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1 DE ARCHITETTURA, DE… FIORE Anna Marotta Nell’èra della massima e progrediente connotazione tecnologica e informatica del Disegno e della Rappresentazione, sento di poter aderire con particolare convinzione a scelte culturali come quella compiuta da Mario Botta nella sua scuola di Mendrisio, a favore della creatività e degli aspetti umanistici nella formazione dell’architetto. In quest’ottica il Disegno può confermarsi come l’elemento rivelatore e catalizzatore dei molteplici aspetti della complessità dell’Architettura: per rivelarne quelli che – con una immagine derivata dalla retorica di Quintiliano – possiamo definire i suoi “ flores, lumina,colores.Entrando nel vivo del gioco metaforico, può essere allora stimolante scegliere proprio il concetto del “fiore” e i modi con i quali viene inserito nel contesto architettonico) come icona paradigmatica per affrontare e analizzare gli infiniti modi attraverso i quali l’Architettura si dà: un gioco che potrebbe ispirarsi agli Esercizi di stile di Raymond Queneau e alle sue novantanove variazioni sullo stesso tema letterario. Che poi l’argomento da me qui proposto configuri un modo per rendere omaggio a Gaspare De Fiore è mera casualità…Anche se calzante risulta la citazione della chiave di volta della sua casa avita a Rota Greca, recante un fiore in vaso. Dai grandi momenti di architettura e d’arte (come il gotico fiorito o lo stile floreale, da affrontarsi peraltro attraverso indagini sistematiche e comparative), fino alle applicazioni puntuali nelle arti applicate (si pensi alla lavorazione “a ciocca” - cioè a mazzo di fiori - tipica dei vetri policromi veneziani e di Murano, come nel caso dell’eccezionale lampadario Rezzonico, conservato a palazzo Querini-Stampalia a Venezia) il segno del fiore si dipana in modo trasversale e ricorrente. Data la vastità della materia, il presente contributo non appare ancora come esito confrontato e consolidato, ma come primo florilegio che raccoglie studi e pubblicazioni di altri studiosi, consapevolmente avvertita come sono di presentare, ancora in maniera discontinua e diseguale, spunti e idee – più che dati e risultanze – da ricondurre nell’alveo di rigorose e puntuali ricerche filologiche e formali, all’interno delle quali criteri e parametri del Disegno possano costituire un irrinunciabile, originale - e soprattutto visibile - vaglio critico. Il rosone e il simbolo della rosa nel Medioevo Nella ricchissima simbologia medievale tutto è metafora, l’astratto come il concreto: il Numero, la Forma, il Colore, gli Astri, ma anche le pietre, i metalli, le piante e gli animali. In tale contesto, anche la Rosa ha un ruolo di primo piano, tanti erano i significati esoterici o popolari, religiosi o letterali che era chiamata a incarnare in un intreccio semantico di variabili quali forma, colore, profumo, numero dei petali, presenza di spine. Già nella cultura classica era il corrispondente occidentale dell’asiatico fiore di Loto, entrambi associati per forma alla Ruota, simbolo esoterico tra i più importanti e complessi in tutte le culture del mondo conosciuto. Nell’antico Egitto, la Rosa era il fiore consacrato ad Iside, dea della rinascita e personificazione della Natura; del pari era sacro ad Afrodite dea dell’Eros e della rigenerazione nel pantheon greco e in quello romano. Proprio da Chartres, (sede fra l’altro dal XII secolo di una delle più importanti università del tempo ) contemporaneamente all’evolvere della nuova filosofia della Natura, supportata dalla rilettura dei testi dell’antichità classica e della cultura araba, prende il via il processo di

