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Da Platone a Tocqueville. Tredici lezioni sui classici del pensiero etico-politico, di Stefano De Luca Presentiamo on-line sul nostro sito, per gentile concessione, le dispense preparate dal prof. Stefano De Luca, docente di Storia delle dottrine politiche presso l'Università suor Orsola Benincasa di Napoli e presso l'Università La Sapienza di Roma (Facoltà di Filosofia, Lettere, Scienze umane e studi orientali). come sussidio di riferimento per il corso istituzionale. Il Centro culturale Gli scritti (23/12/2010) Indice Premessa 1. Platone 2. Aristotele 3. Agostino 4. Tommaso 5. Machiavelli 6. Hobbes 7. Locke 8. Rousseau 9. Kant 10. Constant 11. Hegel 12. Marx 13. Tocqueville Note al testo Premessa Nelle pagine che seguono il lettore troverà i testi delle lezioni da me tenute presso la Fondazione Nuovo Millennio, nel quadro di un corso di storia del pensiero politico. Tale corso, articolato in dodici lezioni, aveva lo scopo di fornire, ad un pubblico di non-specialisti, un profilo generale e sintetico del pensiero etico-politico occidentale, attraverso quelli che possono essere considerati i momenti salienti del suo sviluppo. Inutile dire che un corso così concepito mi ha posto dinanzi a due compiti assai difficili: il primo è stato quello di costringere i grandi classici della filosofia politica nel numero di dodici, con l'inevitabile sacrificio di personaggi di primo piano (due esempi per tutti: Agostino e Montesquieu); il secondo è stato quello di riuscire, nel brevissimo tempo a disposizione per ogni singolo autore, a dire qualcosa di significativo, senza cadere negli specialismi e, al tempo stesso, senza scolorire nella genericità. Quanto al primo problema, non ho molto da dire: la scelta dei classici è sotto gli occhi del lettore; mi limito a sottolineare che la decisione di non andare oltre la seconda metà dell'Ottocento risponde al bisogno di fornire agli studenti quei capisaldi della nostra tradizione culturale che sempre più spesso vengono sacrificati sull'altare di un'attualità tanto effimera quanto superficiale. Quanto al secondo problema, ho cercato di risolverlo facendo due scelte ben precise: anzitutto, andare diritto, per ogni autore, ai grandi nuclei concettuali, sforzandomi di restituirne, in un linguaggio chiaro e asciutto, la struttura teorica nella sua essenzialità

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Da Platone a Tocqueville. Tredici lezioni suiclassici del pensiero etico-politico, di Stefano DeLucaPresentiamo on-line sul nostro sito, per gentile concessione, le dispense preparate dal prof. Stefano DeLuca, docente di Storia delle dottrine politiche presso l'Università suor Orsola Benincasa di Napoli e pressol'Università La Sapienza di Roma (Facoltà di Filosofia, Lettere, Scienze umane e studi orientali). comesussidio di riferimento per il corso istituzionale.

Il Centro culturale Gli scritti (23/12/2010)

Indice

Premessa1. Platone2. Aristotele3. Agostino4. Tommaso5. Machiavelli6. Hobbes7. Locke8. Rousseau9. Kant10. Constant11. Hegel12. Marx13. TocquevilleNote al testo

Premessa

Nelle pagine che seguono il lettore troverà i testi delle lezioni da me tenute presso la Fondazione NuovoMillennio, nel quadro di un corso di storia del pensiero politico. Tale corso, articolato in dodici lezioni,aveva lo scopo di fornire, ad un pubblico di non-specialisti, un profilo generale e sintetico del pensieroetico-politico occidentale, attraverso quelli che possono essere considerati i momenti salienti del suosviluppo.

Inutile dire che un corso così concepito mi ha posto dinanzi a due compiti assai difficili: il primo è statoquello di costringere i grandi classici della filosofia politica nel numero di dodici, con l'inevitabile sacrificiodi personaggi di primo piano (due esempi per tutti: Agostino e Montesquieu); il secondo è stato quello diriuscire, nel brevissimo tempo a disposizione per ogni singolo autore, a dire qualcosa di significativo, senzacadere negli specialismi e, al tempo stesso, senza scolorire nella genericità. Quanto al primo problema, nonho molto da dire: la scelta dei classici è sotto gli occhi del lettore; mi limito a sottolineare che la decisionedi non andare oltre la seconda metà dell'Ottocento risponde al bisogno di fornire agli studenti queicapisaldi della nostra tradizione culturale che sempre più spesso vengono sacrificati sull'altare diun'attualità tanto effimera quanto superficiale. Quanto al secondo problema, ho cercato di risolverlofacendo due scelte ben precise: anzitutto, andare diritto, per ogni autore, ai grandi nuclei concettuali,sforzandomi di restituirne, in un linguaggio chiaro e asciutto, la struttura teorica nella sua essenzialità

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(senza appesantimenti, dunque, ma anche senza eccessive semplificazioni); in secondo luogo, pur nei limitidel tempo a disposizione, ascoltare gli autori dalla loro stessa voce, attraverso un'attenta selezione di testi.Inutile dire, infine, che questo lavoro, dovendo spaziare su un periodo così vasto, ha grandi debiti versol'opera di alcuni importanti studiosi: in particolare, esso deve molto, per la parte antica e medievale, aglistudi di Francesco Valentini, e per la parte moderna alle monografie di Norberto Bobbio e di GiuseppeBedeschi.

Date queste spiegazioni, penso che sia pressoché superfluo sottolineare i limiti entro i quali si muove ilpresente lavoro: esso non contiene nulla di più che tredici[*]sintetici profili di grandi pensatore politici.Ogni capitolo è in realtà una lezione, con tutte le caratteristiche, i pregi e i difetti di qualcosa di pensato perla comunicazione orale e non per la scrittura. E sebbene abbia sottoposto questi testi ad un'attentarevisione, non ho comunque inteso trasformarli in qualcosa di diverso da ciò che erano originariamente. Lamia unica speranza è che essi costituiscano, per chi li leggerà, l'occasione di ascoltare nuovamente lalezione dei grandi classici e di meditarla.

Roma, 7 gennaio 1998

Stefano De Luca

1. Platone

Cenni biografici

Platone nasce ad Atene nel 428/427 a.C. da famiglia di antica nobiltà. Intorno al 408 probabilmente conosceSocrate.

Nel 399, in seguito alla condanna a morte di Socrate ad opera del tribunale popolare di Atene, Platone siallontana dalla vita politica e si reca a Megara con un gruppo di altri socratici.

Nel 388/387 Platone viaggia in Magna Grecia, dove conosce i pitagorici, e soggiorna presso Dioniso I(tiranno di Siracusa), stringendo amicizia con il cognato Dione. Il suo ritorno in patria sarà assaiavventuroso, perché Dioniso, irritato con lui, avrebbe dato ordine di sbarcarlo a Egira, allora in guerra conAtene.

Nel 386 e negli anni seguenti viene fondata l'Accademia. La scuola viene consacrata al culto delle Muse e diApollo: ne fanno parte Speusippo, il nipote di Platone, Senocrate, Eudosso e, successivamente, Aristotele.

Nel 367 muore Dioniso di Siracusa e Platone accetta l'invito a recarsi in Sicilia presso il giovane successoreDioniso II; il tentativo di riforma in senso aristocratico, caldeggiato da Dione, fallisce e il ritorno di Platonead Atene, ostacolato, avverrà solo nel 365.

Nel 361, dietro pressante sollecitazione, Platone accetta nuovamente di recarsi a Siracusa, dove tuttavia nonriesce ad ottenere il richiamo di Dione dall'esilio e dove va incontro ad un nuovo fallimento politico. E'tenuto prigioniero da Dioniso II e solo con l'aiuto degli amici di Taranto riuscirà a sottrarsi al tiranno.

Muore nel 348/347, a 81 anni. Delle opere di Platone, secondo la tradizione, rimangono un'Apologia diSocrate, 34 dialoghi e 13 lettere.

Il pensiero politico

All'origine della filosofia platonica sta un problema eminentemente etico-politico: il "problema Socrate". Senon partiamo dalla condanna a morte di Socrate - avvenuta nel 399 a.C., quando Platone ha, all'incirca, 28anni - non possiamo comprendere la riflessione di Platone, perché è proprio da quel drammatico evento chequest'ultima prende le mosse. Alcuni critici arrivano a sostenere che l'intera filosofia platonica consista, in

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ultima analisi, nel tentativo di chiarire a sé e agli altri il "problema Socrate". Anzi, forse potremmo dire lo"scandalo Socrate". Cosa era accaduto, infatti? Era accaduto che l'uomo «più giusto del suo tempo», come lodefinisce lo stesso Platone, colui che aveva dedicato la sua vita alla ricerca filosofica - praticando comenessun altro la virtù, il sapere e la giustizia -, era stato accusato del contrario, ossia di essere un uomo empioe corruttore, pericoloso per i suoi concittadini e il suo Stato; e per tale ragione era stato condannato a morte.

La verità "scandalosa" contenuta della vicenda di Socrate è l'evidente incompatibilità tra filosofia e politica.E poiché filosofia significa sapere - e il sapere, nella concezione platonica, coincide con la virtù e con lagiustizia - allora è evidente che la politica si è separata tanto dalla virtù, quanto dalla giustizia. Lo Stato checondanna un uomo come Socrate è insomma uno Stato ingiusto. Non a caso, dunque, il problema centraledella riflessione platonica sarà quello di fondare uno Stato giusto; e tale obiettivo fa dell'intera filosofiaplatonica, come ricordavo poco fa, un tentativo di risolvere il "problema Socrate".

La condanna di Socrate si inserisce in un contesto già fortemente negativo. La seconda metà del V sec. a.C.era stata caratterizzata dalle guerre peloponnesiache, l'ultima delle quali, conclusasi nel 404, aveva sancito ladisfatta di Atene e la sua sottomissione a Sparta. Nello stesso anno il regime democratico veniva sostituito,ad Atene, da un regime oligarchico, che divenne poi noto con il nome di regime dei Trenta tiranni;quest'ultimo, a sua volta, durò ben poco, giacché appena un anno più tardi Trasibulo restaurò la democrazia.Fu tuttavia proprio il regime democratico a mettere a morte Socrate. Come si può comprendere, sia pure daquesti rapidissimi cenni, quelli della giovinezza di Platone sono anni di drammatico disordine politico, chesegnano la fine dello splendore e dell'egemonia ateniese, nonché il progressivo disfacimento dell'unità stessadella polis. Platone è profondamente segnato, anche sul piano personale, da questi eventi. Ascoltiamo comeegli stesso descrive la sua vicenda.

Quando ero giovane, io ebbi un'esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vitapolitica, non appena fossi divenuto padrone di me stesso. Ora mi avvenne che questo capitasse allora allacittà: il governo, attaccato da molti, passò in altre mani, e cinquantuno cittadini divennero i reggitori delloStato [...]; sopra costoro, trenta magistrati con pieni poteri. Tra costoro erano alcuni miei familiari econoscenti, che subito mi invitarono a prendere parte alla vita pubblica, come ad attività degna di me. Iocredevo veramente (e non c'è niente di strano, giovane come ero) che avrebbero purificata la cittàdall'ingiustizia traendola ad un viver giusto, e perciò stavo ad osservare attentamente che cosa avrebberofatto. Mi accorsi subito che in poco tempo fecero apparire oro il governo precedente: tra l'altro, un giornomandarono, insieme con alcuni altri, Socrate, un mio amico più vecchio di me, un uomo che io non esito adefinire il più giusto del suo tempo, ad arrestare un cittadino per farlo morire, cercando in questo modo difarlo loro complice, volesse o no; ma egli non obbedì, preferendo correre qualunque rischio che farsicomplice di empi misfatti. Io allora, vedendo tutto questo, e ancora altri simili gravi misfatti, fui preso dasdegno e mi ritrassi dai mali di quel tempo. Poco tempo dopo cadde il governo dei Trenta e fu abbattutoquel regime. E di nuovo mi prese, sia pure meno intenso, il desiderio di dedicarmi alla vita politica. [...]Bisogna riconoscere che gli uomini allora ritornati furono pieni di moderazione. Se non che accadde poiche alcuni potenti intentarono un processo a quel mio amico, a Socrate, accusandolo di un delittonefandissimo, il più alieno dall'animo suo: lo accusarono di empietà, e fu condannato, e lo uccisero, lui chenon aveva voluto partecipare all'empio arresto di un amico degli esuli d'allora, quando essi pativano fuoridella patria. Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, e le leggi ei costumi, quanto più li esaminavo ed avanzavo nell'età, tanto più mi sembrava che fosse difficilepartecipare all'amministrazione dello Stato, restando onesto. Non era possibile far nulla senza amici ecompagni fidati, e d'altra parte era difficile trovarne tra i cittadini di quel tempo, perché i costumi e gli usidei nostri padri erano scomparsi dalla città, e impossibile era trovarne di nuovi con facilità. Le leggi e icostumi si corrompevano e si dissolvevano straordinariamente, sicché io, che una volta desideravomoltissimo di partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era completamentesconvolto, finii per sbigottirmene. Continuavo, sì, ad osservare se ci potesse essere un miglioramento, esoprattutto se potesse migliorare il governo dello Stato, ma per agire, aspettavo sempre il momentoopportuno, finché alla fine m'accorsi che tutte le città erano mal governate, perché le loro leggi nonpotevano essere sanate senza una meravigliosa preparazione congiunta con una buona fortuna, e fuicostretto a dire che solo la retta filosofia rende possibile vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli

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privati [...]. Vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al poterepolitico non fossero pervnuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle città nonfossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi.

Penso che la straordinaria ricchezza di questo brano giustifichi la lunghezza della citazione. In essopossiamo infatti rintracciare tutti gli elementi che concorrono a determinare la posizione di Platone: lapassione di fondo per la politica, la delusione derivante dell'esperienza oligarchica, la rinnovata fiducia(anche se meno intensa) determinata dal ristabilimento della democrazia, infine il dramma del processo aSocrate, con il definitivo allontanamento dalla vita pubblica. Platone si dichiara «sbigottito»: la crisi politicagli si rivela, in realtà, come una crisi civile ed etica. Leggi, costumi e vita politica sono travolte da unacorruzione straordinaria, e tale crisi si estende al di là della stessa Atene, per investire l'intera civiltà grecadelle poleis, ossia delle città-Stato. Di qui nasce la convinzione che solo una profonda riflessione filosoficapossa risolvere la crisi politica: solo la filosofia, secondo Platone, è infatti in grado di sollevarsi al di là dellemutevoli opinioni, per individuare con certezza ciò che è giusto. Filosofia e politica devono perciò esserestrettamente congiunte, al punto che la fine delle sciagure, come dice Platone, è collegata all'arrivo al poteredella filosofia. La filosofia deve farsi potere: o i filosofi diventano capi politici, o questi ultimi diventanobuoni filosofi. Solo così il problema politico potrà essere risolto.

In queste posizioni affiorano due punti fondamentali. In primo luogo, la politica appare come il motivoispiratore della riflessione platonica; non a caso, alcuni studiosi hanno sostenuto che quest'ultima sarebbe «ilrisultato di una vocazione politica mancata: l'idealista sublime, l'utopista, il mistico avrebbe sempre tenutogli occhi sulla città terrena, ansioso di renderla conforme a ragione e a virtù»[2]. In questa aspirazione allaconformità tra ragione e virtù possiamo rintracciare, in secondo luogo, la "catena di identità" che sta al fondodel pensiero platonico: virtù, sapere e politica sono indisgiungibili. La virtù concide infatti con il sapere e, altempo stesso, con il vivere giusto, con la vita politica; dunque la politica è anche sapere. Il problemaconoscitivo o scientifico (il sapere) è congiunto con il problema etico (la virtù) e con quello politico (l'ordinepolitico giusto). Non a caso, nella Repubblica troveremo tali dimensioni strettamente intrecciate tra di loro;ma prima di esaminare l'opera politica della maturità - e forse la più organica - ci soffermeremo, moltobrevemente, sul Gorgia; concluderemo infine con il Politico e con le Leggi, che costituiscono le opere dellavecchiaia.

Nel Gorgia troviamo una serie di temi importanti. In primo luogo, la condanna dell'azione politica degliAteniesi si estende anche a rappresentanti di primo piano come Temistocle, Cimone, Milziade e lo stessoPericle. Vi sono qui chiari accenti anti-democratici: l'espansione di Atene, negli anni della democraziapericlea, costituisce, agli occhi di Platone, la causa dei mali attuali. Per illustrare la sua posizione, Platonericorre ad un parallelo con la medicina[3]: gli ateniesi di oggi, egli dice, sono come coloro i quali si sonoammalati per eccesso di stravizie alimentari e, invece di prendersela con i cuochi, se la prendono con imedici che cercano di rimediare alla loro indigestione. Fuor di metafora: se Atene oggi è malata, ciò dipendedalla dissennata politica democratica che l'ha «riempita senza temperanza e senza giustizia di porti, cantieri,mura, tributi e simili inezie». Gli eccessi democratici (eccessi di sviluppo economico) hanno fatto sì che ilcorpo sano della città si ammalasse: si tratta di un concetto fondamentale, sul quale tornerò in seguito,giacché in esso si manifesta la concezione negativa della ricchezza (e, in un certo senso, dello sviluppoeconomico) che caratterizza il pensiero di Platone. Ma Platone svolge un'ulteriore considerazione, sullaquale vale la pena di soffermarsi.

Quando la città tratta uomini politici come colpevoli, sento che questi si sdegnano e si lamentano di patireun gran torto; dopo aver fatto grandi benefici alla città, essi vengono condannati ingiustamente, comedicono loro; ma è tutta menzogna. Nessuno che governi una città può perire ingiustamente per opera diessa. E' presso a poco lo stesso caso di quelli che pretendono di essere uomini politici e maestri di retorica.Anche questi, persone dotte del resto, commettono tali assurdità: affermano di essere maestri di virtù espesso accusano i loro discepoli di fare ingiuria proprio a loro, privandoli dello stipendio e negando loro ilricambio di qualche favore, pur essendo stati beneficati da essi. Che cosa di più irragionevole di un similediscorso? Ossia di uomini che, divenuti buoni e giusti, mondati dell'ingiustizia per opera del loro maestro ein possesso della giustizia, facciano ingiuria con ciò che non hanno!

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Gli uomini politici, come i rètori - dice in sostanza Platone - ricevono ciò che hanno seminato. Non è forsecontraddittorio sostenere di avere insegnato la virtù e di ricevere, in cambio di ciò, comportamenti nonvirtuosi? Attraverso queste considerazioni emerge la dura polemica di Platone contro sofisti; non possiamosoffermarci a lungo su questo tema, ma qualcosa dovremo dire.

La sofistica si sviluppa tra il culmine della civiltà ateniese e i primi sintomi della sua decadenza: mentre untempo 'sofista' era semplicemente 'colui che sa' ed è in grado di comunicare il suo sapere - insomma sofistaera il sapiente in senso generale, e quindi anche il poeta, il letterato -, ora sofista sta ad indicare uninsegnante (in genere di retorica), che trasmette a pagamento le proprie conoscenze ed abilità. I sofistioffrono, nella seconda metà del V secolo, una formazione che risponde alle esigenze individualistiche di unasocietà in pieno sviluppo economico-culturale: tale formazione si incentra sull'uomo e sulle sue capacitàeffettive, mettendo da parte, come irrisolvibili, tanto il problema religioso (Protagora scrive: «riguardo agliDèi, non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l'oscuritàdell'argomento e la brevità della vita umana»), quanto quello conoscitivo e ontologico. Vale a dire: comenon vi è alcuna possibilità di accertare o meno l'esistenza degli Dèi, così non vi è alcuna possibilità dirinvenire un criterio di verità assolutamente valido, né vi è la possibilità di cogliere le strutture realidell'essere, della realtà. Almeno con Gorgia arriviamo a questa posizione. Di qui il ruolo cruciale dellaretorica - anche per la natura politica delle città ateniesi, che implicava il confronto pubblico attraversodiscorsi - come arte del discorso e della persuasione, nonché la tendenza a proporre un sapere strumentale,che si proponeva esclusivamente di fornire all'individuo i mezzi per affermarsi. La Sofistica, pur nelle suediverse sfumature, aveva finito per proporre un'immagine "spregiudicata" del filosofo, come di colui cheinsegna, a pagamento, l'arte di sostenere e negare le stesse tesi, a seconda delle convenienze, senza alcunapreoccupazione morale o religiosa. E' Socrate il primo a distanziarsi dalla Sofistica: mentre per i sofisti ilsapere (che non ha alcuna oggettività) serve ai fini dell'affermazione personale, per Socrate esso serve a faremergere la consapevolezza di sé, la scoperta non solo del valore intellettuale, ma anche di quello etico espirituale. In ciò consiste la virtù: soltanto conoscendo noi stessi in profondità possiamo sapere ciò che èbene e ciò che è male. Tuttavia Socrate si paragona ad una levatrice: egli non può insegnare la verità, masolo aiutare a partorirla.

Quella contro i sofisti è, in Platone, una polemica costante. A loro va imputato, egli dice, il disprezzo di cuila filosofia è circondata: essi l'hanno trasformata in un sapere illusorio, dove si afferma tutto e il contrario ditutto, privo di ogni ancoramento morale e di ogni verità. In tal modo essi hanno anche creato l'impressionecha la filosofia sia inutile. Ma i sofisti, secondo Platone, non sono filosofi (ossia amanti della sapienza edella verità), bensì filodossi, ossia amanti dell'opinione: essi pensano di sapere, ma in realtà non sannoniente. Viceversa, il vero filosofo attinge la verità, che si trova nella sfera intellegibile delle idee e non nelmondo mutevole e ingannevole della realtà sensibile. Con la dottrina della reminiscenza e la teoria delle ideePlatone supera il sapere socratico, che coincideva con la ricerca, senza poter addivenire ad affermazionicerte; Platone ha reso il sapere un oggetto definito e conoscibile, per cui la filosofia si configura come unascienza e non una mera opinione.

Il vero filosofo, possedendo la scienza delle idee (al cui interno l'idea di bene svolge il ruolo di "sole") saràanche il vero politico, perché sarà l'unico che potrà rendere migliori i cittadini. Platone ha infatti unaconcezione "educativa" della politica: il fine della politica consiste nel rendere migliori i cittadini. Alcontrario Callicle - il suo interlocutore sofista all'interno del Gorgia - ha una visione utilitaristica dellapolitica: quest'ultima ha infatti il fine di soddisfare gli interessi dei cittadini. Ma se i fini della politica sonoeducativi, il vero politico sarà allora il sapiente, o meglio, il filosofo. Socrate è il vero politico. Alle sogliedella Repubblica, è chiaro che la riforma dello Stato deve avvenire, in primo luogo, costruendo lo Statoideale, vale a dire prescindendo, almeno per ora, dalla sua concreta realizzazione.

Che lo Stato tracciato nella Repubblica sia uno Stato ideale è esplicitamente affermato (e argomentato) dallostesso Platone. Nel dialogo, come sempre, Platone affida a Socrate l'esposizione delle sue idee.

E allora, feci io [Socrate], prima di tutto dobbiamo ricordarci che siamo giunti qui dove siamo, cercandoche cosa sono la giustizia e l'ingiustizia. - Sì, dobbiamo ricordarcene; ma che cosa significa?, chiese. -

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Niente: ma se scopriremo che cosa è la giustizia, pretenderemo anche che l'uomo giusto non debbadifferirne in nulla, ma essere sotto ogni riguardo tale quale è la giustizia? O ci contenteremo che le siaccosti più che può e che ne partecipi molto più degli altri? - Così, disse; ci contenteremo. - Era dunque percercare un modello, continuai, che cercavano cosa fossero la giustizia e l'uomo perfettamente giusto.

Per illustrare ulteriormente la sua posizione, Platone fa anche l'esempio del pittore che dipinga il modellodell'uomo bellissimo; se dopo averlo dipinto, si potesse dimostrare che un tale uomo non esiste, sidimostrebbe forse con ciò che il pittore è meno bravo? Certamente no. Dunque Platone parlaconsapevolmente di uno Stato "ideale"; ma ciò non diminuisce affatto il suo valore. Anzi: ciò che costituiscela sua idealità è la sua verità, perché ne fa il modello cui approssimarsi. Tale modello risponderà infatti alladomanda fondamentale di Platone - creare lo Stato giusto - rintracciando in cosa consista la giustizia sianello Stato, sia nell'individuo.

Ma vediamo quali sono le caratteristiche dello Stato platonico. Anzitutto come nasce:

Secondo me, ripresi, uno Stato nasce perché ciascuno di noi non basta a se stesso, ma ha molti bisogni [...].Così per un certo bisogno ci si vale dell'aiuto di uno, per un altro di quello di un altro: il gran numero diquesti bisogni fa riunire in un'unica sede molte persone che si associano per darsi aiuto, e a questacoabitazione abbiamo dato il nome di Stato.

Come si può vedere, l'origine dello Stato è descritta in termini naturalistici e utilitaristici: lo Stato sorgedall'insufficienza delle forze individuali rispetto ai bisogni. Ognuno di noi ha bisogno degli altri: e ciò loconduce ad associarsi con i suoi simili e a fondare lo Stato. Quest'ultimo viene dunque fondato in nome delbisogno, dell'utilità e della non-autonomia del singolo.

Platone passa quindi a vedere come si sviluppa lo Stato. Il concetto-chiave è sempre quello di bisogno. Inprimo luogo, gli uomini hanno bisogno di nutrirsi, quindi di avere un abitazione e dei vestiti. Di qui la primaconfigurazione dello Stato platonico, composto da 3 o 4 individui: un agricoltore, un muratore, un tessitoree, al limite, un calzolaio. Sorge il problema del tipo di organizzazione che si darà al lavoro: ogni individuodovrà provvedere personalmente a tutti i propri bisogni, oppure sarà bene che ognuno di essi si "specializzi"in un mestiere, provvedendo, per quel ramo, anche ai bisogni degli altri individui? Platone si schierarisolutamente per la seconda ipotesi, affermando quindi con forza il principio della divisione del lavoro odella specializzazione. Tale scelta si basa su due considerazioni: in primo luogo, esiste una naturale diversitàdi talenti negli uomini, la quale fa sì che ogni individuo abbia maggiori attitudini per un tipo di lavoro,piuttosto che per un altro; in secondo luogo, la specializzazione consente di migliorarsi, cosa che invece nonpuò accadere quando si devono svolgere funzioni diverse tra loro.

Ma proprio in virtù della divisione/specializzazione del lavoro, lo Stato platonico dovrà allargarsi: ognilavoratore, infatti, avrà bisogno di determinati strumenti, che dovranno essere realizzati da individuiappositamente specializzati. Di qui la seconda configurazione dello Stato: oltre ai quattro individui iniziali,vi sarà bisogno di falegnami, fabbri e molti altri operai; vi sarà anche bisogno di pastori. Lo Stato si fadunque grande. Ed essendo grande è molto difficile che i suoi bisogni possano essere soddisfattiintegralmente dal mercato interno. Sorge la necessità di importare merci dall'esterno e dunque anche lanecessità di esportare una quota delle proprie. Di qui la necessità di produrre un surplus di beni, il cheimplica la necessità di aumentare il numero dei contadini e degli operai; il tutto abbisogna poi dicommercianti, che svolgano le attività di esportazione e importazione. Dal commercio marittimo, poi, nasceun intero settore, con numerosi addetti. E così via: lo Stato diventa sempre più grande.

Quello che ci interessa è che Platone, dove aver dimostrato che lo Stato assume via via una configurazionemolto estesa, conclude illustrando il suo regime di vita, il quale appare caratterizzato da un'estremasemplicità.

Vediamo in che modo vivranno uomini così organizzati. Non forse producendo alimenti, vino, abiti ecalzature? E si costruiranno abitazioni e nella stagione calda lavoreranno per più seminudi e scalzi, nellafredda ben vestiti e calzati. Si nutriranno di farine ricavate dall'orzo e dal frumento ora cuocendole ora

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impastandole, e serviranno belle focacce e pani su canne o foglie pulite. Sdraiati su giacigli cosparsi dismilace e di mirto, banchetteranno bene in compagnia dei loro figlioli e ci berranno sopra vino,inghirlandati e cantando inni agli dèi, lieti di stare insieme. E non metteranno al mondo più figli di quantoconsentano i mezzi di vita, per timore della povertà o della guerra. [...] Così passeranno la vita, come ènaturale, in pace e buona salute, moriranno in tarda età e trasmetteranno ai discendenti un sistema di vitasimile a questo.

Di fronte a questo quadro di semplicità agreste, dal sapore arcaicizzante, interviene Glaucone, il quale,potremmo dire, fa avanti le esigenze del benessere:

Se, o Socrate, avessi costituito uno Stato di porci, con quali altri cibi li avresti pasciuti, se non con questi? -E allora, Glaucone, come si deve fare?, chiesi. - Adeguarsi all'uso comune, rispose. Per non sentirsi adisagio, dovranno stare sdraiati su letti, credo, e prendere i loro pasti a tavola, con quelle pietanze e queipasticcini in uso anche oggidì.

La replica di Socrate a Glaucone è assai interessante, perché contiene quella polemica contro la ricchezza el'eccessivo sviluppo economico alla quale ho già accennato[4]:

Bene, risposi, comprendo. A quanto sembra, non vogliamo soltanto sapere come nasce uno Stato, ma unoStato gonfio di lusso. Forse però non è male, perché così vedremo probabilmente come nascono negli Statigiustizia e ingiustizia. Lo Stato vero è, a mio giudizio, quello di cui abbiamo parlato ora, uno Stato sano. Mase voi volete che consideriamo anche uno Stato rigonfio, nulla ce lo impedisce.

Platone prosegue enumerando i molti bisogni di uno Stato 'rigonfio' e le numerosissime categorie di uomininecessarie per soddisfarli; di qui un aumento esponenziale della popolazione, che rende insufficiente ilterritorio dello Stato per rispondere ai bisogni di quest'ultima. In breve: il bisogno di molte altre professionicondurrà alla impossibilità, per il prodotto interno agricolo, di essere sufficiente. Di qui la necessità distabilire delle colonie e quindi di fare la guerra. Da questa, in base al principio della specializzazione, lanecessità di un esercito professionale. In conclusione: lo Stato sano risponde ai bisogni essenziali dei propricittadini, senza moltiplicarli e sofisticarli eccessivamente; quando ciò avviene, lo Stato si 'gonfia', si ammala,ed è destinato a corrompersi.

Le riflessioni sull'esercito professionale ci permettono di passare alla discussione sulle diverse 'classi' delloStato: esse saranno tre (governanti, guerrieri o custodi, produttori), come in tre parti è divisa l'anima (l'animarazionale, la cui virtù è la sapienza, l'anima irascibile, la cui virtù è il coraggio, e l'anima concupiscibile, cheè il principio di tutti gli impulsi corporei). Platone si sofferma soprattutto sulle classi dirigenti (governanti ecustodi), perché da esse - nel suo modo di vedere - dipende principalmente la possibilità di uno Stato giusto.

Vediamo anzitutto cosa dice sui guerrieri o custodi. In primo luogo, i custodi devono essere scelti tra coloronei quali prevale l'anima irascibile; essi devono inoltre essere dotati fisicamente ed amanti della sapienza:

[...] il nostro futuro ed eccellente guardiano dello Stato sarà per natura filosofo, animoso, veloce e vigoroso.

Tutto ciò perché i guardiani dovranno essere coraggiosi e duri con i nemici esterni, ma miti con i propriconcittadini. L'educazione che riceveranno li dovrà mettere alla prova, per vedere se hanno memoria, se sonoleali, se resistono alle tentazioni dei piaceri. Conclude Platone:

e a chi superi le successive prove, nell'infanzia, nell'adolescenza e nella maturità, e risulti integro, si devonoaffidare il governo e la guardia dello Stato e conferire onori da vivo e da morto.

Il fine essenziale è che i custodi interiorizzino la norma secondo cui devono sempre agire per il benesupremo dello Stato. Qui Platone inserisce la famosa "menzogna della fratellanza". Quello di dire menzogneè un atto che, ancora una volta, avvicina la medicina alla scienza politica. Se la verità va tenuta in granconto, è d'altra parte vero, dice Platone, che il falso rappresenta talvolta per gli uomini un farmaco; e cometutti i farmaci, il loro uso deve essere riservato ai medici e a nessun altro. Con una sola eccezione: se c'è

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qualcuno che ha il diritto di dire il falso, questi sono i governanti, per ingannare i nemici o i concittadini nelsuperiore interesse dello Stato.

Premesso questo principio, Platone passa ad illustrare la "nobile menzogna" che è necessario raccontare aicustodi e ai reggitori. Platone è consapevole del fatto che tale menzogna urterà il senso comune e quindipremette che sarà necessario essere degli abili persuasori, perché gli interessati possano prestarle fede. Mal'interlocutore lo invita a mettere da parte gli scrupoli e ad illustrare finalmente la sua idea.

Ebbene, parlo: pure non so con quale coraggio o quali parole mi esprimerò. Cercherò di persuadere primagli stessi governanti e i soldati, poi anche il resto dei cittadini, che tutta quell'educazione fisica e spiritualeche noi davamo loro, essi credevano di sentirla e di riceverla, ma non erano che dei sogni; e veramenteallora essi si trovavano entro la terra, già plasmati ed allevati, essi stessi, le loro armi e, bello e fabbricato,tutto il resto del loro equipaggiamento. E quando in ogni dettaglio fu ultimata la loro preparazione, la terraloro madre li mise alla luce: ora essi sono tenuti a provvedere e a difendere la terra che abitano come fossela loro madre e nutrice, se qualcuno l'assale, e a considerare gli altri cittadini come fratelli e "nati dallaterra". - Non era senza ragione, disse, che da un pezzo esitavi a dire questa menzogna. - Molto naturale!risposi; ciononostante ascolta anche il resto del mito. Continuando il racconto, diremo loro così: voi, quantisiete cittadini dello Stato, siete tutti fratelli, ma la divinità, mentre vi plasmava, a quelli tra voi che hannoattitudine al governo mescolò, nella loro generazione, dell'oro, e perciò altissimo è il loro pregio; agliausiliari, argento; ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani. Per questa generale comunanza diorigine dovreste generare figli per lo più simili a voi; ma v'è caso che da oro nasca prole d'argento e daargento prole d'oro, e così reciprocamente nelle altre nascite. Perciò la divinità ordina prima eparticolarmente ai governanti di non essere di nessuno tanto buoni guardiani e di non custodire nulla contanto impegno quanto i figli, osservando attentamente quale tra questi metalli si trova mescolato nelle animeloro; e se uno stesso loro figlio ha in sé alla nascita bronzo o ferro, di non averne alcuna pietà, ma di usarealla natura il riguardo dovutole e di respingerlo tra gli artigiani o tra gli agricoltori; e reciprocamente, seda costoro nascono figli che abbiano in sé oro e argento, di rendere loro gli onori dovuti e d'innalzare quelliai compiti di guardia, questi ai compiti di difesa [...].

La "nobile menzogna" riflette due esigenze tipicamente platoniche. La prima è l'unità dello Stato, che èanche il suo bene supremo, così come il male supremo sta nella divisione, nelle discordie interne; da questopunto di vista, la comune origine determina la fratellanza dei cittadini e quindi stabilisce una sorta di vincolofamiliare fra tutti costoro; in un certo senso, fa dello Stato un'unica famiglia. Ciò dovrebbe determinaregrande attaccamento allo Stato e grande collaborazione reciproca. L'altra esigenza è che lo Stato siaaristocratico, ossia che in esso prevalgano i migliori: il fatto che ogni individuo riceva la propria naturaprima di nascere - e con essa il proprio compito - fa sì che la distinzione gerarchica dei ruoli sia assicurata,scoraggiando altresì emulazioni e conflitti che sarebbero causa di discordie. I ruoli sono pre-destribuiti:ognuno nasce per andarsi a collocare in un ruolo ben preciso, che la natura gli ha assegnato; il tuttoall'interno di un ordine ferreo.

Ma l'educazione, prosegue Platone, non basta per avere dei buoni custodi; affinché ciò avvenga, è necessarioche essi vengano messi in un regime di vita ben preciso.

Prima di tutto nessuno deve avere sostanze personali, a meno che non ce ne sia necessità assoluta; nessunodeve poi disporre di un'abitazione o di una dispensa cui non possa accedere chiunque lo voglia. Riguardoalla quantità di provviste occorrenti ad atleti di guerra temperanti e coraggiosi, devono ricevere dagli altricittadini, dopo averla determinata, una mercede per il servizio di guardia, in misura né maggiore né minoredel loro annuo fabbisogno. Devono vivere in comune, frequentando mense collettive come se si trovassero alcampo. Per quello che concerne l'oro e l'argento, occorre dire loro che nell'anima hanno sempre oro eargento divino, per dono degli dèi, e che non hanno alcun bisogno di oro e argento umano [...]. Anzi a essisoli tra i cittadini del nostro Stato non è concesso di maneggiare e toccare oro e argento, e di entrare sottoquel medesimo tetto che ne ricopra; né di portarli attorno sulla propria persona né di bere da copped'argento e d'oro. E così potranno salvarsi e salvare lo Stato.

Di fronte al regime "comunistico" proposto per i custodi - un regime che esclude qualsiasi forma di possesso

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personale - Adimanto rivolge a Socrate un'obiezione: ma saranno felici, in tal modo, i custodi? Essi, infondo, pur possedendo lo Stato, non ne derivano quei vantaggi che tutti gli altri invece ne ritraggono. Larisposta di Socrate è fondamentale, perché rende esplicito come nello Stato platonico vi sia un primatoassoluto dello Stato sull'individuo. Anzi, forse potremmo dire che per l'individuo non vi è spazio alcuno, senon nello Stato e per lo Stato.

Diremo - risponde Socrate - che non ci sarebbe affatto da meravigliarsi che anche così costoro [i custodi]fossero molto felici. Pure, noi non fondiamo il nostro Stato perché una sola classe tra quelle da noi creategoda di una speciale felicità, ma perché l'intero Stato goda della massima felicità possibile. [...] Ora, noicrediamo di plasmare lo Stato felice non rendendo felici alcuni pochi individui presi separatamente, mal'insieme dello Stato. [...] Così, per esempio, supponiamo che, mentre siamo intenti a dipingere una statua,si presenti uno a criticarci e affermi che alle parti migliori della figura non applichiamo i colori più belli,adducendo il motivo che gli occhi, che costituiscono la parte migliore, non sono colorati in vermiglio, ma innero; ci sembrerebbe di rispondergli bene con queste parole: "Ammirevole amico, non credere che noidobbiamo dipingere gli occhi tanto belli che non sembrino neppure più occhi; e così per le altre parti. Deviosservare invece se, colorando ciascuna parte con la tinta conveniente, rendiamo bello l'insieme. Cosìanche ora non costringerci ad assegnare ai guardiani una felicità tale da renderli qualunque altra cosa cheguardiani. Sappiamo anche noi rivestire gli agricoltori di abiti fini, tuffarli nell'oro, invitarli a lavorare laterra per diletto; sappiamo anche noi far coricare al posto d'onore, accanto al fuoco, i vasai per bene emangiare, mettendo loro vicino la ruota da vasi, ma con la facoltà di lavorare secondo la voglia che neabbiano; e in simile modo rendere beati tutti gli altri per fare felice lo Stato intero. Però non ci devi dare diquesti consigli: se ti obbediamo, l'agricoltore non sarà più agricoltore, né il vasaio vasaio; e non ci sarà piùnessuno che mantenga il suo posto, condizione questa dell'esistenza dello Stato. [...] Si deve dunqueesaminare se dobbiamo istituire i guardiani per far loro godere la massima felicità possibile; o se,guardando allo Stato nel suo complesso, si deve farla godere a questo; e costringere e convincere questiausiliari e guardiani e così pure tutti gli altri a eseguire meglio che possono l'opera loro propria.

Lo Stato platonico è dunque un'unità in cui l'insieme è superiore alla somma della parti (che, nel suo caso,sono gli individui); è un insieme organico, nel quale le parti non sono relativamente autonome (come in unasomma), ma hanno senso e prendono significato soltanto nella loro reciproca interrelazione, come funzionidi un unico corpo. Del resto, è lo stesso Platone a usare la metafora dell'organismo, all'interno dellariflessione su quale sia il bene supremo dello Stato:

Possiamo dunque citare per lo Stato un male maggiore di quello che lo divide e lo fa di uno molteplice? Oun bene maggiore di quello che lega lo Stato e lo fa uno? - Non possiamo. - Ora, non è elemento di coesionela comunanza di piacere e dolore, quando tutti cittadini si rallegrano e si addolorano, per quanto èpossibile, in eguale maniera per i medesimi successi e per le medesime disgrazie? - Senz'altro, rispose. - Enon sono un fattore dissolvente i piaceri e i dolori quando, pur essendo identici i casi che toccano sia alloStato sia ai privati cittadini, gli uni provano massimo dispiacere, gli altri massima gioia? - Indubbiamente. -Ora, ciò non succede forse quando i cittadini non usano concordemente le espressioni, 'il mio' e 'il nonmio'? e analogamente per 'l'altrui'? - Esatto. - Ebbene, quello Stato in cui la maggioranza usa con l'identicoscopo e alla stessa maniera l'espressione 'il mio' e 'il non mio', non è uno Stato ottimamente amministrato? -Sì, certo. - E non è quello che più s'avvicina a un individuo? Per esempio, quando, supponiamo, veniamocolpiti a un dito, se ne accorge tutta la comunione del corpo con l'anima, ordinata in unico sistema sottol'elemento che in essa governa; e sente tutta quanta insieme il dolore della parte offesa ed è così chediciamo che l'uomo ha male al dito. E non vale lo stesso discorso per qualunque altro organo umano,quando si parla di dolore se una parte soffre, di piacere se si risana? - Sì, rispose, vale lo stesso discorso; e,per rispondere alla tua domanda, assai prossimo a un simile individuo è lo Stato con ottima costituzione.

Tale posizione conduce Platone a sostenere, per le classi superiori, non solo la comunanza dei beni, maanche quella delle donne e dei figli; insieme alla proprietà privata dei beni scompare così la famiglia.Investito della suprema missione di realizzare la giustizia, lo Stato platonico si insinua infatti in ogni aspettodella vita. Il numero dei matrimoni, nonché quello dei figli, viene stabilito dallo Stato; la procreazione èrigidamente controllata, secondo criteri quantitativi, eugenetici e cronologici; infine i figli vengono subito

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allontanati dalla famiglia ed educati in comune dallo Stato, in modo tale che nessun genitore possariconoscere un singolo individuo come proprio figlio, ma riconosca come tali tutti gli individui aventi unacerta età.

Infine, Platone affronta la questione cruciale: la condizione che rende giusto un simile Stato. Siamo di nuovoal tema dei filosofi-reggitori. L'educazione del filosofo non potrà limitarsi alla ginnastica per il corpo e allamusica (opportunamente depurata) per l'anima, come avveniva per i custodi; essa comprenderà un piano distudi, che consiste nel graduale elevarsi dal sensibile all'intellegibile mediante la matematica, l'astronomia, lamusica e la dialettica. Il filosofo che avrà ricevuto tale educazione avrà il dovere di ridiscendere tra gliuomini, per assumerne il governo.

L'ultimo argomento della Repubblica sul quale vale la pena di soffermarsi è la teoria delle forme di governo.Alla fine del IV libro Platone determina in cosa consista lo Stato perfetto o giusto: è lo Stato nel quale le treclassi, come le tre virtù fondamentali, hanno la loro adeguata espansione, adempiendo il compito assegnatoloro dalla natura. La giustizia consiste in questa virtù regolatrice, la cui assenza o la cui presenzainsufficiente determina la degenerazione dello Stato, cioè la disarmonia dei fattori che lo compongono.Ciascuna forma degenere dello Stato è collegata all'altra, nel senso che la produce, secondo un processo diprogressiva degradazione o allontamento dalla perfezione.

Dall'aristocrazia, che è lo Stato perfetto, si passa alla timocrazia, quindi all'oligarchia, alla democrazia einfine alla tirannia. La causa originaria della degenerazione è di tipo biologico. E' un errore nellaregolamentazione della generazione: congiungendo fuori tempo le spose e gli sposi ne nascono figliimperfetti. Di qui una progressiva degenerazione individuale, un progressivo impoverimento culturale, chedeterminerà analoga decadenza nello Stato.

La prima forma degenerata è la timocrazia: in essa prevale l'elemento irascibile o animoso, e dunquel'ambizione e la tendenza alla ricchezza piuttosto che alla virtù. I membri della classe dominante divengonoproprietari e riducono in servitù le classi inferiori, provvedendo essi stessi alla guerra. La classe dominantediviene un'aristocrazia militare. La tendenza a coltivare, sia pure in segreto, i piaceri della ricchezza conduceallo Stato oligarchico, basato esclusivamente sul censo. Si tratta di uno Stato imperfetto sotto un tripliceriguardo: anzitutto, la direzione del governo non è affidata ai più capaci, ma ai più ricchi; in secondo luogo,lo Stato perde la sua unità, giacché al suo interno si formano lo Stato dei ricchi e quello dei poveri; in terzoluogo, va perso il principio della specializzazione, giacché tutti esercitano tutte le funzioni e ognuno puòalienare (ossia vendere) ciò che possiede. Di qui la nascita della democrazia, che è economica e morale altempo stesso: economica, perché la libertà di alienazione conduce ad una sempre crescente povertà e quindirende la classe dei poveri largamente maggioritaria; morale, perché il povero vede nel governante soltantoun ricco, perdipiù illegittimamente arricchito. Ne risulta una lotta intestina, che si conclude con la vittoria deipoveri e l'instaurazione della democrazia: questa è caratterizzata dall'eguaglianza politica e dal sorteggiodella maggior parte delle cariche. Nella democrazia, Platone distingue tre categorie: i cittadini politicamenteattivi, guidati dai demagoghi; i cittadini più capaci, che divengono ricchissimi; e la classe più numerosa,quella degli operai e degli sfaccendati. I demagoghi, per accattivarsi il favore degli operai e deglisfaccendati, che rappresentano la maggioranza, redistribuiscono gli averi tolti ai cittadini più ricchi; questiultimi tentano allora di difendersi e vengono accusati di mène oligarchiche. In questa situazione di scontro,nasce il tiranno, come capo del popolo; egli continua la politica democratica, mettendo a morte o esiliando inemici e promuovendo le abolizioni di debiti o le redistribuzioni di beni e terreni. Stretto dalla necessità dimantenersi al potere, il tiranno è costretto a ogni sorta di ingiustizia o delitti.

A ognuna delle forme degenerate corrisponde un tipo umano: il timocratico è ambizioso, apprezza le virtùguerriere e, invecchiando, inclina alla brama di ricchezze; l'oligarchico ha le caratteristiche dell'avaro; ildemocratico è psicologicamente un dissipato, preda del variare dei suoi desideri immediati; il tirannico èaddirittura un mostro, perché in lui si scatenano quegli istinti violenti e abnormi che, osserva Platone,qualche volta si manifestano nei sogni.

Sulle opere successive alla Repubblica - in genere interpretate in termini di maggiore realismo - è probabileche abbiano influito le esperienze personali di Platone. Platone effettua infatti tre viaggi in Sicilia, a

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Siracusa. Il primo nel 388, quando ha 39-40 anni; chiamato dall'amico Dione - il quale tenta di realizzare unariforma politica dello Stato, allora retto dal tiranno Dionisio il Vecchio - Platone si reca a Siracusa, ma irapporti con il tiranno diventano ben presto difficili e il filosofo è costretto ad un ritorno burrascoso edrammatico. Il secondo viaggio avviene nel nel 366, quando il filosofo ha ormai 61-62 anni. A Dionisio èsucceduto il figlio, sul quale Dione pensa di avere grande influenza; l'intenzione è quella di sostituirsi altiranno, ma questi se ne accorge, bandisce lo zio Dione e tiene praticamente prigioniero Platone per qualchetempo. Il terzo viaggio è del 361, quando Platone ha 66-67 anni; il filosofo cerca di far revocare l'esilio neiconfronti di Dione, ma non vi riesce e può tornare ad Atene solo grazie all'intervento di Archita.

Ma torniamo alle opere. Nel Politico la suddivisione delle forme di governo muta notevolmente: lo Statoperfetto è quello governato da un re intelligente, il quale possegga saldamente l'arte regia. Sarà questa - enon le leggi - ad ispirare l'esercizio del potere. La discussione sulle leggi è degna di rilievo. Platone svalutalo Stato legale, perché la legge, in virtù della sua generalità ed astrattezza, non può prevedere l'infinitavarietà dei casi. Le norme fisse presentano quindi due inconvenienti: il primo è quello già detto, per cui essesi rivelano inadeguate di fronte a nuove situazioni; il secondo è che il cambiarle getta il discredito sullenorme stesse. La fissità delle leggi nuoce a qualsiasi arte, giacché impedisce ogni perfezionamento e ogniricerca. Ancora peggiore di uno Stato governato da leggi fisse è tuttavia uno Stato dove colui che presiedealle leggi sia scelto per alzata di mano o per sorteggio: evidente la polemica di Platone, di ispirazioneconservatrice, contro la democrazia ateniese. E' bene non mutare le antiche leggi e non permettere chevengano infrante. Di fronte alla retta costituzione, ossia alla costituzione secondo scienza, avremo allora duevie diverse: la via legale e la via illegale. Nella prima avremo monarchia, aristocrazia e democrazia; nellaseconda democrazia, oligarchia e tirannia. Quindi la democrazia è l'ultima (e la peggiore) delle forme legalie la prima delle forme illegali.

Il re è assimilato al tessitore, così come la politica è l'arte della tessitura e dell'intreccio: egli possiedestrategia, arte del giudicare, arte retorica, sia pure sempre sotto la direzione della scienza politica. Ilmonarca, grazie all'arte regia, costituirà un'armonica orditura dei vari caratteri dei cittadini, temperando glieccessi mediante l'educazione ed eliminando coloro i quali si rivelino incorreggibili.

Lo Stato ideale è quindi lo Stato senza leggi, governato da quella specie di dio in terra che è il re, fornitodell'arte politica. Ma Platone riconosce che nessun uomo, il quale eserciti un potere assoluto, riesce a nonmacchiarsi di ingiustizia e di violenze; se a governare è un uomo e non un Dio, è impossibile sfuggire allesofferenze e ai mali e l'unica cosa che si può fare è cercare di «obbedire a quanto in noi vi è di immortale inpubblico e in privato, nel fondare gli Stati e le famiglie chiamando legge il precetto della mente».

Lo Stato di cui parla Platone nelle Leggi è per l'appunto uno Stato legale, nel quale il ruolo del filosofo, adifferenza della Repubblica, non è quello del reggitore, ma quello del legislatore: egli si limita a conferirerazionalità allo Stato mediante norme tratte dalla sua sapienza e poi si ritira. Il ricorso alle leggi è perciò -coerentemente con l'impostazione del Politico - una necessità di fatto e una rinuncia alla situazione ideale.Non esistono infatti leggi o ordinamenti, ribadisce Platone, superiori alla sapienza: la giustizia che è nellecose dispone che l'intelletto non dipenda da nulla ma diriga tutto, se è un intelletto veramento libero e nobile.Purtroppo, continua Platone, «oggi non ci sono intelletti con queste qualità; solo qualcuno ne gode inminima parte. Noi quindi dobbiamo ricorrere a ciò che tiene il secondo posto dopo l'intelletto, l'ordinamentopolitico e la legge, che possono estendere la loro guida su moltissimi aspetti della vita, ma non su tutti». Alleosservazioni sui limiti insiti nella legge, per via del suo carattere generale, si aggiunge qui la costantevalutazione pessimistica del mondo contemporaneo, che è tipica dell'atteggiamento platonico.

Le caratteristiche dello Stato delineato nelle Leggi sono comunque sostanzialmente coerenti conl'impostazione platonica di fondo, anche se presentano qualche accentuazione autoritaria. Anzitutto, lo Statosi configura come un'entità chiusa, ostile ad ogni rapporto commerciale:

Se fosse stata sul mare, la capitale [dello Stato], pur essendo fornita di porti ma avendo alle spalle unaregione non fertilissima, e quindi priva di molti prodotti, io ti dico che tale Stato avrebbe avuto bisogno dilegislatori divini e di un uomo non comune al timone, se - data la sua stessa configurazione naturale - nonvolesse accogliere in sé dal mare una varietà disordinata di costumi e di vita. [...] Il mare vicino alla

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regione abitata è cosa piacevole giorno per giorno, ma in sostanza è un'amara e salata vicinanza. Perché loStato si riempirebbe allora di traffici e di affari commerciali, e nascerebbe in lui costume di falsità eincostanza nelle promesse, sì che esso stesso ne diverrebbe infido e nemico di sé nei suoi rapporti interni, eparimenti sarebbe nei riguardi degli altri all'esterno. E' un rimedio contro questo male il fatto che esso siafertile; ma se tu dici che la sua terra è accidentata è chiaro che la fertilità del suo suolo non è illimitata, cosìnella qualità come nella quantità dei prodotti. Se così fosse, sarebbe facile esportare in grande quantità, e siriempirebbe di moneta d'oro e d'argento; e di questo io dico che non c'è più grande male e più grandeostacolo perché uno Stato consegua costumi giusti ed elevati.

In secondo luogo, la suddivisione del territorio avviene secondo rigidi criteri matematici, di tipo egualitario.Lo Stato ideale viene quindi definito in termini rigidamente organicistico-unitari: è lo Stato «come un soluomo».

Dico quindi che lo stato più civile e la forma di costituzione e l'ordinamento legislativo più perfetti sitrovano là dove tutta la vita dello stato si può riassumere in questo detto antico: "La cosa dell'amico èdell'amico". Quanto ho detto vale sia nel caso che ciò già si realizzi in qualche luogo della terra, sia per ilfuturo, - comuni cioè le donne, i figli comuni e comune ogni avere - in tale caso con ogni mezzo ciò che sidefinisce privato viene strappato alla vita dell'uomo, d'ogni parte, con ogni sforzo ci si industria dicollettivizzare in qualche modo anche ciò che la natura ha fatto particolare proprietà, e gli occhi e leorecchie e le mani hanno la sensazione di vedere insieme, udire insieme, agire insieme e concordementetutti insieme, quanto più possono, danno l'approvazione o il biasimo come un solo uomo, delle stesse cosesanno la gioia o soffrono il dolore; e dove le leggi danno così la massima unità allo stato in ciò esse hannola più giusta e più degna definizione della loro perfezione. In questo stato potrebbero vivere beati sia ungruppo di dèi, sia di figli di dèi. Non occorre perciò cercare altrove esempio di costituzione, ma attenersi aquesto e cercare di realizzarlo meglio che sia possibile.

La proprietà privata viene ammessa, ma solo come "usufrutto" di una proprietà statale; inoltre l'ordinamentocatastale, come quello demografico, è fissato una volta per tutte («è necessario stabilire che il numero deifocolari costituiti ora da noi, non dev'essere mutato mai, sempre uguale, non deve crescere di una unità nécalare di una»). Vi è inoltre assoluto divieto di libertà economica:

Non c'è posto in questo ordinamento per gli affari e le speculazioni, anzi per l'intima natura di questoordinamento nessuno ha diritto nè potere di mercanteggiare in speculazioni degne di schiavi, perché unmestiere così vergognoso travolge il costume e nessuno può ritenere dignitoso l'usare di questo mezzo perfar denaro.

Al divieto di libertà economica si accompagna, ancora una volta, la concezione radicalmente negativa dellaricchezza: l'obiettivo di rendere lo Stato virtuoso e felice è incompatibile con l'obiettivo di renderlo «quantopiù ricco è possibile», giacché se è logico che chi è felice sia anche retto, è impossibile, dice Platone, essereinsieme ricco e onesto, almeno nei limiti della nozione volgare di ricchezza. La conclusione è che nello Stato

non ci deve essere oro né argento, né grosse speculazioni finanziarie realizzate per vile mestiere e conl'usura, e nemmento illeciti guadagni sulla necessità dell'allevamento del bestiame, ma soltanto di doni cheoffre la terra e questi in misura da non costringere chi li raccoglie a trascurare il fine di ogni ricchezza:parlo dell'anima e del corpo che senza educazione morale e fisica non possono diventare degni di nessunastima. E' per questa ragione che io ho ripetuto più volte che bisogna lasciare all'ultimo posto il pensierodella ricchezza; essendo tre sole le cose per cui l'uomo si dà cura, il pensiero della ricchezza se vuol essereal giusto posto dev'essere il terzo e l'ultimo, in mezzo la cura del corpo e avanti a tutto l'attenzione rivoltaall'anima.

La divisione in classi avviene su basi censitarie, perché non si può fare altrimenti; Platone preferirebbe unarigorosa eguaglianza, ma riconosce che, al momento della formazione del nuovo Stato, alcuni individui sitroveranno comunque in possesso di un numero maggiore di beni, rispetto ad altri. Ne consegue che ladistribuzione delle cariche dovrà avvenire non solo sulla base della dignità personale, dell'appartenenzafamiliare e dei talenti individuali, ma anche sulla base della ricchezza, sempre però in modo misurato e

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facendo sì che non ne derivino dissensi. Platone prevede, in base al patrimonio, quattro classi di cittadini, trale quali può realizzarsi anche una certa mobilità (ascensiva o discensiva); ma pone chiari limitiall'arricchimento e all'impoverimento, nella convinzione che l'eccessiva miseria o l'eccessiva ricchezzaproducano inevitabilmente una situazione di discordia, che rappresenta, ai suoi occhi, la «più grave malattia»che possa affliggere lo Stato.

Quanto ai matrimoni, questi sono rigidamente regolamentati dallo Stato e finalizzati ai suoi superioriinteressi. Il criterio che li deve ispirare è la medietà, la temperanza: non dovranno essere fuggite le nozze coni poveri, né dovranno essere affannosamente cercate le nozze con i ricchi (e, in ogni caso, sono preferibili leprime). Inoltre, chi ha un carattere ardito e impetuoso dovrà cercare di «farsi genero di padri equilibrati; chiinvece ha contraria natura, deve indirizzarsi verso una parentela contraria». In generale, anche se ognuno èportato ad unirsi con il proprio simile, è bene che nei matrimoni ciò non avvenga; altrimenti i ricchicercheranno la ricchezza, i potenti il potere, e da ciò ne deriverà una diseguaglianza sempre più accentuataall'interno del corpo sociale. I matrimoni ispirati all'insieme di questi princìpi, conclude Platone, saranno digrande utilità sia per lo Stato che per le famiglie; e non è un caso che l'utilità pubblica preceda quella privata,giacché per il filosofo la regola universale delle nozze è che «ognuno deve contrarre matrimonionell'interesse dello Stato, non per suo piacere».

Platone prevede inoltre una sorta di prima fase di imposizione delle leggi, affinché queste possano radicarsinei costumi:

Ateniese: [...] noi stiamo per fondare uno stato proprio in modo coraggioso ed audace.

Clinia: Ma come tu puoi dire questo, ora? Dimmi perché.

Ateniese: Perché noi diamo leggi con facilità arrischiata a uomini che non hanno esperienza, senza saperecome le accoglieranno. E' chiaro, Clinia, e tutti vedrebbero, anche uno sciocco, che in principio non saràfacile che anche uno solo di loro le accetti, ma se sapremo resistere finché i bambini degustate le leggi ecresciutivi si siano sufficientemente assuefatti al loro spirito e partecipino alle elezioni comuni di tutto lostato, se tutto questo avverrà, se in qualche modo o con qualche mezzo riuscirà, io vi dico che anche pertutto il tempo futuro a questo tempo presente avrà grande sicurezza di non dissolversi uno stato così benavviato.[...]

Ateniese: Vediamo quindi di trovare una via buona per arrivarci. Io credo, Clinia, che i Cnossii più di tuttigli altri Cretesi non devono badare alla terra che ora colonizzate solo come per scaricarsi di un dovere siapure verso gli dèi, ma impegnarsi seriamente per rendere le magistrature supreme della colonia quanto èpiù possibile buone e durevoli. Per le altre l'importanza è minore, ma è assolutamente necessario sceglierecon massima cura i più alti custodi delle leggi.

Clinia: Quale è dunque la strada per attingere questo fine, e quali sono le ragioni di questa strada?

Ateniese: Questa. I Cnossii, o figli di Creta, sono fra voi quelli che hanno una più alta tradizione politica;bisogna quindi che essi insieme agli altri giunti nella nuova sede scelgano fra tutti 37 uomini, di cui 19 datutti gli altri coloni e il resto solo da quelli di Cnosso; saranno questi un dono che i Cnossii faranno alnuovo stato e persuaderanno te o con una certa forza ti costringeranno ad essere cittadino della colonianuova ed uno dei 18.

Per le elezioni Platone dice di aver cercato un sistema di compromesso tra monarchia e democrazia,distinguendo chiaramente tra l'eguaglianza immediata (e livellatrice) e l'ottima eguaglianza, che coincide conil principio dell'unicuique suum:

Schiavi e padroni non diventano amici, né lo diventano valenti e incapaci portati allo stesso livello,l'uguaglianza fra ineguali diviene ineguaglianza, se non c'è criterio di giusto limite. Per questi due fattorigli stati pullulano di sedizioni. E' vera l'antica sentenza che l'uguaglianza genera la concordia, è unaformula esatta e logica, ma quale sia l'uguaglianza che può far ciò non è molto chiaro, e quindi il problema

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ci lascia molto perplessi. Ci sono due specie di uguaglianza, hanno lo stesso nome, ma nei fatti sono quasil'una contraria all'altra per molte ragioni; l'una può realizzarla ogni stato ed ogni legislatore, nelladistribuzione delle cariche; è uguaglianza immediata per misura, peso, quantità, e nelle suddettedistribuzioni si può aiutarsi anche con un sorteggio. L'altra, la vera e ottima uguaglianza, non a tutti è facilevederla. Il discernerla appartiene a Zeus, gli uomini la godono sempre in misura minima, ma per quanto siapiccola la misura in cui è presente negli stati e negli individui, è sempre fonte di ogni vantaggio. E' dare dipiù a ciò che vale di più, di meno a ciò che vale meno, dare a ciascuno ciò che gli spetta secondo il suovalore reale; così più grande onore a chi è migliore, il contrario a chi è nella condizione contraria per virtùed educazione; a ciascuno il suo.

La forma più notevole di intervento statale è infine di carattere religioso. Quello delle Leggi è uno Statoteocratico, imperniato su una teologia di carattere astrale e dotato di una legislazione religiosa molto severa,che vieta pratiche religiose diverse da quella della religione ufficiale e che punisce l'ateismo con la prigioneo la morte. Il supremo organo teologico è il 'Consiglio notturno', composto dai dieci custodi più anziani delleleggi e da tutti i cittadini premiati per la loro virtù; a questi si aggiungono quelli che, tra gli osservatoriandati all'estero alla ricerca di esperienza legislative, siano ritenuti degni di tale incarico. I componenti delConsiglio ricevono un'educazione speciale (come i filosofi nella Repubblica) e in sostanza si rinnovano percooptazione; loro supremo scopo è rappresentare l'uno nella molteplicità, giacché unico è il principioinformatore che regola lo Stato e anima le sue differenti istituzioni.

2. Aristotele

Cenni biografici

Aristotele nasce nel 384/383 (quando Platone ha 44 anni) a Stagira, una piccola città della penisola calcidica,all'estrema periferia del mondo greco. Stagira è sottoposta all'influenza del regno di Macedonia, alle cuivicende Aristotele rimarrà legato per sempre (il padre Nicomaco era infatti medico alla corte macedone).Due osservazioni: dalla professione del padre Aristotele riceve forse un incentivo verso gli interessinaturalistici; dalla collocazione sociale deriva invece il diverso rapporto con la politica, rispetto a Platone,visto che la contesa per il potere politico gli era preclusa tanto in patria (ove vigeva la monarchia), tanto inAtene (in quanto straniero). Comunque, in Aristotele la vita etico-politica non è più il fine, ma una parte edun oggetto tra i tanti del sapere; in ciò egli prefigura, secondo alcuni studiosi, l'intellettuale ellenistico che, apartire dal III secolo, vive in un mondo dominato dalle monarchie assolute.

Nel 367 (quando ha 17 anni) Aristotele giunge ad Atene, dove diviene membro dell'Accademia platonica,forse dietro presentazione della corte macedone. Lo attirano in essa soprattutto le ricerche logiche escientifiche. Nell'Accademia rimane per venti anni, fino alla morte di Platone, ossia nel 347. AlloraAristotele, che ha 37 anni, si reca ad Asso, in Asia Minore, dove entra in amicizia con Ermia, il signore dellacittà, e ne sposa la figlia Pizia; anche Ermia era nell'area di influenza macedone. Lì conosce il naturalistaTeofrasto, che rimarrà suo discepolo, seguendolo anche a Mitilene.

Nel 342 Aristotele viene invitato da Filippo II ad assumere l'incarico di precettore del futuro AlessandroMagno. Nel 338, in seguito alla vittoria di Cheronea, Alessandro Magno stabilisce la supremazia macedonesull'intera Grecia. In questo quadro Aristotele può tornare in tutta sicurezza, nel 335, ad Atene. Rotti irapporti con l'Accademia, egli apre una scuola con corsi regolari presso il tempio di Apollo Licio, dettaperciò Liceo (ma anche Perìpato). Il Liceo ha caratteristiche diverse dall'Accademia. Fra i suoi frequentantinon esiste alcun legame religioso o politico, alcuna regola comune di vita. Meno aperto alla liberadiscussione dialettica (l'insegnamento di Aristotele era in certo qual modo "ufficiale"), il Liceo lascia piùspazio alle ricerche settoriali e specializzate. Esso ha un'organizzazione perfetta: i diversi corsi copronoquasi tutti i campi del sapere (filosofia, scienze naturali, politica, filologia, fisica, medicina, matematica), purmantenendo tra essi un collegamento unitario. Inoltre per ogni campo viene curata una raccolta sistematicadi materiali di studio (si pensi alla raccolta delle 158 costituzioni di città greche, andate purtroppo perse, conl'eccezione di quella ateniese), con il risultato di fornire la scuola di un'ampia biblioteca.

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Nel 323 muore Alessandro Magno e riprende vigore, in Atene, il partito anti-macedone. Aristotele è quindicostretto a lasciare la città e a riparare a Calcide, in Eubea, dove muore nella casa della madre nel 322, a 62anni.

Il pensiero politico

Per comprendere il pensiero politico di Aristotele bisogna prendere le mosse dall'Etica nicomachea,all'interno della quale il filosofo individua l'oggetto e il fine della scienza politica: l'oggetto consiste nelleprescrizioni legali su che cosa si debba e non si debba fare; il fine consiste nel bene dell'uomo.

Tra etica e scienza politica vi sono notevoli affinità. Anzitutto, entrambe sono scienze pratiche, ossia scienzeche hanno come fine non il sapere in se stesso (come fanno le scienze teoretiche, ossia matematica, fisica emetafisica), ma un sapere finalizzato al concreto agire umano e al suo valore. Entrambe, inoltre, hanno peroggetto il mondo umano, caratterizzato dalla libertà, e si muovono dunque nell'ambito della conoscenzaprobabile, a differenza delle scienze teoretiche, che, avendo per oggetto il regno della necessità, possonoraggiungere un sapere certo e rigoroso. In secondo luogo, entrambe sono scienze di natura politica, giacchéanche l'etica presuppone i rapporti sociali tra gli uomini.

