Decarolis - specimen antologico

3

Click here to load reader

Transcript of Decarolis - specimen antologico

Page 1: Decarolis - specimen antologico

Il puro artista della luce “Essere un grande artista non significa nulla: essere un puro artista, ecco ciò che importa”. Così scriveva, agli inizi del Novecento, il poeta Dino Campana. Un “puro artista” è ben diverso da un “artista puro”. Quest’ultimo è tendenzialmente incline a ritagliarsi un “a parte” - squisito ed esclusivo - dalla vita; a guardare le cose dall’alto in basso, a non sporcarsi le mani, ostaggio delle “gabbie dorate” che lui stesso si è creato tutto intorno. Un “puro artista”, invece, è un alchimista che s’immerge nella vita: per carpirne il cuore, il midollo, l’intimo segreto. Un equilibrista che cammina sul filo, senza la rete sotto. Uno che obbedisce solo alle sue voci. Che si resta fedele nel tempo. Che non ha tempo per i “traffici” del tempo, perché il tempo gli basta appena - tanto ne ha bisogno per creare. Il “puro artista” è dominato dalla missione che lo chiama, dal “sacro fuoco” che lo divora dentro. Il livello della sua grandezza, poi, lo riconosci dalla sua umiltà, malgrado i successi e gli allori conseguiti. E resta umile perché mira alle cose supreme. Più in alto poni il tuo obiettivo, più piccolo ti senti ad affrontarlo: tanto maggiore sarà dunque la tua impresa. E resta umano, inoltre, perché sa che c’è la vita dentro l’arte; che se si spezza il filo con la vita, come con gli altri esseri consorti, si inaridiscono le “fonti” - l’arte muore. Il “puro artista” non è soltanto uno che fa arte, ma uno che integralmente è quello che fa. Ed è, spesso, un predestinato. Uno che l’arte stessa sceglie per manifestarsi: uno per mezzo del quale l’arte parla agli uomini. Guido De Carolis ha tutti i segni di questo crisma. La purezza dell’ispirazione; la dedizione assoluta; la schiva umiltà; l’amore profondo e pieno per la vita. È a continuo colloquio con la Natura, che per lui è misura universale, maestra di armonia e guida alla sapienza originaria. Non a caso egli considera gli agricoltori, che la Natura governano e la terra mettono a coltura, alla stregua di “autentici scienziati”. Cultura è coltura. Anche l’artista governa le energie della Natura: è in perenne contatto con le sorgenti vitali, con le forze creative del mondo. I colori stessi sono emanazioni della terra: proiezioni di fiotti energetici, addensati di potenza viscerale, fenditure di materia primigenia. La tela è un campo da coltivare, dove la vita può lasciare il suo sigillo, la sua impronta plastica, i suoi “grumi”, le sue metamorfosi. Infiorescenze e zolle. Polpa di carne e ossa calcinate alle radici. L’artista è impastato di terra e di natura, è immerso nel ciclo organico, è tutt’uno con la forza delle cose. La prorompente solarità della pittura di De Carolis manifesta, in eco sostanziale, la strepitosa energia che lo pervade, e alle cui fonti, per creare, si è prima lungamente abbeverato. È il sole incarnato in materia. Come la buccia e la polpa di una pesca, che ci parlano del sole che - per lunghe ore - l’ha nutrita, l’ha fatta maturare, infondendole i colori, i profumi, i succhi, gli aromi che possiamo assaporare. Anche per questo De Carolis tende a dipingere di notte, quando meglio può espandersi, nel buio e nel silenzio, la luce accumulata il giorno prima. Il pittore è una sorta di pila umana: assorbe da ogni cosa l’energia, caricandosi, per poi man mano rilasciarla sulla tela, nella continuità sinfonica delle sue pennellate, nell’armonia circolare del suo gesto creativo, nel processo che lo unisce al divenire. Se l’energia si estrinseca attraverso la realtà, ne scaturisce una pittura saldamente figurativa (il filone naturalistico dei paesaggi – ulivi, girasoli, papaveri, marine), ma vibrante, prorompente, oltrepassante, dove “i gialli, i violetti, i verdi, gli azzurri scomposti in mille gradazioni tonali, ora euritmiche ora dissonanti, diventano luce nell’aria, riflesso cangiante nell’acqua, oro sugli alberi e profondo senso dell’infinito che trasfigura e travalica il fattore ambientale, che diviene così solo lo spunto contingente per esprimere una realtà di natura essenzialmente spirituale” (A. Iozzino). Ogni parte manifesta l’infinito che contiene, il totale che la presuppone. La realtà tende a sciogliersi nel sogno. L’immagine palpita, si muove, crepita di fuoco sostanziale: il quadro sembra prossimo a spiccare il volo. Se attraverso l’energia si estrinseca una realtà seconda - sognata e concepita come “altra” - ne scaturisce una pittura dove il figurativo tende all’assoluto dell’informe (il filone simbolistico) oppure, ma più di rado, a un’articolazione di taglio allegorico, meno convincente, dove l’immagine è forzata alla rappresentazione di un concetto più estrinseco, spesso d’occasione.

