Daudet - Tartarino Di Tarascona e Tartarino Sulle Alpi
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ALPHONSE DAUDET.
TARTARINO DI TARASCONA.
Titolo originale: Tartarin de Tarascon.
Traduzione di Mario Mirandoli.
1. A Tarascona.
Il giardino del baobab.
La mia prima visita a Tartarino di Tarascona è rimasta nella mia memoria come
una data indimenticabile; sono passati ormai dodici o quindici anni, ma me ne
ricordo come se fosse ieri. L'intrepido Tartarino abitava allora all'ingresso
della città la terza casa a sinistra sulla strada di Avignone. Era una bella
villetta tarasconese col giardino davanti, il balcone dietro, i muri candidi,
le persiane verdi, e una nidiata di ragazzini savoiardi davanti alla porta
d'ingresso, intenti a giocare a piastrelle o addormentati al sole con la testa
appoggiata alla loro cassettina da lustrascarpe.
Vista di fuori, la casa non aveva niente di particolare. Non avremmo mai
immaginato di trovarci davanti alla casa di un eroe. Ma appena entrati,
capperi!... Dalla cantina alla soffitta, tutto l'edificio aveva un aspetto
eroico, persino il giardino!...
Che giardino! Non ne esisteva uno uguale in tutta l'Europa. Non un albero del
paese, non un fiore di Francia; solo piante esotiche, acacie gommifere, zucche
americane, piante di cotone, di mango, alberi di cocco, banani, palme, un
baobab, cactus messicani, fichi di Barberia, tanto da credersi in piena Africa
centrale, a diecimila leghe da Tarascona.
Intendiamoci, tutte queste piante non erano alla grandezza naturale; gli
alberi di cocco, per esempio, avevano le dimensioni delle nostre barbabietole,
e il baobab (albero gigante, arbor gigantea) stava comodo in un vaso da fiori.
Ma che importava? Anche così, per Tarascona era un magnifico albero, e le
persone della città, a cui veniva concesso la domenica l'onore di contemplare
il baobab di Tartarino, se ne tornavano a casa ammiratissime.
Immaginatevi l'emozione che provai quel giorno attraversando un giardino così
eccezionale! Emozione che si accrebbe quando fui introdotto nello studio
dell'eroe. Questo studio, una delle meraviglie della città; era situato in
fondo al giardino, e da una porta a vetri si affacciava direttamente sul
baobab.
Immaginatevi una vasta sala tappezzata da cima a fondo di fucili e di
sciabole; armi di ogni specie e di tutti i paesi del mondo: carabine, fucili,
tromboni, coltelli còrsi, coltelli catalani, coltelli a serramanico, pugnali,
kriss malesi, frecce dei Caraibi, frecce di selce, pugni di ferro, mazze
ferrate, clave ottentotte, lazos messicani, e chi più ne ha più ne metta!
Su tutto questo un solleone feroce, che faceva luccicare l'acciaio delle spade
e il calcio dei fucili, come per farvi venire ancora di più la pelle d'oca.
Quello che tuttavia rassicurava un po' era il piacevole aspetto d'ordine e di
pulizia che regnava in mezzo a questo armamentario. Ogni oggetto era messo
esattamente al suo posto, curato, spolverato, col suo cartellino come in una
farmacia; qua e là si potevano leggere delle scritte tranquillizzanti che
dicevano: FRECCE AVVELENATE: NON TOCCARE! oppure: ARMI CARICHE: PERICOLO!
Senza queste scritte non avrei avuto il coraggio di entrare.
In mezzo allo studio, un tavolino: sul tavolino, una fiaschetta di rhum, una
borsa turca da tabacco, i Viaggi del capitano Cook, i romanzi di Cooper, di
Gustave Aymard, dei racconti di caccia, caccia all'orso, caccia al falco,
caccia all'elefante, ecc.
Davanti al tavolino era seduto un uomo: era dai quaranta ai quarantacinque
anni, piccolo, massiccio, muscoloso, sanguigno, in maniche di camicia e
mutande di flanella, con una barba corta e fitta, e con due occhi
fiammeggianti. Con una mano teneva un libro, con l'altra brandiva un'enorme
pipa col coperchietto di metallo, e, mentre continuava a leggere chissà mai
quale tremendo racconto di scotennatori, sporgeva il labbro inferiore con una
smorfia terribile, conferendo al suo placido aspetto di piccolo benestante
tarasconese, quel medesimo carattere di bonaria ferocia che regnava in tutta
la casa.
Era Tartarino, Tartarino di Tarascona, l'intrepido, il grande, l'incomparabile
Tartarino di Tarascona.
2. Sguardo generale alla città di Tarascona.
I cacciatori di berretti.
All'epoca di cui vi parlo, Tartarino di Tarascona non era ancora il Tartarino
di oggi, il grande Tartarino di Tarascona, così popolare in tutto il
mezzogiorno della Francia. Tuttavia, a quel tempo, era già il re di Tarascona.
E ve ne spiego il perchè. Dovete sapere, prima di tutto, che a Tarascona tutti
sono cacciatori, dai più grandi ai più piccini. La caccia è la passione dei
Tarasconesi fino dai mitici tempi in cui una fiera mostruosa chiamata Tarasque
faceva strage nelle paludi della città, e i Tarasconesi di allora
organizzavano delle battute contro di lei.
Sono passati parecchi anni, come vedete. Dunque, ogni domenica mattina, tutta
Tarascona afferra le armi ed esce dalle mura, il sacco in spalla, il fucile a
tracolla, insieme a una marea di cani, di furetti, di trombe, di corni da
caccia. E' uno spettacolo superbo... ma, disgraziatamente, manca del tutto la
selvaggina.
Per cinque leghe intorno a Tarascona, ogni tana è vuota e tutti i nidi sono
abbandonati. Nemmeno un merlo, nemmeno una quaglia, nemmeno un coniglietto, e
neppure il più piccolo culbianco. E' vero che le bestie sono bestie, ma a
lungo andare hanno finito per non fidarsi più.
Eppure sono così seducenti quelle graziose collinette tarasconesi, tutte
odorose di mirto, di lavanda, di rosmarino; e come sono appetitosi quei bei
grappoli di uva moscatella, rigonfi di zucchero, tutti in fila sulla riva del
Rodano... Ma ahimè, c'è dietro Tarascona; e nel piccolo mondo del pelo e delle
penne, Tarascona ha una pessima fama. Gli stessi uccelli migratori l'hanno
segnata con una grossa croce sulle loro carte di crociera; e quando le anitre
selvatiche, nelle loro formazioni a triangolo, discendendo verso la Camargue,
avvistano da lontano i campanili della città, l'anitra di testa si mette a
strillare: Ecco Tarascona!... Ecco Tarascona! e tutto lo stormo cambia
direzione.
In fatto di selvaggina, non c'è rimasto in tutta la regione che quell'anima
dannata di una vecchia lepre, sfuggita per miracolo alle settembrine stragi
dei Tarasconesi, e che si ostina a vivere nella zona. A Tarascona questa lepre
è conosciutissima; le hanno dato persino un nome: la Folgore.
Si sa che ha la sua tana nei terreni del signor Bompard, cosa che tra
parentesi ha raddoppiato e anche triplicato il valore della tenuta, ma finora
non è stato possibile colpirla. Ormai non ci sono più che due o tre fanatici
che si accaniscono a darle la caccia. Gli altri si sono rassegnati, e la
Folgore è passata da molto tempo a far parte della mitologia locale.
Ma allora, mi domanderete, con questa scarsità di selvaggina, cosa diavolo
fanno i cacciatori di Tarascona tutte le domeniche? Cosa fanno?
Diamine! Se ne vanno in campagna a due o tre leghe dalla città, si radunano in
gruppetti di cinque o sei, si sdraiano pacificamente all'ombra di un pozzo, di
un vecchio muro, di un olivo, tirano fuori dal carniere un bel tocco di
stracotto di manzo, delle cipolle crude, dei salsicciotti, qualche acciuga, e
danno inizio a una colazione interminabile, innaffiata da uno di quei garbati
vini del Rodano che fanno ridere e cantare.
Dopo essersi ben rifocillati, si alzano, fischiano ai cani, caricano i fucili,
e cominciano la caccia. Voglio dire, cioè, che ognuno di quei signori prende
il suo berretto, lo scaraventa in aria con tutta la forza, e gli tira al volo
con l'intenzione di colpirlo.
Chi colpisce più spesso il suo berretto è proclamato re della caccia, e la
sera rientra a Tarascona da trionfatore, col berretto crivellato sulla canna
del fucile, in mezzo alle fanfare e all'abbaiare dei cani.
Inutile dirvi che in città il commercio dei berretti da caccia è molto bene
avviato. Ci sono persino dei cappellai che vendono berretti già sfondati e
strappati ad uso degli inesperti; ma pare, e lo diciamo a sua vergogna, che
Bèzuquet, il farmacista, sia il solo che ne compri.
Come cacciatore di berretti, Tartarino di Tarascona era incomparabile.
Ogni domenica mattina partiva con un berretto nuovo; ogni domenica sera
tornava con uno straccio. La soffitta della casa del baobab era piena di quei
gloriosi trofei. Perciò i Tarasconesi lo riconoscevano come il loro maestro; e
poichè Tartarino conosceva a fondo il codice del cacciatore, e aveva letto
tutti i trattati e tutti i manuali di tutte le cacce possibili, dalla caccia
al berretto a quella alla tigre birmana, i Tarasconesi l'avevano eletto loro
grande giustiziere cinegetico, e lo sceglievano come arbitro in tutte le loro
discussioni.
Ogni giorno, dalle tre alle quattro, dall'armaiolo Costecalde, si poteva
vedere un uomo grosso e solenne, con la pipa tra i denti, seduto su una
poltrona di cuoio verde, in mezzo alla bottega piena di cacciatori di berretti
che, tutti in piedi, si bisticciavano ferocemente. Era Tartarino di Tarascona
che amministrava la giustizia, proprio come Nembrod, il famoso cacciatore
biblico ricordato anche da Dante nella Divina Commedia, e Salomone a un tempo.
3. No! No! No! Seguito dello sguardo generale alla città di Tarascona.
Alla passione della caccia, la forte razza tarasconese unisce un'altra
passione: quella delle romanze. Il consumo di romanze che si fa in quella
cittadina, è incredibile. Tutte le anticaglie sentimentali che ingialliscono
nelle vecchie custodie, ritrovano a Tarascona il fascino della loro
giovinezza. Ci sono tutte, tutte. Ogni famiglia ha la sua romanza, e in città
tutti lo sanno. Tutti sanno, per esempio, che quella del farmacista Bèzuquet
è: Tu, bianca stella che adoro.
Quella dell'armaiolo Costecalde: Vuoi tu venire con me, sotto una capanna
laggiù?
Quella del ricevitore del registro: Se invisibil foss'io, non mi vedrebbe
alcun. (canzonetta comica).
E così seguitando per tutta Tarascona. Due o tre volte la settimana, i bravi
Tarasconesi si riuniscono in casa dell'uno o dell'altro, e si cantano le
romanze. Lo strano è che sono sempre le stesse e che, dopo tanto tempo che se
le cantano, non abbiano ancora pensato di cambiarle. Le romanze si trasmettono
in famiglia di padre in figlio, sono sacre, non si toccano; e nemmeno si
prestano. Non verrebbe mai ai Costecalde l'idea di cantare quella dei
Bèzuquet, nè ai Bèzuquet l'idea di cantare quella dei Costecalde.
Dopo quarant'anni che se le cantano, figuratevi se le conoscono! Ma no!
Ognuno fa tesoro della sua, e tutti ne sono soddisfatti.
Anche in fatto di romanze, come per i berretti, Tartarino era il primo della
città. La sua superiorità consisteva in questo: non aveva la propria romanza,
le aveva tutte! Tutte! Però ci volevano gli argani per fargliele cantare.
Tornato di buon'ora dai successi mondani, l'eroe tarasconese preferiva
sprofondarsi nei libri di caccia o passare la serata al circolo, piuttosto che
fare il sentimentale davanti al pianoforte. Queste esibizioni musicali non gli
parevano degne di lui... Ma qualche volta, quando c'era musica alla farmacia
Bèzuquet, faceva le viste di entrare per caso, e dopo essersi fatto pregare a
lungo, acconsentiva a cantare il gran duetto di Roberto il Diavolo, insieme
alla signora Bèzuquet madre... Chi non l'ha sentito, non ha sentito niente...
Dovessi vivere cent'anni, non dimenticherò mai il grande Tartarino che si
avvicina al piano con passo solenne, vi si appoggia col gomito, e si sforza di
dare alla sua faccia di buon diavolo, sotto i riflessi verdi dei boccali della
vetrina, l'espressione satanica e truce di Roberto il Diavolo.
Appena si era messo in posa, un fremito percorreva la sala; si aveva
l'impressione che qualcosa di straordinario stesse per accadere... Allora,
dopo un silenzio, la signora Bèzuquet madre, accompagnandosi al piano,
cominciava: O Roberto, tu che amo, tu che avesti la mia fede, lo spavento mio
tu vedi (bis), grazia per te, grazia per me.
Poi a voce bassa aggiungeva: Tocca a lei, Tartarino. E Tartarino di Tarascona,
a braccio teso e a pugno chiuso, le narici frementi, ripeteva tre volte con
una voce formidabile che echeggiava come un tuono nelle viscere del
pianoforte: No!... No!... No!...
A questo punto la signora Bèzuquet madre riprendeva: Grazia per te, grazia per
me.
No!... No!... No!... urlava ancora più forte Tartarino. E tutto finiva qui.
Una cosetta piuttosto breve, come vedete; ma così bene interpretata e così
diabolica, che un brivido di terrore percorreva la farmacia e Tartarino era
costretto a ripetere i suoi: No! No! quattro o cinque volte di seguito.
Poi Tartarino si asciugava il sudore, sorrideva alle signore, indirizzava agli
uomini una strizzatina d'occhi e, ritirandosi come un trionfatore, si recava
al circolo, dove con aria indifferente diceva: Vengo da casa Bèzuquet, dove ho
cantato il duetto di Roberto il Diavolo. E il bello è che ci credeva!...
4. Loro!
A queste sue doti eccezionali Tartarino di Tarascona doveva la sua eminente
posizione in città. Il fatto è che quel diavolo d'uomo aveva saputo
affascinare tutti.
A Tarascona, l'esercito era per Tartarino. Il prode comandante Bravida,
capitano di commissariato a riposo, diceva di lui: E' un valoroso!
NOTA: Nel testo francese l'autore usa la parola lapin che significa coniglio,
ma che nel linguaggio familiare può anche significare uomo astuto e
coraggioso. Questo gioco di parole verrà spesso sfruttato nel racconto. FINE
NOTA.
E il capitano se ne doveva intendere di valorosi, dopo averne vestiti tanti.
Più di una volta, in pieno tribunale, il vecchio presidente Ladevèze aveva
detto di lui: E' un carattere!
Anche il popolo era per Tartarino. Le sue spalle quadrate, la sua camminatura,
la sua aria imperturbabile, quella fama di eroe piovuta non si sa da dove,
qualche, distribuzione di palanche ai piccoli lustrascarpe accampati sulla
soglia di casa sua, ne avevano fatto il re delle piazze tarasconesi. La
domenica sera, sul lungofiume, quando Tartarino tornava dalla caccia col
berretto sulle canne del fucile, stretto nella sua giacca di fustagno, i
facchini del Rodano s'inchinavano pieni di rispetto, e ammiccando verso i
bicipiti giganteschi che si gonfiavano sulle sue braccia, bisbigliavano tra
loro con ammirazione: Quello sì che è forte!... Ha i muscoli doppi! Muscoli
doppi!
Soltanto a Tarascona si può sentire una cosa simile! E tuttavia, nonostante le
sue grandi doti, i suoi muscoli doppi, il favore popolare e la preziosa stima
del prode comandante Bravida, capitano di commissariato a riposo, Tartarino
non era felice; quella vita di piccola cittadina di provincia gli pesava, lo
soffocava. Il grand'uomo di Tarascona, s'annoiava a Tarascona. Per un'anima
eroica come la sua, per un'anima avventurosa e folle che sognava solo
battaglie, scorrerie nelle pampas, cacce grosse, sabbie del deserto, uragani e
tifoni, non bastava la solita battuta di caccia ai berretti della domenica,
per poi passare il resto del tempo ad amministrare la giustizia nella bottega
dell'armaiolo Costecalde... Povero, caro grand'uomo! A lungo andare, c'era da
farlo morire di malinconia.
Invano, per allargare i suoi orizzonti, per dimenticare, almeno per un po', il
circolo e la piazza del Mercato, egli si circondava di baobab e di altra
vegetazione africana; invano accumulava armi su armi, kriss malesi su kriss
malesi; invano si riempiva la testa di letture romanzesche, cercando, come
l'immortale Don Chisciotte, di liberarsi, in virtù del suo sogno, dagli
artigli della inesorabile realtà... Ahimè! Tutto quello che faceva per calmare
la sua febbre di avventure, non faceva che aumentarla.
La vista di tutte le sue armi lo teneva in uno stato continuo di collera e di
eccitazione. Le sue carabine, le sue frecce, i suoi lazos gli gridavano:
Battaglia! Battaglia! Fra i rami del suo baobab soffiava il vento dei grandi
viaggi e gli dava dei cattivi consigli.
Oh, quante volte, nei pesanti pomeriggi estivi, mentre era immerso nella
lettura, circondato dalle sue armi, quante volte Tartarino è balzato in piedi
ruggendo! Quante volte, ha gettato il libro e si è precipitato a staccare
un'arma dal muro! Il pover'uomo si dimenticava di essere a Tarascona, in casa
sua, in mutande e con un fazzoletto in testa; trascinato dagli esempi delle
sue letture, ed esaltandosi al suono della sua voce, egli brandiva un'ascia o
un tomahawk e urlava: Ed ora, che vengano, loro!
Loro? Chi, loro?
Non lo sapeva nemmeno lui, Tartarino... Loro! Ma era tutto quello che attacca,
tutto quello che combatte. tutto quello che morde, che graffia, tutto quello
che scotenna, che grida, che ruggisce... Loro! erano gli Indiani Sioux, che
danzano intorno al palo di guerra dove il povero bianco è legato. Era l'orso
grigio delle Montagne Rocciose che si dondola e si lecca con la lingua piena
di sangue. Era il Tuareg del deserto, il pirata malese, il brigante degli
Abruzzi... Loro, insomma, erano loro!... cioè la guerra, i viaggi,
l'avventura, la gloria.
Ma ahimè! inutilmente l'intrepido Tarasconese li chiamava e li sfidava... Loro
non venivano mai... Che sarebbero venuti a fare a Tarascona?
Tuttavia Tartarino li aspettava sempre; specialmente la sera quando andava al
circolo.
5. Quando Tartarino andava al circolo.
Il Templare che si prepara a una sortita per rompere l'assedio degli infedeli,
il guerriero cinese che si equipaggia per la battaglia, l'indiano Comanche che
scende sul sentiero di guerra, avrebbero fatto una ben magra figura davanti a
Tartarino di Tarascona che, alle nove di sera, un'ora dopo gli squilli della
ritirata, si armava da capo a piedi per andare al circolo.
Nella sinistra Tartarino teneva un pugno di ferro, nella destra un bastone
animato; nella tasca sinistra una corta mazza ferrata, nella tasca destra una
rivoltella. Sul petto, tra la camicia e la maglia, un kriss malese. Mai, però,
frecce avvelenate: armi troppo sleali!
Prima di uscire, Tartarino faceva qualche breve esercizio nella penombra e nel
silenzio del suo studio: parava, tirava contro il muro, gonfiava e rilassava i
muscoli; poi prendeva la chiave di casa, e attraversava il giardino
dignitosamente e senza fretta.
All'inglese, signori miei, all'inglese! E' il vero coraggio.
Arrivato in fondo al giardino, apriva la pesante porta di ferro. L'apriva
bruscamente e con estrema violenza, in modo che sbatacchiasse contro il
muro... figuriamoci che frittata, se dietro ci fossero stati loro!
Disgraziatamente, non c'erano mai. Aperta la porta, Tartarino usciva, gettava
un rapido sguardo a destra e a sinistra, poi, dopo aver chiuso energicamente
la porta a doppia mandata, si metteva in cammino. Per la strada nemmeno un
cane. Buio pesto. Porte e finestre serrate. Solo di tanto in tanto un fanale
ammiccava tra la nebbia del Rodano...
Superbo e tranquillo, Tartarino andava nella notte, facendo risuonare
ritmicamente i tacchi, e sprigionando scintille dal selciato con la punta del
bastone... Tanto nei viali, quanto nelle vie più ampie e nei vicoletti,
Tartarino aveva sempre cura di camminare in mezzo alla strada; ottima
precauzione che permette di vedere arrivare il pericolo, e soprattutto di
evitare quello che la sera a Tarascona cade qualche volta dalle finestre.
A vederlo così prudente, non immaginatevi nemmeno per un momento che Tartarino
avesse paura... No! Lui cercava solamente di proteggersi.
La prova migliore che Tartarino non aveva paura è che, invece di andare al
circolo passando per il corso, preferiva andarci passando dal centro della
città, per un tragitto più lungo che lo costringeva a passare in mezzo a un
dedalo di viuzze buie in fondo alle quali luccica sinistramente la corrente
del Rodano.
Il brav'uomo sperava sempre che all'angolo di uno di quei vicoli malfamati,
loro sbucassero improvvisamente dall'ombra e gli piombassero addosso.
Sarebbero stati ricevuti a dovere, ve lo garantisco io... Ma, ahimè, per una
beffa del destino, mai, mai e poi mai, Tartarino di Tarascona ebbe la fortuna
di fare un brutto incontro. Nemmeno un cane, nemmeno un ubriaco. Nulla!
Sì, qualche volta c'erano dei falsi allarmi. Un rumore di passi, delle voci
soffocate... Attenzione! si diceva Tartarino, e restava immobile scrutando
nell'ombra, fiutando il vento, chinandosi con l'orecchio a terra all'uso
indiano... I passi si avvicinavano. Le voci si facevano più chiare.
Nessun dubbio! Erano loro... Eccoli. Già Tartarino, con l'occhio fiammeggiante
e il respiro affannoso, raccolto su se stesso come un giaguaro, si preparava a
balzare lanciando il suo grido di guerra... quando, improvvisamente, sentiva
venire dall'ombra delle note voci tarasconesi che lo chiamavano: Guarda chi si
vede!... Tartarino... Ciao Tartarino! Maledizione! Era il farmacista Bèzuquet
che, insieme alla famiglia, tornava da casa Costecalde, dove aveva cantato la
sua romanza.
Buona sera! Buona sera! brontolava Tartarino, furioso per il suo errore; poi,
con la faccia truce e il bastone alzato, scompariva nella notte.
Arrivato nella strada del circolo, l'intrepido Tarasconese aspettava ancora un
momento, passeggiando avanti e indietro davanti alla porta prima di entrare...
Finalmente, stanco di attenderli, e sicuro ormai che loro non sarebbero
comparsi, gettava un ultimo sguardo di sfida nell'ombra, e brontolava
irosamente: Nulla! nulla!... mai nulla! A questo punto il brav'uomo entrava
nel circolo a fare la sua solita partita col comandante.
6. I due Tartarini.
Con questa smania di avventure, questo bisogno di forti emozioni, questo
desiderio folle di viaggiare, di muoversi, di andare a casa del diavolo, come
mai, domanderete, Tartarino di Tarascona non aveva mai lasciato Tarascona?
E' la verità. Fina all'età di quarantacinque anni, l'intrepido Tarasconese non
aveva mai passato una notte fuori della sua città. Non aveva neppure fatto
quel famoso viaggio a Marsiglia, che ogni buon provenzale si concede appena è
maggiorenne. A malapena conosceva Beaucaire, sebbene Beaucaire non sia molto
lontana da Tarascona: basta attraversare il ponte. Purtroppo quel maledetto
ponte è stato portato via tante volte dalle raffiche del vento, è così lungo,
così fragile, e il Rodano in quel punto è così largo che... insomma, voi mi
capite, Tartarino di Tarascona preferiva la terraferma.
Bisogna che ve lo confessi: nel nostro eroe convivevano due personalità molto
diverse. In realtà Tartarino aveva dentro di sè l'anima di Don Chisciotte, gli
stessi impeti cavallereschi, lo stesso ideale eroico, la stessa mania per il
grandioso e il romanzesco; ma purtroppo non aveva il corpo del celebre
hidalgo, quel corpo magro e ossuto, quella parvenza di corpo, sul quale la
vita materiale non aveva presa, quel corpo capace di passare venti notti senza
togliersi la corazza e quarantott'ore con un pugno di riso.
Il corpo di Tartarino era invece un bel corpaccione, molto grasso, molto
pesante, molto soffice, brontolone, pieno di desideri borghesi e di esigenze
domestiche; insomma il corpo grosso di ventre e corto di gambe dell'immortale
Sancio Panza.
Don Chisciotte e Sancio Panza nella stessa persona! Come potevano andare
d'accordo? Come potevano evitare di combattersi e di dilaniarsi a vicenda?
Ecco un esempio di dialogo, degno di un Luciano di Samotracia o di un
Saint-Evremont, tra i due Tartarini: Tartarino-Chisciotte e Tartarino-Sancio;
il primo, esaltato dai romanzi di avventure, grida: Io parto!
Il secondo, preoccupato per i reumatismi, dice: E io resto.
Tartarino-Chisciotte (eccitatissimo): Ricopriti di gloria, Tartarino.
Tartarino-Sancio (calmissimo): Tartarino, copriti di flanella.
Tartarino-Chisciotte (ancora più eccitato): Oh, le belle carabine a due colpi!
Le daghe, i lazos, i mocassini!
Tartarino-Sancio (sempre più calmo): Oh, i bei panciotti a maglia! Le belle
ginocchiere calde! Oh, i simpatici berretti di lana che coprono gli orecchi!
Tartarino-Chisciotte (fuori di se): Una scure! Datemi una scure!
Tartarino-Sancio (suonando il campanello): Jeannette, la cioccolata.
A questo punto fa il suo ingresso Jeannette con un'eccellente tazza di
cioccolata, calda, densa e profumata, accompagnata da dei deliziosi biscottini
all'anice. Tartarino-Sancio ride soddisfatto, soffocando le proteste di
Tartarino-Chisciotte. Ecco spiegato perchè Tartarino di Tarascona non aveva
mai lasciato Tarascona.
7. Gli Europei a Shanghai, Il commercio mondiale, I Tartari, Tartarino di
Tarascona sarebbe un impostore? Il miraggio.
Eppure, una volta Tartarino era stato sul punto di partire, e di partire per
un lungo viaggio. I tre fratelli Garcio-Camus, Tarasconesi emigrati a
Shanghai, gli avevano offerto la direzione di una delle loro agenzie. Era
proprio la vita che gli ci voleva. Grossi affari, un esercito di impiegati da
dirigere, relazioni con la Russia, con la Persia, la Turchia asiatica, insomma
il vero grande commercio internazionale. Sulle labbra di Tartarino le parole:
commercio internazionale, acquistavano un'importanza straordinaria.
La ditta Garcio-Camus aveva anche questo di buono, che ogni tanto riceveva la
visita dei Tartari. Allora si serravano subito le porte. Gli impiegati
imbracciavano le armi, veniva issata la bandiera consolare, e pum! pum! dalle
finestre sui Tartari.
Non vi sto a dire con quale entusiasmo Tartarino-Chisciotte accolse questo
progetto; disgraziatamente Tartarino-Sancio da quell'orecchio non ci sentiva,
e siccome era il più forte la cosa finì nel nulla. In città se ne parlò a
lungo. Partirà? Non partirà? Scommettiamo di sì, scommettiamo di no. Fu un
avvenimento... morale della favola: Tartarino non partì; tuttavia quella
vicenda aumentò la sua popolarità. Essere stato sul punto di partire per
Shanghai, o esserci veramente andato, per i Tarasconesi era pressappoco la
medesima cosa.
A forza di parlare del viaggio di Tartarino, si finì per credere che ne
ritornasse, e la sera, al circolo, tutti i suoi amici gli domandavano
informazioni sulla vita di Shanghai, sui costumi, sul clima, sull'oppio, e sul
commercio internazionale.
Informatissimo, Tartarino dava gentilmente ogni particolare richiesto, e a
lungo andare, il brav'uomo non era più sicuro nemmeno lui di non essere mai
stato a Shanghai, tanto che, raccontando per la centesima volta la calata dei
Tartari, gli veniva fatto di dire spontaneamente: Allora, faccio armare i miei
dipendenti, alzo la bandiera consolare, e pum! pum! dalle finestre, sui
Tartari. A queste parole tutto il circolo fremeva...
Ma allora, questo Tartarino era un bugiardo di prima forza.
No, Assolutamente no! Tartarino non era un bugiardo...
Eppure, doveva saperlo di non essere mai stato a Shanghai.
Certo che lo sapeva. Però...
Però statemi bene a sentire. E' il momento di mettersi d'accordo una volta per
tutte su quella fama di mentitori che le popolazioni del nord hanno attribuito
ai meridionali. Non ci sono mentitori nel Mezzogiorno, non ce ne sono nè a
Marsiglia, nè a Nimes, nè a Tolosa, nè a Tarascona.
Il meridionale non mentisce, sbaglia. Non dice sempre la verità, crede di
dirla... La sua menzogna non è una vera menzogna, è una specie di miraggio...
Sì, di miraggio!... E se volete capirmi meglio, andatevene nel Mezzogiorno, e
vedrete. Vedrete che in questo dannato paese il sole trasfigura tutto, e fa
sembrare tutto più grande del vero.
Le collinette della Provenza, non più alte della collina di Montmartre, vi
sembreranno gigantesche il tempio romano di Nimes, un piccolo gioiello, vi
sembrerà più grande di Notre-Dame... insomma, se c'è un mentitore nel
Mezzogiorno, è il sole... un sole che ingrandisce tutto quello che tocca!...
Cos'era Sparta al tempo del suo splendore? Un borgo... E Atene, cos'era? Non
più di una cittadina... eppure nella storia ci sembrano città enormi. Miracoli
del sole. ..