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DE ARCHITETTURA, DE… FIORE

Anna Marotta

Nell’èra della massima e progrediente connotazione tecnologica e informatica del Disegno e della Rappresentazione, sento di poter aderire con particolare convinzione a scelte culturali come quella compiuta da Mario Botta nella sua scuola di Mendrisio, a favore della creatività e degli aspetti umanistici nella formazione dell’architetto. In quest’ottica il Disegno può confermarsi come l’elemento rivelatore e catalizzatore dei molteplici aspetti della complessità dell’Architettura: per rivelarne quelli che – con una immagine derivata dalla retorica di Quintiliano – possiamo definire i suoi “ flores, lumina,colores.” Entrando nel vivo del gioco metaforico, può essere allora stimolante scegliere proprio il concetto del “fiore” e i modi con i quali viene inserito nel contesto architettonico) come icona paradigmatica per affrontare e analizzare gli infiniti modi attraverso i quali l’Architettura si dà: un gioco che potrebbe ispirarsi agli Esercizi di stile di Raymond Queneau e alle sue novantanove variazioni sullo stesso tema letterario. Che poi l’argomento da me qui proposto configuri un modo per rendere omaggio a Gaspare De Fiore è mera casualità…Anche se calzante risulta la citazione della chiave di volta della sua casa avita a Rota Greca, recante un fiore in vaso. Dai grandi momenti di architettura e d’arte (come il gotico fiorito o lo stile floreale, da affrontarsi peraltro attraverso indagini sistematiche e comparative), fino alle applicazioni puntuali nelle arti applicate (si pensi alla lavorazione “a ciocca” - cioè a mazzo di fiori - tipica dei vetri policromi veneziani e di Murano, come nel caso dell’eccezionale lampadario Rezzonico, conservato a palazzo Querini-Stampalia a Venezia) il segno del fiore si dipana in modo trasversale e ricorrente. Data la vastità della materia, il presente contributo non appare ancora come esito confrontato e consolidato, ma come primo florilegio che raccoglie studi e pubblicazioni di altri studiosi, consapevolmente avvertita come sono di presentare, ancora in maniera discontinua e diseguale, spunti e idee – più che dati e risultanze – da ricondurre nell’alveo di rigorose e puntuali ricerche filologiche e formali, all’interno delle quali criteri e parametri del Disegno possano costituire un irrinunciabile, originale - e soprattutto visibile - vaglio critico. Il rosone e il simbolo della rosa nel Medioevo Nella ricchissima simbologia medievale tutto è metafora, l’astratto come il concreto: il Numero, la Forma, il Colore, gli Astri, ma anche le pietre, i metalli, le piante e gli animali. In tale contesto, anche la Rosa ha un ruolo di primo piano, tanti erano i significati esoterici o popolari, religiosi o letterali che era chiamata a incarnare in un intreccio semantico di variabili quali forma, colore, profumo, numero dei petali, presenza di spine. Già nella cultura classica era il corrispondente occidentale dell’asiatico fiore di Loto, entrambi associati per forma alla Ruota, simbolo esoterico tra i più importanti e complessi in tutte le culture del mondo conosciuto. Nell’antico Egitto, la Rosa era il fiore consacrato ad Iside, dea della rinascita e personificazione della Natura; del pari era sacro ad Afrodite dea dell’Eros e della rigenerazione nel pantheon greco e in quello romano. Proprio da Chartres, (sede fra l’altro dal XII secolo di una delle più importanti università del tempo ) contemporaneamente all’evolvere della nuova filosofia della Natura, supportata dalla rilettura dei testi dell’antichità classica e della cultura araba, prende il via il processo di

