione dei maggiori 37 paesi del mondo

Becchetti e Ciampoli (2012) calcolano che il solo effetto del 2009 genera nel caso di questa crisi

finanziaria una riduzione del PIL del 9 percento medio per tali paesi (senza calcolare l’impatto degli

anni successivi e quello specifico negativo degli attivi bancari inquinati dai titoli tossici). Dunque se

soltanto l’eliminazione dell’high frequency trading riducesse del 5 percento la possibilità di una crisi

esso porterebbe al risparmio di 0.5 punti percentuali di PIL sotto un’ipotesi prudenziale di caduta

complessiva a seguito delle crisi del 10 percento del PIL stesso.

Un’ultima interessante osservazione sul calcolo delle ricadute macroeconomiche della tassa è quella

di Persaud che ritiene che, rendendo il trading ad alta frequenza non più redditizio, molte menti

brillanti che ad esso si dedicano potrebbero applicare i loro sforzi a settori dell’economia reale più

redditizi favorendo nuove scoperte, sviluppo ed innovazione. E’ innegabile infatti che gli altri salari

offerti dai mercati finanziari abbiano attratto in questi ultimi anni molti cervelli. Si tratta del famoso

argomento della diversione dei talenti attraverso il quale Murphy e Shleifer spiegano in un famoso

lavoro perché la rivoluzione industriale non scoppia in Cina prima che nel Regno Unito pur essendo

presenti in questo continente tutte le condizioni di contorno (un vastissimo mercato interno,

omogeneità culturale e stabilità politica, cervelli e scoperte tecnologiche). La loro conclusione è che

ciò avvenne perché il sistema culturale di allora stimolava le menti migliori ad applicarsi alle arti

dell’amministrazione pubblica e non a quelle della creazione e del rischio d’impresa, perché le norme

sociali allora vigenti non premiavano chi rischiava e guadagnava denaro attraverso l’attività

imprenditoriale. Si consideri da questo punto di vista che, per guadagnare quello che l’amministratore

delegato di Lehman Brothers ha percepito complessivamente in emolumenti vari l’anno prima del

fallimento della banca d’affari un professore di scuola italiana impiegherebbe in base al proprio

salario medio medio 4500 anni (dovrebbe iniziare a lavoare dall’età dei Sumeri). Senza pretendere

un totale appiattimento dei salari incorrelato con il merito sarebbe opportuno che i guadagni fossero

correlati al contributo che le persone danno al benessere e alla crescita e sicuramente il contributo

medio dei secondi è superiore a quello del primo. Da questo punto di vista la nostra società ha

sicuramente maggior bisogno di ricercatori in grado di ideare prodotti innovativi e far avanzare le

frontiere della tecnologia e di meno traders on line.

Una delle obiezioni più recenti alla tassa è che essa finirebbe per essere scaricata dai grandi

intermediari sui loro clienti finali. Uno degli esempi più frequentemente additati è quello dei fondi

pensione che utilizzano oggi strategie di trading aggressive e trasformerebbero i maggiori costi di

transazione in minori rendimenti per i beneficiari delle future pensioni integrative. Le simulazioni

della Commisione UE suggeriscono invece effetti diversi. Come evidenziato dai reclami delle stesse

autorità di vigilanza i fondi pensione tendono infatti oggi ad adottare strategie di gestione troppo

aggressive di cui beneficiano solo gli intermediari. La differenza tra tali strategie con scambi ad alta

frequenza e più prudenti gestioni tradizionali può costare fino ad un 10 percento dei rendimenti ai

clienti del fondo. La tassa sulle transazioni, rendendo tali gestioni aggressive non più praticabili,

potrebbe al contrario riportare alle vecchie modalità aumentando e non riducendo i rendimenti per i

destinatari finali.

Uno degli argomenti più tradizionali contro la tassa è che essa ridurrebbe l’efficienza dei mercati

finanziari (riducendo ad esempio la liquidità degli scambi ed aumentando pertanto gli spread tra

denaro e lettera, ovvero i costi di acquisto dei titoli). Ma di quanta liquidità abbiamo bisogno? Dean

Baker in un suo commento sul tema dice che la tassa ci riporterebbe ai costi di transazione e alla

liquidità di dieci anni fa, ovvero ad un periodo più florido di quello che stiamo vivendo

(http://www.cepr.net/index.php/blogs/cepr-blog/ken-rogoff-misses-the-boat-on-financial-

speculation-taxes). La verità è che non esiste nessun evidenza certa sugli effetti della tassa sulla

volatilità ma solo una serie di diversi modelli che trovano risultati opposti a seconda del tipo di

microstruttura dei mercati finanziari e del modello di competizione ipotizzato tra gli intermediari.21

Ma in maniera più profonda bisogna considerare che giudicare la validità sotto il solo profilo

dell’efficienza (ovvero della potenza di azione del singolo operatore) è profondamente limitante. Se

così facessimo in altri settori come quello delle regole della circolazione stradale dovremmo allora

eliminare ogni limite di velocità e consentire alle vetture di andare anche a 250 all’ora sulle autostrade

o nei raccordi dei centri abitati perché questo minimizza i tempi di percorrenza per i singoli individui.

Come è invece ragionevole che sia il principio dell’efficienza va necessariamente temperato con

quello della sicurezza e della precauzione. In innumerevoli campi la civiltà contemporanea si è

sottoposta a vincoli stringenti per applicare il principio di precauzione, mentre in finanza ha

recentemente proceduto in direzione opposta rimuovendo ogni vincolo. Mettere caschi, cinture di

sicurezza può non essere piacevole ma lo si fa per evitare problemi maggiori. Se consentissimo alle

automobili di viaggiare a 400 all’ora in autostrada potremmo arrivare tutti prima e l’”efficienza”

aumenterebbe. Non lo facciamo perché abbiamo paura dell’aumento degli incidenti e della riduzione

della sicurezza stradale. Sulle strade abbiamo limiti di velocità, ma in finanza abbiamo tolto ogni

limite di velocità abbassando i costi di transazione e portando la leva degli intermediari finanziari a

21 Mannaro et al. (2008) dimostrano che l’introduzione della tassa riduce la liquidità aumentando la

volatilità. Westerhof e Dieci (2006) documentano che se la tassa riduce il numero di noise traders sui

mercati la volatilità si riduce. .Pellizzari and Westerhof (2009) generalizzano il problema dimostrando

in particolare che in un mercato ad asta doppia continua (ovvero nelle borse valori) l’introduzione di

una tassa sulle transazioni non è in grado di stabilizzare il mercato a causa di una riduzione della

liquidità. Di contro in un mercato con dealer, in cui la liquidità è garantita dagli specialisti, la tassa

può ridurre la volatilità diminuendo gli ordini speculativi.

livelli abnormi e consentendo loro di spingere il rischio fino a livello che ha scatenato la crisi. Siamo

innamorati dell’idea di togliere lacci e lacciuoli ma non sempre si tratta di una scelta saggia. Negli

Stati Uniti erano stati tolti lacci e lacciuoli alla compravendita di case e le case erano diventate come

titoli di borsa con il 40 percento di acquisti sulla carta solo per movente speculativo per realizzare

guadagni o perdite in conto capitale. Questa decisione ha contribuito in modo significativo a creare

la bolla dei prezzi degli immobili alla radice della crisi finanziaria globaale. Una volta scoppiata la

bolla, per via della cartolarizzazione dei derivati del credito oggi le banche americane si trovano con

una quantità enorme di abitazioni da vendere sul mercato. Per questo motivo difficilmente

l’abitazione potrà tornare ad essere per gli americani un bene rifugio in grado di mantenere valore nel

tempo.

4.4 Modificare la struttura delle remunerazioni apicali negli intermediari finanziari

La proposta migliore per superare il problema della distorsione nei sistemi di remunerazione dei

manager che, come spiegato al punto 3.3, producono eccessiva presa di rischio degli intermediari

finanziari ed esasperano il conflitto distributivo all’interno di intermediari finanziari e imprese, è

quella di rendere trasparenti le regole di bonus e incentivi, ridurre il più possibile la componente

variabile rispetto alla fissa ed inserire nei criteri che definiscono i premi della componente variabile

indicatori di responsabilità sociale ed ambientale in modo da orientare gli incentivi dei manager, e di

conseguenza quelli di tutta l’azienda, verso la creazione di valore socialmente ed ambientalmente

sostenibile. Un buon esempio di come ciò può avvenire è rappresentato dalla griglia di indicatori

attraverso i quali i fondi etici come Etica sgr esercitano il loro ruolo di azionariato attivo nelle

assemblee delle società quotate votando a favore o contro le politiche d’incentivo.

Alcuni primi timidi esempi di questo tipo sono l’inclusione dell’obiettivo della riduzione di infortuni

sul lavoro per i premi dei manager di Snam e di alcuni indicatori di sostenibilità ambientale per i

manager di Veolia.

4.5 Tutelare la biodiversità Finanziaria

La biodiversità è un pregio nei mercati finanziari come negli ecosistemi come ricordato dal rapporto

Liikanen e da un pregevole lavoro di sintesi pubblicato dall’ILO nel 2013 e considerazioni sviluppate

sul Financial Times. L’esistenza di diverse specie di intermediari finanziari aumenta la resilienza del

sistema e dunque la sua resistenza a shocks. Un parassita (fattore di crisi nel nostro caso) può attaccare

una specie bancaria ma non le altre. Ad esempio le troppo-grandi-per-fallire sono più sensibili a shock

sui derivati e le piccole e medie a quelli sul credito (tipici delle fasi conclusive di un ciclo recessivo).

Eliminare una specie dall’ecosistema (le grandi popolari) rende l’ecosistema più fragile ed è quindi

un errore.

Come è noto la maggiore o minore rischiosità di una banca dipende da fattori quali volatilità degli

utili, diversificazione del portafoglio crediti, stabilità della raccolta fondi, facilità di reperire capitali

in momenti di crisi, leva bancaria cruda. Su molti di questi indicatori le banche a voto capitario non

fanno affatto peggio delle banche spa. In termini di volatilità degli utili è notorio che le banche a voto

capitario fanno molto meglio e ciò è la diretta conseguenza di quel ridotto conflitto d’interesse tra

azionisti e soci. Sempre i dati Bankscope (140.660 osservazioni banca-anno) ci dicono che nel

periodo 1998-2010 la deviazione standard del ROA è più di 4 volte maggiore per le banche non

cooperative e la deviazione standard del ROE doppia. Anche in termini intertemporali la volatilità di

ROA e ROE delle banche non coperative resta di gran lunga superiore confermando risultati

consolidati in letteratura. Hesse e Cihák (2007)22 all’FMI e International Labour Office (2013)

rilevano la maggiore stabilità delle banche cooperative nel confronto internazionale, cosa che in Italia

vale per le popolari (Bongini e Ferri, 2007);23 per l’Europa, Ferri et al. (2013 e 2014a) mostrano,

rispettivamente, che le banche cooperative né prima né con la crisi performano peggio delle spa e che

dal 2007 Fitch e Moody’s hanno ridotto i rating alle cooperative meno che alle spa; De Jonghe e

Oztekin (2015) trovano che, nonostante il minore accesso ai capitali esterni, la capitalizzazione delle

banche cooperative non è inferiore alle spa. E mantenere la diversità nelle forme organizzative (cioè

la coesistenza di banche for-profit e banche orientate ai soci) è cruciale a preservare servizi finanziari

ben funzionanti e inclusivi (Bulbul et al., 2013; Michie e Oughton 2013). Un lavoro molto

interessante recente è quello di Ayadi e de Groen (2014) che identificano quattro tipologie di banche

(investment, wholesale, diversified retail, focused retail).24 Le banche a voto capitario prevalgono nel

secondo e terzo modello che sono significativamente meno rischiosi sotto quasi tutti gli indicatori

considerati sopra. Dovrebbe preoccupare da questo punto di vista il fatto che i regolatori europei

abbiano costruito gli stress test guardando solo ai coefficienti di patrimonializzazione.