Non potete stupirvi, dunque, se lo stesso sole, splendendo sopra Tarascona,
abbia potuto trasformare un capitano di commissariato in pensione come
Bravida, nel prode comandante Bravida, una rapa in un baobab, e un uomo che
era stato sul punto di partire per Shanghai in un uomo che c'era stato.
8. Il serraglio Mitaine, Un leone dell'Atlante a Tarascona, Incontro terribile
e solenne.
Ed ora che abbiamo presentato Tartarino nella sua vita privata, prima che la
gloria lo avesse baciato in fronte e incoronato di alloro, ora che abbiamo
descritto questa vita eroica in un ambiente meschino, con le sue gioie, i suoi
dolori, i sogni e le speranze, affrettiamoci ad arrivare alle grandi pagine
della sua storia e al singolare avvenimento che doveva dare l'avvio a tale
destino incomparabile.
Una sera, dall'armaiolo Costecalde, Tartarino di Tarascona era intento a
spiegare a un gruppetto di appassionati il funzionamento del fucile ad ago,
allora considerato un'invenzione nuovissima... Improvvisamente si spalanca la
porta, e un cacciatore di berretti irrompe nella bottega, gridando
eccitatissimo: Un leone!... un leone!
Stupore generale, spavento, tumulto, confusione. Tartarino mette la baionetta
in canna. Costecalde corre a sprangare la porta. Il cacciatore è circondato,
interrogato, sopraffatto, e tutto si chiarisce: il serraglio Mitaine, di
ritorno dalla fiera di Beaucaire, aveva fatto sosta per qualche giorno a
Tarascona, installandosi sulla piazza del castello con una grande quantità di
serpenti boa, di foche, di coccodrilli, e un magnifico leone dell'Atlante.
Un leone dell'Atlante a Tarascona! Mai, a memoria d'uomo, si era vista una
cosa simile. I nostri bravi cacciatori di berretti si guardarono fieramente
negli occhi. I loro volti maschi risplendevano di eccitazione, e in ogni
angolo della bottega venivano scambiate silenziose strette di mano. L'emozione
era stata così grande e così improvvisa, che nessuno trovava le parole
adatte...
Nemmeno Tartarino. Pallido e fremente, stringendo ancora tra le mani il fucile
ad ago, in piedi davanti alla cassa, egli sognava... Un leone dell'Atlante lì
vicino, a due passi! Un leone! L'animale eroico e feroce per eccellenza, il re
delle belve, la preda agognata dei suoi sogni, l'attore principale di quella
compagnia ideale che recitava drammi così emozionanti nella sua
immaginazione...
Tuoni e fulmini, un leone!. . . E per di più dell'Atlante!!! Era più di quanto
il grande Tartarino potesse sopportare. Improvvisamente un'ondata di sangue
gli salì al viso. I suoi occhi fiammeggiarono. Con un gesto convulso si mise
in spalla il fucile ad ago e, rivolgendosi al prode comandante Bravida,
capitano di commissariato in pensione, gli urlò con voce tonante: Andiamo a
vedere, comandante!
Ma... ma il mio fucile!... ve lo portate via? si azzardò a domandare
timidamente il prudente Costecalde; ma Tartarino aveva già scantonato, seguito
da tutti i cacciatori di berretti che regolavano fieramente il passo su quello
marziale di lui.
Quando arrivarono al serraglio, c'era già molta gente. I Tarasconesi, razza
eroica per natura, ma da troppo tempo digiuni di spettacoli sensazionali, si
erano precipitati verso il baraccone e l'avevano preso d'assalto.
La grossa signora Mitaine era molto soddisfatta... in costume arabo, con le
braccia nude fino al gomito, braccialetti di ferro alle caviglie, con un
frustino in mano e con un pollo vivo, ma spennato, nell'altra mano, l'illustre
signora faceva gli onori di casa ai Tarasconesi; e poichè anche lei aveva i
muscoli doppi, il suo successo era quasi paragonabile a quello dei suoi
animali.
L'ingresso di Tartarino col fucile in spalla produsse un senso di gelo.
Tutti quei bravi Tarasconesi che passeggiavano tranquillamente su e giù
davanti alle gabbie, disarmati, senza diffidenza, senza nemmeno sospettare la
presenza di un pericolo, ebbero un ben giustificato soprassalto di terrore,
quando videro il loro grande Tartarino entrare nella baracca con la sua
micidiale arma di guerra. C'era dunque pericolo, se lui, quell'eroe...
In un batter d'occhio tutto lo spazio davanti alle gabbie restò vuoto. I
bambini strillavano di paura, le signore lanciavano occhiate spaventate verso
l'uscita. Il farmacista Bèzuquet si eclissò dicendo che andava a prendere il
fucile... Ma a poco a poco l'atteggiamento di Tartarino rassicurò i presenti.
Calmo, a testa alta, l'intrepido Tarasconese fece lentamente il giro del
baraccone; passò senza fermarsi davanti alla tinozza della foca, lanciò un
occhiata sprezzante sulla lunga cassa piena di crusca dove il serpente boa
stava digerendo il suo pollo crudo, e finalmente andò a piantarsi davanti alla
gabbia del leone...
Incontro terribile e solenne! Il leone di Tarascona e il leone dell'Atlante.
L'uno di faccia all'altro... Da una parte Tartarino, solidamente piantato
sulle gambe e con le braccia appoggiate al fucile; dall'altra il leone, un
leone gigantesco, sdraiato sulla paglia, con gli occhi sonnacchiosi e l'aria
rimbecillita, col suo muso enorme dalla parrucca gialla appoggiato sulle zampe
anteriori...
Tutti e due si guardavano intensamente negli occhi. Cosa strana! Sia che il
fucile ad ago gli avesse urtato i nervi, sia che avesse fiutato un nemico
della sua razza, il leone, che fino a quel momento si era limitato a guardare
i Tarasconesi con profondo disprezzo sbadigliando loro sul naso, ebbe
improvvisamente un moto di collera. Prima sbuffò, brontolò sordamente, mise
fuori gli unghioni e si stirò sulle gambe; poi si alzò, drizzò la testa,
scosse la criniera, aprì una bocca immensa ed emise un ruggito formidabile
all'indirizzo di Tartarino.
Un urlo di terrore gli rispose. Presa dal panico, tutta Tarascona si precipitò
verso le porte. Tutti, donne, bambini, cacciatori di berretti, facchini,
persino il prode comandante Bravida... solo Tartarino di Tarascona non battè
ciglio. Era lì, davanti alla gabbia, immobile e risoluto, con gli occhi
lampeggianti e con sul volto quell'espressione minacciosa che tutta la città
conosceva... Dopo qualche momento, quando i cacciatori di berretti,
rassicurati dal suo atteggiamento e dalla solidità delle sbarre, si furono
avvicinati al loro capo, lo sentirono mormorare: Questa sì che è una caccia!
Quel giorno, Tartarino di Tarascona non aggiunse altro.
9. Strani effetti del miraggio.
Quel giorno Tartarino di Tarascona non aggiunse altro; ma lo sventurato aveva
già detto anche troppo... Il giorno dopo, in città non si parlava che della
prossima partenza di Tartarino per la caccia ai leoni in Algeria. Siete tutti
testimoni, cari lettori, che il brav'uomo non aveva minimamente accennato a
una cosa del genere; ma che volete, il miraggio...
Insomma, tutta Tarascona non parlava che della partenza di Tartarino.
Per la via, al circolo, nella bottega di Costecalde, la gente si interrogava
con aria sbigottita: L'avete saputa la grande notizia?
Sapete che Tartarino deve partire per la caccia ai leoni?
L'uomo più meravigliato di tutta la città, quando seppe che stava per partire
per l'Africa, fu Tartarino. Ma guardate cos'è la vanità! Invece di rispondere
semplicemente che non sarebbe partito affatto e che non aveva mai avuto
l'intenzione di partire, il povero Tartarino, la prima volta che gli parlarono
di quel viaggio, disse con tono leggermente ambiguo: Eh, già... forse... non
dico di no. La seconda volta, un po' più familiarizzato con l'idea, rispose:
E' probabile. La terza volta: E' certo!
La sera, poi, al circolo e in casa Costecalde, trascinato da un robusto ponce,
dall'entusiasmo e dalle luci, ubriacato dal successo che la notizia della sua
partenza aveva sollevato in città, lo sventurato dichiarò formalmente che
ormai era stufo di cacciare i berretti, e che presto si sarebbe messo sulle
tracce dei grandi leoni dell'Atlante.
Un urrà! formidabile accolse questa dichiarazione. Seguì una nuova
distribuzione di ponce, strette di mano, abbracci, serenata e fiaccolata fino
alla mezzanotte davanti alla villetta del baobab.
Ma Tartarino-Sancio non era affatto contento! L'idea di questo viaggio in
Africa e della caccia al leone lo faceva rabbrividire in anticipo appena
rientrato in casa e mentre la serenata d'onore risuonava ancora sotto le
finestre, egli fece a Tartarino-Chisciotte una scenata spaventevole.
Lo chiamò matto, visionario, imprudente, delirante; e gli enumerò una per una
tutte le catastrofi che l'attendevano in quella spedizione: naufragi,
reumatismi, febbri tropicali, dissenteria, peste nera, elefantiasi e via
discorrendo... Invano Tartarino-Chisciotte giurava di non commettere
imprudenze, di coprirsi bene e di portare tutto l'occorrente per ogni
evenienza; Tartarino-Sancio non voleva sentir ragioni.
Il pover'uomo si vedeva già fatto a pezzi dai leoni, inghiottito dalle sabbie
del deserto come re persiano Cambise, e l'altro Tartarino riuscì a calmarlo un
po' solo quando gli ebbe spiegato che non si trattava di partire subito, che
non c'era fretta, e che, tutto sommato, non erano ancora partiti. E' chiaro,
infatti, che non ci si imbarca in un'impresa del genere senza prendere qualche
precauzione. Bisogna sapere dove si va, che diavolo! e non partire come un
uccello...
Per prima cosa, il Tarasconese volle rileggere i racconti dei grandi
esploratori africani, i resoconti di Mungo-Park, di Caillè, del dottor
Livingstone, di Henry Vuveyrier. In quelle pagine, vide che quegli intrepidi
viaggiatori, prima di mettersi in marcia per quelle lontane esplorazioni, si
erano allenati in precedenza a sopportare la fame, la sete, le marce forzate e
ogni genere di privazioni.
Tartarino volle fare come loro e, a cominciare da quel giorno, si nutrì
esclusivamente di acqua bollita. Quello che a Tarascona si chiama acqua
bollita consiste in qualche fetta di pane annegata nell'acqua calda, con uno
spicchio d'aglio, un po' di timo e una foglia di alloro. Era un regime severo,
e potrete facilmente immaginarvi le boccacce del povero Sancio...
All'allenamento con l'acqua bollita, Tartarino unì altri saggi esercizi.
Così, per abituarsi alle lunghe marce, si obbligò a fare ogni mattina sette o
otto volte il giro della città, ora a passo accelerato, ora a passo
ginnastico, braccia flesse e due sassolini bianchi in bocca, secondo l'uso
antico. Poi, per abituarsi al fresco della notte, alle nebbie, alla rugiada,
scendeva tutte le sere in giardino e ci restava per circa dieci, undici ore,
solo col suo fucile, alla posta dietro il baobab.
Aggiungeremo che per tutto il tempo che il serraglio Mitaine rimase a
Tarascona, i cacciatori di berretti rimasti fino a tardi da Costecalde,
potevano scorgere, passando dalla piazza del castello, un uomo misterioso che
nell'oscurità camminava in su e in giù dietro il baraccone.
Era Tartarino di Tarascona, che si abituava ad ascoltare senza fremere i
ruggiti del leone nella notte.
10. Prima della partenza.
Mentre Tartarino perseverava nel suo allenamento con eroica ostinazione, tutta
Tarascona gli teneva gli occhi addosso; in città non ci si occupava d'altro.
La caccia ai berretti batteva la fiacca, le romanze erano rimaste disoccupate.
Nella farmacia Bèzuquet il pianoforte languiva sotto un panno verde, e sopra
di esso, con le zampette all'aria, seccavano le mosche cantaridi. La
spedizione di Tartarino aveva fermato tutto. Bisognava vedere il successo che
il Tarasconese aveva nei salotti. Tutti se lo strappavano, se lo disputavano,
se lo prestavano, se lo rubavano.
Per le signore non c'era onore più grande di quello di andare al serraglio
Mitaine al braccio di Tartarino, e di farsi spiegare, davanti alla gabbia del
leone i vari metodi che venivano usati per cacciare quelle belve, dove
bisognava mirare, a quanti passi di distanza, se gli incidenti erano numerosi,
e via discorrendo...
Tartarino dava tutte le spiegazioni possibili. Aveva letto i due libri di
memorie di Jules Gèrard, detto l'Uccisore dei Leoni, quell'ufficiale francese
degli spahis che si rese famoso per la caccia ai leoni che devastavano
l'Algeria, e aveva ormai la caccia al leone sulla punta delle dita come se
l'avesse fatta anche lui. E parlava dell'argomento con una grande eloquenza.
Ma il bello veniva la sera, a pranzo dal presidente Ladevèze o dal prode
comandante Bravida, capitano di commissariato in pensione, quando, al momento
del caffè, tutti avvicinavano le sedie e lo facevano parlare delle sue cacce
future...
Allora, col gomito appoggiato sulla tovaglia, col naso nella tazzina del suo
moca, l'eroe enumerava con voce commossa tutti i pericoli che l'attendevano
laggiù. Parlava dei lunghi appostamenti nelle notti senza luna, delle paludi
pestilenziali, dei fiumi avvelenati dalle foglie dell'oleandro, delle nevi,
dei soli ardenti, degli scorpioni, delle nubi di cavallette; spiegava anche le
abitudini dei grandi leoni dell'Atlante, il loro modo di combattere, il loro
eccezionale vigore, la loro ferocia...
Poi, esaltandosi alle proprie parole, balzava in piedi, piombava in mezzo alla
sala da pranzo, imitando il ruggito del leone, i colpi della carabina, pan!
pan! il fischio di un proiettile esplosivo, pfft! pfft! gesticolava,
ringhiava, rovesciava le sedie...
Intorno alla tavola, i volti impallidivano. Gli uomini si guardavano scuotendo
la testa, le signore chiudevano gli occhi con dei gridolini di spavento, i
vecchi brandivano bellicosamente i loro bastoni e, nella stanza accanto, i
bambini, messi a letto di buon'ora, svegliati di soprassalto dai ruggiti e dai
colpi di fucile, chiedevano un lume, terrorizzati. Ma Tartarino non partiva.
11. Colpi di spada, signori, colpi di spada!... Non colpi di spillo!
Aveva realmente l'intenzione di partire?... Domanda delicata e capace di
mettere in grave imbarazzo lo storico di Tartarino. Il fatto è che già da tre
mesi il serraglio Mitaine aveva lasciato Tarascona, e lo sterminatore di leoni
non si era mosso... Forse il candido eroe accecato da un nuovo miraggio,
s'immaginava in buona fede di essere già stato in Algeria.
Forse, a furia di raccontare le sue cacce future, si era convinto di averle
fatte, come era convinto di aver alzato la bandiera consolare e di aver
sparato sui Tartari, pum! pum! a Shanghai.
Purtroppo, se anche questa volta Tartarino di Tarascona fu vittima del
miraggio, i Tarasconesi non lo furono. Quando, dopo tre mesi di attesa, si
accorsero che il cacciatore di leoni non aveva ancora preparato nemmeno una
valigia, cominciarono a mormorare.
Andrà a finire come per quella storia di Shanghai! diceva sorridendo
Costecalde. E le parole dell'armaiolo ebbero un grande successo in città,
perchè ormai nessuno aveva più fiducia in Tartarino.
I timidi, i paurosi, le persone come Bèzuquet, che sarebbero fuggite davanti a
una pulce e che erano incapaci di tirare una fucilata senza chiudere gli
occhi, erano i più accaniti. Al circolo, sul piazzale, abbordavano il povero
Tartarino e gli chiedevano con aria leggermente canzonatoria: E allora, quando
si parte?
Nel negozio Costecalde, la sua opinione non faceva più legge. I cacciatori di
berretti rinnegavano il loro capo! Poi cominciarono gli epigrammi.
Il presidente Ladevèze, che nelle sue ore di libertà faceva volentieri un po'
di corte alle muse, compose una canzone che ebbe molta fortuna. Si trattava
della storia di un certo mastro Gervasio, gran cacciatore, che, col suo
formidabile fucile, doveva andare in Africa a sterminare i leoni.
Purtroppo quel maledetto fucile aveva uno strano difetto: si caricava sempre,
e non sparava mai. L'allusione era chiara...
In un batter d'occhio, la canzonetta diventò popolare; e quando passava
Tartarino. i facchini dello scalo e i piccoli lustrascarpe davanti alla porta,
cantavano in coro: A caccia di leoni con la sua carabina, andò mastro Gervasio
una bella mattina. Ma l'arma traditrice gli procurò dei guai, la caricava
sempre, e non sparava mai!
Però, a causa dei muscoli doppi, gliela cantavano da lontano. Oh fragilità
degli entusiasmi tarasconesi!
Lui, il grand'uomo, faceva finta di non vedere, di non sentire; ma in fondo
questa guerricciola sorda e velenosa lo faceva soffrire; sentiva che Tarascona
gli scivolava dalle mani, e che il favore popolare si riversava su altri.
E' bello sedersi davanti al piatto appetitoso della popolarità, ma se il
piatto si rovescia, che scottature!
A dispetto delle sue sofferenze, Tartarino, come se niente fosse, seguitava
sorridendo la sua solita vita. Qualche volta, tuttavia, la maschera di serena
indifferenza che per orgoglio Tartarino si era incollata sul viso, si staccava
improvvisamente. Allora, invece del sorriso, si vedevano sul suo volto
indignazione e dolore. E così, una mattina, mentre i piccoli lustrascarpe
cantavano sotto le sue finestre: Il fucile di mastro Gervasio, le voci di quei
miserabili giunsero fino alla camera del pover'uomo che stava facendosi la
barba davanti allo specchio (Tartarino portava la barba intera, ma siccome
cresceva troppo alla svelta, era costretto a controllarla).
All'improvviso la finestra si spalancò con violenza, e Tartarino apparve in
camicia, con una salvietta annodata in testa e le guance insaponate. Brandendo
minacciosamente il rasoio, egli gridò con voce formidabile: Colpi di spada,
signori, colpi di spada!... Non colpi di spillo!
Bellissime parole degne di passare alla storia, se non avessero avuto il torto
di essere indirizzate a quei monelli, alti come la loro cassettina da
lustrascarpe, e incapaci di maneggiare una spada come veri gentiluomini.
12. Di quel che fu detto nella villetta del baobab.
In mezzo alla defezione generale, solo l'esercito restava fedele a Tartarino.
Il valoroso comandante Bravida, capitano di commissariato in pensione, gli
manteneva intatta la sua stima. E' un prode! si ostinava a dire, e questa sua
affermazione aveva, immagino, lo stesso valore di quella del farmacista
Bèzuquet. Nemmeno una volta il valoroso comandante aveva fatto allusione al
viaggio di Tartarino in Africa; ma quando il clamore popolare divenne troppo
insistente, egli si decise a parlare.
Una sera, lo sventurato Tartarino era solo nel suo studio, immerso in tristi
pensieri, quando vide entrare il comandante. Solenne, coi guanti neri e
abbottonato fino agli orecchi, il capitano in pensione disse con autorità:
Tartarino, bisogna partire! E restò impalato nel vano della porta rigido e
impassibile come il dovere. Tartarino comprese subito il profondo significato
di quella frase.
Si alzò, pallidissimo, guardò con occhio pieno di tenerezza quel suo delizioso
studio, così intimo, pieno di calore e di luce, quella sua poltrona così
comoda, i suoi libri, i suoi tappeti, le grandi tende bianche alle finestre,
dietro le quali tremavano i rami gracili delle sue piante; poi, avanzandosi
verso il valoroso comandante, gli afferrò la mano, la strinse con energia, e
con una voce dove si sentivano le lacrime, ma anche una stoica rassegnazione,
gli disse: Partirò, Bravida! E, come aveva detto, partì. Ma non subito... gli
ci volle il tempo per fare i preparativi. Per prima cosa ordinò da Bompard due
grandi bauli rinforzati, con sopra una lunga targa recante l'iscrizione:
TARTARINO DI TARASCONA. Cassa d'armi. Per rinforzare i bauli e per incidere la
targa, ci volle molto tempo.
Poi ordinò da Tastavin un magnifico album da viaggio per scrivere il suo
giornale e le sue impressioni; perchè, anche quando si va a caccia di leoni,
c'è sempre tempo di fare delle riflessioni, specialmente durante gli
spostamenti. Poi si fece venire da Marsiglia un carico di conserve alimentari,
del pemmican in tavolette per fare il brodo, quel cibo tipico degli Indiani
dell'America del Nord, che consiste in sottili fette di carne e pesce, seccate
e affumicate. Poi una tenda di nuovo modello che si montava e si smontava in
un minuto, un paio di stivali da marinaio, due ombrelli, un impermeabile, e un
paio di occhiali azzurri contro i riflessi del sole. Infine il farmacista
Bèzuquet gli preparò una piccola farmacia da viaggio, piena zeppa di cerotti,
d'acqua d'arnica, di canfora e di aceto dei sette ladri. Povero Tartarino!
Egli sperava, a forza di precauzioni e di attenzioni delicate, di calmare il
furore di Tartarino-Sancio che, da quando la partenza era stata decisa, non
faceva che protestare dalla mattina alla sera.
13. La partenza.
Finalmente scoccò l'ora fatidica e solenne. Dall'alba, tutta Tarascona era in
piedi, e affollava la strada di Avignone e le vicinanze della villetta del
baobab. Gente alle finestre, sui tetti, sugli alberi; marinai del Rodano,
facchini, lustrascarpe, impiegati, operaie della filanda, membri del circolo,
insomma tutta la città; persino gente di Beaucaire era venuta a Tarascona,
attraversando il ponte; c'erano anche degli ortolani dei sobborghi con le loro
carrette coperte, dei vignaioli in sella alle loro mule tutte infiocchettate e
cariche di nastri, di nappe e di bubboli, e non mancava qualche bella ragazza
di Arles coi capelli intrecciati di nastri azzurri, venuta insieme
all'amoroso, in groppa a un bel cavallino grigio della Camargue.
Tutta questa folla si accalcava davanti alla porta di Tartarino, di quel bravo
signor Tartarino, che andava ad ammazzare i leoni dai Turchi. Per i
Tarasconesi, l'Algeria, l'Africa, la Grecia, la Persia, la Turchia, la
Mesopotamia, formano tutte insieme un immenso e indefinito paese, quasi
mitologico, chiamato semplicemente i Turchi.
Davanti alla villetta del baobab erano ferme due grosse carriole. Di tanto in
tanto, quando si apriva la porta, si potevano scorgere nel giardinetto alcune
persone che passeggiavano con aria solenne. Degli uomini portavano valige,
casse, sacchi a pelo, che accatastavano sulle carriole. A ogni nuovo pacco, la
folla fremeva. Si nominavano gli oggetti ad alta voce: Ecco la tenda... la
carne in scatola... la farmacia... le casse d'armi... E i cacciatori di
berretti davano spiegazioni.
Improvvisamente, verso le dieci, ci fu un gran movimento tra la folla.
La porta del giardino girò violentemente sui cardini. E' lui!... E' lui!
gridarono tutti. Era lui... Quando Tartarino apparve sulla soglia, due gridi
di stupore partirono dalla folla: E' un Turco! Ha gli occhiali!
Andando in Algeria, infatti, era sembrato necessario a Tartarino indossare il
costume algerino. Ampi pantaloni bianchi a sbuffo, giacchettina stretta con
bottoni di metallo, mezzo metro di cintura rossa intorno allo stomaco, il
collo nudo, la fronte rasa, e sulla testa un gigantesco fez rosso con una
nappa azzurra che non finiva mai... Inoltre, due pesanti carabine, una per
spalla, un coltellaccio da caccia alla cintura e un revolver con la sua
fondina che gli dondolava su un fianco. Nient'altro... Ah, scusate,
dimenticavo gli occhiali; un enorme paio di occhiali azzurri che, molto a
proposito, mitigavano alquanto l'aspetto un po' troppo feroce del nostro eroe.
Viva Tartarino!... Viva Tartarino! gridò la folla.
Il grand'uomo sorrise, ma impedito dai fucili, non potè ringraziare. Del
resto, sapeva ormai per esperienza quanto valeva il favore del popolo; forse,
in fondo all'anima, egli malediceva quei suoi terribili concittadini che lo
costringevano a partire, a lasciare la sua cara villetta dai muri bianchi e
dalle persiane verdi... ma questo suo sentimento rimaneva nascosto.
Calmo e fiero, sebbene un po' pallido, Tartarino si avanzò sulla strada,
osservò le sue carriole, e dopo essersi assicurato che tutto era in ordine, si
avviò risolutamente verso la stazione, senza voltarsi nemmeno una volta a
guardare la sua villetta del baobab. Lo seguivano il valoroso comandante
Bravida, capitano di commissariato in pensione, il presidente Ladevèze,
l'armaiolo Costecalde e tutti i cacciatori di berretti; più indietro, le
carriole, più indietro ancora, il popolo.
Il capostazione lo attendeva davanti alla banchina; era un reduce d'Africa del
1830, e gli strinse più volte calorosamente la mano.
Il rapido Parigi-Marsiglia non era ancora arrivato. Tartarino e il suo stato
maggiore entrarono nella sala d'aspetto. Per evitare l'eccessivo affollamento
della sala, il capostazione fece chiudere i cancelli.
Per un quarto d'ora, Tartarino camminò in lungo e in largo tra i cacciatori di
berretti. Parlava del suo viaggio, della caccia, e prometteva a tutti una
pelle di leone. Tutti si prenotarono per una pelle sul suo carnet, come ci si
prenota per una danza. Tranquillo e sereno come Socrate al momento di bere la
cicuta, l'intrepido Tarasconese aveva una parola per ciascuno, un sorriso per
tutti. In un angolo, degli operai piangevano. Fuori, il popolo guardava
attraverso le sbarre dei cancelli, e urlava: Viva Tartarino!
Finalmente suonò la campana. Un fischio lacerante e un rotolìo sordo fecero
tremare le arcate della stazione... In vettura! In vettura!
Addio, Tartarino!... addio, Tartarino!...
Addio, a tutti!... mormorò il grand'uomo, e sulle guance del valoroso
comandante Bravida baciò la sua cara Tarascona. Poi si slanciò verso il treno,
e salì su una vettura piena di signore di Parigi, che stettero lì lì per
morire dallo spavento nel vedere entrare quello strano uomo armato fino ai
denti.
14. Il porto di Marsiglia, A bordo.
Il primo giorno di dicembre del 186... verso mezzogiorno, con un sole da
inverno provenzale, e un cielo chiaro, limpido, luminoso, i Marsigliesi
stupefatti videro sbucare sulla Canebière un Turco; ma un Turco più Turco di
tutti quelli che fino allora avevano visto; eppure, Dio sa se a Marsiglia
mancano i Turchi!
Inutile dirvi che quel Turco era Tartarino di Tarascona, il grande Tartarino,
che camminava lungo il molo, seguito dalle sue casse d'armi, dalla sua
farmacia, dalle sue scatole di carne in conserva, diretto verso l'imbarcadero
della compagnia Touache, dove l'attendeva il piroscafo Zuavo che doveva
condurlo in Algeria.
Con ancora negli orecchi l'eco degli applausi tarasconesi, ubriacato dalla
luminosità del cielo e dall'odore del mare, Tartarino procedeva raggiante, coi
fucili in spalla, la testa alta, e gli occhi spalancati sulle affascinanti
meraviglie del porto di Marsiglia, che vedeva per la prima volta... Il
pover'uomo credeva di sognare. Gli sembrava d'essere Sindbad il Marinaio e di
trovarsi in una città fantastica da Mille e una notte.
Alberi e pennoni s'incrociavano in tutti i sensi a perdita d'occhio.
Sventolavano bandiere di ogni paese, russe, greche, svedesi, tunisine,
americane... Le navi ormeggiate rasente alla banchina protendevano i loro
bompressi come una fila di baionette. Più in basso le naiadi, le dee, le sante
vergini e le altre sculture di legno dipinto che danno il nome alla nave,
apparivano corrose dalla salsedine, consumate, gocciolanti, ammuffite...
Qua e la, tra una nave e l'altra, tremolava cangiante un pezzetto di mare...
Tra il groviglio dei pennoni, nuvole bianche di gabbiani spiccavano
sull'azzurro del cielo, e i mozzi si chiamavano in tutte le lingue. Sulla
banchina, in mezzo ai rigagnoli densi e nerastri, saturi d'olio e di soda, che
venivano dalle fabbriche di sapone, si agitava una moltitudine di doganieri,
di spedizionieri, di facchini con le loro carrette tirate da piccoli cavalli
còrsi. Negozi di abiti strani, baracche fumose dove i marinai si preparavano
da mangiare, mercanti di pipe, di scimmie, di pappagalli, di cordami, di tela
da vele; incredibili botteghe di anticaglie, dove erano esposte alla rinfusa
vecchie colubrine, grosse lanterne dorate, vecchi paranchi, ancore arrugginite
e sdentate, vecchie carrucole, megafoni usati, cannocchiali dell'epoca di Jean
Bart, l'ammiraglio francese, celebre per le sue lotte con i pirati nel
Mediterraneo e nelle Antille.
Venditrici di arselle e di datteri di mare, accovacciate accanto alle loro
conchiglie, lanciavano il loro grido lamentoso. Passavano dei marinai carichi
di mastelli di catrame, di marmitte fumanti, di grandi panieri pieni di polpi,
che andavano a lavare nell'acqua biancastra delle fontane. Dovunque un
assortimento incredibile di mercanzie: sete, minerali grezzi, carichi di
legname, piombo in pani, stoffe, zucchero, carrube, colza, liquirizia, canna
da zucchero. Un guazzabuglio di Oriente e di Occidente.