Aristotele, tuttavia, definisce propriamente "politica" solo la scienza che si occupa dello Stato, ossia dellaforma più alta e complessa di convivenza umana. A differenza dell'etica, infatti, la scienza politica non sioccupa dell'individuo, ma dello Stato. La differenza tra etica e scienza politica risiede dunque nel passaggiodalla dimensione individuale a quella collettiva; essa non riguarda il fine, che è identico (il bene dell'uomo),ma l'oggetto, che non è il singolo, ma la collettività. Ed è tale differenza, secondo Aristotele, a segnare lasuperiorità della scienza politica sull'etica: egli infatti sostiene che se «il bene è degno di essere amato ancheper un solo individuo», esso è tuttavia «più bello e più divino quando riguarda popoli e città».

A queste considerazioni si aggiunga il fatto che Aristotele, sempre nell'Etica nicomachea, preannuncia inqualche modo la Politica: egli rileva infatti come i filosofi precedenti non abbiano discusso la legislazione,cosa che invece egli intende fare, esaminando anche le forme di governo, sia per discernere quale sia lamigliore, sia per comprendere come esse siano ordinate. Aristotele assegna dunque alla sua Politica tantofini prescrittivi (o normativi), quanto fini descrittivi (o conoscitivi).

Nella Politica troviamo quattro punti di contatto con il pensiero di Platone:

1) la concezione organicistica dello Stato (che porta con sé la superiorità di quest'ultimo sull'individuo);

2) la concezione naturalistica dell'origine dello Stato (il quale sorge dai bisogni);

3) la concezione etica dello Stato (il quale ha un fine, che è la giustizia);

4) la concezione legale dello Stato (qui l'affinità si restringe, fermi restando tutti i necessari distinguo, alPlatone delle Leggi).

Tali punti di contatto non implicano tuttavia una piena identità di vedute. Come vedremo, anche là dovesono riscontrabili delle affinità, tra Platone e Aristostele restano significative differenze. Anzitutto, nellaconcezione organicistica dello Stato, che in Aristotele è decisamente meno rigida e meno radicale; purrestando impregiudicata la superiorità del tutto sulle parti (ossia dello Stato sugli individui singoli), inAristotele la totalità organica dello Stato consente, al suo interno, quella molteplicità e quella differenza chePlatone tende ad annullare, in nome di una concezione radicalmente unitaria. Lo Stato di cui parla Platone -lo Stato «come un sol uomo»[5] - costituisce un'unità eccessivamente ristretta, che annulla tutte le differenzee sembra non sottintendere alcun molteplice; ma poiché il carattere essenziale della polis è per l'appuntol'unità nella molteplicità (molteplicità di funzioni, di classi sociali, di caratteri, ecc.), ne consegue che unaunità concepita troppo radicalmente, sino ad annullare la molteplicità, distrugge la polis medesima. DiceAristotele: «è come se si volesse ridurre l'accordo musicale a un solo tono e il ritmo a una sola misura».

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Passiamo ora a considerare il modo in cui Aristotele spiega la nascita dello Stato: esso, come ogni altraassociazione, dice il filosofo, viene costituito con il fine di raggiungere qualche bene. Se questo vale perogni associazione umana, argomenta Aristotele, a maggior ragione dovrà valere per lo Stato, che rappresentala forma suprema di associazione. Attenzione, però: da questa somiglianza tra tutte le forme di associazione(in quanto tutte caratterizzate da un orientamento finalistico al bene), taluni ne derivano una conclusioneerrata, e cioè che tra i diversi capi (padrone, amministratore, magistrato, re) dei vari tipi di associazione visia una differenza meramente quantitativa: in sostanza, la differenza starebbe nel numero dei membridell'associazione sulla quale si comanda.

Per contestare tale conclusione Aristotele descrive la nascita dello Stato con metodo analitico e storico-genetico (vale a dire, con un metodo che dapprime scompone qualsiasi realtà nei suoi elementi più semplicie poi, a partire da essi, ricostruisce la genesi della realtà indagata):

Primieramente è necessario che si associno quegli esseri che non possono vivere l'uno separato dall'altro,come la femmina e il maschio a causa della riproduzione (e ciò non per libera scelta, ma, come negli altrianimali e nelle piante, è naturale anche nell'uomo la tendenza a lasciare un altro essere simile a sé); e chi èper naturale disposizione adatto al comando e chi all'obbedienza, onde il consorzio umano può conservarsi.Poiché l'essere dotato di intelligenza e preveggenza è dominatore e signore per natura; chi può eseguire conle facoltà corporali le prescrizioni di questo, è soggetto o schiavo: perciò gli interessi del padronecoincidono con quelli dello schiavo. Per natura dunque è determinata la condizione dell'essere femminino edell'essere servile, poiché la natura nelle sue creazioni non rassomiglia agli artigiani dozzinali, come quelliche fanno le spade delfiche, opera meschina; ma adatta ciascun essere alla sua funzione [...].

In questo testo sono presenti numerosi e importanti elementi. Anzitutto il carattere naturalistico della primaforma di associazione: la famiglia nasce da un bisogno naturale, addirittura biologico, e dunqueassolutamente necessario. Qui naturale sta per necessario, ossia per "non-volontario". In secondo luogo,altrettanto "naturale" è la divisione degli uomini in "adatti al comando" e "adatti all'obbedienza": neconsegue che la divisione tra governanti e governati affonda le sue radici nella "naturale" diseguaglianza trauomini e che è assolutamente necessaria al fine di conservare qualsiasi forma di associazione umana. Lapredisposizione naturale che giustifica il comando di alcuni uomini sugli altri sta nell'intelligenza e nellapreveggenza: colui il quale possiede tali doni è dominatore e signore per natura, dice Aristotele, mentre chipuò eseguire con le facoltà corporali le sue prescrizioni è soggetto o schiavo. Questa distinzione è data dallanatura, che adatta ciascun essere alla sua funzione. La famiglia, conclude Aristotele, è «l'associazioneformata per i bisogni immediati della vita ... secondo natura».

Se torniamo al parallelo con Platone, vedremo che motivo comune è l'origine "naturale" dello Stato: essonasce dai bisogni (qui dal bisogno biologico della riproduzione, in Platone dai bisogni primari di nutrizione eprotezione). In Aristotele possiamo cogliere una sottolineatura della naturalità, in termini biologici; egliinoltre ci propone una ricostruzione storica dell'evoluzione delle forme sociali, partendo dalle forme minoridi associazione; ma comune ad entrambi è la spiegazione in termini naturalistico-utilitaristici dell'originedello Stato.

Riprendendo la ricostruzione aristotelica, la tappa successiva, dopo la famiglia, è il villaggio. La logicarimane la stessa: il villaggio è un'associazione di famiglie che si propone di raggiungere una utilità più ampiae complessa, rispetto alla famiglia. E' in sostanza l'aggregazione che nasce da un'espansione e sofisticazionedei bisogni: anch'esso dunque un fenomeno naturalistico. Infine abbiamo l'associazione di più villaggi, che èla città, la quale ha come caratteristica l'autosufficienza. Conclusione di Aristotele:

[...] ogni città è per natura, se per natura sono anche le prime associazioni, essendo la città il risultatofinale cui tendono queste associazioni; e il fine determina la natura degli esseri.

Se la città è un fatto naturale, ciò significa che l'uomo sarà un essere naturalmente sociale. Ed infattiAristotele afferma:

[...] L'uomo è animale per natura socievole: sicché l'uomo estraneo a ogni convivenza civile per natura e

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non per sorte è un essere o al di sopra o al di sotto dell'umanità [...]

Si tratta di uno dei capisaldi della teoria politica aristotelica: l'uomo è un essere socievole per natura epertanto le istituzioni sociali e politiche nascono e si sviluppano altrettanto naturalmente. Questo modo dispiegare l'origine e lo sviluppo delle istituzioni politiche avrà una fortuna straordinaria. Bisognerà infattiaspettare Hobbes (e dunque 19 secoli!) perché esso sia rovesciato nei suoi assunti e nelle sue conclusioni:l'uomo, dirà il filosofo inglese vissuto nel '600, è un essere naturalmente asociale, che entra inevitabilmentein guerra con i suoi simili; dunque le istituzioni politiche, lungi dal nascere naturalmente, sono il frutto diuna consapevole scelta dell'uomo - sono veri e propri artifici -, il quale se ne serve per salvare la propria vitadalla distruttività della propria natura.

Ma torniamo ad Aristotele. La sua ricostruzione della nascita e dello sviluppo dello Stato si conclude conuna interessante riflessione sul linguaggio:

è quindi manifesto che l'uomo è animale socievole in grado maggiore delle api e di ogni animale che vive ingregge. Niente infatti, secondo noi, la natura fa invano; solo l'uomo tra tutti gli animali ha la parola. Lavoce può esprimere dolore e piacere, perciò l'hanno anche gli altri animali (fin qui infatti giunge la loronatura, d'avere la sensazione del dolore e del piacere e significarlo; la parola poi ha il fine di manifestareciò che è utile e ciò che è dannoso) e per conseguenza anche ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Questoinfatti è il carattere proprio dell'uomo rispetto agli altri animali, che solo ha la nozione del bene e del male,del giusto e dell'ingiusto e di tutte le altre antitesi morali. L'associazione degli esseri forniti di questenozioni crea la famiglia e la città.

Arrivata a questo punto, l'analisi aristotelica inverte la sua direzione, percorrendo il cammino opposto: dopoessere partita dal particolare (i due individui che formano la famiglia) per arrivare al generale (la città), oradal generale torna al particolare, per dimostrare come la città sia condizione dell'individuo. Qui Aristotelepresenta la classica concezione organicistica, in virtù della quale il tutto è qualcosa di superiore alla sommadelle parti.

Per natura poi la città è la condizione della famiglia e dell'uomo singolo. Il tutto infatti è necessariamentecondizione della parte, poiché tolto il tutto, non si ha né piede né mano, se non di nome, come se si dicesseuna mano di pietra: essendo una mano staccata dal tutto soltanto una mano morta. Infatti il valore di ogniorgano consiste nella sua funzione e nella sua potenza; così le membra ridotte in condizione di frammentinon si possono chiamare membra se non di nome. Adunque, che la città sia un fatto naturale e condizioneper la vita dell'individuo appare manifesto: se infatti ciascuno da sé non basta a se stesso, sarà rispetto allacittà nella stessa relazione, che le parti al tutto: e chi non è atto a partecipare alla vita civile o non ne habisogno, non può divenire membro della città, sicché o è belva o Dio. Per natura dunque tutti sentonol'impulso verso siffatta associazione.

Tale impulso naturale alla costituzione della città ha inoltre un'importante conseguenza etica:

il primo che ne gettò le basi, fu causa di grandissimo bene. Come infatti l'uomo, se ha raggiunto laperfezione inerente alla sua natura, è il migliore degli animali, così quando non si regola secondo le leggi enon s'ispira all'idea di giustizia, è il pessimo, poiché dannosissima è l'ingiustizia fornita di mezzi per recardanno. L'uomo infatti dispone di tutti i mezzi per usare prudenza e virtù, e questi mezzi può adoperare a finiperversi. Perciò senza la virtù l'uomo è l'animale più empio e più selvaggio, inclinato nel modo peggiore aipiaceri sensuali e al cibo. La giustizia è elemento e condizione della società civile; perché il diritto è normadella convivenza civile, e la pratica di esso consiste nella decisione di ciò che è giusto.

Qui appare la concezione legale ed etica dello Stato. Abbiamo dunque visto come Aristotele spieghi lanascita e lo sviluppo delle associazioni umane, attribuendo un carattere fortemente naturalistico a questoprocesso, e come egli delinei una concezione legale, etica ed organicistica dello Stato.

Ma, come abbiamo già evidenziato, l'organicismo teorizzato da Aristotele è ben diverso da quello di Platone.Ed è nella cornice di questa fondamentale differenza che possiamo inserire la celebre critica aristotelica al

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comunismo platonico. In primo luogo, Aristotele sostiene che il sistema collettivistico presenta uninconveniente di fondo, legato alla natura umana. Gli uomini tendono infatti a prendersi meno cura delleproprietà comuni, giacché «ciascuno attende con maggiore impegno ai suoi interessi privati che a quellipubblici»; inoltre, quando la proprietà è comune, gli individui tendono a non impegnarsi in prima persona,ma a fare affidamento sull'attività altrui. Queste disposizioni naturali fanno sì che la comunanza delle donnee dei figli provochi effetti assai dannosi: poiché nella citta platonica, dice Aristotele, «ciascuno si trova inrelazione con mille figli di tutti i cittadini» e la paternità rimane incerta, ne consegue che o gli adultitrascureranno egualmente tutti i giovani, o ciascun cittadino rivendicherà per sé i giovani in buonecondizioni fisiche e morali.

In secondo luogo, Aristotele rivolge la sua critica alla comunanza dei beni. Esistono tre modi, egli dice, dirisolvere il problema della proprietà: conferire ai privati la proprietà dei fondi, ma consumarecollettivamente i frutti che in essi vengono prodotti; oppure, considerare comune la proprietà della terra, madividerne i frutti secondo i bisogni particolari; infine, stabilire che tanto la terra quanto i suoi frutti sonoproprietà comune. Ora, le soluzioni che prevedono la proprietà comune della terra presentano dueinconvenienti di fondo, di natura economica e di natura psicologica. L'inconveniente economico consiste nelfatto che «non potendo esservi sempre proporzione tra i godimenti che ne risultano e l'opera che si presta, dinecessità si solleveranno querimonie contro quelli che godono o ricevono molto e lavorano poco, da parte dicoloro che ricavano poco lavorando molto». E' vero che secondo Aristotele l'uomo è un essere socievole; mail filosofo non manca di rilevare come tale socievolezza non sia priva di difficoltà: basta guardare, osservarealisticamente, «alle associazioni dei viaggiatori, dove quasi sempre nascono dissensi e attriti per le causepiù ovvie e più meschine». A ciò si aggiunga il fatto che, in generale, la proprietà arreca grandesoddisfazione all'uomo, poiché asseconda un aspetto fondamentale della sua natura. Veniamo cosìall'argomento "psicologico" a favore della proprietà: questa si radica nelll'amore verso se stessi, che - diceAristotele - non «è effetto di capriccio, ma di natura». E' giusto biasimare l'egoismo; ma quest'ultimo non vaconfuso con l'amore di sé, che costituisce un sentimento naturale e indispensabile, comune a tutti gli uomini,il quale si trasforma in egoismo solo quando si spinge al di là del giusto. Infine, soltanto la proprietàindividuale può consentire l'esercizio della generosità: venire in aiuto di amici, stranieri o compagni, diceAristotele, è «cosa dolcissima», che dà reale soddisfazione (e ha vero valore) solo quando i beni che siimpegnano in tale aiuto siano propri.

Infine Aristotele muove a Platone due obiezioni cruciali. La prima riguarda la causa delle discordie cheavvelenano la convivenza tra gli uomini, causa che Platone collocava proprio nell'esistenza della proprietàprivata. Si tratta, secondo Aristotele, di un formidabile errore, giacché tali discordie «sono mali inerenti nonal sistema individualistico [della proprietà], ma alla perversità umana», come ci conferma il fatto che«vediamo spesso la discordia regnare molto più violenta tra pochi che hanno un sistema comunistico diproprietà che tra molti i quali hanno proprietà individuali». La seconda obiezione di Aristotele riguarda gliinevitabili effetti del sistema collettivistico sulla vita degli uomini:

inoltre è anche giusto rilevare non solo i mali di cui vanno immuni i sistemi a base collettiva, ma anche ibeni di cui sono privi. Con essi infatti la vita ci appare insopportabile. L'errore di Socrate sembra derivaredalla base falsa del suo ragionamento: poiché se l'unità è necessaria per la famiglia e per la città, nonbisogna spingere questo principio alle ultime conseguenze. La città, procedendo su questa via, finirebbe conl'annullarsi, o, non annullandosi, menerebbe vita assai grama; e sarebbe lo stesso che se si volesse ridurrel'accordo musicale a un solo tono e il ritmo a una sola misura. Ma conviene, come ho già detto sopra,creare con l'educazione l'unità e la socievolezza nella città, senza pregiudizio della molteplicità dei suoielementi [...].

Veniamo ora alla concezione legale dello Stato. Noi sappiamo che in Platone lo Stato legale (nel Politicocome nelle Leggi) è una soluzione di ripiego dettata dalla realtà, visto che lo Stato perfetto, quello senzaleggi, è irrealizzabile. Viceversa, per Aristotele lo Stato legale non è un ripiego, ma la soluzione migliore. Ilcuore concettuale di questo argomento sta nella contrapposizione tra governo degli uomini e governo delleleggi, che Aristotele sviluppa nelle pagine dedicate all'analisi della monarchia.

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Dopo aver distinto tra le diverse forme in cui si è realizzata storicamente la costituzione monarchica(monarchia spartana, monarchia barbara, dittatura elettiva e monarchia dei tempi eroici), Aristotele sisofferma sulla monarchia come potere assoluto di uno, per contrapporlo al potere delle leggi. La questionecruciale, dice il filosofo, è «se convenga che [qualcuno] abbia un potere assoluto o non convenga»; in altreparole, «se convenga essere retto da un ottimo reggitore o da ottime leggi». Chi sostiene la prima ipotesi sibasa sul carattere generale, astratto e fisso della legge, che le impedisce di contemplare tutti i casi particolari;in base a ciò, ritiene che sia meglio non affidarsi interamente alle prescrizioni scritte e alle leggi. La rispostadi Aristotele a questa argomentazione è duplice. Anzitutto, chiunque governi ha comunque bisogno diprescrizioni generali: non è forse meglio, infatti, affidare il governo a qualcosa che non sia soggetto allepassioni, come la legge? In secondo luogo, quando tali prescrizioni non prevedono un caso particolare, concosa dobbiamo affrontare quest'ultimo? Chi giudicherà del caso particolare? Uno solo che si distingua permerito o la totalità dei cittadini? Per Aristotele è migliore la seconda soluzione, perché il giudizio emessodalla totalità dei cittadini, presa nel suo insieme, è sicuramente migliore del giudizio emesso da un singolo;inoltre la collettività è meno corruttibile delle piccole consorterie e meno condizionabile dalle passioni(giacché queste passioni dovrebbero prendere tutti contemporaneamente). In terzo luogo, è innaturale che adun uomo solo sia concessa la sovranità su tutti i cittadini, quando la città è formata da eguali.

Riguardo poi alla monarchia assoluta (e abbiamo questa quando il re impera su tutti secondo la suavolontà) sembra ad alcuni che non sia conforme a natura che ad un uomo solo sia concessa la sovranità sututti i cittadini, quando la città è formata da eguali: poiché esseri per natura eguali debbono avere gli stessidiritti e la stessa dignità; e quindi se è dannoso che uomini ineguali abbiano egual nutrimento e lo stessovestiario, così sarebbe ingiusto stabilire tale livellamento per gli onori, ma altrettanto ingiusto sarebbe cheuomini eguali avessero inegual trattamento. Perciò è giusto che nessuno abbia il potere più di quanto losubisca, e si alterni la condizione di governante con quella di governato: in ciò consiste la legge; e l'ordinepolitico si identifica con la legge. E' preferibile infatti l'impero della legge a quello di qualunque cittadino[...] La sovranità della legge equivale adunque alla sovranità di Dio e della mente, la sovranità dell'uomoequivale a quella dell'animale: poiché la cupidigia e le passioni traviano, quando sono al potere, anche gliuomini migliori. Ma la legge è senza passioni.

Abbiamo dunque due argomenti: il più importante è che la legge è preferibile all'uomo, in quanto non ècondizionata dalle passioni. La sovranità della legge è assimilabile ad una sovranità impersonale, comequella di Dio o della mente; mentre la sovranità dell'uomo singolo equivale alla sovranità dell'animale,soggetto alle passioni. Il secondo argomento, chiaramente anti-monarchico, consiste nella tesi secondo cui,quando è indispensabile prendere decisioni discrezionali (e Aristotele ammette senz'altro che si diano molticasi non previsti dalla legge e nemmeno prevedibili), allora è bene che decidano molti e non uno solo.

Quanto alla classificazione delle costituzioni, la suddivisione di Aristotele - che avrà, anch'essa, una fortunastraordinaria - è quella sestuplice, in base a due criteri: il criterio descrittivo del numero dei governanti (uno,pochi o molti) e quello valutativo del modo in cui viene esercitato il potere (se nell'interesse comune onell'interesse dei governanti). Grazie a questo secondo criterio, valutativo o normativo, Aristotele puòdistinguere le forme di governo in rette e degenerate: abbiamo così monarchia, aristocrazia e politìa, chedegenerano rispettivamente in tirannide, oligarchia e democrazia. Tale suddivisione non è comunque lineare,perché Aristotele esamina molte forme intermedie, con intento descrittivo.

La classificazione aristotelica potrebbe essere esaminata anche alla luce di un altro criterio valutativo. Ilpunto di partenza è costituito dalla netta opzione a favore del governo delle leggi (dotato dunque di unorgano collegiale con compiti legislativi), e a scapito del governo degli uomini: tale scelta escludesostanzialmente la costituzione monarchica, dato che questa, nella sua forma più pura, è il potere assoluto diun uomo (anche se, nella realtà, questa può venire più o meno sfumata; sembra inoltre di capire cheAristotele considera tale forma storicamente esaurita e superata). Diviene ovvio, a questo punto, che latirannia rappresenti per Aristotele la costituzione peggiore, in quanto forma pura del potere più personale,assoluto e crudele. Rimangono quindi soltanto altri quattro tipi di costituzione, che possono essere suddivisiin base al criterio dell'equilibrio o della medietà: da una parte stanno le costituzioni "buone", nelle quali ivari elementi della città stanno in un qualche equilibrio tra loro, e sono l'aristocrazia (che contempera

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ricchezza, libertà e virtù - dunque ricchi, poveri e nobili) e la politìa (che contempera ricchezza e libertà,ricchi e poveri); dall'altro stanno le costituzioni "cattive", nelle quali prevale un solo elemento della città, esono l'oligarchia (prevalenza della ricchezza) e la democrazia (prevalenza della libertà e della povertà).Queste ultime tendono a provocare, a causa della loro unilateralità, una situazione di disordine, dalla qualenasce la tirannia.

Nella trattazione della democrazia - dal punto di vista del criterio del numero - Aristotele insisteprincipalmente sulla superiorità dell'insieme sociale rispetto al singolo individuo:

l'affidare il potere piuttosto alla moltitudine che ai migliori, pochi di numero, potrebbe sembrare soluzionesoddisfacente, e degna di favorevole accoglienza, forse anche la più pratica. Infatti la maggiornaza, dellaquale ciascun singolo membro può non essere un uomo superiore, tuttavia nella sua totalità vede piùgiustamente che ciascuno degli uomini superiori, come i conviti fatti per contribuzione sono migliori diquelli fatti a spese di uno solo. Essendo infatti molti, ciascuno ha la sua parte di virtù e di senno, e messiinsieme, la moltitudine diventa come un uomo, dai molti piedi, dalle molte mani, fornita di molteplici sensi,con una morale e un'intelligenza avente tutti i vantaggi dell'unità e molteplicità. Per questa ragione lamoltitidine giudica le opere misucali e poetiche più rettamente che i singoli individui competenti: poiché chigiudica meglio una parte, chi un'altra, e tutti complessivamente giudicano meglio.

Il filosofo, conscio dei rischi insiti nell'affidarsi alla moltitudine e non ai "migliori", precisa tuttavia che idiritti politici dei cittadini meno eminenti (che saranno la maggioranza) dovranno essere attivi e non passivi.La massa dei cittadini, dice infatti Aristotele,

è formata da quanti non sono ricchi né hanno alcuna qualità eminente. Certo, la partecipazione di questialle maggiori magistrature non è cosa priva di pericoli (poiché per mancanza d'equità e di temperanza oracommetteranno ingiustizie ed ora incorreranno in errori): d'altra parte, il non conceder loro questapartecipazione è cosa pericolosa (poiché quando molti sono privi degli onori e delle ricchezze, la città sarànecessariamente piena di nemici). L'unica cosa che si può loro concedere, è di deliberare sugli affaripubblici e di prendere parte ai giudizi nei tribunali. Perciò Solone e alcuni altri legislatori riconoscono allamassa dei cittadini il diritto di eleggere i magistrati e di esercitare un sindacato sull'opera loro, ma nonpermettono di esercitare magistrature individuali. Tutti assieme infatti hanno una discreta dose di buonsenso; e, trovandosi in mezzo ad essi uomini di senno, sotto l'influenza di questi, agiscono bene e giovanocosì alla città; [...] Ma gli individui ciascuno per sé non sono in grado di giudicare rettamente.

Aristotele rifiuta infine un'obiezione che potremmo definire "tecnocratica", ossia basata sulla competenzaspecialistica: in base ad essa, alcuni sostengono che la moltitudine non è in grado di eleggere i magistrati odi sindacarne l'operato, così come non avrebbe competenza per scegliere un medico o valutarne l'operato.Aristotele ritiene che tali obiezioni siano valide nell'ipotesi di un corpo sociale di livello molto basso;altrimenti, la citta, nel suo insieme, giudicherà meglio, o comunque non peggio, dello specialista. InfineAristotele propone un ulteriore argomento: vi sono opere che devono essere apprezzate da chi ne usufruisce.Chi è miglior giudice di un pranzo? Il cuoco o il convitato? E chi è il miglior giudice di una casa? Ilcostruttore o colui che la deve abitare?

Sulla costituzione monarchica ci siamo già soffermati. Il fatto che Aristotele sia contrario al governo degliuomini e favorevole al governo delle leggi dimostra che egli non ha inclinazione per questo sistema.L'essenza della monarchia, infatti, è che il re ha per legge la propria volontà e null'altro: ma noi sappiamoche Aristotele è contrarissimo a tale scelta, sia per il problema delle passioni, sia perché in una collettivitàsviluppata non si dà un individuo che superi tutti, sia perché la totalità degli individui giudica sempre megliodi uno solo. Inoltre egli mette in luce altri problemi: quello dell'ereditarietà, che emerge nel caso in cui glieredi non si rivelino all'altezza del compito; e quello dell'esercito, che deve consentire al re di imporre la suavolontà, ma deve sempre rimanere inferiore alla forza della moltitudine nel suo complesso. Infine Aristoteledà una spiegazione storica del sorgere delle monarchie, come fenomeno tipico di una comunità primitiva epoco differenziata, che con il suo sviluppo tende naturalmente ad abbandonare questa forma.

Aristotele conclude la sua trattazione cercando di individuare la costituzione migliore. Assai interessante,

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tuttavia, è lo spirito con il quale si accinge a tale impresa:

si deve ora ricercare quale sarà la migliore costituzione, e quale il miglior sistema di vita per la maggiorparte delle città e degli uomini, volendo giudicare non in rapporto a una virtù superiore alla consueta, né aquella di un'educazione che abbia bisogno di una buona disposizione naturale e di un fortunato concorso dicircostanze, né a quello di un governo ideale; ma a quella d'una vita cui tutti possono partecipare e d'unacostituzione che possa venire attuata in molte città.

Emerge qui con chiarezza il rifiuto aristotelico della deriva utopistica, il suo saggio ed equilibrato realismo: èbene ricercare la costituzione migliore, ma sempre tenendo presenti i limiti umani e le condizioni di effettivarealizzabilità.

L'argomentazione prende le mosse dall'Etica nicomachea: in essa il filosofo aveva definito felice l'uomovirtuoso; e la virtù consisteva nella medietà, nell'equilibrio. Partendo da questo principio, Aristotele si sforzadi mostrare che esso è posseduto soprattutto dalla classe media, che viene qui contrapposta ai ricchi e aipoveri.

In tutte le città - dice Aristotele - vi sono tre classi, quella dei molto ricchi, quella dei molto poveri, e laterza formata di quelli di fortune mezzane. Poiché adunque si conviene che la moderazione e la mediarappresentino il meglio, è manifesto che tra gli strumenti di prosperità civile il più efficace sia quello fornitodalle fortune mezzane, poiché l'uomo in questa condizione di vita più facilmente ubbidirà ai dettami dellaragione. All'incontro, è difficile che vi si uniformino uomini di qualità morali o forza o nobilità o ricchezzasuperiori, o viceversa poverissimi, o debolissimi e disonesti. Di queste ultime due genie infatti gli uni sicomportano come tracotanti e facinorosi, gli altri come perversi e delinquenti volgari: i misfatti degli unisono occasionati da petulanza baldanzosa, quelli degli altri invece da meschina malignità. Costororifuggiranno dai pubblici poteri, né avranno mai un'iniziativa: i difetti dei primi e quelli di questi ultimisono egualmente dannosi al consorzio civile. Oltracciò quelli che hanno sovrabbondanza di prosperità, diforza, di ricchezze, di aderenze e di altre simili condizioni favorevoli, non vogliono né sanno obbedire (econtraggono sin da fanciulli questa repugnanza, poiché a causa della mollezza in cui sono educati nonhanno abitudine ad obbedire neanche ai maestri); gli altri invece per la penuria di questi mezzi si trovano inuno stato di eccessiva degradazione: sicché questi ultimi non sanno comandare, ma ubbidire da schiavi, e iprimi non sanno ubbidire in nessun modo, ma esercitare un impero da despoti.

Ne consegue che il miglior governo è possibile dove prevale la classe media. Ma l'analisi di Aristotele non siferma qui. Per individuare la migliore delle costituzioni, egli si sofferma dapprima sulle condizioni teoriche,per poi passare a quelle materiali. Per quanto riguarda le prime, Aristotele parte dalla definizione di felicità:veramente felice è l'uomo virtuoso, ragion per cui soltanto la città virtuosa sarà felice. Tre sono le categoriedi beni che conducono alla felicità: i beni esterni, quelli del corpo e quelli dell'anima. Su questo, diceAristotele, sono tutti d'accordo; ma il dissenso

comincia a sorgere rispetto alla quantità e all'importanza dei beni richiesti per la felicità; poiché [alcuni]stimano sufficiente una dose di virtù per quanto piccola essa sia: ma all'appetito di ricchezza, di denaro, dipotenza, di fama e di tutti siffatti beni non conoscono limite. A costoro invero faremo osservare esser facilepersuadersi con l'esperienza che gli uomini non acquistano e posseggono le virtù coi beni esteriori ma,invece, i beni esteriori con le virtù: che la felicità della vita si ritrova per gli uomini o nel godimento o nellevirtù o in ambedue questi termini: ma è privilegio precipuo delle menti e degli animi più alti, anche sescarseggiano dei beni esteriori, piuttostoché di quelli i quali posseggono più del bisogno beni materiali, mahanno difetto di questi che sono i veri beni.

Per quanto riguarda le condizioni materiali, Aristotele individua limiti di territorio e di popolazione, luogostrategicamente opportuno e di facile comunicazione con il mare, divisione in classi. Poiché la città avràbisogno di molte cose (alimentazione, arti, armi, mezzi pecuniari, religione e politica), molteplici saranno lefunzioni. Chi le dovrà adempiere? Tutti indistintamente o alcuni specificamente addetti ad esse? Se partiamodal presupposto che la città felice sia quella virtuosa, allora dovremo escludere dalle funzioni direttive glioperai, gli artigiani e gli agricoltori.

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Poichè ci troviamo a trattare l'argomento della migliore costituzione, che si può definire quella secondo cuila città sarebbe massimamente felice - e la felicità, come abbiamo detto sopra, è congiuntaindissolubilmente con la virtù - è manifesto da ciò, che nella città meglio governata e che possiede cittadinigiusti in modo assoluto, non già relativamente a ciascuna costituzione, non è l'ideale della vita civile quellodell'operaio meccanico o del commerciante (poiché il tenore di vita di costoro è ignobile e contrario allavirtù), e nemmeno quello di coloro che debbono esercitare l'agricoltura (poiché all'esplicazione della virtù eall'esercizio della vita civile si richiede tempo disponibile).

Quanto alla divisione delle funzioni tra le classi direttive (guerrieri e magistrati) essa avviene in base ad uncriterio cronologico:

è chiaro anche perché sotto un certo aspetto queste competenze vadano accomunate, sotto un altrodissociate. Giacché in quanto ciascuna delle dette funzioni richiede diverso genere di vigore, cioè l'una habisogno di senno, l'altra di forza, bisogna assegnarle a persone diverse: in quanto poi è impossibile che sirassegnino alla sudditanza quelli che hanno in mano la forza, bisogna assegnarle ai medesimi; dipendendodalla volontà di costoro la conservazione o l'abbattimento della costituzione. Adunque resta soltanto daattribuire questi diritti politici agli uni e agli altri egualmente, ma non nello stesso tempo: ma a quel modoche la forza è nei giovani, il senno nei vecchi, conviene ed è giusto che a questa stregua siano assegnate lefunzioni, corrispondendo al merito questo criterio distributivo. Ma è necessario che costoro siano ancheproprietari, poiché i veri cittadini debbono essere forniti di mezzi, e costoro sono cittadini. Gli operaimeccanici infatti non partecipano alla vita civile, né alcun'altra genia che non sia operatrice di azionivirtuose. E ciò è reso evidente pel principio da noi posto, che la felicità della città debba essereaccompagnata dalla virtù, e che non si può chiamare felice la città nel riguardo solo di una parte qualsiasi,ma di tutti i cittadini. E' manifesto inoltre che anche le proprietà debbano essere di costoro, se è necessarioche gli agricoltori siano schiavi o barbari perieci. Degli elementi enumerati rimane la classe dei sacerdoti;ed è chiaro anche il loro ordinamento: poiché né dalla genia degli agricoltori, né da quella degli operaimeccanici bisogna trarre i sacerdoti (essendo opportuno che gli dei siano onorati dai cittadini): ma siccomei cittadini si dividono in due parti, quella dei guerrieri e quella degli altri chiamati a deliberare, e convieneinoltre rendere agli dei il culto loro dovuto, e in queste cure possono trovar riposo quelli che sono affrantidall'età, a costoro si debbono dare mansioni sacerdotali.

Non rimane che fare un cenno al problema dell'educazione. Anche per Aristotele, come per Platone, essa èfondamentale: la solidità della costituzione dipende dall'educazione che riceveranno i giovani.

Non si può dunque dubitare che il legislatore debba mostrare la maggiore sollecitudine per l'educazione deigiovani. Poiché se questa nelle città viene trascurata, la loro costituzione ne verrà danneggiata. E' necessarioinfatti adattare l'educazione dei giovani al concetto informatore di ciascuna costituzione o addiritturaimprontarla; p.es., l'indirizzo democratico della gioventù suole conservare la democrazia, l'oligarchicol'oligarchia. Insomma con la migliore educazione politica si avvantaggia sempre la costituzione.

Inoltre, l'educazione deve essere uguale per tutti, perché unico è il fine dello Stato; e proprio per garantiretale uniformità l'educazione deve essere attribuita allo Stato. Tale scelta si inquadra in quella concezioneorganicistica dello Stato, che accomuna - sia pure con le forti differenze che abbiamo evidenziato - i duegrandi filosofi dell'Antichità, conducendoli inevitabilmente a collocare su un piano subordinato le esigenze ei diritti degli individui.

E' di pubblico interesse - dice Aristotele - che l'esercizio delle singole attività sia subordinato all'interessecollettivo: nello stesso tempo non bisogna credere che ogni cittadino sia padrone assoluto di sé, ma inveceche tutti appartengano alla città, essendo ciascuno parte della città; poiché la cura di ciascuna parte èsubordinata alla cura della totalità.

3. Agostino

Cenni biografici

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Nasce a Tagaste, in Numidia (l'attuale Algeria), nel 354. Il padre appartiene alla modesta classe dei curiales,piccoli proprietari terrieri; la madre, Monica, è cristiana.

Nonostante qualche difficoltà economica, tra il 369 e il 373 (quindi tra i 15 e i 19 anni) frequenta la scuola diretorica a Cartagine, uscendone "oratore". E' a Cartagine che legge, per la prima volta, l'Hortensius diCicerone, che lo infiamma di passione per gli studi filosofici; sempre a Cartagine si avvicina almanicheismo. La mancanza di mezzi gli impedisce di proseguire gli studi ad Alessandria o Atene. Si dàallora all'insegnamento della retorica, prima brevemente a Tagaste, quindi di nuovo a Cartagine, nel 374.Conosce una donna, con la quale convive per dodici anni e dalla quale ha un figlio, Adeodato.

Nel 383, a 29 anni, si reca a Roma per aprirvi una scuola di retorica, seguito da alcuni amici, dalla madre eda Adeodato. Si distacca dal manicheismo e attraversa una fase di scetticismo, secondo l'insegnamento degliaccademici che professavano il dubbio universale.

Nel 384 si reca a Milano, dove si è resa vacante una cattedra di retorica. Qui incontra Ambrogio e si avviasulla strada del Cristianesimo, aiutato anche dalla lettura di Platone e dei neo-platonici. Nel 386 si compie laconversione completa; nel 387 viene battezzato. Nello stesso anno parte per l'Africa; ad Ostia muore lamadre.

Nel 388, giunto in Africa, si stabilisce prima a Cartagine, quindi a Tagaste, dove fonda un cenobio, nel qualevive religiosamente con un gruppo di amici.

Nel 391 si reca ad Ippona, dove i fedeli lo riconoscono e chiedono che venga ordinato prete; Agostinoaccetta e fonda un monastero in Ippona. Nel 395 viene nominato vescovo coadiutore, per aiutare il vecchioValerio. Alla morte di quest'ultimo, nel 396, viene nominato vescovo di Ippona. Da allora la sua vita èconsacrata alla Chiesa.

Muore nel 430, a 76 anni. Tra le numerossime opere, ricordiamo soltanto le Confessioni (scritte nel 400,quando ha 46 anni) e il De civitate Dei (scritto tra il 415 e il 426).

Il pensiero politico

Lo sfondo storico del De civitate Dei - scritto tra il 415 e il 426, quando Agostino ha ormai superato i 60anni - sta nella drammatica crisi dell'Impero romano, resa evidente dal sacco di Roma del 410. Tale disfattaponeva due problemi. Il primo era l'accusa che i pagani rivolgevano ai cristiani, in base alla quale il crollo diRoma sarebbe stato legato al rinnegamento della religione pagana, sostituita con quella cristiana; da questopunto di vista, era necessario difendere la religione cristiana dall'accusa di aver determinato il crollodell'Impero. Per fare ciò Agostino sviluppa una visione provvidenziale della storia, che conferisce sensopositivo ad ogni evento, anche se catastrofico. Il secondo problema, posto dal sacco di Roma, aveva uncarattere più generale, coinvolgendo tanto i cristiani quanto i pagani: era il senso di drammatico smarrimentodi fronte al crollo di un'epoca e di un sistema complessivo di vita. Su questo piano, si trattava di rassicurare icristiani - che erano peraltro ormai inseriti nelle strutture dell'Impero - sul senso della storia umana,collocando il dramma in atto all'interno di una grandiosa e complessiva considerazione della storia, il cuiesito finale era costituito dalla salvezza dei credenti. E' in tale ambito che Agostino sviluppa la teoria delledue Città, le quali, anche se intrecciate nella storia, sono ben distinte quanto al destino.

Il dualismo tra dimensione terrena e dimensione celeste - tipico degli scrittori cristiani dei primi secoli, e cheha condotto taluni a parlare di "lealtà divisa" - viene radicalizzato da Agostino, che afferma inoltre la nettasuperiorità della seconda sulla prima. Il testo dove più efficacemente viene rappresentato tale dualismo sitrova nel XIV libro del De civitate Dei.

Due amori fecero dunque due Città: l'amore di sé fino al disprezzo di Dio fece la Città terrena; l'amore diDio fino al disprezzo di sé fece la Città di Dio. Quella si gloria di sé medesima, questa si gloria nel Signore.Quella cerca la sua gloria dagli uomini, questa mette la sua massima gloria in Dio, testimone della suacoscienza. L'una si esalta nella sua gloria, l'altra dice al suo Dio: «Tu sei la mia gloria, tu mi fai rialzare il

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capo». In quella, sia nei suoi capi, sia nelle nazioni che essa sottomette, domina la libidine del dominio; inquesta i cittadini servono reciprocamente gli uni agli altri, i governanti consigliando, i sudditi obbedendo.Quella, nei suoi principi, ama la sua propria forza; questa dice al suo Dio: «Amerò te, o Signore, mia unicaforza».

La città terrena nasce dal delitto di Caino, ossia da un atto dovuto non alla rivalità per i beni terreni, maall'invidia diabolica dei cattivi per i buoni. Il dualismo è insanabile e sarà consacrato dalla divisione finaledelle due città, alla fine dei tempi, quando la città celeste godrà del sabato che non avrà sera e la città terrenalanguirà nelle pene eterne.

Ma se saranno separate alla fine dei tempi, nel corso della storia le due città sono mescolate. La città di Dio,pellegrina in terra, ha tra i suoi cittadini molti che in realtà appartengono alla città terrena, e viceversa.Tuttavia, è possibile tracciare le linee di una storia sacra, ossia delineare la storia della città celeste nel suocammino terreno. Il criterio per individuare tale storia sarà la rivelazione: la storia sacra sarà dunque quelladi Israele e della Cristianità. Ciò non significa, tuttavia, che la città celeste si identifichi totalmente conqueste manifestazioni storiche; occorre infatti distinguere tra la Gerusalemme celeste e quella terrena. Inquest'ultima vivono molti amici di Babilonia; e viceversa, in Babilonia vivono e hanno vissuto alcuni amicidi Gerusalemme. L'appartenenza alla stirpe di Israele non è dunque condizione necessaria per la salvezzaprima di Cristo; è tuttavia solo quest'ultimo che può dare la salvezza.

Ricapitolando: le due città, nel corso storico, sono mescolate; nonostante ciò, è possibile delineare una storiasacra, ossia la storia della città celeste nel suo cammino terreno. Per distinguere questa storia dalla vicendadella città terrena occorrerà rifarsi alla rivelazione: sarà sacra la storia di coloro ai quali Dio si è rivelato,dunque Israele e poi la Cristianità. Ma bisogna sempre tenere ferma la distinzione tra Gerusalemme celeste eGerusalemme terrena: quest'ultima è una manifestazione storica che non esaurisce la prima. In altre parole,non tutti coloro che appartengono formalmente alla Gerusalemme terrena vi appartengono spiritualmente;così come alcuni che appartengono formalmente (o materialmente) a Babilonia, spiritualmente appartengonoa Gerusalemme. Anche la Chiesa cristiana - quae civitas Dei est - va distinta dalla Città di Dio celeste: essa,infatti, come la Gerusalemme terrena, è un corpus permixtum, nel quale la zizzania cresce insieme alfrumento. Ma il riconoscimento di tali limiti non conduce Agostino a concepire la vera Chiesa come uncorpo spirituale (e quindi invisibile), composto da tutti coloro che sono veramente santi; egli accetta esostiene il primato della Chiesa visibile e gerarchica, quale manifestazione di un Impero spirituale,universale e in divenire.

Pur con le dovute distinzioni, dunque, la Città di Dio ha precisi punti di "attacco" terrestre: prima Israele, poila Chiesa di Cristo e la sua gerarchia. Tale riconoscimento getta le basi per una teologia della storia, nonchéper una sacralizzazione della vita politica. La presenza del sacro nella storia poteva condurre a due esiti: ilprimo era la rivendicazione del primato della Chiesa, in quanto sede certa del sacro, sul potere politico; ilsecondo era la rivendicazione, da parte del potere politico (e quindi dell'Impero), di finalità e compiti sacri,di natura religiosa. Il secondo esito ha un suo esempio storico nella vicenda di Carlo Magno, che concepisceil suo potere come attuazione dei princìpi cristiani, giungendo a considerarsi protettore della Chiesa; il primotrova invece la sua realizzazione forse più pura nell'atteggiamento di Papa Gregorio VII, il quale, con il suoDictatus Papae, rivendica l'assoluto primato della Chiesa sul potere politico, non lasciando quindi alcunospazio a quel "diritto naturale" dello Stato che i cristiani dei primi secoli avevano invece teorizzato (fattasalva, ovviamente, la sfera religiosa). Il pensiero di Agostino contiene, per un verso, le premesse per unascelta teocratica come quella di Gregorio VII; ma tali premesse non sono completamente sviluppate, ancheperché, per altro verso, nel pensiero del Vescovo di Ippona sono presenti i motivi del diritto e delle virtùnaturali. Quest'ultimo è un tema molto importante. Esiste un quid medium tra la vera virtù, santificata dallagrazia, e il vizio: si tratta della virtù naturale, destinata ad essere perfezionata e non distrutta dalla grazia.

E' interessante vedere come questa nozione di virtù naturale giochi un ruolo importante nella valutazioneagostiniana dell'Impero romano. Per un verso, Agostino critica a fondo l'Impero romano: egli sostiene, adesempio, che una repubblica romana, come la intende Cicerone, non è mai esistita. Repubblica significainfatti "cosa del popolo"; per esservi una repubblica deve dunque esserci un popolo, ossia una moltitudine

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che riconosca un diritto e condivida degli interessi; il diritto, infine, altro non è che giustizia. Dallainsussistenza della causa ultima, la giustizia, Agostino deduce l'infondatezza della prima affermazione, ossial'esistenza di una repubblica. A Roma non vi era affatto giustizia - dice infatti Agostino -, giacché questasignifica "dare a ciascuno il suo", mentre a Roma l'uomo era sottratto al suo vero Dio e sottomesso a demoniimmondi. Se non c'era giustizia, non poteva esserci diritto; e non essendoci diritto, non poteva darsi, per ladefinizione che abbiamo visto poco sopra, alcun popolo. Ma senza popolo non si dà alcuna cosa del popolo,quindi alcuna repubblica. La conclusione di Agostino, come possiamo vedere, è assai negativa: Roma nonconosceva la giustizia, Roma non era una repubblica.

Per altro verso, tuttavia, Agostino fornisce un'interpretazione provvidenzialistica dell'Impero romano.Anzitutto riconosce le virtù naturali praticate dai Romani, attribuendo ad esse l'esistenza dell'Impero.L'Impero fu, in un certo senso, la ricompensa "laica" - l'unica possibile, essendo preclusa quella celeste - perle virtù naturali praticate dai Romani. E poiché Agostino è convinto che ogni potere derivi da Dio - secondoun disegno provvidenziale imperscrutabile, che guida la storia - egli finisce per "santificare" la funzionedell'Impero romano, pur con tutti i limiti che gli attribuisce.

Fermiamoci un attimo a considerare - in relazione al problema politico - le implicazioni di una visionereligiosa della storia, dominata dalla volontà di Dio. L'assunzione di un orizzonte provvidenziale, determina,per un verso, il rafforzamento del potere. Anzitutto, ogni potere, in quanto esistente, è voluto da Dio edunque ha una sua ragion d'essere, una sua giustificazione, che lo rende legittimo. Il potere trova la sualegittimità nel derivare da Dio; ma poiché ogni potere deriva da Dio, ogni potere è legittimo. Tale approcciorende inoltre molto più forte il principio stesso di legittimità: essa deriva infatti da Dio, dunque da unavolontà infinitamente superiore a quella degli uomini e, in quanto tale, imperscrutabile. Ne consegue che ilfondamento della legittimità è soprannaturale, assoluto e, in quanto tale, si sottrae ad ogni esame, ad ognicontrollo da parte degli uomini. Se il potere deriva da Dio, chi lo discute mette in dubbio la volontà di Dio:è, in sostanza, un sacrilego. Il dovere dell'obbedienza, nel quadro di tale concezione, non può che uscirnerafforzato: obbedendo al potere, si obbedisce alla volontà di Dio. In conclusione: fondare il potere sullavolontà di Dio equivale a sacralizzarlo, con tutto ciò che ne può seguire. Un potere sacralizzato è un poterefortissimo, indiscutibile: di fronte ad esso l'uomo è, in linea di principio, senza argomenti, senza diritti. Peraltro verso, tuttavia, il potere politico ne può uscire indebolito. Il fatto che la legittimazione sia di originedivina, fa sì che il potere perda il carattere di "fine in se stesso", per assumere quello di mero strumento. Ilpotere è soltanto il mezzo attarverso il quale si realizza la volontà di Dio; ciò significa che esso è, in un certosenso, "limitato". Non può, con tutta evidenza, andare contro Dio e contro le sue leggi. Anche l'obbedienzadei sudditi è quindi strumentale: essi obbediscono al potere in quanto strumento di Dio e non per se stesso.Di qui la possibile limitazione (e quindi l'indebolimento) del potere: i princìpi del Cristianesimo limitano lasfera d'azione del sovrano. Il potere politico assume dunque una connotazione strumentale, rispetto ad unfine che sancisce, oltretutto, l'assoluto valore di tutti gli individui in quanto figli di Dio. In teoria il poterepolitico non potrebbe far nulla che vada contro i princìpi della dottrina cristiana (anche se ciò si scontra conil problema della provvidenzialità della storia nella sua interezza): si dispone quindi di una serie di princìpicon i quali giudicare l'azione dello Stato e ai quali appellarsi per difendersi dallo Stato. Infine, dallafondazione religiosa del potere politico può derivare la soluzione teocratica: poiché il potere deriva edipende da Dio, e poiché la Chiesa è l'interprete autentica della volontà di Dio, il potere dipende dallaChiesa, o quantomeno quest'ultima ha un chiaro primato su di esso.

Ma torniamo ad Agostino. Vediamo il profilo che egli traccia del principe cristiano:

noi diciamo felici gli imperatori, se essi regnano con giustizia, se non si levano in superbia, se si ricordanodi essere uomini, anche in mezzo agli onori ed al servile ossequio che li circonda; se sottomettono il loropotere alla maestà di Dio, specialmente per estendere il suo culto; se, temono, amano ed onorano Dio; seprediligono quel regno in cui non temono di trovare chi li eguagli in dignità: se sono lenti a punire e prontia perdonare; se unicamente puniscono per mantenere l'ordine e la tranquillità dello Stato, non persoddisfare il loro odio od il loro spirito di vendetta; se perdonano non perché l'iniquità resti impunita, manella speranza che il colpevole si corregga; se, talvolta, quando sono costretti a punire più aspramente,temperano questa necessità con la clemenza e la liberalità; se sono tanto più moderati nei loro piaceri,

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quanto più sarebbero liberi di eccedere nel piacere; se preferiscono comandare alle loro cattive passioniche a tutti i popoli della terra, e se questo fanno non per desiderio di vana gloria, ma per amore dellafelicità eterna; se, per i loro peccati, essi non trascurano di offrire al loro vero Dio sacrifici di umiltà, dimisericordia e di preghiera.

Agostino si spinge a lodare la politica confessionale di Teodosio, perché, ai suoi occhi, il carattere tollerantedella società pagana è inaccettabile. La città di Dio è dottrinalmente unitaria e quindi la società che ad essa siispiri non può tollerare l'errore: l'intervento dello Stato in favore della vera fede e contro gli eretici è dunquelegittimo e non si può confondere la persecuzione del cristiano con la persecuzione di chi si batte per unacausa non vera e non giusta. Occorre aggiungere che il compiacimento mostrato da Agostino per l'atto dipubblica penitenza dell'Imperatore di fronte al vescovo di Milano ha un significato eminentemente etico-religioso e non politico. Il suo valore, agli occhi di Agostino, sta nel costituire un atto esemplare di penitenzaindividuale: il credente, sebbene sia l'Imperatore in persona, segue le indicazioni e le penitenze comminatedal suo vescovo. Tale atto non ha, invece, un significato politico; ossia, non configura la supremazia delpotere religioso sul potere politico, della Chiesa sull'Impero.

Per comprendere il richiamo all'obbedienza nei confronti dell'autorità - che è presente in Agostino - è benefare cenno a quella sorta di "metafisica della pace" che Agostino sviluppa nel De civitate Dei. Le istituzionisono sempre buone, purché non impediscano alla religione cristiana di diffondersi e di insegnare il vero cultodi Dio. La loro bontà deriva dal perseguire il fine della pace. La pace, per Agostino, ha un valore assoluto esi realizza su più piani per culminare nella pace di tutte le cose, che è la tranquillità nell'ordine.

Sicché la pace del corpo è l'ordinato temperamento delle parti, la pace dell'anima irrazionale è l'ordinatoriposo degli appetiti, la pace dell'anima razionale è l'accordo bene ordinato tra il conoscere e l'operare, lapace del corpo e dell'anima è la vita e la salute bene ordinata della creatura animata, la pace dell'uomomortale con Dio è obbedienza bene ordinata nella fede sotto la legge eterna, la pace degli uomini è l'unionenell'ordine, la pace domestica è l'unione e l'ordine del comandare e dell'obbeddire tra coloro che abitanoinsieme, la pace della città è l'unione e l'ordine del comandare e dell'obbedire tra i cittadini, la pace dellaCittà Celeste è l'ordine perfetto, è l'unione suprema nel godimento di Dio, nel mutuo godimento di tutti inDio, la pace di tutte le cose è la tranquillità nell'ordine. L'ordine è la disposizione che, secondo la parità ola disparità nelle cose, assegna ad ogni cosa il suo posto.

L'ordine è dunque la disposizione che assegna ad ogni cosa il suo posto. Qui la nozione di ordine sembracoincidere con quella di pace e di giustizia: tutte presuppongono un ordine delle cose, secondo il quale ognicosa sta al posto che le è proprio ed è bene che tutto sia così. Ora, proprio nella pace abbiamo il punto diincontro tra le due città. Certamente, le due città perseguono fini diversi: Babilonia aspira ad una pacemondana, finalizzata cioè al godimento dei beni terreni; Gerusalemme, invece, aspira ad una pace spirituale,che consiste nel godimento dei beni eterni, e che la spinge ad un diverso atteggiamento nei confronti dei beniterreni. Dunque, conclude Agostino, l'uso dei beni è comune, ma il fine è diverso. Cionondimeno,Gerusalemme condivide, insieme con l'uso dei beni, anche la pace cercata da Babilonia, perché essa ècondizione necessaria alla conservazione della vita mortale. Perciò il cristiano obbedisce alle leggi, perchécondivide, in quanto mortale, l'esigenza di conservare le cose utili alla vita, tra le quali la stessa pace tra ledue città. Ma sentiamo come lo stesso Agostino descrive questa "collaborazione" tra le due città.

Durante il suo pellegrinaggio sulla terra, la Città celeste recluta i suoi cittadini presso tutte le genti e, purnella pluralità delle lingue, raccoglie insieme una società che va pellegrina, incurante di tutte le differenze edi costumi e di leggi e di istituzioni che servono ad ottenere o a mantenere la pace terrena, senza guastare odistruggere nulla, conservando, anzi, e adattandosi alle consuetudini di ogni singolo popolo, poiché,nonostante esse siano diverse da popolo a popolo, mirano tutte ad un unico e medesimo fine, la paceterrena, purché esse lascino alla religione la libertà di insegnare il culto del solo e vero Dio. Anche la Cittàceleste, in questo esilio, si giova dunque della terrena, e, per tutto ciò che concerne la natura moraledell'uomo, nei limiti in cui la pietà è salva e la religione lo permette, essa protegge ed incoraggia l'uinonedelle volontà umane, riferendo la pace terrena alla pace celeste, la pace vera, la sola di cui possa gioire, lasola che la creatura razionale possa chiamare con questo nome, la pace che è ordine perfetto, l'unione

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suprema nel godimento di Dio, nell'amore scambievole di tutti in Dio. Là non ci sarà più vita mortale, mavitalità piena e certa; non ci sarà più corpo animale, il cui fardello corruttibile appesantisce l'anima, macorpo spirituale, senza alcuna indigenza, ed in tutto sottomesso alla volontà. Mentre va pellegrina nellafede, essa ha questa pace, e, nella fede, essa vive con giustizia, riferendo al conseguimento di questa pacetutte le buone opere che essa compie in relazione a Dio ed al prossimo, perché la vita della Città è una vitasociale.

In questo brano possiamo rintracciare il concetto di universalità come tratto saliente della missione dellaChiesa, la quale non tiene conto di alcuna distinzione linguistica, storica, culturale e istituzionale, poiché sirivolge all'uomo. Poi abbiamo quello che si potrebbe definire l'agnosticismo politico della Chiesa: essa sipropone infatti non solo di non guastare o distruggere nulla, ma anzi di conservare tutti i diversi tipi diordinamento istituzionale e culturale nei quali si trova ad operare, nella convinzione che tutti mirino all'unicofine di garantire la pace. La sola condizione è che tali ordinamenti garantiscano alla Chiesa la libertà persvolgere la sua missione evangelizzatrice (insegnare il solo e vero Dio). Abbiamo infine il riconoscimentoche la Città celeste non solo si giova, ma anzi incoraggia la pace terrena (purché non in contrasto con lareligione) durante il suo esilio quaggiù, cercando di operare con giustizia soprattutto verso il prossimo. Lavita della Città, conclude infatti Agostino, è una vita sociale: e qui torna la "naturalità" della socialità umanache abbiamo già incontrato nella filosofia classica greca. Quanto alla schiavitù, Agostino la ammette solocome nascente dal peccato; la natura degli uomini è uguale, e soltanto la colpa giustifica la schiavitù, ossia ildominio dell'uomo sull'uomo. L'esortazione di Agostino si rifà a Paolo: gli schiavi obbediscano al padrone,emendandosi interiormente; e i padroni li trattino con rispetto e pietà, senza superbia.

Infine Agostino ritiene che il cristiano non debba sottrarsi ad alcuna condizione sociale, giacché è statostabilito che esso viva insieme ai non credenti, al fine di essere messo alla prova e purificato come l'oro nelcrogiuolo. Quindi il problema non è quello di separarsi dal mondo, fondando comunità di santi e di giusti; ilcristiano deve vivere mescolandosi ai peccatori, ma tenendo assolutamente fermi i fini ultimi che locaratterizzano e quindi usando dei beni terreni solo come mezzi. Ciò significa che potrà fare il guerriero, adesempio. Il concetto di guerra giusta ricompare dunque anche in Agostino; è giusta quella guerra conformealla morale naturale, purché non leda la coscienza cristiana; ancora meglio se promuove la religionecristiana. Ma perché questi due fattori coincidano - facendo della guerra uno strumento della religione -bisognerà aspettare ancora qualche secolo.

Da sempre si discute sull'interpretazione delle due città, al fine di comprendere l'atteggiamento di Agostinoverso la politica. Alcuni studiosi, come Corsini, sostengono che le equivalenze Città terrena/Impero romanoe Città celeste/Chiesa cattolica sono il frutto di un equivoco. In realtà parlando di civitas Dei e civitas diaboliAgostino si sarebbe riferito a due entità spirituali, non identificabili con realtà storicamente determinate eprecisamente demarcabili; tanto è vero che l'appartenenza visibile ad una di queste ultime (Impero o Chiesa)non coincide necessariamente con l'appartenenza vera e interiore. Gli sviluppi teocratici del pensiero diAgostino non sarebbero dunque imputabili all'ispirazione del vescovo di Ippona. Questa tesi è convincentese si pensa alla netta distinzione tra la Gerusalemme celeste e la Gerusalemme terrena, la quale è un corpuspermixtum, dove vivono anche molti amici di Babilonia. Inoltre Agostino non pensa certamente ad unmodello teocratico, nel senso di un'esplicita assunzione di responsabilità politiche da parte della Chiesa.Restano tuttavia due fatti: il primo è che Agostino riconosce il ruolo della Chiesa visibile e il suo primato,facendone la protagonista principale della storia sacra (questa empirica Chiesa romana, e non una chiesainvisibile e spirituale di santi); il secondo è che tale Chiesa, pur con tutta la zizzania presente in lei (comeelemento di imperfezione umana), è spiritualmente superiore alla Città non cristiana ed è sede dell'unica esola verità. Si tratta quindi di premesse che potevano condurre - anche se in Agostino non avviene - adeterminati sviluppi. Sarà Orosio (che viene dalla cerchia di Agostino) a sviluppare, nelle sue Storie, il piùcompleto compendio di teologia politica incentrata sull'Impero cristiano. L'Impero romano è il bracciosecolare del Cristianesimo, il quale gli darà prosperità e durata perenni.

In una prospettiva più ampia - quella del profondo nesso complementare in Agostino tra poli a prima vistaopposti, come fede/ragione, dipendenza del mondo da Dio/valore del mondo, libertà/grazia - Perone insisteanche in questo caso sul nesso tra Città di Dio e Città umana. Per un verso esse sono opposte; ma per l'altro

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si implicano. La città terrena, infatti, persegue fini che hanno qualcosa di buono (sappiamo infatti che il maleper Agostino è non-essere): ed è nella ricerca della pace che le due città, come abbiamo visto, si incontrano.Insomma, le due città hanno fini diversi; ma ciò non significa che i fini della Città terrena sianocompletamente vani. Essi contengono qualcosa di buono, che trova la sua compiuta realizzazione, il suosenso, nella Città celeste. Solo nel Regno di Dio si compirà tale pienezza; per ora se ne può intravedere unaanticipazione nella Chiesa. Ma in questa tensione escatologica sta anche la dimostrazione che Agostino èlungi dall'identificare la Chiesa storica con la Città di Dio (il che lo condurrebbe al modello teocratico).

4. Tommaso

Cenni biografici

Tommaso d'Aquino nasce a Roccasecca nel 1225. Dal 1239 al 1244 (dai 14 ai 19 anni) frequenta l'Universitàdi Napoli, dove conosce l'Ordine dei Frati predicatori, nel quale decide di entrare, sebbene la famiglia siacontraria, nel 1244.

Ricondotto con la forza a Roccasecca dai fratelli, Tommaso non desiste dai suoi intenti e nel 1245 parteverso il Nord.

Dal 1248 al 1252 è a Colonia, alla scuola di Alberto Magno, il cui insegnamento lo dispone favorevolmenteverso Aristotele.

Dal 1252 al 1259 risiede a Parigi, dove insegna con vari incarichi, sino ad ottenere nel 1257 la cattedra diteologia all'Università.

Dal 1259 al 1268 è in Italia, dove segue la corte pontificia nei suoi spostamenti, insegnando e scrivendo. Inquesti anni termina la Summa contra Gentiles, inizia la Summa theologiae e scrive l'incompiuto De regimeprincipum.

Dal 1269 al 1272 è di nuovo a Parigi, dove continua a scrivere ed insegnare. Scrive numerosi commenti adopere di Aristotele.

Dal 1272 al 1274 è a Napoli, dove insegna teologia all'Università. Chiamato al concilio ecumenico di Lione,muore durante il viaggio a Fossanova, nel 1274, quando ha 49 anni.

Il pensiero politico

In genere, il pensiero di Tommaso viene caratterizzato sottolineandone il "naturalismo", ossia larivalutazione del fattore naturale di fronte al fattore soprannaturale. Ai dualismi agostiniani (mondoceleste/mondo terreno, natura/grazia) Tommaso sostituirebbe una concezione più moderata, in virtù dellaquale gratia non tollit naturam, sed perficit. Anche se la concezione positiva della natura può essererintracciata in gran parte del pensiero cristiano e nello stesso Agostino, resta indubbio, secondo Valentini,che l'espressione "naturalismo" designi un tratto essenziale del pensiero tomistico, consistentenell'attribuzione alla natura di una sua autonomia.

Il naturalismo di Tommaso ha, sul piano del pensiero politico, precise conseguenze: esso infatti porta con séuna concezione naturalistica della socialità umana (l'uomo come animale naturalmente sociale e politico),dalla quale deriva una spiegazione in termini naturalistici sia dell'origine dello Stato, sia del rapportogovernanti-governati, e che sfocia infine in una visione organicistica della società.

Certo ogni uomo è naturalmente dotato del lume della ragione, per mezzo del quale può, nei suoi atti,dirigersi al fine. E invero, se all'uomo si addicesse di vivere isolato, come vivono molti animali, non avrebbebisogno di alcun'altra guida, ma ognuno, sotto Dio re supremo, sarebbe re di se stesso dirigendosi nelle sueazioni per mezzo del lume della ragione datogli da Dio. Senonché è proprio della natura dell'uomo di essere

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animale sociale e politico, vivente in comunità, più ancora degli altri animali, come appare anche dallanecessità naturale. Agli altri animali difatti la natura appresta il cibo, l'indumento peloso, i mezzi perdifendersi, come i denti, le corna, le unghie, o almeno la capacità di fuggire rapidamente. L'uomo invecenon è fornito di alcuno di questi doni di natura, ma in cambio ha ricevuto la ragione, per mezzo della qualepuò procurarsi tutte queste cose coll'opera delle sue mani, cose che tuttavia un uomo da solo non basta aprocurarsi. Un uomo solo difatti non potrebbe di per sé condurre la vita con sufficienza (sufficienter). E'dunque naturale all'uomo di vivere in società con altri uomini. Inoltre: negli altri animali è insito un istintonaturale per tutto ciò che è loro utile o nocivo, così come l'agnello reputa istintivamente suo nemico il lupo.Ci sono persino degli animali che per istinto naturale conoscono talune erbe medicinali e altre cosenecessarie alla loro sopravvivenza. All'uomo invece la conoscenza naturale delle necessità della vita è datasolo in generale, appunto perché gli è possibile per mezzo della ragione di pervenire dai princìpi universalialla conoscenza delle singole cose che sono necessarie al vivere umano. Ora non è possibile che un uomosolo raggiunga colla sua ragione tutte queste conoscenze. E' pertanto necessario all'uomo di vivere insocietà, affinché l'uno aiuti l'altro, e uomini diversi si dedichino a raggiungere colla ragione conoscenzediverse, ad es., l'uno nella medicina, un altro in questo, un altro in quello.

Siamo in pieno aristotelismo. L'uomo è un essere naturalmente sociale e politico, la natura stessa ce lodimostra; la socialità è un istinto ed anche un bisogno. Come in Aristotele, e come nello stesso Platone,esiste una sproporzione tra le capacità dell'individuo singolo e i suoi bisogni; lo Stato sorge naturalmente persopperire a questi bisogni, riunendo insieme più individui.

Lo Stato quindi, per Tommaso, diversamente dalla maggior parte dei precedenti pensatori cristiani, non èuna conseguenza (e un rimedio) alla caduta dell'uomo, alla sua condizione di peccatore. Per Tommasol'uomo era sociale anche ante peccatum. Egli infatti distingue due tipi di soggezione: quella nell'interesse dichi comanda, detta anche soggezione economica o civile, la quale deriva dal peccato (come in tutto ilpensiero cristiano, la schiavitù è effetto del peccato, giacché gli uomini, per natura, sarebbero uguali) equella nell'interesse di chi obbedisce. Quest'ultimo tipo di "soggezione" altro non è che la naturaledistinzione tra governanti e governati, della quale il consorzio umano non può fare a meno e che esistevaanche nell'età dell'innocenza. Senza tale distinzione mancherebbe infatti alla società umana il benedell'ordine, in virtù del quale i più sapienti governano, riconducendo le disparate tendenze dei singoli adunità. Naturale è dunque anche la diseguaglianza degli uomini, non solo per età o per sesso, ma anche perragioni individuali, ossia per il possesso in grado diverso di sapienza, giustizia, bellezza, prestanza fisica.