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trasformazione dei culti pagani della Natura come Grande Madre e allegoria della femminilità. Alcuni studiosi leggono in questa chiave simbolica anche la Rosa dei Templari. Un altro simbolo sacro della Rosa è direttamente mutuato dalla sua forma circolare e dalla disposizione dei petali, che come un mandàla, rappresentano l’idea della perfezione e dell’infinito. A questa immagine circolare di perfezione si collega quella della Rosa specchio del Paradiso: Dante nella Divina Commedia vede Maria al centro dei cieli concentrici del Paradiso come Rosa che regna al centro della Rosa. Dal cerchio alla ruota, simbolo dello scorrere infinito del tempo e paradigma dell’eternità e dell’Eterno, la Rosa assume nuove valenze simboliche del divenire dell’opera divina e del divenire dell’Opera tout court nel traslato ermetico dell’alchimia. La Rosa sembiante del lapis philosophum, la pietra filosofale, è uno dei fiori eletti degli alchimisti, i cui trattati hanno titoli come “Roseto dei filosofi”, “Rosarius”, o il “Rosarium” attribuito ad Arnaldo da Villanova. La Rosa bianca era associata alla pietra al bianco della “piccola opera”, mentre la Rosa rossa era collegata alla pietra al rosso della “grande opera”, la Rosa azzurra era la figurazione dell’impossibile, inoltre ciascuno dei sette petali della Rosa alchemica evocava un metallo, un pianeta, o un passaggio dell’opera. Legata al cerchio, simbolo del cielo e del disco solare, troviamo un’interessante interpretazione semantica nella stilizzazione della Rosa nei rosoni che (insieme alle finestre a feritoia laterale) illuminavano le vaste e scure cattedrali, prima romaniche, poi gotiche. La forma circolare, esaltata da cornici concentriche spesso strombate, conferisce a questo elemento caratteristico un valore espressivo e una funzione compositiva particolari, dovuti all’effetto di unicità e isolamento e di diversità della forma stessa rispetto a quelle degli altri elementi rettilinei di facciata. I rosoni, nel rappresentare - per la loro forma - la bellezza e la perfezione della Creazione, vengono da molti interpretati come proiezioni del mistero Dio-Luce e Fonte di vita: non a caso, sono tipici dell’architettura religiosa, derivati – è bene ricordarlo – dagli “oculi” delle primitive chiese di IV-V secolo e delle basiliche latine. Fra le infinite varietà, è noto come ognuna abbia un suo significato: il modello a sei petali è associato al sigillo di Salomone, a sette petali indica l’ordine settenario del mondo, a otto petali la rigenerazione, a dodici petali gli apostoli e via dicendo. La disposizione dei tre rosoni nel costante orientamento dell’architettura delle cattedrali suggerisce un nesso con la scienza alchemica: nel corso della giornata, seguendo il percorso del disco solare, nei tre rosoni si succedono i colori dell’opera secondo un processo circolare che va dal nero (il rosone settentrionale, mai illuminato dal sole), al colore bianco (il rosone del transetto meridionale, illuminato a mezzogiorno) e al colore rosso (il rosone del portale illuminato al tramonto). Coniugato - com’è ampiamente noto - più discretamente in periodo romanico nelle architetture in laterizio lombarde, più vistosamente in quelle in pietra, più riccamente e con funzione architettonica predominante negli esempi pugliesi, raggiungendo poii il massimo dell’espressione e della visibilità negli esempi gotici francesi, o più genericamente in quello fiorito o flamboyant, questo elemento (disegnato, misurato, rilevato e interpretato, può costituire il leit- motiv per un laboratorio privilegiato teso a rappresentare le possibili variazioni dell’ architettura di cui fa parte, della sua storia, del suo liguaggio. Se si vuole ricordare uno dei primi disegni di rosoni, irrinunciabile è il riferimento a quelli di Villard di Honnecourt, che a Losanna e Chartres si limita ad annotare solo quelli, a scapito dell’intero edificio. Secondo quanto sostengono Gimpel e altri, nel disegno del rosone occidentale di Chartres, invece di riprodurre quello di uno dei due bracci del transetto (la cui realizzazione è probabilmente contemporanea al suo passaggio e rivela una concezione più moderna nei rapporti tra pieni e vuoti) egli preferisce quello occidentale, più arcaico nella sua messa in opera. Non sono casuali le differenze fra il disegno e la

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realtà: Villard ha scelto di riprodurre un progetto abbandonato nel quale l’ideatore aveva collocato ogni rosoncino su un’arcata, cosa che avrebbe potuto compromettere – se fosse stata realizzata – la stabilità del rosone, per frantumazione della muratura. L’aggiunta di una tredicesima arcata – come ha riconosciuto anche Viollet le Duc - ha permesso di ancorare più saldamente ogni rosoncino su due arcate disposte a raggere intorno all’occhio centrale. “Rosette” e “rosoni” nei decori dall’antichità classica al neoclassicismo Declinata in genere con un valore simbolico meno forte e diretto la rosa viene d’abitudine definita “rosetta” se nel contesto dell’ornatus costituisce un punto fermo o un centro da cui si svolgono partiti decorativi simili a fregi a fasce, collarini, capitelli; conservando invece la denominazione di “rosone” se costituisce un centro di chiaroscuro nel contesto di spazi simmetrici (quadri,ottagoni, tondi) risultanti da diverse ragioni architettoniche o esigenze di riquadrature. Negli intradossi degli archi romani, nei cassettonati delle vòlte a botte degli archi onorari, nelle sale termali e basilicali classiche, negli spazi interposti tra mensola e mensola o tra modiglione e modiglione nelle trabeazioni, sempre il rosone è disposto a formare chiaroscuro, ad avvivare la parte decorativa. I modi classici sono ripresi specialmente nell’architettura Quattrocentesca toscana e lombardesca: tra questi citiamo come esempi raffinatissimi il gruppo dei rosoni che figurano nelle vòlte e negli intradossi degli archi e della fasce voltate nella cappella Pazzi di Brunelleschi a Firenze, rarissimi e preziosi per invenzione e esecuzione. E’ appena il caso di ricordare il soffitto di Santa Maria Maggiore a Roma; quello delle sale del quartiere di Eleonora, dell’Udienza e degli Otto in Palazzo Vecchio a Firenze; della scuola di San Marco a Venezia. Dal lato diametralmente opposto sul piano formale e del gusto – perfettamente in linea con la ridondanza barocca - appaiono gli splendidi rosoni dipinti a monocromo in toni dorati (a corona dell’immagine centrale) nel soffitto illusorio che Luca Giordano realizza alla fine del XVII secolo nella basilica di Santa Restituta a Napoli. Durante la stagione neoclassica, dal modello archetipico del Pantheon, qui si ricorda l’esempio torinese della chiesa della Gran Madre (dedicata al rientro dei Savoia, con la Restaurazione susseguente il dominio francese) che bene illustra quanto – nel 1830 – Ferdinando Bonsignore (architetto tanto sabaudo quanto napoleonico….) abbia saputo declinare le infinite variazioni (fig.1) sul tema del rosone decorativo, nel contesto programmaticamente e marcatamente “regolare”, a simmetria raggiata, del catino della cupola. Ne dà conto il Piano dimostrativo dei 120 rosoni costituenti il comparto generale della volta della Chiesa della B.V. Madre di Dio, in cui sono segnate le lettere alfabetiche corrispondenti ai rispettivi disegni dei rosoni, e le misure del diametro di caduno d’essi (ASCT 10/3/2). Il grafico indica la disposizione e la graduazione con cui l’architetto modula in termini estremamente raffinati i decori nell’ornato della volta. La serie dei vari rosoni (qui si ne ricordano in particolare quelli dal primo al quinto giro, dialoga con i rosoni “sostituiti ai vasi sacri nell’Attico interno” e con quelli “da eseguirsi in istucco nella Volta a botte e nei lacunari Pronao” e con l’insieme dell’ornato delle “Trabeazioni Corintie”. Il perfetto equilibrio di questa volta a rosoni, costituisce la cifra stilistica dello spazio architettonico, rassicurante emblema della regolarità e del controllo della forma, vera metafora della forza del potere, nel controllo politico-militare e sociale dello Stato riconquistato.