Più lontano, lo scarico del grano; dall'alto dei ponti, i facchini scaricavano
i loro sacchi. Il grano, come un torrente d'oro, scorreva in mezzo alla
polvere bionda. Degli uomini col fez rosso lo vagliavano in grossi stacci di
pelle d'asino e lo caricavano sopra i carri; quando i carri si mettevano in
moto, erano seguiti da un esercito di donne e di bambini pronti a raccogliere
i chicchi che cadevano.
Nel bacino di carenaggio le grosse navi coricate su un fianco, venivano
liberate dalle incrostazioni delle alghe per mezzo del fuoco; l'aria era
impregnata dell'odore di resina e rintronava del rumore assordante dei
carpentieri occupati a rinforzare gli scafi con lastre di rame.
Ogni tanto, tra la selva degli alberi delle navi, uno spazio libero. Allora
Tartarino poteva vedere l'ingresso del porto, il continuo va e vieni delle
navi, una fregata inglese in partenza per Malta, elegante e tirata a lucido,
con gli ufficiali in guanti gialli, o un brigantino marsigliese, che salpava
in mezzo alle grida e alle imprecazioni, mentre un grosso capitano in
redingote e cappello a cilindro dirigeva la manovra in provenzale. Navi si
allontanavano veloci con tutte le vele al vento, mentre altre navi lontane si
avvicinavano lentamente nel sole, come sospese tra cielo e mare.
Sempre e dappertutto un frastuono spaventoso, il rotolìo dei carri, gli oh,
issa! dei marinai, canti, imprecazioni, fischi di battelli a vapore, i tamburi
e le trombe dei forti della città, le campane della cattedrale e delle altre
chiese di Marsiglia; per colmare la misura, un forte vento di maestrale si
impadroniva di tutti questi rumori, di tutti questi clamori, li trascinava, li
scuoteva, li mescolava con la propria voce e ne faceva una musica pazza,
selvaggia, eroica come una fanfara di guerra, una fanfara che invogliava a
partire, ad andare lontano, a volare nell'infinito. Fu al suono di questa
eccitante fanfara che l'intrepido Tartarino di Tarascona s'imbarcò per il
paese dei leoni!...
Nel paese dei Turchi.
1. La traversata, Le cinque posizioni del fez, La sera del terzo giorno,
Misericordia.
Cari lettori, vorrei essere un pittore, un grande pittore, per potervi
dipingere, all'inizio di questo secondo episodio, tutte le differenti
posizioni che prese il fez di Tartarino di Tarascona a bordo dello Zuavo, nei
tre giorni della traversata tra la Francia e l'Algeria.
Ve lo mostrerei da principio sul ponte, al momento della partenza eroico e
superbo, degna corona per quella bella testa tarasconese. Poi ve lo farei
vedere all'uscita del porto, mentre lo Zuavo comincia a caracollare sulle
onde: ve lo mostrerei fremente, stupefatto, quasi in attesa dei primi sintomi
del male.
Più tardi, nel golfo del Leone, via via che la nave avanza verso il largo e
che il mare diventa sempre più grosso, ve lo farei vedere alle prese con la
tempesta, dritto e spaurito sulla testa dell'eroe, mentre la sua grande nappa
turchina s'impenna al vento della burrasca... Quarta posizione. Sono le sei di
sera, in vista delle coste della Corsica. Lo sventurato fez si spenzola dal
parapetto e contempla melanconicamente il mare... Finalmente, quinta ed ultima
posizione, nel fondo di una stretta cabina, in un lettino che sembra la
cassetta di un armadio, ridotto a una povera cosa informe e disperata che si
rotola gemendo sul guanciale. E' il fez, l'eroico fez della partenza, ridotto
ormai al volgare uso di berretto da notte, tirato fino agli orecchi di un
essere umano livido e convulso.
Ah, se i Tarasconesi avessero potuto vedere il loro grande Tartarino coricato
nella sua cassetta sotto la luce pallida e triste che pioveva dagli oblò,
oppresso dall'odore nauseante della nave che sapeva di cucina e di legno
marcito! Se l'avessero sentito rantolare a ogni giro dell'elica, chiedere del
tè ogni cinque minuti, e invocare il cameriere con una vocina di bambino
malato, forse allora si sarebbero pentiti di averlo obbligato a partire...
Parola di storico! il povero turco faceva veramente pietà. Sorpreso dal male,
allo sventurato era mancato il coraggio di allentarsi la cintura algerina, e
di liberarsi dal suo arsenale.
Il manico del coltellaccio gli schiacciava il petto, la fondina della
rivoltella gli ammaccava le gambe. Come se non bastasse, quel fifone di
Tartarino-Sancio non la finiva più di brontolare e di lamentarsi: Imbecille...
te l'avevo detto!... L'hai voluta l'Africa?... Eccola! Ti piace?
Cosa ancora più crudele, il disgraziato, dal fondo della sua cabina e in mezzo
alle sue sofferenze, sentiva gli altri passeggeri che, riuniti nel salone
della nave, ridevano, cantavano, mangiavano e giocavano a carte.
La compagnia era numerosa e allegra a bordo dello Zuavo. Ufficiali che
tornavano alle loro guarnigioni, attrici dell'Alcazar di Marsiglia, attori di
varietà, un ricco musulmano che tornava dalla Mecca, un principe montenegrino
molto spiritoso che faceva delle imitazioni... nemmeno uno di tutta questa
gente soffriva il mal di mare, e tutti passavano il tempo a bere champagne col
capitano dello Zuavo, un buontempone di Marsiglia che rispondeva al nome di
Barbassou.
Tartarino di Tarascona ce l'aveva a morte con quei miserabili. La loro
allegria raddoppiava le sue sofferenze. Finalmente, nel pomeriggio del terzo
giorno, il nostro eroe fu tratto dal suo lungo torpore da un movimento
straordinario che cominciò a bordo del piroscafo. La campana di prua si mise a
suonare. Sul ponte si sentivano correre le grosse scarpe dei marinai.
Macchina avanti!... macchina indietro! gridava la voce rauca del capitano
Barbassou. Poi: Macchina, stop!
Una fermata brusca, una scossa, poi più nulla... La nave rimase a dondolarsi
in silenzio, come un pallone che galleggia nell'aria...
Questo strano silenzio spaventò il Tarasconese. Misericordia! affondiamo!...
gridò con voce terribile, e ritrovando come per magia tutte le sue forze,
balzò dalla cuccetta e si precipitò sul ponte con tutto il suo arsenale.
2. Non si affondava: si arrivava.
Lo Zuavo era entrato allora nella rada, una bella rada dalle acque nere e
profonde, ma silenziosa, malinconica e quasi deserta. Di fronte sulla collina,
si vedeva Algeri con le sue casette di un bianco opaco che scendono verso il
mare, strette le une contro le altre, come un bucato bianco messo ad asciugare
al sole. E sopra, un cielo immenso di un incredibile azzurro.
L'illustre Tartarino, che si era un po' rimesso dallo spavento, guardava il
paesaggio, ascoltando rispettosamente il principe montenegrino che, in piedi
al suo fianco, gli nominava i vari quartieri della città, la Casba la città
alta, la via Bab-Azun. Molto garbato, quel principe montenegrino conoscitore
profondo dell'Algeria e capace di parlare l'arabo correntemente.
Tartarino si proponeva già di coltivare la sua conoscenza... Improvvisamente,
il Tarasconese scorse una lunga fila di enormi mani nere aggrapparsi
all'esterno del parapetto della nave. Quasi nello stesso tempo, gli comparve
davanti una testa cresputa di negro, e prima che egli avesse il tempo di aprir
bocca, il ponte fu invaso da un centinaio di pirati, neri, gialli, mezzi nudi,
spaventosi e terribili.
Tartarino li conosceva, quei pirati... Erano loro, non potevano essere che
loro, quei famosi loro che aveva così spesso cercato, la notte, per le vie di
Tarascona. Finalmente loro si decidevano a comparire.
La sorpresa fu tale che, nel primo istante, Tartarino rimase come paralizzato;
ma quando vide i pirati precipitarsi sopra i bagagli, tirar via il copertone
che li copriva, e dare inizio al sacco della nave, l'eroe si risvegliò, e
sguainando il suo coltello da caccia: All'armi, all'armi! gridò ai passeggeri,
e primo di tutti si gettò contro i pirati.
Che succede? Cosa le prende? fece il capitano Barbassou, che usciva allora sul
ponte.
Ah! Eccola, capitano!... Presto, armi i suoi uomini.
Santo cielo, a far cosa?
Ma non vede, dunque?...
Cosa c'è da vedere?
Là... davanti a lei... i pirati...
Il capitano Barbassou rimase a contemplarlo, sbalordito. In quel momento,
passò davanti a loro un gran diavolo di gigante negro che portava via di corsa
la farmacia del nostro eroe.
Fermati!... Miserabile!... urlò il Tarasconese; e si lanciò dietro il negro,
brandendo il coltello.
Barbassou lo riprese a volo, trattenendolo per la cintura: Ma si calmi dunque,
per bacco!... Macchè pirati... è un pezzo che non ce ne sono più... sono dei
facchini.
Dei facchini!...
Ma sicuro! dei facchini che vengono a prendere i bagagli per portarli a
terra... Rimetta dentro il suo coltellaccio, e mi dia il biglietto; poi vada
pure dietro a quel negro. E' un bravo ragazzo, che la porterà a terra, e anche
all'albergo, se vuole!
Un po' mortificato, Tartarino consegnò il suo biglietto, seguì il negro, e si
calò in una grossa barca che si dondolava lungo il fianco della nave.
C'erano già tutti i suoi bagagli, i bauli, le casse d'armi, le conserve
alimentari; tutta quella roba riempiva completamente la barca, e non ci fu
bisogno di aspettare altri passeggeri. Il negro si arrampicò sui bauli, e ci
si accovacciò sopra come una scimmia. Un altro negro prese i remi... Tutti e
due guardavano Tartarino e ridevano, mettendo in mostra i loro denti bianchi.
In piedi, a poppa, con quella grinta terribile che era il terrore dei suoi
concittadini, il grande Tarasconese tormentava nervosamente il manico del suo
coltellaccio; malgrado le tranquillizzanti informazioni di Barbassou, si
sentiva rassicurato solo a metà sulle intenzioni di quei due facchini dalla
pelle d'ebano, così diversi dai bravi facchini di Tarascona...
Dopo cinque minuti, la barca giungeva a terra, e Tartarino posava il piede su
quel piccolo molo barbaresco dove, trecento anni prima, un galeotto spagnolo
chiamato Miguel Cervantes, concepiva, sotto la sferza della ciurma barbaresca,
quel sublime romanzo che doveva chiamarsi Don Chisciotte!
3. Invocazione a Cervantes, Sbarco, Dove sono i Turchi? Delusione.
Oh, Miguel Cervantes Saavedra, sè è vero, come si dice, che nei luoghi dove i
grandi uomini hanno abitato, aleggi nell'aria fino alla consumazione dei
secoli, qualcosa di loro, quel che restava di te sul lido barbaresco, dovette
trasalire di gioia nel veder sbarcare Tartarino di Tarascona, lo straordinario
tipo di francese meridionale in cui erano incarnati i due eroi del tuo libro.
Don Chisciotte e Sancio Panza...
Faceva caldo. quel giorno. Sul molo inondato dal sole c'erano solo cinque o
sei doganieri, qualche Algerino che aspettava notizie dalla Francia, alcuni
Arabi accovacciati a fumare le loro lunghe pipe, e dei marinai maltesi che
tiravano le loro grandi reti dove migliaia di sardine luccicavano come piccole
monete d'argento.
Ma appena Tartarino ebbe messo piede a terra, il molo si animò e cambiò
aspetto. Una banda di selvaggi, ancora più spaventosi dei pirati della nave,
Si drizzò sulla riva sassosa e si precipitò sul disgraziato viaggiatore. Arabi
giganteschi, nudi sotto i loro mantelli di lana, Mauri piccoli e coperti di
stracci, negri, Tunisini, Mozabiti, camerieri d'albergo col grembiule bianco,
si attaccarono urlando ai suoi abiti, si disputarono i suoi bagagli, l'uno
impadronendosi della sua cassa di carne conservata, l'altro afferrando la
farmacia, e tutti gridandogli in una lingua incomprensibile degli inverosimili
nomi di alberghi...
Stordito da tutto questo tumulto, il povero Tartarino andava e veniva
tempestava, imprecava, si dimenava, correva dietro i suoi bagagli e, non
sapendo cosa inventare per farsi capire da quei barbari, li arringava in
francese, in provenzale, e anche in latino, il suo latino scolastico, rosa
rosae, bonus, bona, bonam, tutto quello che sapeva... Fatica sprecata. Nessuno
lo stava a sentire... Fortunatamente un ometto, che indossava una tunica col
colletto giallo ed era armato di un lungo e robusto manganello, intervenne
nella mischia come un dio d'Omero, e disperse tutta quella canaglia a colpi di
bastone. Era una guardia di città algerina. Con molta gentilezza, la guardia
consigliò a Tartarino l'Hotel de l'Europe, e l'affidò a dei facchini dello
stesso albergo che, dopo aver caricato i suoi bagagli su delle carrette, lo
condussero con loro.
Dopo i primi passi in città, Tartarino spalancò tanto d'occhi. Si era
aspettato di trovare una città orientale, fantasmagorica, mitica, qualcosa tra
Costantinopoli e Zanzibar... gli sembrava di trovarsi in piena Tarascona...
Caffè, ristoranti, strade larghe, case a quattro piani, una piazzetta
pavimentata in macadàm, quella pavimentazione stradale in pietrisco che
prende nome dal nome dell'ing. scozzese McAdam, dove una banda militare
suonava delle polke di Offenbach davanti a dei signori seduti che bevevano
birra e mangiavano pasticcini, a delle signore e a delle signorine, e ad una
quantità incredibile di militari... ma non c'era nemmeno un Turco!... non
c'era che lui... e così, quando dovette attraversare la piazza, si sentì un
po' imbarazzato.
Tutti lo guardavano. I suonatori smisero di suonare, e la polka di Offenbach
rimase sospesa a mezz'aria. Coi suoi due fucili in spalla, la rivoltella al
fianco, fiero e maestoso come Robinson Crusoe, Tartarino passò solennemente in
mezzo alla gente.
Ma appena arrivato all'albergo, le forze lo abbandonarono. La partenza da
Tarascona, il porto di Marsiglia, la traversata, il principe montenegrino, i
pirati, tutto cominciò a girare vorticosamente davanti ai suoi occhi.
Bisognò portarlo in camera di peso, disarmarlo, spogliarlo... Si parlava già
di chiamare il medico; ma appena ebbe posato la testa sul cuscino, l'eroe
cominciò a russare così di gusto e così sonoramente, che l'albergatore giudicò
inutili i soccorsi della scienza, e tutti si ritirarono con discrezione.
4. Il primo appostamento.
Suonavano le tre all'orologio del palazzo del Governatore, quando Tartarino si
svegliò. Aveva dormito tutta la sera, tutta la notte, tutta la mattina, e
anche una buona parte del pomeriggio; ma bisogna considerare che da tre giorni
quel povero fez ne aveva passate delle belle!
Appena aperti gli occhi, il primo pensiero dell'eroe fu: Sono nel paese dei
leoni! Ma perchè non dirlo? All'idea che i leoni erano lì vicino a due passi,
quasi a portata di mano, e che bisognava affrontarli, brr' ...Tartarino fu
preso da un freddo mortale, e si ficcò coraggiosamente sotto le coperte.
Più tardi, però, la gaiezza dell'ambiente, il cielo azzurro, il sole
meraviglioso che inondava la camera dalla finestra spalancata sul mare, e un
buon pranzetto che si fece servire in camera accompagnato da una bottiglia di
vino eccellente, gli restituirono ben presto il suo antico coraggio.
Al leone! al leone! gridò, buttando via le coperte. Il suo piano era questo:
uscire di nascosto dalla città, inoltrarsi in pieno deserto, aspettare la
notte, mettersi all'appostamento, e al primo leone che passava, pan! pan!...
Poi tornare la mattina dopo a far colazione all'albergo, ricevere le
congratulazioni degli Algerini, e noleggiare una carretta per andare a
prendere l'animale ucciso.
Si armò alla svelta. si arrotolò sulle spalle la tenda che, col suo lungo palo
gli oltrepassava la testa di quasi mezzo metro, poi, senza nemmeno voltarsi
indietro, uscì dall'albergo. Una volta in strada, non osando chiedere
informazioni per paura che qualcuno intuisse i suoi progetti, svoltò
decisamente a destra, percorse in tutta la loro lunghezza i portici di
Bab-Azun, dove dal fondo delle loro bottegucce buie lo guardavano passare
innumerevoli Ebrei algerini appostati negli angoli come ragni, attraversò la
piazza del Teatro, s'inoltrò nei sobborghi, e finalmente sbucò nella grande
strada polverosa di Mustafà.
La strada era ingombra di traffico. Omnibus, carrozze, carrette militari,
grandi carri di fieno trainati da bovi, squadroni di Cacciatori d'Africa
branchi di asinelli microscopici, negre venditrici di dolci, vetture di
emigrati alsaziani, spahis col mantello rosso, tutto si muoveva in un nuvolone
di polvere, in mezzo a grida, canti, squilli di tromba, tra due file di
sgangherate baracche dove si aprivano bettole piene di soldati, e davanti alle
quali erano sedute grasse donne negre che si pettinavano.
Ma cosa ci danno ad intendere col loro Oriente! pensava il grande Tartarino.
Ci sono ancora meno Turchi che a Marsiglia.
Improvvisamente, si vide passare accanto, caracollante sulle lunghe gambe e
impettito come un tacchino, un magnifico cammello. Il cuore di Tartarino
accelerò i battiti. Dei cammelli! Di già! I leoni non dovevano essere lontani;
infatti, non erano passati cinque minuti che vide avanzarsi verso di lui una
comitiva di cacciatori di leoni col fucile in spalla.
Vili! disse tra sè il nostro eroe, mentre passava accanto a loro. Vili! Andare
a caccia di leoni in tanti, e coi cani! Perchè Tartarino non si sarebbe mai
immaginato che in Algeria ci potessero essere altre cacce oltre quella del
leone. Tuttavia, quei cacciatori avevano un aspetto così bonario di bottegai a
riposo, e quel sistema di andare a caccia di leoni col carniere e coi cani era
così patriarcale, che Tartarino, incuriosito, credette bene abbordare uno di
quei signori.
E allora, amico, com'è andata?
Mica male; rispose l'altro, osservando stupefatto il complicato armamentario
del guerriero di Tarascona.
Ne avete uccisi molti?
Be'... discretamente... come vede. E il cacciatore algerino indicò il suo
carniere, gonfio di conigli e di beccacce.
Ma come! Nel carniere?... li mettete nel carniere?
E dove vuole che li metta?
Ma allora, sono... sono quelli piccoli?
Piccoli e grossi; disse il cacciatore. E avendo fretta di tornare a casa,
allungò il passo per raggiungere i compagni.
L'intrepido Tartarino rimase impalato e stupefatto in mezzo alla strada...
Poi, dopo un momento di riflessione: Bah! disse fra sè. Sono degli spacconi;
per me, non hanno ucciso niente... e continuò il suo cammino. Già le case si
facevano più rade, e il traffico diminuiva. Scendeva la notte, le cose si
confondevano nella penombra... Tartarino di Tarascona seguitò a camminare
ancora per una mezz'oretta. Alla fine, si fermò. Ormai era notte. Una notte
senza luna, punteggiata di stelle. Per la strada, nessuno. Nonostante tutto,
l'eroe pensò che i leoni non erano diligenze, e che non dovevano seguire
volentieri le strade maestre. Allora prese per i campi... A ogni passo
fossati, pruni, macchie. Non importa! Tartarino andava sempre avanti... Poi,
improvvisamente, alt! Qui c'è odor di leone. si disse il nostro eroe, e aspirò
l'aria con forza a destra e a sinistra.
5. Pan! Pan!
Era un gran deserto selvaggio, irto di quelle strane piante orientali che
hanno l'aria di animali cattivi. Alla debole luce delle stelle, le loro ombre
ingrandite si allungavano per terra in tutte le direzioni. A destra la massa
confusa e poderosa di una montagna, l'Atlante forse!... A sinistra il mare
invisibile, che brontolava sordamente... un ambiente ideale per le belve...
Tartarino imbracciò il fucile, posò l'altro fucile davanti a sè, mise un
ginocchio a terra e attese... Attese un'ora, due ore... niente!
Allora si ricordò che, nei libri, i grandi cacciatori di leoni non andavano
mai a caccia senza portare con sè un capretto, che legavano a qualche passo
davanti a loro e che facevano belare tirandogli una zampa con una cordicella.
Non avendo capretti a disposizione, il Tarasconese ebbe l'idea di tentare
un'imitazione, e si mise a belare con voce tremolante: Beee! Beee!...
Prima a voce molto bassa, perchè in fondo all'anima aveva una certa paura che
il leone lo sentisse, poi, visto che non succedeva nulla, belò sempre più
forte: Beee!... Ancora niente!... Impazientito, ripetè il suo verso più volte
di seguito: Beee!... Beee!... Beee!... con tanta foga che il capretto parve
avere la voce di un bove...
Improvvisamente, a pochi passi di distanza, piombò davanti a lui qualcosa di
nero e di gigantesco. Tartarino tacque. L'ombra nera si abbassava fiutava la
terra, saltava, si rotolava sul terreno, partiva di galoppo, poi ritornava e
si fermava di colpo... era il leone, non c'era dubbio! Ora si potevano
scorgere le sue quattro zampe corte, il suo collo possente, e due occhi, due
grandi occhi che luccicavano nell'oscurità... Puntate! Fuoco! pan! pan!... Era
fatta. Poi, subito un balzo indietro, e il coltellaccio da caccia in pugno.
Allo sparo del Tarasconese, rispose un urlo terribile. L'ho beccato! esclamò
il buon Tartarino, e, piantato sulle gambe robuste, si preparò a ricevere
l'assalto della belva; ma quest'ultima doveva averne avuto abbastanza, perchè
si allontanò di galoppo, urlando... Tartarino non si mosse. Come aveva letto
nei libri... aspettava la femmina!
Disgraziatamente, la femmina non si fece vedere. Dopo due o tre ore di attesa,
il Tarasconese si stancò. La terra era umida, la notte si faceva fresca, la
brezza di mare pungente.
Se facessi un sonnellino aspettando il giorno? si disse, e si decise ad aprire
la tenda per evitare i reumatismi. Maledizione! Quella diabolica tenda era
ripiegata in un modo così ingegnoso, ma così ingegnoso, che non ci fu verso di
aprirla. Dopo un'ora di sforzi e di sudore, quella dannata tenda era ancora
chiusa... Ci sono degli ombrelli che, quando piove a dirotto, si divertono a
farvi degli scherzetti del genere... Esausto, il Tarasconese, distese la tenda
per terra e ci si coricò sopra, imprecando da buon provenzale.
Dopo un po': Ta, ta, ta, . Taratatà!
Che succede?... fece Tartarino, svegliandosi di soprassalto. Erano le trombe
dei cacciatori d'Africa che suonavano la sveglia nelle caserme di Mustafà...
L'uccisore di leoni, stupefatto, si fregò gli occhi...
Lui che si credeva in pieno deserto!... Sapete dov'era?... In un piccolo campo
di carciofi, tra un filare di cavolfiori e uno di barbabietole.
Nel suo Sahara crescevano i legumi... Vicinissime a lui, su una dolce
collinetta verde, candide ville algerine biancheggiavano alle prime luci
dell'alba: sembrava di essere nei dintorni di Marsiglia, con le sue ville e le
sue case di campagna.
L'aspetto borghese e campagnolo di quel paesaggio addormentato stupì alquanto
il pover'uomo, e lo mise di cattivo umore. Sono pazzi. si diceva, a piantare
carciofi in una zona frequentata dai leoni... perchè, insomma, non ho mica
sognato... i leoni vengono fin qui... E questa è la prova...
La prova erano delle macchie di sangue che l'animale, fuggendo, aveva lasciato
dietro di sè. Curvo su quella pista insanguinata, l'occhio all'erta, la
rivoltella in pugno, il prode tarasconese, di carciofo in carciofo, arrivò
fino a un piccolo campo di avena... dell'erba calpestata, una pozza di sangue,
e in mezzo alla pozza, coricato su un fianco e con una larga ferita alla
testa, un... Indovinate un po'!... Un leone, perbacco!
No! un asino, uno di quegli asinelli minuscoli che sono tanto comuni in
Algeria, e che sono chiamati bourricots.
6. Arrivo della femmina, Terribile combattimento, Al Ritrovo dei Conigli.
La prima reazione di Tartarino davanti alla sua disgraziata vittima fu un
movimento di dispetto. C'è veramente una certa differenza tra un leone e un
asinello!... Ma il suo secondo impulso fu unicamente di pietà.
Il povero asinello era così carino, aveva un'aria così innocente! La pelle dei
suoi fianchi, ancora calda, si alzava e si abbassava ritmicamente. Tartarino
s'inginocchiò, e con l'estremità della sua cintura algerina tentò di arrestare
il sangue dello sventurato animale. Nulla di più commovente che vedere il
grand'uomo curare amorevolmente un povero asinello. Al contatto della cintura
di seta, l'asinello, che ormai era al lumicino aprì i grandi occhi grigi e
mosse due o tre volte le sue lunghe orecchie come per dire: Grazie,...
Grazie!... poi fu percorso dalla testa alla coda da un'ultima convulsione, e
non si mosse più.
Nerino! Nerino! gridò improvvisamente una voce strozzata dall'angoscia, e nel
medesimo tempo i rami di un boschetto vicino si agitarono... Tartarino ebbe
appena il tempo di rialzarsi e di mettersi in guardia... Era la femmina!
Essa arrivò ruggente e terribile, nella persona di una vecchia Alsaziana con
un fazzoletto annodato in testa, armata di un grande ombrello rosso, che
chiamava disperatamente il suo asinello perduto. Certo, per Tartarino sarebbe
stato meglio dovere affrontare una leonessa infuriata piuttosto che quella
terribile vecchia... Invano lo sventurato cercò di farle capire come si erano
svolte le cose; che aveva scambiato Nerino per un leone la vecchia, credendo
che Tartarino volesse prenderla in giro, piombò sull'eroe a frenetici colpi
d'ombrello. Tartarino, turbato, cercava di difendersi, parava i Colpi con la
carabina, sudava, saltava, soffiava, gridava: Ma signora... ma signora...
Niente da fare! La signora era sorda, e seguitava a dare botte da orbi.
Fortunatamente un terzo personaggio comparve sul campo di battaglia.
Era il marito dell'Alsaziana, alsaziano anche lui, oste, e per di più molto
scaltro. Quando si accorse con chi aveva a che fare, e si rese conto che
l'assassino non domandava di meglio che pagare il prezzo della vittima,
disarmò la sposa, e accettò un accomodamento.
Tartarino sborsò duecento franchi; l'asino, secondo il prezzo corrente sui
mercati arabi, non ne valeva più di dieci. Poi, il povero Nerino fu sepolto ai
piedi di un fico, e l'Alsaziano, messo in allegria dal colore dei soldi
tarasconesi, invitò l'eroe a fare uno spuntino nella sua osteria che si
trovava a pochi passi di lì, lungo la strada.
I cacciatori algerini ci venivano a mangiare tutte le domeniche, perchè la
zona era ricca di selvaggina, ed era, nelle vicinanze della città, il posto
migliore per cacciare i conigli selvatici.
E i leoni? chiese Tartarino.
L'alsaziano lo guardò, stupefatto: I leoni?
Sì... i leoni... ne capitano da queste parti? riprese il poveretto con una
certa esitazione.
L'oste scoppiò in una risata.
Questa poi!... dei leoni... e per farne cosa?
Non ci sono dunque leoni in Algeria?
Le assicuro che non ne ho mai veduti... eppure sono più di vent'anni che abito
da queste parti. Tuttavia, mi sembra di aver sentito dire... può darsi che nei
giornali... Comunque, molto più lontano, nel Sud...
In quel momento arrivarono all'osteria. Un locale di periferia, come se ne
vede tanti, con una frasca appassita sopra la porta, delle stecche di biliardo
dipinte sui muri, e questa insegna poco bellicosa: AL RITROVO DEI CONIGLI.
7. Storia di un omnibus, di una donna araba e di una coroncina di fiori di
gelsomino.
Questa prima avventura avrebbe scoraggiato chiunque; ma gli uomini della
tempra di un Tartarino non si lasciano demoralizzare facilmente.
I leoni sono nel Sud, pensò il nostro eroe, ebbene, andrò nel Sud!
E appena ingoiato l'ultimo boccone, si alzò, ringraziò l'ospite, abbracciò la
vecchia senza rancore, sparse un'ultima lacrima sul povero Nerino, e si avviò
rapidamente verso Algeri, con la ferma intenzione di fare i bagagli e di
partire il giorno stesso per il Sud.
Disgraziatamente la strada gli parve molto più lunga del giorno prima: C'era
un sole! una polvere! La tenda era così pesante!... Tartarino non si sentì il
coraggio di andare a piedi fino in città; e così, al primo omnibus che passò,
fece un segno e ci montò sopra...
Ah, povero Tartarino di Tarascona! Come avrebbe fatto meglio, per il suo nome,
per la sua gloria, a non salire su quel fatale carrozzone e a seguitare la sua
strada a piedi, anche a rischio di cadere esausto sotto il peso
dell'atmosfera, della tenda, e dei pesanti fucili a due canne.
Montato Tartarino, l'omnibus fu completo. In fondo alla vettura era seduto un
vicario d'Algeri con una gran barba nera e il naso nel breviario. Di faccia,
un giovane mercante mauro che fumava delle grosse sigarette.
Poi un marinaio maltese, e quattro o cinque donne arabe velate di bianco di
cui non si potevano vedere che gli occhi. Queste signore tornavano da una pia
visita al cimitero di Abd-el-Kader; ma quella visione funebre non sembrava
averle rattristate. Si sentivano ridere e cinguettare tra loro sotto i veli, e
sgranocchiare pasticcini. Tartarino ebbe l'impressione che esse lo guardassero
attentamente. Una soprattutto, quella che era seduta davanti a lui, non gli
tolse gli occhi di dosso per tutta la strada.