Anche in Tommaso abbiamo insomma una visione naturalistico-organicistica della realtà. Ciò implica:

a) che esista un ordine naturale (e quindi necessario, oggettivo);

b) che tale ordine contenga diseguaglianze naturali tra le parti che lo costituiscono;

c) che tale ordine sia naturalmente gerarchico.

Come esiste una gerarchia nel mondo (ad esempio, gli uomini sono superiori agli animali e alle piante) checulmina in Dio creatore, così nell'uomo esiste una gerarchia che culmina nella ragione; la società,analogamente, deve essere ordinata in modo gerarchico e monarchico, giacché il sovrano sarà quell'uno chesi trova al culmine della società e le imprime un ordine unitario.

Tommaso vede quindi nella monarchia il regime politico ideale. Anch'egli adotta il modello sestuplice diclassificazione delle forme di governo già elaborato da Aristotele[6], ma - contrariamente al filosofo greco -ritiene che la monarchia sia la costituzione migliore. Egli si pone esplicitamente tale problema:

occorre ricercare che cosa maggiormente convenga ad un reame o ad una città; se esser governati da unosolo o da più. Ciò può esser stabilito considerando il fine stesso del reggimento politico.

Ma quale fine ha, per Tommaso, lo Stato?

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Lo sforzo di qualsiasi reggitore deve essere inteso ad assicurare il benessere del suo dominio. Spetta infattial nocchiero di guidare la nave nel porto di salvezza, preservandola illesa dai pericoli del mare. Ora il benee la salute della comunità consociata sta nella conservazione della sua unità, che si chiama pace: ovequesta venga meno, cessa il vantaggio del vivere sociale, anzi la discordia lo tramuta in un peso. A questopertanto deve massimamente mirare il reggitore di una comunità: di assicurare l'unità della pace.

Riscontriamo, in questo passo, la fusione di temi platonici e agostiniani. Per Platone[7], come è noto, il benesupremo dello Stato consiste nella sua unità; quanto ad Agostino[8], egli stabilisce una vera e propriametafisica della pace (come tranquillità nell'ordine) ed è proprio nella pace che individua il fine perseguitodalla città terrena, nonché il punto di incontro di quest'ultima con la città celeste.

Poste queste due premesse (il modello migliore è quello che meglio realizza il fine; il fine è l'unità nellapace) Tommaso tira le sue conclusioni:

quanto più dunque un governo sarà efficace a conservare l'unità della pace, tanto più sarà utile. Invero, noidiciamo che è più utile ciò che meglio conduce al fine. Ora è evidente che l'unità può essere assicuratameglio da ciò che di per sé è già uno, che non da una pluralità: come ciò che per sé è caldo è il mezzo piùatto a riscaldare. Il governo di uno solo pertanto è più utile di quello di molti.

Tommaso argomenta la sua tesi con una serie di esempi. Per poter governare è necessaria sempre una certaunità tra i molti: basta pensare ad una nave per la quale è necessario stabilire la rotta; anche se moltipartecipano alla determinazione della rotta, tale determinazione sarà raggiunta soltanto quando questi moltitroveranno un accordo. Ma se l'unità è necessaria, incalza Tommaso, meglio una vera e propria unità,piuttosto che una molteplicità la quale si sforza di diventare unitaria. Ancora: la natura, la quale operasempre per il meglio, ci insegna che ogni governo è governo di uno solo:

difatti le membra hanno un solo motore, il cuore; e le parti dell'anima sono dominate da una forzasuperiore, cioè la ragione. Anche la api hanno un solo re, e nell'intero universo vi è un Dio solo, creatore erettore di tutte le cose. E ciò è conforme a ragione. Ogni molteplicità deriva dall'unità.

Vista l'importante funzione svolta dai re, essi avranno diritto a grandi ricompense (appare qui, tra l'altro,l'immagine vetero-testamentaria del re proposta da Tommaso, ossia di un uomo buono e pio, tutto preso daibeni religiosi):

rimane ora da considerare ulteriormente quale eminente grado di celeste beatitudine sarà concesso acoloro, i quali adempiono degnamente e lodevolmente al loro dovere di re. Invero, se la felicità è il premiodella virtù, ne consegue che ad una maggiore virtù sarà dovuto un grado maggiore di felicità. Ma la virtù,mediante la quale un uomo riesce a governare non solo se stesso ma anche gli altri, è la più alta fra tutte; elo è tanto più, quanto più si estende ad un numero maggiore di uomini.

Da osservare, ancora una volta, l'idea della superiorità del bene comune su quello individuale, che poco dopoTommaso formula quasi con le stesse parole di Aristotele: «il bene della comunità è più grande e più divinodel bene di uno solo».

Se la monarchia è il regime migliore, la tirannide, che è il suo opposto speculare, non potrà che costituire ilregime peggiore. Il ritratto che Tommaso fa del tiranno è classico:

[...] il tiranno, disprezzando il bene comune, e perseguendo il suo bene privato, deve necessariamentegravare i sudditi in varie maniere, a seconda delle diverse passioni cui soggiace nel perseguimento dei suoiinteressi. Chi invero è posseduto dalla passione della cupidigia, rapina i beni dei sudditi; come diceSalomone (Prov. XXXIX, 4): <<Il re giusto ristabilisce la terra, l'uomo avaro la distrugge>>. Se per controsoggiace alla passione dell'ira, per nulla sparge il sangue, come si legge in Ezechiele (XXII, 27): <<I loroprincipi in mezzo a loro come lupi anelanti alla preda, a spargere il sangue>>. E il Sapiente ammonisce dirifuggire da questo governo, dicendo (Ecclesiastico, IX, 18): <<Tienti lontano dall'uomo che ha potere diuccidere>>, poiché invero egli si serve del suo potere per uccidere non in vista della giustizia, ma per

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sfrenata passione. E così non vi potrà essere alcuna sicurezza, ma tutto diventa malsicuro, poiché ci siallontana dal diritto, né si può fare alcun affidamento su ciò che dipende dalla volontà, per non dire dalcapriccio di un altro. Né egli grava i sudditi soltanto nelle cose corporali, ma ostacola altresì il loro benespirituale, poiché coloro i quali mirano più al potere che al bene, impediscono ogni progresso dei sudditi,sospettando in ogni preminenza di questi una minaccia al loro iniquo dominio. I tiranni difatti sospettanopiù i buoni che i cattivi, e la virtù altrui fa loro sempre paura. Essi cercano pertanto di impedire che i lorosudditi, divenendo virtuosi, concepiscano pensieri magnanimi, mal sopportando il loro iniquo dominio; chefra di essi si stabiliscano vincoli di amicizia e possa godersi reciprocamente del beneficio della pace,affinché, diffidando gli uni degli altri, nulla possano macchinare contro il loro potere. Perciò seminano fradi essi le discordie, favoriscono quelle già esistenti, e proibiscono tutto ciò che conduce gli uomini a unirsi,come nozze e conviti e simili, che sogliono ingenerare familiarità e fiducia fra gli uomini.

Come Aristotele, Tommaso individua nel perseguimento o meno del bene comune il criterio per distinguerele forme rette dalle forme degenerate. Ciò lo condurrà, tuttavia, a vedere nella democrazia la forma migliore(o la meno peggiore) tra le degenerate; se infatti non si governa nell'interesse comune e secondo virtù, allora,in questo caso, è meglio che siano in molti a governare:

se un governo degenera nell'ingiustizia, conviene piuttosto che sia di molti, perché sia più debole, e siostacolino a vicenda. Perciò fra le forme ingiuste di governo la democrazia è più tollerabile, e la tirannide èla peggiore.

Compare qui l'idea della limitazione del potere, anche se soltanto quando si ritiene che il potere possa esserenocivo (i pensatori liberali moderni, guardando al potere con disincanto e alla natura umana con realismo,sosterranno che bisogna sempre diffidare del potere e che è quindi è sempre necessario limitarnel'estensione, a prescindere da chi si trovi momentaneamente a detenerlo).

Tuttavia, Tommaso non si limita a impostare il problema dello Stato (e quindi del potere politico) in terminietico-religiosi. Egli lo affronta anche in termini giuridico-istituzionali. Non basta insomma confidare nellevirtù del re e nel suo timore di Dio; occorre anche disporre le cose affinché il suo potere sia temperato egiusto. Tale impostazione compare in tre luoghi:

a) in primo luogo, nel De regime principum, dove Tommaso dice che occorre organizzare il governo inmodo tale che il potere del re sia temperato e non possa divenire tirannico;

b) in secondo luogo, nella Summa theologiae, quando Tommaso parla di governo misto, che ricomprende insé i tre princìpi (monarchico, aristocratico e democratico; qui Tommaso fa anche riferimento all'AnticoTestamento, ricordando che Mosè e i suoi successori governavano con l'aiuto degli anziani, eletti dalpopolo);

c) infine, abbiamo l'importante riflessione sul tema della legge.

La legge, per Tommaso, è espressione della ragione. Essa è presente ovunque, nelle cose e negli atti degliuomini, come una regola che presiede alla loro struttura. La stessa inclinazione del corpo al piacere fisico,dice Tommaso, è chiamata legge del corpo. Ora, la ragione ha come sua caratteristica quella di ordinare unfine; essa ha però bisogno della volontà per realizzare quel fine, ossia per farsi ragione pratica. Ma non tuttele volontà sono razionali; dunque non tutti gli atti di volontà sono legge, bensì soltanto quelli che possiedonoun'intrinseca razionalità. Questa impostazione ha enormi conseguenze, in campo politico.

La ragione ha il potere di muovere (all'azione) grazie alla volontà, come è stato detto più sopra: in quantoappunto un fine è voluto, la ragione comanda tutto ciò che è necessario a raggiungerlo. Ma perché la volontànei suoi comandi abbia valore di legge, occorre che essa sia dotata di una intrinseca razionalità. In questosenso va inteso il detto che la volontà del principe ha valore di legge: altrimenti la volontà del principesarebbe piuttosto un'iniquità che una legge.

Facciamo attenzione: il principe è l'elemento volontaristico della legge, ciò che conferisce ad essa forza

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coattiva. Da questo punto di vista, ha ragione ancora Ulpiano: il princeps è legibus solutus, nel senso cheegli, non potendo auto-costringersi e non essendo soggetto a sanzioni, è al di sopra delle leggi. Il principe èinoltre a lege solutus, nel senso che può modificare le leggi o dispensarne momentaneamente dall'obbligo.Ma è anche vero che il principe è moralmente obbligato a sottostare alle leggi, e che di ciò deve rispondere aDio. In conclusione: il potere del principe è condizione necessaria ma non sufficiente perché si possa parlaredi legge; a tal fine è altrettanto essenziale il carattere razionale della norma. Se una legge non è razionale,non è giusta, quindi non è nemmeno una legge.

Abbiamo qui l'abbozzo di una logica giusnaturalistica, per cui esiste un diritto naturale (o razionale), ugualeper tutti gli uomini, in tutti i tempi e in tutti i luoghi; e le leggi positive sono valide solo se conformi a talediritto. Ma vediamo cosa dice Tommaso. Egli parte dalla legge divina che regola il mondo:

ora è evidente - partendo dal presupposto che il mondo sia retto dalla divina Provvidenza altrovedimostrato - che l'intera comunità dell'universo è governata dalla ragione divina. Pertanto la ragione stessadel governo delle cose (create) in quanto esiste in Dio come reggitore del tutto, ha natura di legge (...).Questa legge conviene chiamare legge eterna.

Poiché tutte le cose sono regolate dalla legge divina o eterna, è evidente che tutte le cose ne parteciperannoin qualche modo. Ma fra tutte le creature, l'uomo è quello soggetto in misura più perfetta alla Provvidenza,della quale diviene partecipe provvedendo a sé e agli altri: è questa partecipazione della creatura razionalealla legge eterna, conclude Tommaso, che viene chiamata legge naturale. La legge naturale ci permette didistinguere il bene dal male; ed essa, dice Tommaso, altro non è che l'impronta in noi della luce divina.Come si può vedere, qui abbiamo una vera e propria dottrina della legge naturale, come legge derivante daDio e corrispondente all'ordine delle cose. Esiste dunque una legalità universale avente valore assoluto. Main cosa consiste, più precisamente, questa legge naturale? Quali sono i suoi articoli?

Il primo precetto della legge consiste appunto nel doversi fare e perseguire il bene ed evitare il male; e suquesto si fondano tutti gli altri precetti della legge naturale, onde tutte le cose che bisogna fare o evitaresono di pertinenza della legge naturale, che la ragione pratica apprende naturalmente come beni umani. Epoiché il bene ha natura di fine (naturale), il male invece natura del contrario, tutte quelle cose verso lequali l'uomo ha naturale inclinazione, sono apprese come buone dalla ragione naturale, e per conseguenzada perseguirsi nelle opere; le cose ad esse contrarie sono invece apprese come cattive e da evitare. L'ordinedei precetti della legge naturale corrisponde dunque all'ordine delle inclinazioni naturali. In primo luogodifatti si trova nell'uomo l'inclinazione al bene secondo la natura che gli è comune con tutte le sostanze(create); nel senso cioè in cui qualsiasi sostanza aspira alla conservazione del suo essere secondo la suanatura. In corrispondenza a questa inclinazione, appartiene alla legge naturale tutto ciò che assicura laconservazione della vita dell'uomo e ne impedisce la distruzione. In secondo luogo, si trova nell'uomol'inclinazione ad alcuni beni più particolari, secondo la natura che gli è comune cogli altri animali. Inquesto senso si dicono appartenere alla legge naturale <<quelle cose che la natura ha insegnato a tutti glianimali>>, come l'unione del maschio e della femmina, l'allevamento dei figli, ecc. In un terzo modo, infine,si trova nell'uomo l'inclinazione al bene conforme alla natura razionale che gli è propria: come, adesempio, l'uomo ha una naturale inclinazione a conoscere la verità nei riguardi di Dio, oppure a vivere insocietà. E in questo senso appartengono alla legge naturale le norme relative a tale inclinazione: come, adesempio, che l'uomo eviti l'ignoranza, che non rechi offesa a coloro coi quali deve aver relazione, e tutte lealtre norme di questo genere.

Se esiste una legge naturale, siamo dunque in possesso di un criterio per giudicare le leggi positive, perdeterminare se esse siano giuste o ingiuste e quindi per decidere se obbedirvi o meno. Le leggi, diceTommaso,

possono essere dette giuste sia in considerazione del loro fine, quando sono ordinate al bene comune; sia inconsiderazione del loro autore, quando la legge che viene emanata non eccede i poteri di chi la emana; siainfine in considerazione della loro forma, quando cioè gli oneri che esse impongono ai sudditi sono ripartitisecondo un'uguaglianza proporzionale in vista del bene comune. Poiché difatti l'uomo è una parte dellacomunità, ogni singolo uomo, in ciò che è e in ciò che possiede, appartiene alla comunità: così come ogni

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singola parte, in ciò che è appartiene al tutto. E' per questa ragione che anche la natura talora sacrifica laparte per salvare il tutto. In base a questo principio, le leggi che ripartiscono gli oneri in modoproporzionale sono giuste, e obbligano nel foro della coscienza, e sono leggi legittime.

Quindi le leggi sono giuste quando sono finalizzate al bene comune, quando emanano da un'autoritàlegittima e infine quando rispettano la giustizia distributiva. Ne consegue che in tutti i casi contrari ledobbiamo considerare ingiuste. Ma cosa dobbiamo fare di fronte ad una legge ingiusta? Possiamodisobbedire o dobbiamo comunque obbedire? Le leggi ingiuste, dice Tommaso, non sono nemmeno leggi,sono violenza; esse quindi, nel foro della coscienza, non ci obbligano. A meno che, aggiunge prudentementeTommaso, non si tratti «di evitare lo scandalo e il disordine, come c'insegna S. Matteo (V, 40-41, "Se titrascinerà a correre per un miglio, va con esso altre due miglia; e si ti avrà tolta la tunica, dagli anche ilmantello"». Ma se si tratta di leggi che si oppongono al bene divino (norme, ad esempio, che obbliganoall'idolatria) allora esiste il dovere assoluto di disobbedire. Occorre tuttavia tenere conto del fatto che laragione pratica non ha lo stesso rigore della ragione speculativa: quindi, man mano che ci avviciniamo allarealtà e al contingente, si apre la possibilità per la legge di regolarsi secondo tempi e luoghi, fermo restandoil principio del riferimento alle norme fondamentali delle leggi naturali.

In conclusione, sul grande tema dell'obbedienza Tommaso formula una importante distinzione. In lineagenerale, l'obbedienza è un dovere naturale:

come l'operare degli agenti naturali deriva dalla forza della natura, così l'operare dell'uomo derivadall'umana volontà. Ora nelle cose naturali occorre che le più alte inducano le più basse alle azioni chesono loro proprie, mediante la preminenza delle virtù naturali ad esse conferita da Dio. Così anche nellecose umane occorre che i superiori determinino colla loro volontà gli inferiori, in forza dell'autoritàstabilita da Dio. Ma determinare colla ragione e la volontà non è altro che comandare. Perciò comenell'ordine naturale creato da Dio le cose più basse devono sottostare alla direttiva di quelle più elevate,così pure nelle cose umane, secondo l'ordine del diritto naturale e divino, gli inferiori sono tenuti adobbedire ai loro superiori.

Ma vi sono casi in cui l'obbedienza non è un obbligo assoluto: anzitutto, quando il comando di un'autorità èin contrasto con il comando di un'autorità superiore, o differisce da esso; in secondo luogo, quando ilcomando si riferisca ad una materia nella quale l'autorità non ha competenza. In riferimento a quest'ultimocaso, Tommaso fa esempi molto significativi.

In quelle cose che dipendono dal moto interiore della volontà, l'uomo non è tenuto ad obbedire all'uomo, masolo a Dio. L'uomo è obbligato bensì ad obbedire all'uomo per quanto riguarda l'operato esteriore delcorpo; ma anche in questo, per quanto riguarda la natura del corpo, l'uomo non è obbligato ad obbedireall'uomo, ma soltanto a Dio, perché tutti gli uomini per natura sono uguali; così, ad esempio, per quantoriguarda il sostentamento del corpo e la generazione della prole. Perciò nel contrarre matrimonio, o nel farvoto di castità, e in altri casi simili, la schiava non è obbligata ad obbedire ai padroni, né i figli ai genitori.In quelle cose invece che riguardano la disposizione degli atti e delle cose umane, il suddito è tenuto adobbedire al suo superiore secondo la ragione della superiorità: così il soldato al condottiero dell'esercitoper quanto riguarda la guerra; il servo al padrone, per quanto riguarda il compimento delle opere servili; ilfiglio al padre, per quanto riguarda la disciplina della vita e la cura della famiglia, e così per il resto.

Nell'idea che esistano una serie di "materie" sulle quali il comando dell'autorità non è lecito, si puòintravedere il concetto di diritto individuale come limite all'azione dello Stato (e sarà il concetto dellacosiddetta "limitazione materiale" del potere statale). Infine, tornando sul problema dell'obbedienza di fronteal potere ingiusto, Tommaso ribadisce la sua posizione abbastanza moderata, tranne che su questionireligiose:

ai prìncipi secolari l'uomo in tanto è tenuto ad obbedire, in quanto lo esige l'ordine della giustizia. Perciò,se questi non abbiano un potere giusto, ma usurpato, oppure se comandino cose ingiuste, i sudditi non sonoobbligati ad obbedirli, tranne forse in taluni casi particolari, quando si tratti evitare uno scandalo od unpericolo.

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Ma se, per esempio, il principe viene colpito da scomunica, allora i sudditi sono sciolti ipso facto dalgiuramento di fedelta e quindi dal dovere di obbedienza.

In Tommaso abbiamo dunque una serie di posizioni che vanno nella direzione di una concezionerazionalistico-giusnaturalistica della legge (concezione che, ovviamente, conduce diritta alla limitazione delpotere); ma abbiamo anche il permanere della Chiesa, quale fonte certa di razionalità. Abbiamo infatti vistocome la possibilità (anzi, il dovere) della disobbedienza sia affermato solo quando nasce da una pronunciadella Chiesa contro il potere, in genere per ragioni religiose. Inoltre abbiamo una concezione parziale dellatolleranza.

Fra gli infedeli - dice Tommaso - vi sono quelli che non accolsero mai la fede cristiana, come i gentili e igiudei: e questi non devono in alcuna maniera essere costretti ad abbracciare la fede e a credere, perché ilcredere dipende dalla volontà. Possono tuttavia i fedeli, se vogliono, costringerli a non ostacolare la fedecristiana con atti blasfemi o con malvagie persuasioni, o addirittura con aperte persecuzioni. E per questaragione frequentemente i fedeli di Cristo muovono guerra contro gli infedeli: non già per costringerli acredere (ché se anche riuscissero a sconfiggerli, ed a ridurli in cattività, li lascerebbero liberi di volercredere o no), ma per obbligarli a non ostacolare la fede di Cristo. Diverso peraltro è il caso di quegliinfedeli che un giorno abbracciarono la fede, e ne fanno professione, come gli eretici e tutti gli apostati:questi devono essere costretti, anche fisicamente, ad adempiere quello che hanno promesso, e ad osservarequanto hanno accettato, una volta per sempre.

Infine, abbiamo una subordinazione del fine sociale (la virtù) al fine religioso (la beatitudine), che puòcondurre a configurare il primato della Chiesa sul potere politico. Dice infatti Tommaso: il fine dellacomunità deve essere determinato in maniera identica al fine del singolo. Ad esempio: se il fine ultimodell'uomo fosse la salute, questo dovrebbe essere anche il fine dello Stato (la cui guida, in tal caso, sarebbeconvenientemente affidata ai medici); oppure, se il fine ultimo dell'uomo fosse la ricchezza, lo Statodovrebbe avere lo stesso fine (e quindi ci si potrebbe affidare a degli amministratori). Ma in realtà, poiché ilfine per cui gli uomini si associano tra di loro è 'vivere insieme bene', e poiché la 'vita buona' è quellasecondo virtù, il fine dello Stato e della società sarà quello di vivere secondo virtù. Ma l'uomo, vivendo in talmodo, è ordinato ad un fine ulteriore: l'uomo vive secondo virtù per potere infine godere di Dio, nellabeatitudine. Conclude Tommaso:

l'ultimo fine della comunità consociata non sarà pertanto di vivere secondo virtù, ma di pervenire, permezzo di una vita virtuosa, al godimento di Dio.

Ma come si raggiunge questo fine supremo della beatitudine? E' alla portata della virtù umana o richiede unintervento soprannaturale? Se fosse alla portata della virtù umana, il compito di guidare gli uomini verso diesso spetterebbe ai re, giacché sono questi ultimi a guidare gli uomini nelle loro aspirazioni alle cose umane.Ma poiché soltanto con la virtù divina si può giungere alla beatitudine,

solo un governo divino, e non un governo umano, potrà condurre a tale fine. Un governo di tale fatta spettapertanto a quel re, che non è soltanto un uomo, ma anche un Dio, e cioè a Gesù Cristo nostro Signore, che,elevando gli uomini a figli di Dio, li ha introdotti nella gloria del Cielo.

Tommaso conclude ribadendo la distinzione tra potere politico e potere religioso, ma anche lasubordinazione del primo al secondo:

pertanto, affinché le cose spirituali fossero distinte da quelle terrene, il ministero di questo regno è statoaffidato non ai re della terra, ma ai sacerdoti, ed anzitutto al Sommo Sacerdote, successore di Pietro,Vicario di Cristo, al Romano Pontefice, al quale è necessario siano sottomessi tutti i re del popolo cristiano,come allo stesso Signore Gesù Cristo. Così invero a colui, cui spetta la cura del fine ultimo, debbono essersottomessi coloro, cui spetta la cura del fine anteriore, ed esser diretti dal suo comando.

5. Machiavelli

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Cenni biografici

Nasce a Firenze nel 1469, da famiglia relativamente agiata.

Nel 1498 (a 29 anni) si presenta per due volte candidato alla segreteria della seconda cancelleria (affariinterni e straordinari, guerra); a febbraio fallisce (vince il candidato dei savonaroliani), a giugno riesce. Aluglio viene inoltre nominato segretario dei Dieci di Balìa, magistratura addetta ai rapporti con gli altri Stati.Questi uffici gli daranno modo di raccogliere un vasto materiale storico e politico. Per 15 anni, infatti, egliriceve numerosissimi incarichi diplomatici, che lo portano presso Luigi XII, presso Cesare Borgia e pressol'imperatore Massimiliano.

Nel 1513 i Medici tornano al potere e Machiavelli viene epurato. Accusato di aver preso parte ad unacongiura viene arrestato e torturato; riconosciuto innocente, può ritirarsi in una villetta presso San Casciano.Verrà pienamente riabilitato agli uffici politici soltanto nel 1525.

Nel 1513 scrive Il Principe; nel 1515 lo presenta a Lorenzo de' Medici.

Nel 1517 termina i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.

Nel 1518 scrive la Mandragola, Belfagor e il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua.

Nel 1520 termina Dell'arte della guerra. Nello stesso anno riceve dall'Università l'incarico di scrivere lastoria di Firenze. Le Istorie fiorentine lo occuperanno per circa cinque anni.

Nel 1525 scrive un'altra commedia, la Clizia. Nello stesso anno si reca a Roma per offire a Clemente VII leIstorie fiorentine; rientra quindi nella vita politica.

Nel 1526 riceve l'incarico di provvedere alla difesa di Firenze, contro Carlo V.

Nel 1527, anche in seguito al sacco di Roma, una sollevazione popolare rovescia il governo mediceo eristabilisce la costituzione repubblicana. Machiavelli viene esluso da qualsiasi carica. Muore a Firenze inpovertà, a 58 anni.

Il pensiero politico

«Il problema di Machiavelli - è stato giustamente osservato - è il problema dello Stato: della fondazione,della conservazione, del governo dello Stato. Lo Stato è l'ultimo orizzonte delle sue riflessioni e della suaetica: egli infatti si pone sempre dal punto di vista di chi prende delle decisioni aventi per fine ultimo lasalute dello Stato»[9]. Di qui il suo realismo o - secondo i suoi critici - il suo immoralismo o amoralismo. Inrealtà, il momento morale ha il suo ruolo, nel pensiero di Machiavelli; solo che esso è concepitoaristotelicamente, ossia come qualcosa che sta dentro al più vasto bene della città. In ultima analisi, dunque,al di sopra di qualsiasi considerazione, per Machiavelli vale il principio secondo cui salus rei publicaesuprema lex.

Quanto alle accuse di cinismo, rivolte da sempre all'autore del Principe, è stato osservato che se per un versoMachiavelli descrive con crudezza le efferatezze della politica, per altro verso non mancano in lui accentiaccorati davanti ad esse e alla loro necessità. In secondo luogo, alcuni studiosi hanno evidenziato come tali'efferatezze' costituissero mezzi di lotta politica largamente diffusi in quella terribile epoca che fu la primametà del Cinquecento (e dunque Machiavelli altro non avrebbe fatto che studiare il suo tempo, conl'avalutatività propria dello scienziato). Infine, si è ricordato come la crudezza del Machiavelli derivasseanche da un dato caratteriale, essendo il suo spirito alieno da qualsiasi moralismo o pietismo e piuttostoincline all'ironia.

Ma veniamo alle tesi di questo controverso autore. Il celebre realismo viene esplicitamente "teorizzato" nel

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XV capitolo del Principe. Si tratta di un passo molto noto.

Resta ora a vedere quali debbano essere e' modi e governi di uno principe con sudditi o con gli amici. E,perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenutoprosuntuoso, partendomi, massime nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri. Ma sendo l'intentomio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale dellacosa, che alla imaginazione di essa.

Machiavelli sottolinea con forza ciò che lo differenzia dai molti altri autori che si sono occupati delmedesimo argomento: il suo intento è cogliere la verità effettuale della cosa, mentre gli altri andavano dietrol'immaginazione di essa. In altre parole, Machiavelli si propone di comprendere la realtà politica per quelloche è realmente, senza sovrapporre ad essa desideri o princìpi. Il suo è un intento scientifico, nel significatoweberiano di a-valutativo: dunque realistico e spregiudicato nel senso letterale del termine. Per la verità, unintento Machiavelli lo dichiara: scrivere cosa utile a chi la intende, ossia scrivere qualcosa che sia utile perchi governa. Si manifesta, in questa opzione di Machiavelli, il suo punto di vista, al quale abbiamo fattoriferimento all'inizio: per il pensatore fiorentino lo Stato (e la politica) costituiscono l'orizzonte ultimo, il chelo conduce a porsi, nell'esame del problema politico, ex parte principis, dalla parte del potere. Ma si tratta diintento che non falsa l'indagine; anzi, proprio per essere veramente utile al principe, l'indagine deve essereveritiera, deve guardare alla realtà senza infingimenti.

Sempre in nome di quello che noi oggi chiameremmo il principio di realtà, Machiavelli ci richiama alladifferenza tra i nostri desideri e la realtà:

molti si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perchéegli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa perquello che si doverrebbe fare impara piuttosto la ruina che la preservazione sua: perché uno uomo, chevoglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni.

Dunque la differenza tra essere e dover-essere, tra realtà e princìpi (o desideri), è grande, al punto che essaparrebbe, almeno in questo passo, incolmabile; sembrerebbe una caratteristica ineliminabile della realtàmedesima. La realtà, dice Machiavelli, è molto meno bella dei nostri princìpi morali; chi non ne tiene conto -massimamente colui il quale detiene il potere - e guarda soltanto ai princìpi, si procura la propria rovina enon il proprio successo. Conclusione realistica (o, se preferite, pessimistica) di Machiavelli: il buono, tramolti cattivi, è destinato a soccombere. Di qui il consiglio per il Principe:

onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e nonl'usare secondo la necessità.

Nel secondo paragrafo del capitoletto, Machiavelli fa un elenco delle buone e delle cattive qualità di unprincipe: liberalità o avarizia, crudeltà o pietà, infedeltà o fedeltà, paura o coraggio, debolezza o energia,umanità o superbia, lascivia o castità, schiettezza o astuzia, religiosità o incredulità, e così via. A tale elenco,nel paragrafo successivo, Machiavelli accompagna il seguente commento:

io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi, di tutte lesoprascritte qualità, quelle che sono tenute buone; ma, perché non le si possono avere, né interamenteosservare, per le condizioni umane che non lo consentono, gli è necessario essere tanto prudente, che sappiafuggire l'infamia di quelli vizii chi li torrebbano lo stato, e da quelli che non gnene tolgano guardarsi, seegli è possibile; ma, non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare.

Sarebbe "laudabilissima cosa" che il Principe possedesse soltanto doti positive: ma ciò non è possibile, per lecondizioni umane che non lo consentono. Emerge qui la concezione machiavelliana della natura umanacome una mescolanza di vizi e virtù, nella quale, in genere, non sono le seconde a prevalere. La conclusioneè un esempio di come le regole di condotta, in Machiavelli, siano dominate dal fine ultimo della politica(ossia, dalla salus rei publicae, dalla salvezza dello Stato): posto che esistano due categorie di vizi - gli uniconducono alla perdita del potere, gli altri no -, allora il Principe dovrà sicuramente fuggire i primi e, quanto

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ai secondi, cercare di evitarli; ma se proprio non ci riesce, pazienza.

E' chiaro che tali posizione hanno alle spalle, come dicevamo, una concezione antropologica realistica opessimistica che dir si voglia. Degli uomini, afferma Machiavelli, si può dire questo generalmente:

che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno; e mentre failoro bene, sono tutti tua, offerenti el sangue, la roba, la vita, e' figliuoli, come di sopra dissi, quando ilbisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e' si rivoltano.

Inoltre essi «sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio», non mantengono laparola data e «si pascono così di quel che pare come di quello che è: anzi molte volte si muovono più per lecose che paiono che per quelle che sono». Gli uomini sono insomma ingrati, volubili, falsi e avidi(soprattutto di beni materiali); sono in generale "tristi", ossia di animo malevolo, cattivo; sono superficiali estupidi. Il panorama non lascia adito a dubbi. E colui che li governa - se è un politico virtuoso - dovrà tenereconto di tutto ciò.

Dunque la virtù di cui parla Machiavelli - per il Principe, per il politico in genere - è qualcosa di moltodiverso da ciò che si intendeva tradizionalmente. Per il Cristianesimo la virtù consiste nella pazientesottomissione alla volontà divina, nell'attesa di una vita ultraterrena; per Aristotele la virtù è il giusto mezzo,la perfezione morale raggiunta attraverso il dominio della ragione; per gli Stoici essa consiste invecenell'accettazione degli eventi; per gli Epicurei, infine, la virtù è un mezzo per raggiungere la tranquillitàdell'animo. Nessuna di queste definizioni si attaglia alla virtù machiavelliana. Per il pensatore fiorentino,infatti, la virtù indica l'energia, la volontà e l'efficienza del politico; essa è la capacità di adattarsi allecircostanze e riassume tutte le doti - prudenza, tenacia, industriosità, valutazione obiettiva delle forzedisponibili e loro adeguazione al fine - necessarie a fondare, riordinare e mantenere uno Stato. In ultimaanalisi, dunque, la virtù è la prudenza o l'avvedutezza politica del Principe, che permette di porre argini aicolpi della fortuna (ossia del destino, la cui azione è al di fuori della portata umana). All'interno del fineultimo - ossia della salvezza dello Stato - vi è spazio per qualsiasi virtù in senso tradizionale; ma il fineultimo è pur sempre politico e gli altri beni sono quindi inferiori rispetto alla salvezza dello Stato. Ne derivache quando quest'ultima è in gioco (nella guerra o nella conquista dello Stato), il fine politico prenderà ilsopravvento su qualsiasi altro fine o bene. Allora sarà lecito impiegare la frode o la forza senzatentennamenti:

ancora che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile, nondimanco nel maneggiare la guerra è cosalaudabile e gloriosa, e parimente è laudato colui che con fraude supera il nimico, come quello che lo superacon le forze.

Esempio classico della concezione machiavelliana del politico è la descrizione che egli fornisce delleimprese di Cesare Borgia (noto come il Valentino), figlio di Papa Alessandro VI. Si tratta di unaricostruzione storica all'interno della quale viene sviluppata anche la nota antitesi tra virtù e fortuna, la primainterpretata come abilità politica, come attività energica e intelligente, la seconda intesa come insieme dicircostanze indipendenti dalla volontà e dall'azione dell'uomo. Le «cose del mondo», si chiede Machiavelli,sono guidate dalla fortuna e da Dio - per cui all'uomo non rimane che accettare il corso degli eventi -, oppurela «prudenza» dell'uomo riesce ad influire su di esse? Se prevalesse la prima ipotesi, dovremmo concluderneche non vale la pena di «insudare molto nelle cose», ma che conviene piuttosto «lasciarsi governare dallasorte». Ed in effetti, prosegue Machiavelli, se guardiamo alla straordinaria mutevolezza delle vicende deinostri tempi[10], verrebbe voglia di credere che solo la Fortuna tiene il bandolo di una tale matassa. Tuttavia,affinché non si debba rinunciare al nostro libero arbitrio - dice Machiavelli con accenti tipicamenterinascimentali -, sono propenso a credere che la Fortuna sia arbitra soltanto della metà delle azioni umane, eche quindi l'altra metà dipenda da noi. Il rapporto tra queste due 'forze' è descritto da Machiavelli conun'immagine assai efficace, dalla quale emerge chiaramente in cosa consista la "virtù" dell'uomo.

Assomiglio quella [la fortuna] a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s'adirano, allagano e' piani,ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell'altra; ciascuno fugge loro

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dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, nonresta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e conargini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe né sìlicenzioso né sì dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non èordinata virtù a resisterle; e quivi volta li sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari atenerla.

Dunque se la Fortuna è un fiume in piena - una forza della natura di fronte alla quale, una volta scatenata,l'uomo può ben poco -, la virtù degli uomini è l'insieme dei provvedimenti, dei ripari e degli argini che,predisposti in tempi calmi, consentono di evitare o limitare i danni. In sostanza, la virtù è per Machiavellil'azione energica, previdente, intelligente ed efficace, attraverso la quale l'uomo cerca di affermare la proprialibertà nel mezzo di quella vicenda incerta, rischiosa e non totalmente dominabile che è la storia.

Ma torniamo al ritratto machiavelliano del Valentino (Cesare Borgia), esempio significativo di "virtù"politica. Siamo in quella parte del Principe in cui viene trattato il problema dei Principati acquisiti con leproprie armi e la propria virtù (e dunque non per eredità). Tali principati si conquistano, dice Machiavelli, oper fortuna o per virtù, ma nel secondo caso la conquista si rivela in genere più stabile (e da quanto abbiamoappena detto su fortuna e virtù dovrebbe essere abbastanza evidente il perché). Machiavelli propone unaserie di esempi di grandi uomini, per poi giungere a Francesco Sforza e al Valentino. Il primo, con mezziopportuni e notevoli virtù, divenne con grande fatica duca di Milano e con poca fatica vi rimase; il secondoacquistò lo Stato grazie alla fortuna del padre (Papa Alessandro VI) e con quella lo perse. Eppure, osservaMachiavelli, dopo l'iniziale fortuna, il Valentino si era comportato con tale prudenza e virtù che avrebbedovuto «mettere le barbe sue» in quegli Stati che la fortuna gli aveva concesso.

Machiavelli si sofferma sul Valentino perché, dice esplicitamente «io non saprei quali precetti mi daremigliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua». E se la sua avventura ebbe esito infausto,ciò «non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna». La storia è laseguente: Alessandro VI, padre del Valentino, vuole fare di suo figlio il signore di uno Stato. Ma per fare ciònon ha altra strada che affidargli una parte del territorio influenzato dalla Chiesa, vale a dire quelle terre diMarche e di Romagna sulle quali la Chiesa aveva un antico titolo di possesso, ancorché non vi esercitassedirettamente il dominio. Ma su tali territori premevano tanto il ricco Ducato di Milano, quanto la potenteRepubblica di Venezia; inoltre gli eserciti italiani ai quali il Papa poteva ricorrere erano nelle mani dei suoinemici (cioè degli Orsini e dei Colonnesi). Occorreva dunque che la situazione mutasse. Il che avvenne, conla discesa di Carlo VIII in Italia (1494); il Papa non si oppose affatto, cosicché ebbe in cambio, dal sovranofrancese, le truppe necessarie per l'impresa del figlio in Romagna. Conquistata la Romagna, il Valentinovorrebbe andare oltre: ma lo frenano la freddezza del re di Francia e il fatto di non poter disporre di truppeproprie. In breve: il Valentino si servirà abilmente dell'appoggio dei francesi e, quanto al versante italiano,corromperà la nobiltà romana (onde averla al suo fianco) e si sbarazzerà degli Orsini, uccidendoli atradimento. Ascoltiamo l'asciutto resoconto di tali efferatezze dalle parole dello stesso Machiavelli.

Dopo questa, aspettò la occasione di spegnere e' capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna; laquale li venne bene, e lui la usò meglio. Perché, avvedutisi gli Orsini, tardi, che la grandezza del duca edella Chiesa era la loro ruina, feciono una dieta alla Magione, nel Perugino; da quella nacque la rebellionedi Urbino e li tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca; li quali tutti superò con lo aiuto de' Franzesi.E ritornatogli la reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere acimentare, si volse agli inganni. E seppe tanto dissimulare l'animo suo, che gli Orsini medesimi, mediante elsignor Paulo, si riconciliorono seco; con il quale el duca non mancò d'ogni ragione di offizio perassicurarlo, dandogli danari, veste e cavalli; tanto che la simplicità loro li condusse a Sinigaglia nelle suemani. Spenti, adunque, questi capi, e ridotti li partigiani loro amici sua, aveva il duca assai buonifondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna con il ducato di Urbino, parendogli, massime, aversiacquistata amica la Romagna e guadagnatosi tutti quelli popoli, per avere cominciato a gustare el beneessere loro.

Coronamento di tale vicenda è il famoso episodio di Remirro de Orco, «uomo crudele et espedito» al quale il

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Duca aveva dato carta bianca affinché riportasse l'ordine nelle riottose terre di Romagna. Qui si affaccial'idea del bene al quale conduce il potere: il buon governo è quello che istituisce la pace e l'ordine.

Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta comandata da signori impotenti, li quali più prestoavevano spogliato e' loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione, non di unione, tanto chequella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussinecessario, a volerla ridurre pacifica e obediente al braccio regio, darli buon governo.

Ma il prezzo che Remirro de Orco fa pagare per la pace, l'unità e l'ordine è alto; la sua autorità spietatarischia di rendere odioso il potere del Duca. E allora il Valentino si comporta da par suo:

di poi iudicò el duca non essere necessario si eccessiva autorità, perché dubitava non divenissi odiosa; epreposevi uno iudicio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo, dove ogni città ciaveva lo avvocato suo. E perché conosceva le rigorosità passate averli generato qualche odio, per purgaregli animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volle mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, nonera nata da lui, ma dalla acerba natura del ministro. E presa sopr'a questo occasione, lo fece a Cesena, unamattina, mettere in dua pezzi in sulla piazza con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto. Laferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.

Da notare la notazione finale di Machiavelli, spietata nella sua ironia sui sentimenti popolari. Ma le cose simisero poi male. Anzitutto morì Alessandro VI, al quale successe un fiero avversario dei Borgia (Giulio IIDella Rovere), e qualche tempo dopo si ammalò a morte lo stesso Valentino. La conclusione di Machiavelliè la seguente.

Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei reprenderlo; anzi mi pare, come ho fatto, dipreporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l'arme d'altri sono ascesi allo imperio. Perché lui,avendo l'animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti; e solo si oppose alli suadisegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua. Chi, adunque, iudica necessario nel suoprincipato nuovo assicurarsi de' nimici, guadagnarsi degli amici, vincere o per forza o per fraude, farsiamare e temere da' populi, seguire e reverire da' soldati, spegnere quelli che ti possono o debbonooffendere, innovare con nuovi modi gli ordini antiqui, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnerela milizia infedele, creare della nuova, mantenere le amicizie de' re e de' principi in modo che ti abbino abeneficare con grazia o offendere con respetto, non può trovare e' più freschi esempli che le azioni di costui.

Da questo accenno alla "intenzione alta" del Valentino, si intuisce che in Machiavelli non è soltanto ilsuccesso a costituire il metro sul quale misurare la grandezza del politico. Occorre anche che la suaintenzione sia alta e nobile: ed infatti Machiavelli stabilisce una chiara differenza tra le vicende delValentino e quelle di Agatocle di Siracusa o di Liverotto. Agatocle era figlio di un semplice vasaio; mapercorse, dimostrando grande scelleratezza e virtù, tutti i gradi della milizia. Divenuto pretore di Siracusa,realizzò un colpo di Stato, imponendo il proprio dominio e sterminando i senatori e i ricchi; inoltre dimostrògrandissimo valore militare nelle guerra contro Cartagine. Nella vicenda di Agatocle, osserva Machiavelli,prevalgono sicuramente le virtù sulla fortuna; e tuttavia non

si può ancora chiamare virtù ammazzare e' sua cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede, sanza pietà,sanza religione: li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria. Perché, se si considerassi lavirtù di Agatocle nello entrare e nello uscire de' periculi, e la grandezza dello animo suo nel sopportare esuperare le cose avverse, non si vede perché egli abbia ad essere iudicato inferiore a qualunqueeccellentissimo capitano; nondimanco, la sua efferata crudeltà e inumanità con infinita scelleratezza, nonconsentono che sia infra gli eccellentissimi uomini celebrato.

Il pensatore fiorentino stabilisce infatti una chiara distinzione tra «crudeltà male usate» e «crudeltà beneusate»:

bene usate si possono chiamare quelle (se del male è lecito dire bene) che si fanno a uno tratto, per lanecessità dello assicurarsi, e di poi non vi si insiste drento, ma si convertiscono in più utilità de' sudditi che

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si può. Male usate sono quelle le quali, ancora che nel principio sieno poche, più tosto col tempo cresconoche le si spenghino. Coloro che osservano el primo modo, possono con Dio e con gli uomini avere allo statoloro qualche remedio, come Agatocle; quegli altri è impossibile si mantenghino.

Insomma, dopo il momento della forza (ossia dopo la conquista del principato), occorre suscitare il consensodei cittadini e promuoverne le virtù. Di fronte al Principe si aprono due strade: realizzare quel beneintrinseco della politica, che sta nel consentire la convivenza degli uomini (convivenza resa assai difficiledalla loro natura egoistica), oppure cadere nella tirannide. Se sceglie quest'ultima strada, il Principe èdestinato, come insegna la storia, a rinunciare alla gloria, all'onore e alla quiete; ciò che lo attende è l'infamiae una costante situazione di pericolo e inquietudine. Come si può osservare, l'invito ad abbandonare la stradadella tirannide non si basa su motivazioni di ordine etico, ma su una riflessione storico-politica: la politicanon ha bisogno di desumere dall'esterno la propria moralità, perché ha in se stessa la norma della propriacondotta: ricondurre gli uomini ad una forma ordinata e libera di convivenza. I limiti della politica stannodunque nell'adeguatezza dei mezzi al fine suo proprio: e quindi i mezzi tirannici vanno rifiutati non perchéimmorali, ma perché impolitici, inefficaci. Il dominio dell'azione politica, come ha giustamente osservatoAbbagnano, si estende, con Machiavelli, «a tutto ciò che offre la garanzia del successo, che è poi quella dellastabilità e dell'ordine della comunità politica. Per la prima volta ... quel dominio viene scrutato e valutato conun criterio puramente intrinseco e si intravede il principio di una normativa inerente ai compiti umani cometali e non sopraggiunta ad essi dall'esterno come criterio e limite estranei»[11].

Altra importante osservazione viene fatta da Machiavelli circa le basi del consenso: in ogni città, egli dice, sitrovano «dua umori diversi», i grandi e il popolo, aventi fini opposti:

il populo desidera non essere comandato né oppresso da' grandi, e li grandi desiderano comandare eopprimere il populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nella città uno de' tre effetti, o principato olibertà o licenzia.

Più stabile sarà quel Principe che basa il suo potere sull'appoggio popolare; qui si possono cogliere alcuniaccenti demofili:

colui che viene al principato con lo aiuto de' grandi, si mantiene con più difficultà che quello che diventacon lo aiuto del populo; perché si truova principe con di molti intorno che li paiano essere sua equali, e perquesto non li può né comandare né maneggiare a suo modo. Ma colui che arriva al principato con il favorepopolare, vi si trova solo, ha intorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati a obedire. Oltre a questo,non si può con onestà satisfare a' grandi e sanza iniuria d'altri, ma si bene al populo: perché quello delpopulo è più onesto fine che quello de' grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso.

Ma come si conserva uno Stato, per Machiavelli? Anzitutto con buone leggi e buone armi; quindi la milizianon deve essere né mercenaria, né ausiliaria:

le mercenarie e ausiliarie sono inutile e periculose: e se uno tiene lo stato suo fondato in sulle armemercenarie, non starà mai fermo né sicuro; perché le sono disunite, ambiziose, sanza disciplina, infedele;gagliarde fra gli amici; fra e' nimici, vile; non timore di Dio, non fede con gli uomini; e tanto si differisce laruina quanto si differisce lo assalto; e nella pace se' spogliato da loro, nella guerra da' nimici. La cagionedi questo è che le non hanno altro amore né altra cagione che le tenga in campo che uno poco di stipendio;il quale non è sufficiente a fare che voglino morire per te. Vogliono bene essere tuoi soldati mentre che tunon fai guerra; ma, come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene. La qual cosa doverrei durare poca faticaa persuadere, perchè ora la ruina di Italia non è causata da altro che per essere in spazio di molti anniriposatasi in sulle arme mercenarie.

In secondo luogo, è necessario - ai fini della conservazione di uno Stato - un uso appropriato della "crudeltà"da parte del Principe:

scendendo appresso alle altre preallegate qualità, dico che ciascuno principe debbe desiderare di esseretenuto pietoso e non crudele: nondimanco debbe avvertire di non usare male questa pietà. Era tenuto

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Cesare Borgia crudele; nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola inpace e in fede. Il che se si considerrà bene, si vedrà quello essere stato molto più pietoso che il populofiorentino, il quale, per fuggire el nome del crudele, lasciò destruggere Pistoia. Debbe, pertanto, unoprincipe non si curare della infamia di crudele, per tenere li sudditi suoi uniti e in fede; perché, conpochissimi esempli, sarà più pietoso che quelli e' quali, per troppa pietà, lascino seguire e' disordini, di chene nasca occisioni o rapine; perché queste sogliono offendere una universalità intera, e quelle esecuzioniche vengono dal principe offendono uno particulare.

Infine - considerando che la salvezza e la pace dello Stato costituiscono un bene supremo e tenendo contodella natura fondamentalmente infida dell'uomo - è bene che il Principe sia temuto, piuttosto che amato. Omeglio: sarebbe bene che fosse tanto amato quanto temuto; ma poiché è difficile che ciò avvenga, occorre ingenere scegliere tra i due sentimenti, e tra i due il migliore è il timore. Timore non significa però odio. IlPrincipe deve farsi temere, ma non odiare: e per evitare ciò sarà sufficiente che egli si astenga dalla «roba» edella «donne» altrui (e in questo spazio si sviluppa dunque la "libertà" del cittadini; ma su questo torneremopiù avanti).

Machiavelli non manca di soffermarsi sulla integrità del Principe. E ancora una volta le sue considerazionisono crudamente realistiche. Dice il Fiorentino: ciascuno capisce quanto sarebbe lodevole, in un principe,essere integro e fedele, piuttosto che astuto. Ma poiché gli uomini sono, come abbiamo già visto, «ingrati,volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' periculi, cupidi di guadagno», allora è bene che il Principeconosca assai bene le arti dell'astuzia. Dalla realtà che ha osservato con i suoi occhi, Machiavelli ha tratto laseguente lezione: vi sono due modi di combattere, l'uno con le leggi, l'altro con la forza; e soltanto il primo èproprio dell'uomo, mentre il secondo si attaglia alle bestie. Ma visto che «el primo molte volte non basta,conviene ricorrere al secondo. Pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l'uomo». E,restando nell'ambito del ferino, il Principe ha soprattutto bisogno delle arti del «lione» (per spaventare i lupi)e della «golpe» (per sventare le trappole). Machiavelli è consapevole della 'crudezza' di tale principio; ma èconvinto che esso è perfettamente rispondente alle caratteristiche della natura umana:

se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi e non laosservarebbono a te [la parola data], tu etiam non l'hai ad osservare a loro.

Per conservare lo Stato occorrono dunque buone (e proprie) armi, buone leggi, un Principe temuto ma nonodiato (all'occorrenza crudele), una politica estera di accorte alleanze, il rispetto degli interessi privati deicittadini e soprattutto delle loro proprietà, la nazionalizzazione della religione e un cauto riformismo. Questemassime, è stato giustamente osservato, hanno la loro origine e giustificazione nell'idea repubblicanaclassico-umanistica: il modello è la libera Repubblica romana (di qui i motivi anti-tirannici, anticesarei eanti-imperiali comuni a Machiavelli come a Petrarca, Salutati, Bruni e Bracciolini).

Classica è anche la preferenza machiavelliana - nell'ambito delle forme di governo - per il governo misto,che è per l'appunto quello della Roma repubblicana, frutto non della genialità di un legislatore, ma del caso.Le lotte tra patrizi e plebei avevano infatti condotto a tale equilibrato ordinamento; furono i Gracchi, con leloro eccessive richieste - non più soltanto politiche, ma anche economiche - a rompere tale equilibrio. Lacautela deve quindi sempre ispirare l'azione di governo: anche le riforme devono apparire il meno possibile"innovative", offrendo piuttosto l'impressione della continuità. Soltanto il principe nuovo deve andare indirezione opposta, ossia essere ed apparire rivoluzionario.

Ma qual è il bene comune, per Machiavelli? Sostanzialmente, si tratta di una condizione di libertà e legalità.Per libertà egli intende la possibilità di fruire pacificamente, nella sicurezza, della propria sfera privata:godimento delle proprietà, sicurezza della famiglia e della propria persona. Vivere libero significa anchepoter fare valere il proprio malcontento, attraverso le concioni. Quanto alla libertà politica, Machiavelli èconvinto che la partecipazione al potere interessi un numero ristretto di individui, perché la maggioranzadesidera la libertà per vivere sicura. Inoltre, l'effettiva direzione degli affari politici è compito di una classeristretta. Per legalità si intende, all'interno del pensiero machiavelliano, il rispetto dei patti: ad esso, comeabbiamo visto, il Principe può derogare, ma nel reggimento interno dello Stato è bene che vi si attenga. Ilpopolo che vede la sua sicurezza garantita da leggi che lo stesso Principe rispetta, vive tranquillo. Le leggi

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assumono inoltre, in Machiavelli, il classico ufficio educativo: la moltitudine regolata da leggi, come quellaromana, è virtuosa più degli stessi governanti (anche in questo caso abbiamo qualche accenno di demofilia).

Alla salvezza dello Stato deve essere subordinata anche la religione. Vi è, in Machiavelli, una polemicaanticristiana che vede nell'universalismo della Chiesa una forza sovversiva. Ciò nonostante, anche ilCristianesimo può divenire ottimo strumento di governo e di educazione, se concorre a rafforzare il senso didevozione allo Stato. Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Machiavelli fa l'esempio di Numa:questi ereditò da Romolo un «popolo ferocissimo», che riuscì a civilizzare grazie alla religione.

Numa ... trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, sivolse alla religione come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà, e la constituì in modo cheper più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica; il che facilitò qualunque impresache il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare.

E' questa religiosità, osserva Machiavelli, ad aver fatto la grandezza di Roma: essa è all'opera nel suo valoremilitare e civile, nel mantenere gli uomini buoni e nel far vergognare i colpevoli. Tuttavia, non vi è in questepagine alcun sentimento di autentica religiosità, se con questa intendiamo un vero e profondo sentimentointeriore della divinità. La religione appare qui soltanto il rivestimento mitologico di cui hanno bisogno lefondamentali norme etiche e civili per radicarsi nel cuore dell'uomo. Numa, spiega Machiavelli, «simulò diavere dimestichezza con una Ninfa», la quale gli ispirava le sue decisioni; ma fece questo solo perché,volendo introdurre «ordini nuovi e inusitati ... dubitava che la sua autorità non bastasse». E così occorre farein genere:

veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio, perchéaltrimenti non sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hannoin sé ragione evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi che vogliono tòrre questadifficultà ricorrono a Dio. Così fece Licurgo, così Solone, così molti altri che hanno avuto il medesimo finedi loro.

Insomma, la religione svolge il ruolo cruciale di "sacralizzare" i buoni ordinamenti politici, di dare loroprofonde radici nel cuore degli uomini, radici che servono a superare la naturale debolezza o cattiveria degliuomini stessi. La religione possiede questa forza straordinaria, le cui alternative sono ben misera cosa,giacché

dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d'uno principeche sopperisca a' difetti della religione. E perché i principi sono di corta vita, conviene che quel regnomanchi presto, secondo che manca la virtù d'esso. Donde nasce che gli regni i quali dipendono solo dallavirtù d'uno uomo sono poco durabili, perché quella virtù manca con la vita di quello; e rade volte accadeche le sia rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice:

Rade volte discende per li ramil'umana probitate, e questo vuolequei che la dà, perché da lui si chiami.

6. Hobbes

Cenni biografici

Thomas Hobbes nasce nel 1588 a Malmesbury e riceve la sua educazione universitaria tra il 1603 e il 1608 aMagdalen Hall in Oxford.

Nel 1608 viene chiamato dal barone Cavendish come precettore per il figlio; Hobbes rimarrà sempre legatoalla famiglia Cavendish.

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Tra il 1610 e il 1615 accompagna il suo allievo in un viaggio sul Continente, entrando in contatto, a Venezia,con un collaboratore di Sarpi e familiarizzandosi con i grandi temi della polemica anti-papale. In questoperiodo i suoi interessi sono umanistici; nel 1629, a 41 anni, traduce la Guerra del Peloponneso di Tucidide.

Nel 1630 intraprende un nuovo viaggio sul Continente, durante il quale scopre gli Elementi di Euclide, chedanno avvio ai suoi interessi filosofico-scientifici, sviluppatisi anche con la frequentazione degli scienziati acasa Cavendish.

Tra 1634 e il 1636 è di nuovo sul Continente; a Parigi conosce l'ambiente intellettuale che ruota intorno aMersenne, quindi lo stesso Mersenne e Cartesio, forse Galilei.

Nel 1640 completa e fa circolare il manoscritto degli Elements of law, natural and politic, con i quali prendeposizione sulle controversie degli anni '30, schierandosi dalla parte del re. Di lì a pochi mesi si insedia ilLungo Parlamento e Hobbes, sentendosi in pericolo, torna in Francia.

Dal 1640 al 1651 vive in Francia, scrivendo, pubblicando o preparando le sue opere filosofiche. Nel 1642esce la prima edizione del De cive; la seconda vedrà la luce nel 1647. E' in questi anni che matura l'idea diun sistema filosofico articolato in tre parti: De corpore, De homine, De cive.

Nel 1649, probabilmente dopo l'esecuzione di Carlo I, Hobbes compone il Leviathan, che gli crea problemiper la interpretazione eterodossa delle Scritture.

Alla fine del 1651 torna in Inghilterra. Nel 1655 pubblica il De corpore e nel 1658 il De homine.

Dopo la restaurazione diviene un bersaglio dell'episcopato; nel 1666 un disegno di legge rende punibilel'eresia e un comitato esamina il Leviathan; ma Hobbes ha potenti protezioni (anche il Re) e non vienedisturbato. Le opere che scrisse negli anni successivi - e che non poté e non volle pubblicare - riguardano iltema dell'eresia e la sua non punibilità da parte del potere civile.

Nel 1666 scrive il Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune d'Inghilterra, nel 1668 laNarrazione storica dell'eresia e nel 1670 Behemot, or the Long Parliament.

Nel 1675 lascia Londra; muore ad Hardwick nel dicembre del 1679, a 91 anni.

Il pensiero politico

A differenza della maggior parte degli scrittori politici, Hobbes non si occupò mai attivamente di politica, nécome uomo di parte, né come consigliere di principi. In confronto a Machiavelli - ha osservato uno storicoinglese - Hobbes rimane soltanto un dotto. Ciò non significa, tuttavia, che la sua opera non risenta dellequestioni politiche contemporanee; al contrario, essa può essere considerata come una risposta al problemacruciale del suo tempo, ossia all'esigenza di garantire l'unità dello Stato contro le minaccie di disgregazioneinsite sia nelle discordie religiose e nel contrasto tra potere civile e potere religioso, sia nel dissenso tracorona e parlamento.

Sono anni, quelli della prima metà del '600, in cui l'Europa è dilaniata dalla Guerra dei Trent'Anni (1618-1648), mentre l'Inghilterra è scossa da fortissimi contrasti politici, religiosi ed economici, che culminerannonella guerra civile tra sostenitori del re (cavalieri) e sostenitori del parlamento (teste rotonde), e che - travicende alterne (sconfitta del re e sua decapitazione nel 1647, dittatura repubblicana di Cromwell dal 1647 al1658, restaurazione nel 1660 - condurranno alla Glorious Revolution del 1688, con la quale l'assolutismo, interra inglese, viene definitivamente sconfitto. In questo scenario drammatico - caratterizzato dalla guerracivile - Hobbes si schiera dalla parte del re, elaborando una delle teorie politiche più rigorosamente econseguentemente assolutistiche.

Hobbes, ha scritto Bobbio, è spinto a filosofare dal turbamento che suscita in lui il pericolo delladissoluzione dello Stato; la guerra civile torna quasi ossessivamente nelle sue pagine, come il peggiore di

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tutti i mali, come la morte del corpo politico, come ciò che desertifica la vita umana, impedendole qualsiasisviluppo. Se è vero che il pensiero politico è dominato da alcune grandi antitesi - come autorità/libertà,unità/anarchia -, Hobbes è sicuramente sollecitato dal primo termine di tali antitesi e non dal secondo.L'autore del Leviatano, scrive ancora Bobbio, «è ossessionato dall'idea della dissoluzione dell'autorità, daldisordine che consegue alla libertà del dissenso sul giusto e sull'ingiusto, dalla disgregazione dell'unità delpotere ... in una parola dall'anarchia che è il ritorno allo stato di natura. Il male che egli paventamaggiormente ... è non l'oppressione, che deriva dall'eccesso di potere, ma l'insicurezza, che deriva alcontrario, se mai, dal difetto di potere»[12] .

La discordia e il conflitto nascono, secondo Hobbes, dalle false opinioni che gli uomini hanno intornoall'idea di giusto e di ingiusto: dunque la causa principale del disordine è di natura filosofica e filosoficadovrà essere la risposta. Essa dovrà venire dalla filosofia morale, la quale dovrà servirsi, secondo Hobbes,dello stesso metodo (il metodo geometrico) che ha permesso alla filosofia naturale di raggiungere risultatiindiscutibili. Anche la filosofia morale, in tale modo, diverrà un sapere certo, dove non vi sarà spazio per ilcaos delle opinioni divergenti, e dal quale potrà nascere una scienza politica rigorosa. Quello di Hobbes èpertanto il tentativo di costruire un'etica e una politica dimostrative, aventi lo stesso rigore e la stessacertezza delle scienze naturali.

In questa battaglia per la costruzione di un'etica e di una politica dimostrative (o, come diremmo oggi,"scientifiche"), Hobbes si trova a combattere su diversi fronti. Anzitutto, contro la dottrina aristotelica,secondo la quale nella conoscenza del giusto e dell'ingiusto non è possibile raggiungere quei risultati certicui perviene il ragionamento matematico e bisogna quindi accontentarsi di risultati soltanto probabili; inquesta prospettiva - che aveva dominato per secoli la cultura occidentale - l'etica e la politica non fanno partedelle scienze teoretiche, che hanno per oggetto il 'necessario' (ciò che è così e non può essere altrimenti) eraggiungono risultati certi, ma delle scienze pratiche, che si occupano del 'probabile'. Ne consegue che se lostrumento delle scienze teoretiche, che si muovono nel regno del 'certo', è la logica (ossia l'arte delladimostrazione), quello delle scienze pratiche, che si occupavano del probabile (e dunque delle 'opinioni'), èla retorica (ossia l'arte di argomentare e persuadere). In secondo luogo, Hobbes deve combattere controscolastici vecchi e nuovi, che fondano le loro teorie non sul ragionamento e sull'esperienza, ma sul principiodi autorità, seguendo e ripetendo senza alcuno spirito critico l'insegnamento di Aristotele. Infine, il filosofoinglese deve combattere contro quelli che egli definisce gli "ispirati", ossia tutti i fanatici, i visionari e i falsiprofeti che parlano non per ragione, ma per fede.

E' quindi evidente che il sostegno di Hobbes alla causa monarchico-assolutistica non prende nessuna dellestrade tradizionali: il potere del re non viene difeso in nome del diritto divino, o in base ad argomentireligiosi, sentimentali o tradizionalistici. La teoria assolutistico-monarchica di Hobbes sarà basata suargomenti rigidamente razionalistici, ispirati ad una ragione matematico-geometrica eguale a quella dellescienze naturali. Essa procederà dunque scomponendo il fenomeno nei suoi elementi primi o semplici, daiquali, come punti di partenza certi, procedere attraverso dimostrazioni rigorose.

Dunque Hobbes è un teorico razionalista della sovranità assoluta. Non solo: egli è anche il sostenitore di unateoria artificialistica dell'ordine politico, in virtù della quale lo Stato è concepito come una macchina, unartificium, mediante il quale l'uomo tenta di rimediare ai difetti della natura. Anche su questo piano, la teoriadi Hobbes si contrappone frontalmente a quella di Aristotele. Nel modello aristotelico il sorgere e losvilupparsi dello Stato veniva spiegato servendosi non di una costruzione razionale, ma di una ricostruzionestorica delle fasi attraverso le quali l'umanità si sarebbe evoluta, passando dalle forme più primitive a quellepiù evolute di società, sino a quella forma perfetta di società (in quanto autosufficiente) che è lo Stato. Comeè noto[13], le tappe principali di tale ricostruzione storica erano tre (famiglia, villaggio, città) e ognunasorgeva "per natura": «la comunità che si costituisce per la vita di tutti i giorni - scrive Aristotele nellaPolitica - è per natura la famiglia. ... La prima comunità che deriva dall'unione di più famiglie volte asoddisfare un bisogno non più giornaliero, è il villaggio. ... La comunità perfetta di più villaggi costituisceormai la città». Ognuna di queste tappe è dunque l'esito di un processo naturalistico, fondato sui bisognidegli uomini e sulla loro natura, che è costitutivamente socievole. E' stato giustamente osservato che ladurata, la continuità, la stabilità e la vitalità di cui questo modello ha dato prova sono davvero sorprendenti:

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esso giunge immutato sino alle soglie dell'era moderna, se è vero che ancora Bodin e Althusius si rifanno adesso. Tenendo conto di ciò, risulta evidente il posto di rilievo che spetta ad Hobbes nella storia del pensieropolitico, dato che a lui si deve, in sostanza, l'elaborazione di un modello completamente diverso da quelloaristotelico e che prenderà il suo posto, appunto come modo prevalente di spiegare l'origine e lo sviluppodello Stato, almeno sino ad Hegel, vale a dire sino agli inizi dell'800.

Secondo il modello hobbesiano (che poi coincide con il modello giusnaturalistico), lo Stato non è l'esito diun processo naturalistico, che si evolve senza fratture da una forma minima di società ad una formamassima, ma è il frutto di una decisione consapevole, con la quale gli uomini decidono di abbandonare lostato di natura e "creare" uno stato civile. Lo Stato non nasce dunque per una serie di cause naturali eattraverso l'operare di condizioni obiettive (e dunque per la "forza delle cose"), ma per una convenzioneumana: esso è un artificium, un atto della volontà razionale. E tale artificium nasce come risposta aiproblemi che affliggono l'uomo nello stato di natura, dove egli vive libero ed eguale a tutti gli altri. Tutti ipensatori giusnaturalisti condivideranno tale modello dicotomico, frutto non di una ricostruzione storica, madi un'ipotesi razionale: l'uomo vive o nello 'stato di natura', dove tutti gli individui sono liberi ed eguali, onello 'stato civile'. Tertium non datur. Ma poiché l'uomo, per le ragioni più diverse (ogni giusnaturalista daràinfatti una caratterizzazione differente dello stato di natura), non può continuare a vivere nello stato naturale,allora egli deciderà di uscirne e, con un atto di volontà consapevole, fonderà lo stato civile.