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Metafore floreali nelle residenze sabaude a Torino A Torino, una più ampia e programmatica comunicazione metaforica del potere attraverso una precisa semiotica floreale era stata anticipata e fortemente voluta dai Savoia nelle loro residenze, come la Vigna della Regina e il Castello del Valentino. Loro residenza fluviale dagli inizi del Seicento, quest’ultimo vede sostanziali ampliamenti (su progetto dei Castellamonte) per volere di Cristina di Francia, Reggente alla morte del marito Vittorio Amedeo. Il programma generale della decorazione risulta ispirato (secondo quanto hanno scoperto Comoli e Roggero) dal conte Filippo di San Martino d’Agliè, (consigliere e favorito di Cristina) sui temi ovidiani delle Metamorfosi, per la parte verso il Po. . La stanza del Valentino o della Nascita dei fiori è la prima ad essere affrescata all’interno del palazzo seicentesco: la decorazione murale (opera dei Bianchi), con quella delle sale delle Rose e dei Gigli, celebra l’età felicemente inaugurata dal duca Vittorio Amedeo e da Cristina. L’affresco centrale è racchiuso da una decorazione a stucco dorato composta da fasce ribattute dove si alternano mensole e ghirlande che incorniciano monogrammi e gigli di Francia, mensole a foglia d’acanto intervallate a rosoni, fregi scanditi da teste di putti e, infine, un unitario fregio a girali d’acanto. Nella fascia decorata ad affresco i putti che raccolgono fiori per distillarne essenze profumate anticipano il tema del riquadro centrale dove Cristina, nelle vesti di Flora, raccoglie e distribuisce fiori. Nella stanza delle Rose, questo fiore domina, come simbolo proprio della duchessa di Savoia, in seguito all’acquisizione ufficiale nel 1632 da parte di Vittorio Amedeo I del titolo di re di Cipro. La denominazione della stanza dei Gigli trae origine dal motivo araldico del giglio di Francia (dal periodo di Luigi XII) simbolo delle origini di Cristina ripreso insistentemente negli stucchi e nelle pitture. Ancora non esplicitato appare il significato dei decori nel Gabinetto dei fiori indorato: in contrasto con le sale dell’appartamento sud, la decorazione del piccolo studiolo è caratterizzata dagli stucchi sulla volta e sulle pareti e dall’assenza di affreschi. L’ambiente è definito da intrecci di motivi vegetali, piante, rami e girali d’acanto. Il poema autobiografico del San Martino La Prigione di Fillindo il Costante fornisce la chiave interpretativa per scelta dei temi decorativi nel Valentino, ma anche per le sale dei due appartamenti aulici della Vigna della Regina, di cui il salone con il trionfo di Madama Reale rappresenta il fulcro centrale, risponde ancora a un’ulteriore ragione. Le delizie «delle frondi», «dei fiori», «della frutta», «della musica», «degli esercitii» e «dei conviti» connotano le sale dell’appartamento privato di Madama Reale, sui temi della natura gioiosa e feconda e delle piacevoli arti che si possono praticare allorché ci si riposa dalle fatiche imposte dal proprio ruolo di governo. Nell’appartamento simmetrico, detto «di Sua Altezza Reale», si parla invece di pitture dedicate alle delizie «delle fonti», «dei fiumi», «del mare», «della caccia», «della caccia degli uccelli» e «della pesca». Naturale il riferimento a una differenziazione dei generi, che tende a privilegiare per la Reggente Cristina in quanto donna – intesa come Flora – la dimensione delle meraviglie nella trasformazione della natura, mentre attribuisce alla figura maschile del principe ereditario - «il novello Alcide» - il ruolo di eroe della caccia. Anche nel giardino di Flora ( si ricordi che la duchessa è rappresentata come Flora nell’affresco centrale della Sala della Nascita dei fiori al castello del Valentino a Torino) i fiori languono: “ (…) E par che con la Rosa unito il Giglio/ Voglia del sangue mio farsi vermiglio”. Dunque le Rose di Cipro (i Savoia) e i Giglio di Francia (i Borbone) concorrono al destino avverso del conte piemontese, perseguitato e imprigionato dai Francesi nel castello di Vincennes per motivi politici..