Come la letteratura economica ci suggerisce da tempo dunque, ogni modello di banca ha i suoi pregi

e i suoi limiti. Semplificando al massimo dati i vincoli di spazio le spa che massimizzano il profitto

non trovano particolarmente interessante fare credito, soprattutto di piccola taglia, perché attività

poco redditizia e ad alto costo. Le grandi banche spa hanno il difetto di prendere spesso troppi rischi

contando sul fatto di essere troppo grandi per fallire. Le banche locali hanno il vantaggio informativo

della distanza breve con il mondo produttivo locale che può aiutarle a ridurre l’asimmetria

informativa e favorire il credito. Ma rischiano anche la cattura da parte della politica locale e dunque

il credito facile in alcune circostanze nelle quali bisognerebbe essere più severi e selettivi. E il voto

mutualistico può generare opacità e difficoltà di ricambio della classe dirigente. Insomma ogni

modello ha i suoi problemi e per ogni modello ci sono ricette consigliate per attenuarli: regole più

severe sulla leva e limiti all’attività speculativa per le grandi banche spa, miglioramento della

governance per le popolari e vincoli di diversificazione del portafoglio e regole più severe per evitare

la cattura della politica locale per le banche locali (spa o mutualistiche che siano). Un’importante

prova di autoconsapevolezza è da questo punto di vista probabilmente quello del credito cooperativo

che, conoscendo i suoi limiti e opportunamente sollecitato da governo e banca d’Italia, ha messo a

22 H. Hesse, and M. Cihák. Cooperative Banks and Financial Stability. IMF Working

Paper No. 07/2. SSRN: http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=956767,

January 2007.

23 Bongini, and G. Ferri. Governance, Diversification and Performance: The Case of

Italy’s Banche Popolari. Paper given at the meeting on Corporate Governance in

Financial Institutions, organized by SUERF and the Central Bank of Cyprus, Nicosia,

2007.

24 Ayadi, R. and W.P. De Groen (2014), Banking Business

Models Monitor 2014 - Europe, CEPS and HEC Montreal -Observatoire

PublicaFons.

punto una riforma che si propone di emendarne le principali debolezze. Quello che sicuramente non

dobbiamo fare è prendercela aprioristicamente con uno dei diversi generi riducendo la biodiversità.

Per evitare il rischio che le banche facciano la fine delle banane. Mezzo secolo fà era infatti

predominante una specie di banana, la Grosse Michel che fu attaccata negli anni ‘50 dalla malattia di

Panama causata da un fungo, il Fusarium oxysporum, che rischiò di danneggiare seriamente la

produzione mondiale. Per fortuna si riuscì a puntare su una specie differente (la Cavendish) resistente

a quel parassita. Oggi la Cavendish è a sua volta ad alto rischio e sotto attacco a causa di una malattia

la Fusarium wilt, e in particolare la varietà Tropical Race 4 (TR4). La storia delle banane ricorda

quella delle banche. Nel 2007 il parassita dei derivati del credito attaccò la specie delle grandi banche

spa provocando una gravissima crisi finanziaria mondiale. Allora si lodarono le banche cooperative

e locali che avevano investito poco o per nulla in derivati per essere state maggiormente in grado di

resistere alla crisi. Seguirono sette anni di vacche magre in Europa (anche a causa dei limiti delle

politiche macroeconomiche post crisi) che misero stavolta a dura prova proprio le banche cooperative

e locali più esposte nel credito alle imprese. Quelle meno attente e rigorose nell’erogazione dei prestiti

finirono in crisi ed arriviamo dunque alla storia delle quattro banche italiane (non quattro popolari,

ma tre casse di risparmio e una popolare). La lezione per le banche come per le banane è la stessa.

Non si deve avere la memoria corta e puntare solo sul genere che ha resistito meglio all’ultima crisi

ma rinforzare la biodiversità e ciascun genere curando quelle che sono le sue debolezze specifiche.

4.6. Lottare contro l’elusione fiscale

Papa Francesco ha giustamente parlato contro l’idea che la “ricaduta favorevole” (trickle down) possa

rendere accettabili le crescenti diseguaglianze mondiali per via del fatto che la ricchezza dei ricchi

sgocciola in basso e produce comunque un miglioramento delle condizioni dei poveri. Il limite

fondamentale a questo ragionamento è proprio nell’elusione fiscale. Come ha recentemente affermato

in modo molto efficace il premio nobel Stiglitz “la ricchezza che doveva sgocciolare in basso è

evaporata al clima tropicale dei paradisi fiscali”. Il rapporto Oxfam sottolinea che se i 400 miliardi di

ricchezza africana che elude il fisco nei paradisi fiscali fosse rimpatriata e pagasse le tasse nel

continente ci sarebbero risorse e cure per salvare 4 milioni di bambini o per garantire l’istruzione a

tutti. La ONG britannica Christian Aid ha calcolato che gli introiti sottratti ai paesi in via di sviluppo

a causa di abusi fiscali perpetrati dalle multinazionali corrispondano a 160 miliardi di dollari l’anno.

Questa cifra supera di molto il totale degli aiuti donati dai paesi del Nord del mondo, cifra che nel

2012 ammontava a 125 miliardi di dollari. Si tratta anche di tre volte la cifra che si stima dovrebbe

essere investita ogni anno per porre fine alle fame nel mondo (50.2 miliardi di dollari).

La lotta all’elusione fiscale è dunque oggi una priorità.

Riportiamo a questo proposito di seguito la scheda costruita con la campagna 005 per la riforma della

finanza.

SCHEDA DELLA CAMPAGNA 005

L’elusione fiscale

Nei termini più generali, un paradiso fiscale è una giurisdizione che permette di evadere o eludere le

leggi e le normative di un altro Paese. Come indica il nome, il caso più ricorrente è legato al

pagamento delle tasse, ma possono presentarsi molte altre situazioni. Infatti sarebbe più corretto

parlare di giurisdizioni “segrete” che non cooperano volutamente con le altre giurisdizioni e le

istituzioni internazionali e quindi agiscono da paradisi fiscali (evasione ed elusione), bancari

(aggiramento di regole contabili e supervisori) e societari (copertura delle informazioni concernenti

la proprietà e l'operato delle aziende).

Solitamente una giurisdizione si specializza nel consentire alcune operazioni finanziarie o giuridiche,

attirando così i capitali e le imprese che possono trarre vantaggio da specifiche lacune nella

legislazione internazionale. Una sorta di nicchia di mercato per imprese, persone facoltose e

organizzazioni criminali che hanno tratto profitto dalla liberalizzazione selvaggia dei mercati, di

quelli finanziari in particolare, e dalla corrispondente mancanza di leggi e di istituzioni che potessero

coprire i vuoti normativi e le “zone grigie” tra le diverse giurisdizioni. Si aggiunga che i vari paradisi

operano strettamente in connessione tra di loro, formando di fatto una rete di giurisdizioni segrete a

livello globale che impatta l'intera economia mondiale (quello che qualcuno vede come un cancro che

sta lentamente divorando l'economia).

2. Qual è il problema

I paradisi fiscali hanno diversi impatti. Tra i più rilevanti:

L’evasione fiscale e la fuga di capitali causano un peggioramento delle finanze pubbliche e

hanno quindi impatti diretti sul welfare e lo Stato sociale. Il peso del fisco è scaricato sulle

fasce più povere della popolazione e sul lavoro. Viene minato il principio di redistribuzione

della ricchezza e quello di progressività fiscale previsto dalla nostra Costituzione.

La stessa segretezza facilita e rende possibile il riciclaggio del denaro e le attività criminali

quali la corruzione o i traffici di armi, di droga e di materie prime.

I paradisi fiscali hanno contribuito all’attuale instabilità finanziaria e al susseguirsi di crisi

finanziarie, e più in generale all'opacità del sistema bancario e finanziario. Si pensi solamente

che la stragrande maggioranza dei fondi hedge e di private equity e di tutte le società veicolo

tramite cui le banche hanno portato fuori bilancio ingenti asset legati alla cartolarizzazione

dei propri crediti – il cosiddetto sistema bancario ombra.

Le imprese multinazionali che possono eludere il fisco tramite i paradisi fiscali esercitano una

concorrenza sleale nei confronti delle piccole imprese che non sfruttano gli stessi meccanismi.

Il perdurare delle ingiustizie richiamate nei punti precedenti genera sfiducia e causa un

indebolimento e il rischio di una vera e propria rottura del “contratto sociale” tra cittadini,

imprese e istituzioni.

I paradisi fiscali sono alla base della “corsa verso il fondo” tra i Paesi per attrarre capitali e

imprese, esasperando un approccio non di cooperazione ma di competizione sfrenata su scala

internazionale.

3. Cosa si sta facendo

Anche a seguito della crisi finanziaria che ha colpito l'economia mondiale ed alla mancanza di risorse

pubbliche per i governi delle economie avanzate in un momento di grave recessione, il tema della

lotta ai paradisi fiscali sembra essere rientrato nell'agenda dei governi e dei vertici internazionali. Al

di là delle dichiarazioni, però, le iniziative concrete sono poche e per lo più inefficaci. Si continua a

identificare i paradisi fiscali con l'isoletta tropicale di turno, mentre nella realtà tali territori sono

spesso nel cuore dell'Europa o comunque legati a doppio filo alle potenze del G20. Si pensi che circa

un terzo dei paradisi fiscali fanno riferimento al Commnowealth e quindi alla City di Londra. E la

stessa area Euro ospita Lussemburgo, Cipro, l'Olanda come ben noti paradisi fiscali, bancari o

societari.

Il lavoro dell'OCSE che pubblica periodicamente delle liste nere e grigie dei Paesi che non cooperano

in ambito fiscale si è dimostrato di fatto incapace di contrastare il fenomeno. Stesso discorso per la

firma di accordi bilaterali che prevedono lo scambio di informazioni in materia fiscale su richiesta di

una delle due nazioni firmatarie.