Come si può vedere, il modello hobbesiano è sostanzialmente agli antipodi di quello aristotelico:

a) ad una spiegazione storico-sociologica dell'origine dello Stato subentra una spiegazione razionalistica(basata sull'ipotesi di ragione che nello stato di natura gli uomini siano tutti liberi ed eguali tra di loro);

b) ad una visione dello Stato come esito inevitabile della natura umana subentra una visione dello Statocome antitesi allo stato di natura;

c) ad una concezione organicistica dello Stato subentra una concezione individualistica (lo Stato è il frutto diun accordo che gli individui, liberi ed eguali, stipulano tra di loro);

d) ad una teoria naturalistica del fondamento del potere statale viene sostituita una teoria contrattualistica oartificialistica;

e) il principio di legittimazione dello Stato non è più la forza delle cose, ma il consenso degli individui che locompongono.

Di tutte queste differenze, ha scritto Bobbio,

la più rilevante ... è quella che riguarda il rapporto individuo-società. Nel modello aristotelico all'inizio c'èla società (la società familiare come nucleo di tutte le forme sociali successive); nel modello hobbesiano alprincipio c'è l'individuo. Nel primo caso lo stato prepolitico per eccellenza ... è uno stato in cui i rapportifondamentali sono rapporti fra superiore e inferiore, e quindi sono rapporti di diseguaglianza, quali sonoappunto i rapporti fra padre e figli e fra padrone e servi. Nel secondo caso lo stato prepolitico, cioà lo statodi natura, essendo uno stato di individui isolati, viventi al di fuori di qualsiasi organizzazione sociale, è unostato di libertà e di eguaglianza, ovvero di indipendenza reciproca, ed è quello stato per l'appunto checostituisce la condizione preliminare necessaria dell'ipotesi contrattualistica, giacché il contrattopresuppone al suo sorgere soggetti liberi ed eguali. Allo stesso modo che nello stato di natura sono naturalila libertà e l'eguaglianza, nello stato sociale del modello aristotelico sono naturali la dipendenza e ladiseguaglianza. In quanto stato di individui liberi ed eguali, lo stato di natura è la sede dei diritti individualinaturali, a partire dai quali viene costituita in varia guisa e con vari esiti politici la società civile[14].

Ma torniamo ad Hobbes. Se dietro la concezione naturalistica dello Stato che caratterizzava la teoriaaristotelica stava la visione dell'uomo quale essere naturalmente sociale, dietro la concezione artificialisticadello Stato che distingue il pensiero di Hobbes sta una visione dell'uomo quale essere naturalmente asociale.Partiamo dunque dall'antropologia hobbesiana, ossia dalla sua visione dell'uomo naturale, cercando di non

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dimenticare che l'uomo naturale è l'uomo che vive nello stato di natura, ossia in quella condizione cheprecede, logicamente e storicamente, la creazione della società e dello Stato (con le quali si entra nello statocivile).

Anzitutto, Hobbes sostiene che gli uomini sono uguali tra di loro; o meglio, che le differenze esistenti nonintaccano una condizione di sostanziale eguaglianza.

La natura ha fatto gli uomini così eguali, nelle facoltà del corpo e dello spirito, che, quantunque si trovispesso un uomo più forte o più intellignete di un altro, tuttavia in complesso la differenza tra uomo ed uomonon è tanto notevole che un uomo possa pretendere per sé un beneficio, il quale non possa pretendere unaltro egualmente. Infatti, riguardo alla forza corporea, il più debole ha sempre abbastanza forza, peruccidere il più forte, o per mezzo di macchinazione segreta, o alleandosi con altri, che si trovano nellostesso pericolo. Ed in quanto alle facoltà dello spirito - lasciando da parte le arti fondate sulla parola, especialmente l'abilità procedente da regole generali ed infallibili, chiamata scienza, che solo pochiposseggono, e per poche cose, non essendo una facoltà innata, né appresa, come la prudenza, senza studio -io trovo una eguaglianza anche più grande tra gli uomini, che per la forza materiale. Poiché la prudenzanon è che esperienza, che, in un tempo eguale, egualmente si acquista da tutti gli uomini.

Da questa eguaglianza di mezzi nasce l'eguaglianza delle aspirazioni. E poiché i beni sono scarsi, quandodue uomini aspirano ad uno stesso bene che non possono ottenere contemporaneamente, essi diventanonemici e tentano di distruggersi o sottomettersi a vicenda. Da ciò nasce uno stato di diffidenza reciprocapermanente, che conduce ciascuno se non a fare la guerra, quanto meno a prepararvisi. Dunque l'eguaglianzadi fatto, unita alla scarsità delle risorse e al diritto di tutti su tutto (lo ius in omnia), è destinata a generare unostato di spietata concorrenza, che minaccia continuamente di degenerare in lotta violenta.

Fin qui le condizioni obiettive dello stato di natura, che non dipendono dalla volontà degli uomini. A talicondizioni si aggiungono però le passioni, che sono invece caratteristiche proprie dell'uomo. Per Hobbesl'uomo è in primo luogo un essere naturalmente asociale:

gli uomini non hanno piacere - al contrario molta molestia - di stare in compagnia di altri, dove non sia unpotere, che li tenga tutti in soggezione.

Altrove Hobbes dice che gli uomini sono refrattari alla verità, perché sono attratti dalla brama di ricchezze odall'appetito di piaceri sensuali, oppure dall'impazienza di stare a meditare e dall'avventatezza. Il filosofoinglese dedica una particolare attenzione alla passione della vanagloria, come movente di contrasto tra gliuomini. In sintesi Hobbes indica tre cause di contrasto tra uomini:

nella natura umana noi troviamo tre cause principali di lotta: la competizione, la diffidenza, la gloria. Laprima fa combattere gli uomini per guadagno, la seconda per la salvezza, la terza per la reputazione; laprima usa la violenza, per impadronirsi di altri uomini, donne, fanciulli ed armenti, la seconda, perdifenderli, la terza fa uso di inezie, come una parola, un sorriso, un'opinione differente e qualunque altrosegno di disprezzo, o direttamente verso una persona o generalmente per mezzo di una riflessione sul suoparentado, sui suoi amici, sulla sua nazione, sulla sua professione, sul suo nome.

In ultima analisi, l'uomo è guidato da un inesausto desiderio di potere. Ne deriva che lo stato di natura -caratterizzato dall'eguaglianza, dalla libertà e dallo ius in omnia di tutti, nonché dall'assenza di qualsiasipotere superiore agli individui - è necessariamente uno stato di guerra permanente. Ciò non significa che gliuomini siano permanentemente in guerra tra di loro, ma che la disposizione di fondo è quella alcombattimento e che la pace è sempre e soltanto una tregua tra due guerre. La condizione umana, nello statodi natura, è dunque terribile.

In tale condizione non v'ha luogo ad industrie, poiché il frutto di esse sarebbe incerto; e per conseguenzanon v'è agricoltura, non navigazione né uso di quei comodi importati per via di mare, né di comodi edifizii,né di macchine, per rimuovere oggetti che hanno bisogno di molta forza, né v'è conoscenza della superficieterrestre, né del tempo, né delle arti, delle lettere e del vivere sociale: e, quel ch'è peggio di tutto, domina un

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continuo timore ed il pericolo di una morte violenta; e la vita dell'uomo è solitaria, povera, lurida, brutale ecorta.

Una condizione così terribile che alcuni potrebbero metterne in dubbio la realtà: non è forse strano che lanatura stessa abbia reso gli uomini atti a distruggersi tra loro? Non si tratterà forse di una conclusione viziatada un'eccessiva astrazione, dedotta com'è da una certa analisi delle passioni umane? E una ricercamaggiormente basata sull'esperienza non potrebbe rivelare che la situazione umana non è poi così fosca? Larisposta del filosofo inglese è assai interessante: colui il quale avanza tali obiezioni, scrive Hobbes,

consideri allora che, quando egli stesso intraprende un viaggio, si arma, e cerca di andare beneaccompagnato, e che, quando va a dormire, chiude la porta, e, anche stando in casa, chiude i suoi forzieri,pur sapendo che vi sono leggi e pubblici ufficiali armati per vendicare tutte le ingiurie che gli potesserovenir fatte, e si accorgerà quale opinione egli ha dei suoi vicini, quando cavalca armato, dei suoiconcittadini, quando chiude le porte, dei suoi figli e dei suoi servi, quando chiude i forzieri. Non accusa eglialtrettanto con i suoi atti il genere umano, di quanto io faccia con le parole?

Hobbes non pensa che lo stato di natura fosse lo stato universale degli uomini nell'epoca primitiva; per lui lostato di natura non è una realtà storica, ma un'ipotesi della ragione. Essa può tuttavia essere verificata inalmeno tre contesti: nelle società primitive, nel caso della guerra civile e nei rapporti internazionali. Inognuno di questi casi, infatti, i soggetti interessati (anche nel caso in cui siano Stati) non riconoscono alcunpotere superiore a loro stessi e si comportano come se godessero dello ius in omnia: la conseguenza è unpermanente stato di guerra o di predisposizione alla guerra. La descrizione hobbesiana dello stato di natura èdunque fortemente pessimistica e si colloca agli antipodi di quella che sarà l'analisi rousseauiana: certo è chela vita, nello stato di natura hobbesiano, appare intollerabile e, quel che più conta, esposta al male capitale,ossia alla morte violenta.

Ma l'uomo non è composto solo di passioni asociali e pericolose; egli possiede anche la ragione, che glisuggerisce convenienti argomenti per la pace. Questi argomenti sono chiamati, dice Hobbes, leggi di natura.Le leggi naturali altro non sono che quei suggerimenti che la retta ragione dà all'uomo, partendo dalpresupposto che il bene supremo sia la vita stessa. Sono quindi regole subordinate e finalizzate ad una primaregola fondamentale, che prescrive di cercare la pace. Queste regole vanno osservate solo se si è ben sicuriche raggiungano il fine voluto: se il fine è la pace, esso viene raggiunto solo se tutti rispettano la regola dicercare la pace. Ne discende che tale regola va seguita solo se tutti contemporaneamente la rispettano.

Dalla legge fondamentale di natura, con la quale è ordinato agli uomini di procurare la pace, deriva questaseconda legge, che un uomo volentieri, quando altri lo fanno, e per quanto crederà necessario alla pace edalla difesa sua, rinunzii al suo diritto sopra tutte le cose, e sia contento di avere tanta libertà contro gli altriuomini, quanta è concessa ad altri uomini contro di lui; poiché, fin quando ogni uomo conserva questodiritto, di fare ciò che gli pare, tutti gli uomini restano in istato di guerra. Ma se gli altri uomini nonlasceranno il loro diritto, come lui, allora non vi è ragione che se ne spogli lui solo: perché sarebbe unesporsi come preda - al che non è obbligato nessuno- piuttosto che un disporsi alla pace.

Molto semplicemente: le leggi naturali (o dettami della retta ragione) esistono anche nello stato di natura, maobbligano soltanto in foro interno e non in foro externo, vale a dire in coscienza e non nei comportamentiesterni. Poiché nessuno, nello stato di natura, può assicurare che anche gli altri rispettino le leggi naturali, neconsegue che tali leggi, pur esistendo, sono inefficaci; seguirle sarebbe pertanto imprudente. E tutto ciòavviene perché non vi è nessuno che abbia il potere di costringere ad osservare le leggi naturali, nel caso incui queste non vengano rispettate. Di qui la necessità dello Stato, ossia di un potere superiore a quello deisingoli individui. Per ottenere il bene supremo (la pace) occorre dunque uscire dallo stato di natura ecostituire lo Stato.

Qui si inserisce la tematica contrattualistica: lo Stato nasce da un accordo, che gli individui stipulano tra diloro per conservare il bene supremo. Dunque lo Stato non è un fatto naturale, ma un fatto artificiale, il fruttodi una decisione consapevole presa da individui liberi ed eguali. Sulla natura del patto Hobbes dà indicazionimolto precise. I primi giusnaturalisti moderni parlavano, in genere, di due tipi di patto: il pactum societatis,

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con il quale un certo numero di individui decidono di comune accordo di vivere in società e, in un secondomomento, il pactum subjectionis, con il quale tale società si sottomette ad un determinato potere politico. Ilprimo patto trasforma una moltitudo in populus; il secondo un populus in una civitas. Hobbes parla invece diun unico patto, che chiama pactum unionis, e che li contiene entrambi: esso coincide infatti, quanto aisoggetti contraenti, con il pactum societatis, giacché esso non prevede un patto tra popolo e sovrano, ma tratutti gli individui tra di loro, in favore di un terzo (il sovrano, che non è un contraente del patto, bensì un suobeneficiario); e, quanto al contenuto, coincide con il pactum subjectionis, giacché altro non contiene se nonla sottomissione ad un potere supremo, motivata dal fatto che soltanto essa può garantire quella sicurezzache nello stato di natura non esiste. Del resto, nella prospettiva di Hobbes il pactum societatis, presoisolatamente - come patto con il quale si costituisce una società, ossia un insieme di individui checondividono alcuni fini - non ha senso, perché tale società si reggerebbe esclusivamente sui dettami dellaretta ragione e dunque sarebbe precaria come lo stato di natura. Occorre pertanto che tale patto sia, al tempostesso, un atto di sottomissione ad un potere comune, al fine di abbandonare la precarietà dello statonaturale. In conclusione: i contraenti del patto teorizzato da Hobbes sono i singoli individui tra di loro e nonil popolo da un lato e il sovrano dall'altro; quanto al contenuto, tale patto prevede la sottomissione al poteresovrano, ossia la rinuncia a tutti i diritti naturali, tranne quello alla vita, purché gli altri facciano altrettanto;infine il sovrano (sia esso un'assemblea o un individuo) non è un contraente del patto, bensì un terzo, unbeneficiario.

Il potere sovrano ottenuto da un simile patto, per conseguire realmente lo scopo per cui è stato creato - e cioèuscire irrevocabilmente da quella condizione terribile che è lo stato di natura - deve essere irrevocabile,assoluto, indivisibile.

L'irrevocabilità è una delle ragioni che hanno spinto Hobbes a dare al suo pactum unionis la forma di unpactum societatis. Se infatti il patto hobbesiano coincidesse con il semplice pactum subjectionis - che vededa una parte il popolo, già costituito, e dall'altro il sovrano - esso correrebbe il rischio di essere revocabile,giacché potrebbe essere interpretato come un rapporto tra mandante e mandatario, il quale implica sempre unpotere condizionato e in qualche modo strumentale (e spesso temporalmente limitato). Insomma, se qualcosaappartiene a qualcuno (in questo caso, la sovranità al popolo), come questo qualcuno può cederla aqualcun'altro (in questo caso, al sovrano), così può decidere di riprendersela, se colui al quale l'ha affidataviola, a suo parere, le regole del patto. Contro tale pericolo Hobbes sceglie la formula che abbiamo visto,adducendo inoltre due argomenti. Il primo si basa su una difficoltà di fatto: se uno dei due contraenti fosse ilpopulus (e non una semplice moltitudo), allora per rescindere il contratto sarebbe sufficiente la maggioranzadi esso; ma quando i contraenti sono, indistintamente, tutti i membri della società in quanto singoli (cioècome moltitudine e non come popolo), allora la rescissione richiederebbe l'unanimità. E poiché non èpensabile, osserva Hobbes, che tutti i cittadini siano contemporaneamente d'accordo nel voler revocare ilsovrano, ne consegue che tale revoca sarebbe di fatto impossibile. Il secondo argomento si basa invece suuna impossibilità di diritto: poiché il patto di unione è concepito come un contratto a favore di un terzo(ossia come un contratto nel quale i contraenti assumono un obbligo non solo l'uno verso l'altro, ma ancheverso un terzo), per rescinderlo non è sufficiente il consenso dei contraenti, ma è necessario anche quello delterzo verso cui tali contraenti si sono obbligati. Ciò implica che per rescindere un simile patto non basta ilconsenso di tutti i governati (consenso unanime che, come abbiamo già visto, è assai improbabile), ma ènecessario anche quello del sovrano stesso.

Per quanto riguarda l'assolutezza del potere sovrano, Hobbes si contrappone a tutte le teorie che in variomodo tendono a limitare il potere dello Stato. Assoluto in Hobbes ha il significato classico di legibussolutus, sciolto dalle leggi, superiore alle leggi stesse. Insomma il potere sovrano, in quanto sovrano, èpotestas superiorem non recognoscens. In quegli anni, tuttavia, si facevano sempre più strada le dottrineanti-assolutistiche e costituzionalistiche. Uno dei loro argomenti era legato proprio alla fondazionecontrattualistica del potere: se il patto è avvenuto tra il popolo e il sovrano, il potere di quest'ultimo puòessere condizionato dall'adempimento di certi obblighi. Ma abbiamo già visto che Hobbes elimina alla radicetale problema, configurando il patto come pactum societatis a favore di un terzo non contraente. Per Hobbes,infatti, il popolo non può esistere prima dell'istituzione del potere; è precisamente l'istituzione di un poteresovrano che trasforma una moltitudine dispersa e insicura in un popolo. Un altro argomento sul quale si

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misurerà la distanza di Hobbes dai pensatori liberali riguarda il contenuto del patto, ossia la quantità di dirittinaturali che vengono ceduti al sovrano: per i liberali sarà una cessione sempre più ridotta, per Hobbes è unacessione quasi totale (gli individui conservano soltanto il loro diritto alla vita, che è precisamente quello pertutelare il quale hanno abbandonato l'insicuro stato di natura).

Quanto alla indivisibilità, è ovvio che se tutta la costruzione hobbesiana nasce dall'esigenza di garantirel'unità dello Stato, egli vedrà tanto nella divisione dei poteri, quanto nella separazione tra potere temporale espirituale, una minaccia da scongiurare. La divisione dei poteri, dice Hobbes, o è inutile o è dannosa. E'inutile quando i diversi poteri vanno d'accordo, in quanto essi, sommandosi nell'accordo, costituisconosempre un potere assoluto; è dannosa quando i poteri sono in disaccordo, giacché si produce una situazionedi anarchia. Il filosofo inglese aggiunge a questo un altro ragionamento dilemmatico, che riguarda unesempio di come possa avvenire una divisione del potere. Si tratta del potere di fare guerra, che, in unsistema basato sulla divisione dei poteri, conferisce al sovrano il potere di dichiararla, ma al parlamento ilpotere di finanziarla. Commenta Hobbes: o il potere effettivo sta nelle mani di chi eroga i finanziamenti eallora la divisione è apparente, fittizia, e in sostanza vi è un unico potere, che è quello del parlamento;oppure il potere è veramente diviso, e allora lo Stato è sulla via della dissoluzione, perché non si può fare laguerra o conservare la tranquillità pubblica senza denaro. Hobbes, infine, offre anche una disamina dei varipoteri, sulla base della quale egli intende dimostrare come questi si implichino vicendevolmente e quindidebbano concentrati nelle stesse mani, pena la loro inefficacia.

Vediamo infine il problema dei rapporti con la Chiesa, al quale il filosofo inglese dedica molto spazio. Lasoluzione consiste in un'applicazione del principio che anima tutto il suo sistema, ossia del principio dirazionalità. In base ad esso, tutto ciò che, nell'ambito della religione, rientra nella ragione (e per Hobbes èl'essenziale), è di pertinenza dello Stato; quanto non vi rientra (ad esempio, la natura di Cristo, i premi futuri,la resurrezione dei corpi, la natura degli angeli) appartiene alla sfera spirituale. Ma - osserva Hobbes - poichédefinire ciò che è spirituale e ciò che è temporale è pur sempre opera della ragione, tale distinzione saràrimessa al sovrano, ossia al potere temporale. Dunque delle questioni elencate poco sopra giudicheranno gliecclesiastici, ma solo se il sovrano li investirà di tale compito. Nessun contrasto è dunque possibile traChiesa e Stato, tra doveri del cittadino e doveri del cristiano: Chiesa e Stato sono una cosa sola. Si può daretuttavia il caso di un sovrano non cristiano che comandi ad un suddito cristiano. Ancora una volta, per tuttociò che è temporale, il suddito dovrà obbedire al sovrano; viceversa, per quello che è spirituale dovràobbedire a Dio. Dunque non obbedirà allo Stato; ma ciò non significa che possa ribellarsi ad esso. E allora?Rimane, per Hobbes, solo la strada del martirio. Nemmeno la religione rende dunque possibile ladisobbedienza. L'unica possibilità di disobbedienza sta all'interno del patto, nella violazione della clausoladell'autoconservazione che regge l'intera impalcatura.

7. Locke

Cenni biografici

John Locke nasce nel 1632 a Wrington, presso Bristol. Il padre, procuratore e ufficiale giudiziario, fece partedell'esercito parlamentare in lotta contro il Re durante la prima rivoluzione inglese.

Studia ad Oxford, dove nel 1656, a 24 anni, ottiene il titolo di baccelliere e nel 1658 quello di maestro dellearti; rimane al Christ Church College come insegnante di greco e di retorica.

Inizia la sua carriera universitaria come censore di filosofia morale, ma poi passa a studi di medicina e discienza naturale, entrando in contatto con medici famosi e con Boyle. Pur non ottenendo il dottorato inmedicina, svolgerà attività di medico e continuerà ad interessarsi di problemi scientifici, entrando anche a farparte della Royal Society.

La sua attenzione verso la politica risale agli anni di Oxford. Tra il 1660 e il 1662, dopo la Restaurazionedegli Stuart, scrive due trattati sui poteri del magistrato civile in campo religioso. Tra il 1662 e il 1664 scrivedei saggi sulla legge di natura, nei quali appare come sostenitore della restaurazione e dello Stato assoluto.

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Nel 1666 incontra Lord Ashley, che poi diverrà conte di Shaftesbury, cancelliere di Carlo II ed eminenteesponente del partito whig. E' al seguito di Shaftesbury che Locke maturerà le sue idee liberali. Divenutosegretario di Ashley, Locke si trasferisce a Londra ed entra attivamente in politica.

Nel 1667 scrive il primo Saggio sulla tolleranza, che rimane inedito.

Nel 1671 scrive due abbozzi di quello che sarà la sua opera maggiore, il Saggio sull'intelletto umano.

Durante le alterne fortune di Shaftesbury si reca più volte in Francia, dove entra in contatto con la culturacartesiana.

Nel 1683, in piena repressione anti-whig, si rifugia in Olanda, dove attende alla composizione delle sueopere.

Nel 1689 pubblica, anomimi, la Lettera sulla tolleranza e i Due Trattati sul governo civile. Nello stesso annopubblica il Saggio sull'intelletto umano (che viene però datato 1690), il quale avrà quattro edizioni e grandesuccesso.

Nel 1693 pubblica i Pensieri sull'educazione; nel 1695 il Saggio sulla ragionevolezza del cristianesimo.

Durante gli ultimi anni della sua vita si impegna nella politica attiva e in polemiche suscitate dalle sue ideereligiose. Muore nel 1704, a 70 anni.

Il pensiero politico

Il 13 febbraio 1689, nella grande Sala londinese dei Banchetti, a Whitehall, la regina Anna e suo marito, ilPrincipe di Orange Guglielmo III, accettano dal Parlamento inglese la corona resasi libera per l'espulsione diGiacomo II Stuart (padre di Anna). Ma, quel che più conta, essi accettano contemporaneamente unaDichiarazione dei diritti della Nazione nei confronti della monarchia. Tale Dichiarazione sancisce le grandiprerogative del Parlamento nei confronti della Corona (consistenti essenzialmente nella supremazia dellalegge su qualsiasi altro potere) e le libertà personali dei cittadini. Nello stesso anno, viene emanato ilToleration Act, con il quale viene sancito il principio della tolleranza verso le diverse religioni (conl'esclusione di atei e cattolici), chiudendo così un secolo di sanguinosissime guerre religiose. Inoltre siregolano i rapporti tra esecutivo e legislativo e viene stabilita l'indipendenza del potere giudiziario attraversoil principio dell'inamovibilità dei giudici. Anna e Guglielmo, accettando tutto ciò, danno vita al primoesempio europeo di monarchia costituzionale, ossia di monarchia in cui il potere del Re non è più assoluto.

Come esito della lotta contro lo Stato assoluto sorgeva così in Inghilterra lo Stato limitato, ossia lo Statoliberale, lo Stato in cui il potere è limitato sia materialmente, sia formalmente. Materialmente, in quantovengono sottratte alla sua sfera di intervento una serie di 'materie', che vanno a costituire l'area dei diritticivili; formalmente, in quanto il suo potere, sulle materie in cui si esercita legittimamente, deve comunqueseguire procedure legalmente prefissate, e in quanto deve essere suddiviso al suo interno. Tale complesso dinorme e princìpi - dalla separazione dei poteri alla supremazia della legge, dall'indipendenza del poteregiudiziario alle garanzie giudiziarie per i cittadini, sino agli eventuali princìpi generali riguardanti i diritti dilibertà di questi ultimi - è generalmente contenuto in un documento scritto, definito costituzione.Costituzionalizzare il potere, nel senso moderno del termine, significa limitare il potere, definire per iscritto isuoi ambiti di competenza, la sua struttura, le sue procedure generali, gli strumenti per controllarlo e iprincìpi che deve garantire. Come dirà Benjamin Constant, la costituzione è un atto di sfiducia verso ilpotere. E' questa l'accezione liberale di costituzione, ben diversa da quella meramente descrittiva diAristotele (che verrà poi ripresa da Hegel), secondo la quale la costituzione di uno Stato è semplicemente lasua organizzazione (in questo senso, come si comprenderà, qualunque Stato ha una costituzione).

Dunque le espressioni Stato limitato, Stato liberale, Stato costituzionale sono, nel senso sopra indicato,sinomime: tutte rimandano all'idea fondamentale di un potere limitato, contrapposto al tradizionale potereassoluto; tutte sono guidate dall'idea della libertà e quindi da una forte ispirazione anti-autoritaria; tutte

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riflettono una vera e propria rivoluzione copernicana nell'ambito del problema politico, l'essere cioè passatidal punto di vista del governante a quello del governato. La politica, insomma, vista non più ex parteprincipis, ma ex parte populi.

Tradizionalmente, il pensiero di John Locke è considerato l'espressione più autentica di questo esito liberalee costituzionale con il quale si era concluso il tormentatissimo '600 inglese. Il suo pensiero politico - dai duetrattati sul governo civile agli scritti sulla tolleranza - è considerato la prima grande concezione liberalemoderna. Tanto più che, contrariamente a quanto si è pensato per anni, i due trattati, anche se pubblicati nel1690, quindi dopo la Rivoluzione, furono in realtà composti dieci anni prima: ne consegue, come è statogiustamente osservato, che «la grande opera politica lockiana, di solito esaltata come la giustificazione diuna rivoluzione già fatta, è da considerarsi piuttosto come la proposta di una rivoluzione da fare»[15].

I due bersagli polemici di Locke sono la concezione paternalistica del potere e quella assolutistica. In unaparola, tanto Filmer, quanto Hobbes.

Filmer era il rappresentante del legittimismo monarchico e l'autore del Patriarca, alla cui confutazioneLocke dedicò il Primo Trattato sul governo civile. Filmer sosteneva che il potere del re riposa sul dirittonaturale di paternità e deriva, passando per i Patriarchi, da Adamo stesso. I Re sono i padri dei loro popoli; eil loro potere è assoluto, come assoluto è il potere di un padre sul figlio, per natura, ex generatione. E'assurdo, dice Filmer, che il potere nasca da un contratto, perché in virtù di esso il popolo, che è uno deicontraenti, potrebbe giudicare le eventuali infrazioni del sovrano, divenendo così giudice e parte in causa. E'insostenibile, asserisce ancora Filmer, che il re sia costituzionale, cioè sottoposto alle leggi, dal momento cheè proprio il re l'origine della sovranità e quindi delle leggi.

Alle tesi di Filmer Locke muove più obiezioni. Anzitutto, il passo biblico citato a sostegno delle sue tesi èmale interpretato. In esso si legge che Dio benedisse Adamo ed Eva, «e disse loro: siate fecondi, emoltiplicatevi, e riempite la terra, e sottomettetela, e dominate sul pesce del mare e sull'uccello dell'aria e suogni vivente che muove sulla terra». Ora, quest'ultima espressione non indica gli uomini, secondo Locke,bensì gli animali, come si può comprendere dal contesto. Inoltre, anche se fosse bene interpretato - ragionper cui Adamo sarebbe il primo sovrano assoluto della storia -, le sue conseguenze non si rivelerebberofavorevoli per le monarchie legittime; chi sarebbe, infatti, il legittimo erede di Adamo? Tutti potrebberoconsiderarsi legittimi eredi del primo uomo e dunque un simile argomento non rafforzerebbe certo lemonarchie esistenti, ma piuttosto alimenterebbe l'anarchia. In secondo luogo, il potere paterno, osservaLocke, è in realtà il potere dei genitori, dunque un potere dualistico. E poiché ragione e rivelazione - affermail filosofo inglese con accenti assai moderni - ci dicono che la madre ha sui figli gli stessi diritti del padre, neconsegue che i fautori della teoria paternalistica del potere sovrano rendono un pessimo servizio allamonarchia assoluta, la quale verrebbe ad essere posta non in una, ma in due persone. In terzo luogo, il poteredei genitori è un potere temporalmente determinato, che può e deve esercitarsi soltanto nel periodo in cui ifigli non sono nell'età adulta. In quarto luogo, il potere dei genitori sui figli non nasce ex generatione, masolo in quanto i primi si dedicano alla conservazione dei secondi (come dimostra il diritto genitoriale plenojure esercitato da genitori adottivi); dunque tale potere è limitato, perché non può violare la vita e i possessidei figli medesimi.

La conclusione di Locke è che potere politico e potere paterno sono perfettamente distinti e separati, essendofondati su basi diverse e perseguendo fini differenti. Dunque l'identificazione tra i due - base dellegittimismo filmeriano a favore dei monarchi assoluti - non ha alcun fondamento. E' bene osservare che, aldi là dei diversi argomenti usati da Locke, due sono i punti fondamentali della sua critica:

1) un potere concepito paternalisticamente è un potere anti-liberale, in virtù del quale gli individui non sonocittadini, ma sudditi, perdipiù assimilati ad eterni minorenni (la polemica anti-paternalistica è tipica delpensiero liberale e si farà particolarmente vigorosa in Kant);

2) l'approccio di Filmer, il quale sostiene che il potere supremo, al di là del modo in cui è stato conseguito(elezione, donazione, successione), è ciò che propriamente fa di un individuo un Re, è un approccio che

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abolisce il problema stesso della legittimità del potere e conduce quindi ad una totale accettazione dellarealtà di fatto, per cui ogni potere, dice Locke - sia esso di Cromwell, di Masianello o di Sancio Pancia -diventa degno di obbedienza.

Se Filmer aveva indebitamente identificato il potere politico con il potere paterno, Hobbes lo ha altrettantoindebitamente identificato con il potere dispotico. Questi diversi tipi di potere nascono, per Locke, su basidiverse e quindi si rifanno a diversi princìpi di legittimazione. Mettiamo a confronto il potere del politico, ilpotere del padre e il potere di un padrone. Il potere paterno nasce ex generatione (ad immagine esomiglianza del potere di Dio sugli uomini, ex creatione); unito alla cura, esso dà diritto, temporaneamente,al comando sui figli e, correlativamente, al dovere di obbedienza da parte di questi ultimi. Il potere delpadrone, invece, nasce ex delicto, ossia dalla punizione di un atto criminoso; ad esempio, colui il quale faprigioniero un uomo all'interno di una guerra giusta, ha su di lui un potere assoluto. Ma il fondamento delpotere politico, secondo Locke, non può derivare né ex generatione, né ex delicto; esso deriva invece excontractu, ossia da uno strumento che presuppone l'eguaglianza degli individui interessati e quindi ilconsenso dei medesimi.

Hobbes, anche se attraverso lo strumento del contratto aveva costruito il potere politico con le caratteristichedel potere dispotico, aveva in realtà trasformato il potere dispotico in un potere politico. Per Hobbes, infatti,il potere del padrone sullo schiavo non è fondato sulla conquista, ma su un contratto; come gli uominipromettono obbedienza assoluta ad un sovrano per amore della pace, così gli schiavi promettono(implicitamente) obbedienza assoluta al padrone, in cambio della vita. Per Locke, invece, il potere assolutodi un uomo su un altro non può nascere né dalla natura (giacché gli uomini per natura sono uguali e l'unicaforma di dominio che deriva dalla natura è quella dei genitori sui figli e anche quella deve rispettare la vitadei figli), né da un contratto (perché nemmeno l'uomo ha tale potere assoluto sulla propria vita e dunque nonpuò cederlo ad alcuno). Non avendo origine né naturale né contrattuale, il potere dispotico può, secondoLocke, essere solo e soltanto la conseguenza del fatto che un uomo aggredisce un altro e così, messosi instato di guerra con lui, mette a repentaglio la propria vita. Ma tale circostanza è eccezionale.

La differenza che corre tra Locke e Hobbes è tuttavia ancora più profonda: oltre a riguardare il fondamentodel potere politico, essa riguarda il modo di concepire lo stato di natura, l'uomo stesso, la forma e ilcontenuto del contratto e infine, ovviamente, le caratteristiche del potere politico.

Anche per Locke, come per Hobbes, gli uomini sono, nello stato di natura, liberi ed eguali. Ma la descrizionedi questo stato è ben diversa: mentre per Hobbes lo stato di natura era uno stato di guerra, per Locke è unostato pacifico, almeno inizialmente. Dice Locke: stato di natura e stato di guerra sono distinti tra di lorocome «uno stato di pace, benevolenza, assistenza e conservazione reciproca» è distinto da «uno stato diostilità, malvagità, violenza e reciproca distruzione». Dietro questa raffigurazione dello stato di natura si puòscorgere una visione fondamentalmente ottimistica dell'uomo: l'uomo è un essere socievole, partecipe di unacomune umanità, benevolo, ragionevole, avente il senso naturale della giustizia. I molteplici egoismiindividuali coesistono senza urtarsi reciprocamente, anzi reciprocamente avvantaggiandosi e simpatizzando.La legge di natura è una legge di conservazione e di pace. Senonché può accadere che qualcuno violi questalegge, ossia che violi la libertà di un altro; e può accadere anche che quest'ultimo, una volta offeso, eccedanella sua reazione, offendendo a sua volta l'offensore. Di qui può nascere un conflitto: conflitto che, unavolta iniziato, non può terminare, perché manca un terzo superiore alle parti, manca un giudice imparzialeche possa ristabilire la corretta osservanza della legge naturale.

Dunque lo stato di natura, per Locke, è pacifico; ma se al suo interno nasce uno stato di guerra, questo, unavolta cominciato, non può terminare. Molti critici si sono soffermati su questa ambiguità lockeana; inparticolare, Cox ha sostenuto che Locke la penserebbe come Hobbes, ma sarebbe troppo pavido per dirlo. Inrealtà, come ha osservato opportunamente Bobbio, l'ambiguità di Locke nasce da ragioni ben più complesse.Fare dello stato di natura uno stato di guerra, assolutamente negativo, non solo era contrario alle SacreScritture, ma costituiva anche la base per giustificare un potere assolutistico: solo il terribile Leviatano èinfatti l'antitesi appropriata contro un simile stato di cose (ossia, contro uno stato di natura radicalmentenegativo). A mali estremi, estremi rimedi. Viceversa, fare dello stato di natura uno stato totalmente pacifico

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(come, ad esempio, aveva fatto Pufendorf), significava elaborare un formidabile argomento per dichiararesuperfluo lo stato civile. E' per questi opposti motivi - che rendevano sconsigliabile assimilare lo stato dinatura tanto ad uno stato di guerra, quanto ad uno di pace - che Locke si propose di elaborare una teoriapolitica in cui fosse dimostrata, per un verso, la necessità dello Stato e, per l'altro, la necessità che il suopotere fosse limitato. Lo Stato di Locke, insomma, avrebbe dovuto essere non l'antitesi dello stato di natura,ma la sua redenzione, non l'abrogazione delle leggi naturali, ma la loro conservazione e garanzia. Per Locke,infatti, gli uomini non sono così ferini come in Hobbes; essi sono ragionevoli e quindi tendono a seguire leleggi di natura. Ma Locke è anche un realista e quindi sa che non proprio tutti gli uomini sono ragionevoli oriescono a seguire la voce della ragione: di qui le violazioni che trasformano il pacifico stato di natura in unostato di guerra. La differenza che separa i due pensatori inglesi non è di poco conto: lo stato di natura diHobbes è uno stato di guerra per principio, quindi in modo permanente ed esclusivo; quello di Locke,invece, può diventare, di fatto, uno stato di guerra, ma di diritto, secondo la sua essenza, non lo sarebbe, anzisarebbe lo stato perfetto.

Per concludere: diversi i mali, diversi i rimedi. Per Hobbes, nello stato di natura, si dà guerra continua einesistenza (nel senso dell'inefficacia) delle leggi naturali; lo stato civile dovrà quindi avere una forzaimmensa; le sue leggi non dovranno essere vincolate da alcun limite. Per Locke, viceversa, l'unico difettodello stato di natura consiste nell'assenza di un giudice imparziale: dunque il compito principale dello statocivile sarà quello di rimediare a questa carenza. Lo Stato di Hobbes nasce con il compito di cancellare anchel'ultima traccia dello stato di natura, per riedificare la convivenza umana fin dai suoi fondamenti: a maleradicale, rimedio radicale. Per Locke, invece, lo Stato nasce con il compito di correggere lo stato di natura edi farlo riemergere, con tutti i suoi vantaggi, quanto più è possibile, nello stato civile: a male parziale,rimedio parziale.

Questa diversità spiega anche il diverso modo di congegnare il patto. Per Hobbes esso viene stipulato tra isingoli (che non costituiscono ancora un popolo, bensì una moltitudine dispersa) a favore di un terzo, ilsovrano, il quale, non essendo un contraente del patto ma un suo beneficiario, non è vincolato ad esso inalcun modo; inoltre, attraverso il patto, i singoli si accordano per cedere tutti i loro diritti al sovrano, trannequello alla vita (che è anche il motivo per cui abbandonano lo stato di natura). Dunque in Hobbes il poteredel sovrano sarà assoluto; e che sia l'obbedienza il fine essenziale di tutta la costruzione hobbesiana emergecon particolare chiarezza dal fatto in Hobbes il patto di unione (con il quale ci si unisce in società) coincidecon il patto di soggezione (con il quale ci si sottomette ad un'autorità). Tra i due non si dà distinzione: gliuomini si accordano tra loro e la ragione di questo accordo, nonché il suo contenuto, altro non è che lasottomissione ad un potere sovrano. Per Locke, invece, il contratto è in primo luogo un pactum societatis, tragli individui che si riuniscono in società, e poi un pactum subjectionis, il cui contenuto consiste nelconservare tutti i diritti naturali, cedendo al sovrano soltanto quello a farsi giustizia da soli. Insomma, loStato, in Locke, non nasce per abolire lo stato di natura, ma per conservarne e garantirne tutti i vantaggi.Inoltre Locke obietta ad Hobbes che se il sovrano rimanesse legibus solutus, egli non sarebbe nemmenosottoposto al giudizio del giudice, la cui istituzione costituisce il fine principale dello stato civile; ciòsignificherebbe che il sovrano rimane nello stato di natura, il che contrasta con i fini stessi che determinanoil passaggio allo stato civile, ossia la tutela dei diritti naturali (i quali sarebbero sempre esposti alla totalelibertà naturale del sovrano). Se si verifica una tale situazione, non solo non si ha la società civile nel sensopieno del termine, perché il sovrano ne rimane fuori, ma per i singoli individui si ha una situazione peggioredi quella che avevano nello stato di natura; mentre lì, infatti, potevano giudicare del proprio diritto edifendersi, qui, di fronte al sovrano, non potrebbero far nulla.

Ma quale organizzazione dà Locke al suo Stato? I suoi princìpi di legittimazione sono fiducia e consenso. Ilpotere politico, dice Locke, è

quel potere che ciascuno, possedendolo allo stato di natura, ha rimesso nelle mani della società, e, inquesta, ai governanti che la società ha stabilito sopra di sé, con la fiducia, espressa o tacita, che siaimpiegato per il suo bene e la conservazione della sua proprietà.

Dunque il potere, una volta nelle mani del magistrato,

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non può avere altro fine né altro criterio che quello di conservare i membri di quella società nelle loro vite,libertà e possessi, e quindi non può essere un potere assoluto e arbitrario ... Questo potere trae origineunicamente dal contratto e dall'accordo e dal mutuo consenso di quelli che costituiscono la comunità.

In sostanza: il potere nasce con un fine ben preciso, che è quello di tutelare e garantire i diritti naturali degliindividui. Tale fine rende lo Stato uno strumento, rispetto ad esso (concezione strumentale del potere);inoltre lo rende limitato, giacché se deve garantire quei diritti, è ovvio che non dovrà violarli (concezionelimitata del potere); a tale limitazione si aggiunge quella implicita nella sua nascita, dovuta all'accordo e almutuo consenso in relazione ai fini da perseguire (concezione contrattualistica e consensuale del fondamentodel potere), la quale implica che il disattendere quei fini o il venire meno al consenso renda illegittimo quelpotere.

Ma di quale consenso si deve trattare? Il consenso di tutti - ossia l'unanimità - è evidentemente impossibile.Per due motivi: il primo è di natura pratica, e consiste nel fatto che, per motivi di salute o per affari, ci saràsempre qualcuno che non potrà partecipare alle pubbliche decisisioni; il secondo motivo, assai piùimportante, nasce dall'ineliminabile varietà di opinioni e di interessi che caratterizza ogni società numerosa.Pretendere di governare una società con l'unanimità significa quindi rinunciare a governarla. Non rimane chela regola della maggioranza, ossia il consenso del maggior numero: una volta costituito il corpo politico, lamaggioranza ha diritto di deliberare anche per la minoranza.

Ma, come abbiamo già visto, un potere consensuale non può essere illimitato. Quali saranno allora i limitiche anche la maggioranza incontrerà nell'esercizio del suo potere?

1) Anzitutto, i diritti naturali (limitazione "materiale" del potere): abbiamo visto che il potere sovrano,all'atto della sua creazione, riceve degli individui un solo diritto naturale, quello a farsi giustizia da soli; neconsegue che l'azione del sovrano non dovrà in alcun modo violare quei diritti naturali ai quali gli individuinon hanno rinunciato e la cui tutela costituisce per l'appunto la stessa ragion d'essere dello Stato. Dunque aldi sopra delle leggi positive si collocano le leggi naturali, che le prime non solo non devono violare, ma anzidevono garantire. In questo senso il pensiero di Locke è una delle forme più radicali di giusnaturalismo.

2) In secondo luogo, il principio di legalità (limitazione "formale" del potere). Il potere politico non puòessere esercitato in modo estemporaneo ed arbitrario, ma - dice Locke - secondo «leggi promulgate e fisse egiudici autorizzati e conosciuti». E' il principio di legalità, che deve garantire la supremazia della legge, lasua certezza e l'eguaglianza di tutti di fronte ad essa.

3) In terzo luogo, il diritto alla proprietà. Nessun individuo può essere privato di una proprietà senza il suoconsenso; se ciò accadesse, dice Locke, «si dovrebbe supporre che, coll'atto di entrare in società, si perda ciòche costituiva il fine per cui si è entrati in società: assurdità troppo grossolana perché possa essere ammessada alcuno».

4) In quarto luogo, il potere non può trasferire ad organi diversi dal parlamento il potere legislativo.

Il potere legislativo rappresenta infatti per Locke il potere supremo; supremo non nel senso di illimitato, manel senso di collocato al di sopra del potere esecutivo. Questi due poteri devono essere separati, sulla base diuna diversa funzione: il primo deve fare le leggi, il secondo farle eseguire. Ma ciò non significa che sianoincomunicanti: tra di loro si dà un rapporto di subordinazione, che mette al primo posto il potere che fa leleggi. Accanto a questi due poteri, Locke non nomina il potere giudiziario, ma quello da lui denominato'federativo', che si occupa dei rapporti con gli altri Stati e che costituisce quindi un'ulteriore articolazionedell'esecutivo. Quanto al potere giudiziario, probabilmente Locke lo comprende in quello legislativo, dalmomento che spetta al legislativo sovrintendere al rispetto delle leggi.

La netta supremazia del legislativo-giudiziario sull'esecutivo fa sì che gli eventuali abusi di potere delsecondo, ai danni del primo, mettano l'esecutivo in stato in guerra con il parlamento e quindi con il popolo;quest'ultimo, a sua volta, visto che il legame fiduciario è stato violato, ha il diritto di riprendersi la proprialibertà e di usare persino la forza per difendere i propri diritti e per ristabilire un nuovo legislativo che goda

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della sua fiducia. Abbiamo dunque in Locke una piena giustificazione del diritto di resistenza, che nonritroveremo nemmeno nel pensiero, peraltro successivo, di Kant. A coloro i quali obiettano che tale dirittocostituisce l'anticamera della dissoluzione dello Stato - giacché il popolo è ignorante e sempre scontento equindi collocare nelle sue mani il fondamento del potere significa esporre quest'ultimo a continue rovine -Locke risponde che è vero il contrario. Vale a dire, che gli uomini hanno piuttosto la tendenza a conservarele proprie istituzioni, sopportando anche molti errori e vessazioni da parte dei governanti, e che soltanto unaserie davvero lunga di abusi, inganni e prevaricazioni può spingere un popolo a ribellarsi[16].

Prima di venire al grande tema della tolleranza, è bene soffermarsi su un tema che al quale abbiamo dedicatosoltanto qualche cenno e che costituisce anche il cardine delle interpretazioni marxiste di Locke. E' il temadella proprietà. Le interpretazioni marxiste - che per la verità sono in genere piuttosto infeconde, giacchéapplicano lo stesso schema a tutti i pensatori liberali, perdendo in tal modo le profonde differenze chepassano tra di essi - sostengono che il pensiero di Locke consiste in una strenua difesa della proprietàprivata. Dunque il liberalismo di Locke altro non sarebbe che un'ideologia borghese, palesemente classista,che accompagna il sorgere e lo svilupparsi della classe borghese. E' d'altra parte lo stesso Locke adaffermare, in un passo del Trattato, che per potere politico intende il diritto di fare leggi e imporre sanzionial fine di regolare e conservare la proprietà. Sarebbe dunque evidente che la libertà di cui parla Locke non èuniversale, perché è la libertà dei soli proprietari, ossia dei soli borghesi: quella del pensatore inglese sarebbepertanto una concezione classista della libertà, interessata soltanto alla egoistica difesa degli interessieconomici della borghesia. Lo Stato, in questa prospettiva, non sarebbe che un comitato borghese d'affari.

Ora, sul fatto che la proprietà occupi, nel pensiero di Locke, un posto centrale, non v'è dubbio. Egli, delresto, la spiega in modo rivoluzionario, giacché ne fa un diritto naturale, basato sul lavoro e collocato nelseno stesso dello stato di natura, mentre Hobbes ne faceva un diritto convenzionale, che nasceva con lo statocivile.

Ma seguiamo da vicino il ragionamento di Locke. Egli parte dal passo biblico nel quale sta scritto che Dio,originariamente, ha dato la terra e tutte le cose in comune agli uomini. Tale proprietà originaria comunesembra costituire, come ammette lo stesso Locke, una grandissima difficoltà, al fine di giustificare laproprietà privata. Tuttavia, egli argomenta così: è vero che Dio ha dato il mondo agli uomini in comune, maegli lo ha dato per la loro sussistenza e per il conforto della loro esistenza. Dal momento che terra, animali efrutti sono dati a tutti per il vantaggio di ciascuno, ci dovrà essere un modo per appropriarsene. Tale modonon può essere il consenso degli altri uomini, altrimenti ognuno, nonostante l'abbondanza, morirebbe difame nell'attesa di tale consenso. Ora, se è vero che la terra è stata data agli uomini in comune, è anche veroche la proprietà della persona è invece rigorosamente individuale; e come ognuno possiede individualmenteil proprio corpo e la propria mente, così possiederà tutto ciò che l'opera delle sue mani potrà procurargli. Conil lavoro, l'uomo trae i beni dallo stato comune in cui si trovano originariamente e vi aggiunge qualcosa diindividuale, che quindi li esclude dal loro primitivo stato. Insomma il lavoro aggiunge ai beni qualcosa cheessi non possedevano precedentemente; e poiché questo qualcosa in più è una proprietà rigorosamenteindividuale, tali beni escono dal possesso comune (ad es., la terra lavorata è proprietà di chi la lavora).Facciamo attenzione: con questa argomentazione la proprietà privata, per la prima volta nella storia delpensiero sociale e politico, viene collegata al lavoro. In tal modo la proprietà privata - da qualcosa di statico,dato una volta per tutte, o di convenzionale - diviene qualcosa di dinamico, frutto dello sforzo e dell'attivitàeconomica dell'uomo. E non si può certo negare che si tratti di una concezione che si attaglia molto bene allamentalità dei nuovi ceti borghesi inglesi, terrieri e mercantili.

Ma andiamo avanti. Dapprima Locke pone dei limiti all'acquisizione della proprietà privata. Il primo limite èche occorre lasciare cose sufficienti e altrettanto buone agli altri; il secondo è che ci si può appropriare diquanto può essere goduto, per cui tutto ciò che eccede la nostra capacità di fruizione - e andrebbe quindiperso o deteriorato - oltrepassa tale limite. Ma tali limiti vengono superati sia grazie all'idea dell'abbondanzadei beni (per cui ne resterebbero sempre più che sufficientemente per gli altri), sia grazie all'istituzione dellamoneta, che espande illimitatamente il possesso, dal momento che non è deperibile. Ciò giustifica possessiche superano ampiamente i bisogni personali. Sembrerebbe proprio che Locke sia un teoricodell'accumulazione illimitata. Egli avrebbe proiettato nello stato di natura - sostengono con qualche ragione

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gli interpreti marxisti - un processo storico realmente realizzatosi, ossia il sorgere dell'economia borghesemoderna, che non tollera limitazioni né vincoli. Tuttavia, non bisogna dimenticare che Locke adduce ancheargomenti più solidi di quello della moneta, e cioè che un'economia fondata sulla proprietà privata esull'accumulazione illimitata di ricchezza genera uno sviluppo economico complessivo infinitamentesuperiore ai modelli pre-borghesi: un piccolo pezzo di terra coltivato privatamente, osserva Locke, rendedieci, anzi cento volte di più di quanto renderebbe se lasciato in proprietà comune (tanto è vero, aggiungeLocke, che il re di un ampio e fertile territorio americano mangia, alloggia e veste peggio di un operaiogiornaliero inglese). Ciò nondimeno, la teoria di Locke ha anche legittimato il processo storico e dunque nonsi può negare che, dal punto di vista storico, le sue tesi risentano dei forti influssi della borghesia in ascesa.

Ma se ci fermasse qui, si darebbe una visione molto riduttiva della concezione lockeana. Il filosofo inglesespiega infatti più volte che per proprietà intende qualcosa di molto più ampio della proprietà dei benimateriali. Gli uomini si riuniscono in società, dice Locke,

per la mutua conservazione della loro vita, libertà e averi, cose ch'io denomino, con termine generico,proprietà.

Non solo. Nell'Epistola sulla tolleranza, dopo aver specificato che lo Stato ha il suo fine essenziale nellatutela e nella promozione dei beni civili, dice:

chiamo beni civili la vita, la libertà, l'integrità del corpo, la sua immunità dal dolore, i possessi delle coseesterne.

E' questa proprietà, ha osservato Bedeschi, che Locke intende tutelare; e si tratta di una proprietà che non sipuò certo ridurre ad un significato esclusivamente economico e classista.

L'ultimo punto sul quale vale la pena di soffermarsi è il tema della tolleranza, che fu trattata da Locke nellafamosa Epistola. L'argomento principale elaborato da Locke è il seguente: il potere del magistrato civile è unpotere coattivo, anche se fondato sul consenso, ovvero è un potere che deve imporre, anche con la forza,determinate decisioni; il potere delle istituzioni religiose è invece un potere spirituale e dunque puòesercitare solo un magistero spirituale, che può convincere, ma non può costringere. La religione vera esalutare, per Locke, consiste nella fede interna dell'anima: è un fenomeno interiore, senza il quale nulla havalore di fronte a Dio. Ora, la caratteristica dell'interiorità è quella di essere inespugnabile dall'esterno: sipossono confiscare i beni, tormentare il corpo con il carcere e la tortura, dice Locke, ma tutto ciò non puòmutare le convinzioni interiori di un uomo. Queste mutano soltanto con la luce di una nuova convinzione, enon certo per effetto della forza. Perciò i confini tra sfera civile e sfera religiosa sono ben chiari:

chi vuol confondere le due società - afferma Locke - completamente diverse per la loro origine, per il fineche si propongono, per i loro contenuti, mescola due cose così separate come il cielo e la terra.

Stabilita tale distinzione, Locke sottolinea che i rapporti tra le varie Chiese - che sono tutte società libere evolontarie - devono essere improntati alla più larga tolleranza. Certo, ogni Chiesa ritiene di avere ilmonopolio della verità; ma si tratta, secondo Locke, soltanto di una convinzione soggettiva o di gruppo, dalmomento che ognuna pensa ciò per sé e lo esclude per le altre. Ogni individuo entra spontaneamente in unaChiesa, sperando di aver trovato la vera religione e il culto più gradito a Dio; ma proprio per ciò, secambiasse idea, deve poter abbandonare quella Chiesa, con la stessa libertà con cui vi era entrato. OgniChiesa ha il diritto di fissare i propri princìpi dogmatici, le proprie regole di culto e organizzative e diespellere chiunque non le rispetti; ma l'esclusione religiosa non deve avere conseguenze civili. Al decreto discomunica, dice Locke, non deve seguire nessuna violenza, verbale o fisica, e nessun danno inflitto allapersona o ai beni.

Certo, la tolleranza lockeana - nonostante il suo respiro ideale e la sua modernità - conosce due limiti benprecisi: essa esclude dal suo godimento tanto i cattolici, quanto gli atei. I primi perché riconoscono un solosovrano, cioè il Papa, e sono pronti a disobbedire al potere civile in nome di quello; inoltre, una volta alpotere, non sarebbero tolleranti. I secondi, negando l'idea stessa di Dio, non riconoscono nulla di sacro e di

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stabile e quindi disconoscono tutti i legami della società. Con questi due limiti, ha osservato giustamenteBedeschi,

Locke pagava un prezzo al proprio tempo: nel primo caso, a una particolare situazione politico-religiosa; nelsecondo caso, alla propria cultura cristiana, da lui profondamente sentita e vissuta. Ma pur con questi limiti,egli ha posto le fondamenta di una concezione della tolleranza che costituisce un patrimonio idealeirrinuniciabile del mondo moderno.[17]

8. Rousseau

Cenni biografici

Jean-Jacques Rousseau nasce a Ginevra nel 1712, da una famiglia di piccoli artigiani, di religione calvinista.Perde ben presto la madre.

Nel 1728, a 16 anni, lascia Ginevra e incontra ad Annecy, in Savoia, Madame de Warens. Sarà lei adinviarlo a Torino, dove abiurerà il Calvinismo per il Cattolicesimo e verrà assunto come lacchè e poi comesegretario in case nobiliari.

Nel 1729 torna in Savoia, presso Madame de Warens, dove rimane per 11 anni, legandosi a leisentimentalmente.

Nel 1740 è a Lione come precettore, quindi a Parigi. Qui si guadagna da vivere con mestieri diversi(maestro, segretario privato, copista di musica); entra inoltre in contatto con la cultura illuministica,stringendo amicizia con Diderot e Condillac e collaborando all'Enciclopedia.

Nel 1745 inizia la relazione con Teresa Levasseur, dalla quale avrà vari figli, che abbandonerà all'ospizio deitrovatelli; sposerà Teresa solo nel 1768.

La sua amicizia con gli ambienti illuministici si incrina con la pubblicazione del primo Discorso (1750) esoprattutto con la pubblicazione del secondo (1755), che fu aspramente criticato da Voltaire.

Nel 1756 si reca a Ginevra, dove è accolto con grandi festeggiamenti; abiura il Cattolicesimo e si riconverteal Calvinismo.

Nel 1757 interrompe la collaborazione con l'Enciclopedia e rompe con D'Alembert. Si rifugia quindi nellapace della campagna, a Montmorency. In questi anni dà alle stampe le sue grandi opere.

Nel 1760 pubblica La Nuova Eloisa; nel 1762 l'Emilio; nello stesso anno il Contratto sociale. Queste dueultime opere attirano su Rousseau la condanna degli ambienti filosofici parigini e quella delle chiesecattolica e calvinista. Vengono emessi ordini di arresto a Parigi, Ginevra, Berna.

Dopo aver girovagato per l'Europa, accetta, nel 1766 l'ospitalità di Hume in Inghilterra, ma poco dopo fuggeanche da lì.

Calmatasi la polemica, torna nel 1767 in Francia, risiedendo a Parigi e ritirandosi poi a Ermenonville, dovemuore nel 1778, a 66 anni.

Il pensiero politico

E' difficile, se non impossibile, isolare il pensiero politico di Rousseau dalla sua riflessione moralesull'uomo, che egli conduce, in polemica con il proprio secolo e forse con la civiltà moderna in generale, apartire da se stesso.

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Voglio mostrare ai miei simili - scrive all'inizio delle Confessioni - un uomo in tutta la verità della natura, equest'uomo sarò io. Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di coloroche ho visto; oso credere di non essere fatto come nessun altro essere vivente.

E' per questo approccio - caratterizzato da un forte egocentrismo, vissuto con lucida consapevolezza edescritto con straordinaria intensità espressiva - che taluni critici ritengono necessario tenere sempre«presenti le pagine autobiografiche se si vuole comprendere intus et in cute ... il pensatore politico, ilmoralista, il romanziere, il musicista»[18].

Al nesso tra autobiografia e riflessione, occorre aggiungere la tensione tra emozione e ragione, tra immaginee concetto, che caratterizza la riflessione di Rousseau. Nel Ginevrino, infatti, l'emozione precede lariflessione e il concetto nasce lentamente dopo una tempesta di immagini. Scrive sempre nelle Confessioni:

due cose quasi incompatibili si uniscono in me senza che io sappia precisare in qual modo: untemperamento ardentissimo, passioni vive, impetuose, e idee lente a nascere, impacciate, che si presentanosempre in ritardo. Si direbbe che il mio cuore e la mia mente non appartengano al medesimo individuo. Ilsentimento, più rapido della folgore, inonda la mia anima, ma anziché illuminarmi mi brucia e mi abbaglia.Sento tutto e non capisco nulla ... Questa lentezza nel pensare, unita alla vivacità nel sentire, non l'hosoltanto in conversazione, ma anche da solo, quando lavoro. Le idee si ordinano nella mia testa con la piùincredibile difficoltà, circolano lentamente, fermentano fino a emozionarmi, eccitarmi, darmi palpitazioni, ein balìa di tale emozione non capisco nulla nettamente, non saprei scrivere una sola parola, debboattendere. Poi a poco a poco questo gran movimento si placa, il caos si dissipa, ogni cosa si colloca al suoposto, ma lentamente, e dopo una lunga e confusa agitazione.

Questo tratto così personale e così legato alla sfera delle emozioni costituisce la singolarità della riflessioneroussoiana; se a ciò aggiungiamo la forte polemica anti-illuministica, condotta con accenti calvinistici, e,nonostante questa, la costruzione razionale di un sistema politico ed educativo, avremo un'ideaapprossimativa di quale complessità porti con sé la figura di questo pensatore. Basti pensare che Rousseau èstato considerato, volta a volta, padre della Rivoluzione francese, del romanticismo, dell'anarchismo, delprimitivismo, del socialismo, della democrazia, della mistica totalitaria, dell'esistenzialismo e così via. Perquanto approssimative e semplificanti possano essere tali attribuzioni di paternità, il fatto stesso che esse sisiano verificate costituisce comunque un dato significativo, sul quale è bene riflettere.

Anche il suo pensiero politico ha sempre suscitato vivaci discussioni e opposte interpretazioni: alcuni autori,come Talmon, hanno visto nel grande Ginevrino il precursore della democrazia totalitaria e dunque unpensatore profondamente anti-liberale (e quindi, posto che la vera democrazia non sia totalitaria, anti-democratico). Altri studiosi, come Fetscher, sottolineando la critica di Rousseau alla società liberale-borghese, hanno visto in lui un precursore del socialismo; ciò ha condotto, soprattutto in Italia, con DellaVolpe, a studiare a fondo il rapporto tra il pensiero di Rousseau e quello di Marx. Vi sono infine studiosisecondo i quali Rousseau è un pensatore democratico di ispirazione liberale, al quale non si possonoattribuire né gli eccessi della Rivoluzione francese, che sarebbero nati da un'interpretazione errata del suopensiero, né tantomeno i totalitarismi del XX secolo. Al di là delle interpretazioni fortemente caratterizzatedal punto di vista ideologico, Robert Derathé ha ribadito l'esigenza di collocare il pensiero di Rousseau nelcontesto teorico sei-settecentesco, soprattutto con riferimento al rapporto critico con il giusnaturalismo.

Ed è proprio nel filone giusnaturalistico, ossia nella cosiddetta scuola del diritto naturale, che Bobbio hacollocato Rousseau, insieme a Hobbes, Locke, Spinoza e Kant. Ma cosa permette di accostare autori cosìdiversi tra di loro, sia per le posizioni politiche, sia per quelle filosofiche? Bobbio individua due ragioni. Inprimo luogo, il metodo: «il metodo che unisce autori tanto diversi è il metodo razionale, ossia è quel metodoche deve permettere di ridurre il diritto e la morale (nonché la politica), per la prima volta nella storia dellariflessione sulla condotta umana, a scienza dimostrativa»[19]. In altre parole, al di là delle divergenze, tuttiquesti autori condividono il tentativo di costruire un'etica razionale indipendente dalla teologia, capacequindi di fondare e garantire autonomamente (ossia, con le sole forze della ragione) le proprie asserzioni,senza smarrirsi in infiniti e insolubili conflitti d'opinione. Storicamente, sostiene infatti Bobbio, il diritto

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naturale costituisce il tentativo di dare una risposta rassicurante al relativismo etico determinatosi con la finedell'universalismo religioso e lo svilupparsi del libertinismo. In secondo luogo, ciò che consente di riunirepensatori tanto diversi in un'unica scuola è il modello. Tutti questi autori condividono l'adozione di un nuovomodello teorico, che si sostituisce, nella spiegazione del problema politico, a quello aristotelico ed ècostituito da due elementi antitetici: stato di natura e stato civile.

Vale forse la pena - visto che abbiamo già affrontato i loro creatori, Aristotele e Hobbes - di tornare ancorauna volta su questi due modelli, al fine di cogliere in profondità le implicazioni di questo fondamentalemutamento nel modo di spiegare l'origine e il fondamento del potere politico. Come abbiamo già visto[20],Aristotele spiega l'origine dello Stato sulla base di una ricostruzione storico-naturalistica: partendo dalbisogno biologico che presiede alla formazione della famiglia, il filosofo greco descrive le tappe principaliattraverso le quali la comunità umana si allarga progressivamente, sino a costituire la città. Tale modellorimane sostanzialmente immutato sino alle soglie dell'età moderna. Si tratta di una spiegazione storica (siapure di una storia immaginaria) e non razionale: al posto dell'astratto stato di natura di cui parlano igiusnaturalisti - popolato di individui singoli, liberi ed eguali - che precede logicamente lo Stato, abbiamouna forma concreta, specifica e storicamente determinata di società naturale, che è la famiglia. Mentre ilmodello hobbesiano è dicotomico e chiuso (o stato di natura o stato civile), quello aristotelico è plurimo eaperto (dal momento che i gradi intermedi possono variare per quantità). Inoltre, mentre nel modellohobbesiano tra i due stati si dà una radicale antitesi (o si è nell'uno, o nell'altro, tertium non datur), in quelloaristotelico tra i diversi stadi vi è un rapporto di continuità, nel senso della progressiva evoluzione. Infine, ilpassaggio da una fase all'altra - dallo stato pre-politico a quello politico - proprio in quanto avviene per unnaturale processo di estensione della società, non è dovuto ad una convenzione (cioè ad un atto di volontàrazionale), ma all'effetto di cause naturali e all'operare di condizioni obiettive: avviene insomma per la forzadelle cose. Il che conduce a due princìpi di legittimazione ben diversi: nel caso della scelta volontaria, ci sifonderà sul consenso; nel caso della forza delle cose, su uno stato di necessità. Ricapitolando:

a) per ciò che riguarda l'origine dello Stato, abbiamo da un lato una ricostruzione logico-razionale, dall'altrouna storico-sociologica;

b) per ciò che riguarda la natura dello Stato, gli uni lo considerano l'antitesi dell'uomo naturale, gli altri il suocomplemento, il suo sbocco naturale (artificialismo contro naturalismo);

c) per ciò che riguarda la struttura dello Stato, abbiamo da un lato una concezione individualistico-atomistica, dall'altro una sociale-organicistica;

d) per ciò che riguarda il fondamento dello Stato, abbiamo una teoria contrattualistica e una naturalistica;

e) per ciò che riguarda il principio di legittimità, abbiamo da un lato il consenso, dall'altro la forza delle cose.

Adesso possiamo tornare a Rousseau. La sua originalità si rivela anche in rapporto alle categorie cheabbiamo appena esaminato. Si potrebbe cominciare col dire che egli - a differenza di Hobbes, di Locke e deisuoi "fratelli-nemici" illuministi - non condivide la stessa fiducia nella ragione. Certo, la sua costruzionedello Stato sarà egualmente razionale; ma egli avanza molte riserve sulla raison dei philosophes, alla qualecontrappone la naturalità dell'uomo, le sue passioni e il suo sentimento religioso.

In secondo luogo, con Rousseau lo schema si fa triadico: stato di natura, società civile, repubblica. E ilcontratto - quello vero, non quello iniquo - viene a collocarsi tra la società civile e la repubblica. Inoltre, ilvalore da attribuire ai diversi stadi viene rovesciato: mentre tutti gli altri giusnaturalisti, sia pure in modomolto diverso, descrivono comunque lo stato di natura come uno stato negativo, da abbandonare in favore diuno stato civile configurato come positivo, Rousseau ritiene che il primo fosse uno stato felice e il secondo,tuttora perdurante, la peggiore delle condizioni. Ed infatti il terzo stadio, la repubblica fondata sul contrattosociale, dovrà recuperare - sia pure in modo totalmente politico - tutti i benefici di cui l'uomo avrebbegoduto nello stato di natura e che avrebbe perso nella società civile. Ma alle spalle di questa diversaconfigurazione del modello giusnaturalistico c'è, per l'appunto, quella riflessione morale sull'uomo, intessutadi elementi autobiografici, dalla quale siamo partiti.

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Fin dal suo primo apparire, il pensiero di Rousseau si configura infatti come una critica violenta contro laciviltà e la cultura del suo tempo, critica condotta in nome dell'uomo naturale. Nel 1749 l'Accademia diDigione bandisce un concorso sul tema "Se il rinascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito amigliorare i costumi". La semplice lettura del quesito provoca in Rousseau una vera e propria crisi emotiva -la famosa illuminazione di Vincennes - dalla quale nasce il Discorso sulle scienze e sulle arti (1750), chevincerà poi il concorso in questione. Sebbene sia in stretti rapporti, da qualche anno, con gli autoridell'Encyclopédie (per la quale aveva scritto alcune voci sulla musica), la tesi sostenuta da Rousseau inquesto scritto è decisamente anti-illuministica. Ma vediamo come l'autore stesso, in un passo molto celebre,descrive l'origine di questo suo scritto e la tesi centrale che lo anima.