Sebbene la donna fosse velata, la vivacità dei suoi grandi occhi neri
allungati dal bistro, il polso fine e delicato carico di braccialetti d'oro
che si intravedeva tra i veli, il timbro della voce, i movimenti aggraziati e
quasi infantili della testa, tutto faceva supporre che là sotto ci fosse una
creatura giovane, graziosa, adorabile...
Il povero Tartarino non sapeva quale contegno prendere. La muta carezza di
quei begli occhi orientali lo affascinava, lo turbava...
Che fare? Rispondere allo sguardo? Sì, ma con quali conseguenze? Cosa
terribile, un intrigo d'amore in Oriente! Con la sua fantasia accesa di
meridionale, il bravo Tarasconese si vedeva già caduto nelle mani degli
eunuchi e decapitato; e il suo cadavere cucito in un sacco e buttato in mare..
L'omnibus si fermò. Erano arrivati in piazza del Teatro, all'inizio di via
Bab-Azun. Ad una ad una, impacciate dai loro ampi pantaloni e avvolgendosi nei
veli con istintiva grazia, le donne arabe scesero. La vicina di Tartarino si
alzò per ultima, e nell'alzarsi il suo volto passò così vicino a quello
dell'eroe, che lo sfiorò col respiro.
Il Tarasconese non potè più dominarsi. Pronto a tutto, si precipitò dietro
l'Araba... Al rumore delle sue armi, la donna si volse, mise un dito sul velo
come per dire: zitto! e con l'altra mano gli gettò una coroncina profumata
fatta di fiori di gelsomino. Tartarino di Tarascona si chinò a raccoglierla;
ma siccome il nostro eroe era di grossa corporatura e carico di arnesi da
guerra, l'operazione richiese un certo tempo. Quando si rialzò, con la
coroncina di gelsomini sul cuore, l'Araba era sparita.
8. Dormite, leoni dell'Atlante!
Dormite, leoni dell'Atlante! Dormite tranquilli in fondo alle vostre tane, tra
gli aloe e i cactus selvaggi... Per qualche giorno ancora Tartarino di
Tarascona vi risparmierà. Per il momento, tutto il suo apparato guerresco,
casse d'armi, farmacia, carne in scatola, tenda, riposa accuratamente
imballato, in un angolo della camera n. 36 dell'Hotel d'Europe. Dormite senza
paura, grandi leoni fulvi! Il Tarasconese cerca la sua Araba.
Ma non è una cosa semplice! Ritrovare in una città di centomila abitanti una
persona di cui si conosce solo il colore degli occhi! Solo un Tarasconese è
capace di tentare una simile avventura.
Il guaio è che sotto i loro grandi veli bianchi, tutte le Arabe si
assomigliano; e poi le signore arabe non escono, e per vederle bisogna salire
nella città alta, la città araba, la città dei Turchi.
Un luogo poco raccomandabile, questa città alta. Un labirinto di vicoletti
neri e strettissimi che si arrampicano tra due file di case misteriose, coi
tetti che si toccano in alto formando come una galleria. Delle porte basse,
delle finestre minuscole, mute, tristi, munite di inferriate. A destra e a
sinistra alcune bottegucce tenebrose dove Turchi dalle facce patibolari dagli
occhi bianchi e dai denti scintillanti, fumano lunghe pipe, parlottando tra
loro, come se ordissero un complotto.
Dire che il nostro Tartarino attraversasse sereno e tranquillo questa città
malfamata, sarebbe mentire. In realtà, egli era molto impressionato, e in
quelle stradine buie, di cui il suo grosso ventre occupava tutta la larghezza,
il brav'uomo avanzava con grande circospezione, l'occhio vigile e il dito sul
grilletto di una rivoltella. Proprio come a Tarascona, quando andava al
circolo. Di momento in momento, egli si aspettava di sentirsi piombare sulle
spalle una valanga di eunuchi e di giannizzeri, ma il desidèrio di rivedere la
sua dama gli davano l'audacia e la forza di un gigante.
Per otto lunghi giorni, Tartarino non abbandonò la città alta. Ora si metteva
di guardia davanti ai bagni arabi, in attesa dell'uscita delle signore; ora
faceva la sua apparizione davanti alle moschee, dove era costretto, sudando e
sbuffando, a togliersi gli stivaloni prima di entrare.
Qualche volta, al cader della notte, mentre se ne tornava scoraggiato senza
aver scoperto nulla, nè al bagno, nè alla moschea, il Tarasconese, passando
davanti alle abitazioni arabe, sentiva dei canti monotoni, dei lontani accordi
di chitarra, dei colpi ripetuti di un tamburello, e delle brevi risate
femminili che gli facevano battere il cuore.
Forse lei è là dentro! pensava.
E se la strada era deserta, si avvicinava alla casa, alzava il pesante
battente della porticina, e bussava timidamente... Subito i canti e le risa
cessavano. Dietro il muro non si sentiva più che un vago bisbigliare, come in
un'uccelliera addormentata.
Attenzione! pensava l'eroe. Ora mi capita qualcosa! In generale, quello che
più spesso gli capitava, era una brocca d'acqua fredda sulla testa, delle
bucce d'arancio o dei fichi di Barberia... Mai niente di più grave...
Leoni dell'Atlante, dormite!
9. Il principe Gregory del Montenegro.
Erano già due lunghe settimane che il povero Tartarino cercava la sua dama
algerina, e probabilmente la starebbe ancora cercando, se la Provvidenza degli
innamorati non fosse venuta in suo aiuto nelle sembianze di un gentiluomo
montenegrino. Ecco come andarono le cose: Durante l'inverno, tutte le sere del
sabato, il grande teatro di Algeri organizza il suo ballo mascherato, nè più
nè meno come l'Opèra di Parigi.
E' il solito e noioso ballo mascherato di provincia. Poca gente nella sala. Ma
non è la sala il centro dell'attrazione e del movimento è il foyer del teatro,
trasformato per l'occasione in sala da gioco... Una folla eccitata e
variopinta si accalca intorno alle lunghe tavole dal tappeto verde: Turcos in
licenza che si giocano i soldi della paga, commercianti arabi della città
alta, negri, maltesi, coloni dell'interno che hanno fatto quaranta leghe per
venire a rischiare su un asso il prezzo di un aratro o di un paio di buoi...
tutti frementi, pallidi, con le mascelle serrate e lo sguardo fisso.
Più lontano, le tribù di Ebrei algerini che vengono a giocare in gruppi di
famiglie. Gli uomini in abito orientale, babbucce turchine e berretto di
velluto. Le donne, pallide e grasse, se ne stanno immobili e rigide nei loro
corsetti dorati. A lunghi intervalli e dopo lunghi conciliaboli, qualche
vecchio patriarca con una barba da Padreterno, si decide ad arrischiare il
denaro della famiglia.
E poi discussioni, liti, imprecazioni di tutti i paesi, contumelie in tutte le
lingue, le mani che afferrano i coltelli, la ronda della polizia, il denaro
che sparisce!... Per cercare l'oblìo e la pace del cuore, il grande Tartarino
era andato una sera a smarrirsi in questo pandemonio. L'eroe camminava solo in
mezzo alla folla, pensando alla sua Araba, quando improvvisamente, a un tavolo
di gioco, due voci irate si levarono superando il tintinnio delle monete.
Le ripeto che mi mancano venti franchi, egregio signore!
Dice a me?
Proprio a lei!
Lei non sa chi sono io!
Mi piacerebbe saperlo, egregio signore!
Io sono il principe Gregory del Montenegro!...
A sentire questo nome, Tartarino, emozionatissimo, si aprì un varco tra la
folla, e si mise in prima fila, fiero e felice di aver ritrovato il suo
principe, quel principe così gentile di cui aveva fatto una così breve
conoscenza a bordo della nave. Disgraziatamente quel titolo di altezza, che
aveva tanto abbagliato il buon Tarasconese, non fece la più piccola
impressione sull'ufficiale dei cacciatori col quale il principe stava
litigando.
Ne so quanto prima; disse l'ufficiale, sorridendo ironicamente. Poi,
rivolgendosi ai presenti, aggiunse: Gregory del Montenegro... e chi lo
conosce?
Indignato, Tartarino fece un passo avanti. Prego... il principe lo conosco io!
disse con sicurezza e col suo più bell'accento tarasconese.
L'ufficiale lo guardò fisso per un momento, poi si strinse nelle spalle.
Sta bene! Dividetevi i venti franchi, e non se ne parli più. Detto questo,
girò sui tacchi, e si perse tra la folla.
Il focoso Tarasconese voleva corrergli dietro, ma il principe glielo impedì.
E, preso il Tarasconese per un braccio, lo trascinò rapidamente fuori della
sala. Appena usciti, il principe Gregory del Montenegro si tolse il cappello,
tese la mano al nostro eroe, e ricordandosi vagamente il suo nome, cominciò
con voce vibrante: Signor Barbarino...
Tartarino! suggerì l'altro timidamente.
Tartarino, Barbarino, fa lo stesso! Da questo momento, siamo uniti per la vita
e per la morte!
Immaginatevi la fierezza del Tarasconese... Principe!... Principe!... ripeteva
come ebbro. Un quarto d'ora dopo, il principe e Tartarino, erano seduti al
restaurant des Platanes, piacevole ritrovo notturno con le terrazze sul mare,
e là, davanti a un'appetitosa insalata russa accompagnata da un vinello
delizioso, i due rinnovarono la conoscenza.
Quel giovane principe montenegrino era veramente affascinante. Slanciato,
sottile, coi capelli crespi arricciati col ferro, rasato alla perfezione.
Era costellato di strane decorazioni, aveva l'occhio astuto, il gesto
carezzevole e un accento vagamente italiano che gli davano l'aria
approssimativa di un Mazarino senza baffi; molto versato nelle lingue latine,
citava a ogni proposito Tacito, Orazio e i Commentari. Commentari di Giulio
Cesare: De Bello gallico e De bello civili.
Di antica nobiltà ereditaria, i suoi fratelli, diceva, l'avevano esiliato
all'età di dieci anni per le sue idee liberali, da allora, da vero principe
filosofo, girava il mondo per divertimento e per istruzione... Coincidenza
singolare! Il principe aveva passato tre anni a Tarascona, e poichè Tartarino
si meravigliava di non averlo mai incontrato al circolo o in piazza: Uscivo
poco... disse Sua Altezza in tono evasivo. E il Tarasconese con molto tatto,
non osò approfondire la cosa. Le grandi esistenze hanno dei lati così
misteriosi!
Insomma, un ottimo principe, questo signor Gregory. Sorseggiando il delizioso
vino rosato, egli ascoltò pazientemente Tartarino che gli raccontava la storia
della sua Araba, e gli garantì, vantando le sue conoscenze tra le donne arabe,
che l'avrebbe subito ritrovata.
Brindarono alle donne di Algeri! al Montenegro libero!
Fuori, sotto la terrazza, il mare borbottava nel buio, e le onde percuotevano
la riva col rumore di panni bagnati che si scuotono. L'aria era calda, il
cielo pieno di stelle. Sui platani un usignolo cantava... Il conto lo pagò
Tartarino.
10. Dimmi il nome di tuo padre e ti dirò il nome di questo fiore.
Ci vogliono i principi montenegrini per fare le cose alla svelta!
Il giorno dopo quella serata al restaurant des Platanes, nelle prime ore del
mattino il principe Gregory era già nella camera del Tarasconese.
Presto, presto, ... si vesta... ho ritrovato la sua Araba... si chiama Baia...
ha vent'anni ed è già vedova.
Che fortuna! fece allegramente il bravo Tartarino, che diffidava dei mariti
orientali.
Sì, ma ha un fratello terribile che la sorveglia.
Accidenti!
E' un arabo ferocissimo che vende pipe al bazar d'Orlèans...
Tartarino rimase silenzioso.
Ma lei, riprese il principe, non è uomo da spaventarsi per così poco;
comprandogli delle pipe, riusciremo forse ad ammansire quel filibustiere.
Presto, si vesta... lei è un uomo fortunato!
Pallido e commosso, il Tarasconese saltò dal letto, abbottonandosi in fretta
le ampie mutande di flanella. Cosa devo fare?
Scriverle semplicemente, e chiederle un appuntamento!
Ma allora... la signora sa il francese? chiese con aria delusa il candido
Tartarino che sognava l'Oriente integrale.
Non ne sa nemmeno una parola, rispose il principe, imperturbabile. Lei mi
detterà la lettera, ed io la tradurrò via via.
Oh, principe, quale gentilezza!
E il Tarasconese, cogitabondo, si mise a camminare a gran passi su e giù per
la stanza.
Capirete bene che scrivere a un'Araba di Algeri non è come scrivere a una
sartina di Beaucaire. Per fortuna il nostro eroe aveva dalla sua alcune buone
letture del passato, come il Viaggio in Oriente di Lamartine, e qualche
reminiscenza del Cantico dei Cantici, che gli permisero di scrivere la lettera
più orientale che si possa immaginare. La lettera cominciava così: Come lo
struzzo nelle sabbie... E terminava così: Dimmi il nome di tuo padre, e ti
dirò il nome di questo fiore...
Il romantico Tartarino avrebbe voluto aggiungere alla lettera un mazzolino di
fiori simbolici, all'uso orientale; ma il principe disse che gli sembrava
molto più opportuno comprare delle pipe dal fratello; in tal modo si sarebbero
placate le ire del focoso signore, e si sarebbe fatto un grandissimo piacere
alla signora, che fumava molto.
Via, andiamo subito a comprare le pipe! esclamò Tartarino.
No!... no!... Ci penserò io. Le avrò a un prezzo migliore...
Ma come! Lei si vuole scomodare... Oh, principe... principe...
E il brav'uomo, confuso, porse la sua borsa al cortese montenegrino,
raccomandandogli di fare qualsiasi cosa purchè la signora fosse contenta.
Purtroppo l'affare, per quanto bene avviato, non camminò con la rapidità
sperata. Molto commossa, pare, dall'eloquenza di Tartarino, l'Araba non
avrebbe domandato di meglio che riceverlo; ma il fratello aveva degli
scrupoli, e per addormentarne la coscienza fu necessario comprare dozzine,
centinaia, carichi interi di pipe...
Cosa diavolo se ne farà Baia di tutte queste pipe? si domandava qualche volta
Tartarino; ma pagava lo stesso senza lesinare sul prezzo.
Finalmente, dopo aver comprato montagne di pipe e avere effuso torrenti di
Poesia orientale, fu ottenuto un appuntamento. Inutile dirvi con che
batticuore il Tarasconese si preparò al sospirato incontro, con quale cura
tagliò, lucidò, profumò la sua ruvida barba di cacciatore di berretti, senza
dimenticare (non si sa mai!), di farsi scivolare in tasca una piccola mazza
ferrata e un paio di rivoltelle.
Il principe, sempre cortese, si recò a quel primo incontro in qualità di
interprete. La signora abitava nella città alta. Davanti alla porta, un
giovane arabo di tredici o quattordici anni, stava fumando una sigaretta.
Era Alì, il famoso fratello. Vedendo arrivare i due visitatori, battè due
colpi alla porticina, e si ritirò con discrezione. La porta si aprì. Apparve
una negra che, senza pronunziare parola, condusse i due signori attraverso uno
stretto cortile interno, fino a una stanza piccola e fresca dove li aspettava
una giovane donna sdraiata su un basso divano. Alla prima occhiata, la donna
parve al Tarasconese più piccola e più grassottella dell'Araba dell'omnibus...
Era forse un'altra? Ma il dubbio sfiorò appena il cervello di Tartarino.
Le labbra della donna stringevano il bocchino d'ambra di un narghilè, e una
nuvola di fumo biondo avviluppava tutta la sua bella persona.
Entrando, il Tarasconese si mise una mano sul cuore, s'inchinò nel modo più
orientale possibile, e indirizzò alla dama uno sguardo languido e
appassionato... Baia l'osservò per un momento in silenzio; poi, lasciando
cadere il bocchino d'ambra, si nascose il viso tra le mani, e di lei non si
vide più che il collo bianco scosso da un'irrefrenabile risata come un piccolo
sacchetto di perle.
11. Sidi Tart'ri, Ben Tart'ri.
Se vi capitasse di entrare una sera, a veglia, in un caffè della città alta,
sentireste anche oggi gli Arabi parlare tra loro, con strizzatine d'occhi e
risatine ironiche, di un certo Sidi Tart'ri, Ben Tart'ri, europeo amabile e
ricco che, qualche anno prima, viveva nel quartiere indigeno con una piccola
signora del luogo chiamata Baia.
Questo Sidi Tart'ri, che ha lasciato dei così piacevoli ricordi nel quartiere
della Casba, è, l'avrete indovinato, il nostro Tartarino.
Che volete? Nelle vite dei santi e degli eroi ci sono sempre dei momenti di
cecità, di debolezza, di turbamento. Anche l'illustre Tarasconese non ne fu
esente, ed è per questa ragione che per ben due mesi, dimentico dei leoni e
della gloria, si addormentò, come Annibale a Capua, nelle delizie della bianca
Algeri.
Il brav'uomo aveva preso in affitto, nel cuore della città araba, una graziosa
casetta indigena col cortile interno, palmizi, fresche gallerie e fontane.
Egli viveva là, lontano da ogni rumore, con la sua Araba; arabo anche lui
dalla testa ai piedi, succhiava tutto il giorno il suo narghilè, e mangiava
delle marmellate profumate di muschio. Distesa su un divano davanti a lui,
Baia, accompagnandosi sulla chitarra, canticchiava delle arie monotone,
oppure, per distrarre il suo signore, danzava tenendo in mano uno specchietto
in cui si contemplava i denti candidi.
Poichè la signora non sapeva una parola di francese, nè Tartarino una parola
di arabo, la conversazione spesso languiva, e il loquace Tarasconese aveva
tutto il tempo di far penitenza per le intemperanze di linguaggio di cui si
era reso colpevole nella farmacia Bèzuquet o dall'armaiolo Costecalde.
Ma questa penitenza non mancava di attrattiva, e Tartarino passava le giornate
sprofondato in un piacevole tedio, ascoltando il gorgoglio del narghilè, gli
accordi della chitarra, e il lieve mormorio della fontana sui mosaici del
cortile.
Il narghilè, il bagno, l'amore riempivano tutta la sua vita. Non uscivano
quasi mai. Qualche volta Sidi Tart'ri e la sua dama si recavano, a dorso di
mulo, a mangiare i melograni in un giardinetto da lui acquistato nei
dintorni... Ma non scendevano mai nella città europea. Con le sue bande di
Zuavi ubriachi, i suoi alcazar gremiti di ufficiali, e l'eterno rumore di
sciabole strascicate sotto i portici, quell'Algeri gli pareva brutta e
insopportabile come un corpo di guardia dell'Occidente.
Nel complesso, il Tarasconese poteva dirsi felice. Soprattutto
Tartarino-Sancio, ghiottissimo di dolciumi turchi, si dichiarava
soddisfattissimo della sua nuova esistenza... Sì, qualche volta
Tartarino-Chisciotte si faceva vivo con qualche rimorso riguardo a Tarascona e
alle pelli di leone promesse... ma erano rimorsi passeggeri; per scacciarli
bastava un solo sguardo di Baia o una cucchiaiata di quelle marmellate
profumate e sconvolgenti come le bevande di Circe.
La sera, il principe Gregory veniva a fare quattro chiacchiere sul Montenegro
libero... Quell'amabile gentiluomo era veramente impagabile, sbrigava in casa
le funzioni di interprete e, quando era necessario, quelle di amministratore;
e tutto per niente, solo per amicizia... Oltre al principe, Tartarino non
riceveva che Turchi. Tutti quei furfanti dalla faccia patibolare, che una
volta gli facevano tanta paura quando lo fissavano dal fondo delle loro
bottegucce buie, si rivelarono, una volta conosciuti, come innocui
commercianti, ricamatori, venditori di spezie, tornitori di pipe, tutta gente
educata, umile, accorta, discreta, e fortissima nel gioco del ramino.
Quattro o cinque volte la settimana, questi signori venivano a passare la
serata da Sidi Tart'ri, vincevano il suo denaro, mangiavano le sue marmellate,
e alle dieci precise, si ritiravano con discrezione ringraziando il Profeta.
Lasciati soli, Sidi Tart'ri e Baia terminavano la serata in terrazza, una
grande terrazza bianca che faceva da tetto alla casa e dominava la città.
Intorno, un migliaio di terrazze bianche simili a quella, illuminate dalla
luna, digradavano fino al mare. Portati dal vento, si sentivano accordi di
chitarra. ...Improvvisamente, sbocciava e s'innalzava verso il cielo
scintillante di stelle una melodia limpida e solenne, e sul minareto della
moschea vicina, stagliandosi sull'azzurro cupo della notte, appariva la figura
bianca di un muezzin che cantava le glorie di Allah con una voce meravigliosa
che riempiva l'orizzonte. Subito Baia lasciava la chitarra, e i suoi grandi
occhi rivolti verso il muezzin sembravano bere l'affascinante preghiera.
Tartarino, commosso, la contemplava e pensava che una religione capace di
provocare tali estasi mistiche, doveva essere una gran bella religione.
Copriti il volto, Tarascona! Il tuo Tartarino pensa di farsi musulmano!
12. Ci comunicano da Tarascona.
Era un bel pomeriggio. Il cielo era azzurro e spirava un tiepido venticello.
Sidi Tart'ri in sella alla sua mula se ne tornava solo soletto dal suo
orticello... Con le gambe aperte sulle voluminose sacche di tela piene di
cedri e di cocomeri, cullato dal monotono tintinnio delle sue lunghe staffe, e
seguendo con tutto il corpo i movimenti ondeggianti della cavalcatura, il
brav'uomo avanzava in un paesaggio delizioso, con le mani intrecciate sul
ventre, mezzo assopito dal benessere e dal calduccio. Entrando in città, fu
risvegliato di colpo da un formidabile grido di richiamo: Ehi là! Chi si vede!
Si direbbe il signor Tartarino.
Al nome di Tartarino e all'accento vivacemente meridionale di queste parole,
il Tarasconese alzò la testa, e scorse a due passi di distanza la simpatica
faccia abbronzata di Barbassou, il comandante dello Zuavo, intento a sorbire
assenzio e a fumare la pipa sulla porta di un caffè.
Salve, comandante, disse Tartarino, fermando la mula.
Invece di rispondere, Barbassou lo squadrò per un momento con gli occhi
spalancati, poi scoppiò in una risata, una risata così di cuore che Sidi
Tart'ri, interdetto, restò immobile a guardarlo seduto sui cocomeri.
Ma che magnifico turbante, povero signor Tartarino!... Dunque è vero quel che
si dice, che vi siete fatto Turco?... E la piccola Baia, che fa? Canta sempre
Marco la belle?
Marco la belle? esclamò Tartarino, indignato. Deve sapere, capitano, che la
persona a cui allude non sa una parola di francese.
Baia non sa una parola di francese?... Ma da che mondo viene, Tartarino? E il
bravo capitano ricominciò a ridere di gusto. Poi, osservando il muso lungo del
povero Sidi Tart'ri, cambiò registro. Be', insomma, può essere che non sia la
stessa persona. Mi devo essere sbagliato... Solamente, vede signor Tartarino,
lei farebbe molto bene a non fidarsi delle Arabe algerine e dei principi
montenegrini!...
Tartarino si drizzò sulle staffe facendo la faccia feroce. Capitano, il
principe è mio amico.
Bene, bene! Non ci facciamo cattivo sangue... Prende un assenzio?
No. Niente da dire ai paesani?... Nemmeno. Be', allora, buona passeggiata... A
proposito, amico, ho con me un po' di buon tabacco francese, se ne vuol
prendere qualche pipata... Ne prenda! Ne prenda! Le farà bene...
Detto questo, il capitano tornò al suo assenzio, e Tartarino, pensieroso,
riprese al piccolo trotto la strada di casa... Anche se la sua anima ,generosa
si rifiutava di crederci, pure le insinuazioni di Barbassou l'avevano
rattristato. Inoltre, quelle imprecazioni familiari, l'accento del suo paese,
finirono per risvegliare in lui un indefinito senso di rimorso.
A casa non trovò nessuno. Baia era al bagno... La negra gli parve brutta, la
casa triste... In preda a una vaga malinconia, si mise a sedere vicino alla
fontana, e riempì una pipa col tabacco di Barbassou. Il tabacco era involtato
in un pezzo del giornale Sèmaphore. Aprendolo, gli saltò agli occhi il nome
della sua città natale.
Ci comunicano da Tarascona: La città è in viva apprensione Tartarino, il
cacciatore di leoni, partito per cacciare i grandi felini in Africa, non ha
dato notizie di sè da vari mesi... Cosa è accaduto al nostro eroico
compatriota?... Osiamo appena domandarcelo, avendo conosciuto il suo
entusiasmo, la sua audacia, la sua sete di avventure... E' stato, come tanti
altri, inghiottito dalle sabbie? E' caduto sotto i denti spietati di uno di
quei mostri dell'Atlante di cui aveva promesso la pelle al municipio?...
Terribile incertezza! Tuttavia dei mercanti negri, venuti alla fiera di
Beaucaire, sostengono di avere incontrato in pieno deserto un europeo i cui
connotati corrispondono ai suoi, e che si dirigeva verso Tombuctu... Che Dio
ci conservi il nostro Tartarino!
Appena letto questo trafiletto, il Tarasconese arrossì, impallidì, rabbrividì.
Tutta Tarascona gli apparve davanti agli occhi: il circolo, i cacciatori di
berretti, la poltrona verde nella bottega di Costecalde. e librati in alto
come le ali di un'aquila i baffi formidabili del valoroso comandante Bravida.
Allora. nel vedersi vilmente accoccolato sul suo tappeto, mentre i suoi
concittadini lo credevano occupatissimo a sterminare le belve, Tartarino di
Tarascona ebbe onta di se stesso, e pianse. Improvvisamente l'eroe balzò in
piedi: Al leone! Al leone! E slanciandosi nel ripostiglio dove dormivano la
tenda, la farmacia, la carne conservata, la cassa d'armi, trascinò tutto in
mezzo al cortile. Tartarino-Sancio era spirato; non restava che
Tartarino-Chisciotte.
Il tempo di controllare il materiale, di armarsi, di bardarsi, di infilarsi
gli stivaloni, di scrivere due parole al principe per affidargli Baia, e
l'intrepido Tarasconese viaggiava in diligenza sulla strada di Blida,
lasciando a casa la sua negra in stupefatta contemplazione del narghilè, del
turbante, delle babbucce, di tutte le spoglie musulmane di Sidi Tart'ri,
miseramente abbandonate sotto i bianchi archi traforati della galleria.
FRA I LEONI.
1. Le diligenze deportate.
Era una vecchia diligenza d'altri tempi, coi sedili imbottiti all'antica di
logoro panno turchino, muniti di quelle grosse nappe di lana ruvida che, dopo
qualche ora di strada, vi lasciano dei segni nella schiena...
Tartarino di Tarascona aveva avuto un posto d'angolo, in fondo; e in attesa di
respirare le emanazioni muschiate dei grandi felini d'Africa, il nostro eroe
dovette accontentarsi del vecchio, familiare odore di diligenza, curiosamente
composto di mille altri odori, di uomini, di cavalli, di cuoio, di roba da
mangiare e di paglia muffita.
C'era un po' di tutto, in quella diligenza. Un frate trappista, dei mercanti
ebrei, due belle ragazze, un fotografo di Orlèansville... ma per quanto
piacevole e varia fosse la compagnia, il Tarasconese non si sentiva in vena di
parlare. Immobile e assorto, con le sue carabine tra le ginocchia, pensava
alla sua partenza precipitosa, ai neri occhi di Baia, alla terribile caccia
che lo attendeva, senza contare che quella diligenza europea ritrovata in
piena Africa, gli ricordava vagamente, col suo bonario aspetto patriarcale, la
Tarascona della sua giovinezza, le gite nei dintorni, le merende sulle rive
del Rodano, una folla di ricordi...
Cominciava a farsi notte. Il vetturino accese i fanali. La diligenza
sobbalzava cigolando sulle sue molle arrugginite; i cavalli trottavano, i
sonagli tintinnavano... Di tanto in tanto, lassù sotto il telone
dell'imperiale, un terribile rumore di ferraglie... Era il materiale di
guerra.
Tartarino di Tarascona, mezzo assopito, rimase per qualche momento a osservare
i viaggiatori che si agitavano davanti a lui, comicamente sballottati dagli
scossoni della vettura, poi gli occhi gli si oscurarono, i pensieri gli si
annebbiarono, e non sentì altro che il gemito degli assali delle ruote e il
cigolìo dei fianchi della diligenza...
Ed ecco che si sentì chiamare per nome da una voce roca, debole e fessa di
vecchia strega. Signor Tartarino! Signor Tartarino!
Chi mi chiama?
Sono io, signor Tartarino, non mi riconosce?... Sono la vecchia diligenza che,
vent'anni fa, faceva il servizio da Tarascona a Nimes... quante volte l'ho
portata a caccia di berretti dalle parti di Jonquières o di Bellegarde!... Non
l'ho ravvisato subito per via del suo berretto da Turco e della pancia che ha
messo su; ma appena ha cominciato a russare l'ho riconosciuto subito.
Va bene! Va bene! fece il Tarasconese piuttosto seccato. Poi facendosi più
gentile: Ma insomma, povera vecchia mia, si può sapere cos'è venuta a fare da
queste parti?
Ah, mio caro signor Tartarino, non ci sono mica venuta di mia volontà, glielo
assicuro... Appena fu finita la strada ferrata di Beaucaire, dissero che non
servivo più a niente, e mi spedirono in Africa... e non sono la sola! Quasi
tutte le diligenze francesi sono state deportate come me. A questo punto, la
vecchia diligenza emise un lungo sospiro; poi riprese: Ah, signor Tartarino,
come rimpiango la mia bella Tarascona! Quelli erano bei tempi! I tempi della
mia giovinezza! Bisognava vedermi partire la mattina, ben lavata, tirata a
lustro, con le ruote verniciate di fresco, i fanali che sembravano due soli,
il copertone sempre strofinato col grasso! Il momento più bello era quando il
postiglione faceva schioccare la frusta, e il conducente con la cornetta a
bandoliera e il berretto ricamato su un orecchio, dopo aver buttato sul
copertone dell'imperiale il suo canino ringhioso, saliva in serpa gridando:
Partenza! Partenza!