Page 2: Decarolis - specimen antologico

Qui De Carolis cerca più scopertamente che altrove la definizione dei suoi “ultracolori”, che non nascono come per Matisse dalla saturazione (l’idea assoluta di quel colore), ma dalla loro miscelazione alchemica, in punta di spatola. Sono i “colori che non esistono”, che l’artista-creatore ha la facoltà di generare, dando vita a una realtà ultrasensibile, benché non trascendente. Se infine la realtà è energia, ne scaturisce una pittura intensamente non figurativa (il filone astratto) che si estrinseca attraverso la materia, e prende la sua forma dall’informe. È la realtà che esprime la dis-continuità magnetica del mondo: i legami atomici e subatomici, i sentieri invisibili, le soglie interstiziali. Torrenti luminosi. Nebulose espanse. Grovigli labirintici. Erompenti guizzi. Scrosci colanti e impastati. Fuochi di misteri e irradiazioni. Il macrocosmo che si spalanca, abissale, dentro il microcosmo. Un vuoto pulsante e lacerato, portato al calor bianco. Non il caos, però, giacché governato da un’intrinseca armonia: dalla potenza della sua sintassi, in regole sue proprie. De Carolis cattura il respiro intimo delle cose, il soffio elementare che le tiene in unità, il principio che le regge dall’interno. È colui che Baudelaire definiva fortunato, poiché “lascia andare i suoi pensieri/come lodolette verso i cieli/nel mattino”: colui che “sulla vita/plana e, sicuro, intende la segreta/lingua dei fiori e delle cose mute”. Egli cerca la luce stessa del colore, qualunque esso sia. La luce che lo permette e che lo rende tale: il “colore del colore”, ovvero la sua quintessenza, la sua claritas radiosa. È propriamente sua, dunque, la “luce irradiante in tutte le possibili espressioni del colore, che avvolge le figure e le cose in armonica unità compositiva”.

Il lago delle acque primitive

“Tutto è paradiso agli occhi di chi sa vedere, di chi ama vedere”. Ama il mondo chi sa guardarlo; lo vede chi lo ama. Il mondo vuole esser visto: ne ha bisogno per esistere, per rivelarsi come essenza, come epifania. Il pittore è “servitore e guida” di questo disvelamento. Egli sa cogliere le epifanie del mondo, perché ha uno sguardo che è in grado di rinnovare, di mantenere vergine, acuto e nel contempo divergente. Impara continuamente a vedere. Aspira vapori di gioia. Benedice tutto il creato. Gode del suo splendore. Partecipa della sua bellezza. Una immensa - solo in parte esprimibile - pietas cosmica e umana, che lo intride di sentire lancinante, di amore incontenibile, di commozione sacra. La vita è come l’acqua, quando devi galleggiare: ti sostiene solo se ti lasci andare. Si dona se ti doni e non la forzi. Guido De Carolis è un uomo che ama senza riserve. Per questo la rerum natura erompe dai suoi quadri. Esplode nel suo meglio. Turgida, deiscente, rigogliosa. Scintilla, splendida, e spumeggia - nel ciclo stesso del suo motile animare. Come un fiume in piena, gonfio di linfa, saturo di vita. Libera, feconda, evocatrice. Fresca, traboccante di energia. Le sue metamorfosi. I turbinosi gorghi. Le agglomerate polpe. Le geminate forme. Le proliferazioni. Ne scaturisce la rappresentazione materica di un cosmo reale ma spiritualizzato, manifestato in anima, inciso nella carne dell’invisibile. Un paesaggio senza tempo, antico e sempre nuovo: eterno come l’essere che resta, come la stasi dentro il divenire. È il mondo visto attraverso ordini percettivi e cognitivi propri di uno sguardo incantato, trasfigurante, estatico, i cui prodotti sono insomma ascrivibili ad una “rêverie”. La rêverie (fantasticheria) è un sogno silenzioso ad occhi aperti: il “dono di un’ora che conosce la pienezza dell’anima”. È la libera espansione della psiche. La proiezione cosmica dell’individuo. La rêverie ci apre la scorza del mondo: restituisce la bellezza delle immagini prime. Così, dall’istante di un’ora senza nome, la realtà si manifesta come è: infinita, eterna, vera. “Un bagliore di eternità scende sulla bellezza del mondo. Siamo davanti a un grande lago di cui i geografi sanno il nome, in mezzo a alte montagne, ed ecco che ritorniamo a un lontano passato”. Nasce, questo straniamento, dall’urgenza di un potente sforzo conoscitivo, che si traduce in slancio, in fuoco, in scioglimento; dal misterioso alone di un tremito arcano, di un brivido metafisico; dall’“aspirazione a superare il limite, a risalire la corrente, a ritrovare il grande lago delle acque