Dopo aver passato quarant'anni della mia vita in questo modo, scontento di me stesso e degli altri, tentavoinutilmente d'infrangere i legami che mi tenevano avvinto alla società di cui avevo così poca stima, e che micostringevano a occupazioni sgradevoli per bisogni che ritenevo naturali, ma che erano in realtà artificiosi.Improvvisamente un caso fortunato m'illuminò riguardo alla mia condotta e all'idea che dovevo farmi deglialtri; nei loro confronti, il mio cuore stava sempre in contraddizione con il mio intelletto, e pur avendo tanteragioni di odiarli, sentivo tuttavia di amarli. Vorrei, signore, potervi descrivere il momento che ha fattoepoca nella mia vita in modo tanto singolare, e che mi resterà sempre impresso, dovessi vivere in eterno.Andavo a trovare Diderot recluso a Vincennes; avevo in tasca un numero del Mercure de France, e losfogliai per via. Mi cade sott'occhio il quesito dell'accademia di Digione che ha dato origine al mio primoscritto. Se mai vi fu ispirazione improvvisa, tale fu l'emozione che mi dette quella lettura. A un tratto la miamente fu percossa da mille luci: innumerevoli idee vive mi si presentarono insieme con un'energia e unaconfusione tali, da darmi un turbamento inesprimibile: m'invase uno stordimento simile all'ubriachezza.Una violenta palpitazione mi opprime e mi fa ansimare: col fiato mozzo, mi lascio cadere sotto un alberodel viale, e resto lì una mezz'ora in una tale agitazione, che rialzandomi mi accorsi di avere l'abito tuttoinzuppato di lacrime, senza che mi fossi accorto di piangere. O signore, se avessi potuto scrivere appena unquarto di ciò che vidi e sentii sotto quell'albero, con quale chiarezza avrei posto in rilievo tutte lecontraddizioni del sistema sociale, con quale forza avrei descritto tutti gli abusi delle istituzioni, con qualesemplicità avrei dimostrato che l'uomo è naturalmente buono e che soltanto a causa delle istituzioni gliuomini diventano malvagi. Quanto ho potuto rammentare della moltitudine di grandi verità chem'illuminarono in un quarto d'ora sotto quell'albero è stato sparsamente diluito nei miei tre scrittiprincipali, ossia il primo discorso, il discorso sull'ineguaglianza e il trattato sull'educazione, tre opereinseparabili, che formano un sol tutto.

La tesi centrale è chiara: l'uomo è naturalmente buono e soltanto a causa delle istituzioni diventa malvagio.All'interno del Discorso sulle scienze e sulle arti, questa tesi viene riferita soprattutto al tema proposto:

le nostre anime - scrive Rousseau - si sono corrotte via via che le scienze e le arti progredivano verso laperfezione. Diremo che si tratta di una sventura propria del nostro tempo? No, signori: i mali causati dallavana curiosità umana sono vecchi come il mondo.

Dunque il mondo moderno - mondo in cui le scienze e le arti hanno raggiunto una perfezione mai toccataprima - è, sul piano morale, corrotto come non mai. Dietro l'urbanità del suo tempo, dietro quella civilisationche è il vanto dell'Illuminismo, Rousseau «non vede che subdole maniere di nascondere atteggiamentideteriori ... La sua visione storica è la visione di un deterioramento progressivo, di un infiacchimentocontinuo delle energie, a cui subentra qualcosa di molle, di non-virile, di deteriormente raffinato»[21].

La tesi di Rousseau si configura quindi come uno strano incontro tra un tema tipicamente illuministico (lacritica della società) e un tema decisamente anti-illuministico, che potrebbe essere ricondotto alla tematicaumanistico-religiosa della vanitas scientiarum. La decadenza morale non nasceva, come pensavano gliilluministi, dalla irrazionalità delle superstizioni (in primo luogo, quella religiosa), ma proprio dall'assenza diuna coscienza religiosa, concepita come ascolto della voce interiore, semplice e naturale, che parla in ogniuomo.

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La polemica di Rousseau contro la cultura - condotta in nome dell'uomo naturale, del primitivo, tutto istintoe immediatezza, vigoroso e vitale[22] - tocca punte polemiche inusitate. Parlando dei sogni pericolosi degliHobbes e degli Spinoza, Rousseau dice che se i posteri non saranno insensati come i suoi contemporanei sirivolgeranno al cielo con queste parole:

Dio onnipotente, tu che hai nelle tue mani gli spiriti, liberaci dai lumi e dalle arti funeste dei nostri padri, erendici l'ignoranza, l'innocenza e la povertà, i soli beni che possano fare la nostra felicità e che sianopreziosi davanti a te.

Rousseau giunge ad affermare che lo stato di riflessione è uno stato contro natura e che l'uomo che medita èun animale degenerato. Alcuni studiosi, come Paolo Rossi, hanno sostenuto che in queste affermazioni èrintracciabile una sorta di odio teologico e calvinistico contro la scienza e la filosofia, venato di un fortemoralismo profondamente anti-scettico e anti-materialistico.

Ma quali modelli Rousseau contrappone alla decadente civiltà dei Lumi? Anzitutto, come abbiamo giàaccennato, il modello dell'uomo naturale, sano, vigoroso, semplice. Un altro modello è quello di uno statointermedio tra il primitivo stato di natura e lo stato civile sviluppato: una sorta di alba di civiltà, dove gliindividui, persa l'innocenza originaria che li rendeva pre-morali, avevano acquisito il senso della giustizia edella moralità e vivevano in semplicità e in pace. Finché gli uomini, scrive Rousseau,

non si applicarono che ad opere che uno solo poteva compiere e ad arti che non avevano bisogno delconcorso di parecchie mani, essi vissero liberi, sani, buoni e felici quanto potevano esserlo per natura, econtinuarono a godere fra loro delle dolcezze di rapporti indipendenti.

Qui fa la sua comparsa la tipica raffigurazione settecentesca del buon selvaggio. Infine abbiamo - e questosarà molto importante per il pensiero politico - il modello della città antica, della polis: la Romarepubblicana o la Sparta di Licurgo sono modelli di semplicità, di virtù etica e civile, di dedizione alla patria.Nei tempi moderni Rousseau rintraccia simili caratteristiche solo nella nativa Ginevra, calvinistica edemocratica; ma si tratta, come sperimenterà egli stesso, di una evidente idealizzazione.

Dunque il modello alternativo proposto da Rousseau esalta la natura e l'antichità, di contro alla cultura e allamodernità: un modello dove campeggiano l'energia vitale dell'uomo naturale e l'organicità della polis antica.E' vero che nel Discorso Rousseau colloca anche l'elogio di Bacone, Cartesio e Newton come precettori delgenere umano; ma molti critici concordano nel ritenerlo un elogio di maniera. Come è stato giustamenteosservato, «alle convinzioni e alla politica culturale dei philosophes Rousseau aveva in realtà contrappostouna radicale confutazione del nascente mondo moderno. Essa recava mescolati dentro di sé,paradossalmente, elementi attinti alla tradizione calvinistica, alle analisi di Pascal, alla idealizzazione dellevirtù eroiche degli antichi e dei ginevrini e motivi di critica e di rifiuto che conducevano Rousseau suposizioni politiche molto più radicali di quelle di Voltaire e di Diderot»[23]. Egli infatti vedrà nelle scienze enelle arti - frutto del lusso e dell'ozio - qualcosa di meno dispotico, ma forse di più potente del governo edelle leggi: delle ghirlande di fiori stese sulle catene di ferro che stringono gli uomini, negando loro la libertàe spingendoli ad amare la schiavitù come se fosse la loro condizione naturale. Il bisogno, scrive il Ginevrino,ha innalzato i troni; le scienze e le arti li hanno rafforzati.

Rousseau condivide insomma il tradizionale repertorio dei moralisti di ogni tempo: la condanna del sapereintellettualistico, della ricchezza che genera nuova ricchezza e che impedisce al povero di uscire dalla suacondizione, del mondo che onora i furfanti e perseguita gli onesti e così via. Ma se la descrizione del male èla stessa, la diagnosi è molto diversa: il male non è dovuto all'uomo, ma all'uomo mal governato. Ancora unavolta: il male dipende non dall'uomo, che è naturalmente buono, ma dalla società, dalle istituzioni sociali. E'facile comprendere che le conseguenze di una simile impostazione saranno enormi. Se la colpa non èoriginaria, se il male non è naturale, allora esso nasce sulla terra: il problema del male si sposta dal campodella teodicea a quello della politica. Come ha scritto Cassirer, Rousseau ha creato un nuovo soggetto dellaresponsabilità e questo soggetto non è l'uomo singolo, ma la società.

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Ed infatti, nel Discorso sull'origine dell'ineguaglianza (1754), Rousseau si sposta dal piano della critica alsapere al piano della critica sociale e politica. E' in questo passaggio che la critica marxista ha visto i legamitra Rousseau e Marx: qui il Ginevrino compirebbe infatti il passaggio dalla sovrastruttura alla struttura,sostenendo che la vera causa del male non è di natura ideologica (ossia non sta nelle idee, nel sapere), maeconomico-politica (e sta quindi nelle condizioni economiche e nelle istituzioni politiche). La vera causadella diseguaglianza - e quindi del male che affligge gli uomini - starebbe esattamente nella proprietàprivata.

Ma torniamo al testo di Rousseau. Gli scopi del Discorso sull'origine dell'ineguaglianza sono i seguenti:determinare l'origine e il progresso della malvagità umana; mostrare il guasto irrimediabile che si è prodottonell'uomo e le origini profonde di questa sua "malattia"; cercare di rallentare, ove possibile, il decorso di talemalattia; svelare nella diseguaglianza la causa profonda della radicale mistificazione dei rapporti e dellatotale falsificazione di sé che si verifica nella società contemporanea. Nel tracciare la genealogia del maleche affligge gli uomini, Rousseau si confronta (e si scontra) con gli altri giusnaturalisti, elaborandoun'immagine dell'uomo naturale profondamente diversa. Rousseau inizia precisando il metodo con il qualeegli intende risalire allo stato di natura e le finalità che giustificano tale procedimento:

cominciamo dunque con lo scartare tutti i fatti, perché questi non riguardano il problema. Non bisognaprendere le ricerche in cui è necessario addentrarsi in questo argomento per verità storiche, ma solo perragionamenti ipotetici e condizionali, destinati piuttosto a spiegare la natura delle cose che a mostrarne lavera origine, e simili a quelli intorno alla formazione del mondo che ogni giorno fanno i nostri fisici. Lareligione ci comanda di credere che, avendo Dio stesso tolti gli uomini dallo stato di naturaimmediatamente dopo la creazione, essi sono disuguali perché Egli ha voluto che lo fossero; ma non ciproibisce di formare delle congetture, derivate dalla sola natura dell'uomo e degli esseri che lo circondano,intorno a quello che sarebbe potuto diventare il genere umano se fosse stato lasciato a se stesso. Eccoquello che mi si chiede e che io mi propongo di esaminare in questo Discorso.

Vediamo dunque gli esiti di questa ricerca. Anzitutto, l'uomo è nato libero: Rousseau sostiene che l'uomonaturale descritto da Hobbes (egoista, violento, malvagio) non è affatto l'uomo naturale, bensì l'uomo civile.Nello stato di natura, l'uomo è libero e felice: egli ha pochi bisogni ed è in grado di soddisfarli. Non esisteproprietà, né oppressione; l'uomo è un animale prestante, guidato infallibilmente dal proprio istinto. Duesono i sentimenti che lo caratterizzano: l'amore di sé e la pietà istintiva verso ogni suo simile. A questoprimo stadio, succede quello del buon selvaggio, al quale abbiamo già fatto cenno[24]. E' solo col sorgeredella proprietà privata, con il sorgere dell'agricoltura e della metallurgia e con la divisione del lavoro, chenasce la vera e propria diseguaglianza. E' questo lo stadio, secondo Rousseau, al quale si attaglia ladescrizione hobbesiana: una guerra continua di tutti contro tutti. Per superare tale situazione i ricchiescogitano il patto iniquo, ossia un patto che prevede l'accettazione dello stato di fatto esistente in cambiodella protezione contro gli eventuali pericoli. E' il momento in cui nascono la società e le leggi, e con loro ildiritto alla proprietà. Si formano le comunità politiche, che stanno tra di loro come gli individui nello stato dinatura hobbesiano. Tali comunità sono però imperfette, perché il controllo sull'osservanza delle leggi ègenericamente demandato alla società; di qui le violazioni ripetute delle leggi medesime e quindi la necessitàdi istituire appositi magistrati per farle rispettare. Con i magistrati sorge il potere politico legittimo: è unpotere politico fondato sul contratto bilaterale tra popolo e capi. Tuttavia, poiché la fondazione razionale delpotere non è solida, dal momento che può essere essere continuamente rimessa in discussione, c'è bisogno diun puntello irrazionale per sostenere l'autorità sovrana. Tale puntello sarà la religione che, dando al potere uncarattere sacro, toglierà ai sudditi il diritto di disporne. Su queste basi si sviluppano le varie forme digoverno, che si degradano progressivamente: con la formazione delle fazioni, dice Rousseau, si ritorna quasiall'anarchia dei tempi precedenti. Di ciò approfittano gli ottimati per rendere ereditarie le loro cariche, perconsiderarsi proprietari di quegli Stati di cui dovevano essere solo funzionari e per considerare schiavi i loroconcittadini. Si tratta di una marcia verso il dispotismo, che ripristina una sorta di eguaglianza primitiva, madi segno opposto: quella di tutti gli uomini, in stato di schiavitù, verso il loro padrone assoluto. Tale rapportodi forza e di totale soggezione è una completa degenerazione dell'uomo; ne deriva che l'ineguaglianza ètotalmente contraria alla natura dell'uomo e che essa non trova giustificazione alcuna nel diritto naturale. Mapoiché lo stato di natura è irrecuperabile - non è pensabile, infatti, che l'uomo cancelli la sua storia, che è

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ormai per lui una seconda natura - non resta che usare gli strumenti della civiltà e della ragione al fine dirifondare quelle condizioni di cui l'uomo godeva nello stato di natura. Si tratta di costruire un uomo nuovo,totalmente civile, ma totalmente libero, come lo era nello stato di natura.

Lo scopo del Contratto sociale (1762) è infatti esplicitamente quello di

trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni diciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e restilibero come prima. Questo è il problema fondamentale di cui il Contratto Sociale dà la soluzione.

Già in questa definizione appare la nozione di libertà elaborata da Rousseau: si è liberi quando si obbedisce ase stessi. Si tratta di un punto di grande rilievo: Rousseau intende infatti la nozione di libertà comeautonomia, e quindi in un'accezione ben diversa dalla definizione di libertà come non-impedimento. Mentrenel secondo caso libertà significa facoltà di compiere o non compiere certe azioni, senza esserne impediti dalpotere statale, nel primo caso libertà significa potere di ubbidere soltanto alle norme che ci siamo imposti. Insostanza la libertà come non-impedimento, detta anche "libertà negativa", coincide con lo spazio nonregolato da norme imperative ed è pertanto opposta alla nozione di legge (qualunque legge, in quanto tale,limita la gamma infinita dei possibili comportamenti individuali); la libertà come autonomia, detta anche"libertà positiva", coincide invece proprio con la nozione di legge, dove per quest'ultima si deve peròintendere una norma autonoma e non eteronoma (cioè non proveniente da altri). Considerate sul pianoindividuale, entrambe le definizioni rimandano ad una condizione di auto-determinazione: la sfera dellelibertà negative è infatti quella sfera in cui ognuno agisce senza costrizioni esteriori, il che equivale a direche si autodetermina, così come accade nel caso delle libertà positive. Siamo liberi, ad esempio, di nonfinanziare i partiti politici, sia perché nessuno ci può legittimamente impedire di adottare talecomportamento, sia perché, potendoli anche finanziare, decidiamo di non farlo per obbedire ad una normache ci siamo dati. Ma sul piano politico (vale a dire collettivo), tali differenti nozioni conducono a soluzionecompletamente diverse: se libertà significa legge, ciò significa che si è liberi solo quando si è sottoposti allalegge. Ne deriva che nulla deve essere sottratto all'imperio della legge; il che equivale a dire che il poteresociale, ossia il potere politico, è illimitato.

Ed infatti le clausole del contratto sociale, dice Rousseau, si riducono a una sola:

l'alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità.

A coloro i quali paventano il rischio liberticida implicito nella rinuncia a tutti i diritti naturali, Rousseaurisponde che la condizione è rigorosamente uguale per tutti e dunque nessuno può avere interesse a renderlaonerosa per gli altri; in secondo luogo, che colui il quale si si dà a tutti non si dà a nessuno, ed anzi guadagnal'equivalente di ciò che perde (cioè i diritti naturali degli altri) e una maggior forza per conservare quello cheha. La conclusione del Ginevrino è la seguente:

se dunque si toglie del patto sociale ciò che non gli è essenziale, si troverà che esso si riduce ai terminiseguenti: <<Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzionedella volontà generale; e riceviamo inoltre ciascun membro come parte indivisibile del tutto>>.

Si forma così il corpo sovrano: l'insieme dei cittadini, alienandosi reciprocamente tutti i propri diritti, formaun corpo morale e politico, che agirà esattamente come una sorta di grande individuo. In quanto sottoposti atale potere, gli individui saranno sudditi dello Stato; ma in quanto partecipi di tale potere, ossia in quantomembri del corpo sovrano che delibera, saranno cittadini. Essi saranno dunque, al tempo stesso, governanti egovernati. In altre parole, lo Stato sarà in tutti e tutti saranno lo Stato: la sovranità apparterrà a tutti. Di quiRousseau trae conseguenze anti-garantistiche:

ora, il corpo sovrano, non essendo formato che dai singoli che lo compongono, non ha né può avere alcuninteresse contrario al loro interesse, e quindi non ha bisogno di dare garanzie ai sudditi, perché èimpossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi sudditi; e noi vedremo più avanti che non può nuocereneanche ad alcuno di essi in particolare. Il corpo sovrano, per il solo fatto di essere tale, è sempre quello

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che deve essere.

Ma se il corpo sovrano, essendo formato da tutti, non ha bisogno di dare garanzie ai singoli, giacché èimpossibile che il corpo voglia nuocere alle proprie membra, lo stesso non è vero per i cittadini, consideraticome singoli individui verso il corpo sovrano. Essi infatti, proprio in quanto singoli, hanno una volontà e uninteresse particolari, suscettibili di entrare in contrasto con la volontà e l'interesse generali. In virtù di questaloro limitatezza, essi devono dare quelle garanzie che il corpo sovrano non ha bisogno di offrire loro; se nonle dessero, si arriverebbe all'assurdo di un individuo che gode dei diritti del cittadino senza voler adempiere isuoi doveri di suddito; si arriverebbe quindi alla dissoluzione del corpo politico. La conclusione di Rousseauè logicamente ineccepibile, date le premesse del suo sistema:

perché dunque questo patto sociale non sia una formula vana, esso implica tacitamente questa obbligazione,che sola può fare forza a tutte le altre; che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi saràcostretto da tutto il corpo. Ciò non significa altro se non che lo si costringerà ad essere libero.

Gli interpreti di Rousseau non si stancano di ricordarci la buona fede del Ginevrino, il suo intenso e sinceroamore per la libertà: ma quando l'idea di libertà si lega a quella di costrizione, quando si arriva a sostenereche si può "costringere alla libertà", c'è poco da argomentare. Siamo in presenza di una ben strana epericolosa nozione di libertà.

Con il contratto sociale l'uomo entra quindi nella repubblica. Ma come descrive tale passaggio Rousseau?Egli ce lo descrive come una vera e propria trasformazione qualitativa dell'uomo.

Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nell'uomo un cambiamento molto notevole,sostituendo nella sua condotta la giustizia all'istinto e dando alle sue azioni la moralità che prima mancavaloro. Solamente allora, subentrando la voce del dovere al posto dell'impulso fisico e il diritto al postodell'appetito, l'uomo, il quale fino allora non aveva considerato che se stesso, si vede obbligato ad agiresecondo altri pricìpi e a consultare la sua ragione prima di ascoltare le sue inclinazioni.

Facciamo attenzione: giustizia e moralità al posto dell'istinto, diritto al posto dell'appetito, dovere al postodell'impulso fisico, ragione al posto dell'istinto naturale. Sembrerebbe quasi l'entrata dell'uomo ...nell'umanità! Ossia, in ciò che propriamente lo distingue dal resto del regno animale. Si pensi a quantodiversa è la descrizione degli altri giusnaturalisti: l'uomo dello stato civile - per Hobbes come per Locke -non è un "uomo nuovo", bensì lo stesso uomo, solo molto meno libero, ma molto più sicuro (in Hobbes),oppure molto più sicuro, continuando però a rimanere molto libero (in Locke). Si tratta di un puntofondamentale, per comprendere le ragioni profonde che conducono Rousseau alle soluzioni radicali che inparte abbiamo già visto. «Non si capisce Rousseau - ha osservato acutamente Bobbio - se non s'intende che adifferenza di tutti gli altri giusnaturalisti per cui lo Stato ha lo scopo di proteggere l'individuo, per Rousseauil corpo politico che nasce dal contratto ha il compito di trasformarlo. Il cittadino di Locke è puramente esemplicemente l'uomo naturale protetto; il cittadino di Rousseau è un altro uomo»[25].

Certo, Rousseau sa che l'uomo perde alcuni vantaggi: ma ciò che guadagna pare immensamente superiore eaddirittura gli stessi vantaggi persi sembrano scolorire sino a sparire, se è vero che egli parla di un «animalestupido e limitato» divenuto «un essere intelligente e un uomo».

Sebbene in questo stato egli si privi di molti vantaggi che gli vengono dalla natura, ne guadagna in cambioaltri così grandi, le sue facoltà si esercitano e si sviluppano, le sue idee si allargano, i suoi sentimenti sinobilitano, tutta la sua anima si eleva a tal punto che, se gli abusi di questa nuova condizione non lodegradassero spesso al disotto di quella da cui è uscito, egli dovrebbe benedire continuamente l'istantefelice che lo strappò per sempre da quelle sue condizioni primitive e che di un animale stupido e limitatofece un essere intelligente e un uomo.

Ma veniamo alla volontà generale, che è il cuore dello Stato rousseauiano, l'espressione del corpo politico.Abbiamo visto che essa è assoluta, dal momento che nessun diritto individuale la può limitare o intralciare.Abbiamo anche visto che tale assolutezza, secondo Rousseau, non crea alcun pericolo per i singoli, dal

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momento che essa è il prodotto di quel corpo le cui membra sono i singoli stessi. Ma non si può dare il casoche tale volontà sbagli? Di per se stessa, risponde Rousseau, no; può sbagliare solo se messa in condizioninegative, solo se impedita ad essere se stessa.

Da ciò che si è detto consegue che la volontà generale è sempre retta e tende sempre all'utilità pubblica:non deriva però che le deliberazioni del popolo siano sempre ugualmente rette. Si vuole sempre il propriobene, ma non sempre lo si vede: non si corrompe mai il popolo, ma spesso lo si inganna, e soltanto alloraesso sembra volere ciò che è male.

Attenzione: la volontà generale non può mai sbagliare, il popolo non può mai essere corrotto. Però puòessere ingannato: allora accade che la volontà generale - o meglio, il popolo che la esprime - sbagli.

E' bene ricordare che la volontà generale non equivale, per Rousseau, alla volontà di tutti: essa non è unconcetto quantitativo, come quello di maggioranza, bensì un concetto qualitativo. La volontà di tutti altronon è che la somma di una serie di volontà particolari, mosse da interessi particolari; la volontà generale èinvece una volontà mossa dall'interesse comune, dall'utilità comune. E' la volontà comunitaria, è la vocedella comunità concepita come un corpo coeso e compatto, come un unico grande individuo. Come puòaccadere, allora, che questa voce non si produca? In altre parole, come può accadere che la volontà generalenon sia veramente tale, ma sia solo la somma di volontà particolari? Un tale esito, risponde Rousseau, èpossibile soltanto quando l'unità del corpo sovrano è lacerata dalle fazioni, ossia da raggruppamenti diinteressi particolari. Allora, dallo scontro di queste fazioni non può emergere la volontà generale, ma solouna volontà particolare. Rousseau è un nemico dichiarato di tutte le cosiddette associazioni parziali o societàparziali. Egli sarebbe insomma, nei nostri tempi, un nemico giurato dei partiti, delle associazioni, deisindacati. Sulla scena politica, secondo la sua concezione, devono esserci solo due attori: gli individui e ilcorpo sovrano, gli individui e lo Stato; solo in tal modo la volontà generale potrà essere sempre illuminata.

Vale forse la pena di aprire una breve parentesi di "attualità" su questo importante tema. Tutto il pensierogiusnaturalistico è caratterizzato dal rifiuto delle associazioni intermedie. Bobbio sostiene che la democraziamoderna è nata da una concezione individualistica della società che, sostituendosi a quella organicisticadell'antichità e del medioevo, ha fatto della società un fenomeno artificiale, frutto della volontà umana. Perfare ciò, si è partiti dall'ipotesi (astratta e rivoluzionaria) dell'individuo libero che si accorda con altriindividui, altrettanto liberi, creando in tal modo la società politica sulla base di un accordo volontario traeguali. Si è dunque immaginato uno Stato senza corpi intermedi, che peraltro erano caratteristici delle città edello Stato medievale. E' la logica individualistico-egalitaria che conduce a diffidare dei corpi o dei ceti: inessi si vede il rischio di gruppi che introducono nel corpo politico diseguaglianze, privilegi, particolarismi,rompendo in tal modo l'eguaglianza degli individui tra di loro. Ora, quello che è avvenuto negli Statidemocratici, osserva ancora Bobbio, è esattamente l'opposto:

soggetti politicamente rilevanti sono diventati sempre più i gruppi, grandi organizzazioni, associazioni dellapiù diversa natura, sindacati delle più diverse professioni, partiti delle più diverse ideologie, e sempre menogl'individui. I gruppi e non gl'individui sono i protagonisti della vita politica in una società democratica,nella quale non vi è più un sovrano, il popolo o la nazione, composto da individui che hanno acquistato ildiritto di partecipare direttamente o indirettamente al governo, il popolo come unità ideale (o mistica), ma ilpopolo diviso di fatto in gruppi contrapposti e in concorrenza tra loro, con la loro relativa autonomiarispetto al governo centrale.

Sempre partendo dall'ipotesi individualistico-egalitaria, nasce anche il sistema della rappresentanza politica enon degli interessi, con relativo abbandono del vincolo di mandato. La rappresentanza degli interessi (sullaquale si fonda, ad esempio, lo Stato corporativo) implica il mandato imperativo, ossia il fatto che ilmandatario può essere revocato in qualsiasi momento dal mandante, se quest'ultimo non si ritieneadeguatamente rappresentato; la rappresentanza politica implica invece il divieto di mandato imperativo,perché, una volta eletto, il mandatario rappresenta non i suoi mandanti, ma tutta la nazione (in sostanza, sideve far carico degli interessi generali). Dice Bobbio: tanto la rappresentanza politica quanto il divieto dimandato imperativo sono stati sistematicamente violati, nelle democrazie moderne. Il divieto di mandatoimperativo è violato, ad esempio, dalla disciplina di partito; quanto alla rappresentanza politica e non degli

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interessi, la cosiddetta concertazione con le parti sociali ha condotto alcuni a parlare di società neo-corporata. Accade sempre più spesso che la politica economica non nasca, ad esempio, dalla discussioneparlamentare tra i rappresentanti eletti dai cittadini, ma dal confronto tra il governo e i rappresentanti deilavoratori e degli industriali. Ora, è bene ricordare che tali rappresentanti anzitutto non sono eletti da tutti icittadini (e, per la precisione, non sono eletti nemmeno dai loro mandanti) e che, in secondo luogo, sono perdefinizione portatori di interessi tanto legittimi quanto indiscutibilmente particolari. Tralasciamo ognigiudizio di valore e limitiamoci alla seguente constatazione: in molte democrazie liberali contemporanee sidà una sorta di rivincita della rappresentanza degli interessi particolari (per quanto larghi) contro larappresentanza politica.

Ma torniamo a Rousseau e alla volontà generale. Che rapporto ha tale volontà con la volontà dellamaggioranza? Variabile. Tanto per cominciare, Rousseau ci dice che dove i pareri si avvicinanoall'unanimità, significa che la volontà generale è dominante e quindi che lo Stato è sano. Ma i lunghidibattiti, i dissensi, il tumulto - scrive Rousseau - annunciano il prevalere degli interessi particolari e ildeclino dello Stato. Da notare: questa concezione negativa del dissenso - che è, in sostanza, una concezionenegativa della varietà delle opinioni - rivela quanto poco liberale sia Rousseau. Uno dei tratti caratteristicidel liberalismo è infatti proprio questo: la varietà delle opinioni e degli interessi non solo non vieneconsiderata un male, ma anzi un bene. Ancora una volta, in Rousseau, fa capolino l'idea di una comunitàcoesa, compatta, nella quale gli individui si fondono sino ad annullarsi.

Tornando alla maggioranza, le sue decisioni vincolano sempre tutti gli altri, tranne che nel caso del contrattooriginario, con il quale viene costituito il corpo politico. Ma in tutti gli altri casi, come possono gli oppositoriessere liberi, se si ritrovano soggetti a leggi alle quali non hanno acconsentito? La risposta di Rousseau è laseguente:

si domanda come possa un uomo essere libero e costretto a conformarsi a delle volontà che non sono le sue.Come possono gli oppositori essere liberi e soggetti a delle leggi alle quali non hanno acconsentito? Iorispondo che il problema è male impostato. Il cittadino consente a tutte le leggi, anche a quelle che sonostate approvate suo malgrado, ed anche a quelle che lo puniscono quando egli osi violarne qualcuna. Lavolontà costante di tutti i membri dello Stato è la volontà generale; grazie a questa essi sono cittadini eliberi. Quando si propone una legge nell'assemblea del popolo, ciò che si domanda ai cittadini non èprecisamente se essi approvino la proposta oppure la respingano, ma se essa è conforme o no alla volontàgenerale, che è la loro: ciascuno dando il suo voto esprime il suo parere su ciò; e dal calcolo dei voti si traela dichiarazione della volontà generale. Quando dunque prevale il parere contrario al mio, ciò non significaaltro se non che io mi ero ingannato, e che ciò che io credevo essere la volontà generale non era tale. Se ilmio parere particolare avesse prevalso, io avrei fatto una cosa diversa da quella che avrei voluto; e alloraio non sarei stato libero.

La conclusione è simile a quella incontrata poco sopra, quando Rousseau parlava di costrizione alla libertà.Colui il quale si ritrova in minoranza, non ha un'opinione diversa dalle altre, ma di eguale dignità: haun'opinione sbagliata. La volontà generale è assimilabile alla volontà di Dio: essa è infallibile, e se il singolonon la condivide, significa che si sbaglia o che non ha capito. L'autodeterminazione collettiva - che èinfallibile - sostituisce integralmente ogni auto-determinazione individuale: l'individuo è fuso nel corposociale. E come in un corpo è assurdo (o patologico) che le membra non eseguano le decisioni della volontàdel corpo al quale appartengono, così è per l'individuo verso lo Stato.

Vediamo, per concludere, quale struttura viene ad avere lo Stato rousseauiano. Come nel corpo di unindividuo l'azione è frutto di una causa morale (la volontà) e di una causa fisica (la forza che l'esegue), cosìnel corpo politico, nello Stato, si danno gli stessi "motori": forza e volontà. La volontà è il potere legislativo,la forza è il potere esecutivo.

Ma che cos'è l'esecutivo o governo? E' un mero esecutore, un corpo intermedio creato per la reciprocacorrispondenza tra i sudditi e il sovrano. L'insieme dei membri componenti tale corpo intermedio si chiama,dice Rousseau, magistrati o re o principe. Resta il fatto che si tratta di un organo totalmente subordinato allavolontà generale.

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Infatti ciò non è assolutamente altro che un mandato, un impiego, nel quale, semplici funzionari del corposovrano, essi esercitano in suo nome il potere del quale egli li ha fatti depositari, e che può limitare,modificare e riprendere quando gli piaccia, poiché l'alienazione di un tale diritto incompatibile con lanatura del corpo sociale, è contraria al fine dell'associazione.

Altro tema caratteristico di Rousseau è la polemica contro la rappresentanza. La sovranità è per Rousseauinalienabile. Proprio in quanto inalienabile, essa non può essere rappresentata:

non appena il servizio pubblico cessa di essere il principale ufficio dei cittadini, ed essi preferiscono servirecon la loro borsa anziché con la loro persona, lo Stato è già vicino alla rovina. Se bisogna andare acombattere pagano delle truppe e restano a casa. A forza di pigrizia e di denaro essi hanno infine soldatiper asservire la patria e rappresentanti per venderla.

E ancora:

la sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essaconsiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o è quella stessa, o èun'altra; non c'è via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque né possono essere suoi rappresentanti;non sono che i suoi commissari: non possono concludere nulla in modo definitivo. Ogni legge che non siastata ratificata dal popolo in persona è nulla; non è una legge. Il popolo inglese crede di essere libero, ma sisbaglia di grosso: lo è soltanto durante l'elezione dei membri del parlamento; appena questi sono eletti, essoridiventa schiavo, non è più niente. Nei brevi momenti della sua libertà, l'uso che ne fa merita di farglielaperdere.

Il desiderio di delegare la sovranità è già un segno di decadenza politica e morale: qui Rousseau rivela tuttol'arcaismo politico del suo pensiero, il suo carattere anti-moderno. Non a caso egli richiama l'esempio deiGreci, presso i quali

tutto quello che il popolo doveva fare lo faceva da sé; esso era continuamente adunato nella piazza. Abitavain un clima dolce; non era avido; gli schiavi facevano i suoi lavori; il suo grande affare era la sua libertà.

Rousseau parla anche di limiti alla sovranità. Ma si tratta di limiti, come vedremo, del tutto teorici. L'avviodella sua argomentazione è in linea con quanto abbiamo visto sinora: come la natura dà a ciascun uomo unpotere assoluto su tutte le sue membra, così è il potere della sovranità generale. Ma, continua Rousseau, nelcaso del corpo politico, occorre considerare non solo la persona collettiva, bensì anche le persone private chela compongono, la cui vita e libertà sono naturalmente indipendenti da essa. Sembrerebbe dunque che vita elibertà costituiscano diritti individuali, di fronte ai quali la sovranità collettiva deve arrestarsi. Tanto è veroche Rousseau prosegue dicendo: si tratta dunque di distinguere bene i diritti rispettivi dei cittadini e delcorpo sovrano, e i doveri ai quali i primi sono tenuti in qualità di sudditi dal diritto naturale di cui debbonogodere nella loro qualità di uomini. L'alienazione iniziale degli individui a favore dello Stato comprende solociò il cui uso sia utile alla società e nulla di più. Sembrerebbe dunque che Rousseau stabilisca qui un chiaroprincipio di limitazione del potere. Senonché, egli aggiunge subito dopo che il solo giudice di questa utilità èil corpo sovrano. Così, tutte le garanzie precedenti svaniscono nel nulla.

Dunque la sovranità è per Rousseau illimitata, inalienabile, indistruttibile. L'ultima caratteristica che leattribuisce è l'indivisibilità. Non si può dividere la sovranità, secondo Rousseau (che in questo, come inmolti altri casi, ricorda Hobbes), pena la dissoluzione dello Stato; ma si possono dividere gli organi delloStato, come abbiamo già visto nella distinzione tra legislativo ed esecutivo, dove il primo ha tutta lasovranità e il secondo ha solo funzioni commisariali.

Quanto ai tipi di governo, Rousseau ammette i tipi tradizionali: democratico, aristocratico, monarchico,misto. Naturalmente, per Rousseau si tratta semplicemente di governi, ossia di funzionari del legislativo,unico vero sovrano. Rousseau non stabilisce gerarchie assolute: ogni forma può essere buona a seconda deitempi e dei luoghi. In genere, la democrazia è adatta ai piccoli Stati, l'aristocrazia ai medi, la monarchia ai

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grandi. Rousseau arriva a dire che la democrazia pura (s'intende il governo democratico puro), ossia quellaforma in cui i magistrati supererebbero il numero dei cittadini semplici, è in sostanza un'utopia, perchérichiederebbe troppa virtù. E' un governo adatto agli dèi, dice il Ginevrino, ma non agli uomini. Rousseauconcepisce anche la figura mitica del legislatore - un uomo di capacità straordinarie - come fondatore dellanazione. E' una concessione al realismo, a scapito dell'approccio razionalistico. Spetta a lui la funzione cheRousseau aveva assegnato al contratto originario, ossia quello di

trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto ed isolato, in parte di un più grande tutto,dal quale questo individuo riceva in qualche modo la sua vita e il suo essere.

Rousseau sente il bisogno di questo potere costituente mitico perché ritiene che una moltitudine cieca, laquale spesso non sa cosa vuole, non riuscirebbe da sola a fondare uno Stato razionale.

Ai limiti di una fondazione razionale dello Stato rimedia anche la religione. Alla fine del Contratto,Rousseau prende in esame - e scarta - sia l'antica "religione degli dei" della città (politicamente utile, masuperstiziosa e immorale), sia la "religione del prete" (perché il Cattolicesimo pone l'uomo in contraddizionecon se stesso e rompe l'unità sociale), sia infine la "religione dell'uomo" (perché il Protestantesimo ha uncarattere spirituale, che allontana l'uomo dalle cose di questo mondo). Egli propone quindi una religionecivile, basata su pochi e semplici dogmi: esistenza di un Dio buono e provvidente, vita futura, felicità deigiusti e castigo dei malvagi, santità del contratto sociale e delle leggi. Nessuno può essere obbligato acredere in questi dogmi; ma chi non vi crede, può essere bandito dallo Stato, non in quanto empio, ma inquanto insocievole. Chi poi riconosce i dogmi, ma si comporta come se non vi credesse, deve essere messo amorte, perché ha commesso il massimo dei peccati, ossia mentire di fronte alle leggi. Infine, chiunqueprofessi l'intolleranza non può essere tollerato.

9. Kant

Cenni biografici

Immanuel Kant nasce a Könisberg (Prussia orientale) nel 1724. Dal 1732 al 1740 frequenta, nella cittànatale, il Collegio Fridericiano. Assai importante l'influsso pietista derivante dalla madre.

Dal 1740 al 1746 frequenta la facoltà di Filosofia della locale Università; dal 1746 al 1755 si impiega comeprecettore privato. Nel 1755 consegue il dottorato in Filosofia e la libera docenza. Pubblica la Storiauniversale della natura e teoria del cielo.

Tra il 1762 e il 1763 scrive numerosi testi: La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche, L'unicoargomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio, Indagine sulla distinzione dei princìpidella teologia naturale e della morale, Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantitànegative.

Nel 1764 pubblica Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime e il Saggio sulle malattie della testa.Nel 1765 ottiene il posto di sottobibliotecario presso la biblioteca del castello reale, con uno stipendiomodestissimo. Continua la sua attività didattica all'Università, con grande successo.

Nel 1766 pubblica i Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica.

Nel 1770 diviene ordinario di Logica e Metafisica all'Università della città natale.

Nel 1781 pubblica, a Riga, la Critica della Ragion pura e nel 1783 i Prolegomini ad ogni metafisica futurache vorrà presentarsi come scienza.

Fra il 1784 e il 1786 pubblica saggi di etica e di filosofia della storia: Idea per una storia universale dalpunto di vista cosmopolitico, Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo?, Fondazione della metafisica

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dei costumi, Congetture sull'origine della storia. Nel 1786 è nominato Rettore.

Nel 1787 pubblica la seconda edizione della Critica della Ragion pura; nel 1788 la Critica della Ragionpratica e nel 1790 la Critica del giudizio. Nel 1793 pubblica la Religione entro i limiti della sola ragione.Nel 1794 diviene membro dell'Accademia delle scienze di Pietroburgo. Nello stesso anno pubblica laseconda edizione della Religione, che gli dà molti problemi; Kant si impegna a non trattare più argomentireligiosi. Nel 1795 pubblica Per la pace perpetua. Progetto filosofico.

Nel 1797 si ritira dall'insegnamento. Nello stesso anno pubblica la Metafisica dei costumi; nel 1798 Ilconflitto della facoltà e l'Antropologia dal punto di vista pragmatico. Nel 1799 critica duramente la Dottrinadella scienza di Fichte. Muore nel 1804, a 80 anni.

Il pensiero politico

«Una concezione liberale della storia - la storia come teatro degli antagonismi - fa da sostegno, nel pensierodi Kant, alla concezione liberale del diritto - il diritto come condizione di coesistenza delle libertà individuali-, e alla concezione liberale dello Stato - lo Stato come avente lo scopo non di guidare i sudditi alla felicitàma di garantire l'ordine»[26]. Così Bobbio, con la consueta lucidità, disegna i tratti costitutivi del pensieropolitico kantiano.

Abbiamo dunque, in primo luogo, una determinata concezione della storia, che fa da sfondo alle duedirezioni principali nelle quali si articolerà la riflessione politica di Kant, ossia la dottrina del diritto e ladottrina dello Stato. L'elaborazione di tale concezione storica precede non solo logicamente, ma anchecronologicamente gli scritti politici.

L'Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, pubblicata nel 1784, è infatti il primoscritto etico-politico di Kant. Il problema che egli si pone è quello del senso della storia: esiste un'ordinenella storia umana? Esiste, in essa, un disegno della natura? E' quello che Kant suppone e che tenta di discoprire. Tale ordine, tuttavia, non si rivela nelle vicende individuali, ma solo nella considerazione dellevicende umane in grandi proporzioni. Kant fa l'esempio dei matrimoni, delle nascite e delle morti: si tratta difatti, egli dice, largamente influenzati dalla libera volontà umana e che pertanto sembrerebbero sfuggire adogni regola che permettesse di calcolarne il numero; eppure le statitistiche di tali fenomeni, compiute sularga scala, rivelano che tali fatti avvengono secondo leggi naturali costanti, al pari delle condizioniatmosferiche. Subito dopo Kant aggiunge:

singoli individui ed anche interi popoli non pongono mente al fatto che, pur perseguendo i loro particolarifini, ognuno a suo modo e spesso in contrasto con gli altri, procedono in realtà inavvertitamente secondo ilfilo conduttore di un disegno della natura e promuovono quell'avanzamento che essi stessi ignorano e alquale, se anche lo conoscessero, non farebbero gran caso.

Si tratta di un concetto molto importante. Non solo esiste un disegno della natura, che conferisce alla storiaumana un fine (e quindi un senso) ben preciso; ma tale disegno complessivo, di segno positivo, si realizzaspontaneamente, al di là della volontà cosciente degli uomini e anzi proprio sfruttando le particolariinclinazioni di questi, inclusi i loro "difetti".

Kant procede per tesi. Nella prima egli sostiene che tutte le disposizioni naturali di una creatura sonodestinate a svolgersi in modo completo e conforme allo scopo. In altre parole, Kant è convinto che tutto, innatura, abbia un fine e che tale fine guidi lo sviluppo delle cose. Se noi prescindiamo da un simile principio -ossia da una concezione teleologica della natura - non abbiamo più una natura regolata da leggi, dice Kant,ma un gioco senza scopo, e il caso sconfortante regnerebbe in luogo della ragione.

Ora, nell'uomo, che è l'unica creatura razionale, le naturali disposizioni hanno il loro completo svolgimentonella specie e non nel singolo. Questa è la seconda tesi. Poiché la ragione procede per tentativi - conl'esercizio, per prove ed errori - essa si eleva poco a poco, passando da un grado di conoscenza inferiore ad

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uno superiore. E poiché la vita individuale è breve, occorre una serie indefinita di generazioni, che sitrasmettano l'una all'altra i loro lumi, per portare i germi insiti nella nostra specie a quel grado di sviluppoche corrisponda perfettamente al loro scopo. Senza l'idea di questa età finale, aggiunge Kant, tutti gli sforzisembrerebbero vani, così come le stesse disposizioni naturali. Ma se è vero che tutto in natura ha un fine,conclude Kant, è assurdo pensare che proprio nel caso dell'uomo essa si balocchi in un gioco infantile.

Nella terza tesi Kant sostiene che la natura ha voluto che l'uomo traesse da sé tutto quello che va al di làdell'immediatezza naturale. In altre parole, la natura ha voluto che l'uomo fosse faber fortunae suae, permezzo della sua abilità e della sua ragione. Dice infatti Kant: la natura ha dato all'uomo la ragione e la libertàdel volere; ciò significa che egli non può essere guidato dall'istinto, né da un sapere innato, ma che devericercare e procurarsi tutto da sé. Lo dimostra il fatto che l'uomo è il meno dotato, dal punto di vista fisico,per soddisfare i bisogni essenziali, rispetto agli animali:

pare che qui [nel caso dell'uomo] la natura si sia compiaciuta della sua massima economia e di avercommisurato le qualità animali dell'uomo strettamente, rigorosamente al bisogno supremo d'una esistenzainiziale, quasi volesse che l'uomo dall'estremo della barbarie si conquistasse col proprio lavoro la piùgrande abilità, l'interiore perfezione del pensiero e quindi, per quanto è possibile sulla terra, la felicità, inmodo che egli ne avesse tutto il merito e non dovesse rendere grazie che a se stesso: e con ciò mirasse adestare in lui la stima razionale di sé più che a procurargli un benessere.

Ma qual è il mezzo attraverso il quale si realizzano le disposizioni umane? Esso, spiega Kant nella quartatesi, è l'antagonismo degli uomini in società. Vale la pena di leggere quasi per intero questa tesi, perché sitratta di un argomento di formidabile importanza.

TESI QUARTA. Il mezzo di cui la natura si serve per attuare lo sviluppo di tutte le sue disposizioni, è illoro antagonismo nella società, in quanto però tale antagonismo sia da ultimo la causa di un ordinamentocivile della società stessa.

Io intendo qui col nome di antagonismo la insocievole socievolezza degli uomini, cioè la loro tendenza aunirsi in società, congiunta con una generale avversione, che minaccia continuamente di disunire questasocietà. E' questa evidentemente una tendenza insita nella natura umana. L'uomo ha un'inclinazione adassociarsi, poiché egli nello stato di società si sente maggiormente uomo, cioè sente di poter megliosviluppare le sue naturali disposizioni. Ma egli ha anche una forte tendenza a dissociarsi, poiché egli ha delpari in sé la qualità antisociale di voler tutto rivolgere solo al proprio interesse, per cui si aspetta resistenzada ogni parte e sa ch'egli deve da parte sua tendere a resistere contro altri. Questa resistenza eccita tutte leenergie dell'uomo, lo induce a vincere la sua tendenza alla pigrizia e, spinto dal desiderio di onori, dipotenza, di ricchezza, a conquistarsi un posto tra i suoi consoci, che egli certo non può sopportare, ma di cuinon può neppure fare a meno. Per tale modo si compiono i primi veri passi dalla barbarie alla cultura, checonsiste propriamente nel valore sociale dell'uomo; così a poco a poco tutte le capacità si sviluppano, sieduca il gusto, si pongono mediante una continuata illuminazione le basi di un modo di pensare, che coltempo trasforma in princìpi pratici le rozze disposizioni naturali verso una distinzione morale, e la società,da unione patologica forzata, può trasformarsi in un tutto morale. Senza la condizione, in sé non certodesiderabile, della insocievolezza, da cui sorge la resistenza che ognuno nelle sue pretese egoistiche devenecessariamente incontrare, tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei loro germi in una vita pastoralearcadica di perfetta armonia, frugalità, amore reciproco: gli uomini, buoni come le pecore che essi menano alpascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore maggiore di quello che ha questo loro animaledomestico; essi non colmerebbero il vuoto della creazione rispetto al loro fine di esseri razionali. Sianoallora rese grazie alla natura per la intrattabilità che genera, per la invidiosa emulazione delle vanità, per lacupidigia mai soddisfatta di averi o anche di dominio! Senza di esse tutte le eccellenti disposizioni naturaliinsite nell'umanità rimarrebbero eternamente assopite senza svilupparsi. L'uomo vuole la concordia; ma lanatura sa meglio di lui ciò che è buono per la sua specie: essa vuole la discordia.

Dunque Kant sviluppa un'antropologia realistica, che non nega le caratteristiche "negative" dell'uomo; etuttavia, lungi dall'assumere verso di esse un atteggiamento moralistico o di rifiuto, egli ne sottolinea e neesalta i vantaggi, pronunciando un grande elogio dell'antagonismo. L'antagonismo tra gli uomini,

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determinato dagli egoismi di ciascuno, è la molla del progresso e della civiltà, ciò che consente agli uominidi perfezionarsi, di realizzare le loro disposizioni più alte.

E' proprio tale natura dell'uomo che fa sorgere il problema del diritto. Dice infatti Kant nella quinta tesi: ilpiù grande problema alla cui soluzione la natura costringe la specie umana è di pervenire ad attuare unasocietà civile che faccia universalmente valere il diritto. La costruzione della società civile - o, come diceKant, l'istituzione di una costituzione civile perfettamente giusta - diventa quindi il problema principaledell'umanità: perché solo tale società potrà permettere agli uomini di sviluppare le loro facoltà e dunque direalizzare il loro fine. Ma perché ciò avvenga la società deve possedere due qualità: libertà e coazione.

Poiché solo nella società, e precisamente in quella società in cui si attui, da un lato, la massima libertà, equindi un generale antagonismo dei suoi membri e, dall'altro lato, la più rigorosa determinazione esicurezza dei limiti di tale libertà, affinché essa possa coesistere con la libertà degli altri: poiché, ripeto,solo in una società siffatta il supremo fine della natura, cioè lo sviluppo di tutte le facoltà, può esserenell'umanità raggiunto, la natura vuole ancora che l'umanità debba attuare da se stessa così questi cometutti gli altri fini della sua destinazione.

Dunque Kant teorizza una rigorosa delimitazione delle libertà di ciascuno. La libertà di cui gode l'uomonello stato di natura è infatti distruttiva: le tendenze degli uomini fanno sì che essi non possano vivere alungo insieme in selvaggia libertà. Solo nel chiuso recinto della società civile - dice Kant - le tendenzeumane, regolate secondo diritto, danno i loro frutti migliori. Quella libertà, che fuori della società civilepotrebbe portare all'annientamento del genere umano, all'interno di essa, sottoposta a regole ben precise (lequali altro non sono se non il diritto), diventa un meccanismo altamente creativo, che disciplina gli impulsiumani senza annullarne il contrasto e la lotta.

Giunti a questo punto, è bene precisare che il passaggio dallo stato di natura alla società civile non va inteso,nel pensiero di Kant, in termini di necessità (per evitare i gravi inconvenienti della libertà selvaggia) o diutilità (perché solo nello stato civile l'uomo può raggiungere sicurezza e benessere). Per Kant il passaggioalla società civile non è solo necessario o utile, ma è anche - e in primo luogo - doveroso, ossia è un doveremorale. Se non obbedissero a tale dovere, dice Kant, gli uomini sarebbero ingiusti verso se stessi, perchésolo entrando nella società civile possono sviluppare la loro umanità. Solo così essi possono dominare edisciplinare i propri impulsi e la propria naturalità (e quindi essere veramente uomini), possono garantirsidall'altrui prepotenza (ponendo quindi fine al regno della mera forza) e possono sviluppare e perfezionare leforme più alte della loro umanità. E' vero che Kant non disconosce la dimensione naturale dell'uomo (gliistinti, l'amore di sé, l'egoismo); ma essa costituisce solo la materia grezza che deve poi essere imbrigliata eregolata da scelte consapevoli, perché si realizzi il fine supremo della natura, ossia il pieno sviluppo dellefacoltà umane.

Perché ciò avvenga, come abbiamo già visto, è necessaria la più ampia libertà e, al tempo stesso, delle normeche regolino tale libertà affinché ognuno non prevarichi sull'altro. Di qui discende la formulazione kantianadel diritto:

il diritto è la limitazione della libertà di ciascuno alla condizione del suo accordo con la libertà di ognialtro, in quanto ciò è possibile secondo una legge universale; e il diritto pubblico è l'insieme delle leggiesterne che rendono possibile un tale accordo generale. E poiché ogni limitazione della libertà mediantel'arbitrio di un altro è coazione, ne segue che la costituzione civile è un rapporto di uomini liberi che ...vivono sotto l'impero di leggi coattive.

Libertà e coazione: ecco il binomio inscindibile che caratterizza il diritto. Senza libertà dei singoli - e senzal'urto di queste libertà - il problema del diritto non sorgerebbe nemmeno; senza coazione, la libertà diciascuno sarebbe a rischio, non garantita. La coazione riduce la libertà, ma ne garantisce la coesistenza conla libertà di tutti, secondo una legge universale. Libertà e coazione sono dunque gli elementi fondamentali diuna società civile.

Ma veniamo alla concreta articolazione dello Stato kantiano. Lo stato civile, come stato giuridico, deve

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essere fondato sui seguenti tre princìpi a priori: la libertà di ognuno in quanto uomo; l'eguaglianza di ognunocon gli altri, in quanto suddito; l'indipendenza di ognuno, in quanto cittadino. Che tali princìpi siano a priorisignifica che essi non sono leggi o regole che lo Stato debba stabilire, bensì leggi e regole che sole rendonopossibile la costituzione di uno Stato secondo i princìpi della pura ragione.

Non bisogna infatti dimenticare che la filosofia politica di Kant, come ha osservato Valentini, «segna la piùradicale subordinazione del mondo politico al mondo morale o, se si vuole, del mondo della violenza,variamente esercitata e mascherata, al mondo della ragione». Famosa è la contrapposizione che Kantistituisce tra il mondo della politica e quello della morale. Il primo - regolato dal successo, dalla prudenza edalla riserva mentale - si ispira alle seguenti massime: fac et excusa, si fecisti nega, divide et impera. Laprima massima significa: cogli l'occasione per un'arbitraria presa di possesso e, a fatto compiuto, lagiustificazione si presenterà sempre più facile. Con la seconda si raccomanda invece al "principe" diaddossare sempre a qualcun altro o alla natura dell'uomo la colpa di ciò egli stesso ha commesso; con laterza massima, infine, si invita il "principe" a dividere tra loro i vari capi che lo hanno eletto loro superiore, ea porli in conflitto con il popolo, onde proporsi in conclusione come paladino di quest'ultimo. A questemassime Kant contrappone il comportamento ragionevole, riassunto in quella che egli chiama la formulatrascendentale del diritto pubblico: tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non èsuscettibile di pubblicità, sono ingiuste.

L'inganno e l'astuzia vengono quindi sostituite da un'assoluta lealtà. Qual è, infatti, il significato di un simileprincipio? In linea generale si può rispondere che una massima non suscettibile di diventare pubblica è unamassima che, se mai fosse resa pubblica, susciterebbe tale reazione nel pubblico da rendere impossibile lasua attuazione. Le applicazioni che Kant fa di questo principio, servendosi di due esempi illuminanti,chiariscono nel migliore dei modi il suo significato. Il primo esempio si colloca nel "diritto interno" eriguarda il diritto di resistenza[27]; il secondo riguarda invece il diritto del sovrano di infrangere i pattistabiliti con altri sovrani, e si colloca pertanto nel diritto internazionale. Kant argomenta nel modo che segue.Nel caso del diritto di resistenza

l'ingiustizia della ribellione si rende chiara da questo: che la massima di essa, qualora fosse pubblicamenteconosciuta, renderebbe impossibile il proprio scopo. Perciò dovrebbe essere tenuta necessariamentesegreta.

Quale cittadino, infatti, nel momento stesso in cui accetta il pactum subiectionis, potrebbe dichiararepubblicamente che si riserva il diritto di non osservarlo? E quale valore potrebbe avere un simile patto,qualora fosse riconosciuto questo diritto ai contraenti?

Venendo al secondo esempio, che cosa accadrebbe - si chiede Kant - se un sovrano, nell'atto stesso difirmare un trattato con un altro Stato, dichiarasse pubblicamente di non ritenersi vincolato agli obblighiderivanti da tale trattato? «Accadrebbe naturalmente - risponde Kant - che ognuno lo sfuggirebbe oppurefarebbe lega con altri stati per resistere alle sue pretese», e di conseguenza «la politica con tutte le sueastuzie verrebbe meno al suo scopo, ragion per cui quella massima deve considerarsi ingiusta».

Ma torniamo ai tre princìpi nei quali Kant ravvisa i fondamenti della società civile: libertà, eguaglianza,indipendenza. Il principio della libertà viene formulato nel modo seguente:

nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altriuomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechipregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesisterecon la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri).

Si tratta di una formulazione che rimanda chiaramente alla nozione di libertà come non-impedimento olibertà negativa[28]. La libertà è quello spazio dove non arrivano né i divieti né i comandi di qualsiasi poterecollettivo (e naturalmente la massima espressione del potere collettivo è il potere politico, il potere delloStato): in quello spazio vi è un unico sovrano, l'individuo stesso, il quale può fare tutto ciò che gli aggrada,

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può seguire tutte le inclinazioni che desidera, pur di non ledere l'identica facoltà degli altri individui. Larichiesta - tipicamente liberale - è quella di un'ampia sfera di indipendenza individuale; in altri termini è unarichiesta di limitazione del potere a vantaggio degli individui.

Non a caso, Kant è il pensatore liberale che polemizza nel modo più aspro con il modello del governopaternalistico. Un tale governo, che tratta i sudditi come eterni minorenni, dei quali cerca di fare il bene,costituisce, a suo parere, il peggior dispotismo che si possa immaginare. Lo stato di minorità è infatti lacondizione più lontana dalla dignità dell'uomo: ed infatti per Kant l'Illuminismo rappresenta precisamentel'uscita da tale stato.

L'illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità èl'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questaminorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e delcoraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio diservirti della tua propria intelligenza! - è dunque il motto dell'illuminismo.

Ma per comprendere la vis polemica di Kant contro lo Stato paternalistico è bene anche tenere conto dellasituazione della Germania del suo tempo. Si pensi, ad esempio, a quell'ordinanza del principato di Baden, del1776, nella quale, partendo dal presupposto che il Consiglio di corte fosse il «tutore naturale» dei sudditi, sistabiliva che ad esso competeva «di trattenerli dall'errore e di ricondurli sulla retta via, nonché di insegnarloro, anche contro la loro volontà, il modo in cui devono organizzare l'economia domestica, coltivare i campied alleviare a se stessi, mediante una condizione economica più produttiva dell'azienda, gli oneri dei tributida loro dovuti». Oppure si pensi ancora alle leggi sul lusso, emanate dalla maggioranza dei principi tedeschi,le quali regolavano nei minimi particolari il modello e il costo degli abiti a seconda dell'età, del sesso e delceto sociale, e stabilivano il numero degli oggetti di arredamento, delle carrozze, dei domestici e perfinodelle pietanze, bevande ed ospiti in occasione di feste pubbliche, private e familiari.

Ma torniamo a Kant. La sua polemica anti-paternalistica riflette una visione strumentale e formale delloStato: esso deve limitarsi a garantire quel quadro di regole all'interno del quale si possano realizzareliberamente le energie individuali. Sarebbe un grave errore, ha osservato Bedeschi, sottovalutare la novità ela portata di questa posizione kantiana: «oggi essa fa parte dei nostri comportamenti, del nostro costume,della nostra mentalità, della nostra cultura. Se lo Stato o il potere politico pretendessero di dirigere le nostreattività economiche, sociali, politiche o culturali, noi respingeremmo questa pretesa come il più grave degliattentati. E infatti definiamo totalitari quegli Stati dove questo avviene. Tutto ciò fa talmente parte dellanostra forma mentis che è diventato ormai quasi un dato del senso comune. Ma quanto cammino è statonecessario per arrivare a questo risultato! E non c'è dubbio che Kant costituisce una tappa importante in talecammino»[29].

Venendo al principio dell'eguaglianza in quanto sudditi, questo significa che tutti devono essere egualmentesottoposti alle leggi. E' il principio dell'eguaglianza giuridico-civile. Stesse leggi, stessi diritti, stessi obblighiper tutti, senza eccezioni. Si tratta quindi di un'eguaglianza puramente formale, perfettamente compatibilecon la diseguaglianza economico-sociale. Anche in questo caso è bene tenere presente il contesto storico nelquale Kant operava: i privilegi ereditari erano ancora forti e consistenti, nella Germania dell'epoca. Soltantoai nobili veniva riservato il possesso e l'acquisto di beni fondiari, nonché l'accesso alla carriera di ufficialenell'esercito; i nobili, inoltre, godevano di una giurisdizione civile e penale particolare, e avevano il diritto dicaccia sulle terre coltivate dai contadini, il diritto alla giurisdizione patrimoniale (che competeva alproprietario feudale nei confronti dei propri sudditi), il diritto infine alle innumerevoli prestazioni servili e aiprivilegi derivanti dal sistema feudale che riguardava i contadini (ossia, i due terzi della popolazione tedescadi allora). In un tale contesto, l'eguaglianza formale non era certo una cosa di poco conto: essa consentivainfatti di negare tutti i privilegi di casta dell'ancien régime e di stabilire che ogni cittadino potesse pervenirea quel grado di posizione sociale al quale potevano elevarlo il suo talento, la sua operosità e la sua fortuna,senza trovare ostacoli nelle prerogative ereditarie di altri individui. Nessuno, secondo Kant, può trasmettereper via ereditaria la posizione occupata nello Stato; solo le "cose" - e non ciò che riguarda la personalità -costituiscono beni ereditari. Certo, le concrete condizioni socio-economiche, proprio in virtù del principio

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dell'ereditarietà dei beni, potevano svuotare l'eguaglianza sino a renderla più apparente che reale: ma resta ilfatto che il principio era affermato, e che il tema delle pari opportunità (i cosiddetti diritti sociali) èdecisamente fuori dell'orizzonte storico nel quale opera Kant.

Il terzo principio, quello dell'indipendenza in quanto cittadino, ci conduce al consueto tema della democraziacensitaria. Tutti i pensatori liberali vissuti nel Settecento e nell'Ottocento sono contrari al suffragiouniversale. Essi vogliono i diritti giuridico-civili per tutti, ma riservano i diritti politici ai soli proprietari.Questa scelta ha una motivazione precisa: i diritti politici, dando la possibilità di determinare le sortipolitiche del Paese, richiedono speciali prerequisiti, in genere una cultura sufficiente e un interesse comune;ma soltanto la proprietà, secondo questi autori, permette tanto di studiare (e quindi di raggiungere un livelloculturale che consenta autonoma capacità di giudizio), quanto di condividere realmente gli interessi delproprio Paese. Anche per Kant il diritto di voto spetta dunque a chi è padrone di sé, ossia a chi non dipendeda altri per poter vivere. Restano pertanto esclusi da tale diritto - dice Kant - il domestico, il garzone, ilsalariato giornaliero, il precettore privato: tutti costoro sono operarii. Invece coloro che sono artifices, ossiache possono vendere la loro opera, come l'artigiano, il fittavolo, l'insegnante, l'artista, possono anche esserecittadini (vale a dire, godere dei diritti politici).

Altro problema fondamentale è quello del consenso, che è strettamente legato, nell'ambito del pensierogiusnaturalistico, al modo in cui è stato concepito il contratto. Abbiamo visto che in Locke il potere delloStato è limitato in partenza, per via della cessione ristrettissima dei diritti individuali[30]; nell'ambito in cui siesercita legittimamente, tale potere seguirà le indicazioni della maggioranza. In Rousseau, invece, il pattoprevede la cessione totale dei diritti individuali allo Stato, il cui potere è pertanto illimitato; tale potere verràesercitato seguendo le indicazioni della volontà generale[31]. Anche in Hobbes l'alienazione dei dirittiindividuali era quasi totale, e dunque il potere era pressoché assoluto; inoltre il sovrano, non essendo uno deicontraenti del patto, ma un beneficiario, era in seguito svincolato da qualsiasi problema di consenso[32].Quanto a Kant, anche il filosofo tedesco è un contrattualista; egli pone cioè all'origine della società civile uncontratto originario, per mezzo del quale gli uomini escono dallo stato di natura ed entrano nella societàcivile. Ma Kant considera tale contratto non un fatto storico (anzi, come tale non lo giudica nemmenopossibile), bensì una semplice idea della ragione. Nello scritto Sopra il detto comune "ciò può esser giusto inteoria, ma non vale per la prassi" (1793) egli scrive:

questo contratto è ... una semplice idea della ragione, ma che ha indubbiamente la sua realtà (pratica): cioèla sua realtà consiste nell'obbligare ogni legislatore a far leggi come se esse dovessero derivare dallavolontà comune di tutto un popolo e nel considerare ogni suddito, in quanto vuol essere cittadino, come seegli avesse dato il suo consenso a una tale volontà. Questa è infatti la pietra di paragone della legittimità diuna qualsiasi legge pubblica.

Il contratto è pertanto un'idea, un principio di legittimazione, per mezzo del quale possiamo giudicare larealtà esistente: ogni sovrano deve governare come se le sue decisioni dovessero derivare dalla volontàcomune. Ma la valutazione di tale conformità alla volontà comune è rimessa da Kant all'insindacabilegiudizio del sovrano stesso. Qui le posizioni di Kant coincidono, in sostanza, con il modello (anch'essotipicamente settecentesco) del dispotismo illuminato.

Rispetto a Locke abbiamo dunque, in questo caso, una visione decisamente meno liberale, che infatticonduce Kant - come abbiamo già anticipato[33] - a negare il diritto di resistenza. In Locke il contratto era unaccordo tra popolo e sovrano, caratterizzato da precise clausole, la violazione delle quali, da parte delsovrano, restituiva al popolo i suoi diritti, dandogli la possibilità di resistere al potere (e quindi dirovesciarlo). In Kant, invece, il contratto è solo un'idea, un principio sul quale il sovrano deve regolare il suocomportamento, ma al di fuori di qualsiasi clausola e di qualsiasi controllo che non sia un auto-controllo.Insomma, come ha giustamente osservato Bedeschi, il contratto diventa in Kant una pia intenzione,interpretabile solo dal potere sovrano, senza che il popolo possa esercitare alcun efficace controllo su diesso. Ed infatti Kant nega con forza il diritto di resistenza; in altre parole, bisogna sempre obbedire alloStato, comunque questo si comporti; il divieto di resistenza è pertanto assoluto, cioè non ammette eccezioni.La ragione di una posizione così radicale è spiegata da Kant nel modo seguente: se il popolo avesse il diritto

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di giudicare come viene applicata una costituzione (ed eventualmente, di ribellarsi a tale applicazione) e se ilcapo dello Stato fosse di parere contrario, chi potrebbe decidere da quale parte stia il diritto? Nessuno deidue potrebbe essere giudice in causa propria, ragion per cui dovrebbe esserci, al di sopra del sovrano, unaltro sovrano, capace di giudicare la controversia tra quello e il popolo. Ma ciò significherebbe che ilsovrano non è il vero sovrano. Inoltre, se il popolo avesse il diritto di sindacare l'operato del sovrano, talediritto negherebbe alla radice la sovranità, rendendo incerta ogni costituzione giuridica; e rendendola incertanegherebbe il motivo stesso per cui si è abbandonato lo stato di natura.