Allora i miei quattro cavalli si muovevano al suono dei sonagli, dei latrati
delle fanfare. Le finestre si aprivano, e tutta Tarascona contemplava con
orgoglio la diligenza che si metteva in viaggio sulla grande strada maestra.
Che bella strada, signor Tartarino, larga, ben tenuta, con le sue pietre
miliari, i monticelli di sassi regolarmente distribuiti, e a destra e a
sinistra i suoi bei campi coltivati di olivi e di vigneti... E poi locande
lungo tutta la strada, e cambi di cavalli ogni momento... E i miei
viaggiatori, che gente simpatica! Sindaci e curati che andavano a Nimes a
vedere il loro prefetto o il loro vescovo, studenti in vacanza, contadini in
casacca ricamata con la barba rasata di fresco, e lassù, sull'imperiale, tutti
voi, signori cacciatori di berretti, sempre allegri, e che la sera, al
ritorno, cantavate sempre la vostra romanza alle stelle!
Ora la musica è cambiata... Dio solo sa che gente mi tocca imbarcare! Un sacco
di miscredenti venuti non si sa di dove, che mi riempiono di insetti, negri,
beduini, soldatacci, avventurieri di ogni paese, coloni cenciosi che mi
appestano con le loro pipe, tutta gente che parla una lingua che nemmeno il
Padreterno riuscirebbe a capire... E poi, ha visto come mi trattano? Mai
spazzolata, mai lavata. Risparmiano il grasso per i mozzi delle ruote... E al
posto dei miei tranquilli e robusti cavalli di un tempo, questi cavallini
arabi che hanno il diavolo in corpo, si litigano, si mordono, saltano come le
capre, e mi rompono le stanghe a furia di calci...
Ahi!... Ahi!... ecco che ricominciano... E le strade! Per ora siamo andati
abbastanza bene, perchè siamo vicini al Governatorato; ma dopo non c'è più
niente, non c'è più strada. Si va avanti alla meno peggio, si attraversano
monti e pianure, in mezzo alle palme nane, ai lentischi... nessun cambio di
cavalli fisso. Ci si ferma a capriccio del conducente, ora in una fattoria,
ora in un altra.
Certe volte quel farabutto mi fa fare un giro di due leghe per andare a bere
un bicchierino da un suo amico... E dopo, frusta, postiglione! Bisogna
riprendere il tempo perduto. Il sole brucia, la polvere è calda. Frusta
sempre! Si cozza, si ribalta! Frusta più forte! Si passano i fiumi a guado, ci
si bagna, si annega... Frusta! Frusta! Frusta!... Poi la sera, tutta bagnata,
vecchia e piena di reumatismi come sono, sono costretta a dormire sotto le
stelle nel cortile di un caravanserraglio aperto a tutti i venti.
La notte, sciacalli e iene vengono a fiutare i miei cassoni, e i predoni, che
temono l'umidità della notte, si rifugiano al calduccio nel mio interno...
Così passo la mia vita, mio povero signor Tartarino, e così la passerò fino al
giorno in cui, bruciata dal sole e marcia dall'umidità, cadrò senza più
rialzarmi, in un angolo di strada, dove gli Arabi faranno bollire il loro
kuskus al fuoco degli avanzi della mia carcassa...
Blida! Blida! gridò il conducente spalancando la portiera.
2. Apparizione di un ometto.
Attraverso i vetri appannati, Tartarino di Tarascona intravide una bella
piazza regolare, circondata da portici e alberata di aranci, in mezzo alla
quale dei soldatini di piombo facevano gli esercizi nella chiarità rosea
dell'alba. I caffè levavano gli sporti. In un angolo, un mercatino di
legumi... Scena quanto mai gradevole, ma che non aveva ancora odor di leone.
Al Sud!... Più al Sud! mormorò il buon Tartarino, rincantucciandosi nel suo
angolo.
In quel momento lo sportello si aprì. Entrò una folata d'aria fresca che portò
con sè, insieme al profumo degli aranci in fiore, un ometto in soprabito color
nocciola, vecchio, magro, rugoso, compassato, con una cravatta di seta nera
alta cinque dita, una cartella di cuoio e l'ombrello: il classico tipo di
notaio di provincia.
Scorgendo tutto l'apparato guerresco del Tarasconese, l'ometto, che si era
seduto davanti a lui, parve estremamente sorpreso e si mise a fissare
Tartarino con un'insistenza imbarazzante. Furono cambiati i cavalli, e la
diligenza partì... L'ometto fissava sempre Tartarino... Alla fine, il
Tarasconese perse la pazienza. C'è qualcosa che vi stupisce? disse, fissando a
sua volta l'ometto.
No, c'e qualcosa che mi dà noia. Rispose l'altro senza scomporsi. In realtà, a
causa della tenda, della rivoltella, dei due fucili chiusi nei loro astucci e
del coltello da caccia, senza contare la sua naturale corpulenza, Tartarino di
Tarascona occupava molto spazio...
La risposta dell'ometto indispettì Tartarino: Crede lei, per caso, che vada a
caccia di leoni con un ombrello come il suo? disse il grand'uomo con fierezza.
L'ometto guardò il suo ombrello, sorrise dolcemente; poi, sempre con la stessa
flemma: Scusi, lei sarebbe...?
Tartarino di Tarascona, cacciatore di leoni! E l'intrepido Tarasconese scosse
come una criniera la nappa del suo fez.
Ci fu nella diligenza un movimento di stupore. Il trappista si segnò, le due
ragazze emisero degli strilletti di paura e il fotografo di Orlèansville si
avvicinò al cacciatore di leoni sognando già l'onore di fargli una fotografia.
L'ometto non si scompose.
Ha già ucciso molti leoni, signor Tartarino? domandò con la massima
tranquillità.
Se ne ho ucciso? Vorrei che lei avesse in testa tanti capelli quanti leoni ho
ucciso io.
Tutta la diligenza scoppiò in una risata osservando i tre capelli giallastri
che si drizzavano sul cranio calvo dell'ometto.
A sua volta, il fotografo di Orlèansville prese la parola: La sua dev'essere
una professione terribile, signor Tartarino!... Chissà quanti brutti momenti
avrà passato!... Anche quel povero signor Bombonnel...
Ah, già, il cacciatore di pantere... fece Tartarino sprezzante.
Lei lo conosce? chiese l'ometto.
Certo! Come no?... Abbiamo cacciato insieme più di venti volte.
L'ometto sorrise: Allora, lei va a caccia anche di pantere, signor Tartarino?
Qualche volta, per passatempo... disse lo scatenato Tarasconese.
Poi, alzando la testa con un gesto eroico che fece palpitare il cuore delle
due ragazze, aggiunse: Non valgono il leone!
In fondo, si azzardò a dire il fotografo, la pantera non è che un grosso
gatto...
Esattissimo! disse Tartarino, a cui non pareva vero di offuscare la gloria di
quel Bombonnel, specialmente davanti alle ragazze. A questo punto la diligenza
si fermò, il conducente venne ad aprire lo sportello, e rivolgendosi
all'anziano ometto: Lei è arrivato, signore, gli disse con tono molto
rispettoso.
L'ometto si alzò, scese, ma prima di chiudere la portiera: Mi permette di
darle un consiglio, signor Tartarino?
Quale consiglio?
Senta, lei ha l'aria di essere un brav'uomo e voglio essere sincero con lei.
Dia retta a me, torni subito a Tarascona, signor Tartarino... Qui lei perde il
suo tempo... Sì, ci resta ancora qualche pantera nella zona; ma, perbacco, è
una selvaggina troppo piccola per lei!... Quanto ai leoni, storia finita
ormai. In Algeria non ce ne sono più... l'ultimo l'ha ucciso il mio amico
Chassaing.
Con queste parole, l'ometto salutò, chiuse lo sportello, e se ne andò ridendo,
con la sua borsa e il suo ombrello. Conducente, domandò Tartarino, con la sua
solita faccia feroce, ma chi è quell'ometto là?
Come? Non l'ha riconosciuto? Ma è il signor Bombonnel.
3. Un convento di leoni.
Tartarino di Tarascona scese a Miliana, e lasciò che la diligenza continuasse
la sua strada per il Sud. Due giorni di scossoni, due notti passate con gli
occhi spalancati a guardare attraverso il finestrino se appariva nei campi,
vicino alla strada, l'ombra formidabile di un leone. Tante ore di sonno
perdute meritavano qualche ora di riposo. E poi, diciamolo pure, dopo la sua
disavventura con Bombonnel, il buon Tarasconese, nonostante le armi, la faccia
feroce e il fez, si sentiva a disagio davanti al fotografo e alle ragazze.
S'incamminò dunque per le larghe strade di Miliana, fiancheggiate da alberi
bellissimi e ricche di fontane; mentre stava cercando un albergo conveniente,
il pover'uomo non poteva togliersi dalla mente le parole di Bombonnel... Aveva
detto la verità? Non c'erano veramente più leoni in Algeria?... A che scopo
allora tanta strada e tante fatiche?
Improvvisamente, all'angolo di una strada, il nostro eroe si trovò faccia a
faccia con... Indovinate!... con un superbo leone, seduto regalmente davanti
alla porta di un caffè, con la fulva criniera illuminata dal sole.
Ma cosa mi dicevano che non ce n'erano più? esclamò il Tarasconese, facendo un
salto indietro... Al suono di queste parole, il leone abbassò la testa, e
afferrando tra i denti una ciotola di legno posata sul marciapiede davanti a
lui, la tese umilmente verso Tartarino pietrificato dallo stupore...
Un Arabo che passava gettò un soldone nella ciotola; il leone agitò la coda...
Allora Tartarino capì. Vide quello che l'emozione gli aveva impedito di
vedere: la folla aggruppata davanti al povero leone cieco e addomesticato, e
due negri giganteschi armati di randelli che lo portavano a passeggio per la
città, come il Savoiardo la sua marmotta.
Il sangue gli salì alla testa: Miserabili! gridò con voce di tuono. Umiliare
così questi nobili animali! E slanciandosi sul leone, gli strappò la ciotola
dalle regali mascelle... I due negri, prendendolo per un ladro, si
precipitarono sul Tarasconese coi randelli alzati... Fu una zuffa tremenda...
i negri picchiavano, le donne strillavano, i ragazzi ridevano.
Un vecchio ciabattino urlava dal fondo della sua bottega: Dal giudice di pace!
Dal giudice di pace! Il leone stesso, nella notte della sua cecità, fece un
tentativo di ruggito, e lo sventurato Tartarino, dopo una lotta disperata,
ruzzolò per terra in mezzo ai soldoni e alla spazzatura.
In quel momento, un uomo fendè la folla, rialzò Tartarino, lo spolverò, lo
scosse, e lo fece sedere sopra un paracarro. Ma come! E' lei, principe? fece
il buon Tartarino ansimando e tastandosi le costole.
Sì, sono io, mio valoroso amico!... Appena ricevuta la sua lettera, ho
affidato Baia a suo fratello, e a volta di corriere, ho percorso cinquanta
leghe ventre a terra, ed eccomi arrivato appena in tempo per strapparvi dalle
mani di questi villani... Santo cielo, ma cosa diavolo ha fatto per trovarsi
in questo brutto pasticcio?
Cosa vuole, principe... a vedere quel povero leone con la sua ciotola fra i
denti, umiliato, vinto, preso in giro, ridotto a essere oggetto di riso per
tutto questo pidocchiume...
Ma lei si sbaglia, mio nobile amico. E' proprio il contrario; quel leone è per
loro oggetto di rispetto e di adorazione. E' un animale sacro, che fa parte di
un grande convento di leoni, fondato trecento anni or sono da Mahom med ben
Aouda, una specie di trappa come l'abbazia di Notre-Dame de la Trappe in
Normandia, ma eccezionale e selvaggia, piena di ruggiti e di effluvi belluini,
nella quale dei singolari monaci allevano e addomesticano centinaia di leoni,
e di là li mandano in tutta l'Africa settentrionale, accompagnati da una
specie di frati cercatori...
I doni ricevuti da questi frati servono al mantenimento del convento e della
sua moschea; e se i due negri di poco fa si sono arrabbiati tanto, è perchè
sono convinti che se per colpa loro va perduto un soldo solo della questua,
sarebbero immediatamente divorati dal loro leone.
Nell'ascoltare questo inverosimile e pur veridico racconto, Tartarino di
Tarascona gongolava e fiutava l'aria rumorosamente. Quello che mi fa piacere,
disse, è che, alla barba del signor Bombonnel, ci sono ancora dei leoni in
Algeria!...
Se ce ne sono! esclamò il principe con calore. A partire da domani, andremo a
battere la pianura del Chèlif, e vedrete!
Ma come! Anche lei, principe, ha intenzione di cacciare?
Perbacco! Come posso lasciarla andare in giro per l'Africa solo soletto, in
mezzo a tutte quelle tribù feroci di cui ignora la lingua e i costumi?... No!
No! illustre Tartarino!... Dove lei sarà, ci sarò anche io.
Oh, principe, principe!...
E Tartarino, raggiante, abbracciò il prode Grègory, pensando con fierezza che,
come Jules Gèrard, Bombonnel e tutti gli altri famosi cacciatori di leoni,
aveva anche lui un principe straniero come compagno di caccia.
4. Carovana in arrivo.
Il giorno dopo, alle prime luci dell'alba, l'intrepido Tartarino e il non meno
intrepido principe Grègory, seguiti da una mezza dozzina di portatori negri,
uscivano da Miliana e si avviavano verso la pianura del Chèlif, percorrendo in
discesa un ripido e delizioso sentiero ombreggiato da piante di gelsomino, di
tuya, di carrubi e di olivi selvatici, fiancheggiato da una fila di
giardinetti indigeni, e rallegrato dallo scroscio di migliaia di sorgenti che
precipitavano di roccia in roccia, cantando.
Carico d'armi come il grande Tartarino, il principe Grègory si era inoltre
adornato di un magnifico e singolare chepì tutto gallonato d'oro, e decorato
da un fregio di foglie di quercia ricamate in argento, che faceva vagamente
assomigliare Sua Altezza a un capostazione delle ferrovie danubiane, o a un
generale messicano.
Parlando e filosofando, la carovana procedeva regolarmente. I portatori negri,
a piedi nudi, saltavano di roccia in roccia emettendo grida scimmiesche. Le
casse d'armi risuonavano. Le canne dei fucili lampeggiavano al sole. Gli
indigeni incontrati per via s'inchinavano fino a terra davanti al magico
chepì. Lassù, sui bastioni di Miliana, il capo dell'amministrazione araba, che
passeggiava al fresco con la sua dama, udendo dei rumori insoliti e vedendo
luccicare delle armi tra i rami, pensò a un colpo di mano, fece alzare il
ponte levatoio, fece battere la generale, e mise la città in stato d'assedio.
Bel debutto per una carovana!
Disgraziatamente, prima del tramonto, le cose si guastarono. Uno dei portatori
negri fu colto da coliche atroci per aver mangiato il cerotto adesivo della
farmacia. Un altro ruzzolò sul ciglio della strada, ubriaco fradicio di alcool
canforato. Il terzo, quello a cui era affidato l'album del diario di
Tartarino, abbagliato dalle dorature dei fermagli e persuaso di portarsi via i
tesori della Mecca, fuggì a gambe levate rifugiandosi nello Zaccar.. Bisognava
prendere delle decisioni... La carovana sostò, e tenne consiglio all'ombra
chiazzata di sole di un vecchio fico.
Io direi, cominciò il principe, mentre tentava invano di sciogliere una
tavoletta di pemmican in una pentola perfezionata a triplo fondo, direi di
rinunziare ai portatori negri... C'è proprio qui vicino un mercato arabo. La
cosa migliore mi sembra sia quella di andarci, e di fare acquisto di qualche
somarello...
No!... No!... interruppe con vivacità il grande Tartarino, che era arrossito
al ricordo del povero Nerino. Niente somarelli!...
E ipocritamente aggiunse: Com'è possibile che degli animali così piccoli
abbiano la forza di portare tutta la nostra roba? Il principe sorrise.
Lei si sbaglia, illustre amico. Anche se le sembra gracile e magro, il
somarello algerino ha le reni solide... Altrimenti, come potrebbe sopportare
tutto quello che sopporta? Lo domandi agli Arabi!
Non ha importanza, riprese Tartarino di Tarascona. Secondo me, per l'estetica
della nostra carovana, i somari non vanno bene... Mi piacerebbe qualcosa di
più orientale... Se si potesse avere, per esempio, un cammello...
Quanti ne vuole! disse Sua Altezza; e si diressero verso il mercato arabo.
Il mercato si teneva a qualche chilometro di distanza, sulle rive del
Chèlif... C'erano cinque o seimila Arabi cenciosi che formicolavano al sole, e
trafficavano chiassosamente in mezzo a giare di olive nere, vasi di miele,
sacchi di spezie e grossi mazzi di sigari; in mezzo alla piazza erano accesi
grandi fuochi su cui venivano arrostiti montoni interi, gocciolanti di grasso;
c'erano delle macellerie all'aperto, dove dei negri nudi, coi piedi nel sangue
e le braccia insanguinate, squartavano con dei piccoli coltelli dei capretti
appesi a un palo.
In un angolo, sotto una tenda rattoppata con pezze multicolori, siede un
funzionario arabo con gli occhiali e un registro. Qui un gruppo di persone che
litigano rabbiosamente: una roulette è stata installata sopra un moggio da
grano... Laggiù si odono delle risa e un accorrere allegro: c'è un mercante
ebreo che sta annegando nel Chèlif con la sua mula...
E scorpioni, cani, corvi; e mosche!... mosche! Ma, guarda caso, mancavano i
cammelli. Fu possibile, finalmente, scovarne uno da certi Maobiti che volevano
disfarsene. Era il vero cammello del deserto, il cammello classico, calvo,
dall'aria triste, la lunga testa da beduino, e la gobba, divenuta floscia per
i lunghi digiuni, che pendeva melanconicamente da una parte.
Tartarino lo trovò così bello, che volle che la carovana al completo ci
montasse sopra... Le solite manie orientali! Il cammello s'inginocchiò. I
bagagli furono assicurati con delle cinghie.
Il principe si insediò sul collo dell'animale. Tartarino, maestosamente, si
fece issare in cima alla gobba, tra due casse; e di lassù, fiero e
soddisfatto, salutando con un nobile gesto tutta la popolazione accorsa, dette
il segnale della partenza... Tuoni e fulmini! Se quelli di Tarascona avessero
potuto vederlo!...
Il cammello si drizzò. allungò le sue immense gambe nodose, e prese il volo...
Oh, stupore! Dopo pochi passi, Tartarino si sentì impallidire, e l'eroico fez
ricominciò a prendere, una dopo l'altra, le vecchie posizioni del tempo dello
Zuavo. Quel cammello del diavolo rollava come una fregata.
Principe, principe, mormorò Tartarino, che era diventato livido, e si
aggrappava disperatamente al pelame stopposo della gobba. Principe,
scendiamo... sento... sento... che farò fare alla Francia una brutta figura...
Morte e dannazione! Il cammello ormai era lanciato, e niente poteva più
arrestarlo. Quattromila Arabi gli correvano dietro, a piedi nudi,
gesticolando, ridendo come matti, e facendo luccicare al sole seicentomila
denti bianchi...
Il grand'uomo di Tarascona dovette rassegnarsi. Si accasciò tristemente sulla
gobba. Il fez prese tutte le posizioni che volle... e la Francia ci fece una
brutta figura.
5. L 'appostamento in un bosco di oleandri.
Per quanto pittoresca fosse la loro nuova cavalcatura, i nostri cacciatori di
leoni furono costretti a rinunziarvi a causa del fez. Continuarono quindi la
strada a piedi, e la piccola carovana si spostò senza fretta verso il Sud, a
piccole tappe, il Tarasconese in testa, il Montenegrino in coda, e il cammello
con le sue casse d'armi nel mezzo. La spedizione durò quasi un mese.
Per tutto quel mese, alla ricerca degli introvabili leoni, il terribile
Tartarino errò di villaggio in villaggio nell'immensa pianura del Chèlif,
attraverso quella incredibile e assurda Algeria francese, dove i profumi del
vecchio Oriente si mescolano con gli inconfondibili odori di caserma e di
assenzio. Tutto preso dalla sua passione leonina, l'uomo di Tarascona andava
dritto davanti a sè, senza guardare nè a destra nè a sinistra, l'occhio
ostinatamente fisso su quei mostri immaginari che non si facevano mai vedere.
Siccome la tenda si ostinava a non aprirsi e le tavolette di pemmican a non
sciogliersi, la carovana era costretta a sostare mattina e sera presso le
tribù. Dovunque, grazie al chepì del principe Grègory, i nostri cacciatori
erano ricevuti a braccia aperte. Erano alloggiati in casa dei capi, dentro
strani palazzi, grandi fattorie bianche senza finestre, dove si trovavano,
mescolati alla rinfusa, narghilè e cassettoni di mogano, tappeti di Smirne e
lampade ad acetilene, cofani di legno di cedro pieni di zecchini turchi, e
pendole artistiche in stile Louis-Philippe... Dovunque venivano organizzate in
onore di Tartarino delle splendide feste e delle furiose fantasie.
In suo onore, drappelli interi di cavalleria indigena facevano parlare i
fucili, e risplendere al sole i loro pittoreschi burnus, i lunghi mantelli
usati dalle popolazioni dell'Africa del Nord.
E i leoni non si facevano vedere. Ma Tartarino non si scoraggiava. Spingendosi
risolutamente verso il Sud, passava le sue giornate a battere la macchia, a
frugare i palmizi nani con la canna della carabina, facendo: sciò! sciò! a
ogni cespuglio. Poi, tutte le sere, prima di coricarsi, un breve appostamento
di due o tre ore... Fatica sprecata! Il leone non si faceva vedere.
Tuttavia, una sera, verso le sei, mentre la carovana attraversava un bosco di
lentisco violetto, dove delle grosse quaglie appesantite dal caldo saltavano
qua e là tra l'erba, a Tartarino di Tarascona parve sentire, ma così lontano,
così vago, così smozzicato dal vento, quel meraviglioso ruggito che aveva
tante volte ascoltato a Tarascona dietro la baracca del circo Mitaine.
Da principio, l'eroe pensò di sognare... ma dopo qualche istante, sempre
lontani, ma più distinti, i ruggiti si rifecero sentire; e questa volta,
mentre da tutti gli angoli dell'orizzonte si sentivano ululare i cani dei
villaggi, anche la gobba del cammello, scossa dal terrore, tremò, facendo
tintinnare le casse d'armi e le scatole di carne in conserva.
Non c'era più dubbio. Era il leone... Presto, presto, all'appostamento.
Non c'era un minuto da perdere.
Proprio lì vicino c'era un vecchio marabutto, un mausoleo in cui vengono
sepolti i santoni musulmani, con la sua cupoletta bianca, e grandi pantofole
gialle del defunto santo racchiuse in una nicchia al sommo della porta, e
un'accozzaglia di bizzarri ex-voto, lembi di burnus, fili d'oro, ciocche di
capelli, appesi al muro... Tartarino di Tarascona ci mise al sicuro il suo
principe e il suo cammello, poi andò in cerca di un posto adatto per
l'appostamento. Il principe Grègory voleva seguirlo, ma il Tarasconese non
volle; teneva ad affrontare il leone da solo. In ogni modo, raccomandò a Sua
Altezza di non allontanarsi e, come misura precauzionale, gli affidò il suo
portafoglio, un grosso portafoglio pieno di carte preziose e di biglietti di
banca, che temeva potessero essere lacerati dagli artigli del leone.
Fatto questo, l'eroe si mise in cerca del luogo adatto per l'appostamento.
Cento passi oltre il marabutto, sull'orlo di un torrente quasi secco, un
boschetto di oleandri tremava nella caligine del crepuscolo. Fu lì che
Tartarino si mise in agguato, con un ginocchio a terra secondo le regole, la
carabina in pugno e il coltellaccio da caccia piantato fieramente davanti a
lui sulla sabbia dell'argine.
Giunse la notte. La luce passò dal roseo al violetto, poi all'azzurro
profondo... In basso, tra i ciottoli del torrente, luccicava come uno specchio
una piccola pozza d'acqua chiara. Era l'abbeveratoio delle belve. Sull'argine
opposto, si distingueva vagamente il sentiero bianco che le loro grosse zampe
avevano tracciato tra i lentischi. Questa traccia misteriosa faceva venire i
brividi. Aggiungete a tutto questo il vago brulichìo delle notti africane, il
fruscìo di rami sfiorati, i passi felpati di animali vaganti gli striduli
latrati degli sciacalli, mentre lassù, in cielo, a cento o duecento metri di
altezza, grandi stormi di gru passavano con gridi di bambini sgozzati; c'era
veramente da rimanere impressionati.
Tartarino lo era. Direi che lo era in modo superlativo. Batteva i denti, e la
canna del suo fucile rigato sbatteva sul manico del coltello piantato nella
sabbia con un ritmico rumore di nacchere... Che volete! Ci sono delle serate
in cui non ci si sente in vena; e poi, che merito ci sarebbe, se gli eroi non
avessero mai paura...
Ebbene, sì! Tartarino aveva paura. Tuttavia tenne duro per un'ora, due ore, ma
anche l'eroismo ha i suoi limiti. Vicino a lui, nel letto arido del torrente,
il Tarasconese sentì improvvisamente un rumore di passi, un rotolìo di
ciottoli. Questa volta il terrore lo fece balzare in piedi. Sparò a casaccio i
suoi due colpi nell'oscurità, e se la diede a gambe verso il marabutto,
lasciando il coltellaccio piantato nella sabbia dell'argine a perenne ricordo
del più formidabile panico che abbia mai afferrato l'animo di un cacciatore di
sogni. Aiuto, principe!... il leone!... Silenzio. Principe, principe, dov'è?
Il principe non c'era. Sul muro bianco del marabutto solo il bravo cammello
proiettava l'ombra bizzarra della sua gobba... Il principe Grègory se l'era
squagliata da poco, portando con sè il portafoglio e i biglietti di banca di
Tartarino... Era un mese che Sua Altezza aspettava questa occasione. . .
6. Finalmente.
L'indomani di questa serata tragica e avventurosa, quando alle prime luci
dell'alba il nostro eroe si risvegliò e acquistò la certezza che il principe e
il gruzzolo erano realmente partiti, partiti senza ritorno; quando si ritrovò
solo in quella piccola tomba bianca, tradito, derubato, abbandonato in piena
Algeria selvaggia, con un cammello a una sola gobba e pochi spiccioli in
tasca, allora, per la prima volta, il Tarasconese dubitò. Dubitò del
Montenegro, dubitò dell'amicizia, dubitò della gloria, dubitò persino dei
leoni; e, come Cristo nell'orto di Getsemani, il grand'uomo si mise a piangere
amaramente. Ora, mentre con aria cogitabonda era seduto sulla porta del
marabutto con la testa fra le mani, la carabina tra le gambe, e il cammello
che lo guardava, Tartarino stupefatto vide la fitta macchia davanti a lui
aprirsi improvvisamente, e apparire a dieci passi di distanza un leone
gigantesco che avanzava a testa alta, emettendo dei ruggiti formidabili che
facevano tremare le mura del marabutto con le loro cianfrusaglie, e persino le
pantofole del santo nella loro nicchia.
Solo il Tarasconese non tremò. Finalmente! gridò, balzando in piedi col fucile
spianato... Pan!... Pan!. .. pfft!... pfft! Ecco fatto... il leone aveva
ricevuto due palle esplosive nella testa... Per un attimo, sullo sfondo
infuocato del cielo africano, esplose un fuoco d'artificio di frammenti di
cervello, di sangue fumante e di criniera fulva sparpagliata. Poi tutto si
calmò e Tartarino vide... due negri giganteschi che si precipitavano verso di
lui agitando furiosamente i randelli. I due negri di Miliana!
Maledizione! I proiettili del Tarasconese avevano fatto fuori il povero leone
cieco e ammaestrato del convento di Mohammed. Questa volta, per Maometto,
Tartarino se la vide brutta! Pazzi di fanatico furore, i due negri questuanti
l'avrebbero certamente fatto a pezzi, se il Dio dei cristiani non gli avesse
mandato in aiuto un angelo liberatore nelle sembianze della guardia campestre
del comune di Orlèansville, che sbucava, con la sciabola sotto il braccio, da
un sentiero vicino.
La vista del chepì municipale calmò subito la collera dei negri. Calmo e
solenne, il rappresentante dell'autorità stese il processo verbale
dell'accaduto, decise che i resti del leone fossero caricati sul cammello,
ordinò agli accusatori e al colpevole di seguirlo, e si diresse alla volta di
Orlèansville, dove il tutto fu depositato nella cancelleria del tribunale.
Procedura lunga e terribile!
Dopo l'Algeria delle tribù, che aveva appena visitata, Tartarino di Tarascona
conobbe allora un'altra Algeria non meno bizzarra e sorprendente, l'Algeria
delle città, ingorda di processi e di carta bollata.
Prima di tutto bisognava sapere se il leone era stato ucciso in territorio
civile o in territorio militare. Nel primo caso l'affare era di competenza del
tribunale di commercio; nel secondo caso la sorte di Tartarino dipendeva dal
consiglio di guerra; alla parola consiglio di guerra, l'impressionabile
Tarasconese si vedeva già fucilato ai piedi di un bastione, o costretto a
marcire in fondo a una cella...
Essendo molto incerta in Algeria la delimitazione dei due territori, il
problema si presentava di soluzione difficile. Finalmente, dopo un mese di
corse, di complicazioni e di attese al sole nei cortili degli uffici arabi, fu
stabilito che, se da una parte il leone era stato ucciso in territorio
militare, d'altra parte, Tartarino, quando aveva sparato, si trovava in
territorio civile. Il processo si svolse dunque in sede civile, e il nostro
eroe se la cavò con duemilacinquecento franchi di indennità, oltre le spese.