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La rappresentazione dei fiori tra scienza e arte nella pittura rinascimentale Meglio che in architettura, la pittura – qui colta in tre esempi rinascimentali – evidenzia lo stretto legame fra scienza e arte, nella resa fedele degli esemplari osservati e nei significati simbolici di cui sono rivestiti. Per l’identificazione delle piante e dei fiori presenti in questi dipinti, si veda il contributo di Paola Lanzara dell’Orto Botanico di Roma, attenta studiosa della flora nella pittura di questo genere. La Deposizione dalla croce di Beato Angelico, nel Museo di San Marco a Firenze, nasce dal desiderio di frate Angelico di testimoniare la presenza di Dio in ogni aspetto del creato: una presenza che qui si percepisce grazie alla luce cristallina che illumina tutto il dipinto e fa emergere i minimi dettagli del paesaggio, creando un senso dello spazio del tutto nuovo nella pittura italiana. La campagna, descritta con una minuziosa attenzione che rivela un amorevole studio di reali modelli floreali e che anticipa certi dettagli botanici di Leonardo, è quella che il frate aveva davanti agli occhi tutti i giorni: la collina di Fiesole. Tra i fiori, le erbe e le piante presenti nel dipinto si riconoscono (oltre ai due cipressi e alla palma), le margheritine, il trifoglio, il capelvenere, due infiorescenze di Plantago media, due corolle di quattro petali che potrebbero appartenere a una Potentilla, e forse un pioppo, sulla sinistra della Croce. Secondo quanto annotano De Peverelli e Pratesi il paesaggio presentato nel dipinto mostra diversi elementi “reali”: gli alberi facilmente riconoscibili nelle loro specie; la cittadina turrita sulla sinistra che assomiglia a Cortona e qui simboleggia la Gerusalemme celeste, costituita da edifici accostati gli uni agli altri secondo un’iconografia ancora tardotrecentesca, dove spicca, in primo piano, un castello che ricorda quello di Trebbio, ricostruito da Michelozzo; una costruzione con un’altissima torre che si erge solitaria tra le colline e che potrebbe essere il castello di Giovanni Acuto a Montecchio, tra Cortona e Castiglione Olona; le mura con porte e antiporte simili a quelle fiorentine di allora. Si tratta però di un paesaggio naturale troppo bello perché lo si possa credere “vero”: un paesaggio fuori dal tempo e dalle stagioni, quasi soprannaturale, che trasmette il senso della gioia della natura. Analogamente, i paesaggi di Piero di Cosimo non possono essere considerati raffigurazioni di luoghi “veri”. La sua è sempre una natura ideale, seppure costruita con elementi reali. E’ stata spesso sottolineata l’affinità tra le opere di Piero di Cosimo e la contemporanea poesia di Lorenzo de’ Medici e del suo circolo, che indugiava sull’effimera natura della bellezza umana e sul tema della morte che si rinnova – come ricorda R. Turner - con i fiori della primavera (…). Che la conoscenza della botanica da parte di Piero fosse in ogni caso profonda ce lo conferma anche Paola Lanzara cui si deve l’identificazione di molte delle piante e dei fiori raffigurati nella Morte di Procri (databile fra il 1485 e il primo decennio del Cinqucento), conservato alla National Gallery di Londra. Anche Fermor elenca un certo numero di piante che sembrano identificabili nel dipinto, indicando per ciascuna, anche una sua simbologia: margherite (simbolo delle traversie dell’amore), non-ti-scordar-di-me, pervinche (simbolo del dolce ricordo e della fedeltà), crochi (simbolo dell’amore nel matrimonio), narcisi, anemoni e salvia (tutti legati al tema della morte). Nel prato, in basso a sinistra, riconosciamo la borsapastore (Capsella bursa pastoris), la crocifera degli incolti, una violetta (Viola canina) con la sua corolla azzurro chiaro, tipica dei pascoli magri e anche degli ambienti palustri (siamo vicini ad un lago); accanto, un gruppetto di quattro margheritine e una piantaggine degli incolti calpestati (Plantago major), una primula (forse una Primula veris) e, più avanti, vicino alla mano della fanciulla, un’altra primula (Primula vulgaris). Sempre all’altezza della mano di Procri cresce un geranio spontaneo (Geranium molle o Geranium pyrenaicum). E’ questa raffigurata da Piero una natura davvero bella, oltre che perfettamente riconoscibile: prova tangibile di quanto fossero meritate le lodi che di lui aveva tessuto il Vasari.