4. Cosa si potrebbe fare

Le proposte sono diverse. Come in altri ambiti le difficoltà non sono tanto di natura tecnica, quanto

nella volontà politica di realizzarle. Serve un accordo multilaterale, e non una serie di trattati bilaterali,

che preveda uno scambio automatico di informazioni, e non su richiesta. Ancora a monte, occorre

adottare una definizione univoca e stringente di paradiso fiscale su scala internazionale. Enti quali i

trust, che garantiscono un completo anonimato e un'assoluta segretezza, devono essere dichiarati

illegali.

Una delle misure che singolarmente darebbe maggiore impulso alla lotta contro i paradisi fiscali è la

rendicontazione Paese per Paese (Country by Country reporting) dei dati contabili e fiscali delle

imprese multinazionali. Queste ultime devono oggi riportare nei propri bilanci unicamente dati

aggregati per macro-regioni. In questo modo è impossibile sapere cosa avviene in ogni Paese, e in

particolare se le imprese pagano in ogni giurisdizione le tasse dovute per le attività di produzione e

commercio e per i profitti realizzati. L'obbligo di pubblicazione dei bilanci e dei dati relativi a profitti

e tasse pagate in ogni giurisdizione consentirebbe un decisivo salto di qualità nella lotta contro

l'evasione fiscale, la corruzione, il riciclaggio e la criminalità organizzata. Va sottolineato che il

country by country reporting non richiede la cooperazione dei paradisi fiscali, perché le

multinazionali hanno quasi tutte la loro madrepatria in paesi non paradisi e quindi la rendicontazione

cadrebbe nella giurisdizione di questi.

Inoltre è centrale agire anche sulla trasparenza delle informazioni che riguardano la composizione

societaria delle varie imprese (la cosiddetta beneficial ownership), ossia sapere chi sono i veri

proprietari delle imprese. Questa questione si collega strettamente alla lotta al riciclaggio e la

necessità di rendere più stringenti le attuali raccomandazioni internazionali recepite nella legislazione

europea ed italiana (in revisione nel corso del 2013 a Bruxelles). Infine, è anche necessario agire sul

cosiddetto “trade mispricing”, ossia su quella pratica usata dalle multinazionali per alterare in maniera

legale la base imponibile in alcuni paesi spostando i profitti all'interno dello stesso gruppo verso

paradisi fiscali o paesi a più bassa tassazione al fine di pagare meno tasse.

Ancora prima di introdurre nuove normative internazionali, è necessario guardare in casa nostra. Sia

a livello europeo, sia in Italia, partendo dalle imprese nostrane, anche quelle nel quale lo stesso

ministero dell'Economia ha una partecipazione azionaria, e che troppo spesso hanno filiali, sussidiarie

e controllate nei peggiori paradisi fiscali del pianeta. Perché gli organi di controllo non vietano alle

nostre compagnie di realizzare operazioni con tali territori? Perché governi e banche centrali non

impediscono alle nostre banche di aprire filiali offshore?

5. Perché riguarda anche noi?

E’ praticamente impossibile tenere in piedi l’eurozona con all’interno dei paradisi fiscali. Come

abbiamo visto con lo scandalo Luxleaks le imprese cercano di pagare meno tasse possibili in paesi

come il nostro dove il prelievo è molto elevato. Se un’azienda produce 100 in Italia farà di tutto per

dimostrare di produrre 10 spostando fittiziamente 90 in paesi interni all’UE come il Lussemburgo o

altri che offrono condizioni di favore. Influendo in modo pesantemente negativo sui dati

dell’economia italiana.

Più in generale la lotta contro i paradisi fiscali, bancari e societari è una parte fondamentale della

costruzione di un modello finanziario radicalmente diverso, che sia uno strumento al servizio della

società e dell'economia produttiva e operi in maniera trasparente e nell'interesse dei cittadini. Il tema

va quindi esattamente nella stessa direzione dell'introduzione di una tassa sulle transazioni

finanziarie.

Inoltre, così come la tassa sulle transazioni finanziarie la lotta a questi paradisi e chi ne beneficia in

maniera illegittima se non illegale aumenterebbe la stabilità finanziaria a livello nazionale ed

internazionale e ridurrebbe l'invadenza dei mercati finanziari nella sfera produttiva e della finanza

pubblica.

Ancora più direttamente, l'opacità dei paradisi fiscali rende più complessa l'applicazione della tassa

sulle transazioni finanziarie. Viene aperta una possibilità di eludere o evadere la tassa tramite

operazioni di triangolazione, ovvero realizzando le operazioni finanziarie passando da giurisdizioni

che da un lato non applicano la tassa e dall'altro consentono l'anonimato e negano qualsiasi

trasparenza sui flussi finanziari, chi li controlla e il beneficiario finale della singola operazione.

5.Conclusioni

Alla radice dei problemi del sistema economico e finanziario nell’economia globale troviamo tre

malattie “filosofiche” rappresentate da visioni distorte della persona, dell’impresa e del valore che

limitano la fertilità e la generatività del sistema economico e la sua capacità di contribuire pienamente

al bene comune. Il riduzionismo della persona trasforma l’uomo-in-relazione, creato ad immagine e

somiglianza e dunque strutturalmente essere in relazione, e in homo economicus, monade isolata e

paralizzata dalla sfiducia, povera di capitale sociale ed incapace di correre il rischio della relazione

sociale e della cooperazione. Tale riduzionismo oltre ad immiserire il senso dell’esistere impedisce

di generare superadditività nei dilemmi sociali che tipicamente caratterizzano il vivere economico e

sociale.

Nel settore bancario-finanziario tuttavia il problema maggiore proviene dal riduzionismo nella

concezione d’impresa combinato con il riduzionismo nella concezione del valore. La somma dei due

riduzionismi identifica prima erroneamente il fine dell’attività economica nella crescita del Pil e

successivamente, a livello d’impresa, la crescita del Pil nella massimizzazione del profitto. Poiché il

Pil incorpora molte cose che incidono negativamente sulla nostra vita e trascura dimensioni di valore

immateriali fondamentali per il nostro esistere, e poichè il profitto non coincide neanche con il

contributo al PIL dell’impresa ma piuttosto con la fetta di tale contributo appannaggio degli azionisti,

questa doppia scorciatoia “filosofica” su cui si fonda ancora gran parte della cultura economica

produce automaticamente una crescita con diseguaglianze crescenti e incapacità di progresso in

termini di benessere sociale e sostenibilità ambientale.

Nel presente lavoro spieghiamo in particolare come i tre riduzionismi si traducono in finanza in alcuni

problemi specifici. In primo luogo lo scivolamento della missione degli intermediari bancari e

finanziari dal finanziamento dei progetti d’investimento delle imprese (soprattutto di quelle medio-

piccole) alla speculazione a breve termine. Fare credito alle PMI o favorire l’accesso al credito di

persone sprovviste di garanzia patrimoniale è infatti attività a basso rendimento ed alto rischio e

quindi subottimale nell’ottica della massimizzazione del profitto. Non è un caso che le banche più

direttamente orientate alla logica della massimizzazione del profitto prestino meno. La seconda

conseguenza dei tre riduzionismi in finanza è l’abbondanza di capitali “supersonici” (capitali

finanziari utilizzati nel trading ad alta frequenza dove si compiono centinaia di operazioni di acquisto-

vendita al giorno solo per finalità speculative) e la scarsità di capitali “pazienti” (capitali finanziari

che finanziano investimenti reali e attendono pazientemente il risultato del loro investimento).

Il lavoro indica le due direzioni principali del cambiamento per risolvere questi problemi. La prima è

il protagonismo dei cittadini attraverso il voto col portafoglio coerentemente con il principio di

partecipazione e sussidiarietà. Il mercato è fatto di domanda ed offerta e noi siamo la domanda. Il

mercato siamo noi ed ogni volta che acquistiamo e risparmiamo non dobbiamo perdere l’occasione

del magis rappresentata dal premio con la nostra scelta per l’intermediario finanziario alla frontiera

nella creazione di valore socialmente ed ambientalmente sostenibile. Il voto col portafoglio è atto di

autointeresse lungimirante, contagioso e pragmatico. Proprio in finanza è in grado di realizzare il

massimo delle proprie potenzialità attraverso l’operato dei fondi etici che rappresentano oggi una

quota significativa e crescente del risparmio gestito. La seconda direzione d’azione è quella della

riforma delle regole del sistema. Nel nostro lavoro indichiamo come urgenti e prioritarie la tutela

della biodiversità bancaria, con particolare attenzione a quelle forme di intermediari bancari, etici,

solidali e cooperativi che superano la logica della massimizzazione del profitto e per questo motivo

sono più vicini alla missione originaria di servizio all’economia reale e più attenti alla realtà dei

piccoli e dei più deboli nel sistema. Altrettanto importante l’adozione di una tassa molto piccola sulle

transazioni finanziarie in grado di aumentare il costo relativo dell’impiego “supersonico” dei capitali

finanziari rispetto a quello “paziente” ai fini di correggere lo shortermismo e l’eccessiva tendenza

all’attività speculativa sui mercati finanziari.

Un ultimo aspetto chiave riguarda la modifica urgente dei sistemi di remunerazione delle figure

apicali all’interno di banche, imprese e intermediari finanziari. Se tali remunerazioni continuano ad

essere strutturate con una parte eccessivamente alta in variabile con premi legati alla crescita degli

utili la logica della massimizzazione del profitto diventa automaticamente legge, la tendenza ad

assumere rischi eccessivi all’interno di queste organizzazioni diventa regola e i conflitti distributivi

sono esasperati in periodi di bassa crescita.

La voce e l’impegno della comunità dei credenti e di tutti gli uomini di buona volontà su questo fronte

così decisivo ed importante per tutte le altre dimensioni della vita umana è oggi quantomai urgente.

FINE

Appendice 1 I 23 principi etici competitivi di Banca Popolare Etica

Introduzione25

Per alimentare la speranza e stimolare il progresso verso il bene comune non basta indicare l’orizzonte

e ragionare di utopie non incarnate. Bisogna anche tracciare i sentieri che ci avvicinano ad esso ed

abitare i luoghi dove il nuovo si costruisce. Come Comitato Etico di Banca Popolare Etica abbiamo

sentito la responsabilità di dare il nostro contributo nell’assolvere a questo compito (assieme a tutta

la squadra costituita da coloro che si impegnano a contribuire alla crescita dell’istituto) lavorando per

chiarire in 23 punti la differenza tra la Banca e gli altri istituti finanziari. Quella differenza per la

quale tutti i portatori d’interesse sono disposti a sacrificare parte dei loro benefici monetari pur di far

camminare e crescere questo sogno divenuto realtà. Se infatti esiste un premio etico che i portatori

d’interesse sono disposti a corrispondere alla Banca, tale premio etico potrà sussistere ed ampliarsi

quanto più chiariamo, tuteliamo e potenziamo la differenza che Banca Etica rappresenta rispetto al

resto del mondo bancario-finanziario.