Ciò non significa, tuttavia, che il sovrano non sbagli mai. E proprio perché l'errore è possibile, deve esserericonosciuto al cittadino il diritto di manifestare pubblicamente la propria opinione su ciò che egli ritienearrechi ingiustizia alla comunità. E' la famosa "libertà della penna":

dunque - dice Kant sempre nello scritto Sopra il detto comune ... - la libertà della penna, tenuta nei limiti delrispetto e dell'amore per la costituzione sotto la quale si vive dai sentimenti liberali che ispirano i sudditi (lecui penne si limitano reciprocamente da sé per non perdere tale libertà), è l'unico palladio dei diritti delpopolo.

La libertà della penna, esercitata con moderazione e accompagnata dal dovere di ubbidienza, costituisce lostrumento attraverso il quale Kant ritiene che si possa conciliare l'esigenza dell'ordine e della stabilitàdell'autorità con la libertà e il progressivo miglioramento della specie. Kant distingue infatti, nello scrittointitolato Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo? (1784), tra uso pubblico e uso privato dellaragione:

intendo per uso pubblico della propria ragione l'uso che uno ne fa come studioso davanti all'intero pubblicodei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che alcuno può farne in un certo impiego ofunzione civile a lui affidata.

Ora, se nel primo caso gli studiosi devono godere della più completa libertà, nel secondo essi devono ispirarela loro condotta alla volontà del governo; essi possono ragionare liberamente, ma devono obbedire. Adesempio, un ufficiale deve sempre obbedire agli ordini di un suo superiore e non può assolutamente, mentresvolge le sue funzioni di ufficiale, ragionare pubblicamente sull'opportunità di tali ordini; ma nessuno puòimpedirgli, in qualità di studioso, di criticare le strategie militari adottate dallo stato maggiore e di sottoporrele sue opinioni al pubblico. Allo stesso modo, il cittadino non può rifiutarsi di pagare le tasse; ma, comestudioso, può criticare liberamente il sistema fiscale del suo Paese.

Con tale impostazione, è stato rilevato, Kant finisce per teorizzare «una libertà dimidiata, che trova nellavolontà dell'autorità il proprio limite invalicabile. Si può (anzi si deve) ragionare pubblicamente comesembra più giusto, ma si deve sempre e comunque ubbidire». Tuttavia tale soluzione non conduce ad unasorta di immobilismo; l'esigenza di mantenere l'ordine e di preservare l'autorità non soffoca le istanze dirinnovamento: Kant è infatti convinto che quando il dibattito sollevato su un dato argomento dagli studiosiavrà dato luogo ad un'ampia discussione, influendo sulla pubblica opinione, allora le nuove idee, oramaidiffuse e radicate, verranno recepite dall'autorità (la quale è consapevole che anche per lei è vantaggiosotrattare l'uomo in modo conforme alla sua dignità).

La costituzione auspicata da Kant - basata sui tre princìpi della libertà, dell'eguaglianza formale edell'indipendenza - è da lui definita repubblicana e distinta da quella dispotica. In questo caso 'regimerepubblicano' significa quel regime caratterizzato dalla distinzione tra esecutivo, legislativo e giudiziario;'dispotico' è invece quel regime caratterizzato dall'esecuzione arbitraria delle leggi che lo Stato si è dato. Nelregime repubblicano il vero sovrano è il legislativo, al quale l'esecutivo è sottomesso.

Dunque la distinzione tra regime repubblicano e regime dispotico - ruotante intorno alla questione dellastruttura dello Stato - non coincide con la classica divisione delle forme di governo, ossia monarchia (cheKant chiama autarchia), aristocrazia, democrazia. Kant polemizza fortemente con quest'ultima, poiché inessa le assemblee deliberano e governano ad un tempo; è più facile quindi, a suo parere, che sianol'aristocrazia o l'autocrazia ad avvicinarsi allo spirito di un regime repubblicano.

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10. Constant

Cenni biografici

Benjamin Constant nasce a Losanna, in Svizzera, nel 1767, da un'antica famiglia protestante di originifrancesi. La madre muore quindici giorni dopo il parto. Dopo un'infanzia errabonda e disordinata, Constantcompie la propria formazione universitaria tra il 1782 e il 1785, dapprima ad Erlangen (in Germania) e inseguito a Edimburgo.

Dal 1795 è a Parigi, dove (insieme a M.me de Staël) partecipa attivamente alle vicende politiche eintellettuali dell'età termidoriana. Nel 1796 pubblica il De la force du Gouvernement actuel de la France etde la nécessité de s'y rallier, al quale seguiranno, nel 1797, il Des réactions politiques e il Des effets de laTerreur. Nel 1799 viene nominato al Tribunato, dal quale verrà estromesso nel 1802 per le sue battaglied'opposizione. La Germania e la Svizzera (in particolare Coppet) saranno i luoghi del suo esilio, che dureràsino al 1813.

Tra il 1800 e il 1803 lavora ad un grande trattato di politica, che rimarrà inedito. Nel 1806 scrive i Principesde politique; nel 1810 fa copiare i Fragments d'un ouvrage abandonné sur la possibilité d'une constitutionrépublicaine dans un grand pays. Entrambi i trattati rimarranno inediti e verranno alla luce soltanto nellaseconda metà del '900.

Nel 1813, dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia, Constant torna all'attività politica e pubblicistica. Nel1814 pubblica il De l'esprit de conquête et de l'usurpation, che incontra grande successo.

Nell'aprile del 1815, dopo la fuga di Luigi XVIII, accetta la proposta di Napoleone di preparare la nuovacostituzione, che avrebbe dovuto liberalizzare l'Impero. La scelta di Constant, che era stato uno dei piùacerrimi avversari di Napoleone, scandalizza l'opinione pubblica. Sempre nel 1815 dà alle stampe iPrincipes de politique. Nel 1816 pubblica il romanzo Adolphe. Nel 1818 dà alle stampa il Cours de politiqueconstitutionnelle, dove raccoglie la maggior parte dei suoi scritti politici.

Nel 1819 tiene all'Athénée Royal il celebre Discorso intitolato De la liberté des anciens comparée à celledes modernes. Nel marzo delle stesso anno viene eletto alla Camera dei deputati; inizia così la sua lungacarriera parlamentare, che lo vedrà diventare il capo riconosciuto dell'opposizione liberale.

Nel 1822 pubblica i Mémoires sur les Cent-Jours e il Commentaire sur l'ouvrage de Filangieri. Oltre allaininterrotta attività pubblicistica, continua a lavorare, in questi anni, al De la religion, il cui primo volumeappare nel 1824.

Nel luglio del 1830, sebbene vecchio e ammalato, partecipa agli eventi rivoluzionari. Muore l'8 dicembre1830, a 63 anni.

Il pensiero politico

Nonostante la singolare sfortuna della sua opera - studiata poco e male almeno sino a quindici anni fa, etuttora largamente sconosciuta al pubblico dei non addetti ai lavori - Benjamin Constant è senza dubbio unpensatore politico di prima grandezza e uno dei grandi classici del liberalismo. Vorrei dire qualcosa di più.La vicenda di Constant si colloca in quello straordinario periodo di evoluzione storica, politica e culturaleche va dalla Rivoluzione del 1789 a quella del 1830: un periodo nel quale possiamo rintracciare il luogod'origine della nostra identità politica e istituzionale. I princìpi, le ideologie, l'architettura istituzionale epersino il lessico dei nostri sistemi politici sono nati allora e tali sono sostanzialmente rimasti. Noi parliamoancora il linguaggio inventato dalla Rivoluzione francese e ci muoviamo ancora nello "spazio politico"creato dai protagonisti di quegli eventi (si pensi soltanto alla distinzione tra destra e sinistra, che, pur contutti i suoi limiti, continua ad essere la bussola con la quale ci orientiamo nel paesaggio politico). Eventi deiquali Constant fu protagonista, intrecciando in modo indissolubile la propria riflessione con la

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partecipazione alle vicende politiche del suo tempo; nel suo caso, pertanto, sarà necessario partire da unabreve ricostruzione della sua vicenda storico-biografica.

Nato nel 1767 a Losanna, in Svizzera, da un'antica famiglia protestante di origini francesi, e morto a Pariginel 1830, pochi mesi dopo la Rivoluzione orleanista, Constant si rivelerà uno dei protagonisti più irrequieti econtroversi di quella generazione dell'intelligencija europea che visse la propria giovinezza negli annitumultuosi della Rivoluzione, maturò le proprie convinzioni più profonde durante il dominio napoleonico escrisse le proprie opere principali nel periodo della Restaurazione. Egli, tuttavia, a differenza di alcunipensatori a lui contemporanei - come Hegel, ad esempio - non si limitò a seguire con grande passione glistraordinari eventi storico-politici di quegli anni e a sviluppare su di essi una profonda meditazione, ma viprese parte direttamente e attivamente, giocando più volte un ruolo di primo piano, sia con i suoi scritti checon l'azione politica.

Quando approda definitivamente a Parigi, nel 1795, Constant, che ha appena 28 anni, ha già alle spalle unlungo ed errabondo itinerario formativo, che lo ha visto studiare nelle Università di Oxford, Erlangen (inGermania) e Edimburgo. Ma, quel che più conta, egli ha conosciuto e stabilito un'intensa relazioneintellettuale - che diverrà anche una tormentata relazione sentimentale - con Madame de Staël, figliadell'ultimo ministro liberale di Luigi XVI, il banchiere ginevrino Jacques Necker. Ed è proprio insieme all'exministro che Constant, nella residenza di Coppet, ha potuto discutere i grandi problemi politico-istituzionalilasciati aperti dalla Rivoluzione, manifestando un'adesione per i princìpi liberali dell'89 che non rinnegheràmai. Quando giunge a Parigi, tuttavia, l'eredità dell'89 è ad uno dei bivi più drammatici. Dalla congiura diTermidoro - che ha posto fine, nel luglio del 1794, al regime terroristico di Robespierre - è passato pocomeno di un anno e la nuova maggioranza parlamentare sta faticosamente tentando di varare una nuovacostituzione (che andrà in vigore nell'ottobre del 1795 e sarà caratterizzata dalla presenza di un esecutivo piùforte, il Direttorio). L'obiettivo fondamentale del progetto termidoriano è consentire la nascita di un sistemapolitico fondato sulla legalità costituzionale e sul sistema rappresentativo. Contro tale esito, tuttavia, sibattono con forza, da bande opposte, gli eredi di due tradizioni politiche che Constant collocheràprovocatoriamente (ma lucidamente) sullo stesso piano: da un lato, la sinistra giacobina, che vede nelprogetto termidoriano la fine della "democrazia pura", ossia di quel regime - lontano progenitore delledemocrazie totalitarie novecentesche - fondato sulla mobilitazione permanente delle sezioni e dei club, la cuivolontà, priva di limiti, veniva miticamente identificata con la volontà popolare; dall'altro lato, la destramonarchica più retriva, che mira semplicemente a restaurare l'assolutismo regio dell'Ancien Régime. Inquesto quadro, Constant si schiera apertamente con il Direttorio, nella convinzione che questo rappresenti, inquelle date circostanze, l'unico strumento per realizzare i princìpi di libertà proclamati dall'89.

Ma nei vibranti pamphlets constantiani di quegli anni non troviamo soltanto brillanti argomentazioni legatealle situazione politica contingente; in essi già si affacciano temi di grande rilievo teorico. Basti pensareall'interpretazione della Rivoluzione e del Terrore, che ispirerà gran parte della storiografia liberale dell'800.Sulla base di una concezione della storia che assegna alla dimensione etico-ideale un ruolo primario - ildominio del mondo, scrive Constant, «è stato affidato alle sole idee. Sono le idee che creano la forza,facendosi sentimento, passione, entusiasmo. Le idee si formano e si sviluppano nel silenzio, ma esse siincontrano e si accendono al contatto con gli individui. E così, completatesi e rafforzatesi reciprocamente,ben presto si scatenano con un impeto irresistibile» -, in base a tale concezione, dicevo, Constant ritiene chele rivoluzioni si producano là dove si è rotto l'equilibrio tra le istituzioni di un popolo e le sue idee, le sueaspirazioni. Ciò significa che le rivoluzioni costituiscono il "sintomo" e, al tempo stesso, la "cura" di talesquilibrio; ma se esse vanno al di là dei loro obiettivi, si produce una nuova e opposta forma di"degenerazione patologica", la cui conseguenza più evidente è lo svilupparsi della reazione. Ora, secondoquesta concezione, il Terrore non costituisce, come pensano gli scrittori controrivoluzionari, la nefasta einevitabile conseguenza dei princìpi dell'89, né - come teorizzano alcuni scrittori filorivoluzionari - lostrumento terribile ma storicamente necessario per salvare la Rivoluzione, bensì soltanto una degenerazionepatologica, scaturita da un'altra Rivoluzione, che non rispondeva alle reali aspirazioni dei Francesi e che hadeterminato lo svilupparsi della reazione. Mentre la Rivoluzione dell'89, infatti, nasceva dal bisognotipicamente moderno di indipendenza individuale, eguaglianza civile e libertà politica, la Rivoluzione del '93affondava le sue radici nell'aspirazione ad un'eguaglianza forzata e livellatrice e ad un modello politico

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(quello rousseauiano) anacronistico e liberticida. Tra le due Rivoluzioni non si dà, secondo Constant,parentela alcuna. Del resto, fin dalle pagine iniziali del suo primo pamphlet, Constant ha disegnato unamappa etico-politica nella quale trovano posto soltanto due schieramenti: da un lato quello della libertà edell'ordine, ispirato ad una concezione limitata e legale del potere, e dall'altro quello dell'anarchia e deldispotismo, varianti opposte di un unico fenomeno, quel potere arbitrario che scaturisce inevitabilmente dauna sovranità concepita come illimitata (che poi tale sovranità sia esercitata dal re o da una minoranza che siidentifica miticamente con il popolo, cambia poco).

Ma la lotta di Constant perché la rivoluzione si concluda, realizzando quelli che sono i suoi autenticiprincìpi, terminerà con una sconfitta. La Repubblica direttoriale crolla definitivamente il 18 brumaio 1799,quando un ennesimo ma decisivo colpo di mano, ideato da Sieyès per rafforzare l'esecutivo, spiana la stradaall'avventura napoleonica. Ancora una volta il giovane teorico liberale segue gli eventi da vicino. Egli sitrova infatti a Saint-Cloud, dove gli autori del colpo di Stato hanno fatto trasferire, per sicurezza, ilParlamento. Alle sette di sera già circolano le voci sulle decisioni che verranno prese di lì a poco: sostanzialeesautorazione del legislativo e conferimento delle funzioni esecutive ad una commissione composta daSieyès, Ducos e Bonaparte. Constant prende carta e penna e scrive a Sieyès, protestando contro loscioglimento del legislativo, nella convinzione che solo quest'ultimo potrà costituire un argine contro lefortissime ambizioni di Napoleone. Il colpo d'occhio di Constant non potrebbe essere più rapido elungimirante; ma, ancora una volta, le sue parole cadranno nel vuoto. Negli anni che seguono egli riuscirà atrovare posto nel Tribunato, l'unico organismo costituzionale nel quale sopravviva una parvenza di libertà; diqui svilupperà, in nome delle libertà individuali, una limpida battaglia di opposizione, che gli costerà, nel1802, la brusca interruzione della sua carriera parlamentare.

Con l'uscita di scena dal Tribunato, la vicenda di Constant perde la sua aderenza diretta alle vicende storichee politiche. Il ritorno ad una vita privata - una sorta di esilio - non segnerà tuttavia una fase di lungo silenzio,interrotto, come si è a lungo pensato, soltanto dai suoi lavori letterari. Certo: Constant, durante questi lunghidieci anni, partecipa alle attività del circolo di Coppet, scrive il romanzo che lo renderà celebre comeletterato (l'Adolphe), riprende i suoi amati studi sulle religioni e viaggia per la Germania, conoscendoGoethe, Schiller e Schelling. Ma, in realtà, questi sono gli anni forse più fruttuosi anche per il suo pensieropolitico: tra il 1800 e il 1806, infatti, egli elabora una compiuta dottrina politica e costituzionale, che rimarràconsegnata a due poderosi trattati, rimasti inediti per ovvie ragioni politiche e tornati alla luce soltantoquarant'anni fa.

Gli anni dell'esilio si chiudono, per Constant, così come si erano aperti: nel segno di Napoleone. Sel'estromissione dal Tribunato era stata infatti determinata dal crescente dispotismo del Primo Console, sarà lasconfitta dell'Imperatore a segnare il ritorno di Constant alla politica attiva. Dopo la battaglia di Lipsia(1813), Constant pubblica infatti Conquista e usurpazione, un brillante libello antinapoleonico che gli dàlarga fama e segna il suo ritorno sulla scena politica. Negli anni della Restaurazione - al di là della clamorosavicenda dei Cento Giorni (quando Constant accetta di redigere, proprio su incarico di Napoleone, laCostituzione che avrebbe dovuto liberalizzare l'Impero) - egli sarà il protagonista di una lotta ininterrotta, nelnuovo quadro della monarchia costituzionale, per la difesa dei princìpi e degli istituti liberali, sia dai banchidel Parlamento (dove guiderà l'opposizione liberale), sia attraverso le opere che, estratte in gran parte dagliinediti del periodo dell'esilio, verrà pubblicando dal 1814 in poi (tra le più famose i Princìpi di politica e ilCorso di politica costituzionale). Nel luglio del 1830, sebbene vecchio e ammalato, Constant partecipa aglieventi rivoluzionari, redigendo una dichiarazione in favore di Luigi Filippo e aprendo, in barella, il corteoinsurrezionale. Muore pochi mesi dopo.

Come avevo anticipato, ci troviamo di fronte ad un protagonista di primo piano delle straordinarie vicendestorico-politiche e culturali di quegli anni. Se l'espressione non fosse abusata, verrebbe voglia di definireConstant come il prototipo del "filosofo militante", ossia di quel pensatore la cui riflessione si alimenta dipassione civile e si intreccia con la vita politica nel suo senso più ampio e più alto.

Ma veniamo al suo pensiero politico-costituzionale. Non potendo restituirne l'articolazione teorica nella suacomplessità, mi soffermerò su tre punti particolarmente significativi: la critica a Rousseau, la celebre

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distinzione tra libertà antica e libertà moderna e la dottrina costituzionale.

Partiamo dunque dalla critica a Rousseau. Constant distingue nettamente tra quelli che chiama i due princìpidi Rousseau sulla sovranità. Il primo stabilisce che «ogni autorità che governa una nazione deve emanaredalla volontà generale», cioè dall'intero corpo sociale; il secondo consiste nella esplicita riduzione delleclausole del Contratto sociale «a una sola, cioè all'alienazione completa di ogni associato, con tutti i suoidiritti, alla comunità». Tra questi due princìpi, afferma Constant, occorre fare una netta distinzione: il primo,infatti, è «la più salutare delle verità, il secondo il più pericoloso degli errori».

Vediamo perché. Il primo principio attribuisce legittimità soltanto a quel potere che deriva dalla societàstessa, ossia che si fonda sul suo consenso. Si tratta, in buona sostanza, del principio della sovranitàpopolare, in virtù del quale "titolare" del potere è la società nel suo complesso; ne consegue che può definirsilegittimo soltanto quel potere il quale venga esercitato sulla base di un esplicito mandato, conferito dagliindividui che compongono la società. Sebbene Constant sia pienamente consapevole dello sfavore checirconda tale principio in quegli anni (la volontà generale richiamava infatti alla mente la terribile esperienzadel giacobinismo e del Terrore), egli nondimeno si dichiara completamente d'accordo con Rousseau. A menodi non resuscitare la dottrina del diritto divino, afferma il teorico liberale, si dovrà convenire che esistonosoltanto due fonti della sovranità, il consenso o la forza; e soltanto la prima, a suo parere, dà luogo ad unpotere legittimo. Quindi, per quanto riguarda il problema della titolarità - "chi" è il sovrano legittimo - laposizione di Constant coincide con quella del Ginevrino.

Passiamo ora al secondo principio di Rousseau. Esso prevede - come sappiamo e come abbiamo appenaricordato - una cessione dei diritti individuali al potere politico addirittura più larga di quella propostadall'assolutista Hobbes: se per quest'ultimo, infatti, gli individui conservavano almeno il diritto alla vita, perRousseau la cessione dei diritti è totale, senza riserve. Qui Constant si dichiara in completo disaccordo conRousseau: tale principio costituisce, a suo dire, «la giustificazione di ogni dispotismo», giacché il sovrano, inbase ad esso, verrà a disporre di un potere illimitato: nessun diritto individuale potrà essere infatti invocatoper limitare la sfera d'azione del sovrano. Eppure Rousseau aveva escluso che il suo modello comportasserischi liberticidi: in primo luogo, argomentava il Ginevrino, perché la condizione (cioè la cessione totale deidiritti) è eguale per tutti, e quindi nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri; in secondo luogo,perché tale cessione avviene nei confronti della comunità medesima, ragion per cui quei diritti che gliindividui cedono in quanto "privati" li riprendono in quanto "cittadini", ossia in quanto membriperfettamente eguali di quel corpo collettivo che è il sovrano. E poiché il sovrano coincide con il corposociale, è evidente che esso non può nuocere né all'insieme dei suoi membri, né a qualcuno in particolare.

A questa conclusione Constant rivolge una formidabile obiezione "pratica": Rousseau dimentica, egli scrive,che tutte le garanzie offerte da quell'essere astratto che egli chiama il 'sovrano' sono dovute esclusivamenteal fatto che esso si compone di tutti gli individui, senza eccezione alcuna. Ma non appena quel sovrano dovràesercitare praticamente il suo potere, egli - dal momento che non può farlo in prima persona - sarà costrettoa delegarlo a vari organi e, di conseguenza, tutte le garanzie cadranno. Il potere esercitato in nome di tuttisarà in realtà nelle mani di pochi: dunque non è vero, conclude Constant, che la condizione rimane egualeper tutti; così come non è vero che nessuno avrà interesse a renderla più onerosa per gli altri, dal momentoche esisteranno cittadini i quali, di fatto, avranno più potere degli altri.

Ma perché ho definito "pratica" questa obiezione? Perché con essa Constant non mette in discussione ilprincipio della cessione totale dei diritti individuali, bensì la realizzabilità pratica di un sistema in cui igovernanti coincidano con i governati (cioè, della democrazia diretta). La sua obiezione si basa su una lucidae realistica analisi delle nazioni moderne, che si differenziano nettamente da quelle antiche. Mentre le prime,infatti, erano di dimensioni assai ristrette, prevedevano l'esistenza degli schiavi, si basavano essenzialmentesulla guerra e trascuravano il commercio, le seconde sono invece caratterizzate da una grande estensioneterritoriale, da una popolazione assai numerosa e dalla crescente tendenza a procurarsi le risorse necessarieattraverso il commercio, piuttosto che tramite la guerra; le nazioni moderne, inoltre, grazie al progressomorale e culturale, non ammettono più la schiavitù, cosicché quasi tutti i cittadini sono costretti a lavorare;infine, sono caratterizzate da un intenso amore per l'indipendenza individuale. Tutte queste caratteristiche

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rendono semplicemente irrealizzabile la partecipazione diretta e costante di tutti gli individui all'eserciziodella sovranità: il loro numero e le loro attività lavorative non lo permetterebbero comunque, e in ogni casola loro "mentalità" non li spinge in quella direzione. Ne consegue che, anche nelle società basate sulconsenso, i governanti rimarranno distinti dai governati. Ma Rousseau è ben lontano dal realismo e dallalucidità di cui dà prova Constant: egli ha in mente il modello della polis, o meglio, quella versioneidealizzata che ne fa un modello di società organica, coesa e compatta; un modello che sarà alla base anchedelle riflessioni politiche di Hegel e di Marx, e che porterà tutti costoro ad avvertire come laceranti enegative (come "scissioni" da superare) quelle distinzioni - tra società e Stato, tra individuo e cittadino, trapubblico e privato - nelle quali Constant individuerà non solo il contrassegno della modernità, ma anche esoprattutto la garanzia delle sue molteplici libertà e del suo benessere.

Ma torniamo all'obiezione "pratica": la tesi di Rousseau (che sarà poi ripresa dai democratici dell'Ottocento)- appartenendo a tutti, il potere non potrà abusare contro alcuno - cade nel momento della sua traduzione inpratica, perché di fatto il potere viene sempre esercitato da pochi (i parlamentari, i ministri, i vari funzionaridell'amministrazione pubblica). Ne consegue che anche nelle società democratiche rimane in piedi lanecessità di un sistema di garanzie che protegga i cittadini dai possibili abusi del potere. Se tali garanzievengono a mancare, i rischi sono immensi: da un lato, i singoli individui si trovano sottomessi senza riservealla volontà generale; dall'altro, la volontà generale finisce per coincidere con la volontà di quei pochi chedetengono il potere. Si produce così una "beatificazione" del potere sovrano, che rende il "dispotismodemocratico", che si ammanta della legittimazione popolare, ben più pericoloso del "dispotismoautocratico".

Ma la critica constantiana a Rousseau non si ferma all'obiezione "pratica": il modello teorizzato dalGinevrino è considerato pericoloso da Constant non solo perché la democrazia pura e diretta è praticamenteirrealizzabile, ma anche (e soprattutto) perché, qualora lo fosse, sarebbe il peggiore dei dispotismi. Percomprendere l'argomentazione constantiana occorre rifarsi alla sua celebre distinzione tra libertà antica elibertà moderna. Che cosa intende oggi per libertà - si chiede Constant nel famoso Discorso del 1819 - uninglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti d'America? Egli intende

il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, némesso a morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell'arbitrio di uno o più individui. Il diritto diciascuno di dire la sua opinione, di scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua proprietàe anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne ottenere il permesso e senza rendere conto delleproprie intenzioni e della propria condotta. Il diritto di riunirsi con altri individui sia per conferire suipropri interessi, sia per professare il culto che egli i suoi associati preferiscono, sia semplicemente peroccupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Ildiritto, infine, di ciascuno di influire sulla amministrazione del governo, sia nominando tutti o alcuni deifunzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l'autorità sia più o meno obbligata a prenderein considerazione.

La libertà dei Moderni coincide dunque in larga parte con i diritti individuali di libertà: libertà di pensiero,libertà religiosa, libertà economica, libertà di spostamento, libertà di associazione, garanzie giudiziarie. Talilibertà conferiscono agli individui, su ognuna di quelle materie, la facoltà di fare o di non fare, ossia lalibertà di agire a proprio talento, senza che lo Stato li possa ostacolare, né con divieti né con comandi.Ognuno di noi, ad esempio, è libero di riconoscersi (o non riconoscersi) in una qualsiasi religione, oppure didisconoscerle tutte; lo Stato non ha comunque voce in capitolo, se non quella di tutelare le nostre scelteindividuali e di impedire che esse possano ledere i diritti altrui. La libertà coincide, in questo caso, con unacondizione di indipendenza individuale dal potere, con uno spazio privo di ostacoli, sgombro, vuoto: sta anoi usarlo come meglio crediamo. A questo insieme di libertà civili (dette anche libertà "negative" o libertà"private"), che costituiscono il cuore della libertà moderna, si aggiunge poi la libertà politica (detta anchelibertà "positiva" o "pubblica"), che consiste nella possibilità di prendere parte alle decisioni collettive, ingenere tramite l'elezione di rappresentanti.

La libertà degli Antichi, secondo Constant, era invece una cosa ben diversa: essa consisteva

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nell'esercitare collettivamente, ma direttamente, molte funzioni della sovranità, nel deliberare sulla piazzapubblica sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi,nel pronunciare giudizi; nell'esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire dinanzi a tuttoil popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli o assolverli.

Si trattava quindi di una libertà esclusivamente pubblica, consistente nel partecipare direttamente alledecisioni dello Stato. E poiché tali decisioni venivano prese con il concorso di tutti, gli individui - in quantocittadini - erano liberi; come privati, tuttavia, essi non possedevano alcuna libertà, perché la sovranitàcollettiva non riconosceva alcun limite alla propria giurisdizione. La libertà di cui godevano gli Antichi, inquanto cittadini, poteva dunque andare di pari passo con il totale asservimento degli individui.

Ed è precisamente questa la libertà teorizzata da Rousseau: è una libertà che si identifica con l'autonomia delcorpo collettivo, laddove la libertà moderna, secondo Constant, è in larga parte una condizione diindipendenza individuale. Apparentemente si tratta soltanto di due diverse forme di autodeterminazione (equindi di libertà): con la prima siamo liberi perché, direbbe Rousseau, obbediamo alle leggi che noi stessi cisiamo dati; con la seconda siamo liberi perché, spiegherebbe Constant, nessuno può ostacolare le nostrescelte individuali. Rimane tuttavia una differenza: mentre la libertà antica, riproposta da Rousseau, è unaforma di autodeterminazione collettiva, quella moderna, difesa da Constant, è una forma diautodeterminazione individuale. E non è una differenza di poco conto. Risulta evidente, infatti, che nelledecisioni collettive si formano inevitabilmente una maggioranza e una minoranza; e quando non facciamoparte della prima, noi non obbediamo affatto a noi stessi, ma alla maggioranza. O meglio, a quella minoranzache esercita il potere in nome della maggioranza. Ecco perché la democrazia pura, che non attribuisce aicittadini nessuna garanzia in quanto individui, è il peggiore dei dispotismi: perché ciò che nessun tirannooserebbe fare in suo nome, dice Constant, i governanti "democratici" lo possono imporre nel nome delpopolo.

Il contrasto di fondo che oppone Constant a Rousseau riguarda dunque il modo stesso di concepire la libertà:la libertà autentica, secondo Constant, non è quella teorizzata dal Ginevrino, ma quella di cui godono iModerni. Essa consiste in un'ampia sfera di indipendenza individuale, nella quale il potere non ha il diritto diintervenire e che anzi ha il dovere di tutelare. Viceversa, nella società teorizzata da Rousseau leautodeterminazioni collettive (le leggi adottate dal corpo sovrano) sostituiscono totalmente leautodeterminazioni individuali. Non esistono infatti libertà individuali, ma solo libertà collettive. Il corpocollettivo - ossia, il potere dello Stato - può occuparsi di tutto: le leggi possono estendersi a qualsiasi aspettodella realtà, senza incontrare alcun ostacolo. La società allora, in quanto corpo collettivo, sarà totalmentesovrana; gli individui, in quanto singoli, saranno totalmente asserviti. E' questa la libertà che Rousseau e igiacobini hanno proposto alla Francia: una libertà anacronistica, che la Francia non poteva volere e contro laquale si è rivoltata. La libertà dei Moderni, ci dice Constant, è ben diversa: essa consiste in un'ampia sfera diindipendenza individuale, combinata - e non sostituita! - con la libertà politica (beninteso, esercitata tramitela forma rappresentativa). I moderni non vogliono tutele soffocanti o, quel che è peggio, liberticide. Laconclusione di Constant è di quelle inequivocabili: «la libertà individuale, lo ripeto, ecco la vera libertàmoderna».

Attenzione, però. Ciò non significa che Constant intenda rinunciare alla libertà politica; egli infatti aggiungesubito dopo: «La libertà politica ne è [della libertà individuale] garanzia; la libertà politica è quindiindispensabile». Qui Constant esprime con particolare chiarezza il senso della sua posizione: le libertà civilisi devono combinare con la libertà politica, giacché soltanto quest'ultima ci consente di controllare il potere,che tende sempre ad abusare delle sue prerogative; ed il potere, in questa sua tendenza, può trovare unalleato nell'eccesso di privatismo che caratterizza i moderni.

Il pericolo della libertà moderna - scrive Constant, sempre nel Discorso - è che, assorbiti nel godimentodella nostra indipendenza individuale e nel perseguimento dei nostri interessi particolari, noi possiamorinunciare troppo facilmente al nostro diritto a partecipare al potere politico.

Quindi quello di Constant non è un liberalismo angustamente privatistico, come spesso è stato ritenuto (enon solo dalla critica marxista); è viceversa un liberalismo cosciente dei rischi insiti nel privatismo dei

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moderni e consapevole del ruolo insostituibile della partecipazione politica. Ciò non consente, tuttavia, disostenere che Constant sia un democratico: non solo e non tanto perché egli sia contrario al suffragiouniversale (che del resto nessuno proponeva, in quegli anni), ma perché le libertà politiche rappresentano,nel suo pensiero, lo strumento per garantire le libertà civili; le prime sono un mezzo, le seconde un fine.Nella migliore delle ipotesi, si potrebbe sostenere che Constant sia un pensatore liberal-democratico, giacchéha compreso che libertà civili e libertà politiche, indipendenza e partecipazione, devono essere combinate, inquanto la totale politicizzazione dell'esistenza, così come la sua privatizzazione integrale, costituisconopericoli opposti ma simmetrici al mantenimento della libertà dell'uomo. Ma per sostenere che Constant siaun liberal-democratico bisogna assumere che la democrazia sia soltanto il prolungamento e ilperfezionamento quantitativo del liberalismo, cioè che essa non abbia fatto che universalizzare, quando lasituazione storica lo ha consentito, quei diritti politici che, insieme ai diritti civili, il liberalismo aveva giàparzialmente realizzato con il sistema censitario. Tale interpretazione è sicuramente legittima (e a chi viparla non dispiace affatto); è altrettanto sicuro, tuttavia, che essa non rende ragione del del lungo conflittoche ha opposto liberali e democratici nel corso dell'Ottocento, né delle differenze teoriche e assiologiche chetuttora distinguono la tradizione liberale da quella democratica; infine, in essa non si potrà sicuramentericonoscere tutta la tradizione democratica e, in particolare, le sue componenti più pure.

Come abbiamo visto, l'errore di fondo che Constant attribuisce a Rousseau è quello di aver impostato ilproblema della legittimità del potere esclusivamente in termini di titolarità ("chi" è il legittimo titolare delpotere politico?), trascurando completamente la questione dell'estensione ("quanto ampio" deve essere ilpotere politico, a prescindere da chi lo detenga?). La delimitazione a priori della sfera d'azione del potere -con la correlativa istituzione di un'ampia sfera di diritti individuali - costituisce dunque il primo eirrinunciabile passo per garantire la libertà. Senza questa limitazione fondamentale, anche le tecnichecostituzionali, afferma Constant, diventano inutili: si ha un bel dividere il potere, nel senso di assegnarlo adorgani diversi; se la sua somma totale è illimitata, la libertà è persa. Dunque Constant è convinto che lagaranzia fondamentale della libertà risieda nella "limitazione materiale" del potere[34], la quale è a sua voltagarantita dallo spirito pubblico e dalla libertà di stampa. Ma compiuto questo primo fondamentale passo, ècertamente indispensabile procedere all'individuazione di un sistema di forme legali che regoli la struttura el'esercizio del potere ("limitazione formale").

I punti salienti del costituzionalismo constantiano sono la teorizzazione del potere neutro e preservatore, laforte impronta garantista (nel duplice aspetto dell'indipendenza della magistratura e delle garanziegiudiziarie) e l'insistenza sull'importanza del potere municipale (e dunque di forti autonomie locali). Prima diaddentrarci nell'esame del sistema costituzionale non resta che fare cenno all'evoluzione del suo autore, cheda repubblicano divenne monarchico. Come è stato opportunamente osservato, tale cambiamento nonimplica questioni di principio, ma si risolve in una questione prevalentemente tecnica. Constant concepiscela dottrina costituzionale come una "dottrina dei mezzi", rispetto a quei "fini" che vengono individuati dallateoria politica. Ora, circa i fini della politica Constant non ha mai cambiato idea, dagli anni del Direttorio aquelli della Restaurazione. Non a caso, nel 1815, quando dà alle stampe i Princìpi di politica, egli scrive:

spesso, nelle ricerche che vado pubblicando, si ritroveranno non soltanto le stesse idee, ma le stesse paroledi miei precedenti scritti. Presto saranno venti anni che mi occupo di considerazioni politiche e ho sempreprofessato le stesse opinioni, formulato i medesimi voti. Allora domandavo la libertà individuale, la libertàdella stampa, l'assenza di arbitrio, il rispetto per i diritti di tutti. E' ciò che reclamo oggi con zelo nonminore e con più grande speranza.

Ma non è soltanto sul piano dei princìpi politici che si può riscontrare una indiscutibile coerenza. Anche sulpiano dei mezzi costituzionali si dà una sostanziale continuità: i princìpi ispiratori e l'architetturacomplessiva del costituzionalismo constantiano rimangono infatti immutati, sia nella versione repubblicana(sino al 1803), sia in quella monarchica (nel 1814-15). In breve: il passaggio dalla forma repubblicana aquello monarchica nasce dall'adattamento dei mezzi alle circostanze storiche e politiche. Dopo il 1814Constant è convinto che la soluzione monarchico-costituzionale rappresenti l'unica strada, nell'Europa dellaRestaurazione, per conciliare libertà e stabilità.

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Ma veniamo all'assetto dello Stato constantiano, che vede il potere sovrano suddiviso in cinque poteri. Inprimo luogo, abbiamo il potere neutro e preservatore, che nella versione repubblicana veniva attribuito ad unorgano costituito ad hoc, mentre nella versione monarchica viene attribuito al re. Si tratta di uno dei tratti piùoriginali del costituzionalismo constantiano: il potere preservatore ha lo scopo di intervenire, quale supremogarante dell'organismo costituzionale, ogniqualvolta quest'ultimo sia minacciato dall'urto tra i poteri attivi(ossia, tra l'esecutivo e il legislativo). Le ragioni che spingono Constant a escogitare tale istituto - modellatosulle funzioni arbitrali del monarca costituzionale inglese - vanno collocate nella tormentata vicendarivoluzionaria della Francia: dopo l'89, infatti, la Francia era andata incontro ad una serie impressionante difallimenti costituzionali, tutti derivanti dal fatto che il legislativo e l'esecutivo si erano svincolati, a turno, dailoro limiti, finendo per distruggere le garanzie costituzionali. Così era avvenuto con la Convenzioneegemonizzata da Robespierre, e così si era ripetuto con il Direttorio di Barras, sino a culminare neldispotismo napoleonico. Il potere preservatore è chiamato a risolvere questi problemi, ossia a svolgere lafunzione di giudice supremo degli altri poteri: quando questi entrano in contrasto irrimediabile tra di loroesso interviene, ricorrendo alle temibili armi dello scioglimento (del legislativo) o della destituzione(dell'esecutivo). Ma per assolvere un simile compito, il potere preservatore deve possedere le caratteristicheche gli consentano di essere realmente imparziale, ossia egualmente distante dagli interessi dell'esecutivocome da quelli del legislativo. E' a questo scopo che Constant lo qualifica come potere neutro, ossia non-attivo; ciò significa che in nessun caso esso potrà sostituirsi - esercitando in modo vicario funzionilegislative o esecutive - ai due poteri che deve giudicare. E significa altresì che i suoi provvedimenti sarannoesclusivamente politici: ad essi non dovrà seguire l'irrogazione di alcuna pena. Se nella fase repubblicana la"terzietà" ed indipendenza del potere preservatore viene raggiunta con un complesso congegno dimeccanismi istituzionali, nella fase monarchica esso verrà affidato semplicemente al monarca, il quale, invirtù della sacralità della sua persona, è perciò stesso superiore ed equidistante rispetto agli altri poteri. Ciòimplica, come è facile intuire, che nel costituzionalismo constantiano il potere del re sarà soltanto un potereneutro e che pertanto il monarca non eserciterà direttamente né funzioni esecutive, né funzioni legislative.Esso costituirà il punto di equilibrio sul quale poggia l'intero sistema, impedendo che questo degeneri informe arbitrarie, siano queste di tipo assembleare o governativo.

Al potere rappresentativo Constant riconosce un ruolo cruciale: nessuna libertà può esistere in un grandepaese, egli afferma, senza assemblee forti, numerose e indipendenti. Nella fase monarchica del suo pensieroConstant scinde tale potere in due rami: il potere rappresentativo durevole (la Camera alta, di tipo ereditario)e il potere rappresentativo dell'opinione (la Camera bassa, di tipo elettivo). L'istituzione della Cameraereditaria è resa necessaria, secondo Constant, dall'esistenza del monarca ereditario: in un paese che respingaogni distinzione di nascita non si potrebbe certo accettare che la suprema carica dello Stato sia ereditaria. Lamonarchia ne verrebbe quindi indebolita, e ciò sarebbe esiziale per l'organismo costituzionale, visto il ruoloassegnatole di potere neutro e preservatore. Sotto questo punto di vista, quindi, la Camera ereditaria svolgeuna funzione difensiva nei confronti del potere reale; ma essa svolge, al tempo stesso, anche una funzionelimitativa, dal momento che la carica di Pari, una volta assegnata, diventa ereditaria, e quindi fa sì che ilmembro della Camera alta entri in una condizione di effettiva indipendenza dal potere reale. Infine, lapresenza di due Camere - l'una ereditaria, l'altra elettiva - dovrebbe garantire un equilibrio dinamico alsistema politico-costituzionale, consentendo l'incontro tra le esigenze di ordine e continuità e le istanze ditrasformazione proprie di una civiltà in evoluzione.

Il potere esecutivo viene denominato potere ministeriale, per sottolinearne la sua distinzione dal potere reale.Nella versione del 1815 esso viene nominato (ed eventualmente revocato) dal re ed esercita, sulla base dellafiducia congiunta del monarca e della camere, le funzioni di governo. Fondamentale, in questo ambito, ilprincipio della responsabilità dei ministri e dei funzionari inferiori, che Constant afferma con forza. Iministri possono essere accusati per tre motivi: per abuso del loro potere legale; per atti illegalipregiudizievoli all'interesse pubblico; per attentati contro la libertà. In quest'ultimo caso i ministri rientranonella classe dei cittadini, e quindi devono essere giudicati dai tribunali ordinari; nei primi due casi, invece,essi devono rispondere ad un tribunale speciale, costituito dalla Camera dei Pari. Mettere sotto accusa deiministri, infatti, è come intentare un processo tra il potere esecutivo e il potere del popolo; occorre pertantoindividuare un giudice che abbia un interesse parimenti distinto da entrambi i contendenti; ed è precisamentequello che accade con la Camera ereditaria. Ma non è sufficiente aver istituito la responsabilità per i ministri;

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essa deve venire estesa a tutti i gradi della pubblica amministrazione. Se si punisce soltanto il ministro chedà una disposizione illegale e non il funzionario che la esegue - osserva Constant - si colloca la riparazionetanto in alto da non poterla spesso conseguire. I funzionari non possono invocare il principiodell'obbedienza, perché questa non può mai essere cieca; essi risponderanno pertanto dei loro errori di fronteai tribunali ordinari.

Quanto al potere giudiziario, esso - nella versione monarchica - viene nominato dal re e trova nel principiodella inamovibilità la garanzia della propria indipendenza. Accanto ad esso, tuttavia, si devono prevederepene severe per quei giudici che si allontanino, nell'esercizio delle loro funzioni, dall'osservanza delle leggi;inoltre per il cittadino deve sempre essere prevista la possibilità di appellarsi contro una sentenza. Laconcezione garantista di Constant si fonda infine su altri tre capisaldi: il sistema della giuria, l'affermazionedei diritti dei condannati e il rigoroso rispetto della forme legali. Il giurato, dice Constant, giudica comegiudicherebbe il buon senso di ogni individuo, come giudicherebbe lo stesso accusato se non si trattasse di sestesso. Vale la pena di ricordare, sia pure per inciso, che per Constant il sistema della giuria contribuisce inmodo fondamntale alla formazione di un'etica civile, perché chiama qualsiasi cittadino alla conoscenza delleleggi e dell'amministrazione pubblica e lo solleva alla considerazione dei princìpi che tutelano la sua libertàe la sua sicurezza. Per quanto riguarda i condannati, Constant sostiene che essi non devono vedere gravataarbitrariamente la propria pena: questa deve essere proporzionata alla colpa, priva di qualsiasi supplizio cheleda la dignità umana e irrogata sulla base di leggi precedenti il delitto. Il diritto di grazia rappresenta infinel'ultima risorsa contro l'inevitabile inconveniente delle leggi, vale a dire il loro carattere generale e astratto,che non può prevedere le infinite sfumature della realtà. Quanto alle "forme legali", Constant osserva comespesso si invochi la loro attenuazione o abolizione allegando il pretesto della sicurezza pubblica. Contro latentazione ricorrente della "giustizia sommaria", Constant adduce due argomenti fondamentali: in primoluogo, le forme legali sono una salvaguardia e dunque la loro soppressione equivale all'irrogazione di unapena; ma sottomettere l'accusato a questa pena è come punirlo prima di averlo giudicato. In secondo luogo,tali forme o sono necessarie o sono inutili: se sono inutili, si chiede Constant, perché conservarle nei processiordinari? E se sono necessarie, perché privarsene nei processi più importanti?

Quando si tratta di una colpa leggera e quando l'accusato non è minacciato nella vita o nell'onore - scriveConstant - la sua causa viene istruita nel modo più solenne ... ma quando si tratta di un misfatto spaventoso,e quindi dell'infamia e della morte, si sopprimono d'un colpo tutte le garanzie! si chiude il codice delleleggi, si abbreviano le formalità! come se si pensasse che quanto più un'accusa è grave, tanto più siasuperfluo esaminarla.

L'ultimo pilastro dell'edificio costituzionale constantiano è il potere municipale, che consiste in sostanza inuna articolata rete di poteri locali, ai quali vengono assegnate competenze amministrative sulla base di uncriterio territoriale. Vale la pena di sottolineare l'importanza di una simile innovazione, che precede di quasicinquant'anni le ben più celebri riflessioni di Tocqueville sui pregi dell'autogoverno e sui difetti delcentralismo amministrativo. Con l'istituzione di un potere locale, al quale vengono riconosciute sfere diautonoma competenza, Constant ha infatti tentato di impedire, come è stato giustamente osservato, che laFrancia fosse rinchiusa nella costrizione di una centralizzazione dalla quale essa uscirà, a fatica, solo allafine del XX secolo.

11. Hegel

Cenni biografici

Georg Wilhelm Friedrich Hegel nasce nel 1770 a Stoccarda, dove compirà gli studi ginnasiali. Nel 1788 siiscrive all'Università di Tubinga, dove si dedica a studi teologici e filosofici e dove stringe vincoli diamicizia con Hölderlin e Schelling.

Terminati gli studi, nel 1793 si trasferisce a Berna, dove fa il precettore; è a questo periodo, tra il 1793 e il1796, che risalgono alcuni importanti scritti giovanili.

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Nel 1797 si trasferisce a Francoforte, di nuovo come precettore. A questo periodo risalgono scritti filosoficiassai importanti, come Lo spirito del cristianesimo e il suo destino. Compone anche un commentarioall'opera sull'economia politica di Steuart e inizia il saggio che verrà pubblicato postumo con il titolo Lacostituzione della Germania.

Nel 1799, grazie all'eredità paterna, può abbandonare il precettorato e dedicarsi interamente agli studi. Nel1801 si abilita all'insegnamento accademico all'Università di Jena. In quella città pubblica il saggio intitolatoDifferenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling e, insieme a quest'ultimo, cura la pubblicazione del"Giornale critico della filosofia". All'Università tiene corsi di logica, filosofia della natura e filosofia dellospirito. Nel 1805 viene nominato professore straordinario.

Nel 1806, durante l'occupazione francese, Hegel deve sospendere la propria attività. Alla fine dell'anno sitrasferisce a Bamberga, dove, nel 1807, pubblica la Fenomenologia dello spirito. Sempre a Bamberga Hegelsi occupa come redattore della locale gazzetta.

Nel 1808 si trasferisce a Norimberga, dove viene nominato preside del locale ginnasio. Tra il 1812 e il 1816pubblica la Scienza della logica.

Nel 1816 viene nominato professore di filosofia all'Università di Heidelberg. Nel 1817 pubblical'Enciclopedia delle scienze filosofiche e il saggio politico intitolato Valutazione degli atti a stampadell'Assemblea dei deputati del regno del Württemberg negli anni 1815 e 1816.

Nel 1818 viene nominato professore all'Università di Berlino. Nel 1821 pubblica la Filosofia del diritto.L'insegnamento berlinese di Hegel ha enorme risonanza, non solo in Prussia, ma in tutta la Germania colta.

Nel 1822, 1824 e 1826 Hegel compie alcuni viaggi all'estero (in Belgio e in Olanda, a Praga, a Vienna e aParigi). Nel 1830 viene nominato rettore dell'Università di Berlino. Muore nel novembre del 1831, colpitodal colera.

Il pensiero politico

Nella storia del pensiero filosofico Hegel rappresenta una presenza ingombrante, con la quale, nel bene o nelmale, è necessario fare i conti:

da qualsiasi parte si guardi alla filosofia contemporanea - scriveva Bobbio nel dopoguerra - Hegel stasempre in mezzo, e sembra, con la sua gigantesca mole quasi precludere la vista di ciò che sta al di là.Hegel è l'inizio, oltre il quale si può anche non andare; ed è l'inizio proprio perché è insieme la conclusionedi tutto quello che lo precede. Tutte le strade conducono ad Hegel; o, che è lo stesso, tutte le strade partonoda Hegel.[35]

Ed infatti due tra le principali correnti della filosofia contemporanea sono state in qualche modo ricondotte,più o meno persuasivamente (ma sempre con qualche ragione), a Hegel: è successo con il marxismo (Marxed Hegel), così come è accaduto con l'esistenzialismo (Kierkegaard e Hegel, Sartre ed Hegel, Heidegger edHegel). A ciò si aggiungano le tradizionali interpretazioni idealistiche di Hegel (secondo la linea Kant,Fichte, Schelling), le interpretazioni irrazionalistiche, che vedono nel pensatore di Stoccarda un teologo e unmistico, e quelle posizioni che si riconnettono ad Hegel in nome dello storicismo.

Il fatto è che il pensiero di Hegel rappresenta l'ultima grande sintesi filosofica, l'ultimo tentativo di costruireun sistema filosofico unitario, totalizzante ed esaustivo. Non è certo questa la sede per esporre, o anche solotratteggiare, un simile sistema filosofico. Vorrei però riuscire ad illustrarne alcune caratteristiche, perchérisultino più chiari, in seguito, taluni aspetti del suo pensiero politico.

Di Hegel - e del suo idealismo assoluto - sono state avanzate, come dicevo, moltissime interpretazioni, cheaccentuano aspetti diversi della sua opera; tuttavia, anche se con notevole semplificazione, taliinterpretazioni possono essere ricondotte a due posizioni principali.

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La prima vede in Hegel l'ultimo grande teologo cristiano. La sua sarebbe una filosofia di ispirazionereligiosa, perché avrebbe al suo fondo un tema tipicamente religioso: il rapporto tra finito e infinito. Hegel -come i suoi amici romantici - sarebbe stato, sin dai suoi anni giovanili, appassionato e tormentato dal tema (edal bisogno) dell'Assoluto. Da questo punto di vista, la cultura illuministica, imperniata sulle regole di unintelletto chiaro e distinto, appare ad Hegel e ai romantici tedeschi come una cultura priva di contenuto e divita, astratta e dualistica. Essa ha separato la ragione dal sentimento, la vita pubblica da quella privata,l'individuo dallo Stato, l'uomo da Dio; ha ridotto la natura ad un meccanismo quantitativo; ha prodotto unadefinizione astratta dell'uomo, nella quale si è persa tutta la particolarità del singolo, derivante dalla suaappartenenza nazionale, della sua cultura, in una parola, della sua storia. La conoscenza intellettuale tipicadell'Illuminismo, procedendo per concetti generali e astratti, logicamente concatenati, avrebbe prodotto unprogressivo allontamento dalla realtà con tutta la sua ricchezza e la sua molteplicità; inoltre avrebbe prodottouna serie infinita di dualismi, che hanno separato l'uomo da tutto ciò con cui l'uomo è intimamente legato,rendendolo così scisso e infelice.

Questa critica all'Illuminismo - che nasce dal bisogno di unità e di conciliazione, dalla ricerca dell'Assoluto -è comune tanto ad Hegel quanto alla cultura romantica. E in ciò sta lo sfondo religioso di queste posizioni:ogni ricerca di assoluto è infatti, in quanto tale, una ricerca di tipo religioso. Ma la risposta di Hegel a questobisogno sarà diversa da quella degli altri protagonisti del Romanticismo: egli, infatti, per recuperare ilrapporto con l'Assoluto non si affiderà al sentimento, al sapere immediato o alla fede, ma alla ragione. Sitratterà - naturalmente - di una ragione ben diversa da quella degli illuministi: non il cartesiano intellettochiaro e distinto, che si rifà al modello del sapere matematico-geometrico, ma una ragione speculativa edialettica, capace cioè di accogliere dentro di sé tutta la ricchezza e la contraddittorietà del reale, in unquadro organico. In questa prospettiva il mondo apparirà ad Hegel come la manifestazione di uno spiritoinfinito, manifestazione che tuttavia è oscura e incompleta e che la filosofia ha il compito di chiarire epenetrare. La filosofia speculativa dovrà insomma consentire quella riconciliazione dell'infinito con il finito,di Dio con il mondo, che neppure il Cristianesimo è riuscito a condurre a compimento. Riconciliazionesignifica superamento di tutti i dualismi e ritorno alla totalità perduta; quando questa totalità sarà raggiunta,per opera dell'uomo, il finito avrà acquistato un valore infinito.

Alcuni critici sostengono dunque che al fondo della filosofia di Hegel vi sarebbe un problema di salvezza. Inquesto senso essa sarebbe una filosofia religiosa, anzi l'ultima filosofia cristiana e forse l'ultima grandeteologia: la filosofia di Hegel altro non sarebbe altro che una ricerca di Dio, la quale sfocia in una grandiosateodicea. La dialettica sarebbe lo strumento per cogliere questo risultato. L'Assoluto non può che essere,infatti, qualcosa di profondamente unitario e organico; non può che essere una totalità. Ma soltanto ladialettica consente di cogliere una simile entità, perché essa va al di là dell'intelletto - il quale vede dualismiovunque: spirito e natura, natura e storia, ragione e sentimento, interno ed esterno, soggettivo e oggettivo,finito e infinito -, scoprendo che il ritmo stesso della realtà è divenire, ossia passaggio di sé ad altro da sé pertornare infine in sé. L'idea che l'attività spirituale (che per Hegel è la realtà stessa) sia questo divenire, questopassaggio continuo, gli consente di superare tutti i dualismi cui abbiamo fatto cenno, per comporre unquadro unitario, che tuttavia non perde nulla della molteplicità del reale.

Se si riflette su quanto ho appena detto, si possono forse già cogliere le fondamenta dell'altra interpretazionedi Hegel, quella che vede in lui il fondatore dello storicismo, ossia di una filosofia laica, totalmenteimmanente, che si contrappone frontalmente alla religione, o che comunque la considera superata dallafilosofia: l'al di là - in questa prospettiva - non sarebbe che un falso problema, perché esiste solo l'al di qua.L'Assoluto, insomma, altro non è che la realtà stessa, il mondo, la storia. Avevo detto, poco fa, che lariconciliazione con l'Assoluto viene raggiunta per opera dell'uomo, il quale acquista in tal modo un valoreinfinito. Per essere più precisi dovremmo dire che scompare il dualismo di finito e infinito, e ci poniamofinalmente dal punto di vista dell'Assoluto. Ma poiché tutto ciò è realizzato dall'uomo e si compie nellastoria, Dio e la Storia coincidono, tanto è vero che la storia, per Hegel, altro non è che la vera teodicea, cioèla vera dimostrazione di Dio. Ma in tal modo sono poste le basi per una concezione totalmente immanente:Dio, infatti, non è al di là, non è qualcosa di diverso dal mondo e di trascendente rispetto ad esso; il veroinfinito è il finito stesso, e non c'è quindi un altro orizzonte al di là della storia dell'uomo. In questa

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prospettiva la filosofia di Hegel può essere interpretata come una filosofia radicalmente immanentistica oatea (sia nella versione marxista, e quindi con forti connotazioni politiche, sia in quella heideggeriana, equindi con forti connotazioni esistenzialistiche).

Comunque la si voglia interpretare - ultima grande filosofia cristiana e quindi ultima grande teologia, oppureprima grande filosofia laica o atea - l'opera di Hegel rimane in ogni caso l'ultimo tentativo di conciliare lafilosofia con la realtà, tanto sul terreno politico quanto su quello religioso:

la verità - scrive ancora una volta Bobbio - è che il sistema di Hegel, nella sua complessità, le comprendetutte e due [le interpretazioni]: la filosofia di Hegel è una teologia mondana.

Tutto l'interesse di Hegel è infatti concentrato su questo mondo: e in ciò hanno ragione le interpretazioniimmanentistiche o atee (siano esse marxiste o esistenzialistiche o storicistiche). Ma le categorie con cuiviene compreso questo mondo sono categorie teologiche. La storia è per Hegel, come accade nelleconcezioni teologiche e trascendenti, il dramma dell'uomo alienato. Ma a differenza delle concezioniteologiche, la riappropriazione, che restituisce l'uomo a se stesso e segna la fine del dramma storico,appartiene a questo mondo. La sua è dunque sì una teologia, ma una teologia secolarizzata, immanente. Lastessa che ritroveremo in Marx.

Passiamo ora a vedere il pensiero politico, cercando di tenere presenti alcuni dei concetti che abbiamoappena illustrato: la polemica contro l'astrattezza e i dualismi della cultura illuministica; l'idea dellafondamentale unitarietà della realtà; la filosofia come conciliazione con questa realtà; infine, l'Assoluto (cheè poi la realtà stessa) come totalità organica, ossia come entità nella quale le singole parti mantengono la loroindividualità, ma solo convergendo a realizzare un'unità, un fine comune senza il quale non sarebberonemmeno concepibili.

Cominciamo col dire che Hegel ebbe sempre un vivissimo e appassionato interesse per la politica, intesa nelsuo significato più ampio: non solo, quindi, gli eventi immediatamente politici, ma anche le vicendeprecedenti che ne spiegano la genesi e permettono di intenderne le linee di sviluppo; non solo gli aspettipolitico-istituzionali e politico-diplomatici, ma anche i processi sociali che stanno al di sotto di essi (Hegel siinteressò molto di economia, sulla qual cosa hanno ovviamente insistito soprattutto gli interpreti marxisti).

Il primo scritto di Hegel, rimasto inedito fino al 1893, si intitola la Costituzione della Germania ed è assaiinteressante per tre ragioni: il primo è la rivendicazione appassionata dell'unità tedesca; il secondo, connessoal primo, è il giudizio di Hegel su Machiavelli; il terzo è che in esso troviamo già, sia pure in nuce, tutti glielementi che informeranno la concezione hegeliana dello Stato.

Quanto al primo punto, la Costituzione della Germania si apre con una secca e drammatica constatazione:«la Germania - dice Hegel - non è più uno Stato». L'infinito bisogno di unità politica - per usareun'espressione del Rosenkranz[36] - è la molla che muove tutto il lavoro: da tale bisogno scaturisce ilparallelo tra l'Italia di Machiavelli e la Germania di quel tempo, entrambe disarticolate e frammentate in unamiriade di Stati e staterelli; e da questo parallelo nasce l'appassionata difesa che il filosofo tedesco fa delpensiero di Machiavelli. Ma ascoltiamo le parole dello stesso Hegel.

Nel tempo della sventura, quando l'Italia correva verso la sua miseria ed era il campo di battaglia delleguerre che i prìncipi stranieri conducevano nelle sue regioni, e insieme forniva i mezzi per le guerre ecostituiva il prezzo di esse, quando essa affidava la sua propria difesa all'assassinio, al veleno, altradimento o alle passioni della plebaglia straniera, le quali per i suoi assoldatori erano costose edevastatrici e ancor più spesso temibili e pericolose, mentre poi tra i suoi condottieri alcuni si elevavano aprìncipi; quando Tedeschi, Spagnoli, Francesi e Svizzeri la saccheggiavano e governi stranieri decidevanosulla sorte di questa nazione: allora, nel profondo sentimento della generale miseria, dell'odio, delloscompiglio, della cecità un uomo di Stato italiano con fredda assennatezza concepì l'idea necessaria dellasalvezza dell'Italia attraverso la sua unione in un solo Stato. Egli descrisse con rigorosa coerenza la via cherendevano necessaria tanto questa salvezza quanto la corruzione e il cieco furore del tempo; e chiamò il suoprincipe ad assumersi l'elevato ruolo di un salvatore dell'Italia e la gloria di porre fine alla sventura [...].

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Hegel difende con vigore Machiavelli dalle accuse che gli sono state tradizionalmente rivolte: in primoluogo, egli dice che un uomo che parla con una passione così vera e profonda non poteva avere né«abiezione nel cuore, né capriccio per il capo». Il suo fine, poi, basterebbe a rendergli onore: riunire ilpopolo in uno Stato. Solo nello Stato, infatti, è possibile, secondo Hegel, la libertà; lo Stato è una dellemanifestazioni più alte dell'eticità dell'uomo, ossia della sua capacità di uscire dal particolarismo,dall'egoismo, dalla ristretta sfera dei bisogni individuali. Ma invece di vedere nel Principe un'opera animatada un intento così alto, prosegue Hegel, si è visto in esso soltanto un manuale di tirannia. E c'è di più: neicasi in cui è stata riconosciuta la nobiltà del fine, è stata tuttavia aspramente criticata la scelta dei mezzi. QuiHegel attacca con durezza tale posizione, nella quale vede un tipico esempio della "morale comune":

e se esso [il fine nobile] è pur concesso, però, si dice, i mezzi sono esecrabili e qui la morale ha un'ampiapossibilità di tirar fuori le sue trivialità, che lo scopo non santifica i mezzi, ecc. Qui però non si può parlaredi alcuna scelta di mezzi: le membra cancrenose non possono esser curate con l'acqua di lavanda. Unasituazione in cui veleno e assassinio sono divenute armi consuete, non sopporta nessun blando antidoto.Una vita vicina alla putrefazione può essere riorganizzata soltanto attraverso il comportamento piùenergico.

La morale comune è per Hegel individualistica e astratta, proprio perché l'individuo - considerato al di fuoridi quei legami che lo avvincono alla società, allo Stato, al suo tempo - non è che un'astrazione. Occorredunque considerare il tempo e le condizioni dell'Italia di Machiavelli, per comprendere i mezzi proposti dalFiorentino; e non giudicarli da quel non-luogo e non-tempo nel quale si colloca l'ideale astratto.

Il terzo argomento con il quale Hegel difende Machiavelli è sulla stessa linea, ossia si basa sul richiamo allastoria:

è sommamente irrazionale il trattare l'esecuzione di un'idea che è sorta immediatamente dall'osservazionedella situazione dell'Italia come un compendio di princìpi politico-morali onnivalente, per tutte lecircostanze, cioè adatto a nessuna situazione specifica. Si deve giungere alla lettura del Principeimmediatamente dalla storia dei secoli trascorsi prima di Machiavelli, con l'impressione che questa ci hadato; esso così non solo viene giustificato, ma apparirà come una concezione sommamente grande e vera diuna autentica mente politica di grandissimo e nobilissimo sentire.

Ma al di là di queste argomentazioni, è l'idea stessa di costituire lo Stato che, agli occhi di Hegel, possiedeun infinito valore e che deve farci valutare il comportamento del Principe in tutt'altro modo:

da questo lato il comportamento del Principe appare sotto tutt'altro aspetto. Ciò che, qualora fosse compiutoda un privato, sarebbe esecrabile, è ormai una giusta punizione. Verso uno Stato l'effettuazionedell'anarchia è il delitto supremo, o piuttosto l'unico delitto; poiché tutti i delitti di cui lo Stato s'interessamettono capo ad esso; e quelli che aggrediscono lo Stato stesso non mediamente come gli altri delinquenti,bensì immediatamente, sono i più grandi delinquenti e lo Stato non ha nessun dovere superiore a quello diconservare se stesso e di annientare nel modo più sicuro la potenza di questi delinquenti.

Ancora una volta, proprio come in Machiavelli, lo Stato è il bene supremo e dunque l'assenza di Stato è ilmale peggiore: non c'è un principio che superi lo Stato. E dunque l'obiettivo politico è in tal misura "etico",che - sostiene Hegel pensando alla situazione della Germania - va perseguito, se necessario, con la forza:

la massa comune del popolo tedesco con i suoi stati regionali, che non vogliono sapere altro che lascissione delle popolazioni tedesche e ai quali la riunificazione di esse è qualcosa di estraneo, dovrebbeesser riunita in un solo corpo attraverso la forza di un conquistatore; essi dovrebbero esser costretti aconsiderarsi appartenenti alla Germania.

Ma che cos'è uno Stato, per Hegel? E' qualcosa di organico, di coeso e compatto; è un "intero", una totalitàorganica rispetto alla quale le parti (cioè, gli individui) non sono che membra, articolazioni. In casocontrario, non si dà uno Stato, ma solo un'aggregazione instabile. L'Impero germanico è infatti crollato, dice

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Hegel, perché esso era simile ad un mucchio di pietre

che si uniscono per costruire una piramide, ma che, perfettamente tonde, devono restare tali, senzaincastrarsi: non appena la piramide incomincia a muoversi verso il fine per il quale essa si è formata, eccoche si disfà, o, nel migliore dei casi, non regge al minimo urto.

La concezione hegeliana dello Stato - è stato opportunamente osservato - non è dunque individualistica(come nei pensatori giusnaturalisti)[37], bensì organicistica: lo Stato non è un aggregato di individui che siuniscono per meglio proteggere i loro diritti individuali, bensì un organismo in cui, come in ogni organismo,le parti obbediscono alla logica del "tutto", e i singoli si sentono (e sono) articolazioni di una totalità, eagiscono in vista della coesione e della difesa di quest'ultima. Questa visione dello Stato, che compare inquesto primo scritto politico, non verrà mai abbandonata dal filosofo tedesco.

Tale concezione profondamente unitaria non impedisce a Hegel - sempre nella Costituzione della Germania- di polemizzare a più riprese con il centralismo amministrativo francese:

la pedante mania di voler determinare ogni dettaglio, l'illiberale gelosia per ogni ordinamento eamministrazione di uno stato, di una corporazione, ecc., questa critica meschina di ogni azione privata deicittadini dello Stato che non abbia un rapporto diretto al potere dello Stato, ma solo un qualche rapportogenerale, si è rivestita dell'abito dei princìpi razionali, secondo i quali nessun soldo proveniente dal lussocomune, che venga adoperato per i poveri in una regione di 20 o 30 milioni di abitanti, può essere elargitosenza che prima ciò sia stato, non solo concesso dal governo supremo, ma anche comandato, controllato,sorvegliato. Nella cura dell'educazione, la nomina di ogni maestro di ogni scuola rurale, la spesa di ognipfennig per ogni vetro di finestra della scuola rurale - come della stanza del consiglio del villaggio, lanomina di ogni portiere o guardiano di tribunale, di ogni giudice di villaggio - deve essere un'emanazione eun prodotto del governo supremo; ogni boccone che provenga dal terreno che lo costituisce dev'essereportato alla bocca secondo una direzione che è esaminata, calcolata, legittimata e comandata attraverso loStato, la legge e il governo.