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Nella stessa direzione deve interpretarsi l’ Annunciazione degli Uffizi (del 1473), opera giovanile di Leonardo (prima attribuita al Verrocchio): la parte più felice della composizione è senza dubbio lo sfondo naturale, sfondo che deve essere considerato come un vero atto di nascita della paesaggistica di Leonardo e che va assaporato in tutti i suoi particolari. L’interesse di Leonardo per lo studio scientifico della natura si manifesta in forma più concreta (disegni, trattati, osservazioni) soprattutto dagli anni Ottanta del Quattrocento e si riflette nelle sue opere da quel decennio in poi. Una dettagliata descrizione del suo splendido paesaggio, particolarissimo nella produzione leonardesca, la troviamo soprattutto in tre degli innumerevoli saggi dedicati all’opera del maestro, rispettivamente opera di Bazardi, Kemp ed Emboden. Si tratta di testi che mettono in luce i caratteri di unicità dell’opera di Leonardo, sottolineando il legame ancora piuttosto stretto con la tradizione gotica rappresentata a Firenze da Pisanello e Gentile da Fabriano, e con il paesaggio fiammingo a lui noto probabilmente attraverso opere antecedenti a quelle di Hugo van der Goes, arrivate a Firenze a seguito degli stretti legami commerciali con la Fiandra (la Pala Portinari di Hugo van der Goes, ora agli Uffizi, giunse infatti a Firenze solo alla fine degli anni Settanta del Quattrocento). Gli studiosi più sopra menzionati rivelano l’amore di Leonardo per la natura, per le piante e per i fiori, per il modo di trattare la luce, che sarebbe sfociato in veri e propri studi scientifici oltre che in annotazioni sul modo di dipingere paesaggi. A una identificazione specifica di piante e fiori presenti nel dipinto si sono dedicati in modo particolare l’Emboden e il Bazardi, il primo più genericamente interessato all’architettura dei giardini, il secondo più specificamente alla botanica. Come riporta l’Emboden, il Bazardi aveva identificato tra i fiori in primo piano il Narcissus cyclamineus. Paola Lanzara osserva come sia impossibile che questo fiore appaia nel dipinto in quanto il Narcissus cyclamineus fu descritto botanicamente da Augusto Pyranus de Condolse (1778-1841) ed esiste nella flora spontanea soltanto in Spagna e Portogallo dove fiorisce in marzo-aprile. Come se non bastasse non compare tra i fiori coltivati nei giardini quattrocenteschi: come avrebbe quindi potuto conoscerlo e raffigurarlo Leonardo? Nella stessa opera, si notano il Narcissus pseudonarcissus – spontaneo in Italia negli orti, nei campi e nelle vigne, ma anche coltivato nei giardini - e Ornithogalum umbellatum anche questo comune in Italia centrale e settentrionale. Si osservano inoltre il giglio - cui si può legare il più bello dei disegni di fiori “ritratti al naturale” (Windsor, n.12418) -, l’erba dei prati toscani e le margheritine: nessuna di queste raffigurazioni è da considerarsi un vero e proprio studio scientifico ma più che altro un elemento decorativo. Tra I fiori in primo piano, ai piedi dell’angelo, spicca un tulipano, simbolo della grazia recata dallo Spirito Santo, fiore che appassisce lontano dal sole. A conferma della profondità dell’ osservazione vinciana della natura, significativo può risultare il confronto degli esemplari floreali riprodotti nel dipinto ora esaminato con gli Studi di fiori, dello stesso Leonardo (1483 circa. Venezia, Accademia, n. 237). Eseguiti nei primi anni del soggiorno milanese dell’artista (fig.2) e realizzati a china su punta di metallo – una tecnica particolarmente adatta all’esecuzione di schizzi raffinati – rivelano una precisione paragonabile a quella degli studi dei teschi, liberi da qualsiasi costrizione di carattere geometrico; oltre all’eccezionale eleganza della forma, il disegno rappresenta l’oggetto con una tale efficacia, che può esserne identificata con esattezza la specie. Come annota Ackermann, “l’affidabilità estetica e scientifica di questo disegno è messa in risalto dal confronto con le illustrazioni di un erbari contemporanei; in particolare, due pagine del Gart der Gesundheit, edito nel 1485 esplicitano altrettante fasi dello sviluppo del naturalismo descrittivo: il disegno a sinistra (qui non riprodotto, n.d.A.) è un chiaro esempio, tipicamente quattrocentesco, di immagine copiata dai testi manoscritti, a ogni nuova edizione dei quali le illustrazioni, ereditate nella tarda antichità, perdevano progressivamente parte della loro affidabilità, in quanto i copisti riproducevano i testi