I 23 punti individuati sottolineano come Banca Etica rappresenti una forma di impresa sociale

originale che, nell’alveo della tradizione cooperativa, costituisce una risposta nuova alle nuove sfide

del tempo della globalizzazione. Una risposta che innova rispetto a tale tradizione, perché intende

competere con le imprese classiche contendendo loro quote di mercato attraverso l’utilizzo dell’etica

come fattore competitivo. E che estende il principio della mutualità circolare tradizionale in direzione

di una mutualità allargata nella quale i portatori d’interesse garantiscono un beneficio alla Banca,

affinché la stessa lo restituisca non necessariamente a loro stessi quanto piuttosto a soggetti terzi

ritenuti particolarmente bisognosi. Da questo punto di vista Banca Etica fa proprio il concetto di

reciprocità indiretta che rappresenta la scintilla più fertile per la diffusione dei principi di reciprocità

e gratuità.

Tra i 23 punti uno fondamentale è la capacità di Banca Etica di stimolare contagio nella responsabilità

sociale attraverso il “voto col portafoglio” dei risparmiatori e il suo stesso “voto col portafoglio” nelle

scelte di risparmio dei propri fondi di investimento. La storia di questi anni del “pioniere” ha

dimostrato come l’uso dei consumi e dei risparmi per premiare le aziende che sono all’avanguardia

nella promozione della responsabilità sociale ed ambientale è una leva potentissima, e ancora solo

parzialmente utilizzata, che può cambiare radicalmente il sistema economico orientandolo verso il

bene comune. Abbiamo nelle nostre tasche le chiavi dei lucchetti delle nostre catene ma ancora non

lo sappiamo. Il mercato siamo noi e la storia di Banca Etica e l’identificazione e la tutela del suo

vantaggio etico hanno un’importanza fondamentale per fare cultura ed aiutare tutti a comprendere

l’enorme potenzialità che abbiamo per promuovere il cambiamento. I 23 punti descritti in questo

libretto rappresentano infatti il risultato e il compimento della storia della Banca ad oggi, ma solo la

perseveranza e la fedeltà agli obiettivi statutari potranno garantire che il vantaggio etico competitivo

sarà mantenuto o accresciuto in futuro. È una foto di quello che la Banca è e ha realizzato ad oggi. La

garanzia che sarà così o meglio in futuro dipenderà soltanto dalla qualità del cammino che le persone

che danno forma alla Banca sapranno fare.

Un altro punto decisivo del vantaggio etico competitivo (e forse quello più faticoso da perseguire e

salvaguardare) è quello dei processi. Fuori dalla logica perversa del consequenzialismo per cui ciò

che conta è il risultato perseguito a qualunque costo, Banca Etica ha scelto la logica del benessere

partecipativo. Ciò che conta non è solo il risultato ma anche e soprattutto ciò che accade nel tragitto

fatto per raggiungerlo. Nella pazienza di costruire un percorso condiviso dal basso tra i vari portatori

25 Il lavoro è frutto di una riflessione su caratteristiche ed operato della Banca ad opera e

responsabilità del Comitato Etico. Si ringraziano tutte le componenti della Banca, in primis il

Consiglio di Amministrazione ed il presidente Ugo Biggeri per aver discusso con il Comitato nel

merito delle tematiche qui affrontate.

d’interesse sta un’altra delle grandi ricchezze della Banca, da preservare affinché la sua differenza

continui ad essere visibile ed efficace nel tempo.

Leonardo Becchetti

Presidente del Comitato Etico

1) Banca Etica è un'istituzione pioniera nel campo della finanza etica che fa leva sul risparmio

responsabile e sul “voto col portafoglio” per generare processi di contaminazione nell'intero

sistema.

Banca Etica è un’istituzione pioniera nel sistema bancario nazionale che ha fornito stimoli ed

ispirazione a livello europeo ed internazionale. La Banca ha fondato la sua azione su valori unici nel

panorama finanziario per promuovere la responsabilità nell’uso del denaro, facendo propri i principi

enunciati nel Manifesto della finanza etica e solidale.

Ai cittadini soci o semplicemente correntisti o risparmiatori dichiara fin da subito come verrà

impiegato il denaro che hanno deciso di darle in custodia e non pone mai l’accento sul rendimento

economico, bensì sul suo rendimento sociale e ambientale.

Questo aspetto cardine, intorno al quale si sviluppa la Banca, stimola i cittadini ad una scelta orientata

al risparmio responsabile e al “voto col portafoglio”, ossia scelte di consumo e di risparmio che

premiano le aziende capaci di creare valore economico socialmente ed ambientalmente sostenibile.

Una tale base valoriale è una caratteristica determinante per la Banca, dunque da conservare con

attenzione, evitando ogni rischio di messa in discussione o di depotenziamento.

Il sistema bancario tradizionale ha reagito a questo approccio dapprima proponendo prodotti etici o

pseudo tali, nel tentativo di risultare competitivo nei confronti della Banca sui suoi stessi principi; poi

offrendo prodotti con finalità sociali ed ambientali verso i quali si è effettivamente orientata parte

della clientela; infine cercando di costituire banche settoriali eticamente orientate che dovrebbero

rendere più chiare finalità e destinazione delle risorse. Questi nuovi istituti mancano di importanti

requisiti per entrare a pieno titolo nel mondo della finanza etica, quali, ad esempio, la partecipazione

ed il controllo della base sociale e la trasparenza negli investimenti.

Banca Etica pertanto ha cominciato a contaminare il sistema finanziario ed è questo, oltre al proprio

diretto operato, uno degli effetti esterni più importanti della sua azione.

2) L’impresa tradizionale prima fa operazioni finanziarie senza preoccuparsi dei loro effetti

sociali poi prova a sanare i danni tramite la filantropia. La finanza etica sostiene attività da

subito orientate a creare valore economico in modo socialmente ed ambientalmente sostenibile.

Banca Etica dedica attenzione esclusiva ad iniziative che fondano la loro attività sul rispetto delle

persone e dell’ambiente e sulla difesa dei diritti umani, in coerenza con l’articolo 5 dello Statuto

sociale.

Ciò costituisce la caratteristica principale e più innovativa che rende la Banca unica in Italia. Ne

consegue che, dedicandosi prioritariamente a soggetti dell'area non profit, da una parte è obbligata a

maggiori accantonamenti per un settore considerato a torto a maggior rischio, dall’altra dedica la

massima attenzione alle condizioni che offre ai propri clienti, sia sul piano dei costi, sia sul piano dei

servizi, cercando di facilitare le relazioni e aiutare chi ha bisogno con operazioni dedicate.

Ne consegue che l’azione della Banca è opposta a quella del sistema tradizionale. Normalmente infatti

le aziende tendono al massimo profitto, senza badare alle conseguenze negative sul piano sociale, sul

rispetto dei diritti dei lavoratori, sull’ambiente. Poi però usano parte degli utili per sostenere iniziative

sociali, culturali, ambientali o di altro genere, pensando di compensare i danni provocati e di comprare

la simpatia di coloro che beneficiano dei loro contributi. È evidente la contraddizione di questo

sistema che Banca Etica intende contrastare mettendo al primo posto i principi ai quali si ispira,

creando valore economico in modo già socialmente ed ambientalmente sostenibile e procurando

benefici ai soci, ai clienti e alle iniziative che finanzia.

Ciò comporta un bilancio annuale con minori utili, ma un agire che favorisce fin da subito nell’azione

quotidiana i propri clienti e soggetti di riferimento. La filantropia non incide sulle cause delle

sperequazioni sociali e delle criticità ambientali, obiettivo cui invece mira la finanza etica.

3) Banca Etica orienta i suoi finanziamenti verso settori ad alto valore sociale ed ambientale e

applica il concetto di mutualità allargata o reciprocità indiretta.

Per svolgere al meglio la propria azione Banca Etica si è dotata di una rete di valutatori

socio/ambientali in grado di esaminare le caratteristiche qualitative dei progetti da finanziare, nel

rispetto dei propri valori.

La scelta di dedicare esclusiva attenzione ad interventi ad alta valenza socio-ambientale, culturale e

di difesa dei diritti umani, privilegiando il mondo non profit senza escludere altri soggetti, purché

rispettino i principi espressi nello Statuto all’art. 5, risulta lungimirante e capace di incidere sulla

qualità della vita collettiva.

I valutatori socio/ambientali sono un’ulteriore significativa caratteristica del modello Banca Etica,

ancora più innovativa considerando che tale compito è svolto da soci volontari presenti sul territorio.

I valutatori sono inseriti nelle reti locali e sono in stretta relazione con gli altri soci. Per questo motivo

sono in grado di avere una visione completa del progetto da finanziare e del suo impatto sulla realtà

locale e dunque sono messi in grado di esprimere una valutazione seria e completa sulla qualità dello

stesso.

Inoltre il sistema di valutazione, comprendendo anche un parere del Gruppo di Iniziativa Territoriale,

permette di realizzare una delle condizioni che consentono un effettivo controllo dello sviluppo della

Banca da parte dei soci.

Un altro aspetto dei finanziamenti concessi con questo sistema di verifiche e garanzie reticolari, grazie

al denaro raccolto da risparmiatori solidali, è l'applicazione di forme di mutualità allargata: io presto

denaro tramite la Banca a soggetti che applicano i criteri etici all'economia; così facendo realizzo una

forma di reciprocità indiretta applicata al sistema finanziario: il risparmiatore presta risorse alla

Banca, talvolta volontariamente a condizioni di vantaggio, sebbene l'istituto non restituisca un

beneficio allo stesso soggetto ma a terzi, sostenendo così chi lavora con le medesime finalità etiche

del risparmiatore.

4) Banca Etica applica formule di governance partecipata mettendo in pratica strumenti di

democrazia economica (Organizzazione Territoriale dei Soci, organismi elettivi).

L’ Assemblea dei soci è il momento più importante della vita e del governo di Banca Etica ed è il

punto d’arrivo di tanti percorsi partecipativi che coinvolgono i soci nella gestione della Banca. Questa

modalità collettiva di fare impresa è una delle sue peculiarità, ispirata ai principi della finanza etica e

della cooperazione.

La partecipazione dei soci organizzati attraverso i Gruppi di Iniziativa Territoriale è impegnativa e

richiede risorse umane ed economiche, ma è una delle principali garanzie dell’indipendenza di Banca

Etica, della sua capacità di interagire con i territori in cui opera e di crescere con l’azionariato

popolare.

Tra i percorsi partecipativi più significativi che caratterizzano la governance vi è la modalità del

rinnovo del Consiglio di Amministrazione attraverso l’individuazione dei candidati che si presentano

e vengono votati dall’Assemblea dei soci, frutto di un lungo lavoro di confronto e discussione.