Page 3: Decarolis - specimen antologico

calme in cui il tempo si riposa dallo scorrere. E questo lago è in noi, come un’acqua primitiva, come il luogo in cui una infanzia immobile continua a soggiornare”. Per questo De Carolis torna con insistenza sulle stesse immagini fondamentali, quasi che ciascuna materializzazione non fosse in grado, da sola, di esaurirne la carica interna, lo sconfinato potere evocativo. È il suo tentativo, continuamente rinnovato, di trovare la freschezza aurorale del mondo dentro l’emozione dello sguardo che lo scoperse, che ne diede l’immagine prima. Come vide il mondo Adamo? Con gli occhi luminosi di un bambino. Ed è proprio in questo sguardo limpido e vergine, depurato da strutture e incrostazioni, che si ritaglia il varco per la conoscenza assoluta di ciò che la precede. Una realtà perenne e atemporale, che non ha avuto mai inizio e mai terminerà. Scrive Cesare Pavese in “Stato di grazia”: «Ciascuno ha una ricchezza intima di figurazioni – normalmente si lasciano ridurre a pochi grandi motivi – le quali compongono il vivaio di ogni suo stupore. Se le ritrova innanzi, nei momenti più impensati dell’anno, suggerite da un incontro, da una distrazione, da un accenno; e ogni volta vi figge lo sguardo come si scruta il proprio viso allo specchio. Sono una realtà enigmatica e tuttavia familiare, tanto più prepotente in quanto sempre sul punto di rivelarsi e mai scoperta». E dunque gli ulivi, le marine, i papaveri, i girasoli, le lune, i cieli stellati, etc., sono le figurazioni originarie di Guido De Carolis, le costellazioni simboliche del suo firmamento, i miti del suo mondo. Già: divoranti miti personali, capaci di condensare l’essenza di un’intera vita. Ce li ha dentro per sempre: ne conserva l’immagine prima. Cerca sempre di recuperarla - e dipingere è un modo per riuscirvi. Rappresentano le lettere di un alfabeto ignoto, che si raggiunge, forse, sfrondandole pian piano dal margine accessorio e funzionale, sipario dopo sipario, fino al gran silenzio della morte: il simbolo dei simboli, che tutti dall’interno li contiene. Rappresentano inoltre, nella realtà del gesto creativo, le “parole eidetiche” che De Carolis usa per darci la sua risposta al mistero del mondo, per fermare l’emozione di scoperta, per mantenere intatto il miracolo, e la sua luce accesa. È lì, in questo patrimonio personale e culturale di simboli, che si nasconde la vena acquifera per risalire alle sorgenti primordiali, alle origini mitopoietiche di “quella volta unica – che può estendersi a più momenti assommati nell’esperienza – quando si formò entro di noi come il mito di ogni singola figurazione: a quel momento velato in favolosa intemporalità, quando ricevemmo l’impronta che doveva dominare il nostro avvenire secondo i modi appunto del mito”. È stato Gaston Bachelard, fra gli altri, a notare questo “permanere, nell’anima umana di un nucleo infantile, una infanzia immobile, ma sempre viva, fuori della storia, nascosta agli altri, travestita da storia quando è raccontata, ma che è essere reale solo negli istanti di illuminazione – il che equivale a dire negli istanti della sua esistenza poetica”. Ed è l’infanzia che “vede il mondo illustrato, il mondo coi suoi colori primi, i suoi colori veri”: i colori della prima volta. Gli fa eco Lorenzo Mondo, commentando Pavese: «Il bambino, in cui è trasmigrato l’essere primitivo, conserva un legame privilegiato con le cose, la disposizione a una virginale scoperta, a una commozione estatica. Ma lui non ne è consapevole. Sarà l’uomo adulto, se avrà fortuna, se educato all’ascolto, a ricordare qualcuno degli attimi fondamentali in cui è nato alla vita interiore». Chi conosca la poetica del maestro magliese, ma soprattutto abbia occhi per guardare le sue tele, e luce per “sentirle” con il cuore, può non riconoscerlo in quel bambino - e nell’adulto che rivive il proprio mito?