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precedenti senza mai far riferimento alla natura. L’immagine sulla destra, invece, documenta chiaramente un’osservazione originale, sebbene con un’intuizione meno accurata di quella vinciana.” I fiori nei rivestimenti ceramici fra Rinascimento e Barocco Per altri versi, su diverso supporto materico e in diverso contesto funzionale e simbolico, si dipanano la forma, l’uso e i significati dei fiori in un altro dei possibili contesti da prendersi ad esempio: quello delle ceramiche rinascimentali, qui riprese dagli studi di Quinterio in particolare sulla maiolica nell’architettura del Rinascimento italiano. Secondo quanto precisa lo studioso, il rapporto architettura-ceramica rievoca un percorso che affonda nel mito dell’ antico Egitto (limitatamente all’uso di terracotte decorate con smalti invetriati sovrapposti), proseguendo nella Grecia arcaica per giungere a toccare la sua punta massima nell’Arabia musulmana. Da qui sarebbero partite tutte quelle ramificazioni che avrebbero portato attraverso l’Asia minore anche all’approdo sul continente europeo, in quella Spagna che sotto il successivo dominio della mezzaluna (tra il secondo decennio dell’VIII secolo fino al 1492) avrebbe saputo assimilare un patrimonio di tecniche e di forme, coniugandolo con i residui di quello occidentale proveniente dai vicini regni cristiani, anche in seguito all’espulsione della mezzaluna dal continente. L’eredità figurativa del mondo arabo aveva così profondamente attecchito, da poter acquistare la forza di rigenerarsi improntando con il cosiddetto stile mudejar l’architettura iberica successiva. Se da un lato l’esperienza dell’impiego della ceramica in architettura – che comprende mattonelle da pavimento, da rivestimento, pannelli compositi e conci foggiati a cornice – dalla Spagna penetrerà nel secolo XII nella Francia angioina e nella Germania sveva. In Italia molto più sporadicamente e assai più tardi riuscirà ad attecchire, ancora una volta più che con gli scambi e i commerci, che attraverso le dominazioni. In questo caso con quella aragonese nel regno di Napoli e di Sicilia, con la fornitura in partite sempre più massicce di rajolas, azulejos e “mattoncelli”, destinati alla decorazione delle opere iniziate o ristrutturate a partire dal quinto decennio del Quattrocento da Alfonso d’Aragona. E’ solo nel corso del XIII secolo che si affermerà quello stile moresco maturo, dove predomina l’elemento decorativo geometrico combinato, il cosiddetto alicatado: una sorta di caleidoscopica composizione dal caratteristico andamento stellare, di cui possiamo qui pertinentemente ricordare il “floron alicatado” nel chiostro del monastero di Poblet in Spagna (Gonzales Marti, 1952). E’ noto come la fortuna dei motivi geometrici e floreali – comunque non a figura umana – vada in parte ascritta all’editto di Teodosio che aveva proibito di riprodurre (nel cuore della civiltà di Bisanzio) sui pavimenti allora composti di mosaici, figure legate all’agiografia cristiana, evitando l’oltraggio di calpestare tali immagini.E’ appena il caso di annotare come nella trecentesca chiesa di Donnaregina a Napoli siano presenti gigli angioini sul pavimento, mentre un altro esempio della presenza delle medesime icone floreali – nella stessa città – è la facciata di palazzo Penna, non in ceramica . Così come abbiamo visto nelle ceramiche rinascimentali, anche fra quelle di periodo barocco è possibile esemplare le variazioni delle icone floreali nei tipi decorativi di pavimenti e rivestimenti maiolicati, a conferma di gusti e “stili” propri della diffusa cultura architettonica coeva, prendendo spunto dalle indagini di Giansiracusa. Qui di seguito si riportano alcuni esempi siciliani. Costruito nel quartiere della Civita a Catania, dopo il terremoto del 1693, il Palazzo Biscardi viene definito quale opera di diversi architetti. Della seconda metà del Settecento sono gli stucchi, gli affreschi e buona parte degli arredi. I pavimenti in ceramica del palazzo sono di quattro tipi e appartengono allo stile dei maiolicari napoletani della seconda metà del secolo. Una partita di mattonelle di ceramica napoletana fu acquistata il