Analogo percorso avviene per l'elezione dei componenti del Comitato Etico.

Accanto al Consiglio di Amministrazione e al Comitato Etico altri organismi elettivi sono i

Coordinamenti di area, il Collegio Sindacale, il Comitato dei Probiviri: tutti insieme compongono un

sistema di partecipazione e governance unico nel settore bancario.

L’interazione tra l'organigramma della struttura imprenditoriale e la vitalità associativa e

partecipativa dei soci è stimolata dalla costruzione e dall’aggiornamento di un apposito diagramma

associativo.

Anche la discussione sui bilanci rappresenta un punto di arrivo di un percorso partecipato, il cui

obiettivo deve essere quello di integrare il bilancio civilistico con quello sociale, un modo per dare

un’anima ai numeri, o meglio rendicontare sui risultati sociali della Banca accompagnandoli con i

numeri della loro sostenibilità.

Per il mantenimento di una viva realtà di partecipazione rimane aperta la necessità di rafforzare forme

di governance condivisa, che può fare leva sui vari organi e livelli intermedi di Banca Etica,

prevedendo un maggiore spazio per la rete dei GIT, che rappresentano il presidio più diretto di

animazione e collegamento con le realtà locali.

5) Banca Etica si dota di organi di controllo autonomi ed elettivi (Comitato Etico,

Coordinamento soci).

Il sistema di governance di Banca Etica è caratterizzato da alcuni organi di controllo, di elaborazione

di proposte e di partecipazione democratica che sono autonomi ed elettivi: il Comitato Etico, il

Coordinamento dei soci ed i Forum d’Area.

La Banca fornisce a questi organi strumenti e informazioni per lo svolgimento dei compiti di verifica,

analisi e proposta che caratterizzano la gestione di un istituto bancario innovativo.

Comitato Etico

Il Comitato Etico è un organismo con funzione consultiva e propositiva finalizzato a garantire che lo

stile di lavoro e le scelte strategiche ed operative della Banca siano in coerenza con i criteri di eticità

enunciati nel suo Statuto e con i principi sanciti nel Codice Etico entrato in vigore nel maggio 2010.

Dopo l'attivazione nel novembre 2010 dell'Organismo di Vigilanza, con funzioni di controllo sia in

relazione a quanto previsto dal D. Lgs. 231/2001 sia in relazione all'applicazione e all'adeguatezza

del Codice Etico, il Comitato Etico elabora indicazioni in merito alle scelte strategiche e collabora

con l'Organismo di Vigilanza riguardo all'applicazione e all'adeguatezza del Codice Etico; continua

inoltre a prestare particolare attenzione alle attese, ai quesiti e alle istanze di coerenza etica espresse

dalla base sociale.

Coordinamento soci

Per facilitare le opportunità che le persone hanno nell'essere soci, lo Statuto di Banca Etica prevede

una dimensione locale (la Circoscrizione e il GIT), una dimensione di area interregionale (il

Coordinamento d’Area e il Forum d’Area) e una dimensione di raccordo nazionale (Interforum).

Le Circoscrizioni raggruppano i soci di un territorio che, riuniti in assemblea, eleggono un GIT

(Gruppo di Iniziativa Territoriale), i cui membri a loro volta nominano un coordinatore. Il GIT ha la

funzione di diffondere la cultura della finanza etica, di cogliere gli stimoli provenienti dal territorio e

di garantire l'informazione sulle attività della Banca.

Il Coordinamento di Area è costituito dai coordinatori dei GIT facenti parte di un'area. Alle

tradizionali quattro aree italiane (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e isole) dal 2013 si è aggiunta

l'area spagnola.

6) Banca Etica applica principi di partecipazione nelle scelte gestionali attraverso forme di

collaborazione attiva tra soci ed operativi tramite uno strumento di programmazione

denominato “comunità di azione”.

Uno dei principi fondamentali della finanza etica consiste nel favorire e garantire la partecipazione al

progetto di tutti i soggetti aderenti, nelle forme e con le modalità innovative che il movimento va

elaborando.

Banca Etica opera per costruire insieme gli strumenti che permettano un nuovo stile di gestione

democratica delle risorse economiche, in quanto nella sua visione il denaro deve servire per il

raggiungimento di obiettivi collettivi e non solamente per interessi personali.

Fin dalla sua fondazione la Banca ha cercato di sperimentare forme di intervento che sviluppassero

questo aspetto, facendo leva da una parte sulla professionalità dell’area operativa e, dall'altra, sul

ruolo di interfaccia che i soci interpretano sul territorio, predisponendo i contatti, lavorando con le

realtà locali e occupandosi della valutazione socio-ambientale.

Su queste basi si sono sviluppate a livello territoriale esperienze diverse, dalle più semplici, quale la

verifica anagrafica dei soci, a quelle più strutturate, quasi sempre relative al microcredito.

Si è constatato con questi esperimenti come la condizione irrinunciabile per la riuscita dei progetti sia

la collaborazione tra soci e dipendenti, così che sul territorio l'azione della Banca risulti coerente ed

efficace.

Da qui l'elaborazione di una strategia denominata “comunità di azione”, tesa ad individuare le forme

migliori di collaborazione anche nella fase istruttoria del credito.

Il miglioramento della comunicazione, la condivisione di processi e strategie, la determinazione di

ampliare gli spazi di intervento e la ricerca di soluzioni innovative autorizzate possono dare il giusto

rilievo a questo originale percorso.

7) Banca Etica non effettua attività speculative di qualsiasi genere.

Banca Etica non svolge attività di trading speculativo su strumenti di finanza derivata, né di carattere

proprietario né su mandato dei propri clienti, essendo contraria a questo tipo di utilizzo del risparmio

raccolto. Allo stesso modo non svolge né per proprio conto né su mandato dei clienti attività

speculativa (compravendita a breve termine per lucrare differenze in conto capitale) su attività

finanziarie tradizionali.

La Banca dispone di un portafoglio titoli, in larga parte titoli di stato o obbligazioni, per garantire il

normale flusso di liquidità alla propria attività caratteristica di intermediazione creditizia. Il

portafoglio titoli è investito in attività finanziarie coerenti con la mission della Banca.

Banca Etica utilizza strumenti di copertura dal rischio (soglie di tassi minimi sui prestiti) come

garanzie necessarie per evitare l’erosione della redditività minima indispensabile per assicurare il

funzionamento della propria attività. L’assenza di operazioni speculative riduce uno dei fattori di

rischio principali per il sistema bancario e con essa il rischio che il dissesto della Banca richieda

l’intervento di salvataggio pubblico con costi per i contribuenti, come accaduto durante la recente

crisi finanziaria mondiale in molti paesi.

Per questo motivo la Banca sostiene, tra le altre proposte contenute nella campagna per la riforma

della finanza mondiale, quella di separazione tra banche commerciali e banche d’affari, con divieto

per le prime di trading proprietario. Consapevole della difficoltà di definire e di applicare in maniera

univoca tale proposta, interpreta il divieto di trading proprietario intendendo con quest’ultimo un

comportamento simile a quello da essa adottato tramite la gestione prudente e non speculativa di un

portafoglio titoli per esigenze di liquidità e l'uso di strumenti quali i derivati indiretti solamente per

operazioni di assicurazione e copertura.

8) Banca Etica è trasparente sull'impiego del denaro dei risparmiatori tramite la pubblicazione

dei prestiti alle persone giuridiche.

Banca Etica consente ai cittadini di verificare l’utilizzo dei soldi depositati pubblicando i riferimenti

alle realtà e ai progetti finanziati sul proprio sito internet, dove nel dettaglio vengono specificati

titolarità, importi, finalità e scadenze.

Questa operazione di trasparenza avviene limitatamente alle persone giuridiche in quanto motivi di

privacy impediscono di rendere pubblici i finanziamenti alle persone fisiche. Per gli investimenti

privati sono comunque disponibili dati aggregati di volumi per tipologie di operazioni e territorio.

Questa caratteristica unica si somma alla conoscenza diretta dei finanziamenti che i soci sul territorio

possono esperire tramite la “comunità di azione”, che li vede partecipi dell'istruttoria e della riuscita

dei finanziamenti. Gli stretti rapporti col territorio riducono le tradizionali asimmetrie informative tra

banca e cliente contribuendo al risultato, superiore alla media, che la Banca ha sinora realizzato in

termini di basso livello di sofferenze sui prestiti totali.

In parallelo alla trasparenza l'altra caratteristica di Banca Etica mutuata dai suoi principi fondanti

risiede nella scelta dei campi di impiego del denaro che le viene affidato: è possibile per i risparmiatori

indicare la destinazione privilegiata della raccolta per macro-categorie (es. microcredito,

cooperazione internazionale, cooperazione sociale, ambiente) o scegliere la sottoscrizione di

obbligazioni dedicate al finanziamento di particolari iniziative o ambiti di attività.

In questo modo è possibile per il cittadino verificare l’impegno percentuale della Banca in ciascuno

dei settori di rilevanza sociale ed ambientale che rappresentano l’universo tipico dei crediti erogati.

9) Banca Etica è impegnata nella difesa e promozione della legalità.

La difesa della legalità e lo sviluppo di attività imprenditoriali e culturali che contrastino la presenza

sui territori della criminalità organizzata costituiscono uno dei settori di intervento privilegiati per

l’erogazione del credito da parte di Banca Etica.

Questo posizionamento avviene in coerenza con il primo e principale vantaggio competitivo della

Banca, che le impone di usare la raccolta per finanziare progetti d’investimento che affianchino alla

sostenibilità finanziaria una valutazione positiva dal punto di vista della sostenibilità ambientale e

sociale.

Ritenendo la difesa della legalità una delle questioni prioritarie nel nostro paese, Banca Etica è in

prima linea nel sostenere progetti di imprese e cooperative che gestiscono attività produttive sui

terreni confiscati alle mafie, iniziative che contrastino l'usura o le infiltrazioni criminali nell'economia

e nella società civile, o comunque nel finanziare progetti che abbiano come obiettivo quello della

difesa della legalità e dei diritti civili.

Inoltre l'apparato culturale della Banca, in stretta collaborazione con la sua base sociale, partendo da

queste posizioni ideali sostiene con forza movimenti e campagne per il rispetto della legge e la difesa

e lo sviluppo degli strumenti di democrazia nel nostro paese e nel mondo.

10) Banca Etica si impegna per il Sud d’Italia, dove impiega più di quanto raccoglie.

Il sistema del credito nel Meridione, sia per il mondo delle aziende che per le famiglie, rappresenta

un vero e proprio limite per lo sviluppo dell’economia meridionale. Nonostante da sempre si dichiari

nelle intenzioni l’importanza di politiche di aiuti ed incentivi che dovrebbero costituire un volano di

crescita per le piccole e medie imprese del Sud Italia, nei fatti il costo del denaro è molto più elevato

rispetto alle regioni del Nord e in ogni caso vi è una maggiore difficoltà nell’erogazione dei

finanziamenti.