Come fare a pagare quella somma? Le poche piastre sfuggite alla razzia del
principe se ne erano andate da un pezzo in carta bollata e in bicchierini
offerti agli uomini di legge. Lo sventurato cacciatore di leoni fu costretto a
vendere la sua cassa d'armi, carabina per carabina. Si disfece dei pugnali,
dei kriss malesi, delle mazze ferrate... Un droghiere comprò la carne in
scatola. Un farmacista quello che restava del cerotto adesivo. Anche gli
stivaloni, seguiti dalla tenda perfezionata, andarono a finire nella bottega
di un rigattiere, che cercò di venderli come curiosità... Una volta pagato
tutto, non restavano più a Tartarino che la pelle del leone e il cammello. La
pelle fu accuratamente imballata e spedita a Tarascona all'indirizzo del prode
comandante Bravida. (Riparleremo presto di questo favoloso trofeo). Quanto al
cammello, Tartarino contava di servirsene per raggiungere Algeri, non già
montandoci sopra, ma vendendolo per pagare la diligenza, che rimane in fondo
il mezzo migliore per viaggiare. Purtroppo l'animale era scarsamente
commerciabile, e nessuno si offrì di comprarlo.
Ma Tartarino voleva tornare ad Algeri al più presto. Aveva fretta di rivedere
Baia, la sua casetta, le sue fontane, e di riposarsi sotto le arcate traforate
del suo piccolo chiostro, in attesa dell'arrivo del denaro dalla Francia. Il
nostro eroe non esitò: addolorato, ma non abbattuto, decise di fare la strada
a piedi, a piccole tappe, e senza soldi in tasca.
In questa occasione, il cammello non lo abbandonò. Lo strano animale provava
per il suo padrone una tenerezza inesplicabile, e vedendolo uscire da
Orlèansville si mise a camminare religiosamente dietro di lui, regolando il
suo passo con quello di Tartarino e non lasciandosi distanziare di un metro.
Da principio, Tartarino trovò la cosa commovente; quella fedeltà quella
devozione a tutta prova gli toccarono il cuore, tanto più che il cammello Si
accontentava facilmente e si nutriva con niente. Tuttavia, dopo qualche
giorno, il Tarasconese si seccò di avere eternamente alle calcagna quel
malinconico compagno che gli ricordava tutte le sue disavventure; poi, in
preda al risentimento, se la prese con lui per la sua aria triste, per la sua
gobba, per la sua andatura dinoccolata. Insomma, finì per odiarlo, e non
pensava più che a liberarsene; ma l'animale teneva duro... Tartarino cercò di
perderlo, il cammello lo ritrovò; provò a correre, ma il cammello correva più
svelto di lui... Gli gridava: Vattene! gettandogli delle pietre.
Il cammello si fermava, lo guardava con aria triste, poi, dopo qualche
momento, si rimetteva in cammino e lo raggiungeva sempre. Tartarino dovette
rassegnarsi. Tuttavia, quando dopo otto lunghe giornate di marcia, il
Tarasconese impolverato ed esausto, vide da lontano scintillare le prime
bianche terrazze di Algeri, quando si trovò alle porte della città,
nell'animata via di Mustafà, in mezzo agli Zuavi, ai Biskri, alle donne
maonesi, che brulicavano intorno a lui guardandolo sfilare col suo cammello,
perdè di colpo la pazienza: No! no! si disse; non è possibile... non posso
entrare in Algeri con una simile bestia! e approfittando di un ingorgo di
carrozze, svoltò bruscamente, si avviò per i campi, e si gettò in un
fossato!...
Dopo pochi momenti, al di sopra della sua testa, vide passare sul margine
della strada, il cammello che filava a tutte gambe, allungando il collo con
aria ansiosa. Allora, sollevato da un gran peso, l'eroe uscì dal suo
nascondiglio e rientrò in città passando per un sentiero fuori mano che
rasentava il muro del suo orticello.
7. Catastrofi su catastrofi.
Arrivando davanti alla sua casa araba, Tartarino si fermò stupefatto. Scendeva
la notte, la strada era deserta. Dalla porticina ogivale che la negra aveva
dimenticato di chiudere, si sentivano venire risate, un tintinnio di
bicchieri, tonfi di tappi di champagne, e al di sopra di tutto questo allegro
frastuono, una gaia e limpida voce di donna che cantava in francese: Aimes-tu,
Marco la belle, La danse aux salons en fleurs...
Tuoni e fulmini! fece il Tarasconese impallidendo, e si precipitò nel cortile.
Povero Tartarino! Quale spettacolo l'attendeva... Sotto gli archi del piccolo
chiostro, tra bottiglie, dolciumi, cuscini sparsi, pipe, tamburelli, chitarre,
Baia in piedi, con una camicetta di velo argenteo, e larghi pantaloni rosa
tenero, cantava Marco la belle con un berretto da ufficiale di marina calato
su un orecchio. Ai suoi piedi, saturo di amore e di pasticcini, Barbassou,
l'infame capitano Barbassou, la stava ad ascoltare, crepando dalle risa.
L'apparizione di Tartarino, smunto, dimagrito, polveroso, con gli occhi che
facevano fiamme e col fez dritto sulla testa, interruppe di colpo questa
piacevole scena turco-marsigliese. Barbassou non si scompose, e ridendo di
gusto: Ehi là! Signor Tartarino, che ne dice? Vede bene che la ragazza parla
francese!
Tartarino di Tarascona avanzò furioso, poi: Capitano!
Gli dica che entri pure, amico! gridò in puro dialetto marsigliese la giovane
Araba, sporgendosi dalla galleria del primo piano con un gesto birichino.
Il pover'uomo, affranto, si lasciò cadere su un cuscino. La sua Araba sapeva
anche il marsigliese!
Glielo avevo detto io, di non fidarsi delle Algerine! disse sentenziosamente
il capitano Barbassou. E' la stessa storia del suo principe montenegrino.
Tartarino alzò la testa. Lei sa dove si trova il principe?
Oh! Non è lontano. Per cinque anni starà di casa nella bella prigione di
Mustafà. Quel briccone si è fatto prendere con le mani nel sacco. Del resto
non è la prima volta che Sua Altezza si fa mettere dentro. Mi pare che abbia
già fatto tre anni di galera... e, guarda un po', mi pare proprio a Tarascona.
A Tarascona!... gridò Tartarino, improvvisamente illuminato. Ecco perchè
conosceva solo una piccola parte della città.
Si capisce! La parte che vedeva dalla finestra della prigione... Ah!, povero
signor Tartarino, bisogna tenere gli occhi bene aperti in questo dannato
paese, altrimenti ci possono capitare delle sorprese poco gradevoli... Come la
vostra storia del muezzin...
Che storia? Che muezzzin?
Perbacco!... Il muezzin di fronte, che faceva la corte a Baia... Ne hanno
parlato anche i giornali, e tutta Algeri ne ride ancora. E' così divertente
quel muezzin che, dall'alto del suo minareto, mentre cantava le preghiere,
faceva sotto il vostro naso le sue dichiarazioni alla piccina, e le dava degli
appuntamenti invocando il nome di Allah...
Ma sono dunque tutti dei furfanti in questo paese?... urlò il povero
Tarasconese.
Barbassou fece un gesto di rassegnazione. Capirà, paesi nuovi... Dia retta a
me, Tartarino, torni subito a Tarascona.
E' una parola! Come faccio a tornare a casa senza denari? Sapesse come mi
hanno spennato, laggiù nel deserto!
Non ha importanza! esclamò il capitano, ridendo... Lo Zuavo parte domani, e se
lei accetta, penso io a riportarlo in patria. D'accordo collega?... Bene;
allora non le resta che fare una cosa. Abbiamo ancora qualche bottiglia di
champagne e mezza torta. Si segga, e... senza rancore!
Dopo il momento di esitazione che la dignità gli imponeva, il Tarasconese
prese con coraggio la sua decisione. Si sedette, e brindò col capitano.
Baia, ricomparsa al tintinnio dei bicchieri, cantò il finale di Marco la
belle, e la festa si prolungò fino a notte inoltrata. Verso le tre del
mattino, con la testa leggera e le gambe pesanti, il buon Tartarino, dopo aver
accompagnato il suo amico capitano, passò davanti alla moschea. Il ricordo del
muezzin e del suo tiro birbone, lo fece sorridere, e subito gli attraversò la
mente l'idea di una piacevole vendetta. La porta era aperta.
Entrò, percorse lunghi corridoi tappezzati di stuoie. Salì, salì ancora, e si
trovò in un piccolo oratorio orientale, dove una lampada in ferro battuto
dondolava dal soffitto, ricamando ombre bizzarre sulle bianche pareti.
Il muezzin era là, seduto su un divano, col suo gran turbante in testa, la sua
pelliccia bianca e la sua pipa di Mostagamen, covando con gli occhi un
bicchierone di assenzio, in attesa di chiamare i fedeli alla preghiera...
Alla vista di Tartarino, lasciò cadere la pipa, atterrito.
Non una parola, reverendo, disse il Tarasconese, che stava seguendo un suo
progetto... Presto, mi dia il turbante e la pelliccia!
Il muezzin, impaurito, gli consegnò il turbante, la pelliccia, e tutto quello
che gli fu chiesto da Tartarino. Il Tarasconese se ne rivestì, e salì con aria
solenne sulla terrazza del minareto. Il mare scintillava in lontananza. I
tetti splendevano bianchi al chiaro di luna. Sulle ali della brezza marina
giungevano lontani accordi di chitarra... Il muezzin di Tarascona si concesse
un istante di raccoglimento, poi, alzando le braccia al cielo, cominciò a
salmodiare con voce acutissima: Allah è Allah... e Maometto è un vecchio
imbroglione... L'Oriente, il Corano, i pascià, i leoni, le Arabe non valgono
un fico secco! Non ci sono più Turchi... non ci sono che imbroglioni... Viva
Tarascona!...
E mentre nel suo gergo bizzarro, misto di arabo e di provenzale, l'illustre
Tartarino gettava ai quattro venti, sul mare, sulla città, sulla pianura,
sulle montagne, la sua allegra maledizione tarasconese, la voce chiara e
solenne degli altri muezzin gli rispondeva, diffondendosi da minareto a
minareto, e gli ultimi fedeli della città alta si battevano devotamente il
petto.
8. Tarascona! Tarascona!
Mezzogiorno. Lo Zuavo è sotto pressione, si parte. Lassù, sul balcone del
Caffè Valentin, i signori ufficiali puntano il cannocchiale, e vengono,
colonnello in testa e per ordine gerarchico, a contemplare il piccolo
fortunato piroscafo che torna in Francia. E' la grande distrazione dello Stato
Maggiore... In basso, la rada scintilla. La culatta dei vecchi cannoni turchi
interrati lungo la banchina splende al sole. I viaggiatori si affollano.
I facchini indigeni ammucchiano i bagagli sulle barche. Tartarino di Tarascona
non ha bagagli. Eccolo che, in compagnia dell'amico Barbassou, percorre Rue de
la Marine e attraversa il piccolo mercato pieno di banane e di cocomeri. Lo
sventurato Tarasconese ha lasciato in terra barbaresca la sua cassa d'armi e
le sue illusioni, ed ora si accinge a navigare verso Tarascona con le mani in
tasca... E' appena saltato nella scialuppa del capitano, che un animale
trafelato capitombola dall'alto della piazza, e si precipita di galoppo verso
di lui. E' il cammello, il suo fedele cammello, che da ventiquattr'ore cerca
in Algeri il suo padrone.
Tartarino, vedendolo, cambia colore e fa finta di non conoscerlo; ma il
cammello si ostina. Si agita lungo la banchina. Chiama il suo amico e lo
guarda teneramente: Portami via! sembra dire il suo sguardo triste. Prendimi
sulla nave e portami lontano, molto lontano da questa Arabia di cartapesta, da
questo Oriente ridicolo pieno di locomotive e di diligenze, dove io,
dromedario declassato, non ho più avvenire. Tu sei l'ultimo Turco, io sono
l'ultimo cammello. Non lasciamoci più, Tartarino...
E' suo questo cammello? domanda il capitano.
No davvero! risponde Tartarino, che freme all'idea di entrare a Tarascona con
quella ridicola scorta; e rinnegando senza vergogna il compagno delle sue
disavventure, respinge col piede il suolo algerino, e dà alla barca la spinta
per la partenza...
Il cammello fiuta l'acqua, allunga il collo, fa scricchiolare le giunture, si
tuffa, e si mette a nuotare dietro la barca con la sua gobba che galleggia
come una zucca, e il suo lungo collo che si erge sull'acqua come lo sperone di
una trireme. Barca e cammello arrivano insieme ai fianchi della nave.
Mi fa pena, quel dromedario! dice il capitano Barbassou, commosso. Quasi quasi
lo prendo a bordo... lo regalerò al giardino zoologico di Marsiglia.
Il cammello, appesantito dall'acqua di mare, viene issato a bordo a mezzo di
paranchi e di corde, e lo Zuavo parte.
I due giorni della traversata, Tartarino li passò in cabina, non perchè il
mare fosse cattivo, o perchè il fez fosse indisposto, ma perchè quel maledetto
cammello, ogni volta che il padrone faceva capolino sul ponte, gli dimostrava
delle attenzioni ridicole... Non si era mai visto un cammello così affettuoso!
Di ora in ora, dagli oblò della cabina, ai quali di tanto in tanto metteva il
naso Tartarino vide impallidire l'azzurro del cielo algerino; poi, finalmente,
una mattina, in mezzo a una nebbiolina argentea, sentì con gioia cantare tutte
le campane di Marsiglia. Erano arrivati... lo Zuavo gettò l'ancora.
Il nostro eroe, che non aveva bagagli, scese senza dir niente a nessuno,
attraversò in fretta Marsiglia, sempre temendo di essere inseguito dal
cammello, e non respirò che quando si trovò sistemato in un vagone di terza
classe che filava a tutto vapore verso Tarascona... Ingannevole sicurezza! A
due leghe appena da Marsiglia, tutte le teste dei viaggiatori si spenzolano
dai finestrini. Grida di stupore. Tartarino, a sua volta, si affaccia... e che
vede?... il cammello, signori miei, l'inevitabile cammello che galoppa
freneticamente tra i binari all'inseguimento del treno. Tartarino, costernato,
si rincantuccia nel suo angolo, chiudendo gli occhi.
Dopo la sua disastrosa spedizione, aveva sperato di poter ritornare a casa in
incognito. Ma la presenza di quell'ingombrante quadrupede rendeva la cosa
impossibile. Santo cielo, che ritorno era il suo! Senza un soldo, senza leoni,
niente... un cammello! Tarascona!... Tarascona! Bisognò scendere...
Oh stupore! Appena il fez dell'eroe fece capolino dallo sportello, un
fragoroso grido di: Viva Tartarino! fece tremare la volta a vetri della
stazione. Viva Tartarino! Viva l'uccisore di leoni! Ed ecco esplodere gli
squilli di una banda e le voci di un coro maschile... Tartarino si sentì
morire; pensò a uno scherzo di cattivo genere. Ma no! Tutta Tarascona era là,
che agitava i cappelli con entusiasmo. Ecco il valoroso comandante Bravida,
l'armaiolo Costecalde, il presidente, il farmacista, e tutto il nobile corpo
dei cacciatori di berretti che si accalcano intorno al loro capo, e lo portano
in trionfo lungo la scalinata...
Singolari effetti del miraggio! La pelle del leone cieco, spedita a Bravida,
era stata la causa di tutto. Con quella modesta pelle esposta al circolo, i
Tarasconesi, e dietro di loro tutto il Mezzogiorno della Francia, si erano
montati la testa. Il Sèmaphore ne aveva parlato. La fantasia aveva cominciato
a galoppare. Non era soltanto un leone che Tartarino aveva ucciso, erano dieci
leoni, venti leoni, una marmellata di leoni! Quando Tartarino era sbarcato a
Marsiglia, era già celebre senza saperlo, e un telegramma entusiasta lo aveva
preceduto di due ore nella sua città natale.
Ma il colmo dell'entusiasmo popolare fu raggiunto quando un favoloso animale,
coperto di polvere e di sudore, apparve dietro l'eroe e si mise a scendere
zoppicando la scalinata della stazione. Per un istante, Tarascona pensò che
fosse ritornata la sua Tarasque. Tartarino rassicurò i suoi concittadini.
E' il mio cammello, disse. E' già sotto l'influsso del sole tarasconese, quel
sole così bello che fa mentire candidamente, aggiunse, accarezzando la gobba
del dromedario: E' un nobile animale!... Mi ha visto uccidere tutti i miei
leoni. Detto questo, prese familiarmente il braccio al comandante, rosso di
gioia; poi, seguito dal cammello, circondato dai cacciatori di berretti,
acclamato da tutto il popolo, Tartarino si avviò tranquillamente verso la sua
villetta del baobab, e camminando, cominciò il racconto delle sue grandi
cacce: Figuratevi, diceva, che una certa sera, in pieno Sahara...
FINE.
ALPHONSE DAUDET.
TARTARINO SULLE ALPI.
Titolo originale: Tartarin sur les alpes.
Traduzione di Mario Mirandoli.
1. Apparizione al Rigi-Kulm.
Chi? Quel che si dice attorno a una tavola di
seicento coperti. Riso e prugne. Un ballo improvvisato. Lo sconosciuto segna il
suo nome sul registro dell'albergo. P.C.A.
Il dieci agosto 1880, all'ora favolosa di quel tramonto sulle Alpi tanto
decantata nelle guide Joanne e Baedeker, una fitta nebbia giallastra, resa
ancora più impenetrabile dai bianchi turbini della tormenta, avvolgeva la vetta
del Rigi e quel gigantesco albergo, così incredibile nell'aspro paesaggio delle
grandi cime, massiccio come una fortezza, tutto vetrate come un osservatorio,
dove usa sostare per un giorno e una notte la folla dei turisti che adorano il
sole.
In attesa del secondo gong del pranzo, i passeggeri dell'immenso e fastoso
caravanserraglio, esasperati nelle loro camere o sdraiati sui divani delle sale
di lettura all'umido tepore dei caloriferi accesi, guardavano, in mancanza dei
promessi splendori, il turbinio dei fiocchetti bianchi e l'accendersi davanti
allo scalone d'ingresso dei grandi lampadari i cui doppi vetri cigolavano al
vento.
Salire a quelle altezze, venire da ogni angolo del mondo per vedere un simile
spettacolo... Oh Baedeker!...
Improvvisamente qualcosa emerse dalla nebbia e avanzò verso l'albergo,
accompagnato da un tintinnio di ferraglie. A venti passi di distanza, tra la
neve, i turisti annoiati col naso contro i vetri, e le Miss dalle testine
acconciate alla maschietta, presero quell'apparizione per una mucca smarrita,
poi per uno stagnaio carico dei suoi arnesi.
A dieci passi, l'apparizione cambiò aspetto e parve quella di un arciere
medievale, con la balestra in spalla e l'elmo con la visiera abbassata,
apparizione ancora più inverosimile a quelle altitudini di una vacca smarrita o
di uno stagnaio ambulante.
Quando fu vicino allo scalone d'ingresso, l'arciere si era trasformato in un
uomo di grossa corporatura, tozzo e tarchiato, che si fermò a tirare il fiato e
a scrollarsi la neve dai gambali di panno giallo e dal passamontagna a maglia
che non lasciava intravedere del viso che qualche ciuffo di barba brizzolata e
un paio di enormi occhiali verdi, convessi come lenti di stereoscopio. La
piccozza, l'alpenstock, un sacco da montagna, un rotolo di corda a tracolla,
ramponi e ganci di ferro alla cintura di una giacca sportiva completavano
l'equipaggiamento di quel perfetto alpinista.
Sulle vette desolate del Monte Bianco o del Finsteraarhorn quella tenuta da
scalatore sarebbe stata normale, ma al Rigi-Kulm, a due passi dalla ferrovia! E'
vero che l'alpinista proveniva dal lato opposto della stazione, e che lo stato
dei suoi gambali testimoniava una lunga marcia tra la neve e il fango.
Per un istante guardò l'albergo e le sue dipendenze, stupefatto di trovare a
duemila metri sul livello del mare un edificio di tale mole, con gallerie a
vetri, colonnati; sette piani di finestre e il grande scalone d'ingresso tra due
file di globi luminosi, che davano a quella cima di montagna l'aspetto della
place de l'Opèra in un crepuscolo invernale.
Ma per quanto sorpreso, assai più sorpresi apparvero i clienti dell'albergo,
quando il nuovo arrivato fece il suo ingresso nella hall immensa: da tutte le
sale si affollarono gruppi di curiosi, signori armati di stecche da biliardo,
altri coi giornali in mano, signore con un libro o un lavoro mentre in fondo,
sopra la ringhiera dello scalone e tra le corde dell'ascensore, si sporgevano
delle teste.
L'uomo disse forte, con voce di basso profondo e con uno spiccato accento
meridionale: Mondo birbone, che tempo infame!
Poi si fermò, togliendosi berretto e occhiali. Soffocava. La luce violenta dei
lampadari, il calore del gas e dei caloriferi, in contrasto col buio e col
freddo di fuori, e poi quell'apparato fastoso, gli alti soffitti, i portieri in
grande uniforme con la scritta Regina Montium ricamata in oro sui berretti
d'ammiraglio, le cravatte bianche dei capocamerieri e il battaglione di ragazze
svizzere in costume nazionale accorse al suono di un campanello, tutto questo lo
stordì, ma solo per un secondo.
Capì di essere osservato, e di colpo riprese la padronanza di sè, come un attore
davanti al suo pubblico. Il signore desidera?
Era il direttore che si rivolgeva a lui a denti stretti; un direttore
elegantissimo, in giacca a righe, con le basette ben curate e l'aspetto di un
sarto da signora.
L'Alpinista, senza scomporsi, chiese una camera, una bella cameretta,
rivolgendosi confidenzialmente a quel maestoso direttore come se fosse stato un
vecchio compagno di collegio. Quando però la cameriera bernese, impettita nel
suo corpetto dorato con le maniche di tulle a, palloncino, gli si avvicinò con
la candela in mano, domandandogli se voleva prendere l'ascensore, l'Alpinista fu
sul punto di arrabbiarsi. La proposta di partecipare a un delitto non l'avrebbe
indignato di più.
Un ascensore, a lui! ... a lui!.... Il suo gesto e il suo grido fecero
tintinnare tutta la sua ferraglia. Poi, calmatosi all'improvviso, disse con
gentilezza alla svizzera: Pedibus calcantibus, bella mia! e salì dietro di lei.
La gente dovette scostarsi al suo passaggio, perchè la sua larga schiena
occupava tutta la larghezza della scala. Intanto tutto l'albergo era percorso
dal mormorio prolungato. Ma chi diamine sarà? pronunziato in tutte le lingue dei
quattro angoli della terra. Poi risuonò il secondo gong del pranzo, e più
nessuno si occupò di quello straordinario personaggio.
La sala da pranzo del Rigi-Kulm era un vero spettacolo. Seicento coperti si
allineavano intorno a un'immensa tavola a ferro di cavallo, dove delle coppe
ripiene di prugne cotte o di riso si alternavano in lunghe file tra piante
verdi, riflettendo nella loro salsa chiara o bruna le fiammelle dei candelabri e
le dorature del soffitto.
Come su tutte le tavole d'albergo svizzere, queste coppe di riso o di prugne
cotte, dividevano i commensali in due opposte fazioni, e bastavano gli sguardi
di odio o di cupidigia gettati in anticipo sulle coppe del dessert, per
indovinare a quale partito appartenessero i convitati.
Quelli della banda del riso si riconoscevano dal loro pallore emaciato, e quelli
della banda delle prugne dal colore congestionato del volto.
Quella sera erano questi ultimi ad essere in maggioranza; fra di loro erano le
personalità più in vista, vere celebrità europee, come il grande storico
Astier-Rèhu dell'Accademia di Francia, il barone de Stoltz, vecchio diplomatico
austro-ungarico, lord Chippendale, membro del Jockey-Club con sua nipote (uhm!
uhm!), l'illustre dott. prof. Schwanthaler dell'università di Bonn, un generale
peruviano con le sue otto signorine.
In paragone, la banda del riso non poteva vantare come grandi personaggi che un
senatore belga con la famiglia, la signora Schwanthaler, moglie del professore,
e un tenore italiano di ritorno dalla Russia, che ostentava sulla tovaglia dei
gemelli da polso grandi come piattini.
Era senza dubbio questa opposta doppia corrente a creare il disagio e la
freddezza della tavolata. Come spiegare altrimenti il silenzio di quelle
seicento persone impettite, arcigne, diffidenti, e il sovrano disprezzo che
sembravano manifestare le une verso le altre? Un osservatore superficiale
avrebbe potuto attribuirlo alla stupida altezzosità anglosassone di moda in
tutti i paesi del mondo, e che dava il tono alla classe dei ricchi turisti.
Ma no, non era così. Individui dal volto umano non arrivano ad odiarsi a prima
vista, e a dimostrarsi disprezzo col naso, con la bocca e con gli occhi, in
mancanza di una regolare presentazione. Ci doveva essere un altra ragione.
Riso e prugne, ve lo dico io. Così si spiega il cupo silenzio che pesava su
questo pranzo del Rigi-Kulm che, in proporzione al numero e alla varietà dei
convitati, avrebbe dovuto essere animato e turbolento come un pasto ai piedi
della Torre di Babele.
L'Alpinista entrò, un po' turbato davanti a quel refettorio da frati trappisti
in penitenza sotto la luce brillante dei lampadari, tossì rumorosamente senza
che nessuno si accorgesse di lui, e si sedette in fondo alla sala, al suo posto
di ultimo venuto. Sbarazzato del suo armamentario, aveva l'aspetto di un turista
qualunque, ma dall'espressione più cordiale; era calvo, panciuto, aveva una
folta barba a punta, un naso maestoso e folte sopracciglia feroci su uno sguardo
bonario. Riso o prugne? Ancora non si sapeva. Appena seduto, si agitò inquieto
poi balzò in piedi con aria allarmata: Accidenti! Qui c'è una corrente d'aria...
esclamò a voce alta, e si slanciò verso una sedia libera, ma che aveva la
spalliera appoggiata alla tavola.
Fu fermato da una svizzera di servizio, del cantone di Uri, che, con pettorina
bianca e catenella d'argento: Prego, signore, è occupata!
Ma dalla tavola, una signorina, di cui non riusciva a scorgere che la chioma
bionda e un collo candido come la neve, disse senza voltarsi e con accento
straniero: Quel posto è libero ... Mio fratello è malato, non scende a pranzo.
Malato? chiese l'Alpinista con aria premurosa, sedendosi. Niente di grave,
spero.
La giovane bionda rispose solo con uno sguardo raggelante d'un azzurro profondo,
come d'abisso. Il vicino di destra non era più incoraggiante; era il tenore
italiano un robusto giovanotto dalla fronte bassa, dalle pupille oleose, con
grandi baffi alla moschettiera che si arricciava rabbiosamente da quando
l'avevano separato dalla sua graziosa vicina. Purtroppo il buon Alpinista aveva
l'abitudine di parlare mangiando, altrimenti la sua salute ne soffriva.
Guarda che bei gemelli! disse a voce alta, sbirciando i polsini dell'italiano...
Quelle note musicali incise nel diaspro fanno un magnifico effetto.
La sua voce sonora vibrò nel silenzio, senza provocare la benchè minima eco.
Il signore è un cantante, vero?
«Non capisco! borbottò l'Italiano sotto i baffi.
Per un po il nostro eroe si rassegnò a divorare senza dir niente, ma i bocconi
lo strozzavano. Finalmente, poichè il suo commensale di fronte il diplomatico
austro-ungarico, cercava di afferrare il vasetto della mostarda con le sue
vecchie mani tremule coperte da mezzi guanti, glielo passò premurosamente.
Ai suoi ordini, signor barone... disse, avendo sentito che lo chiamavano così.
Purtroppo il povero signor de Stoltz, nonostante l'aria arguta e spiritosa che
aveva acquistato nelle complicate finezze del servizio diplomatico, aveva
perduto da tempo parole e idee, e viaggiava apposta per le montagne nella
speranza di ritrovarle.
Aprì i suoi occhi vacui su quella faccia sconosciuta, e li richiuse senza dir
niente. Ce ne sarebbero voluti dieci di vecchi diplomatici della sua tempra
intellettuale per escogitare, con uno sforzo comune, una formula di
ringraziamento. A questo nuovo insuccesso, l'Alpinista fece una smorfia
terribile, e il modo brusco con cui afferrò la bottiglia, avrebbe potuto far
sospettare che la volesse spaccare sulla testa di quel vecchio diplomatico
rimbecillito. Neanche per idea! Voleva semplicemente offrire da bere alla sua
vicina.
La fanciulla bionda non lo sentì nemmeno. Era intenta a parlottare in una lingua
straniera dalle inflessioni dolci e vivaci, con due giovanotti seduti vicini a
lei. Si chinava, si animava; la luce illuminava i suoi riccioli biondi che
sfioravano un orecchio minuto, roseo e trasparente... Polacca, russa, norvegese?
Certamente nordica; e all'uomo del Mezzogiorno tornò sulle labbra una graziosa
canzone del suo paese, che non esitò a mettersi a canterellare tranquillamente:
Gentile contessa, luce del Nord, la neve la inargenta, l'amor la veste d'or.
Tutta la tavolata si voltò, credendo che fosse impazzito. L'Alpinista arrossì,
chinò la testa sul piatto, e non la rialzò che per respingere con violenza una
delle sacre coppe che gli veniva offerta. Come? Ancora delle prugne cotte!...
Era troppo. Si sentì un gran rumore di seggiole smosse. L'accademico, lord
Chippendale, il professore di Bonn e altre notabilità della banda delle prugne
si alzarono, e abbandonarono la sala per protesta.
Anche la banda del riso li seguì quasi subito, dopo aver osservato che anche il
riso era stato respinto con la stessa energia. Nè riso nè prugne!... Allora?...
Tutti si ritirarono; una sfilata glaciale e silenziosa di nasi arricciati e di
bocche sdegnose passò davanti allo sventurato che, curvo sotto il disprezzo
universale, restò solo nell'immensa sala risplendente di luce, intento a
inzuppare il pane nel sugo all'uso paesano.