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17 ottobre 1771 per rivestire il Salone di Rappresentanza e le stanze adiacenti. Numero 6 migliara di visole di Napoli alla ragione di onze 12 al migliaro (libro Maestro VII°) Le mattonelle maiolicate (di dimensioni 21 x 21 cm) a motivi geometrici e floreali, rivestono il pavimento di alcune stanze del palazzo. La struttura modulare composita si ottiene con 4 mattonelle le quali, in due versioni, possono creare un cespuglio centrale con fogliame verde e margherite ocra oppure un rosone quadrangolare con due cornici azzurre e un cespuglio verde. Nei colori prevalenti: azzurro, manganese, giallo ocra, bianco e verde ramina. Il secondo esempio riguarda la Chiesa di Sant’ Antonio di Padova a Scordia (CT), Costruita nel 1644 unitamente all’annesso convento dei Frati Minori Riformati, fu ristrutturata nel corso del XVIII secolo. Della seconda metà del Settecento sono gli stucchi, le tele e il pavimento maiolicato, policromo, (colori prevalenti: blu in varie tonalità, verde ramina, giallo ocra, manganese bianco), a scena unica con decori tardo-barocchi e rosone centrale con raffigurazione del pellicano e pulcini. Ai fianchi del rosone, sul lato sinistro, è quasi intatta una delle ghirlande originarie caratterizzate da un cesto di fiori. La conclusione di questo breve viaggio a seguito del fiore come icona e metafora dell’architettura e del suo tempo, non può che stimolare nuovi itinerari di conoscenza critica e di rappresentazione di questo segno - ora “ naturale”, ora simbolico - da percorrersi con tutti i mezzi, tecnici (dai più tradizionali ai più avanzati),ma anche teorico-speculativi, che consentano di saldare Cultura, Ragione, Poesia. E tutto ciò non è (forse) Disegno e il suo Futuro? BIBLIOGRAFIA A. Bazardi, La botanica nel pensiero di Leonardo, Milano 1953; R. Turner, The vision of Landscape in Renaissance Italy,.Princeton 1966; M. Levi D’Ancona, The Garden of the Renaissance.Botanical Symbolism in Italian Painting, Firenze 1977 M. Kemp, Leonardo da Vinci. The Marvellous Work of Nature and Man, London 1981; W. A. Emboden, Leonardo da Vinci on Plants and Gardens, Portland 1987, A.Erlande-Brandenburg, R.Pernoud, J. Gimpel, R.Bechmann, Villard de Honnecourt.Disegni, Milano 1988 James S.Ackerman, Architettura e disegno. La rappresentazione da Vitruvio a Gehry,Milano 2003 F. Quinterio, Maiolica nell’architettura delRinascimento italiano1440-1520 Firenze, s.a., P.Giansiracusa Rivestimenti maiolicati in Sicilia dal Seicento al Novecento,Catania 2003 V.Comoli, C.Roggero (a cura di) La Prigione di Fillindo il Costante,Torino 2005

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Ill.1 Ferdinando Bonsignore, 1830, Studi per i rosoni a decoro del vòlta della Chiesa della Gran Madre a Torino ( ASCT 10/3/11, 12, 13, 14, 15, 17)

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Ill.2 Leonardo da Vinci, Studi di fiori,1483 circa, Venezia, Accademia, n.237.

Ill 3. Empoli, Collegiata di Sant’ Andrea, Cappella della Compagnia di San Lorenzo. Un particolare del pavimento avanzato, attualmente murato nella pedana di un altare. Il modello è a favus “ a tappeto”, eseguito dalla bottega di Andrea della Robbia (1475 c.)

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Ill 4 Particolare del motivo del fregio a fiori e cornucopie affrontate (Firenze, Opificio delle Pietre Dure). Disegno di T. Migliorini.

Ill.5 Particolare di pavimentazione III.6 Chiesa di Sant’Antonio di Padova a Maiolicata a Palazzo Biscari, Scordia ( CT ) , 1644 , particolare (Catania), datata 1771. del pavimento Maiolicato, con cesto di fiori.