Gli interessi pagati sui mutui e prestiti a breve termine per le imprese - secondo i dati di Banca d'Italia

relativi al 2012 - variano anche di 3,5 punti percentuali (6,03 Lombardia – 9,31 Calabria), mentre

anche gli interessi riconosciuti sui vari strumenti di risparmio presentano una forbice non indifferente:

meno 40% rispetto al Nord.

Nel Sud si assiste inoltre alla chiusura massiccia di sportelli e uffici bancari, specie nei piccoli centri

e nelle aree dell'entroterra, con ulteriori difficoltà per gli attori dell'economia rurale e solidale.

Banca Etica al contrario ha deciso fino dalla sua fondazione di investire nel Meridione più di quanto

ricava, prestando più di quello che raccoglie sotto forma di risparmi e capitale societario e mettendo

in atto uno sforzo perequativo tra Nord e Sud. Ha inoltre con coerenza deciso di aprire filiali (Palermo,

Napoli, Bari) e uffici dei promotori finanziari in luoghi-simbolo della lotta alle mafie, nonostante i

ritorni di questa scelta siano meno elevati di quelli derivanti dallo svolgimento delle medesime attività

in altre aree del paese.

11) Banca Etica non è orientata al puro profitto e coinvolge nel progetto tutti i portatori di

interesse. È in controtendenza rispetto alle banche tradizionali nel praticare una politica di

concessione di crediti nei periodi di congiuntura economica negativa.

Banca Etica opera in modo circolare e non piramidale gerarchico, cooperativo e non competitivo,

coinvolgendo e valorizzando tutti i portatori di interesse: lavoratori,

azionisti, clienti, consumatori, fornitori, creditori, comunità locali, associazioni, istituzioni pubbliche,

generazioni future. Nel progetto Banca Etica tutti possono essere attori e protagonisti: “L'interesse

più alto è quello di tutti” è il concetto fondante del suo operare.

Banca Etica mette al centro le persone, i diritti, l'ambiente. Riesce a trasformare il denaro in un bene

comune, utile alle collettività per un reale sviluppo umano e sociale, a sostegno delle esigenze

primarie delle comunità e della salvaguardia del creato.

Per far questo e per alleviare le difficoltà provocate dalla crisi finanziaria, la Banca ha operato in

controtendenza rispetto al sistema registrando incrementi nell'erogazione dei crediti verso privati,

associazioni ed imprese di fronte alle riduzioni in atto nel sistema bancario tradizionale nei periodi di

recessione, cercando così di contrastare il declino dell'economia nazionale, specie nei settori di

maggiore utilità collettiva. Nonostante questa impegnativa scelta di campo per sostenere l’economia

reale, la Banca ha costantemente registrato in tutta la sua storia tassi di crediti in sofferenza sul totale

di gran lunga inferiori a quelli del resto del sistema.

Il mondo finanziario odierno, operando solamente per ricercare il livello massimo di remunerazione

degli investimenti, non si preoccupa delle conseguenze non economiche delle scelte economico-

finanziarie, incidendo negativamente sulla vita di intere popolazioni, sul clima, sul rispetto dei diritti

delle persone e dell'ambiente. Tutto questo accade spesso senza che i risparmiatori ne prendano

coscienza; l'attività culturale della Banca intende aiutare il cittadino ad accrescere il proprio grado di

consapevolezza circa gli effetti che le proprie scelte di consumo e di risparmio possono avere sul suo

benessere e sul bene comune.

12) Banca Etica ha il controllo di una società di gestione del risparmio, Etica sgr, che applica il

“voto col portafoglio” in Borsa, scegliendo per i suoi fondi comuni solo aziende che rispondano

ai criteri più elevati di responsabilità socio-ambientale d'impresa.

L'azione operativa e culturale di Banca Etica è orientata alla Responsabilità Sociale d'Impresa; quindi

riconosce e premia come valore sociale la responsabilità che ogni azienda o organizzazione si assume

per tutte le conseguenze delle proprie decisioni e dei propri comportamenti, oltre che sul piano

economico, anche su quello sociale e ambientale, lungo tutta la catena di creazione di questo valore.

Il valore sociale, coerentemente con l'approccio di valutazione delle "conseguenze non economiche

delle azioni economiche" proprio della finanza etica, si estende a tutti i portatori di interesse.

L'obiettivo ambizioso e prioritario per le imprese sostenibili è quello di realizzare, non sulla carta, ma

con concretezza, trasparenza e coerenza le tre dimensioni della sostenibilità: economica, ambientale

e sociale.

Per far sì che il mondo dell'economia reale si avvicini a questo obiettivo non solamente per motivi

commerciali ma per convinzione, le istituzioni della finanza etica provano a contaminare anche il

mondo della Borsa con i loro criteri di eticità.

Di conseguenza Etica sgr, la società di gestione del risparmio fondata e controllata da Banca Etica,

per comporre i portafogli dei suoi fondi di investimento ha deciso di scegliere solo le imprese che,

superando le analisi di due organismi (Eiris ed il proprio Comitato Etico), raggiungono i massimi

punteggi nella valutazione di Responsabilità Sociale d'Impresa. In questo modo il “voto col

portafoglio” di Etica sgr prova ad aiutare società civile, attori economici e istituzioni a gettare le basi

per un cambiamento del sistema finanziario attuale.

13) Banca Etica raccoglie dalla clientela, tramite Etica Sgr, fondi di garanzia per il microcredito

assistenziale e imprenditoriale.

Etica Sgr, la società di gestione del risparmio del gruppo Banca Etica, colloca sul mercato finanziario

un pacchetto di fondi etici certificati denominato Sistema Valori Responsabili, garantiti da una doppia

griglia di valutazione sulla responsabilità socio-ambientale d'impresa. Tra le sue attività, che

comprendono la ricerca e l'analisi delle società quotate e le iniziative di azionariato attivo, spicca la

costituzione di un Fondo di garanzia per il microcredito.

Chi sottoscrive i fondi di investimento di Etica Sgr contribuisce con un euro ogni mille investiti alla

formazione di un Fondo di garanzia grazie al quale Banca Etica può concedere piccoli prestiti a

persone che vogliono avviare iniziative imprenditoriali o che si trovano in stato di bisogno, oppure a

cooperative sociali.

Inoltre Etica Sgr devolve ogni anno a detto Fondo di garanzia lo 0,1% delle commissioni attive di sua

pertinenza.

Con questo sistema il gruppo Banca Etica risulta il maggiore erogatore di microcredito in Italia con

la concessione di diverse decine di finanziamenti di questo genere (le cifre aggiornate si trovano sul

Bilancio sociale della Banca).

Concedere piccoli crediti a soggetti svantaggiati o privi di garanzie patrimoniali nei paesi occidentali

risulta rischioso e molto più costoso in termini di costi fissi di istruttoria per un istituto di credito di

quanto lo è il concedere prestiti tradizionali.

Per questo è necessario predisporre sistemi che diano garanzie a chi non ne ha, ma che

contemporaneamente tutelino il risparmiatore responsabile che affida i suoi denari alla Banca.

Per raggiungere questi obiettivi, ma anche per soddisfare i principi di mutualità e di sostenibilità

perseguiti da Banca Etica, vengono affiancate al prestito forme di assistenza e di educazione

finanziaria nei confronti dei beneficiari.

La Banca può, oltre ai meccanismi posti in atto da Etica sgr, costituire riserve a garanzia dei prestiti

in partnership con altri attori, enti pubblici, associazioni di carattere nazionale o locale, individui che

desiderano contribuire volontariamente, oppure può autonomamente accumulare risorse finanziarie

per istituire questo essenziale strumento.

14) Banca Etica effettua attività di azionariato critico e di azionariato attivo nei confronti delle

imprese quotate in Borsa.

Banca Etica per prima ha portato in Italia una metodologia di interazione con le imprese quotate in

Borsa mutuandola dalla esperienza di istituzioni internazionali, attuando politiche e modalità di

azionariato critico e di azionariato attivo nei confronti delle imprese quotate, in particolare attraverso

la Fondazione Culturale Responsabilità Etica (azionariato critico) e Etica Sgr (azionariato attivo).

L'azionariato critico consiste in una forma di intervento e di pressione nei confronti di imprese

responsabili di particolari violazioni dei diritti umani, sociali o ambientali e si concretizza tramite

l’acquisto di poche azioni dell’azienda in questione così da poter partecipare alle assemblee dei soci,

prendere la parola per interventi critici e stimolare riflessioni al fine di apportare cambiamenti tesi a

migliorare gli aspetti sociali, ambientali e di governance dell’impresa stessa. Si tende inoltre a

stimolare la consapevolezza sui diritti e sui doveri degli azionisti, affinché questi assumano piena

responsabilità in merito alle modalità di realizzazione dei profitti ed alle conseguenze dei loro

investimenti, nonché agli impatti negativi che le multinazionali stanno producendo nella vita delle

comunità dei territori in cui operano.

Contemporaneamente sul versante dell'azionariato attivo Banca Etica, tramite la Fondazione ed Etica

Sgr, implementa azioni di dialogo con i vertici delle aziende presenti nell'universo investibile dei suoi

Fondi e già in possesso di buoni livelli di responsabilità sociale d'impresa, allo scopo di spingerli ad

adottare nuovi impegni concreti e attivare comportamenti ancora più responsabili.

15) Banca Etica riconosce il premio etico attribuitole dai soci grazie a tassi di interesse più

contenuti, garantendo loro l'uso responsabile del denaro e condizioni medie bancarie più basse.

Banca Etica, grazie alle sue caratteristiche di istituzione finanziaria diversa che applica criteri di

gestione del denaro orientati ai principi descritti in questo documento e nella sua carta dei valori,

riceve dai risparmiatori un consistente premio etico derivante dalla loro accettazione di una redditività

più modesta.

Questo valore aggiunto monetario consente alla Banca di operare con modalità leggere, senza doversi

indebitare nei confronti del sistema bancario tradizionale e senza lanciarsi in operazioni speculative,

limitando il suo lavoro alla tradizionale attività bancaria, consistente nel raccogliere il denaro dei

risparmiatori e di prestarlo ad associazioni, imprese e privati cittadini.

Detto premio etico dimostra concretamente la fidelizzazione dei soci nei confronti di Banca Etica che

in cambio si impegna - oltre che a compensare indirettamente i soci attraverso il finanziamento di

realtà ad alto valore sociale ed ambientale secondo il principio di mutualità indiretta - ad assicurare

alla sua base sociale nuovi strumenti di democrazia finanziaria insieme a riconoscimenti economici

concreti.