Amici miei, non disprezziamo nessuno. Il disprezzo è la risorsa dei nuovi
ricchi, dei posatori, dei deformi e degli sciocchi, è la maschera dietro la
quale si nasconde la nullità, la mancanza di spirito, qualche volta la
furfanteria.
Questo, il buon Alpinista lo sapeva. Avendo superato da qualche anno la
quarantina, quella soglia del quarto piano, dove l'uomo trova e raccoglie la
chiave magica della vita, ma essendo conscio, nello stesso tempo del proprio
valore, dell'importanza della sua missione e del suo gran nome, l'opinione di
quella gente lo lasciò del tutto indifferente. D'altronde gli sarebbe bastato
dire il suo nome, gridare: Sono io! per trasformare in ossequioso rispetto
l'espressione altezzosa di tutti quei musi; ma l'incognito lo divertiva.
L'unica sofferenza era quella di non poter chiacchierare, far rumore sfogarsi,
espandersi, dare strette di mano, appoggiarsi familiarmente a una spalla,
chiamare la gente per nome. Ecco quello che lo opprimeva al Rigl-Kulm. Ma
soprattutto, non poter chiacchierare!
Di sicuro, mi si seccherà la lingua. si diceva il poveretto, errando
sconsolatamente nell'albergo. Entrò nel bar, vasto e deserto come una chiesa in
un giorno di lavoro.
Chiamò il cameriere amico mio, ordinò un moca senza zucchero, mi raccomando, e
siccome il cameriere non gli domandava: perchè senza zucchero?, l'Alpinista si
affrettò ad aggiungere: E' un'abitudine che ho preso in Algeria, al tempo delle
mie cacce grosse.
Stava per iniziarne il racconto, ma l'altro si era già dileguato sulle sue
scarpette felpate per accorrere da lord Chippendale che, lungo sdraiato su un
divano, gridava con voce cavernosa: Tchempègne! Tchempègne! Il tappo saltò
esattamente come a un qualunque banchetto nuziale di periferia... e poi non si
sentirono che le raffiche del vento nel camino monumentale e il fruscìo della
neve gelata sui vetri delle finestre.
Anche la sala di lettura aveva un aspetto sinistro. Centinaia di persone
leggevano il giornale, con la testa china, intorno ai lunghi tavoli verdi
illuminati dalle lampade. Ogni tanto un sonoro sbadiglio, un colpo di tosse, il
fruscìo di una pagina; incombenti su quel silenzio da sala di studio, immobili
con la schiena appoggiata alla stufa, ambedue solenni, ambedue ammuffiti, si
ergevano i due pontefici della storiografia ufficiale, Schwanthaler e
Astier-Rèhu, che una singolare fatalità aveva messo in presenza l'uno dell'altro
in cima al Rigi, dopo che per trent'anni si erano ingiuriati e sbranati,
definendosi reciprocamente un: asino calzato e vestito, lo Schwanthaler, e: vir
ineptissimus, lo Astier-Rèhu.
Pensate che accoglienza ebbe il nostro gioviale Alpinista quando si avvicinò al
caminetto con l'intenzione di fare una chiacchieratina vicino al fuoco.
Dall'alto di quelle cariatidi piombò su di lui una di quelle correnti d'aria
gelida che tanto temeva; allora si mise a girellare per la sala un po' per darsi
un contegno un po' per riscaldarsi; poi aprì la biblioteca.
Vi si trovavano, abbandonati, alcuni romanzi inglesi mescolati a grosse Bibbie e
a volumi scompagnati del Club Alpino Svizzero; ne prese uno per portarselo in
camera, ma dovette lasciarlo alla porta, perchè il regolamento non permetteva
che i libri della biblioteca fossero portati in camera.
Allora, continuando a girovagare, socchiuse la porta del biliardo, dove il
tenore italiano stava giocando da solo, mettendo in mostra la sua figura e i
suoi polsini in onore della loro graziosa vicina di tavola, che sedeva tra due
giovanotti ai quali stava leggendo una lettera. Quando l'Alpinista entrò, la
fanciulla interruppe la lettura, e uno dei giovanotti si alzò.
Era il più alto dei due, una specie di mugik dalla faccia di mastino, coi
capelli lunghi e neri, gli occhi obliqui e la barba incolta. Avanzò verso il
nuovo venuto, e lo fissò con uno sguardo così provocante e offensivo, che il
buon Alpinista, senza chiedere spiegazioni, girò sui tacchi con prudenza e
dignità.
Sembra che al Nord, non siano troppo accoglienti... commentò ad alta voce, e
sbattè la porta per far vedere a quel selvaggio che non aveva paura.
Come ultimo rifugio, non gli restava che il salone; entrò... mondo cane!...
sembrava la camera mortuaria dove i buoni monaci del San Bernardo espongono i
disgraziati raccolti sotto la neve nei vari atteggiamenti in cui la morte bianca
li ha sorpresi. Tutte le signore rigide, mute, riunite in gruppo sui divani
circolari, o isolate, sedute qua e là. Tutte le Miss, immobili sotto le lampade
dei tavolinetti, sorprese dal gelo con in mano un album, una rivista, un ricamo;
fra loro le figlie del generale, le otto piccole peruviane color zafferano, i
cui volti irregolari e i nastri a colori vivaci degli abiti contrastavano col
colore lucertola della moda inglese... povere creature dei paesi caldi che si
immaginavano volentieri a dondolarsi e a fare smorfie in cima a un albero di
cocco, e che facevano pena più di tutti gli altri in quell'ambiente di mutismo e
congelamento generale.
In fondo, davanti al pianoforte, sedeva la macabra figura del vecchio
diplomatico, con le piccole mani guantate irrigidite sui tasti, e il volto che
rifletteva il colore giallastro della tastiera.
Tradito dalle forze e dalla memoria, smarrito in una polka di sua composizione
che ricominciava con lo stesso ritornello, ma di cui non era riuscito a
ricordarsi il finale, il povero Stoltz si era addormentato suonando, e insieme a
lui si erano addormentate tutte le signore del Rigi, che dondolavano nel sonno
le teste poeticamente adornate di ricciolini romantici.
L'arrivo dell'Alpinista non le risvegliò, e lui stesso stava per crollare su un
divano, vinto da un gelido scoraggiamento, quando degli accordi allegri e
vigorosi scoppiarono nell'atrio dell'albergo, dove tre suonatori ambulanti, con
arpa, flauto e violino, stavano sistemandosi coi loro strumenti.
Alle prime note, il nostro amico balzò in piedi, galvanizzato. Bravi, perbacco!
Avanti con la musica!
Ed eccolo che corre, spalanca le porte, fa festa ai suonatori, offre loro lo
champagne, ubriacandosi, senza bere, di quella musica che lo fa risuscitare.
Imita il trombone, imita l'arpa, schiocca le dita, rotea gli occhi e accenna
passi di danza, tra la stupefazione dei turisti accorsi in massa al frastuono.
Poi, bruscamente, all'avvio di un valzer di Strauss, che i suonatori esaltati
iniziano con la foga di veri zigani, l'Alpinista, notando all'ingresso della
sala la moglie del professor Schwanthaler, una piccola viennese grassoccia dallo
sguardo giovanile e malizioso sotto le chiome grigie incipriate, si slancia,
l'afferra per la vita e la trascina via, gridando agli altri: Coraggio! Avanti!
Ballate!
Il ghiaccio è rotto; tutto l'albergo si sgela e comincia a volteggiare
trascinato. Si balla nella hall, nel salone, intorno alla lunga tavola verde
della sala di lettura. Quel diavolo d'uomo ha messo a tutti la frenesia nelle
gambe. Lui, però, non balla più; dopo pochi giri ha il fiato grosso ma sorveglia
il ballo degli altri, incita i suonatori, accoppia i ballerini spinge il
professore di Bonn tra le braccia di una vecchia inglese, e la più piccante
delle peruviane tra quelle dell'austero Astier-Rèhu. Impossibile resistere. Da
quel formidabile Alpinista emanano degli effluvi misteriosi che esaltano e che
trascinano. E' finito il disprezzo, è sparito l'odio. Riso e prugne non esistono
più. Sono tutti ballerini. La follia si diffonde rapidamente, si propaga ai
piani superiori, e nell'enorme vano delle scale si vedono volteggiare sui
pianerottoli, fino al sesto piano, le rigide gonne colorate delle cameriere
svizzere di servizio.
Oh, che soffi pure il vento là fuori, faccia pure oscillare le lampade, vibrare
i fili del telegrafo, turbinare la neve sulla cima deserta. Qui dentro c'è
caldo, si sta bene, e ce n'è per tutta la notte.
Sarà meglio che vada a letto, si disse, a un certo momento, il buon Alpinista,
uomo prudente e di un paese in cui gli entusiasmi si accendono e si spengono con
grande facilità; sorridendo nella sua barba grigia, scivola via, evitando la
signora Schwanthaler che, da quel primo giro di valzer, si è appiccicata a lui e
vorrebbe sempre ballare, danzare...
Prende la chiave, il candeliere, poi si ferma un istante al primo piano per
gioire della sua opera e per osservare quella massa di gente compassata e gelida
che è riuscito a scongelare e a sgranchire...
Una cameriera svizzera si avvicina, ancora ansante per il ballo interrotto, e
gli presenta una penna e il registro dell'albergo. Prego, signore, vuole avere
la compiacenza di scrivere il suo nome?
L'Alpinista esita un momento. Deve o non deve mantenere l'incognito?
Che importa, dopo tutto? Anche supponendo che la notizia della sua presenza al
Rigi arrivi laggiù, nessuno saprà cosa è venuto a fare in Svizzera. E poi,
domattina, sarà così divertente lo stupore di tutti quando lo sapranno! Quella
ragazza, certamente, non starà zitta... che sorpresa per tutto l'albergo, che
colpo!...
Ma come? avrebbero esclamato. Era proprio lui... lui!
Queste riflessioni gli passarono per la testa, rapide e vibranti come i colpi
d'archetto di un violino. Prese la penna, e con mano indifferente, sotto i nomi
di Astier-Rèhu, di Schwanthaler, e di altri nomi illustri, scrisse quel nome che
li eclissava tutti: il suo nome. Poi salì in camera, senza nemmeno voltarsi
indietro, tanto era sicuro dell'effetto. Quando si fu allontanato, la ragazza
svizzera guardò: e sotto: TARTARINO DI TARASCONA P. C. A.
La Bernese lesse, e non rimase affatto sbalordita. Non sapeva cosa volesse dire
P.C.A. e non aveva mai sentito parlare di Tartarino. Che ignorante!
2. Tarascona, cinque minuti di fermata, Il Club degli Alpini, Spiegazione del
P.C.A., Conigli selvatici e conigli domestici, Questo è il mio testamento,
Sciroppo di cadavere, Prima ascensione, Tartarino inforca gli occhiali.
Quando il nome di Tarascona viene gridato come una fanfara sulla linea
ferroviaria Paris-Lyon-Mèditerranèe nell'azzurro limpido e luminoso del cielo
provenzale, molte teste curiose si affacciano agli sportelli del treno, e di
vagone in vagone i viaggiatori esclamano: Ah, ecco Tarascona... vediamo un po'
questa Tarascona.
Quello che si vede non ha, a dire il vero, niente di straordinario. E' una
cittadina tranquilla e civettuola, con delle torri, dei tetti e un ponte sul
Rodano. Ma quello che rende famoso questo angolo di mondo e interessa i
viaggiatori di passaggio, è il sole tarasconese coi suoi prodigiosi effetti di
miraggio, così fecondi di sorprese, di invenzioni, e di bizzarrie deliranti; e
la sua popolazione allegra, irrequieta, chiacchierona, comica e impressionabile,
che riassume e riflette in sè gli istinti di tutto il Mezzogiorno francese.
In alcune memorabili pagine, che la modestia gli impedisce di ricordare più
diffusamente, lo storico di Tarascona, ha già provato a descrivere la vita
felice della cittadinanza, che passa le giornate frequentando il Circolo,
cantando romanze (ognuno la sua) e, in mancanza di selvaggina, organizzando
delle divertenti cacce al berretto.
Ma col passare degli anni, e con una guerra di mezzo, molte cose sono cambiate a
Tarascona. Anche il Circolo. Lo stesso vecchio Circolo, rifiutando le solite
partite a carte, si è trasformato in Club Alpino, sulle orme del famoso Alpine
Club di Londra che ha portato fino in India la fama dei suoi scalatori.
Con questa differenza, che i Tarasconesi, invece di andare all'estero alla
conquista di cime straniere, si sono accontentati di quello che avevano
sottomano, o per meglio dire, sottopiede, alle porte della città.
Le Alpi di Tarascona?... No, ma le Alpine, quella catena di collinette profumate
di lavanda e di timo, nè troppo imponenti nè troppo elevate (da 150 a 200 metri
sul livello del mare), che, a chi percorre le strade provenzali, appaiono come
un dolce digradare di ondulazioni azzurre, e che la fantasia locale ha
battezzato con nomi favolosi e caratteristici: Il Monte Terribile, La Cima del
Mondo, Il Picco dei Giganti, ecc.
E' un piacere vedere, la domenica mattina, i Tarasconesi in ghette, muniti di
piccozza, di tenda e di sacco da montagna, partire con la fanfara in testa per
delle escursioni che il giornale locale, il Forum, descrive con ricchezza di
particolari e abbondanza di aggettivi, come: abissi, gole, crepacci spaventosi,
degni di un'ascensione sull'Himalaya. Il fatto è che con questo nuovo esercizio,
gli abitanti del luogo hanno acquistato nuove forze e quei muscoli doppi che un
tempo erano prerogativa del solo Tartarino, il buono, il bravo, l'eroico
Tartarino.
Se Tarascona rappresenta il Meridione, Tartarino rappresenta Tarascona. Non
soltanto è il primo cittadino della città, ma ne è l'anima, il genio, e ne ha
anche tutte le pecche. Conosciamo i suoi trionfi di cantante (oh, il duetto di
Roberto il Diavolo alla farmacia Bèzuquet!) e la straordinaria odissea delle sue
cacce al leone, dalle quali riportò quel magnifico cammello, l'ultimo cammello
d'Algeria, morto in seguito carico di onori e di anni, e il cui scheletro è
conservato nel museo della città tra le curiosità tarasconesi.
Tartarino è sempre lo stesso, ha sempre buoni denti e buona vista nonostante la
cinquantina, ed è sempre dotato di quella formidabile immaginazione che
ingrandisce gli oggetti con la potenza di un telescopio. E' rimasto colui del
quale il valoroso comandante Bravida diceva: E' un coniglio...
Non uno, ma due conigli, piuttosto. Poichè in Tartarino, come in tutti i
Tarasconesi, vivono, con caratteri nettamente accentuati, la razza del coniglio
domestico e quella del coniglio selvatico; il coniglio selvatico, avventuroso,
giramondo, rompicollo; e il coniglio domestico, tutto casa e tisane,
terrorizzato dagli strapazzi, dalle correnti d'aria e da qualsiasi incidente che
possa procurare la morte.
Sappiamo che questa sua prudenza non gli impediva di mostrarsi coraggioso e,
all'occorrenza, anche eroico, ma vien fatto di domandarci cosa diavolo era
venuto a fare sul Rigi (Regina Montium) alla sua età e dopo avere acquistato a
caro prezzo il diritto al riposo e al benessere.
A questa domanda, solo l'infame Costecalde avrebbe potuto rispondere. L'armaiolo
Costecalde rappresenta un tipo molto raro a Tarascona. L'invidia, un'invidia
vile e meschina, si rivela in lui in una piega maligna delle labbra sottili e
nel colorito giallastro e fegatoso del viso rasato dai lineamenti regolari
profondamente incisi, come una vecchia medaglia di Tiberio o di Caracalla.
L'invidia è per lui una malattia che non tenta nemmeno di nascondere; col suo
esuberante carattere tarasconese, egli non esita a confessare, parlando della
sua infermità: Se sapeste quanto mi fa soffrire...
Naturalmente, la causa di tutto è Tartarino. Tutta la gloria solo per lui!
Sempre lui, lui dappertutto! E lentamente, subdolamente, come una termite che
rode il legno dorato di un idolo, da più di vent'anni egli tenta di scalzare
dall'interno questa gloria trionfante. Quando la sera, al Circolo, Tartarino
raccontava i suoi appostamenti al leone e le sue traversate del Sahara,
Costecalde ridacchiava tra sè, scuotendo la testa con aria incredula.
Ma le pelli, Costecalde, come le spieghi?... Quelle pelli di leone che sono là,
nella sala del Circolo?...
Cosa credete? Che in Algeria non ci siano pellicciai?
Ma i fori delle pallottole, belli tondi, nella testa?
Ma non vi ricordate che al tempo della caccia ai berretti, i nostri cappellai
vendevano dei berretti già forati per i cacciatori maldestri?
Naturalmente, la fama di Tartarino, cacciatore di belve, restava al di sopra di
qualsiasi insinuazione maligna, ma come alpinista il suo comportamento si
prestava alle critiche, e Costecalde non ne lasciava passare nemmeno una,
furioso che avessero nominato presidente del Club Alpino un uomo appesantito
dall'età, che aveva l'abitudine, presa in Algeria, di stare in pantofole e di
avvolgersi pigramente in ampie vestaglie.
In realtà, Tartarino prendeva raramente parte alle ascensioni; si limitava ad
accompagnarle coi suoi voti, e a leggerne i resoconti nelle grandi riunioni,
accompagnando la lettura col roteare degli occhi e con delle intonazioni
tragiche che facevano impallidire le signore.
Costecalde, invece, magro e nervoso, soprannominato gamba di gallo, si
arrampicava sempre in testa; aveva scalato una per una tutte le Alpine, e aveva
piantato la bandiera del Club, con la Tarasca stellata d'argento, su quelle
inaccessibili vette. Eppure non era che vice-presidente, V.P.C.A. Ma stava
lavorando così bene, che alle prossime elezioni, la poltrona di Tartarino
sarebbe certamente saltata.
Avvertito di questi maneggi dai suoi fedeli, il farmacista Bèzuquet,
Excourbaniès e il valoroso comandante Bravida, l'eroe fu preso da un profondo
disgusto e da quell'accoramento che l'ingratitudine e l'ingiustizia suscitano
nelle anime oneste. Pensò di piantare tutto, di espatriare, di andare a vivere a
Beaucaire, dai Volsci; ma poi, si calmò.
Abbandonare la sua villetta, il suo giardino, le sue care abitudini; rinunziare
alla poltrona di presidente del Club Alpino, da lui stesso fondato a quel
maestoso P.C.A. col quale poteva fregiare i suoi biglietti da visita la sua
carta da lettere e persino la fodera del cappello? Non era assolutamente
possibile! E all'improvviso gli venne un'idea formidabile. In definitiva, le
gesta di Costecalde si limitavano a delle passeggiate sulle Alpine. Chi impediva
a Tartarino, nei tre mesi che lo separavano dalle elezioni, di cimentarsi in
qualche grandiosa impresa? Piantare, ad esempio, l'insegna del Club su una delle
più alte cime d'Europa, la Jungfrau o il Monte Bianco? Quale trionfo, al suo
ritorno! Che schiaffo per Costecalde, quando il Forum avrebbe pubblicato il
resoconto dell'ascensione! Come avrebbe potuto, dopo questa impresa, disputargli
il seggio?
Si mise subito all'opera; fece venire di nascosto da Parigi numerosi trattati
speciali: la Ascensioni di Whymper, I Ghiacciai di Tyndall, il Monte Bianco di
Stèphen d'Arve, e alcune relazioni del Club Alpino inglese e di quello svizzero;
si imbottì il cervello di espressioni alpinistiche: camini, corridoi, nevai,
seracchi, appigli, morene, marmitte, senza sapere esattamente cosa
significassero.
La notte ebbe incubi spaventosi di interminabili sdruccioloni e di improvvise
cadute in crepacci senza fondo. Sognava di essere investito dalle valanghe e di
essere trafitto dalle punte del ghiaccio; e anche dopo il risveglio e la tazza
di cioccolata che aveva l'abitudine di prendere a letto tutte le mattine, veniva
attanagliato dall'angoscia e dall'oppressione di quegli incubi. Questo non gli
impediva, una volta alzato, di dedicare tutta la mattinata a faticosi esercizi
di allenamento. Tarascona è circondata da un viale alberato che nel dizionario
locale viene chiamato Circonvallazione della città. Ogni domenica, nel
pomeriggio, i Tarasconesi, tipi abitudinari nonostante la loro fantasia, fanno
regolarmente il loro giro della città, e sempre nello stesso senso. Tartarino si
allenò facendolo otto, dieci volte in una mattinata, e spesso in senso inverso.
Camminava con le mani dietro la schiena, a passi di montanaro lenti e sicuri, e
i bottegai, disorientati da queste infrazioni alle abitudini locali, si
lambiccavano il cervello e facevano mille supposizioni.
A casa sua, nel suo giardinetto esotico, si addestrava a superare i crepacci
saltando al di là della vasca, dove scodinzolavano alcuni pesciolini, ma per due
volte di seguito ci cadde dentro, e fu obbligato a cambiarsi. Questi insuccessi,
invece di scoraggiarlo, lo eccitavano, e per vincere le vertigini camminava in
equilibrio sullo stretto muro di cinta, con grande spavento della sua vecchia
governante che non riusciva a capire la ragione di tutte quelle stravaganze.
Nel frattempo aveva ordinato a un esperto fabbro di Avignone dei ramponi sistema
Whymper e una piccozza tipo Kennedy; si procurò, inoltre, una lampada da
minatori, due coperte impermeabili, e settanta metri di una corda di sua
invenzione, intrecciata di fili di ferro.
L'arrivo di tutti questi oggetti, e il misterioso andirivieni che aveva
richiesto la loro fabbricazione, suscitarono la curiosità dei Tarasconesi;
in città si diceva: Il Presidente prepara un colpo. Ma quale? Qualcosa di
grosso, senza dubbio. Anche il valoroso comandante Bravida, capitano della
sussistenza a riposo, che parlava sempre citando proverbi, sentenziò: L'aquila
non va a caccia di mosche.
Anche coi più intimi, Tartarino restava impenetrabile: ma alle sedute del Club,
si era notato un fremito nella sua voce e un lampo nei suoi occhi quando
rivolgeva la parola a Costecalde, la causa indiretta di questa spedizione di cui
vedeva aumentare, via via che se ne avvicinava l'inizio, i disagi e i pericoli.
Lo sventurato non se li nascondeva, anzi, se li immaginava sempre più gravi,
tanto da pensare che fosse indispensabile, prima di partire, mettere in ordine i
suoi affari e scrivere le sue ultime volontà, cosa che secca moltissimo ai
Tarasconesi, tutti così amanti della vita, da morire quasi sempre senza lasciare
testamento.
Fate uno sforzo di fantasia e provate a immaginarvi, in una splendida mattina di
giugno, Tartarino nel suo studio, in pantofole e con addosso I suoi comodi
vestiti di flanella che, tranquillo e beato, e con la pipa in bocca, scrive,
leggendo ad alta voce: Questo è il mio testamento.
Diciamo la verità, anche per un cuore solido e ben equilibrato, questi sono
momenti terribili. Eppure, nè la sua mano nè la sua voce tremarono, mentre
distribuiva ai suoi concittadini tutte le ricchezze etnografiche accumulate
nella sua villetta, accuratamente spolverate e mantenute in perfetto ordine: Al
Club Alpino, il baobab (arbor gigantea), perchè sia messo in mostra sul
caminetto della sala delle riunioni. A Bravida, le carabine, le rivoltelle, i
coltelli da caccia, i kriss malesi i tomahawks, e le altre armi micidiali. A
Excourbaniès, tutte le pipe, i narghilè, i calumet e le pipette per fumare il
kif e l'oppio.
A Costecalde (sì, proprio a Costecalde in persona) le famose frecce avvelenate
(non toccare!).
Chissà, forse in quel lascito c'era la segreta speranza che il traditore si
ferisse mortalmente... ma niente di ciò trapelava dal tono del testamento, che
si chiudeva con queste parole di sovrana dolcezza: Prego i miei cari amici
alpinisti di non dimenticare il loro presidente... desidero che perdonino al mio
nemico, come io gli perdono, benchè sia stato lui la causa della mia morte...
A questo punto, Tartarino fu costretto a interrompersi, accecato dalle lacrime.
Per un momento egli si vide maciullato, fatto a pezzi ai piedi di un alta
montagna, e i suoi resti caricati su un carretto e riportati a Tarascona. Oh,
forza della fantasia provenzale! Egli assisteva al suo funerale, udiva i canti
funebri, i discorsi sulla sua tomba: Povero Tartarino, che disgrazia! e perduto
nella folla dei suoi amici, piangeva su se stesso.
Ma fu un attimo. Alla vista del suo studio pieno di sole, dove luccicavano le
armi e si allineavano le pipe, e ascoltando il mormorio dello zampillo nella
vasca, riprese contatto con la realtà. In fin dei conti, perchè morire? Perchè
partire? Chi glielo faceva fare? Quale sciocco amor proprio? Perchè rischiare la
vita per una poltrona di presidente e per tre iniziali?...
Ma fu solo un istante di debolezza che passò in un attimo. In cinque minuti il
testamento fu completato, firmato, sigillato con un gran bollo di ceralacca
nera, e il grand'uomo era già indaffarato negli ultimi preparativi. Ancora una
volta, il Tartarino selvatico aveva trionfato sul Tartarino domestico.
La sera di quello stesso giorno, mentre l'ultimo colpo delle dieci batteva
all'orologio del municipio, mentre nelle strade buie e già deserte si udiva solo
il rumore di qualche ritardatario che bussava alla porta di casa, Tartarino,
carico di coperte e con una valigia in mano, entrò improvvisamente nella
farmacia Bèzuquet. Il suo viso era così pallido e stravolto che il farmacista,
con quella focosa immaginazione locale che l'esercizio della sua professione non
aveva modificato, pensò subito a qualche tragico incidente.
Disgraziato!... che le è successo? Si è avvelenato? E si precipitò a rovistare
tra i suoi flaconi in cerca di un rimedio. Tartarino lo bloccò, afferrandolo per
la vita. Mi stia a sentire, perdiana! e nella sua voce vibrava il dispetto
dell'attore che è stato defraudato di una bella entrata in scena. Il farmacista,
immobilizzato da quelle braccia di ferro, si sentì bisbigliare nell'orecchio:
Siamo soli, Bèzuquet?
Sì rispose, guardandosi intorno, timoroso. Pascalon è a letto, (Pascalon era il
suo aiutante), la mamma anche. Perchè?
Chiuda le imposte ordinò Tartarino, senza rispondere alla domanda. Ci potrebbero
vedere.
Bèzuquet obbedì tremando. Vecchio scapolo (viveva con la madre che non aveva mai
lasciato), era di una timidezza e di una dolcezza di fanciulla, atteggiamento
che contrastava col suo colorito bruno, le sue labbra tumide, il suo gran naso
adunco, i suoi baffoni prepotenti, con una faccia, insomma, di pirata algerino.
Questi contrasti sono frequenti a Tarascona, dove le teste hanno i caratteri
troppo marcati; sono teste romane, saracene, ottime per fare da modello ai
pittori, ma che contrastano con le attività borghesi e le abitudini pacifiche
della cittadinanza.
Excourbaniès, per esempio, che ha la faccia di un conquistador al seguito di
Pizarro, è un semplice merciaio che rotea due occhi fiammeggianti nel vendere
due soldi di refe, e Bèzuquet, quando attacca le etichette ai flaconi degli
sciroppi, sembra un vecchio pirata delle coste di Barberia.
Quando le imposte furono chiuse e sprangate con paletti e sbarre di ferro:
Senta, Ferdinando cominciò Tartarino, a cui piaceva chiamare la gente per nome,
e si sfogò, aprì il suo cuore colmo di rancore per l'ingratitudine dei suoi
concittadini, alluse alle subdole manovre di Gamba di Gallo, accennò al tiro che
volevano giocargli alle prossime elezioni, e rivelò il piano che aveva
escogitato per parare il colpo. Prima di tutto, era necessario mantenere il
massimo segreto, e non rivelare la cosa che al preciso momento in cui si sarebbe
delineato il successo dell'impresa, a meno che un incidente... non si sa mai...
una di quelle orribili catastrofi.
Ma insomma, Bèzuquet, non fischi in questo modo mentre le parlo.
Era uno dei tic del farmacista. Poco loquace di natura, fatto molto raro a
Tarascona e che gli valeva la fiducia del presidente, aveva il vizio di
fischiettare di continuo con le sue grosse labbra atteggiate a O, e persino nei
colloqui più gravi aveva l'aria di infischiarsi del mondo intero.
E mentre l'eroe, alludendo alla sua eventuale scomparsa, posava sul banco il suo
grande plico sigillato dicendo: Queste, Bèzuquet, sono le mie ultime volontà, ho
scelto lei come esecutore testamentario.
Fiii... Fiii... Fiii... zufolava il farmacista, in preda al suo tic, ma in
realtà molto commosso e compreso dell'importanza del suo ruolo. Poi,
avvicinandosi l'ora del distacco, volle bere al successo dell'impresa: Un
goccetto di qualcosa di buono, no?... un bicchierino di elisir di Garus?
Dopo aver aperto ed esplorato parecchi scaffali, si ricordò che le chiavi del
Garus le aveva la mamma. Bisognava svegliarla, dirle chi c'era. Si fece a meno
dell'elisir, e ci si accontentò di un bicchiere di Sciroppo di Calabria, bibita
estiva, innocua e modesta inventata dallo stesso Bèzuquet, e reclamizzata dal
Forum con le seguenti parole: Sciroppo di Calabria, dieci soldi la bottiglia,
vetro compreso.
Sciroppo di Cadavere, vermi compresi, commentava il diabolico Costecalde, In
poichè in francese verre (vetro) e vers (vermi) si pronunziano nello stesso
modo, rendendo così più efficace il gioco di parole, sempre pronto a sputare
veleno sui successi degli altri, senza immaginare che con quel macabro gioco di
parole non avrebbe fatto altro che incrementare le vendite di quello sciroppo e
farlo diventare popolarissimo tra i Tarasconesi.