Ma la rivendicazione di un ampio decentramento - in tutto ciò che Hegel ritiene "accidentale" - non toglieche il potere centrale sia fortissimo e che l'intero Stato rimanga sempre un organismo nel quale le parti sonoper principio subordinate al tutto.

Passiamo ora alla formulazione matura del pensiero politico di Hegel, contenuta nella Filosofia del diritto(1821). Poichè le tematiche socio-politiche si trovano in un punto ben preciso del complesso sistemafilosofico elaborato da Hegel, sarà opportuno dare qualche indicazione, sia pure sommaria, su di esso.

Anzitutto il sistema hegeliano - che è scandito, in ogni sua parte, dal ritmo triadico della dialettica - siarticola in tre grandi partizioni: la logica (la scienza dell'Idea in sé e per sé), la filosofia della natura (lascienza dell'Idea nel suo alienarsi da sé) e la filosofia dello Spirito (la scienza dell'Idea che dal suoalienamento ritorna in sé). Al culmine del sistema sta dunque la filosofia dello Spirito, che a sua volta siarticola in tre momenti: lo Spirito soggettivo (che è lo spirito individuale, considerato nel suo lento eprogressivo emergere dalla natura, dalle forme più elementari a quelle più mature della vita psichica), loSpirito oggettivo (che è lo spirito così come si manifesta nelle concrete istituzioni sociali) e infine lo Spiritoassoluto (che è il momento in cui lo Spirito giunge alla piena consapevolezza della propria infinità, tramite leforme dell'arte, della religione e della filosofia). La sezione che ci interessa è ovviamente quella dello Spiritooggettivo, giacché in essa troviamo il pensiero socio-politico di Hegel. Anche lo Spirito oggettivo, a suavolta, si articola in tre momenti: diritto, moralità, eticità. Il volere libero che caratterizza l'uomo si manifestaanzitutto come volere del singolo, considerato come persona fornita di capacità giuridiche: siamo dunquenella sfera del diritto, che Hegel definisce astratto o formale, giacché riguarda l'esistenza esterna della libertàdelle persone, concepite come puri soggetti di diritti, indipendentmente dai caratteri specifici e dallacondizioni concrete che li differenziano tra di loro. La persona trova la garanzia esterna della propria libertànella proprietà, che - per essere reciprocamente riconosciuta - ha bisogno dell'istituto giuridico del contratto.Nella sezione dedicata al diritto troviamo il noto attacco alle teorie giusnaturalistiche: anzitutto, Hegel nega

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che in natura possano esistere dei diritti, dal momento che questi sorgono soltanto là dove esista unarelazione sociale di reciproco riconoscimento, con la quale gli individui sono già oltre l'immediatezza dellaloro vita naturale; in secondo luogo, spiegare la complessa realtà delle istituzioni politiche basandosi suforme giuridiche elementari come il contratto costituisce, agli occhi di Hegel, un tentativo assurdo einconsistente.

Ma vediamo come avviene il passaggio dal diritto alla moralità: le norme giuridiche, nella loro oggettività,chiedono al singolo un'obbedienza soltanto esterna o formale, che non implica il suo assenso ocoinvolgimento interiore; il passaggio alla sfera della moralità avviene per l'appunto quando all'autoritàesterna della legge subentra l'interiorizzazione del dovere. Qui la volontà libera dell'individuo non siidentifica più con una "cosa" (la proprietà), ma con una condizione interiore: dalla persona giuridica siamocosì passati al soggetto morale. La libertà interiore, osserva Hegel, era ignota agli Antichi, mentrecontraddistingue la forma moderna dell'individualità: essa «è venuta al mondo per opera del Cristianesimo,per il quale l'individuo come tale ha valore infinito», indipendentemente dal suo rango sociale. Il cittadinodegli Stati moderni, a differenza di quello della polis greca, non si identifica in modo immediato e irriflessocon le norme e i valori collettivi della società alla quale appartiene; le norme e i valori provenientidall'ordinamento sociale e politico devono avere adesione, riconoscimento o anche fondamento nel suocuore, nella sua disposizione d'animo, nella sua coscienza e nella sua intelligenza.

Tuttavia, anche la forma della moralità è solo un momento della dialettica dello Spirito oggettivo e come taledeve essere superata: essa infatti, in quanto sgorga da un proponimento, prende la forma dell'intenzione, laquale, sollevandosi all'universalità, persegue il bene; ma il bene, in questa fase, è soltanto un'idea astratta,che per raggiungere l'esistenza concreta ha bisogno di una volontà soggettiva altrettanto astratta, la quale puòanche essere "cattiva", ossia incapace di realizzare il dovere. In altri termini, il dominio della moralità ècaratterizzato dalla separazione tra la soggettività (che deve realizzare il bene) e il bene (che deve essererealizzato): quest'ultimo rimane pertanto soltanto un dover-essere. Da ciò la contraddizione tra essere edover-essere, che è tipica della morale, soprattutto di quella kantiana, che Hegel critica per la sua formalità eastrattezza, cioè per la sua mancanza di contenuti concreti e per la sua impotenza a realizzarsi nella realtà.

La separazione tra soggettività e bene viene superata nella sfera dell'eticità, nella quale il bene si è attuatoconcretamente, pervenendo all'esistenza. Infatti, mentre la moralità è la volontà soggettiva - cioè interiore eprivata - del bene, l'eticità è la moralità sociale, ovvero la realizzazione del bene in quelle forme istituzionaliche sono la famiglia, la società civile e lo Stato. In altre parole, il dovere trova un contenuto concreto neicompiti etici che attendono ogni individuo e che sono determinati dal suo ruolo familiare, sociale e politico,all'interno degli ordinamenti esistenti: in questo quadro, il bene non è più un irraggiungibile ideale dellacoscienza individuale, ma un mondo storico-sociale presente, qui e ora, come razionalità in atto. L'eticitàrappresenta dunque il superamento della spaccatura tra interiorità ed esteriorità, che è propria della moraledel dovere; nello stesso tempo, configurandosi come una sorta di morale che ha assunto le forme del diritto(giacché si realizza esternamente in precise forme istituzionali), o come una sorta di diritto che ha assunto leforme della morale (giacché lo scopo di quelle forme istituzionali esterne è il perseguimento del beneuniversale), l'eticità risulta in grado di superare le opposte unilateralità del diritto e della morale. Nel tipicolinguaggio di Hegel, il diritto e la moralità non sono che due astrazioni, la cui verità è l'eticità: nell'universale"sostanza etica" di un popolo (vale a dire, in un sistema definito di valori che si incarnano in un certo quadropolitico-istituzionale) l'individuo raggiunge quella concreta consistenza che mancava alle figure ancoraastratte della persona giuridica e del soggetto morale.

Delineato il complesso sistema nel quale si colloca la riflessione socio-politica di Hegel, possiamo orapassare a vederne più da vicino i contenuti. Ci troviamo dunque nella sfera dello Spirito oggettivo e,all'interno di questa, nella sezione dell'eticità, il cui primo momento, come ho già accennato, è la famiglia:questa costituisce il momento immediato o naturale dell'eticità, poiché al suo interno i legami di amore,benevolenza e assistenza reciproca si fondano su un vincolo di tipo naturale. Il compimento della famigliasta nell'educazione dei figli che, una volta cresciuti e divenuti personalità autonome, escono dalla famigliaper dare origine a nuove famiglie, ognuna avente un proprio interesse. In tal modo si trapassa nel secondomomento dell'etiticità, costituito dalla società civile.

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Quella della società civile è forse la sezione più importante dello Spirito oggettivo. Vediamo perché.Abbiamo già detto che Hegel manifestò sempre il più vivo interesse per quei processi che si svolgono, percosì dire, "al di sotto" della politica, e senza i quali quest'ultima non potrebbe essere compresa. Infatti Hegelstudiò a fondo tanto le dinamiche sociali (ad esempio, nella Rivoluzione francese), quanto i processieconomici (attraverso la lettura delle opere di Steuart, Smith e Say). Ed è proprio nella sezione dedicata allasocietà civile che noi abbiamo un preciso riscontro di tali studi: qui, infatti, le considerazioni di carattereeconomico sono strettamente intrecciate all'analisi dei rapporti sociali e giuridici. La trattazione che nerisulta - ossia, l'aver dato autonoma collocazione al momento della "società civile", distinguendola dallo"Stato" - è rilevante per tre motivi:

1) perché Hegel sente il bisogno di distinguere tra la sfera economico-sociale e la sfera dello Stato. Unadistinzione che Marx farà sua e che è entrata nell'uso corrente; ancora oggi, infatti, noi non distinguiamo -come facevano i giusnaturalisti - tra stato di natura e stato civile o politico, intendendo quest'ultima come lospazio regolato dalle norme dello Stato; ma distinguiamo tra società civile (intesa come insieme di rapporticivili, economici, sociali, culturali) e Stato, come luogo delle istituzioni specificamente politiche;

2) perché Hegel dà una rappresentazione fortemente critica della società civile, attraverso una descrizioneche ricava dalla società borghese più avanzata del suo tempo (ossia l'Inghilterra);

3) perché Hegel istituisce un collegamento molto complesso tra società civile e Stato.

La società civile, come sempre, si articola in tre momenti: il primo è il sistema dei bisogni (che contienequella descrizione della società borghese moderna ricavata dalle opere degli economisti politici), il secondoè l'amministrazione della giustizia e il terzo è costituito dalla sicurezza pubblica (Polizei) e dallecorporazioni.

Al suo primo apparire, come sistema dei bisogni, la sfera della società civile si caratterizza subito, secondoHegel, per una "perdita" di eticità. Mentre nella famiglia, infatti, si dà uno spirito etico immediato o naturale- evidente nei legami di amore e solidarietà che si stabiliscono in maniera irriflessa -, nel sistema dei bisogniognuno si comporta verso gli altri in modo esterno e autonomo, perseguendo cioè il proprio interesse ovantaggio, a prescindere da quello altrui. Il sistema dei bisogni viene pertanto definito da Hegel come il"sistema dell'atomistica", ossia quel sistema nel quale ogni individuo persegue il proprio particolare(atomistico) interesse: ragion per cui la società civile si trasforma in un campo di battaglia dove, in nomedell'interesse privato, tutti combattono contro tutti.

E' anche vero, tuttavia, che Hegel sottolinea come, grazie alla divisione del lavoro e allo scambio, l'egoismodell'individuo e il suo apparente isolamento si rovescino in un «sistema di dipendenza universale, per cui lasussistenza e il benessere del singolo e la sua esistenza giuridica sono intrecciate con la sussistenza, ilbenessere e il diritto di tutti». Si tratta di considerazioni che potrebbero essere avvicinate alla teoriasmithiana della "mano invisibile", secondo la quale nella società civile, attraverso il meccanismo dellaconcorrenza, il perseguimento degli interessi particolari condurrebbe, inintenzionalmente, alsoddisfacimento degli interessi generali. Ma, in realtà, il giudizio di Hegel sulla società civile rimane assainegativo, giacché egli non condivide l'ottimismo smithiano sugli effetti spontanei del mercato e perché,qualora tali esiti positivi si realizzino, essi sono solo il frutto di una "necessità cieca", priva di realerazionalità. Pur apprezzando la conquista moderna dell'individualità come libertà civile, che premia estimola i talenti individuali, Hegel è convinto che tale libertà, lasciata a se stessa, produca inevitabili edrammatici squilibri. Tanto che la società civile, nei suoi contrasti, finisce per offrire lo «spettacolo delladissolutezza, della miseria, e della corruzione fisica ed etica».

Ma allora perché Hegel colloca la società civile, che produce simili effetti, nel momento dell'eticità? Inprimo luogo, perché in quanto sfera economica essa è il luogo dove gli uomini soddisfano i loro bisogni,entrando in molteplici rapporti di collaborazione e creando quindi un tessuto sociale articolato e complesso,che può essere considerato uno sviluppo di quel primo tessuto sociale che è la famiglia (con la quale si dàdunque una certa continuità). In secondo luogo, perché la società civile è caratterizzata dal lavoro, ed èsoltanto con il lavoro, secondo Hegel, che l'uomo si solleva al di sopra della mera naturalità:

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nella produzione - ha osservato Bedeschi - l'uomo trasforma e domina la natura; al tempo stesso egli entrain contatto con gli altri uomini, poiché il lavoro è sempre lavoro sociale; lavoro e produzione umani nonsono solo processi materiali, ma costituiscono anche un intreccio di idee, di rappresentazioni, di aspirazionie di fini storicamente determinati, e al tempo stesso in costante divenire; la cultura pratica sviluppa lacultura teoretica, in un processo ininterrotto. Ci troviamo dunque in uno dei punti più alti dello spiritooggettivo.

Detto questo, il giudizio complessivo di Hegel sulle contraddizioni prodotte della società civile rimane assainegativo: essa è infatti, come abbiamo già ricordato, caratterizzata dalla ricerca del massimo profitto o utile,dall'accumulazione in poche mani di ricchezze sproporzionate, dalla dipendenza e dalla povertà degli operaidell'industria, il cui lavoro, inoltre, è sempre più parcellizzato e diviso, e quindi limitato e ottuso. Tutto ciòdetermina, secondo Hegel, il «decadere di una grande massa al di sotto della misura di un certo modo disussistenza», dando luogo in tal modo alla «formazione della plebe». Qui Hegel anticipa i temi dellaquestione sociale, che avrebbero dominato la seconda metà dell'Ottocento. Attenzione, però: nonostante glispunti fortemente critici di Hegel verso il meccanismo della società civile borghese, non si deve incorrerenella tentazione di farne un pre-marxista. Il filosofo tedesco, infatti, come è stato opportunamente ricordato,da un lato tiene fermo al principio della proprietà privata, nella quale vede la manifestazione essenziale dellaspiritualità e della libertà umana; e, dall'altro lato, condanna come vuota astrazione l'ideale dell'eguaglianzasociale, visto che la realtà ci mostra come gli uomini siano diseguali tra loro per doti fisiche, per attitudini etalenti, per doti intellettuali e morali.

Ma osserviamo più da vicino l'articolazione della società civile hegeliana. Al suo interno si danno tre classi oceti: la classe sostanziale, che è quella dei proprietari terrieri, largamente rimessa alla natura e ai ciclinaturali; la classe riflessa o formale, che è quella dell'industria, la quale ha per suo compito l'elaborazionedei prodotti naturali e che deve trarre i propri mezzi di sussistenza dalla riflessione e dall'intelletto (taleclasse si divide a sua volta in tre ceti: artigiani, operai e commercianti); infine la classe generale, compostadai burocrati dello Stato, che ha per proprio compito la cura degli interessi generali.

E' bene ricordare che Hegel annette la massima importanza alle classi sociali, perché in esse l'individuo escedalla propria semplice privatezza e si colloca in una dimensione universale. Il filosofo tedesco polemizzadunque contro coloro i quali ritengono che quando un individuo entra a far parte di una classe, in questomodo egli limiti e perda se stesso, e che mutili in certa misura la propria personalità; in realtà, sostieneHegel, quando si dice che un uomo deve essere qualcosa o qualcuno, si intende dire che egli deveappartenere a una determinata classe, perché solo così egli sarà qualcosa di sostanziale.

Quanto agli altri momenti della società civile, vale la pena di soffermarsi non tanto sull'amministrazionedella giustizia (che Hegel inserisce subito dopo il sistema dei bisogni perché i rapporti civili richiedono unaserie di regole e garanzie reciproche), quanto sulla Polizia e sulla Corporazione. Con il concetto di 'polizia'Hegel intende l'insieme dei provvedimenti con i quali lo Stato interviene nella vita economica e socialenell'interesse della collettività, in particolare per aiutare coloro i quali soccombono nelle lotte economiche.Hegel non teme, come Kant o come i liberali in genere, lo Stato eudemonistico o lo Stato interventista: egli èinfatti convinto che i compiti dello Stato non possano restringersi alla tutela della proprietà e dellapersonalità, ma che debbano estendersi a garantire la sicurezza e stabilità della vita di tutti i cittadini. Inparticolare lo Stato dovrà difendere gli individui contro il fortuito della vita sociale, nonché contro leconseguenze di azioni economicamente necessarie, giuridicamente lecite, ma dannose dal punto di vistadell'interesse collettivo. Si tratta di situazioni sociali che non ammettono di essere regolate mediante normegiuridiche oggettivate, e che possono essere affrontate soltanto tramite atti particolari della pubblicaamministrazione. In sostanza, proprio perché Hegel è pessimista circa il funzionamento autonomo della sferaeconomico-sociale moderna, egli si pone il problema dell'intervento dello Stato: mentre nella famiglia,infatti, l'individuo è seguito e sostenuto affinché partecipi alla vita e alle attività sociali, nella società civilel'individuo è lasciato solo, nella accidentalità e nell'insicurezza. Questa situazione, osserva acutamenteHegel, colpisce soprattutto gli addetti dell'industria, dal momento che tale ramo di attività economiche sicolloca all'interno di un mercato avente dimensioni mondiali: ciò fa sì che i meccanismi di evoluzioneeconomica rimangano assai lontani dagli individui, rendendo loro difficilissimo essere "previdenti". Per

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combattere questi inconvenienti gli interventi ad hoc della pubblica amministrazione (ossia, il momentodella 'polizia') non sono tuttavia sufficienti; Hegel si affida quindi in gran parte alle corporazioni.

Si tratta di un altro tema di grande importanza: la società moderna, per Hegel, deve essere corporativa.Mentre la classe sostanziale e quella generale sono coese e compatte, la classe dell'industria è afflitta dalparticolarismo e dall'egoismo: pertanto essa dovrà essere organizzata in modo corporativo. In sostanza,Hegel, con le corporazioni, si propone di restituire alla società civile quei rapporti di solidarietà, quei vincolidi unità e quei legami organici, che essa in un primo tempo sembrava escludere, condannata com'era alla«perdita dell'eticità». E infatti Hegel dice che «accanto alla famiglia, la corporazione costituisce la secondaradice etica dello Stato, la radice profondata nella società civile». Se il singolo non fosse componente di unacorporazione legittima (ovvero autorizzata dallo Stato), esso sarebbe senza dignità di classe, e sarebberidotto, dal suo isolamento, al lato egoistico dell'industria.

Hegel lamenta, quindi, l'abolizione delle corporazioni che ha caratterizzato il mondo moderno: di qui èderivato, a suo parere, non solo un danno sociale, ma anche etico-politico. Le società moderne, rispetto alleantiche, consentono infatti soltanto una partecipazione limitata agli affari dello Stato; ma tale partecipazioneè essenziale per lo sviluppo etico, perché solo partecipando agli interessi generali l'uomo supera le propriefinalità strettamente private ed acquista la sua eticità. Ora, la corporazione offriva quella partecipazione chenelle società moderne lo Stato non può dare.

Quanto all'efficacia di tale soluzione, ha osservato Bedeschi,

se è vero che Hegel non concepisce le corporazioni come le vecchie gilde restrittive (egli ha cura disottolineare più volte che «in sé e per sé la corporazione nom è una casta chiusa», e che anzi lo Stato devevigilare su di essa, sul suo funzionamento, per evitare che essa si chiuda in sé e si degradi a misero regimedi casta), è altrettanto vero che è difficile sottrarsi all'impressione che egli sia ricorso a strumenti tuttosommato arcaici per porre rimedio ai problemi moderni della concorrenza e dell'atomismo. Lacorporazione hegeliana, infatti, mostra chiaramente i propri legami «con il pensiero organicistico-romantico» ... . Del resto, non è certo un caso che un ordinamento corporativo non abbia avuto possibilitàdi attuarsi da nessuna parte, e men che mai là dove la società borghese ha avuto un forte sviluppo (a menoche non si voglia vedere nelle corporazioni ... i sindacati; ma questa è una bizzarria sulla quale non metteconto di spendere parole). Inoltre, è parimenti difficile sottrarsi all'impressione che Hegel attribuisca allecorporazioni un ruolo tutto sommato troppo impegnativo: esse, infatti, dovrebbero trasformare la societàcivile borghese moderna in qualcosa d'altro, cioè in un organismo coeso e compatto, capace quindi ditrapassare da uno stadio di eticità solo relativa a quello stadio di eticità piena e assoluta che è proprio delloStato. («Il fine della corporazione, - dice Hegel - in quanto limitato e finito, ha la sua verità [...] nel fineuniversale in sé e per sé, e nella assoluta realtà di esso; la sfera della società civile trapassa quindi nelloStato».) Obiettivo troppo impegnativo, e tutto sommato irrealistico, dicevamo; ma anche tale da ledere o daimbrigliare, se realizzato, il meccanismo dell'antagonismo, della concorrenza, del conflitto sociale, senza ilquale non c'è «società civile», ovvero non c'è società moderna. Lo sguardo di Hegel sembra rivolto qui piùal passato che non al futuro.

Veniamo infine al terzo momento dell'eticità, ossia allo Stato. Esso è il culmine dello Spirito oggettivo: ciòsignifica che nello Stato si compenetrano e fondono il principio della famiglia (che è unità sostanziale, maimmediata e irriflessa) e quello della società civile (che è il diritto della particolarità, mediato, ma in modocieco e inconsapevole, dall'universale). Lo Stato è dunque la manifestazione più alta dell'eticità, in quantocon esso sorge qualcosa di assolutamente nuovo, una unificazione reale e profonda degli individui. NelloStato l'universale non è più astratto, perché ricomprende il particolare; e il particolare non è più unilaterale,perché viene ricondotto consapevolmente all'univerale. Per Hegel lo Stato è il razionale in sé e per sé.

Ma andiamo al di là delle formule. In sostanza, Hegel si propone di soddisfare due esigenze. Da un lato, eglinon può concepire lo Stato in funzione degli individui (come accade nel pensiero liberale), cioè non può farsua una visione strumentale dello Stato; nella sua concezione, infatti, il tutto viene prima delle parti, le qualisi costituiscono grazie ad esso, e similmente gli individui acquistano senso e significato solo all'interno delloStato e in virtù di esso. Dall'altro lato, Hegel è convinto che lo Stato moderno non debba disconoscere i

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diritti civili dei singoli (conquistati dalla Rivoluzione francese), ma farne uno dei suoi momenti essenziali. Inrealtà la soluzione di Hegel, che vorrebbe vedere questi due aspetti organicamente fusi, conduce ad undifficile equilibrio, nel quale l'individuo soccombe. Lo Stato, in quanto manifestazione più alta dell'eticità,lascia infatti ben poco spazio all'individuo e alle sue ragioni. Hegel compie una vera e propria divinizzazionedello Stato: «l'ingresso di Dio nel mondo - egli scrive - è lo Stato; il suo fondamento è la potenza dellaragione che si realizza come volontà». A fronte di ciò, gli individui sono soltanto elementi accidentali, chenulla hanno di autonomo da proporre o da rivendicare: «Tutto ciò che l'uomo è, egli lo deve allo Stato: soloin esso egli ha la sua essenza. Ogni valore, ogni realtà spirituale, l'uomo l'ha solo per mezzo della Stato».

Ma perché Hegel avrebbe compiuto una simile divinizzazione? Uno dei motivi profondi sta nellaconnessione istituita tra popolo (inteso come stirpe) e Stato. Una connessione così stretta da costituireun'identità:

nell'esistenza di un popolo lo scopo sostanziale è di essere uno Stato e di mantenersi come tale: un popolosenza formazione politica (una nazione come tale) non ha propriamente storia; senza storia esistevanto ipopoli prima della formazione dello Stato, e altri ancora esistono, come nazioni selvagge.

Si tratta di una visione per comprendere la quale occorre fare riferimento alla filosofia della storia di Hegel.Per Hegel la storia è una successione di popoli, ciascuno dei quali esprime un principio, contribuendo in talmodo alla realizzazione del Weltgeist, dello Spirito del mondo. La manifestazione più alta di un popolo è lasua costituzione politica, che non è affatto qualcosa di casuale o arbitrario, ma è intimamente connessa conla religione, l'arte, la filosofia, i costumi e l'economia di quel popolo. Si tratta di una concezione tipicamenteromantica, che fa perno sulla sostanza spirituale di un popolo, sullo spirito del popolo. Questo spirito è insostanza il genio nazionale di un popolo, dal quale proviene tutto ciò che quel popolo realizza. In una taleconcezione lo Stato non è espressione od opera degli individui, bensì dello spirito del popolo; e gli individuihanno senso e significato solo all'interno dello Stato, solo grazie ad esso. In questo quadro la concezionegiusnaturalistico-contrattualistica del rapporto cittadino-Stato viene completamente rovesciata, poiché «loStato non esiste per i cittadini», bensì «esso è il fine, e quelli sono i suoi strumenti». Ne segue che, poichéuno Stato ha una costituzione e delle leggi, l'individuo deve obbedire a quella costituzione e a quelle leggi: esolo in tale obbedienza egli ha la propria libertà.

Da queste considerazioni, è facile intuire che le posizione di Hegel si contrapporranno al giusnaturalismo eal contrattualismo. Hegel respinge il concetto stesso di stato di natura, perché la natura dell'uomo è laspiritualità, la razionalità; lo stato di natura non è altro, ai suoi occhi, che lo stato della bestialità. Ora, poichéin tale stato non esiste alcuna razionalità (mentre per tutti i giusnaturalisti esisteva, anche se era inefficace),non esiste alcun stato giuridico che precede quello della società e dello Stato, e dunque non esiste alcundiritto originario come diritto naturale pre-esistente alla società e alla politica. Del resto, l'anti-individualismo di Hegel è fortissimo; riprendendo una nota affermazione di Aristotele, egli afferma che

il popolo [Volk, ma Aristotele aveva detto polis] è precedente al singolo; se infatti il singolo separato non ènulla di autonomo, esso deve, similmente alle altre parti, essere in una unità col tutto. E chi non può esseresocievole oppure per la sua autonomia non ha bisogno di ciò, non è parte del popolo, perciò è o belva oDio.

Di qui un completo rovesciamento: mentre per i giusnaturalisti il popolo è un insieme di individui chedecidono di unirsi in una società politica, la quale è un ente artificiale, un posterius e non un prius, perHegel, invece, il tutto viene prima della parte, il popolo prima del singolo.

Quanto al contratto, Hegel lo trova un'idea inservibile per intendere la natura dello Stato, sia perché applicaal diritto pubblico le categorie del diritto privato, sia perché introduce un elemento di indipendenza e diindifferenza tra le componenti costitutive dello Stato:

basta riflettere un momento - afferma Hegel - per rendersi conto che la coesione tra principe e suddito, tragoverno e popolo, ha a proprio fondamento una unità originaria e sostanziale, e che nel contratto si prendele mosse, invece, dal contrario, cioè dall'egual indipendenza e indifferenza delle parti, l'una rispetto

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all'altra; l'accordo che esse stipulano su qualche cosa è un rapporto casuale, che nasce dal bisogno edall'arbitrio soggettivo di entrambi.

Come si vede, la critica di Hegel al giusnaturalismo e al contrattualismo viene condotta sempre in nomedella sussunzione di tutti gli individui in un universale, cioè in nome di un organicismo che respinge l'ideadello Stato come aggregato di individui e lo concepisce piuttosto come un Intero che si articola in parti, inmodo tale che, essendo ogni parte solo una rifrazione dell'Intero, ciascuna ha senso solo all'interno di esso.

Resta da vedere quale significato abbia in Hegel il termine costituzione. Esso non va infatti confuso con ilsignificato che gli attribuisce il costituzionalismo liberale[38], giacché in Hegel indica semplicementel'organizzazione dello Stato. Ne segue che la costituzione non è ovviamente il frutto di un'elaborazione atavolino: ogni popolo che abbia raggiunto un certo livello di civiltà ha sempre la costituzione che gli èadeguata. Questa non potrà mai essere abolita, bensì soltanto modificata; inoltre - come il filosofo nonmanca di sottolineare - «il presupposto stesso di una costituzione contiene immediatamente che la modificapossa avvenire soltanto per via conforme alla costituzione» medesima. Dove si vede che Hegel non puòconcepire mutamenti costituzionali violenti o rivoluzionari, ma solo interventi riformatori nell'ambito delsistema politico-istituzionale esistente.

Ma che struttura ha lo Stato hegeliano? Egli prevede tre poteri: legislativo, esecutivo, sovrano. Si trattaquindi di una monarchia costituzionale. Ma attenzione: Hegel non parla di separazione dei poteri, anzipolemizza apertamente con Montesquieu, perché il teorico francese avrebbe trasformato il giusto principiodella differenza, della differenziazione e della articolazione in un principio di ostilità e di timore di ciascunpotere di fronte all'altro. Il sistema dei contrappesi produce forse un equilibrio, osserva Hegel, ma nonun'unità vivente; e inoltre la limitazione reciproca può solo condurre alla distruzione dell'unità dello Stato.Hegel non prende nemmeno in considerazione (se non di sfuggita, e per liquidarla) l'idea che sta al fondodella teoria di Montesquieu, e cioè che il potere deve essere il più possibile frazionato e diviso, e che nelladivisione e nell'equilibrio fra i vari poteri risiede la migliore garanzia contro il dispotismo. Per Hegel, alcontrario, ciascuno dei poteri che costituiscono lo Stato «è la totalità, per il fatto che esso ha attivi in sé econtiene gli altri momenti», sicché non si può assolutamtne parlare di divisione dei poteri, bensì di una loroconnessione organica: soluzione che può apparire astratta e «speculativa», ma che, in realtà, sviluppa unateoria dello Stato politico come qualcosa di armonico, di privo di conflitti.

Quanto al potere del monarca, Hegel lo contrappone frontalmente alla sovranità popolare:

in tale antitesi - egli dice - la sovranità popolare appartiene alla confusa concezione, della quale sta a basela rozza rappresentazione di popolo. Il popolo, considerato senza il suo monarca e senza l'organizzazionenecessariamente e immediatamente connettiva della totalità, è la moltitudine informe, che non è più Stato,alla quale non spetta più alcuna delle determinazioni che esistono soltanto nella totalità formata in sé -sovranità, governo, giurisdizione, magistratura, classi, e qualsiasi altra.

Per quanto riguarda le prerogative del monarca, Hegel dice che in una perfetta organizzazione dello Stato, ilre «preme soltanto il culmine della decisione formale [...]. Pertanto, a torto si esigono in un monarca qualitàoggettive; egli deve dire soltanto sì e mettere il puntino sulla i». E poco dopo Hegel ribadisce che «in unamonarchia bene ordinata, appartiene unicamente alla legge il lato oggettivo, ossia a che cosa il monarcadebba soltanto apporre l''io voglio' soggettivo». Al di là dell'apparente simbolicità del potere del monarca,Hegel non indica alcun limite preciso ai suoi poteri, che sono peraltro molto estesi, giacché egli nomina tuttii funzionari dello Stato.

Quanto al potere governativo, Hegel non svolge considerazioni di particolare interesse, salvo idealizzare laclasse dei burocrati (è la coscienza dello Stato, dice, e la cultura più eminente). Ma è nel potere legislativoche possiamo misurare tutta l'arretratezza di Hegel. Da un lato, egli esalta il ruolo della rappresentanza,perché vede in essa un indispensabile raccordo tra società civile e Stato. Senza tale mediazione, la societàcivile non potrebbe far valere i propri interessi e la sfera politico-statuale resterebbe isolata: il risultatosarebbe che la prima verrebbe repressa e la seconda si trasformerebbe in una struttura arbitraria. Hegel

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considera quindi la rappresentanza un elemento fondamentale dello Stato moderno. Dall'altro lato, tuttavia,egli la concepisce in modo feudale, senza alcun collegamento con il principio della sovranità popolare.

Sono venute di moda - egli dice - un numero indicibilmente grande di storte e false concezioni e di modi didire intorno al popolo, alla costituzione e alle classi, che sarebbe vana fatica volerle citare, discutere erettificare, La concezione che, anzitutto, suole aver dinanzi la coscienza comune, intorno alla necessità oall'utilità del concorso delle classi, è particolarmente questa, all'incirca: che i deputati del popolo, o, anzi, ilpopolo debba intendere nel miglior modo che cosa serva al suo meglio; e che esso abbia la volontàindubbiamente migliore per questo meglio. Per quanto riguarda il primo punto, fatto sta, invece, chepopolo, in quanto con questa parola si designa una parte speciale dei componenti d'uno Stato, significa laparte che non sa quel che vuole. Sapere che cosa si vuole, e, ancor più, che cosa vuole la volontà che è in sée per sé, la ragione, è il frutto di una conoscenza e di una penetrazione più profonda che, appunto, non èaffare del popolo.

La rappresentanza non deve rappresentare il popolo o i molti, bensì le cerchie organizzate della societàcivile. Avremo dunque una camera ereditaria, formata dai rappresentanti della nobiltà terriera (sulla base delmaggiorascato, per evitare l'accidentalità dell'elezione) e una camera bassa, formata dai deputati dellecorporazioni. Ancora una volta, insomma, lo Stato di Hegel non è uno Stato di individui, ma uno Stato diceti, di comunità, di corporazioni, caratterizzate da rapporti armonici e solidaristici.

Lo Stato - egli dice infatti - è essenzialmente un'organizzazione di membri tali, che per sé sono cerchie, e inesso nessun momento si deve mostrare come moltitudine inorganica. I molti, come singoli, la qual cosa siintende volentieri per popolo, sono certamente un insieme, ma soltanto come moltitudine - massa informe ilcui moto e il cui fare sarebbe, appunto perciò, soltanto elementare, irrazionale, selvaggio e orribile.

Una volta stabilito che la rappresentanza non può essere intesa come rappresentanza o del popolo o deisingoli o dei molti, e deve essere invece rappresentanza delle comunità nelle quali si organizza la societàcivile, non può stupire che Hegel sia contrario all'elezione dei deputati da parte degli elettori, che a suoavviso «si riduce a un vile gioco dell'opinione e dell'arbitrio». I rappresentanti delle corporazioni dovrannopiuttosto essere designati dalle corporazioni medesime sulla base di un rapporto fiduciario.

Possiamo ormai tirare le somme, rifacendoci ancora una volta all'analisi di Bedeschi. Con questaillustrazione del potere legislativo,

Hegel ha certamente delineato il modello di una monarchia costituzionale, ma altrettanto certamente non diuna monarchia parlamentare (del resto, egli è sempre stato un avversario dichiarato della monarchiaparlamentare). Nel suo disegno, infatti, il governo e i più alti funzionari dello Stato sono di nomina regia,che è insindacabile, ed essi soli hanno il «senso dello Stato» e la conoscenza di ciò che sia «l'universale in sée per sé»; il potere del sovrano, che costituisce la vera e propria chiave di volta dello Stato, non ha limitiprecisi e chiaramente definiti, ed è caratterizzato da una sostanziale ambiguità, sicché esso può avere unruolo diverso a seconda delle diverse situazioni sociali e politiche; sovrano e governo hanno pieno diritto diiniziativa; il legislativo sembra avere un ruolo esclusivamente consultivo, e quindi non è il potere supremo(come era invece non soltanto in Locke, ma anche in Kant). Una conclusione politica certo assai modesta,questa di Hegel, soprattutto se considerata alla luce degli sviluppi politici della società europea dopo il 1830.Ma l'aspetto più interessante della sua concezione non va cercato nella sua teoria del potere politico (nellaquale si riflette certamente tutta l'angustia dell'arretratezza tedesca), quanto piuttosto nel suo sforzo didelineare quella che è stata chiamata una «terza via» fra assolutismo e democrazia. In questo senso il modopeculiarmente hegeliano di concepire il rapporto fra Stato e società civile, e il ruolo complesso che lecorporazioni hanno in questo rapporto, costituiscono, comunque li si voglia valutare, gli aspetti piùinteressanti del pensiero politico di Hegel.[39]

12. Marx

Cenni biografici

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Karl Marx nasce a Treviri (in Renania) nel 1818, da famiglia ebraica poi convertitasi al Protestantesimo perevitare le misure antisemitiche prese dal governo prussiano.

Nel 1835 inizia la sua formazione universitaria, iscrivendosi, dapprima a Bonn e poi a Berlino, alla Facoltàdi Giurisprudenza. Segue poco le lezioni, e studia piuttosto autonomamente, facendo amplisssime letture distoria, filosofia, diritto e letteratura. Entra in contatto con i giovani hegeliani e studia a fondo la filosofia diHegel. Nel 1838 si laurea a Jena, con una tesi sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e diEpicuro.

Nel 1842 abbandona, in seguito all'accentuarsi della politica reazionaria del governo prussiano, i progretti dicarriere accademica. Si dedica al giornalismo politico, divenendo caporedattore della "Rheinische Zeitung"(che viene chiusa nel 1843). Sposa Jenny von Westphalen.

Nel 1844 pubblica Per la critica della filosofia del diritto di Hegel e La questione ebraica. In settembreconosce Engels. Sempre nel 1844 stende i Manoscritti economico-filosofici. In collaborazione con Engels eB.Bauer scrive La sacra famiglia.

Nel 1845 stende, insieme a Engels, L'ideologia tedesca. Nel 1846 Marx ed Engels costituiscono una rete dicomitati di corrispondenza comunisti tra tedeschi, francesi e inglesi.

Nel 1847 pubblica Miseria della filosofia. Aderisce alla Lega dei Giusti, che diverrà poi Lega dei comunisti.Nel 1848 pubblica il Manifesto del partito comunista. Dopo le varie agitazioni rivoluzionarie, riparadapprima in Francia e poi in Inghilterra.

Nel 1850 pubblica Le lotte di classe in Francia. Si dedica alla riorganizzazione della Lega dei comunisti.Nel 1851 si ritira dall'attività politica, dedicandosi ai suoi studi e vivendo in una situazione di permanentedisagio economico. Nel 1852 pubblica Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte.

Tra il 1857 e il 1859 scrive i Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica. Nel 1859pubblica Per la critica dell'economia politica.

Tra il 1862 e il 1863 scrive le Teorie sul plusvalore. Nel 1866 inizia la stesura del I libro del Capitale, cheverrà pubblicato ad Amburgo l'anno successivo. Muore nel 1883 a Londra, a 65 anni.

Il pensiero politico

La prima opera di Karl Marx, scritta nel 1842-43 ma rimasta inedita sino al 1927, si intitola Critica dellafilosofia hegeliana del diritto pubblico (che da qui in avanti chiameremo, per comodità, Kritik). Per quanto sitratti di un'opera incompleta, essa rappresenta comunque un testo denso e importante, che ci permette diaffrontare subito il decisivo tema del rapporto tra Hegel e Marx. Non solo. Nella Kritik - stando alle stessetestimonianze di Marx - si troverebbe formulata l'idea centrale della filosofia marxiana matura, vale a diredel materialismo storico. Nella prefazione a Per la critica dell'economia politica (1859), Marx ricorda infattiil suo giovanile lavoro su Hegel, affermando che in esso arrivò

alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi néper se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici,piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza.

Tali rapporti materiali stavano in quella che Hegel aveva definito "società civile"[40], la cui anatomia,proseguiva Marx, «è da cercare nell'economia politica».

Lo stesso Marx, dunque, ritiene che i capisaldi della concezione materialistica della storia siano contenutinella sua prima opera. Ed in effetti nella Kritik noi troviamo due acquisizioni capitali: la prima è che allaconcezione idealistica della storia - secondo la quale quest'ultima è la manifestazione dell'Idea o Spirito, da

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cui tutto emana e a cui tutto ritorna - Marx sostituisce la visione secondo cui la storia va spiegata sulla basedei rapporti materiali dell'esistenza, che ne costituiscono il sostrato effettivo e reale. La seconda è chel'anatomia di quei rapporti materiali (che si manifestano non nello Stato, ma nella società civile) va ricercata,secondo Marx, nell'economia politica. Siamo di fronte, con tutta evidenza, ai due capisaldi del materialismostorico; ma su quest'ultimo, e sulla connessa teoria economica, torneremo più avanti.

Per ora, rimaniamo sulla Kritik e, in particolare, sul rapporto che in essa Marx stabilisce con Hegel. Per unverso si tratta di un rapporto radicalmente critico: Marx accusa infatti Hegel di aver operato un vero eproprio rovesciamento della realtà, per cui tutto ciò che è finito, concreto e materiale sarebbe stato privato diuna propria effettiva realtà e, allo stesso tempo, l'astratto, il pensiero, l'ideale sarebbe stato trasformatonell'unica autentica realtà, divenendo così il vero soggetto. Tale procedimento emergerebbe molto bene,secondo Marx, nel rapporto che Hegel istituisce tra famiglia e società civile da un lato, e Stato dall'altro: nel§ 262 della Filosofia del diritto Hegel dice infatti che è lo Spirito, l'idea reale (ossia intera), a scindersi nelledue sfere ideali (vale a dire astratte, in quanto meri "momenti" dell'intero) della famiglia e della societàcivile. Dunque, dapprima viene lo Spirito, che è la vera realtà (il vero soggetto), il quale poi "produce" lafamiglia e la società civile, che sono quindi sue manifestazioni, suoi "oggetti". Siamo di fronte, secondoMarx, al procedimento del rovesciamento speculativo (o dell'inversione soggetto/predicato), che caratterizzal'intera filosofia hegeliana: per un verso, Hegel ha sostantificato l'astratto (cioè lo Spirito), facendone unsoggetto reale, il quale viene rappresentato come se agisse secondo un'intenzione determinata; per altroverso, egli ha degradato il reale concreto (cioè la famiglia e la società civile) ad un mero prodotto diquell'astratto sostantificato. L'intero procedimento è dunque ispirato, ha scritto Bedeschi[41], a un misticismologico, panteistico: i rapporti reali (che caratterizzano la famiglia e la società civile) sono presentati da Hegelnon come qualcosa di autonomamente reale, ma come una una manifestazione, un fenomeno dello Spirito.

Nella Kritik, quindi, Marx rivolge ad Hegel la stessa critica avanzata qualche anno prima da Feuerbach, ilquale, osservando come per Hegel il finito costituisse l'inveramento dell'infinito, sosteneva che una unafilosofia che deduca il finito dall'infinito non conduce mai ad un vero e proprio riconoscimentodell'autonomia del finito. Dunque Marx, come Feuerbach, rivendica contro l'idealismo hegeliano la positivitàe la specificità del finito, del concreto, del determinato, e la sua irriducibilità al pensiero; di qui anche larivalutazione dei bisogni, della sensibilità, della materialità dell'uomo. E' la rivendicazione materialisticacontro l'idealismo. Rispetto a Feuerbach, tuttavia, nell'analisi marxiana vi sono due elementi in più:anzitutto, l'utilizzazione di tale schema critico (l'inversione speculativa tra soggetto e oggetto) in un contestodi filosofia politica; in secondo luogo, la maggiore articolazione di tale schema, con l'accusa al procedimentohegeliano di infecondità ermeneutica e di crasso positivismo. Infecondità ermeneutica poiché, essendo loscopo del metodo hegeliano quello di ritrovare nell'empirico lo sviluppo dell'Idea, ciò fa sì che nulla sisappia della specificità dell'empirico che si sta trattando; crasso positivismo perché l'empirico, lasciato talquale è, finisce per assurgere a incarnazione dell'Idea, e quindi viene santificato così com'è.

Fin qui la critica del giovane Marx al suo maestro. Tuttavia, Marx trova nel metodo hegeliano anchequalcosa di positivo. Veniamo così al lato non critico, ma anzi di consonanza, che Marx stabilisce con Hegel(e che si accentuerà nella maturità: egli riconoscerà che la stesura delle sue opere mature deve molto allarilettura della Scienza della logica di Hegel). Dice infatti Marx, sempre nella Kritik: pur con tutti questilimiti,

riconosciamo in Hegel della profondità, in questo suo cominciare ovunque con l'opposizione delledeterminazioni (proprie dei nostri Stati) e porvi l'accento.

Il profondo, in Hegel, starebbe nel cominciare ovunque con l'opposizione delle determinazioni: è talemetodo che gli consente di intendere la natura degli Stati moderni. Vedremo che Marx, come lo stessoHegel, intende in realtà tale 'opposizione reale' come una 'contraddizione logica'. Per comprendere questadifferenza, già chiarita da Kant, ci possiamo rifare ad un testo dello stesso Marx.

Estremi reali non possono mediarsi fra loro, proprio perché sono reali estremi. Ma neanche abbisognano dialcuna mediazione, perché sono di opposta natura. Non hanno niente di comune l'uno con l'altro, non si

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richiedono l'un l'altro, non si integrano l'un l'altro. L'uno non ha nel suo seno brama, bisogno, anticipazionedell'altro. [...] A questo sembra contrapporsi: les extrêmes se touchent. Che polo nord e polo sud siattraggono, e parimenti si attraggono sesso femminile e sesso maschile, onde dal congiungimento delle loroestreme differenze nasce l'uomo.

Ora a Marx non interessano le opposizioni reali, ma le contraddizioni logiche, giacché egli ritiene che questecostituiscano l'essenza della moderna società borghese: in essa infatti vi sarebbe scissione/contraddizione (enon semplice opposizione!) tra società civile e Stato, ossia tra società e politica, tra borghese e cittadino. Main cosa consiste tale scissione/contraddizione? Nel fatto che nella società pre-borghese la posizioneeconomico-sociale e quella politica fanno tutt'uno: la sudditanza/diseguaglianza economico-socialecorrispondeva alla sudditanza/diseguaglianza politica; il servo della gleba era per ciò stesso suddito, ilproprietario terriero era per ciò stesso signore. Nell'epoca borghese, invece, questi due mondi si separano: intale separazione è implicito un progresso, rispetto alle società schiavistiche o servili, perché si crea una sferapubblica in cui tutti sono uguali. Ma tale uguaglianza è solo politica e si contrappone alla sfera socio-economica, dove permangono le diseguaglianze. L'uomo ne risulta scisso: da un lato, come cittadino, èuguale a tutti gli altri; dall'altro, come individuo empirico, è profondamente diseguale agli altri.

Cosa è accaduto? Anzitutto Marx ha accettato integralmente da Hegel il principio dialettico, ossia la coppiascissione/contraddizione. In secondo luogo, egli - proprio facendo di tale scissione/contraddizione lacaratteristica della società moderna - ha trasferito, come ha osservato Kelsen, le contraddizioni logiche dalpensare all'essere. Marx non vede contrasti nella realtà, ma contraddizioni logiche. Qual è la differenza,rispetto ad Hegel? Che Hegel propone un superamento puramente speculativo di tali contraddizioni, mentreMarx riterrà che esse vadano superate con un atto pratico-rivoluzionario. Inoltre, la concezione dialetticadella realtà - l'idea che essa sia intimamente autocontraddittoria - conduce non all'elaborazione di unasociologia scientifica, ma ad una teoria rivoluzionaria, il cui obiettivo essenziale non è soltanto conoscere edeventualmente modificare la realtà, ma piuttosto sovvertirla.

Infine occorre osservare che nell'avvertire la scissione come contraddizione opera il concetto tipicamenteromantico di 'totalità organica', vale a dire l'idea di un'unione differenziata degli opposti, dove cessa latensione tra gli stessi. Il mondo moderno, così per Hegel come per Marx, ha dissociato ciò che nella polisantica era totalità[42]: in essa non si dava contrasto tra particolare e universale, tra individuo e Stato, trasoggetto e oggetto, tra cittadino e individuo empirico. Tanto Hegel quanto Marx - uniti da questaidealizzazione della polis antica - anelano all'unità, all'unificazione, alla totalità organica, che il mondomoderno-borghese avrebbe frantumato e atomizzato, a causa del suo individualismo/particolarismo. Mamentre Hegel si sforza di imbrigliare, superare e sublimare tale atomismo, che per lui caratterizza soltanto lasocietà civile, con una serie di strumenti (quali l'amministrazione pubblica, la corporazione, lo Stato), Marxintende invece superare tale atomismo, nel quale egli rintraccia la natura stessa dell'intera società borghese,tagliando quelle che per lui ne sono le radici, ossia la proprietà privata. L'organicismo di Hegel vuolemediare le differenze (e non sopprimerle), quello di Marx vuole invece realizzarsi attraverso un rigorosoegualitarismo. Ma l'aspirazione è la stessa: fondere l'individuo nel tutto, trasformarlo in un momento di unatotalità compatta, coesa, armonica. Il tratto saliente della libertà dei moderni - l'indipendenza individuale, ilriconoscere all'individuo una sfera sacra di autodeterminazione - è proprio ciò che costituisce il suo difettoprincipale, agli occhi di Marx: esso significa infatti che l'uomo è inteso non come specie ma come individuoe che la società è solo un'aggregazione di individui indipendenti e non un qualcosa di profondamente eorganicamente unitario. Organicismo, egualitarismo e utopismo fanno tutt'uno, aprendo un abissoincolmabile tra il socialismo di cui parla Marx e il liberalismo moderno.

Nel quadro che ho appena illustrato, infatti, la posizione di Marx verso i diritti individuali (civili e politici)conquistati dalla tradizione liberale - e in seguito universalizzati da quella democratica - è del tutto negativo.O meglio: Marx riconosce che tali diritti, dando luogo ad una sfera pubblica dove tutti sono eguali,costituiscono un passo in avanti, rispetto alle società antiche e feudali; ma, al tempo stesso, egli ritiene cheessi siano uno degli elementi della contraddizione fondamentale della società moderna, giacchépresuppongono la separazione e il contrasto tra cittadino e borghese, quindi tra società e Stato, tra economiae politica. Ora, tale separazione/contrasto è interpretata da Marx - come abbiamo già ricordato - nei termini

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di una contraddizione dialettica, ovverosia come scissione di qualcosa che originariamente era unito e chequindi tende inevitabilmente a riunirsi: in questa prospettiva, i diritti universali dell'uomo, per Marx,

a) svolgono la stessa funzione mistificante delle rappresentazioni religiose, mascherando, tramitel'universalità astratta dello Stato, il dominio di classe; essi sono in realtà diritti 'borghesi', dunque diritticlassisti e perciò falsi, ipocriti;

b) essendo frutto della scissione che caratterizza la società borghese moderna, essi verranno inevitabilmentesuperati con la scomparsa di quest'ultima e il sorgere di una società radicalmente diversa (quella proletaria),caratterizzata dal superamento di tutte le scissioni e di tutti gli antagonismi.

Ricapitolando: nella teoria marxiana non si tratta di allargare i diritti politici - che i liberali, nell'Ottocento,volevano riservare soltanto ai proprietari - a tutti, come farà la tradizione democratica; né si tratta diintegrare i diritti civili e i diritti politici, una volta estesi a tutti, con i diritti sociali, ossia con una serie digaranzie volte a far sì che i primi non vengano resi inefficaci dalle condizioni socio-economiche. In tuttiquesti casi, diritti di diversa natura sono stati innestati sul medesimo tronco, e hanno dunque integrato, e noncancellato, quelli precedenti. E' chiaro che questa integrazione non è così pacifica - non lo è sul piano teoricoe non lo è stata sul piano storico. Per potersi integrare, questi diritti, essendo finalizzati alla tutela di benidiversi, devono reciprocamente rinunciare a qualcosa: di qui le diverse interpretazioni della democraziamoderna, da quelle che pongono l'accento sulla libertà individuale (liberal-democratiche) a quelle chepongono l'accento sulla partecipazione sociale (democrarico-liberali o social-democratiche). Ma, pur nelladiversità, queste posizioni condividono una serie di valori e di istituzioni: la libertà individuale per tutti (e iconnessi diritti e garanzie), la libertà politica per tutti (ossia il suffragio universale), e infine una serie digaranzie sociali (più o meno estese) per rendere effettive le prime e per garantire pari opportunità a tutti.Nulla di tutto questo in Marx: la democrazia liberale è per lui nient'altro che la 'democrazia borghese', falsa eipocrita; una vera e propria maschera, che serve ad occultare l'oppressione e lo sfruttamento del proletariatoda parte della borghesia, e che sparirà tra le macerie quando il proletariato, attraverso la rivoluzioneineluttabile, rovescerà violentemente la società borghese, dando luogo ad una società totalmente diversa. Idiritti civili e politici altro non sono che quella maschera; essi non hanno alcuna portata e alcun valoreuniversali. Essi sono soltanto lo strumento di un dominio di classe: annientato tale dominio, sarannoannientati anch'essi. Nella società comunista, del resto, il problema dei diritti non esisterà affatto: esso èinfatti l'espressione, secondo Marx, di una società caratterizzata dall'antagonismo delle classi.

Veniamo ora al materialismo storico. Presupposto di tale concezione della storia è che non esista un'essenzaumana in generale, determinabile astrattamente. Tale determinazione astratta è stata compiuta tantodall'idealismo (che ha visto nell'uomo soltanto il suo lato attivo, ossia la sua capacità di intervenireattivamente nella realtà, di trasformarla, trascurando completamente il lato sensibile, materiale), quanto dalmaterialismo alla Feuerbach (il quale ha visto nell'uomo soltanto la materia come mera sensibilità, comemera ricettività del mondo esterno, trascurando completamente il lato attivo e creativo). L'essenza dell'uomo,per Marx, non è invece determinabile una volta per tutte, a prescindere dalla concrete condizioni storichedella sua esistenza; la sua essenza non può essere còlta rimanendo sul piano interiore della coscienza, oppureconcependolo naturalisticamente come qualsiasi altro elemento della natura, perché la natura dell'uomo èstoria, ossia rapporto attivo e mutevole con la natura e con gli altri uomini. Ora, tale rapporto dà luogo aforme storicamente determinate di lavoro e produzione, che sono le vere matrici della personalità umana.Cosa distingue - si chiede Marx nell'Ideologia tedesca - gli uomini dagli animali? Noi possiamo dire che lidistinguono la coscienza o la religione; ma in realtà gli «uomini cominciarono a distinguersi dagli animaliallorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza ... Producendo i loro mezzi di sussistenza, gliuomini producono indirettamente la loro vita materiale». E' dunque il lavoro che contraddistingue l'uomo,ossia la sua capacità di stabilire un rapporto attivo e modificatore con la realtà che lo circonda.

Il materialismo storico si basa su questi presupposti: l'essenza umana non è determinabile una volta per tutte,ma si manifesta nel concreto processo storico, attraverso le forme che viene assumendo; presuppostoempirico di questa storia sono le condizioni materiali, dunque le condizioni economiche, nelle quali l'uomosi trova ad operare e che egli tende a trasformare. Ascoltiamo tale concezione nella sua formulazione più

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classica, tratta dalla prefazione a Per la critica dell'economia politica.

Nella produzione sociale della loro esistenza - scrive Marx - gli uomini entrano in rapporti determinati,necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinatogrado di sviluppo delle loro forze positive materiali. L'insieme di questi rapporti costituisce la strutturaeconomica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una soprastruttura giuridica e politica e allaquale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materialecondiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uominiche determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.

Ecco il famoso economicismo marxiano. La struttura della storia - il luogo nel quale occorre cercare le leggidella storia, la sua anatomia - sono i rapporti economici. Tutto il resto - forme del diritto e dello Stato(dunque anche della politica), morale, religione, metafisica - è sovrastruttura, ossia qualcosa che deriva dallastruttura e che, in ultima analisi, va spiegato in base ad essa. La sovrastruttura si modifica quando sitrasforma la struttura, e non viceversa. Ecco perché la concezione idealistica della storia, secondo Marx, èprofondamente sbagliata: perché essa capovolge il processo storico effettivo, facendo delle idee laspiegazione delle cose, mentre sono le cose che spiegano le idee. Una vera teoria della storia non spiega laprassi partendo dalle idee, ma al contrario spiega la formazione delle idee partendo dalla prassi materiale eperciò giunge al risultato che

tutte le forme e i prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale,risolvendoli nell'autocoscienza o trasformandoli in spiriti, fantasmi o spettri, ecc., ma solo mediante ilrovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate.

Ne consegue, conclude Marx, che «non la critica ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anchedella storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria».

Questo approccio ci consente di illustrare un altro concetto fondamentale: quello di ideologia. Per Marx lastoria è storia di lotta di classi, ossia di lotte socio-economiche, che trasformano la struttura economica dellasocietà. Vi è sempre una classe che opprime e una classe che viene oppressa. Tutte le forme sovrastrutturali(a cominciare dalle istituzioni giuridico-politiche, per finire con le manifestazioni spirituali) non sono chemezzi con i quali la classe dominante esprime e realizza il suo dominio: in questo senso esse sono"ideologiche", poiché realizzano tale dominio occultandolo dietro una pretesa universalità. Ideologiasignifica dunque, per un verso, inconsapevolezza, coscienza capovolta: gli ideologi elaborano le illusionidella classe dominante su se stessa, perché considerano le idee (le dottrine giuridiche, politiche, filosofiche)come un prodotto dello spirito, quando esse non sono che un prodotto delle condizioni materiali, cioè delleforme di produzione; per altro verso, ideologia può significare aperta ipocrisia, atto con il quale l'interesse diclasse viene mascherato da interesse comune.

Sappiamo, dunque, che la storia è determinata dall'evoluzione della struttura economica e non certo dalleidee. Ma qual è la molla di tale evoluzione? Essa è costituita, per Marx, dal rapporto tra 'forze produttive'(ossia gli uomini, i mezzi e le conoscenze che servono a produrre) e 'rapporti di produzione' (vale a dire, irapporti che si instaurano fra gli uomini nel corso della produzione e che trovano espressione nei rapporti diproprietà; in sostanza, sono i rapporti sociali). Quando le forze produttive raggiungono un certo grado disviluppo, esse entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, i quali non rappresentano piùcondizioni di sviluppo per tali forze produttive, bensì vere e proprie catene. Subentra allora un'epoca dirivoluzione sociale, attraverso la quale i rapporti sociali vengono radicalmente trasformati. Ma questoavviene soltanto quando la vecchia formazione sociale ha sviluppato tutte le forze produttive cui può darecorso; è con la completa maturità che una forma sociale prepara la propria crisi. Riscontriamo in questeposizioni, ancora una volta, l'eco della dialettica storica di Hegel. Marx tuttavia ammette che tale processodialettico ha una fine. I rapporti sociali di produzione borghese sono l'ultima forma antagonistica, a suoparere, del processo di produzione sociale. La borghesia sviluppa forze produttive tali che consentiranno disuperare l'antagonismo, attraverso un processo (caratterizzato inizialmente dalla dittatura del proletariato) ilcui esito finale sarà la società comunista, vale a dire una società senza classi, priva di contraddizioni, epertanto priva di ogni necessità di oppressione o di mediazione tra contrasti: dunque una società senza Stato

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e senza politica.

Il testo in cui forse si può cogliere nel modo più chiaro l'applicazione alla realtà della concezionematerialistica della storia è il Manifesto del 1848. Qui ritroviamo anzitutto l'analisi della funzione storicadella borghesia, che Marx esalta in termini assai positivi: la borghesia, egli dice, ha modificato la faccia dellaterra in una misura che non ha precedenti nella storia, mostrando ai popoli che cosa possa l'attività umana.Ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi d'Egitto, gli acquedotti di Roma e le cattedrali gotiche; haportato a termine ben altre spedizioni che gli spostamenti dei popoli e le Crociate in Terrasanta. La borghesiaha realizzato per la prima volta l'unificazione del genere umano: agevolando le comunicazioni e trascinandonella civiltà tutti i paesi è riuscita costruire un mercato mondiale e a porre le basi per un realecosmopolitismo. Ma questo è soltanto un aspetto della valutazione marxiana della borghesia, che riguardasoprattutto il passato (ossia, la sua funzione storica) di tale classe; per il futuro Marx assimila infatti laborghesia allo stregone che non riesce più a dominare le forze da lui evocate, e che pertanto è destinata asoccombere nella lotta di classe con il proletariato.

Inoltre nel Manifesto troviamo la critica dei cosiddetti socialismi non-scientifici. Marx divide la letteraturasocialista e comunista in tre tendenze di fondo: il socialismo reazionario, quello conservatore o 'borghese' equello critico-utopistico. Il socialismo reazionario è quello che attacca il capitalismo in nome non del futuro,ma del passato: in forme 'feudali', 'piccolo-borghesi' o 'tedesche', esso guarda alla società pre-capitalistica(pre-rivoluzionaria e pre-borghese) come ad un modello positivo. Il socialismo conservatore o borghese èquello di coloro che vorrebbero rimediare agli inconvenienti del capitalismo senza distruggere il capitalismostesso: nella loro mentalità a-dialettica, dice Marx, costoro vorrebbero i lati positivi del capitalismo senzaquelli negativi, non accorgendosi che essi sono inestricabilmente connessi e che pertanto il capitalismo nonpuò essere "curato", ma deve essere distrutto. Il socialismo e comunismo critico-utopistico è invecerappresentato dalle teorie pre-marxiste di Saint-Simon, Fourier e Owen: per avendo avuto il merito di averintravisto l'antagonismo tra le classi e le contraddizioni del mondo moderno, questi autori non hannoriconosciuto al proletariato alcuna funzione autonoma e si sono rivolti invece a tutti i membri della società,per sviluppare un'azione pacifica di riforme. Sganciati dalla realtà concreta, essi non hanno fatto cheelaborare 'ideali' astratti, privi di qualsiasi efficacia: ad essi Marx contrappone il proprio socialismoscientifico, basato su un'analisi critico-scientifica dei meccanismi sociali del capitalismo esull'individuazione del proletariato come forza rivoluzionaria destinata ad abbattere il sistema borghese e acostruire una società totalmente nuova.

Passiamo ora a delineare, per sommi capi, la teoria economica contenuta nel Capitale, ossia l'anatomia dellasocietà borghese. Marx critica l'economia classica (detta economia borghese) perché scambia per naturaleciò che è un prodotto storico: il modo di produzione borghese-capitalistico. In realtà quest'ultimo è il fruttodi un determinato cammino storico e reca in sé i germi della propria dissoluzione. La fine del modo diproduzione borghese segnerà, per Marx, la fine dei modi di produzione antagonistici, ossia basati sulrapporto signore-servo; ma è soltanto passando attraverso questa fase che si porranno le basi per lo sviluppodi forze produttive tali da consentire nuovi rapporti di produzione, ossia una nuova società.

Nell'analisi economica di Marx vi sono due capisaldi: la teoria del valore e la legge di sviluppo della societàcapitalistica. La teoria del valore/lavoro non è nuova - essa è infatti già presente negli economisti classici,come Smith e Ricardo -, ma nuove sono le conseguenze che Marx ne trae. L'assunto è semplice: il valore diuna merce è dato dal lavoro occorso per produrla; quindi, valore = lavoro. Ne consegue che le mercivengono scambiate, sul mercato, attraverso la reciproca commisurazione del lavoro occorso per produrle.Ma il lavoro stesso, che cos'è? Nella società capitalistica è una merce come tutte le altre, sottoposta allacompra-vendita: Marx denomina questo tipo particolare di merce 'forza-lavoro'. Il proprietario della forza-lavoro è il proletario, che non ha altro da vendere, se non la sua capacità di lavorare; vendendo questa'merce' egli ottiene in cambio il salario. Ma come si determina il valore della forza-lavoro (ossia, come sidetermina il salario)? Come in tutti gli altri casi, ossia attraverso la quantità di lavoro necessario perprodurla: in questo caso ciò significa che il valore della forza-lavoro equivale al valore dei mezzi disussistenza necessari per consentire alla forza-lavoro di esistere.

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Tuttavia, la forza-lavoro, osserva Marx, è una merce sui generis: essa infatti, oltre ad avere un propriovalore, è in grado di saper creare altro valore, attraverso la produzione di altre merci. Solo il lavoro, infatti,crea valore; le macchine (il capitale costante, secondo la terminologia di Marx) non fanno che cedere aiprodotti il proprio valore, che è già contenuto nel loro prezzo. Ora, è da questa peculiarità della forza-lavoroche scaturisce il plusvalore: il capitalista compra la forza-lavoro come qualsiasi altra merce, ossia pagandolasecondo il valore corrispondente alla quantità di lavoro socialmente necessario a produrla, che, nel casodell'operaio, corrisponde a quello dei mezzi che gli sono necessari per vivere, lavorare e riprodursi. Tuttavial'operaio ha la capacità di produrre un valore superiore a quello che gli viene corrisposto con il salario; talevalore, che è incorporato nelle merci prodotte, non viene tuttavia dato al suo produttore, ossia al lavoratorestesso, ma viene trattenuto dal capitalista. Facciamo un esempio: un operaio lavora per 10 ore e quindi creaprodotti per un valore uguale a 10; se il capitalista gli corrispondesse tutto il valore del prodotto nonrealizzerebbe alcun guadagno; di conseguenza, il valore equivalente al salario deve essere inferiore al valoreglobale prodotto dall'operaio. Poniamo che tale valore sia fissato a 6: ne consegue che nelle prime sei orel'operaio avrebbe creato prodotti aventi un valore equivalente al proprio salario; nelle restanti quattro egliavrebbe quindi "regalato" il proprio lavoro (plus-lavoro) al capitalista. Dal 'plus-lavoro' dell'operaio discendequindi il 'plus-valore' di cui si impossessa il capitalista: con questa teoria Marx ritiene di aver dato unaspiegazione scientifica dello sfruttamento, sfruttamento che è possibile solo in quanto il capitalista possiedequei mezzi di produzione di cui è sprovvisto l'operaio, il quale è quindi "costretto" a vendersi sul mercato.

Dal plus-valore deriva il profitto, che non coincide però con il primo. Occorre tenere presente cheun'impresa, per funzionare, ha bisogno sia del capitale variabile (destinato ai salari), sia del capitale costante(macchinari e tutto ciò che serve al funzionamento della fabbrica); poiché il plus-valore deriva soltanto daisalari, ossia dal capitale variabile, il suo saggio risiede nel rapporto tra plus-valore medesimo e capitalevariabile. Serviamoci ancora una volta di un esempio: se il capitale variabile è 6 e il plus-valore è 4, il saggiodel plus-valore sarà quattro sesti, ossia due terzi, ossia il 66,6%. Il capitalista deve tuttavia investire nonsoltanto in capitale variabile (salari), ma anche in capitale costante (macchinari): ne consegue che il saggiodi profitto non coincide con il saggio di plus-valore, ma scaturisce dal rapporto tra il plus-valore da un lato ela somma del capitale variabile e del capitale costante dall'altro. Tornando al nostro esempio: il capitalevariabile era 6, il plus-valore era 4; assumiamo che il capitale costante sia 1; ne segue che il saggio diprofitto sarà 4 diviso 7 (6+1), dunque quattro settimi, ossia il 57,1%. Il saggio di profitto è pertanto sempreminore del saggio di plus-valore.