La parte più significativa e più ambita dai soci è quella relativa alle forme di partecipazione e di

controllo che Statuto e regolamenti della Banca garantiscono consentendo loro un effettivo

coinvolgimento nelle attività dell'istituto e nella sua governance.

Si va dalla semplice partecipazione alla vita associativa in qualità di soci attivi con la facoltà di

impegnarsi nei Gruppi di Iniziativa Territoriale, alla possibilità di promuovere la finanza etica come

“cantastorie”, all'opzione di diventare valutatori socio/ambientali con l'incarico di analizzare i progetti

da finanziare, alla presenza attiva nei Coordinamenti di area, alla possibilità di candidare e venire

eletti negli organi deliberanti e di controllo della banca.

L'altro aspetto della contropartita al premio etico, quello economico, viene praticato tramite

condizioni bancarie migliorative viste come riconoscimento di un rapporto di reciproca fiducia e

mutualità: minori costi di esercizio (sui conti correnti, sulle carte di credito, su commissioni varie)

oppure condizioni migliorative sui prestiti concessi (tassi più bassi, condizioni privilegiate per

categorie, minori spese) o ancora prodotti riservati ai soli soci della Banca.

A queste facilitazioni commerciali si devono aggiungere le rivalutazioni periodiche delle quote sociali

che, in presenza di sufficienti utili di bilancio, sono tese a rivalutare il capitale sottoscritto dal socio.

16) Banca Etica svolge il 100% della sua attività per fini sociali e non speculativi e ha costruito

presidi sia statutari che amministrativi per garantire il rispetto di questo principio.

Banca Etica nasce sulla scorta dei criteri base della finanza etica riguardo alle transazioni finanziarie

ed alla gestione del denaro.

La rivoluzione delle tecnologie di comunicazione ed informazione e la globalizzazione delle

economie e dei mercati hanno aumentato enormemente volumi e velocità delle transazioni finanziarie

accrescendo significativamente il potenziale delle operazioni speculative con ricadute devastanti in

termini di ingiustizia sociale e di un modello di sviluppo dissipativo indifferente ai limiti del pianeta.

L'esistenza di istituti di finanza alternativa in vari paesi del mondo, la difficile situazione economica

italiana e l'evidente necessità di fornire credito a settori importanti e trascurati dal sistema creditizio

quali il volontariato sociale, la cooperazione, il commercio equo, hanno indotto alcuni pionieri a

intraprendere il percorso che ha portato alla fondazione in Italia di Banca Popolare Etica.

La Banca ha da subito inserito nel suo Statuto i principi classici della finanza etica: la partecipazione,

la trasparenza, l'accesso al credito come diritto, l'efficienza e l'attenzione alle conseguenze non

economiche delle attività economiche. Esiste poi un principio non scritto, perché implicito nell'idea

fondante, che le impone l'obbligo morale di svolgere l'intera sua attività all'interno della creazione di

valore sociale.

Da questo scaturisce un impegno preciso a finanziare progetti ed associazioni che si pongano come

obiettivo il miglioramento dell'uomo e della società negli ambiti previsti dallo Statuto: la

cooperazione sociale, la cooperazione internazionale, l'ambiente, la cultura ed il tempo libero.

Questo vale anche per i finanziamenti alla persona, previsti soltanto per motivazioni di accrescimento

della condizione personale e familiare dei soggetti: (microcredito imprenditoriale, microcredito

sociale, prima casa, ecc.).

Garanti di questa linea sono gli innovativi organismi interni alla Banca quali il Comitato Etico e

l'Organizzazione Territoriale dei Soci, che la differenziano dalle banche classiche.

17) Banca Etica gestisce eticamente e correttamente il proprio portafoglio titoli, che pubblica

nel bilancio sociale.

Qualsiasi banca investe la propria liquidità al netto degli impieghi, per non lasciarla infruttifera, in un

portafoglio titoli che comprende svariate forme di investimento atte a far fruttare il denaro dei

risparmiatori procurando utili all'istituto.

Come e dove una banca investa non è quasi mai reso noto nel dettaglio; di solito si tende ad acquisire

prodotti molto remunerativi prescindendo dalla loro provenienza o strumenti che servano a finanziare

imprese o settori collegati alla banca stessa o suoi partner.

Anche Banca Etica adotta questa forma di utilizzo delle eccedenze di liquidità allo scopo di non

lasciare improduttivo il capitale dei risparmiatori e di costituire le riserve necessarie per fronteggiare

eventuali richieste di rimborso dei depositi ed altre necessità operativo/gestionali, quali le richieste di

utilizzo dei finanziamenti deliberati ma non ancora erogati.

Però lo fa applicando anche a queste operazioni i criteri di esclusione e di inclusione previsti dai

dettami della finanza etica, autonomamente adottati da Banca Etica e controllati dai suoi organi di

vigilanza nonché dalla sua base sociale.

Ciò è reso possibile in quanto il principio della trasparenza viene ottemperato dalla Banca tramite la

pubblicazione nel Bilancio Sociale dell'intero portafoglio titoli, consentendo in questo modo forme

democratiche di controllo non consuete in ambito finanziario ma indispensabili in un'ottica di

esercizio coerente della finanza etica.

In sostanza la composizione del portafoglio titoli di proprietà di Banca Etica, che ha comunque una

funzione secondaria rispetto agli impieghi, comprende: titoli di stato (di stati con rating etico

soddisfacente) in misura largamente prevalente, fondi di Etica Sgr (società di gestione del risparmio

del gruppo), prestiti obbligazionari di Banche di Credito Cooperativo o di istituti appartenenti al

mondo della finanza etica, quote di capitale di organizzazioni con alto rating etico.

Un giusto mix di questi prodotti da parte della Tesoreria consente di raggiungere obiettivi di

flessibilità nella gestione economica ma soprattutto garanzie di maggiore sicurezza negli

investimenti, anche grazie al fatto che Banca Etica, applicando detti criteri, resta al di fuori del mondo

opaco della speculazione finanziaria.

18) Banca Etica non ha sedi nei paradisi fiscali.

Banca Etica, in linea con i propri valori e con le prassi che ha adottato, non detiene sedi nei paradisi

fiscali, cioè in quelle giurisdizioni che permettono di evadere o di eludere le leggi e le normative

riguardanti le tassazioni, la trasparenza, la leale concorrenza sul mercato.

I paradisi fiscali sostengono infatti un sistema di potere finanziario, economico e politico che agevola

il riciclaggio del denaro sporco, l’evasione fiscale di grosse cifre sottratte ai bilanci pubblici di paesi

sia ricchi che poveri, il segreto bancario che alimenta attività criminali, lo sfruttamento umano,

l’irresponsabilità verso l’ambiente. Creando un indebito vantaggio fiscale per le grandi imprese che

sfruttano solitamente questi meccanismi per eludere il fisco a svantaggio delle imprese medio-piccole

e delle popolazioni.

Mentre il sistema bancario internazionale nel suo complesso si serve abbondantemente di tali servizi,

Banca Etica ha rifiutato ad esempio di accettare capitali “sanati” dallo Scudo fiscale, in linea con

quanto esigono coloro che scelgono di diventare suoi clienti: che sia garantita la provenienza lecita

delle somme depositate e la piena tracciabilitá del percorso del denaro.

Nelle ultime elezioni, attraverso la campagna “Cambiare la finanza per cambiare l’Italia”, Banca

Etica ha richiesto esplicitamente ai futuri leader politici l’impegno nella regolamentazione di nuove

norme bancarie e finanziarie, tra cui l’adozione di misure atte a contrastare la fuga di capitali verso i

paradisi fiscali e la riduzione della presenza delle società italiane controllate dal Ministero del Tesoro

nei paesi in cui si effettuano pratiche di elusione ed evasione fiscale, anticipando in questo le prese

di posizione nella medesima direzione di organismi internazionali come l’OCSE. Ci si aspetta che

alle promesse giunte da molte parti politiche italiane ed internazionali seguano misure adeguate.

19) Banca Etica è una realtà unica nel dotarsi di un'area socio-culturale e di una Fondazione

Culturale che diffondono idee e prassi della finanza etica e creano capitale sociale ed umano.

Dotandosi di un’area socio-culturale Banca Etica ha introdotto ulteriori processi innovativi nel

sistema bancario italiano. Tenendo l’etica al centro del proprio operato, come concetto dinamico e

non statico, la Banca ha estrinsecato il bisogno sia di continue elaborazioni culturali che di percorsi

partecipativi e di condivisione con i propri compagni di viaggio sui temi che caratterizzano la finanza

etica.

L’area socio-culturale ha tra i propri obiettivi quello di cooperare con le diverse funzioni aziendali e

con la base associativa al fine di coniugare al meglio le specificità ideali e quelle tecnico/operative

della Banca. Essa ha inoltre il compito di proporre strategie ed azioni che rendano visibili i principi

etici affinché si incarnino nell’operatività, mettendo in atto processi di responsabilità sociale

condivisa al fine di contribuire ad una crescita economica etica e sostenibile.

Poiché non esistono altre esperienze bancarie caratterizzate dalla presenza di questa area, ci si muove

in un ambito innovativo che, come tale, richiede un continuo lavoro di ricerca, studio, formazione e

sperimentazione.

Un contributo prezioso in questa direzione proviene dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica

che supporta la ricerca relativa a strumenti di sviluppo di finanza etica e che è impegnata in campagne

di sensibilizzazione e coinvolgimento sulle scelte etiche per una finanza al servizio dello sviluppo

umano, sociale e ambientale.

20) Banca Etica mantiene un differenziale salariale molto più contenuto rispetto al resto del

sistema.

La retribuzione economica in Banca Etica, determinata in base al Contratto nazionale di lavoro e alla

funzione professionale specifica del lavoratore, è orientata a garantire un livello di vita dignitoso per

il collaboratore e la sua famiglia. Sobrietà ed equità sono due valori che devono essere presenti anche

nella sfera retributiva, senza penalizzare il riconoscimento del merito, delle competenze e del carico

di responsabilità.

Il rapporto tra la retribuzione più bassa riconosciuta ai lavoratori e la retribuzione più alta riconosciuta

ai dirigenti non deve superare, per deliberazione dell'Assemblea dei soci, il rapporto di uno a sei. Su

istanza avanzata da un gruppo di lavoratori l'Organismo di Vigilanza ha verificato che nel 2011 tale

rapporto è stato di 4.80, nettamente inferiore anche a quello praticato in Europa dalle altre banche

etiche, per non parlare dei moltiplicatori nell'ordine delle centinaia o delle migliaia in vigore in molte

grandi banche, multipli che rappresentano vere e proprie rendite che non hanno nulla a che fare con

la produttività di chi ne beneficia. Gli effetti dell’applicazione di questa politica di contenimento dei

differenziali salariali sono che le figure apicali e di responsabilità hanno retribuzioni notevolmente

inferiori alla media di mercato. Per contro le posizioni dei livelli più bassi sono poco penalizzate e

compensate da una particolare attenzione alla conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.