Quanto alla legge di sviluppo della società capitalistica, Marx la esprime con la formula D-M-D'. Inun'ipotetica società mercantile semplice - ossia in una società nella quale ciascun lavoratore sia proprietariodei mezzi produzione e produca pertanto autonomamente un certo tipo di merce - la circolazione avrebbe laforma M-D-M (merce-denaro-merce): ciascun produttore scambia la merce con denaro, al fine di acquistareun'altra merce; sarebbe una transizione finalizzata esclusivamente al consumo. Viceversa la circolazionecapitalistica, come abbiamo anticipato, ha la forma D-M-D' (denaro-merce-denaro), dove D' deve esseremaggiore di D: il capitalista insomma compra con il proprio denaro la merce necessaria alla produzione erivende poi per denaro le merci prodotte. Tutto il movimento è finalizzato ad accrescere il capitale, ossia aprodurre profitto; ma tale profitto non viene interamente consumato, pena l'estinzione del processo; essoquindi viene reinvestito. La società capitalistica è quindi retta dalla logica del profitto privato e non da quelladell'interesse collettivo.

Inutile ricordare che tali posizioni sono state più volte criticate. Anzitutto, esiste una linea di pensiero - cherisale ad Adam Smith e, tramite la scuola austriaca di Menger e Mises, giunge sino a Hayek - secondo cui lacompetizione economica tra una pluralità di soggetti liberi, mossi dall'interesse privato e disciplinati daregole generali, risulta essere il modo migliore per produrre l'interesse collettivo, mentre le economiecollettivistiche, incentrate sull'abolizione degli interessi privati e sul perseguimento pianificato dell'interessecollettivo, produrrebbero, a dispetto delle loro intenzioni, soltanto una condizione di miseria diffusa (e lastoria del XX secolo, a questo riguardo, si è incaricata di dare una spettacolare evidenza a tale argomento).In secondo luogo, la teoria del valore/lavoro è stata sottoposta a numerose critiche, rilevando come neldeterminare il valore della merce entrino in gioco altri fattori (in primo luogo, quello della sua scarsità odella richiesta che incontra). In terzo luogo, la tesi secondo cui il profitto costituirebbe un "furto" ai danni

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del lavoratore occulta completamente il fatto che l'imprenditore arrischia il proprio capitale - anticipandolosotto forma di macchinari e di salari - in un'impresa il cui esito è sempre incerto e dalla quale può anchederivare la perdita del proprio denaro; e il profitto viene per l'appunto a remunerare tale "rischio", nonchél'inventitità dell'imprenditore, che svolge la funzione socialmente cruciale di creare lavoro e ricchezza. Undato certamente campeggia, alla fine del nostro secolo: l'economia di mercato, pur con tutti i suoi difetti (chesono numerosi), ha saputo creare società in cui la ricchezza è aumentata e si è diffusa in proporzioni che nonconoscono eguali nella storia dell'uomo; e verso queste società, non a caso, si dirigono tutte le popolazionipovere della terra. A ciò si aggiunga il fatto che il comunismo - ovunque sia stato realizzato, sia pure nellecondizioni culturali, sociali ed economiche più diverse (in Europa come in Asia, in America come in Africa)- ha sempre coinciso con l'annientamento delle libertà civili e politiche, mentre l'economia di mercato èsempre convissuta con regimi liberal-democratici (è soltanto sul finire del XX secolo, e in regimi spessooriginariamente comunisti, che hanno iniziato a svilupparsi sistemi economicamente liberi, ma privi dellalibertà civili e politiche). Tutto ciò non significa affatto che l'economia di mercato sia priva di difetti e chequindi non richieda un costante intervento per rimediare ai suoi aspetti negativi. Essa, insomma, noncostituisce affatto il paradiso in terra: ma questo obiettivo, contrariamente a quanto è avvenuto per ilcomunismo, non è mai stato nei progetti originari.

Ma torniamo a Marx. Il pensatore tedesco delinea un'analisi catastrofistica del capitalismo, in virtù dellaquale quest'ultimo è destinato a morire per opera delle sue immani contraddizioni. Vediamone le tappeprincipali. In un primo momento il capitale cerca di accrescere il plus-valore aumentando la giornatalavorativa: il maggiore plus-lavoro dà luogo a maggiore plus-valore; tornando al nostro esempio, se lagiornata era di 10 ore (6 di lavoro e 4 di plus-lavoro), allungandola a 15 il plus-lavoro, ossia il plus-valore,sale da 4 a 9. Ma questa strategia incontra dei limiti oggettivi, perché oltre una certa soglia la forza-lavorocessa di essere produttiva. Ne consegue che il capitalismo punta non ad aumentare la giornata lavorativa('plus-valore assoluto'), ma a ridurre la parte delle giornata lavorativa necessaria per pagare il salario: ciò sipuò ottenere soltanto migliorando la produttività del lavoro, ad es. con l'innovazione tecnologica. Si avràcosì il 'plus-valore relativo'. Tornando al nostro esempio: la giornata lavorativa rimane di 10 ore, ma, grazieall'introduzione di nuovi macchinari, l'operaio riesce a produrre in 3 ore la quantità di merci corrispondential suo salario, ragion per cui il plus-lavoro sale da 4 a 7, pur restando invariata la quantità delle orelavorative.

Ma l'aumento di produttività conseguito in tal modo produce, oltre ad una maggiore conflittualità operaia, ilfenomeno delle cicliche crisi di sovrapproduzione, ossia delle fasi in cui l'offerta di merci supera la lorodomanda sul mercato. Ciò avviene, secondo Marx, perché nel capitalismo vige l'anarchia della produzione,in virtù della quale i capitalisti si precipitano "alla cieca" nei settori dove il profitto è più alto, facendo sì chein quel settore si determini una sovrapproduzione. Il risultato di tali crisi è la disoccupazione, che va adaccrescere il cosiddetto 'esercito industriale di riserva'.

Oltre alle crisi cicliche, il capitalismo è afflitto, secondo Marx, da un altro inconveniente strutturale: lacaduta tendenziale del saggio di profitto. Poiché le necessità della produzione capitalistica inducono ainvestire una quota sempre maggiore di capitale nel capitale costante (macchine e materie prime) rispetto alcapitale variabile, ne consegue che il saggio di profitto, derivando dal plus-valore, che a sua volta deriva daisalari, è destinato a decadere progressivamente: ma la progressiva decadenza del profitto non è altro che laprogressiva decadenza del capitalismo, giacché quest'ultimo altro non è che la ricerca del profitto. Questo èil vero tallone d'Achille del capitalismo, per Marx; altri invece ritengono, inclusi alcuni marxisti, chel'innovazione tecnologica, rendendo più produttivo il lavoro, determini non la diminuzione ma l'aumento deiprofitti.

In conclusione: la caduta tendenziale del saggio di profitto, più la concorrenza, più le crisi cicliche - il tuttonel quadro della generale anarchia produttiva - condurranno ad un assetto sociale caratterizzato dalla nettascissione tra due classi: da un lato la classe dei capitalisti, sempre più ristretta e sempre più ricca; dall'altrolato la classe proletaria, sempre più numerosa e sempre più povera. E poiché il capitalismo ha un caratterenaturalmente internazionale, tale ultima scissione antagonistica tende a prodursi su scala mondiale, tendendoall'estremo limite la contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali. Di qui il celebre epilogo del I libro

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del Capitale:

la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cuidiventanto incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l'ultima ora dellaproprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.

13. Tocqueville

Cenni biografici

Alexis de Tocqueville nasce a Verneuil, presso Parigi, nel 1805, da una famiglia aristocratica legata aiBorbone.

Nel 1827 viene nominato giudice uditore al tribunale di Versailles, dove conosce Beaumont, con il qualefrequenta le lezioni di Guizot alla Sorbona. Nel 1830 giura fedeltà alla nuova monarchia orleanista. Nel 1831parte con Beaumont per studiare, su incarico del Ministero degli Interni, il sistema penitenziario degli StatiUniti. Nel 1832 ritorna in Francia e si dimette da magistrato.

Nel 1835 pubblica la I parte della Démocratie en Amerique, che incontra un grande successo. Nello stessoanno sposa Mary Motley. Nel 1837 si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati, ma viene battuto; siripresenterà e verrà eletto nel 1839. Nel 1840 pubblica la II parte della Démocratie en Amerique, che nonincontra il successo della prima.

Il 27 gennaio 1848 pronuncia un celebre discorso alla Camera, in cui dichiara di ritenere imminente unarivoluzione. Appena un mese più tardi Luigi Filippo viene travolto da un moto popolare. Viene istituita laRepubblica e instaurato un governo provvisorio repubblicano-socialista. Tocqueville viene elettoall'Assemblea Costituente.

In seguito alla vittoria di Luigi Napoleone alle elezioni del dicembre 1848 Tocqueville dà le dimissioni dagliincarichi diplomatici che aveva assunto. Nel maggio del 1849 viene rieletto all'Assemblea Nazionale.Diviene Ministro per gli Affari Esteri, ma soltanto per cinque mesi; dopo che Bonaparte ha sciolto ilgoverno, Tocqueville rifiuterà infatti di far parte di quello successivo. Dopo il colpo di Stato del dicembre1851 si ritira dall'attività politica.

Nel 1852 lavora intensamente ad un'opera sulla Rivoluzione francese; compie studi a Tours sulla societàd'ancien régime e in Germania sul sistema feudale. Tornato in Francia scrive L'Ancien Règime et laRévolution, che viene pubblicato nel 1856 ed ottiene un grande successo. Muore nel 1859 a Cannes, a 54anni.

Il pensiero politico

Nella generale riscoperta dei classici del pensiero liberale - riscoperta avviatasi a partire dai primi anni '80 -l'opera di Tocqueville ha occupato (ed occupa) un posto di primo piano. La straordinaria analisi dellademocrazia moderna - straordinaria per acutezza e per lungimiranza, essendo stata formulata negli annitrenta dell'Ottocento -, la polemica contro il centralismo amministrativo, l'esaltazione delle autonomie localie dell'associazionismo, l'interpretazione della Rivoluzione francese (della quale Tocqueville, assumendo unpunto di vista diverso da quello degli attori rivoluzionari, individua con chiarezza i legami di continuità conl'assolutismo monarchico), infine la diagnosi delle patologie insite nella civiltà moderna in quanto civiltàegualitaria e di massa: tutto questo conferisce all'opera di Tocqueville un fascino notevolissimo, derivantesoprattutto dal fatto che le sue previsioni e i suoi timori sulle società democratiche, formulati quandoquest'ultime erano appena ai loro inizi, si sono rivelati in gran parte esatti.

Tocqueville era un aristocratico. Un aristocratico - dirà Royer-Collard - che aveva accettato la disfatta; ma,

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come è stato recentemente osservato[43], questo famoso giudizio coglie soltanto in parte nel segno.

Tocqueville è indubbiamente un aristocratico: lo è per nascita ed anche per temperamento; tuttavia, comevedremo, il suo è un pensiero autenticamente liberale. Nato nel 1805 da nobile famiglia, egli aveva respiratosin dall'infanzia l'aria della Restaurazione: la sua famiglia era stata ligia ai Borboni, sotto i quali avevatrovato fortuna e onori, e soltanto il Termidoro aveva salvato i suoi genitori dalla ghigliottina; la madre -nipote del difensore di Luigi XVI nel processo che lo avrebbe condotto al patibolo - gli cantava con vocecommossa, quando era bambino, le canzoni sulla tragica fine del re. Tuttavia, nonostante l'educazionericevuta, quando i Borboni (nel luglio del 1830) furono travolti dalla Rivoluzione, il giovane Tocquevillegiurò fedeltà a Luigi Filippo. Fu una scelta assai difficile, che lo pose in contrasto con la famiglia e conl'ambiente del quale faceva parte, e che egli ritenne comunque necessaria, convinto com'era che, qualoraanche la monarchia costituzionale orleanista avesse fallito, la Francia sarebbe sprofondata nel caos enell'anarchia. In una lettera a Stoffels scriveva:

le classi medie hanno fatto la rivoluzione, e Dio voglia che esse non debbano pentirsene molto presto. Già iceti inferiori le trattano come una nuova aristocrazia: i giornali soffiano sul fuoco e il popolo, divenutoormai una potenza, cerca di avere i suoi adulatori. Giungeranno mai le classi medie ad organizzarsi inmodo da resistere al movimento che le spinge? Avranno mai una condotta abbastanza intelligente da sentirei pericoli della loro posizione attuale e da sapersi unire per apportarvi qualche rimedio? Lo spero; ma nonoso affidarmi molto a questa speranza. In ogni caso, dalla soluzione di questo problema dipenderà il nostroavvenire.

Con l'adesione all'orleanismo Tocqueville non difende solo un determinato ordine sociale (quello borghese),ma qualcosa di molto più ampio: egli difende un ordine politico-costituzionale - vale a dire, quellamonarchia costituzionale che costituisce il primo esempio continentale di Stato dal potere limitato -, alle cuispalle vi erano i valori delle tradizione liberale. Occorre ricordare che il giovane Tocqueville si forma neglianni della Restaurazione francese, ossia in un'età che - ad onta del nome - non aveva certo 'restaurato'l'edificio dell'ancien régime, ormai irrevocabilmente crollato, ma che aveva piuttosto segnato la nascita sulsuolo francese di una monarchia costituzionale, capace di garantire quelle conquiste civili che risalivano aglianni della Rivoluzione e che erano state soppresse dal dispotismo napoleonico. La genesi del pensiero diTocqueville va dunque collocata, come ha giustamente sostenuto De Caprariis, sullo sfondo della cultura edelle lotte politiche dell'età della Restaurazione: in quegli anni, Tocqueville aveva riscoperto il valoreautenticamente liberale della Rivoluzione dell'89, distinguendola dalle degenerazioni sanguinose delTerrore; perciò, quando si delineò la politica reazionaria di Carlo X (caratterizzata dal tentativo disopprimere le garanzie costituzionali), egli si schierò con fermezza dalla parte dei liberali.

Ciò non toglie che l'adesione al regime orleanista fu per Tocqueville, per le ragioni che abbiamo ricordato,molto penosa; sicché il viaggio in America, come è stato rilevato[44], fu da lui intrapreso non soltanto perconoscere direttamente una grande repubblica democratica, ma anche per sfuggire a una situazionepoliticamente e psicologicamente delicata. Tocqueville partì, insieme a Beaumont, nell'aprile del 1831 etornò in patria nell'ottobre dell'anno seguente: è da questo lungo viaggio - durante il quale egli visitòmoltissime località ed ebbe numerosissimi contatti - che nacque La démocratie en Amérique, scritto nelbiennio 1833-34 e pubblicato nel 1835. Il libro ebbe un immediato successo, che rivelò come il suo autorefosse «un pensatore capace non solo di analizzare magistralmente il presente, ma anche di individuare letendenze che si sarebbero sviluppate in futuro. In questo senso Tocqueville non fu solo un eminente studiosodella società e della politica, fu anche un profeta, nel significato positivo e realistico ... della parola»[45].

Ma che cosa vide il pensatore normanno nella giovanissima nazione americana?

Confesso - dice Tocqueville in una delle tante straordinarie pagine de La démocratie en Amérique - chenell'America ho visto qualcosa di più dell'America: vi ho cercato l'immagine della democrazia stessa, dellesue tendenze, del suo carattere, dei suoi pregiudizi, delle sue passioni, e ho voluto studiarla per saperealmeno ciò che da essa dobbiamo sperare o temere.

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Su un punto infatti Tocqueville non ha dubbi: la democrazia è il nostro destino. Molti europei videro negliStati Uniti il proprio passato: un continente ancora vergine, allo stato di natura, dove si andava edificandouna civiltà e dove si era appena riprodotta, su scala naturale, la scena grandiosa di quel contratto sociale cheaveva dominato le teorie politiche europee tra Seicento e Settecento. Tocqueville, con eccezionalelungimiranza, intuisce invece che gli Stati Uniti non rappresentano, per l'Europa, il suo lontanissimo passato,bensì il suo futuro prossimo; non ciò che essa ha alle sue spalle, ma ciò che la attende.

L'atteggiamento di Tocqueville per la democrazia è venato da una profonda ambivalenza, della quale egli èlucidamente consapevole. Da un lato, egli riconosce che democrazia significa progresso sociale e civile: inessa ogni uomo, essendo uguale agli altri, sente un uguale bisogno dei suoi simili, sicché l'interesseparticolare si fonde con l'interesse generale; nella democrazia, inoltre, la maggioranza dei cittadini gode diun benessere maggiore rispetto al passato. Dall'altro lato, Tocqueville non può fare a meno di osservarecome nelle democrazie manchi l'entusiasmo e l'ardore della fede, come esse abbiano meno splendore, menogloria, meno forza, infine come esse tendano ad un appiattimento e ad un conformismo generali.

Ho per le istituzioni democratiche - scrisse il pensatore normanno in un celebre appunto di lavoro - un gustodi testa, ma sono aristocratico per istinto, cioè disprezzo e temo la folla. Amo con passione la libertà, lalegalità, il rispetto dei diritti, ma non amo la democrazia, ecco il fondo del mio animo ... La libertà è laprima delle mie passioni, ecco la verità.

Come ha finemente osservato Raymond Aron, Tocqueville oscilla nei suoi giudizi sulla società democraticatra la severità e l'indulgenza, tra la reticenza del cuore e l'adesione esitante della ragione.

Ma v'è un punto sul quale il pensatore normanno non ha dubbi o esitazioni: la tendenza verso la democraziagli appare infatti come un processo necessario e inevitabile, che caratterizza tutta la storia moderna. Nell'XIsecolo, egli dice, la nobiltà aveva un valore incalcolabile; nel XII secolo già la si poteva comprare; e negliultimi settecento anni non si incontra in tutta la storia della Francia un solo avvenimento di particolareimportanza che non si sia risolto in favore dell'eguaglianza sociale:

le crociale e le guerre con gli Inglesi decimano i nobili e dividono le loro terre; il costituirsi dei comuniintroduce la libertà democratica in seno alla monarchia feudale; l'invenzione delle armi da fuoco rendeuguali il plebeo e il nobile sul campo di battaglia; la stampa offre le medesime risorse alla loro intelligenza;la posta porta le notizie alla soglia della capanna del povero come alla porta dei palazzi; il protestantesostiene che tutti gli uomini sono ugualmente in grado di trovare la via del Cielo. La scoperta dell'Americaapre mille nuove strade alla fortuna e offre ricchezza e potere all'oscuro avventuriero.

E se la linea di tendenza è questa, si chiede Tocqueville, come si può pensare che la democrazia, dopo averdistrutto il feudalesimo e le monarchie assolute, indietreggerà davanti ai borghesi e ai ricchi? Anche la sortedella grande borghesia è ormai segnata, ed essa dovrà fare i conti con il livellamento democratico. Di frontealla grandiosità e ineluttabilità di questo processo storico - che avanza da tanti secoli, che ha sormontatoqualsiasi ostacolo e che ancora oggi progredisce in mezzo alle rovine che ha prodotto - Tocqueville provauna sorta di "terrore religioso". Ma proprio perché si tratta di un processo ineluttabile, è inutilescandalizzarsi di fronte a certe caratteristiche della democrazia, rifiutarla da un punto di vista sentimentale oculturale, maledirla o esecrarla; non resta che prenderne atto e, se possibile, influire su di essa. Se ilprogresso democratico è ineluttabile, non resta che cercare di dirigerlo. Scrive Tocqueville:

educare la democrazia, rianimare, se è possibile, le sue fedi, purificare i suoi costumi, regolare i suoimovimenti, sostituire, poco per volta, la scienza degli affari all'inesperienza, la conoscenza dei suoi realiinteressi ai suoi ciechi istinti; adattare il suo governo ai tempi e ai luoghi, modificarlo secondo lecircostanze e gli uomini: questo è il principale dovere che oggi s'impone ai nostri governanti. E' necessariauna scienza politica nuova per un mondo ormai completamente rinnovato.

Ma le classi dirigenti francesi non hanno fatto nulla di tutto ciò; esse hanno abbandonato la democrazia a sestessa, ai suoi istinti e ai suoi impulsi. Il risultato è che la Francia conosce e soffre tutti i mali dellademocrazia, senza godere dei suoi pregi. Il compito che si propone Tocqueville va proprio in questa

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direzione: egli si propone di studiare a fondo la democrazia per dirigerla e purificarla, per aiutare la vecchiaEuropa a realizzarne consapevolmente le conquiste e, al tempo stesso, per cancellarne (o limitarne) ipericolosi difetti.

Gli Stati Uniti offrono, per questo compito, un terreno ideale: lì, infatti, il principio democratico - liberato datutto ciò che lo ostacolava nelle società europee - è cresciuto liberamente e rigogliosamente, sviluppandosidapprima nei costumi e quindi nelle leggi. Naturalmente Tocqueville non ha alcuna intenzione diraccomandare all'Europa la pedissequa imitazione del sistema americano; ma poiché quest'ultimo costituiscela forma più avanzata e matura di democrazia, ciò consente di mettere a fuoco presupposti e implicazioni ditale modello socio-politico, i suoi vantaggi e i suoi pericoli, al fine di decidere consapevolmente quali trattidella democrazia sia utile realizzare, e quali sia bene respingere, sul continente europeo.

Come dicevamo all'inizio, Tocqueville cerca nell'America qualcosa di più dell'America: vi cerca l'immaginedella democrazia stessa, il suo 'modello', il suo 'tipo ideale' (nel senso weberiano del termine). Ciò significache siamo lontani da qualsiasi idealizzazione: infatti il pensatore normanno sarà affascinato da alcuni aspetti,ma preoccupato per altri; aderirà razionalmente a certi princìpi e a certi istituti della democrazia americana,ma non mancherà di mettere in guardia contro le loro degenerazioni, che in alcuni casi sono inevitabili. Ilquadro che ne risulta, come è stato osservato, «può apparire - e in effetti è - sostanzialmente contraddittorio.Ma si tratta di una contraddizione altamente produttiva sia sul piano conoscitivo che su quello etico-politico»[46]. Sarà infatti proprio questa ambivalenza - vale a dire, la non completa identificazione diTocqueville con i valori della democrazia moderna, non completa identificazione dovuta proprio alla culturaaristocratica dalla quale proviene - a consentire al pensatore normanno di gettare sulla democrazia lo sguardopiù lucido di tutto l'Ottocento.

Veniamo dunque all'analisi contenuta ne La démocratie en Amérique:

tra le novità che attirarono la mia attenzione durante la mia permanenza degli Stati Uniti - leggiamo nelleprime pagine - nessuna mi ha maggiormente colpito dell'uguaglianza delle condizioni.

La democrazia è per Tocqueville anzitutto eguaglianza delle condizioni. Questa identificazione è statacriticata da alcuni studiosi, che l'hanno trovato generica e imprecisa. Essa è invece, come è stato giustamenterilevato, «una categoria socio-politica assai pregnante, perché comprende, oltre che determinazionieconomiche, sociali, giuridiche e politiche, anche determinazioni culturali e spirituali»[47]. La democrazia èinsomma qualcosa di più che un insieme di istituti giuridico-politici; essa è anche un sistema socio-economico e un sistema culturale-spirituale: e il principio ispiratore di ognuna di queste dimensioni è la'eguaglinza delle condizioni'. Non bisogna dimenticare, del resto, che nel pensiero di Tocqueville convivonodue aspetti: quello politico in senso stretto e quello più generalmente sociologico. E secondo alcunistudiosi[48] l'aspetto sociologico dell'opera tocquevilliana sarebbe assai più importante di quello politico.Riprendendo un giudizio di Marcel Prélot, Valentini sostiene infatti che Tocqueville è stato il primopolitologo, il primo scienziato politico contemporaneo; la Démocratie en Amerique andrebbe quindi posta afianco dei Six livres de la République di Bodin, dell'Esprit des Lois di Montesquieu e della stessa Politica diAristotele.

Ma torniamo alle riflessioni di Tocqueville:

senza fatica constatai - dice lo studioso normanno a proposito degli Stati Uniti - la prodigiosa influenza chel'eguaglianza delle condizioni esercita sull'andamento della società: essa dà allo spirito pubblico unadeterminata direzione, alle leggi un determinato indirizzo, ai governanti nuovi pincìpi, ai governatiabitudini particolari. Subito mi accorsi che questo fatto estende la sua influenza assai oltre la vita politica ele leggi, e che domina non meno la società civile che il governo: infatti crea opinioni, fa sorgere sentimenti,suggerisce usanze e modifica tutto ciò che non crea direttamente. Pertanto, più studiavo la societàamericana, più vedevo nell'eguaglianza delle condizioni la forza generatrice da cui pareva derivare ognifatto particolare; e me la ritrovavo continuamente davanti come un punto centrale, in cui convergevanotutte le mie osservazioni.

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Eguaglianza delle condizioni e sistema democratico fanno quindi tutt'uno. Come ha potuto verificarsi talefenomeno? Vale a dire, come mai il principio democratico, che in Europa ha incontrato così numerosiostacoli, negli Stati Uniti ha potuto svilupparsi sino a permeare di sé ogni aspetto della vita sociale? Le causefondamentali sono due, secondo Tocqueville. Anzitutto, ciò dipende dalle caratteristiche degli emigranti cheandarono a vivere in America: essi si trovavano tra di loro in una condizione di eguaglianza (condizioneevidentemente anomala, rispetto alla società europea del tempo, dove il lavorìo dei secoli aveva prodottodiseguaglianze di tutti i tipi); inoltre essi si erano formati nelle lotte religiose, il che aveva purificato i lorocostumi ed elevato la loro cultura; la maggior parte di essi aderivano ad una corrente religiosa (ilPuritanesimo) nota per l'austerità dei suoi princìpi e che, al tempo stesso, si era congiunta in più punti con lepiù avanzate teorie democratico-repubblicane; essi avevano inoltre ricevuto, nel vivo delle lotte politico-religiose che avevano sconvolto il loro paese d'origine, una straordinaria educazione politica, per cuisapevano bene cosa significasse porsi sotto la protezione della legge o reclamare i diritti di libertà (anche inquesto la loro situazione era anomala, rispetto agli altri popoli europei); infine, appartenevano tutti alle classiagiate della madrepatria. L'unione di tutti costoro sul suolo americano diede quindi luogo, secondoTocqueville, ad un singolare fenomeno: la creazione di una società dove non si trovavano né nobili e plebei,né ricchi e poveri, ma una generale (relativa, s'intende) eguaglianza delle condizioni. In secondo luogo, ilsuolo americano non permetteva (almeno al nord) il sorgere dell'aristocrazia terriera, perché la difficoltà didissodarlo richiedeva gli sforzi costanti del proprietario stesso; la terra rendeva assai poco e pertanto essavenne spezzettata in piccole proprietà, coltivate dal proprietario medesimo. L'insieme di queste condizioniperdurò per tutto il Seicento, cosicché la Nuova Inghilterra si andò configurando come una societàspiritualmente e socialmente omogenea, ben diversa dalla società europea.

In questo quadro, nonostante taluni radicalismi dovuti al fanatismo puritano, le leggi politiche della NuovaInghilterra assunsero un carattere assai più avanzato rispetto a quelle europee:

i princìpi generali su cui poggiano le costituzioni moderne, questi princìpi che la maggior parte degliEuropei del XVII secolo comprendeva appena e che trionfavano allora in modo incompleto in GranBretagna, sono tutti riconosciuti e fissati dalle leggi della Nuova Inghilterra: la partecipazione del popoloagli affari pubblici, il voto non vincolato all'imposta, la responsabilità dei governanti, la libertà individualee il giudizio per giuria sono stabiliti senza discussione e in modo effettivo.

In questo brano si possono già cogliere le profonde consonanze di Tocqueville con la democrazia americana.Di questa lo affascinano anche altre aspetti, come la mobilità sociale, la vitalità della società civile el'autonomia ammistrativa. Circa la mobilità sociale, Tocqueville non intende certo affermare che anche negliStati Uniti non vi siano dei ricchi; non solo questi ci sono, ma - osserva il pensatore normanno - «nonconosco un paese in cui l'amore per il denaro occupi un posto maggiore nel cuore umano». Ciò non toglieche la fortuna vi circoli con una rapidità incredibile, tanto che è raro vedere due generazioni consecutiveraccoglierne i favori. La libera iniziativa economica, priva di barriere socio-politiche, prorompe nella societàamericana con tutta la sua forza, conducendo ad una società in cui le classi medie rappresentano lamaggioranza. Quanto alla società civile, anch'essa è caratterizzata da una straordinaria vitalità, che è ilrisultato della sua indipendenza dal potere politico.

Non c'è paese al mondo - scrive Tocqueville - ove gli uomini facciano, in definitiva, tanti sforzi per creare ilbenessere sociale. Non conosco un popolo che sia riuscito a crare scuole altrettanto numerose ed efficienti;chiese più adatte ai bisogni religiosi degli abitanti; strade comunali meglio tenute. Non bisogna dunquecercare negli Stati Uniti l'uniformità e stabilità di vedute, la cura minuziosa dei particolari, la perfezione deiprocedimenti amministrativi; ciò che vi si trova è l'immagine della forza, un po' selvaggia, è vero, ma pienadi potenza, l'immagine della vita, disseminata di contrarietà, ma anche di movimento e di sforzi.

E' un modello opposto a quello europeo del dispotismo illuminato, dove uno Stato paternalistico (e quindiautoritario) veglia continuamente sul suddito, controllando e predisponendo la stessa vita sociale. Si trattatuttavia di una protezione il cui prezzo sta nella libertà e nella vitalità:

se poi questa autorità, nello stesso tempo in cui allontana le più piccole spine dal mio passaggio, è padronaassoluta della mia libertà e della mia vita; se monopolizza il movimento e la vita al punto che, quando essa

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langue, tutto langue, quanto essa dorme, tutto dorme, quando essa muore, tutto muore?

Come si può vedere, qui Tocqueville si spinge molto avanti nell'apprezzamento della società liberal-democratica, fino ad accettare interamente e quasi ad identificarsi - ha scritto Bedeschi - con il suo fattoredinamico, individuato nella 'spontaneità assoluta di autodeterminazione degli individui'. Ecco perché ilfamoso giudizio di Royer-Collard, che ho citato all'inizio, coglie soltanto parzialmente nel segno: perchéTocqueville non è soltanto colui il quale considera la democrazia qualcosa di ineluttabile, ma anche unpensatore che aderisce intimamente al modo moderno di intendere la libertà. Infine, come dicevo, egliapprezza enormemente l'autonomia amministrativa che contraddistingue gli Stati Uniti: essa costituisce, aisuoi occhi, la massima espressione e, al tempo stesso, la condizione fondamentale della libertà e della vitalitàpresenti nella democrazia americana. I suoi strumenti sono i comuni e le contee, i quali, pur nella varietàdelle forme assunte, si basano tutti sul medesimo principio, secondo cui ognuno è il miglior giudice di ciòche lo riguarda direttamente e quindi il più qualificato per provvedere ai suoi bisogni particolari. Comuni econtee, dice Tocqueville, vegliano sui loro particolari interessi; lo Stato governa, ma non amministra. Aquesto principio si possono trovare eccezioni; ma non si trova mai sostenuto un principio contrario. Questadottrina ha determinato una serie di conseguenze positive: anzitutto, che gli ammistratori locali debbanoessere scelti dai cittadini stessi; tale principio elettivo ha impedito la formazione di gerarchie; e poiché visono tanti funzionari indipendenti quante sono le funzioni, il potere amministrativo si è disseminano in unamolteplicità di mani; non esistendo gerarchia amministrativa ed essendo gli amministratori irrevocabili sinoalla fine del mandato, è stato necessario introdurre i tribunali nell'amministrazione, per mezzo dei quali icorpi secondari e i loro rappresentanti sono costretti a ubbidire alle leggi. Tocqueville sa bene che unanazione non può vivere, se il potere non viene accentrato; ma sa anche che tale accentramento acquisisce unaforza immensa e finisce per soffocare una società, se si unisce a quello ammistrativo, perché inibisce e allafine uccide lo spirito di iniziativa. L'esempio più evidente è la Francia. Negli Stati Uniti, invece, il più altoaccentramento politico si accompagna al più alto decentramente amministrativo: da questa combinazionenascono tutti i vantaggi della democrazia americana.

Fin qui i pregi della democrazia americana; ma dall'analisi di Tocqueville emergono anche i suoi moltidifetti e i suoi numerosi pericoli. I difetti e i limiti emergono attraverso la comparazione che il pensatorenormanno istituisce tra democrazia e aristocrazia: in primo luogo, l'aristocrazia appare dotata di maggioreenergia. In generale, i popoli liberi mostrano nei pericoli un'energia infinitamente superiore a quella deipopoli che vivono in regimi oppressivi o tirannici; ma, aggiunge Tocqueville, ciò accade soprattutto neipopoli liberi presso i quali prevale l'elemento aristocratico. La democrazia è molto più adatta a governareuna società pacifica o a fare, quando occorra, uno sforzo anche vigoroso, ma di breve durata; essa non riescead affrontare per lungo tempo le grandi tempeste politiche per una semplice ragione: «perché gli uomini -scrive Tocqueville - si espongono ai pericoli e alle privazioni per entusiasmo, ma non vi restano esposti alungo se non per riflessione». Ma è proprio la riflessione - cioè la chiara percezione dell'avvenire fondatasulla cultura e sull'esperienza - ciò che manca alla democrazia: il popolo, dice Tocqueville, più che ragionareintuisce; e se i mali che gli si prospettano sono grandi, è possibile che esso dimentichi i mali più grandi cheforse l'attendono in caso di sconfitta.

La carenza di riflessività e cultura si rivela anche nella legislazione delle democrazie: è vero che le leggidemocratiche tendono generalmente al bene della massa, perché emanano dalla maggioranza dei cittadini, laquale può certamente sbagliare, ma non può avere un interesse contrario a se stessa; e occorre riconoscereche leggi aristocratiche tendono a monopolizzare potere e ricchezza, perché l'aristocrazia è costitutivamenteminoritaria: se ne può concludere che gli scopi della democrazia, quando legifera, sono più utili all'umanitàdi quelli aristocratici. Ma è altrettanto vero, sostiene Tocqueville, che l'aristocrazia è infinitamente più abiledella democrazia nella scienza della legislazione:

padrona di sé, non è affatto soggetta a impulsi passeggeri; essa ha programmi a lungo termine che samaturare fino a che si presenti l'occasioone favorevole. L'aristrocrazia procede saggiamente; essa conoscel'arte di far convergere nello stesso tempo, verso uno stesso punto, la forza collettiva di tutte le leggi. Noncosì la democrazia: le sue leggi sono, quasi sempre, difettose o intempestive». Mentre la massa del popolopuò essere sedotta e traviata a causa della propria ignoranza e delle proprie passioni, un corpo

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aristocratico, invece, «è un uomo fermo e illuminato che non muore mai.

Il pensatore normanno rivolge inoltre alla democrazia americana delle critiche circostanziate. Egli rileva chela rieleggibilità del Presidente fa sì che questo non governi più nell'interesse dello Stato, ma in quello dellapropria rielezione. In secondo luogo, Tocqueville è colpito dal fatto che le qualità più eccellenti sono moltodiffuse tra i governati, ma assai rare tra i governanti; tale mediocrità della classe politica è dovuta, a suoparere, al fatto che è molto difficile elevare la cultura del popolo americano oltre un certo livello, sia perchégli individui sono quasi totalmente assorbiti dalle attività economiche, sia perché se l'istruzione elementare èalla portata di tutti, quella superiore non è quasi alla portata di nessuno e quando viene comunque intrapresaciò avviene con scopi immediatamente professionali (vengono insomma studiate soltanto le scienze chepreparano ad un mestiere o che sono comunque di utilità immediata).

L'insieme di queste circostanze rende i cittadini americani poco capaci di scegliere, come proprirappresentanti, uomini di merito; ma a ciò occorre aggiungere un difetto costitutivo della democrazia, vale adire il fatto che essa sviluppa al massimo grado il sentimento dell'invidia. L'ansia di affermarsi sul pianosociale mobilita emotivamente il singolo, l'incertezza del successo lo irrita, ed egli si agita, si stanca, siinasprisce.

Tutto ciò che in qualche modo lo supera - scrive Tocqueville - gli pare allora un ostacolo ai suoi desideri, enon c'è superiorità, anche legittima, la cui vista non affatichi i suoi occhi.

Le classi elevate non sono odiate, ma guardate senza alcuna benevolenza, così come poco graditi sono igrandi ingegni: ne consegue che se gli istinti naturali della democrazia spingono il popolo ad allontanare gliuomini eminenti dal potere, un istinto non meno forte porta tali uomini ad allontanarsi dalla carriera politica.Non a caso, la Camera dei rappresentanti offre uno spettacolo miserevole di volgarità e di ignoranza; perconverso, osserva tuttavia Tocqueville, il Senato offre un'immagine radicalmente diversa, essendo compostodi uomini di altissima levatura morale e professionale. La ragione di questo singolare contrasto è rinvenutadal pensatore normanno nel sistema elettivo, che per la Camera è diretto, mentre per il Senato prevede duegradi. Ecco un'altra dimostrazione di come non si possa lasciare la democrazia ai suoi (spesso bassi) istinti edi come essa debba sempre essere filtrata e corretta.

Ma, al di là di questi pur considerevoli difetti, la democrazia è afflitta da un pericolo ancora maggiore, cheproviene dalla sua stessa essenza e che rischia, alla lunga, di immiserire le energie migliori della società.Questo pericolo consiste nello strapotere della maggioranza, nella famosa 'tirannia della maggioranza'. Indemocrazia quest'ultima tende a divenire sempre più forte; né ciò deve meravigliare, perché la democrazia,prima di essere un insieme di istituti giuridico-politici, è un atteggiamento intellettuale e morale, il quale sifonda - secondo Tocqueville - sull'idea che vi sia più cultura e saggezza in molti uomini riuniti, piuttosto chein uno solo: è «la teoria dell'eguaglianza applicata all'intelligenza». Questa concezione ha trovato negli StatiUniti perfetta applicazione nel completo asservimento del legislativo alla maggioranza e nelle scarsegaranzie date alle minoranze:

il legislativo è, di tutti i poteri politici, quello che obbedisce più volentieri alla maggioranza. Gli americanihanno voluto che i membri del potere legislativo fossero nominati direttamente dal popolo, e per un periodomolto breve, al fine di obbligarli a sottomettersi non solo alle opinioni generali, ma anche alle passionigiornaliere dei loro elettori.

Sempre più di frequente, continua Tocqueville, gli elettori tracciano per il deputato una sorta di linea dicondotta, alla quale egli si deve attenere; ma nel momento in cui i deputati ricevono, di fatto, un mandatoimperativo, l'unica differenza con il governo della piazza, osserva Tocqueville, sta nell'assenza dei tumulti.Ciò fa sì che per le minoranze rimanga uno spazio davvero esiguo: a chi può rivolgersi, negli Stati Uniti, unuomo o un partito che abbia subito un'ingiustizia? Il risultato di una simile situazione è una sorta di tiranniapiù efficace e raffinata dei vecchi sistemi assolutistici europei; più efficace perché il potere dellamaggioranza ha una forza quantitativamente e qualitativamente maggiore di quella del monarca.

Sotto il governo assoluto di uno solo, il dispotismo, per arrivare all'anima, colpiva grossolanamente il

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corpo; e l'anima sfuggendo a quei colpi, s'elevava gloriosa al di sopra di esso: ma nelle repubblichedemocratiche la tirannide non procede affatto in questo modo: essa trascura il corpo e va diritta all'anima.Il padrone non dice più: tu pernserai come me o morirai; dice: sei libero di non pensare come me; la tuavita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da questo giorno tu sei uno straniero tra noi. Conserverai i tuoi privilegidi cittadinanza, ma essi diverranno inutili, poiché, se tu ambisci l'elezione da parte dei tuoi concittadini, essinon te l'accorderanno, e se chiederai solo la loro stima, essi fingeranno anche di rifiutartela. Resterai fra gliuomini, ma perderai i tuoi diritti all'umanità. Quando ti avvicinerai ai tuoi simili, essi ti sfuggiranno comeun essere impuro; e anche quelli che credono alla tua innocenza, ti abbandoneranno, poiché li si fuggirebbea loro volta. Va in pace, io ti lascio la vita, ma ti lascio una vita che è peggiore della morte.

Che cosa consente, allora, alla democrazia americana - dove il principio della sovranità popolare riceveun'applicazione così pervasiva - di restare, nonostante tutto, una democrazia liberale? La risposta sta in unaserie di contrappesi, che costituiscono dei veri e propri anticorpi alle caratteristiche antiliberali dellademocrazia pura. Anzitutto abbiamo la divisione dei poteri: la tendenza allo strapotere del legislativo, tipicadelle democrazie pure, è frenata negli Stati Uniti dall'indipendenza dell'esecutivo (ossia del Presidente), ilquale possiede, ad esempio, il diritto di veto. Si potrebbe anche aggiungere che l'elezione diretta del capodell'esecutivo conferisce a quest'ultimo lo stesso grado di legittimità democratica che possiede il legislativo.In secondo luogo, abbiamo il giurì nella giustizia penale e civile: Tocqueville ritiene, come Constant, che lapartecipazione ai processi nella veste di giurati crei nel popolo un abito giuridico, ossia una disposizione alrispetto dei diritti altrui, contro le tendenze egoistiche e anarcoidi.

Questi contrappesi, per quanto importanti, non sarebbero tuttavia sufficienti. Un ruolo decisivo spetta,ancora una volta, al decentramento amministrativo e al corpo dei giudici. Sul primo ci siamo già soffermati:qui basti ricordare che il governo centrale si deve affidare ai comuni ed alle contee per eseguire le propriedirettive; in tal modo questi enti vengono a costituire, secondo Tocqueville, una sorta di scogli nascosti, chepossono ritardare o dividere il potente flutto della volontà popolare. E' questa la differenza fondamentale chesepara la democrazia americana da quella europea (in particolare, da quella francese): mentre quest'ultima haereditato il centralismo politico-ammistrativo della monarchia assoluta, quella americana è nata comedemocrazia, senza precedenti assolutistici e rivoluzionari. In essa il principio della sovranità popolare vienedal basso, dai costumi e dalle abitudini delle comunità puritane, dai modi di organizzare il potere locale, neicomuni e nelle contee, anche quando il legame con l'Inghilterra non permetteva di utilizzare tale sistema alivello centrale: la sovranità popolare si è sviluppata 'dal basso verso l'alto' e 'dai costumi alle leggi'. Il suoprincipio fondante - la sovranità popolare - ha ricevuto un'applicazione e un consenso che non sonoriscontrabili sul continente europeo:

negli Stati Uniti il dogma della sovranità del popolo non è una dottrina isolata, che non tenga conto né delleabitudini né dell'insieme delle idee dominanti, ma può considerarsi invece come l'ultimo anello di unacatena di opinioni che circonda tutto il mondo anglo-americano. La Provvidenza ha elargito a ciascunindividuo, chiunque esso sia, quel tanto di ragione necessario perché egli possa dirigersi da solo nelle coseche lo interessano personalmente. E' questa la gran massima sulla quale negli Stati Uniti riposa la societàcivile e politica; il padre di famiglia l'applica ai suoi figli, il padrone ai suoi servi, il Comune ai suoiamministrati, la Provincia ai Comuni, lo Stato alle Provincie, l'Unione agli Stati. Estesa all'intera nazionequesta massima diviene il dogma della sovranità popolare.

Sono chiari, in questo brano, i riferimenti - per contrasto - all'Europa e, in particolare, alla Francia: lasovranità popolare non è una dottrina isolata, ossia che non tenga conto delle abitudini e dell'insieme delleidee dominanti. Evidente la critica alla teoria politica partorita dalla cultura illuministica: essa non tieneconto della storia, del passato, della concreta configurazione assunta dalla società e dalla mentalità degliuomini; la ragione si erge, assoluta, di fronte al reale nella sua varietà e molteplicità, non riconoscendo adesso alcuna razionalità e pretendendo quindi di ridisegnarlo completamente secondo i suoi astratti criteri.Viceversa, negli Stati Uniti, la democrazia (vale a dire, il principio della sovranità popolare) si è innestatonaturalmente sul tronco della realtà sociale e culturale.

Ma torniamo all'ultimo contrappeso che consente alla democrazia americana di essere una democrazia

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liberale: gli uomini di legge, che Tocqueville chiama 'legisti'. Essi svolgono una funzione cruciale nelsistema americano, perché intervengono in due fasi sulle leggi, ossia sullo strumento-principe dellademocrazia: nella fase della redazione (nelle assemblee legislative spetta a loro redigere materialmente i testidi legge) e in quella dell'applicazione, in quanto giudici. I legisti rappresentano, agli occhi di Tocqueville,una specie di aristocrazia, nella società democratica americana: essi formano un 'corpo', essendo uniti daglistudi comuni e da una comune mentalità. Questa mentalità consiste in una «istintiva tendenza all'ordine», inun «amore naturale delle forme» e in un «grande disgusto per le azioni della moltitudine»: come si puòvedere, sono presenti il richiamo alla legalità, allo spirito giuridico (concepito come qualcosa di opposto aldisordine violento della piazza) e all'ordine[49]. Perciò negli Stati Uniti il corpo dei legisti forma il piùpotente contrappeso alla democrazia: quando il popolo si lascia inebriare dalle proprie passioni, o siabbandona ai propri impulsi, i legisti gli fanno sentire un freno quasi invisibile che lo modera e lo trattiene:

ai suoi istinti democratici, essi oppongono segretamente le loro tendenze aristocratiche; al suo amore dellanovità, il loro rispetto superstizioso per ciò che è antico; all'immensità dei suoi piani, le loro veduteristrette; al suo disprezzo delle regole, il loro gusto per le forme; e alla sua foga, la loro abitudine diprocedere con lentezza.

Bedeschi ha giustamente osservato che queste pagine non devono essere catalogate come semplicementeconservatrici: «la critica tocquevilliana del potere irresistibile o tirannico della maggioranza nelle societàdemocratiche, che si esprime sia attraverso il conformismo di massa sia attraverso passioni o impulsiirrazionali ... è ispirata a un rispetto religioso per l'individuo, per la sua libertà intellettuale e morale, perl'autonomia della sua sfera interiore e della condotta che ne discende. E' una critica, insomma,autenticamente liberale»[50].

Concludiamo facendo qualche cenno alla seconda parte della Democrazia in America. Scritta a pochi anni didistanza, essa non costituisce un semplice prolungamento della prima; il lettore assiste infatti a vari esignificativi cambiamenti, che non sempre sono coerenti con le tesi sostenute nella prima parte.

In primo luogo, mentre la prima parte dell'opera è più concreta e mira a offrire, con testimonianze einformazioni di prima mano, un ritratto socio-politico della democrazia americana, nella seconda partequest'ultima passa sullo sfondo, mentre l'Autore, guardando prevalentemente alla situazione francese edeuropea, mira soprattutto a cogliere le caratteristiche più generali di una civiltà egualitaria. Oltre ad esserepiù astratta nel metodo, la seconda parte della Democrazia in America è, in secondo luogo, più pessimisticanella sostanza e nel tono; il concetto della 'tirannia della maggioranza' viene ripreso e approfondito sino adivenire il connotato essenziale delle società democratiche, caratterizzate da un pesante conformismo dimassa. In terzo luogo, il centralismo politico-amministrativo viene visto come una tendenza in certa misurainevitabile delle società democratiche, il che significa che quanto più la democrazia realizza se stessa (cioèeguaglia le condizioni sociali), tanto più distrugge la libertà intesa come autodeterminazione dei singoli eautonomia della società civile[51]. In quarto e ultimo luogo, nella seconda parte emerge con grande rilievo unproblema di formidabile importanza: la rivoluzione industriale e i suoi effetti sulla società. E qui i tonipessimistici di Tocqueville saranno assai vicini a quelli della contemporanea letteratura socialista.

Vediamo ora di chiarire meglio tutti i punti appena indicati. Fra i temi che tornano con forte accentuazionenegativa v'è anzitutto quello delle conseguenze dell'uguaglianza sullo spirito pubblico. Man mano che icittadini diventano più simili, cresce la disposizione di ciascuno a identificarsi nella massa e a credere inessa, il che significa che l'opinione pubblica, l'opinione della maggioranza, viene a godere, presso i popolidemocratici, di un singolare potere: essa «non fa valere le proprie opinioni attraverso la persuasione, ma leimpone e le fa penetrare negli animi attraverso una specie di gigantesca pressione dello spirito di tuttisull'intelligenza di ciascuno», ragion per cui «si può prevedere che la fede nell'opinione pubblica diverrà unaspecie di religione, di cui la maggioranza sarà il profeta».

Inoltre la cultura tipica delle società democratiche sarà sempre più una cultura di massa, priva di ideeoriginali e pervasa di idee generali, accettate senza discussione:

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gli uomini che vivono in epoche di eguaglianza - osserva Tocqueville - hanno molte curiosità e poco tempolibero; la loro vita è così pratica, così complicata, così agitata, così attiva, che resta loro soltanto pocotempo per pensare. Gli uomini dei secoli democratici amano le idee generali, perché queste li dispensanodallo studiare i casi particolari; esse contengono, se così posso esprimermi, molte cose in piccolo volume, eproducono molto in poco tempo.

L'eguaglianza delle condizioni produce un analogo livellamento nello spirito pubblico: uomini uguali neidiritti, nell'educazione, nella fortuna, cioè uomini di uguale condizione, hanno necessariamente bisogni,abitudini e gusti assai simili; e poiché «vedono le cose sotto lo stesso aspetto, la loro mente propendenaturalmente verso idee analoghe, e per quanto ciascuno possa discostarsi dai suoi contemporanei e farsiconvinzioni proprie, finiscono per ritrovarsi tutti, senza saperlo e senza volerlo, in un certo numento diopinioni comuni».

In una società siffatta le personalità fortemente marcate e originali sono sempre più rare, le grandirivoluzioni intellettuali e spirituali pressoché impossibili. Infine, l'eguaglianza, che pure porta grandivantaggi, induce negli uomini un amore eccessivo per il benessere materiale: una sorta di materialismo,negatore di qualsiasi trascendenza, finisce per diventare l'atteggiamento spirituale della società, il quale a suavolta isola gli uomini gli uni dagli altri, portando ciascuno a occuparsi soltanto di se stesso e del propriostatus sociale.

In generale, nei popoli democratici l'amore per l'eguaglianza sopravanza quello per la libertà: essi voglionol'eguaglianza nella libertà, dice Tocqueville, ma se non possono ottenerla, la vogliono anche nella schiavitù.Questo atteggiamento deriva dal materialismo e dall'individualismo delle società democratiche: preoccupatisoltanto di fare fortuna, gli individui non scorgono più lo stretto legame che unisce la prosperità di ciascunoa quella di tutti. Estrema unformità sociale e individualismo sfrenato, per quanto possano apparirecontrapposti, si mostrano sempre, nell'analisi di Tocqueville, come due facce della stessa medaglia, come idue aspetti inscindibili della società democratica. Ai cittadini di questa società i diritti politici sembrano uncontrattempo noioso, che li distoglie dalle loro occupazioni; essi se ne lasciano quindi privare volentieri[52].Ecco così che la democrazia - che nasce come unione di diritti civili e politici, estendendo per la prima voltaa tutti i secondi - contiene nel suo seno tendenze profonde verso l'annullamento di quelle libertà. Essa puòcosì dare luogo, in certe circostanze, al cesarismo: è sufficiente che il nuovo Cesare provveda alla prosperitàdi tutti gli interessi materiali e che garantisca l'ordine.

E' comunque l'accentramento politico-amministrativo il vero pericolo mortale delle democrazie moderne.Anche meno di cento anni fa, scrive Tocqueville, esistevano in Europa privati o enti indipendenti cheamministravano la giustizia, arruolavano soldati, riscuotevano imposte e che spesso promulgavano norme.Oggi lo Stato ha ormai avocato a sé tutte le funzioni della sovranità: esso non tollera più alcuna istituzioneintermedia tra sé e il cittadino. E' insomma andata persa, sostiene Tocqueville sulle orme di Montesquieu,quella ricca articolazione pluralistica della società civile, che in vario modo limitava il potere dello Stato etutelava la libertà. Sappiamo come negli Stati Uniti sia stata evitato questo lento soffocamento della societàcivile; ma in Europa le cose sono andate altrimenti, soprattutto dove il principio egualitario si è affermatoattraverso una rivoluzione violenta. Scomparse infatti di colpo tutte le istituzioni intermedie, lo Stato si ètrovato di fronte un'immensa massa da amministrare e l'accentramento si è quindi rivelato necessario. Ingenerale, su tutta l'Europa è scesa la coltre di una legislazione uniforme, che si è sviluppata di pari passo conil processo democratico. Il risultato è stato ovunque lo stesso: il sovrano ha concentrato nelle sue mani tuttoil potere che era diffuso nella società, finendo in tal modo per doversi occupare di tutti i più minuti affariamministrativi. E' nato così un nuovo Stato paternalistico, in cui il sovrano si ritiene responsabile delleazioni e del destino di ciascuno dei sudditi e opera al fine di illuminarli e aiutarli, rendendoli - se occorre -felici loro malgrado. Dal canto loro, i cittadini considerano sempre più il potere politico sotto questaprospettiva, invocando il suo aiuto per qualsiasi circostanza o bisogno. Secondo Tocqueville,

in tutti i paesi d'Europa l'amministrazione pubblica non solo è diventata più centralizzata, ma anche piùinquisitiva e più minuziosa; ovunque essa penetra più profondamente di un tempo negli affari privati;ovunque regola a suo modo un numero sempre più grande di azioni sempre più piccole e si insedia, ogni

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giorno di più, a fianco di ogni cittadino, intorno a lui e sopra di lui, per assisterlo, consigliarlo ecostringerlo.

A ciò si deve aggiungere la rivoluzione industriale, con l'immenso aumento del bisogno di infrastrutture cheessa porta con sé: strade, canali, porti, ecc. Ma queste sono opere che soltanto lo Stato può intraprendere: ilsuo intervento si estende quindi "necessariamente" anche alla sfera economica. Il quadro complessivo che nerisulta fa sì che i vecchi concetti di 'dispotismo' o di 'tirannide' risultino ormai inadeguati: l'oppressione chevige nei sistemi democratici è infatti del tutto diversa dalle oppressioni che l'hanno preceduta. Essa è moltopiù diffusa e più "dolce", perché non fa tanto affidamento sulla coercizione fisica, quanto sulla persuasione.Giustamente celebre la pagina in cui Tocqueville profetizza le caratteristiche della società democratica delfuturo.

Vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali - scrive il pensatore normanno - che non fanno cheruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Ciascuno diquesti uomini vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amicicostituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non livede; li tocca ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e se ancora possiede una famiglia,si può dire perlomeno che non ha più patria.

Al di sopra di questi uomini, prosegue Tocqueville, si erge un potere immenso e tutelare, che provvede alloro benessere e alla loro sorte. Tale potere

è assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. Assomiglierebbe all'autorità paterna se, come questa,avesse lo scopo di preparare l'uomo all'età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmenteall'infanzia; è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri allaloro felicità, ma vuole esserne l'unico agente ed il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede egarantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, regola le loro successioni, spartisce le loro eredità; perchénon dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere?

Contro questo immenso e dolce dispotismo - che asservisce totalmente gli individui e che crea un mostruososistema di controllo capillare, di uniformità intellettuale e morale e di infiacchimento delle coscienze e dellasocietà civile - Tocqueville invoca come rimedio soprattutto un largo decentramento amministrativo, sul tipodi quello statunitense, e un ampio sviluppo dell'associazionismo. Egli infatti vede nelle associazioni(politiche, economiche o culturali che siano) una sorta di "grandi individui", illuminati e potenti, che nonpossono essere assoggettati a piacere, né oppressi in segreto, e che difendendo i loro diritti particolari controle esigenze del potere salvano le libertà comuni. Qui si coglie, è stato acutamente osservato, «la vocazioneschiettamente pluralistica della concezione liberale di Tocqueville, in netto contrasto con quanto si erastoricamente realizzato in Francia nell'incontro fra l'esperienza democratico-giacobina e la tradizione delcentralismo amministrativo»[53]. Tocqueville confida inoltre, con argomentazioni assai vicine a quelle diConstant, nella libertà di stampa:

la libertà di stampa è infinitamente più preziosa nelle nazioni democratiche, che non nelle altre; essa è ilsolo rimedio alla maggior parte dei mali prodotti dall'eguaglianza. L'eguaglianza isola e indebolisce gliuomini; ma la stampa pone a fianco di ciascuno un'arma potentissima, che può essere usata anche dal piùdebole e dal più isolato. L'eguaglianza toglie a ogni individuo l'appoggio di coloro che lo circondano; ma lastampa gli permette di chiamare in aiuto i suoi concittadini e tutti i suoi simili. La stampa ha accelerato iprogressi dell'eguaglianza ed è uno dei suoi migliori correttivi.

Tocqueville crede all'efficacia di questi rimedi, tanto che afferma di aver voluto sottolineare i pericoli chel'eguaglianza fa correre alla libertà perché questi pericoli sono sì tremendi, ma non per questo sonoinsormontabili. Con un movimento tipico del suo pensiero, egli passa infatti a considerare nuovamente ivantaggi che la democrazia sembra comunque garantire: anzitutto essa distribuisce più equamente lericchezze, facendo sì che scompaiano le grandi diseguaglianze economiche; e se è vero che in essa gli animinon hanno più l'energia che caratterizzava le epoche aristocratiche, è altrettanto vero che i costumi sono più

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miti e le legislazioni più umane; le grandi dedizioni e i grandi entusiasmi sono rari, ma altrettanto rare sonole grandi crudeltà e le grandi violenze; la vita degli uomini diventa più lunga e sicura, e la cultura, sia pure informe più approssimative, ha una diffusione assai più estesa. In breve,

quasi tutti gli estremi si mitigano e si smussano; quasi tutti i punti salienti si cancellano, per far posto aqualche cosa di medio, che è contemporaneamente meno elevato e meno basso, meno luminoso e meno cupodi quello che si vedeva prima nel mondo.

Senonché, la rivoluzione industriale complica sensibilmente questo quadro. Essa determina infatti una seriedi pericolosi effetti: anzitutto le crisi cicliche, che il pensatore normanno ritiene strutturali. In secondo luogo,essa promuove una divisione del lavoro che mortifica gli individui, proprio nel momento in cui la società siapre ai talenti individuali:

quando un operaio si dedica unicamente e con continuità alla fabbricazione di un solo oggetto, finisce conl'assolvere questo lavoro con destrezza singolare. Perde, però, nello stesso tempo la facoltà generale diapplicare la mente alla direzione del lavoro. Diventa ogni giorno più abile e meno capace, e si può dire chein lui l'uomo si degrada nella stessa misura in cui l'operaio si perfeziona.

Oltre a ciò, la misera condizione operaia è accompagnata dal continuo innalzamento della condizione deicapitalisti:

mentre l'operaio riduce sempre più la sua intelligenza allo studio di un solo particolare, il padrone faspaziare ogni giorno di più il suo sguardo su un vasto insieme e il suo spirito si allarga nella stessaproporzione in cui quello dell'altro si restringe. Presto non sarà più necessaria al secondo altro che la forzafisica, senza l'intelligenza; il primo ha invece bisogno della scienza, e quasi della genialità, per riuscire.Uno assomiglia sempre più all'amministratore di un vasto impero, e l'altro a un bruto.

Cos'è tutto questo, si chiede Tocqueville, se non la formazione di una nuova aristocrazia? Dunque dalleviscere più profonde della democrazia rinasce il suo antico nemico? In un certo senso, risponde il pensatorenormanno, è proprio così. Si tratta però di un'aristocrazia nuova, che non assomiglia a quelle che l'hannopreceduta: le leggi e le consuetudini obbligavano le aristocrazie passate a prendersi cura dei loro servitori,alleviandone la miseria; l'aristocrazia manifatturiera, invece, dopo aver abbrutito e impoverito gli uomini dicui si serve, li abbandona, in tempi di crisi, alla carità pubblica; né l'abitudine, né il dovere legano gliindustriali e gli operai. Da questo punto di vista l'aristocrazia manifatturiera è uno delle più dure, diceTocqueville, che siano mai apparse sulla terra.

Le assonanze con l'analisi marxiana sono evidenti. E' stato però giustamente osservato che mentre in Marxopera un'ispirazione salvifica ed escatologica (l'inferno della condizione operaia prepara il paradiso dellasocietà comunista), in Tocqueville prevale il pessimismo dell'intelligenza e il realismo della spregiudicataosservazione storica. Occorre ricordare, inoltre, che la riflessione del pensatore normanno è animata davalori che si collocano agli antipodi di quell'aspirazione all'egualitarismo - e quindi ad una società coesa ecompatta, nella quale l'individuo si fonde nel tutto - che costituisce il tratto saliente del pensiero di Marx. Larealtà è che Tocqueville è il primo pensatore liberale che coglie e sperimenta drammaticamente le tendenzeliberticide insite della democrazia moderna: esse sono costituite - come abbiamo visto - dal pervasivoconformismo di massa, dalla crescente uniformità prodotta dell'egualitarismo, dall'accentramento politico-amministrativo (che conduce all'ipertrofia degli apparati statali) e, da ultimo, dalla rivoluzione industriale,con la connesse questioni sociali. Sotto questo profilo, è stato giustamente osservato,

l'opera di Tocqueville costituisce la migliore smentita della tesi secondo la quale il pensiero etico-politicoliberale sarebbe una pura e semplice apologia della società borghese moderna. Di tale società Tocquevilleha certo colto i progressi e i vantaggi rispetto alle società pre-borghesi, in primo luogo la sua capacità diprodurre una libertà quale espressione più alta della personalità umana e della sua intima energiacreatrice. Al tempo stesso, però, Tocqueville non ha ignorato i pericoli che nella società democratico-borghese minacciano la libertà, e anzi li ha posti, drammaticamente, al centro della propria analisi. Eproprio in questa tensione è da cercare l'aspetto più affascinante e più moderno del suo pensiero.[54]

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Note al testo

[*] Il lettore si chiederà perché tredici, dal momento che le lezioni sono dodici. La questione è moltosemplice. Avevo considerato imprescindibile il pensiero di Agostino, e dunque avevo preparato la lezione.

[2] F. Valentini, Platone, in Id., Politica, I vol., Sansoni, Firenze 1969, vol. I, p. 63.

[3] Nei dialoghi platonici è frequente il richiamo all'arte medica, come modello da imitare: essa, basandosisu una rigorosa metodologia induttiva e dialogica, costituisce, agli occhi di Platone, un sapere scientifico.Inoltre la malattia è spiegata come perturbamento dell'armonia di un corpo sano, perturbamento che puòessere superato solo con la collaborazione tra medico e paziente.

[4] Cfr., supra, p. 8.

[5] Cfr., supra, cap. 1, pp. 21-22.

[6] Cfr., supra, cap. 2, p. 34.

[7] Cfr., supra, cap. 1, p. 16.

[8] Cfr., supra, cap. 3, p. 46.

[9] F. Valentini, Politica, Sansoni, Firenze 1969, p. 423.

[10] La considerazione di Machiavelli non è affatto scontata. Soltanto avendo presente la serie di guerre e dirivolgimenti politici di cui l'Italia è teatro nella prima metà del '500 - guerre accompagnate da una girandoladi alleanze che si scompaginavano e si ricomponevano nel giro di pochi mesi, e rivolgimenti segnati da varie'efferatezze' - si può comprendere quanto pregnante sia l'espressione machiavelliana di «variazione grandedelle cose ... fuori di ogni umana coniettura».

[11] N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. III, TEA, Milano 1993, p. 42.

[12] N. Bobbio, La teoria politica di Hobbes, 1981, in Id., Hobbes, Einaudi, Torino 1989, p. 30.

[13] Cfr., supra, cap. 2, pp. 27-29.

[14] N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, in N. Bobbio e M.Bovero, Società e stato nella filosofiapolitica moderna, Il saggiatore, Milano 1979, pp. 44-45.

[15] N. Bobbio, Studi lockiani (1965), in Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli 1971!, p. 84.

[16] E' interessante osservare come la Dichiarazione di indipendenza (1776) delle colonie americane dallamadrepatria inglese riprenderà quasi letteralmente gli argomenti addotti da Locke, circa un secolo prima, pergiustificare il diritto di resistenza.

[17] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 72.

[18] P. Casini, Introduzione a Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1981 (2 ed.), p. 8.

[19] N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, in N.Bobbio e M. Bovero, Società e stato nella filosofiapolitica moderna, Il Saggiatore, Milano 1979, p. 20.

[20] Cfr., supra, cap. 2.

[21] F. Valentini, Politica, II vol., Sansoni, Firenze 1969, p. 145.

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[22] L'uomo probo, scrive Rousseau, è un atleta al quale piace combattere nudo; egli disprezza tutti quei viliornamenti che impacciano l'uso delle sue forze e che, nella maggioranza, non sono stati inventati che percelare qualche deformità.

[23] P. Rossi, Introduzione, in J.J. Rousseau, Opere, Sansoni, Milano 1993, p. XX.

[24] Cfr., supra, pp. 110-111.

[25] N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, cit., p. 68.

[26] N. Bobbio, Kant e le due libertà (1960), in Id., Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli 1971!, p. 161

[27] Per diritto di resistenza si intende il diritto di disobbedire, in determinate circostanze e per determinateragioni, all'autorità. Come si ricorderà, Locke ammetteva tale principio: cfr., supra, cap. 7, p. 98.

[28] Su tale nozione, cfr., supra, cap. 8, p. 114, e, infra, cap. 10, pp. 147-148.

[29] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 102.

[30] Cfr., supra, cap. 7.

[31] Cfr., supra, cap. 8.

[32] Cfr., supra, cap. 6.

[33] Cfr., supra, cap. 7, p. 98.

[34] Sul concetto di "limitazione materiale", cfr., supra, cap. 7, p. 89.

[35] N. Bobbio, Studi hegeliani, in Id., Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli 1971!, p. 227.

[36] Rosenkranz è un allievo di Hegel, che fu anche il suo primo biografo.

[37] Cfr., supra, capp. 6, 7 e 8.

[38] Cfr., supra, cap. 7, p. 89.

[39] G. Bedeschi, Il pensiero politico di Hegel, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 91-92.

[40] Sulla nozione di società civile in Hegel, cfr., supra, cap. 11, pp. 168-173.

[41] G. Bedeschi, Introduzione a Marx, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 6.

[42] Sull'idealizzazione della polis antica nel pensiero politico moderno, cfr., supra, cap. 10, p. 146.

[43] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 177.

[44] Ivi, p. 180.

[45] Ivi, p. 180.

[46] Ivi, p. 180.

[47] G. Bedschi, Il pensiero politico di Tocqueville, Laterza, Roma-Bari 1996, p.13.

[48] Si pensi all'interpretazione di F. Valentini, contenuta nel II volume di Filosofia politica, op.cit..

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[49] Tocqueville sottolinea, ad esempio, il criterio del 'precedente' nell'esercizio della giustizia americana einglese, ritenendo che esso costituisca un fattore di ordine e conservazione.

[50] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, cit., p. 198-199.

[51] Alcuni studiosi hanno infatti istituito un parallelo tra la camica di forza del centralismo politico-amministrativo di cui parla Tocqueville e il tema weberiano della razionalizzazione burocratica.

[52] Su questo aspetto della modernità si era già soffermato Constant: cfr., supra, cap. 10, pp. 149-150.

[53] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, cit., p. 209.

[54] Ivi, p. 216.