L'intento è di fidelizzare il lavoratore sul piano della condivisione valoriale della mission, non su

quello della offerta di redditi più elevati.

Banca Etica si astiene dall'adottare meccanismi di incentivazione per i dirigenti, pratica che, collegata

ai ben noti meccanismi delle stock options, ha prodotto nel mondo finanziario sperequazioni

scandalose e deprecate dall'opinione pubblica. Un correttivo a questo sistema fuori controllo è stato

deciso dall'Unione Europea: nel 2014 entra in vigore una norma che fissa come limite massimo ai

bonus dei banchieri il doppio dello stipendio fisso.

Nel caso di Banca Etica la parte variabile del trattamento economico per i dirigenti non è superiore

al 15% del compenso totale ed è correlato ai risultati aziendali raggiunti dalla Banca, alle

responsabilità individuali e alla qualità del lavoro svolto. L'aspetto retributivo di dirigenti e lavoratori

viene considerato nell'ottica per cui tutti i portatori di interesse del sistema Banca Etica devono

acquisire la consapevolezza di lavorare per un progetto alto e “altro” di finanza, del quale la società

ha bisogno per tentare di rompere l'egemonia di poteri finanziari dediti soltanto alla massimizzazione

del profitto, prescindendo dalle conseguenze ambientali e sociali.

21) Banca Etica applica un contratto per i promotori finanziari, che qui sono chiamati banchieri

ambulanti, in virtù del loro ruolo anche culturale.

Una delle specificità di Banca Etica è la figura del Banchiere Ambulante o Promotore Finanziario,

che garantisce la presenza della Banca in aree sprovviste di filiali. Il rapporto di lavoro dei Banchieri

Ambulanti è regolato dal Contratto di agenzia, che garantisce autonomia nella gestione dei tempi e

delle modalità di lavoro. Rispetto ai tradizionali promotori finanziari però il Banchiere Ambulante di

Banca Etica non viene retribuito percentualmente solo in base all'ammontare delle operazioni

commerciali da lui concluse.

Nel corso del 2012 è entrato in vigore un nuovo contratto che ha costituito un modello innovativo a

livello nazionale nell'ambito dei contratti di agenzia, tanto da rappresentare un punto di riferimento

anche per le altre banche.

È stata recepita l'indicazione del Comitato Etico di evitare il rischio che il lavoro del Banchiere

Ambulante fosse orientato soltanto verso obiettivi e risultati di tipo economico, in quanto, come per

tutti gli operatori della finanza etica, si è ritenuto indispensabile valorizzare adeguatamente il loro

coinvolgimento nell'attività socio-culturale e nello sviluppo della Banca. Questo si può ottenere

attraverso un proficuo rapporto con i GIT, che sono un imprescindibile punto di riferimento sul

territorio; senza Banchiere Ambulante un GIT si spegne e si demotiva, ma senza un GIT un Banchiere

Ambulante stenta a mettere radici nel territorio; da ciò deriva che il Banchiere Ambulante deve saper

coniugare attività di promozione finanziaria propriamente detta e attività di promozione culturale

della finanza etica.

Banca Etica instaura con i Banchieri Ambulanti un rapporto di collaborazione duraturo e garantisce

loro una parte fissa di compenso. La parte variabile della retribuzione del Banchiere Ambulante, non

superiore al 55% del totale, punta alla valorizzazione della professionalità e delle masse amministrate,

alla componente socio-culturale della sua attività, al sostegno delle spese straordinarie sostenute per

lo svolgimento delle prestazioni lavorative, alla copertura in caso di malattia o maternità ed alla

previdenza integrativa.

22) Banca Etica è indipendente e autonoma e, avendo forma cooperativa, il meccanismo “una

testa un voto” garantisce la coerenza dell'assetto proprietario rispetto alla mission dichiarata.

Banca Etica all'atto della sua fondazione, per poter operare su tutto il territorio nazionale, ha scelto di

appartenere al mondo delle Banche Popolari, istituzioni finanziarie sorte in Italia a partire dal 1864

al fine di erogare credito ad operai, artigiani e piccoli industriali che, all'indomani dell'Unità d'Italia

e dopo aver sperimentato il mutualismo previdenziale tipico delle società di mutuo soccorso,

sentivano il bisogno di unirsi con lo scopo di concedersi reciprocamente i finanziamenti necessari

alla loro attività.

Da qui la forma di società cooperativa per le Banche Popolari, che fin da subito dimostrarono, con la

loro feconda presenza nelle realtà locali, di costituire un'istituzione di pubblica utilità, in quanto,

mentre diffondevano le idee del risparmio e della previdenza, si ponevano come obiettivo di

contribuire allo sviluppo economico e civile del territorio di appartenenza.

Una delle motivazioni principali della crisi finanziaria attuale va individuata nel fatto che il sistema

bancario ha rinunciato al suo originario servizio all'economia reale per subordinarsi alla logica della

finanziarizzazione globale e proiettarsi alla ricerca del massimo profitto a breve termine e

dell'incremento di valore per gli azionisti. Questi processi sono stati preceduti dallo smantellamento

della democrazia interna agli istituti bancari, garantita dal principio “una testa un voto”.

Meccanismo che, oltre a rappresentare un fondamentale elemento di uguaglianza effettiva tra tutti gli

aderenti, impedisce di fatto qualsiasi tentativo di “scalata” alla proprietà di una banca da parte di

gruppi di interesse amici o nemici, conservandola nelle mani della sua base sociale.

A questi principi fondativi di democrazia economica Banca Etica si attiene, poiché li considera

garanzia di indipendenza in un mercato finanziario sempre più concentrato e condizione per una

crescita coerente con la sua identità, i suoi valori, la sua mission.

23) Banca Etica è un’esperienza riconosciuta ed apprezzata a livello internazionale, si impegna

attivamente per la diffusione e fa parte di reti ed attività volte alla promozione della finanza

etica a livello internazionale. Sta allargando le sue attività in Spagna a seguito di un percorso

cooperativo partecipato.

Affinché le idee del “voto col portafoglio”, dell’economia civile e delle imprese pioniere che creano

valore economico in modo socialmente ed ambientalmente sostenibile si diffondano e producano un

nuovo modello economico che metta al centro l’obiettivo del ben-vivere e il progresso verso il bene

comune è necessario fare massa critica per incidere. Banca Etica è consapevole di ciò e, sin dalle sue

origini, si è impegnata attivamente per lo sviluppo e la crescita di esperienze simili a livello

internazionale lavorando attivamente all’interno di reti della finanza etica europea come Febea

(http://www.ethicalbankingeurope.com/).

Recentemente assieme a banche etiche di altri paesi ha dato vita alla Global Alliance for Banking on

Values (http://www.gabv.org/), una rete di banche etiche mondiali che operano in 25 nazioni

incidendo sulla vita di più di 10 milioni di persone con un attivo che complessivamente supera i 50

miliardi di dollari. La G.A.B.V. ha recentemente dimostrato dati alla mano di aver fatto sensibilmente

meglio negli ultimi dieci anni delle banche sistemiche, troppo grandi per fallire, in termini di capacità

di utilizzo dei propri asset per l’erogazione del credito e l’impegno a promuovere sostenibilità sociale

ed ambientale.

Nel solco di questo obiettivo di internazionalizzazione la Banca sta progressivamente diventando una

banca etica che opera a livello sovranazionale allargando la propria attività in Spagna in partnership

con Fiare, organizzazione che condivide gli stessi obiettivi e principi ideali.

Appendice 2

REGOLE ETICA SGR

in base a obiettivi predefiniti e approvati dal Consiglio di amministrazione;

• le performance realizzate in campo socio-ambientale.

Etica SGR auspica che:

• le remunerazioni degli amministratori esecutivi e dei top manager siano configurate secondo linee

guida semplici, chiare e comprensibili da tutti i portatori di interesse dell’impresa;

• la componente variabile e la componente fissa siano riportate, nel loro ammontare, in modo chiaro

e separato e adeguatamente bilanciate in funzione degli obiettivi strategici e della politica di

gestione dei rischi dell’impresa, tenuto conto anche del settore di attività d’impresa e delle

caratteristiche intrinseche

dell’attività stessa;

• gli obiettivi di performance, cui sono legate le parti variabili delle remunerazioni, siano

predeterminati, oggettivamente misurabili e collegati alla creazione di valore per gli azionisti nel

medio-lungo periodo;

• le componenti variabili di breve e di lungo periodo abbiano limiti massimi e soglie di

raggiungimento minimo degli obiettivi per l’erogazione delle stesse;

• la componente variabile di lungo periodo sia erogata dopo un lasso di tempo adeguato (in funzione

delle attività e dei rischi d’impresa) rispetto al momento della maturazione;

• nel caso di ricorso a piani di remunerazione basati su strumenti finanziari, le azioni, le opzioni e

ogni altro diritto as segnato abbiano un vesting period di almeno tre anni;

• venga chiaramente indicata la presenza di clausole di clawback riferite agli incentivi percepiti dagli

amministratori e dai dirigenti con responsabilità strategiche della Società;

• ogni aumento significativo della remunerazione da un anno con l’altro sia ampiamente spiegato e

giustificato, anche nel caso in cui ci siano stati cambiamenti nella struttura societaria;

• vengano adottati parametri di responsabilità socio-ambientale nella definizione della parte variabile

delle remunerazioni;

• ci sia un riferimento relativo alla remunerazione media di mercato per incarichi analoghi e al ricorso

alla consulenza fornita da società specializzate nella definizione di politiche retributive;

• venga pubblicato, nei documenti societari, il dato relativo alle differenze esistenti tra il salario

dell’amministratore delegato o del direttore generale e il salario medio dei dipendenti dell’impresa;

• la remunerazione degli amministratori non esecutivi sia commisurata all’impegno richiesto e alla

partecipazione a uno o più comitati, che sia slegata da risultati economici dell’impresa e che non

comprenda piani basati su azioni;

• il Comitato per la remunerazione, composto da amministratori indipendenti con competenze

adeguate in materia finanziaria o di politiche retributive, svolga un efficace compito di definizione

delle proposte dei compensi degli amministratori e dei dirigenti con responsabilità strategiche,

da sottoporre all’approvazione del Consiglio di amministrazione, valutandone periodicamente

l’adeguatezza, la coerenza e la concreta applicazione di quanto indicato nella politica di

remunerazione, anche in riferimento all’effettivo raggiungimento degli obiettivi di performance.

Desjardins in Canada ha un attivo di 223 miliardi di dollari canadesi, 44,900 addetti e 5,6 milioni di

soci. Il gruppo eroga un milione al giorno in borse studio e donazioni. Bloomberg ha definito nel

2014 Desjardins la prima banca più solida dell’America del Nord e la seconda del mondo (WCM,

2014). “Come cooperativa non guardiamo solo ai profitti a breve ma all’impatto di lungo termine.