Finite le libagioni, scambiate le ultime parole, i due si abbracciarono non
senza che Bèzuquet seguitasse a fischiettare tra i baffi bagnati di lacrime.
Addio, amico! esclamò Tartarino bruscamente, sentendo che anche lui stava per
scoppiare in lacrime, e poichè la serranda era abbassata a metà, fu costretto a
uscire camminando carponi. Era la prima difficoltà dell'impresa.
Tre giorni dopo, arrivava a Vitznau, ai piedi del Rigi. Come esercizio di
allenamento, e come prima ascensione di montagna, il Rigi l'aveva tentato a
causa della sua modesta altitudine (1800 metri, circa dieci volte quella del
Monte Terribile delle Alpine) e anche a causa dello splendido panorama che si
gode dalla sua cima.
Certo di essere riconosciuto durante il viaggio, e forse anche seguìto, perchè
convinto di essere celebre in tutta la Francia come lo era a Tarascona, aveva
compiuto un grande giro per entrare in Svizzera, e non si era equipaggiato che
vicino alla frontiera; e aveva fatto bene, perchè un vagone francese non avrebbe
mai contenuto tutto il suo armamentario.
Ma pur comodi che siano gli scompartimenti svizzeri, l'Alpinista, impacciato da
tutti quegli arnesi a cui non era ancora abituato, schiacciava i piedi alla
gente con la punta del suo alpenstock, arpionava i vicini coi suoi ramponi, e
dovunque entrasse, nelle stazioni, negli ingressi degli alberghi o nei battelli,
sollevava non solo meraviglia, ma provocava imprecazioni e sguardi ostili che
non sapeva come spiegare e che facevano soffrire la sua indole cordiale e
comunicativa. Per colmo di disgrazia, da un cielo grigio e gonfio di nuvole
cadeva una pioggia incessante.
Pioveva a Basilea sulle casette bianche lavate e rilavate dalla mano delle
domestiche e dall'acqua del cielo, pioveva a Lucerna sul molo d'imbarco dove
bauli e valige sembravano i relitti di un naufragio, e quando giunse alla
stazione di Vitznau, in riva al lago dei Quattro Cantoni, lo stesso diluvio si
rovesciava sui fianchi verdi del Rigi. Nubi nere si accavallavano sulla cima
della montagna, torrenti d'acqua si riversavano sulle rocce sollevando alti
spruzzi, cascatelle si formavano tra i massi e da ogni ago di pino gocciolava la
pioggia. Mai il Tarasconese aveva visto tanta acqua.
Entrò in un albergo, ordinò un caffellatte con miele e burro, le sole cose buone
gustate durante il viaggio; poi, sentendosi ristorato, e dopo essersi forbito la
barba impiastricciata di miele con un angolo della salvietta, si accinse a
tentare la sua prima ascensione.
Per favore domandò mettendosi il sacco in spalla quanto tempo ci vuole per
salire al Rigi?
Un'ora, un'ora e un quarto. Ma si deve affrettare, signore, il treno parte tra
cinque minuti.
Un treno per il Rigi? Ma lei scherza!
Dalla vetrata gli indicarono il treno in partenza. Era formato da due vagoni
coperti senza sportelli, spinti da una locomotiva corta e panciuta come una
marmitta, un insetto mostruoso che si inerpicava ansimando sulle vertiginose
pendici della montagna.
I due Tartarini, quello avventuroso e quello casalingo, si ribellarono insieme
all'idea di salire su quell'orrendo meccanismo. Il primo trovava ridicolo quel
sistema di salire le Alpi in ascensore; quanto al secondo, quei ponti aerei
gettati sugli abissi, con la prospettiva di fare un volo di mille metri al più
piccolo deragliamento, gli ispiravano le più tristi riflessioni, giustificate
dalla presenza del piccolo cimitero di Vitznau, le cui bianche tombe si
raggruppavano ai piedi della montagna.
Ci salirò a piedi! decise il gagliardo Tarasconese. Mi servirà di allenamento,
perdiana!
Ed eccolo partire, preoccupato della manovra del suo alpenstock, davanti al
personale dell'albergo, accorso sulla porta a gridargli delle indicazioni sulla
via da seguire, che non ascoltava nemmeno. Da principio prese per una stradina
in salita selciata con sassi ineguali e appuntiti come se ne trovano nel
Mezzogiorno, fiancheggiata da canaletti scavati nel legno per lo scolo
dell'acqua piovana. A destra e a sinistra si stendevano ampi frutteti, e grasse
praterie umide attraversate da canaletti per l'irrigazione.
L'acqua scrosciava scendendo dall'alto della montagna, e ogni volta che la
piccozza dell'Alpinista si impigliava nei rami bassi di una quercia o di un
noce, il suo berretto crepitava come sotto lo zampillo di un annaffiatoio.
Che acqua, perdiana! sospirava l'uomo del Mezzogiorno. Fu ancora peggio quando
il selciato finì bruscamente, e Tartarino fu costretto a diguazzare in mezzo al
torrente, e a balzare da un sasso all'altro per non bagnarsi completamente le
ghette. La pioggia continuava a cadère, e diventava sempre più fredda via via
che saliva. Ogni volta che si fermava a riprender fiato, si sentiva sommerso da
un immenso scroscio d'acqua, e quando si voltava indietro, vedeva le nubi
abbassarsi sul lago, e attraverso le brillanti cortine di pioggia, apparire le
casette di Vitznau come giocattoli verniciati di fresco.
Uomini e bambini passavano accanto a lui a testa bassa, la schiena curva sotto
una gerla di legno bianco che conteneva le provviste destinate alle pensioni e
alle ville dai balconi di legno intagliato che si scorgevano a mezza costa.
Rigi-Kulm? chiedeva Tartarino per essere sicuro di non sbagliare strada. Ma il
suo strano equipaggiamento, e soprattutto il passamontagna che gli nascondeva il
viso, suscitavano spavento, e tutti, spalancando gli occhi, affrettavano il
passo senza dargli ascolto.
Presto gli incontri divennero più radi; l'ultimo essere umano che vide fu una
vecchia che faceva il bucato in un tronco d'albero, riparandosi dalla pioggia
sotto un enorme ombrello rosso piantato per terra.
Rigi-Kulm? chiese l'Alpinista.
La vecchia volse verso di lui un viso terroso e idiota, con un gozzo che le
ciondolava nel collo come il campanaccio di una mucca svizzera; poi, dopo averlo
squadrato a lungo, scoppiò in una risata irrefrenabile che le allargava la bocca
fino agli orecchi e le circondava di rughe gli occhietti socchiusi; ogni volta
che riapriva gli occhi, la vista di Tartarino con la piccozza in spalla, faceva
raddoppiare la sua ilarità.
Tuoni e fulmini! brontolò il Tarasconese hai la fortuna di esser donna... poi,
fumante di collera, continuò la sua strada e si smarrì in un'abetina dove i suoi
scarponi scivolavano sul muschio bagnato.
Il paesaggio era cambiato; non più sentieri, alberi, pascoli... solo tristi
declivi nudi, rocce che egli scalava carponi per paura di cadere, pozze di melma
giallastra che attraversava lentamente tastando il terreno con l'alpenstock,
alzando i piedi come un arrotino. Ogni momento consultava la bussola appesa alla
catena dell'orologio, ma fosse l'altitudine, fossero le variazioni della
temperatura, l'ago sembrava impazzito. Non c'era possibilità di orientarsi con
quella fitta nebbia gialla che gli impediva di vedere a dieci passi di distanza,
e che, a un dato momento, venne attraversata da una tormenta di nevischio che
rese la salita sempre più faticosa.
Ad un tratto si fermò: il suolo si imbiancava lievemente davanti a lui...
Attenzione agli occhi!... Era arrivato alla regione delle nevi... Tolse
immediatamente gli occhiali dalla custodia e li inforcò saldamente. Il momento
era solenne. Un po' emozionato, ma orgoglioso di sè Tartarino pensò di aver
fatto di colpo un balzo di mille metri verso le grandi cime e i grandi pericoli.
Avanzò con grande precauzione, per la paura dei crepacci e dei precipizi, come
aveva letto nei libri, e maledicendo in fondo al cuore il personale dell'albergo
che gli aveva consigliato di salire sempre diritto e senza guida.
Poteva anche aver sbagliato montagna! Era più di sei ore che camminava, e per il
Rigi bastavano tre ore. Il vento soffiava, un vento freddo che faceva turbinare
la neve nel grigiore del crepuscolo.
Stava per scendere la notte. Dove trovare un rifugio, o almeno la sporgenza di
una roccia per potersi riparare? Improvvisamente vide davanti a sè, su una
radura nuda e selvaggia, una specie di canotto di legno su cui era scritto in
lettere gigantesche che riuscì a decifrare con difficoltà: FO ... TO ... GRA ...
FIE ... DEL ... RI ... GI ... KULM.
Nel medesimo istante, gli apparve a pochi passi di distanza la mole immensa
dell'albergo dalle trecento finestre, mentre la luce delle lampade appariva
festosamente nella nebbia.
3. Allarme sul Rigi, Sangue freddo! Sangue freddo! Il Corno delle Alpi, Quello
che Tartarino vide nello specchio, Perplessità, Si chiama una guida per
telefono.
Chi è? Che succede?... disse il Tarasconese a orecchi tesi e gli occhi
spalancati nel buio. Si sentiva un correre di passi per tutto l'albergo, porte
che sbattevano, respiri affannosi, voci di: Affrettatevi!, mentre dall'esterno
venivano dei richiami di tromba, e fiammate improvvise illuminavano i vetri e le
tende delle finestre. Il fuoco!
Saltò dal letto, si vestì e si calzò in un lampo, scese a precipizio le scale
ancora illuminate, lungo le quali scendeva uno sciame rumoroso di Miss
imbacuccate alla meglio in scialli verdi, in corpetti di lana rossa, in
qualsiasi indumento che fosse loro capitato sotto mano.
Tartarino, per farsi coraggio e per far coraggio a quelle signorine, correva
urtando tutti e urlava: Sangue freddo! Sangue freddo! con una voce lugubre e
strozzata, una di quelle voci che si sentono negli incubi, e che fanno venire la
pelle d'oca ai più coraggiosi. Non sorprende che quelle ragazzine lo trovassero
buffo, e ridessero di lui. A quell'età non ci si rende conto dei pericoli!
Fortunatamente, dietro di loro veniva il vecchio diplomatico vestito
sommariamente con un soprabito che non riusciva a nascondere un paio di mutande
bianche e i nastri relativi. Un uomo, finalmente!...
Tartarino si precipitò verso di lui, gesticolando. Ah, signor barone, che
disgrazia!... Lei sa qualcosa?... Dove è successo?... Come ha preso?
Chi? Cosa?... balbettò il barone, stordito, senza capir niente. Ma il fuoco...
Quale fuoco? Il poveraccio aveva un aspetto così depresso e rimbecillito, che
Tartarino lo abbandonò al suo destino, slanciandosi fuori per organizzare i
soccorsi...
Soccorsi! ripeteva il barone, e insieme a lui cinque camerieri che dormivano in
piedi nell'ingresso, e che si guardarono sbalorditi... soccorsi?...
Appena fuori, Tartarino si accorse del suo errore. Non c'era nessun incendio.
Faceva un freddo cane, e la notte profonda era appena rischiarata da alcune
torce di resina che venivano agitate qua e là e che proiettavano sulla neve dei
riflessi sanguigni.
In fondo allo scalone, un suonatore di corno alpino muggiva lamentosamente,
emettendo dal suo strumento un monotono ranz, il richiamo di tre note per le
mucche, col quale al Rigi-Kulm vengono svegliati gli adoratori del sole per
annunziare loro l'imminente apparire dell'astro.
Per orientarsi, Tartarino non aveva che da seguire gli scoppi di risa delle Miss
che passavano accanto a lui. Ma camminava più lentamente, ancora insonnolito e
con le gambe pesanti per le sue sei ore di ascensione.
Sei tu, Manilof?... disse improvvisamente nel buio una limpida voce di donna.
Aiutami, ti prego... ho perduto una scarpa.
Tartarino riconobbe il cinguettante accento straniero della sua piccola vicina
di tavola, e cercò di distinguere la sua sottile figura nel pallido riflesso
bianco della neve. Non sono Manilof, signorina, ma se posso esserle utile...
La fanciulla lanciò un piccolo grido di sorpresa e di paura, e fece l'atto di
fuggire, ma Tartarino non se ne accorse, perchè si era già chinato a cercare
nell'erba ghiacciata.
Toh! Eccola, perbacco! gridò allegramente, scuotendo l'elegante scarpetta
incipriata di neve. Poi, nella maniera più galante, mise un ginocchio a terra,
nel freddo e nel bagnato, e chiese, come ricompensa l'onore di poter calzare
Cenerentola. Assai meno cortese della Cenerentola della fiaba, la fanciulla
rispose con un secco: No; e continuò a saltellare, tentando di infilare nella
scarpetta la sua calza di seta; ma non ci sarebbe mai riuscita senza l'aiuto del
nostro eroe, che provò l'emozione di sentirsi sfiorare la spalla da quella
graziosa manina. Lei ha la vista buona... commentò la fanciulla a guisa di
ringraziamento, mentre procedevano nel buio l'uno accanto all'altra.
L'abitudine degli appostamenti, signorina.
Ah, lei è cacciatore. E lo disse con aria canzonatoria e incredula.
Sarebbe bastato a Tartarino, per convincerla, pronunziare solo il suo nome, ma
come tutti coloro che hanno un nome illustre preferiva, per civetteria, farne un
uso discreto per aumentarne gradatamente l'effetto.
Infatti, sono un cacciatore...
E lei, sempre con lo stesso accento ironico: E qual è la sua selvaggina
preferita?
I grandi carnivori, le grosse belve... fece Tartarino, credendo di sbalordirla.
Ne ha trovate molte sul Rigi?
Sempre galante e di spirito pronto, il Tarasconese stava per risponderle che sul
Rigi non aveva trovato che gazzelle, ma la sua replica venne troncata
dall'avvicinarsi di due ombre che chiamavano: Sonia... Sonia...
Eccomi disse la fanciulla, e voltandosi verso Tartarino che, abituato al buio,
distingueva la sua graziosa figura avvolta in una mantiglia spagnola, gli disse
con serietà, questa volta: La sua è una caccia pericolosa, buon'uomo... stia
attento a non lasciarci la pelle!...
E si dileguò nel buio per raggiungere i suoi compagni. Più tardi, il tono
minaccioso che aveva sottolineato queste parole, doveva turbare l'immaginazione
del meridionale, ma sul momento egli fu solamente irritato da quel buon'uomo che
suonava irrisione per la sua rotondità e la sua canizie, e dalla brusca
sparizione della ragazza proprio nel momento in cui stava per rivelarle il suo
nome e godere della sua meraviglia. Fece qualche passo in direzione del gruppo e
sentì un rumore confuso; colpi di tosse e starnuti provenivano dai turisti che
aspettavano con impazienza il sorgere del sole. I più audaci erano saliti su un
piccolo belvedere le cui fiancate, ovattate di neve, spiccavano bianche nella
notte che stava per finire. Un primo bagliore cominciava a schiarire l'Oriente,
accompagnato da un nuovo muggito del corno, e da quell'ah di sollievo che
provoca a teatro l'alzarsi del sipario.
Quella luce, sottile come una fessura, si allargava e si propagava
sull'orizzonte, ma nello stesso tempo si alzava dalla valle un nebbione
grigiastro e pesante, che si faceva sempre più fitto via via che si faceva
giorno. Sembrava che calasse un sipario tra la scena e gli spettatori.
Bisognava rinunciare al meraviglioso spettacolo decantato dalle guide. In cambio
ci si poteva godere lo spettacolo delle sagome assortite dei ballerini della
sera precedente, che, bruscamente risvegliati, avevano l'apparenza di bizzarre e
comiche ombre cinesi. Imbacuccati in scialli e coperte, con in capo le più
disparate acconciature, berretti, cappucci, colbacchi, passamontagna, avevano le
facce gonfie e stralunate di naufraghi sperduti su uno scoglio che spiano
ansiosamente l'apparire di una vela all'orizzonte. E niente, sempre niente!
Ciò nonostante, alcuni, con uno slancio di buona volontà, si sforzavano di
distinguere le cime delle montagne, e in alto, sul belvedere, si sentiva il
cinguettio della famiglia peruviana raggruppata intorno a un diavolo d'uomo,
intabarrato in un lunghissimo cappotto a quadri, che descriveva imperturbabile
l'invisibile panorama delle Alpi Bernesi, indicando a gran voce le cime avvolte
nella nebbia.
A sinistra vedete il Finsteraarhorn, quattromiladuecentosettantacinque metri, lo
Schreckhorn, il Wetterhorn, il Moine, la Jungfrau, di cui faccio notare a queste
signorine le eleganti proporzioni...
Che faccia tosta! commentò tra sè il Tarasconese, e riflettendo, aggiunse:
Perbacco, eppure quella voce la conosco!.
Riconosceva soprattutto l'accento, quell'inconfondibile accento meridionale che
si riconosce da lontano come l'aglio; ma, occupato com'era nella ricerca della
giovane sconosciuta, non si fermò, e seguitò senza successo, a ispezionare i
gruppi dei turisti. Doveva essere rientrata all'albergo, come del resto
cominciavano a fare tutti, stanchi di stare fermi a tremare e a battere i piedi.
Schiene curve e scialli che strascicavano le frange nella neve, sparivano
allontanandosi nella nebbia sempre più fitta. Presto, sulla radura fredda e
desolata non rimasero nel grigiore dell'alba che Tartarino e il suonatore di
corno, che continuava malinconicamente a dar fiato al suo enorme strumento, come
un cane che abbaia alla luna.
Era un vecchietto dalla lunga barba, con un cappello tirolese dalle nappe verdi
che gli ricadevano sulla schiena e che portava ricamato in lettere d'oro, come
tutti i berretti di servizio dell'albergo, il nome di Regina Montium. Tartarino
si avvicinò per dargli la mancia, come aveva visto fare agli altri turisti.
Andiamo a letto, nonno gli disse, dandogli una manata sulle spalle con la sua
familiarità tarasconese. Che bella presa di giro il sole del Rigi! Il vecchio
continuò a soffiare nel corno, con un riso muto che gli faceva strizzare gli
occhi e ballare le nappe verdi del cappello.
Malgrado tutto, Tartarino non rimpiangeva la notte perduta. L'incontro con la
bella biondina lo ripagava del sonno interrotto; poichè, pure essendo vicino
alla cinquantina, aveva il cuore caldo, l'immaginazione romantica, e una gran
voglia di vivere.
Tornato in camera, chiudendo gli occhi prima di addormentarsi, credeva di
sentire ancora nella mano il contatto della leggera scarpetta, e di udire la
voce cinguettante della biondina: Sei tu, Manilof?....
Sonia... che nome grazioso!... Era certamente russa, e quei giovani che
viaggiavano con lei erano certamente amici di suo fratello... poi tutto divenne
confuso, il grazioso musetto incorniciato di riccioli d'oro si mescolò ad altre
immagini incerte e fluttuanti: le pendici del Rigi, le cascate spumeggianti...
ben presto il respiro eroico del grand'uomo, sonoro e ritmato, riempì la
cameretta e una buona parte del corridoio...
Al momento di scendere, al primo gong della colazione, Tartarino si avvicinò
allo specchio per vedere se la sua barba era ben pettinata e se il suo vestito
da alpinista gli faceva fare una discreta figura. Di colpo trasalì: davanti a
lui, ben aperta e fissata allo specchio con due bolli di ceralacca, una lettera
anonima lo avvertiva minacciosamente con le seguenti parole: Francese della
malora, il tuo travestimento ti nasconde male. Per questa volta ti perdoniamo,
ma se ti farai ancora trovare sulla nostra strada, guai.
Sbalordito, Tartarino rilesse due o tre volte quella lettera, senza capirci
niente. Quali erano i guai che potevano minacciarlo? Come era capitata lì quella
lettera? Probabilmente mentre dormiva, perchè quando era tornato all'alba dalla
sua passeggiata, non l'aveva notata. Chiamò la cameriera, che aveva una faccia
piatta e scialba butterata dal vaiolo come una forma di groviera, ma non fu
capace di tirarne fuori che la dichiarazione che lei era una ragazza di buona
famiglia, e che non entrava mai nelle camere quando c'erano i signori.
Che fatto strano, perbacco diceva Tartarino molto impressionato, girando e
rigirando la lettera tra le mani. Per un attimo gli balenò in mente il nome di
Costecalde; Costecalde che, essendo venuto a conoscenza delle due progettate
ascensioni, cercava di mettergli i bastoni fra le ruote con manovre e minacce.
Ma riflettendoci sopra, questa ipotesi gli parve inverosimile, e finì per
persuadersi che quella lettera fosse uno scherzo di quelle ragazze inglesi che
gli avevano riso in faccia così allegramente. Sono così libere quelle ragazze
inglesi e americane!
Suonò il secondo gong. Si nascose la lettera anonima in tasca, mormorando: Dopo
tutto, staremo a vedere... e la smorfia sdegnosa che accompagnò questa
riflessione rivelò l'eroismo del suo carattere.
Nuova sorpresa a tavola. Invece della graziosa vicina che l'Amor vestiva d'or,
vide il collo da avvoltoio di una vecchia signora inglese i cui lunghi boccoli
pendevano sulla tovaglia. Sentì dire dai suoi vicini che la signorina e i suoi
amici erano partiti con uno dei primi treni del mattino.
Maledizione! Mi hanno giocato... disse in francese e ad alta voce il tenore
italiano che la sera avanti aveva fatto capire a Tartarino che non parlava
francese. Chissà, forse l'aveva imparato durante la notte. Il tenore si alzò,
gettò il tovagliolo, e se ne andò, lasciando il Tarasconese completamente
annientato.
Dei commensali della sera prima, non restava che lui. Succede sempre così al
Rigi-Kulm, dove non ci si ferma che per ventiquattr'ore. La scena, comunque, era
identica. Le coppe del dessert dividevano i due partiti.
Quella mattina, però, la banda del riso trionfava, essendosi rinforzata di
illustri personalità, mentre la banda delle prugne appariva assai depressa.
Tartarino, senza prendere parte nè per gli uni nè per gli altri, salì in camera
prima del dessert, chiuse il sacco e chiese il conto; ne aveva abbastanza del
Regina Montium, e della tavolata dei sordomuti.
Al contatto dei ramponi, della piccozza e della corda di cui si era di nuovo
bardato, fu ripreso bruscamente dalla sua follia alpinistica; bruciava dalla
voglia di dare l'assalto a una montagna vera, la cui vetta fosse sprovvista di
ascensore e fotografi. Stava ancora esitando tra il Finsteraarhorn più alto e la
Jungfrau più celebre, e il cui nome di verginale candore gli avrebbe fatto più
volte ricordare la piccola russa.
Rimuginando queste alternative, mentre gli preparavano il conto nell'immensa e
lugubre hall dell'albergo, si divertiva a guardare le grandi fotografie a colori
appese al muro, che rappresentavano ghiacciai, pendii nevosi, passaggi celebri e
pericolosi di alta montagna; si vedevano degli scalatori in fila come formiche
su una cresta aguzza di ghiaccio azzurro, e un crepaccio enorme dalle pareti
verdastre sul quale era stato gettato una specie di ponte che una signora in
ginocchio e un prete con la veste rialzata tentavano di traversare.
L'Alpinista di Tarascona, con le mani appoggiate alla piccozza, non aveva mai
pensato che esistessero simili difficoltà; eppure bisognava affrontarle!...
Improvvisamente, divenne pallido come un morto. Incorniciata di nero, una
stampa, tratta dal famoso disegno di Gustave Dorè, rappresentava la catastrofe
del Cervino: quattro corpi umani, supini o sul dorso, precipitavano lungo la
parete scoscesa di un nevaio, le braccia protese nel tentativo di aggrapparsi a
qualcosa, di ritrovare la corda che teneva avvinte le loro vite, la quale non
serviva ormai che a trascinarli verso l'abisso, dove sarebbero caduti tutti
insieme, con le corde, le piccozze, le tende, tutto quel festoso
equipaggiamento, divenuto di colpo tragico.
Che tragedia! fece il Tarasconese impressionato, parlando a voce alta.
Un maitre d'hotel, molto cortese, sentì la sua esclamazione, e pensò doveroso
tranquillizzarlo. Gli incidenti di quel genere diventavano sempre più rari,
l'essenziale era di non commettere imprudenze e, soprattutto, di affidarsi a una
buona guida. Tartarino chiese se era possibile averne una di fiducia... non che
avesse paura, ma pensava fosse meglio essere accompagnati da una persona
esperta.
Il giovanotto riflettè con aria d'importanza, arricciandosi i baffi: Una guida
di fiducia... Ah, se il signore me l'avesse chiesto prima!.. c'era qui stamani
proprio il tipo che avrebbe fatto per lei... la guida turistica di una famiglia
peruviana.
Conosce bene le montagne? chiese Tartarino con l'aria di chi se ne intende.
Se le conosce! Le conosce tutte... quelle della Svizzera, della Savoia del
Tirolo, dell'India, del mondo intero, le ha salite tutte, e le sa descrivere...
E' una cosa incredibile! Credo che si convincerebbe con facilità... con un uomo
così, anche un bambino potrebbe andare dappertutto senza pericolo.
Dov'è? Dove potrei trovarlo?
Al Kaltbad, signore, dove sta preparando le camere per i suoi clienti...
Possiamo telefonargli.
Un telefono al Rigi! Era il colmo. Ma ormai Tartarino non si meravigliava più di
nulla. Cinque minuti dopo, il maitre ritornò con la risposta.
L'accompagnatore dei Peruviani era partito allora per la Tellsplatte, dove
avrebbe certamente passato la notte. Questa Tellsplatte è una cappella
commemorativa, una meta di pellegrinaggio in onore di Guglielmo Tell, come se ne
trovano spesso in Svizzera. Ci si andava soprattutto per ammirare gli affreschi
che un famoso pittore di Basilea stava per terminare.
Col battello, non ci avrebbe messo più di un'ora, un'ora e mezzo. Tartarino non
esitò. Il viaggio gli avrebbe fatto perdere un giorno, ma gli parve doveroso
rendere omaggio a Guglielmo Tell, per il quale aveva una particolare
ammirazione, e poi avrebbe avuto la fortuna di assicurarsi servizi di quella
guida straordinaria, e di scalare insieme a lui la Jungfrau.
Avanti, dunque. In cammino!
Pagò in fretta il conto, dove il tramonto e il sorgere del sole erano
conteggiati a parte insieme alla candela e al servizio, e sempre accompagnato da
quel tremendo rumore di ferraglie che seminava terrore e meraviglia al suo
passaggio, si recò alla stazione, perchè scendere il Rigi a piedi, oltre ad
essere una perdita di tempo, sarebbe stato fare troppo onore a quella montagna
artificiale.
4. Sul battello, Piove, L'eroe tarasconese saluta i numi tutelari, La verità su
Guglielmo Tell, Delusione, Tartarino di Tarascona non è mai esistito, Toh,
Bompard!
Al Rigi-Kulm aveva lasciato la neve; sul lago ritrovò la pioggia, una pioggia
sottile e insistente, quasi invisibile, una specie di umido vapore attraverso il
quale le montagne lontane assumevano la forma di nuvole.
Soffiava il Fohn, le acque del lago erano agitate, e i gabbiani, volando bassi,
sembravano farsi trasportare dalle onde; si aveva l'impressione di essere in
alto mare. Tartarino si ricordava la sua partenza da Marsiglia, quindici anni
prima, quando era andato a caccia di leoni in Algeria; si ricordava quel cielo
limpido, luminoso, quel mare di un azzurro incredibile che, sotto la carezza del
mistral si arricciava in tante piccole onde scintillanti, e il suono delle
trombe nei forti, lo scampanio delle chiese, l'ebbrezza, la gioia, l'incanto del
primo viaggio.
Che contrasto con questo ponte nero di umidità, quasi deserto, dove si
distinguevano appena nella bruma, come attraverso un foglio di carta oleata,
qualche raro passeggero imbacuccato nel mantello impermeabile, mentre il
timoniere immobile al suo posto, incappucciato nel suo cappotto da marinaio,
manovra con aria solenne e misteriosa sotto un cartello in tre lingue dove c'è
scritto: PROIBITO PARLARE AL TIMONIERE.
Raccomandazione inutile, perchè nessuno parlava a bordo del Winkelried, nè sul
ponte nè tanto meno nelle sale di prima e di seconda classe affollate di
viaggiatori lugubri che dormivano, leggevano e sbadigliavano in mezzo a una
confusione di bagagli sparpagliati sui sedili. Sembrava un convoglio di
deportati, all'indomani di un colpo di stato.
Di tanto in tanto, il muggito rauco della sirena annunziava l'avvicinarsi di una
stazione. Rumori di passi, di bagagli smossi e trascinati sul ponte. La riva
appariva tra la nebbia, si avvicinava; si vedevano, in mezzo al verde, delle
ville che sembravano tremare dal freddo, delle file di pioppi che
fiancheggiavano strade fangose lungo le quali si allineavano alberghi di lusso
con le facciate decorate dal loro nome scritto in lettere d'oro: Hotel Meyer,
Muller, du Lac.
Si attraccava al pontile di sbarco; alcuni passeggeri scendevano, altri
salivano, tutti infangati, bagnati, silenziosi. E dire che tutta quella gente
viaggiava per divertirsi! Anche qui, come al Rigi-Kulm, quello che imbestialiva,
angosciava e annichiliva Tartarino più della pioggia fredda e del cielo grigio,
era il non poter parlare con nessuno. Sotto coperta, è vero, aveva ritrovato
alcune persone di conoscenza, il socio del Jockey Club con sua nipote (uhm!
uhm!), l'accademico Astier-Rèhu, e il professor Schwanthaler, i due implacabili
nemici condannati a vivere a contatto di gomito per un mese intero, inchiodati
allo stesso itinerario di viaggio in carovana dell'agenzia Cook, ed altri
ancora. Ma nessuno di quegli illustri personaggi si era degnato di riconoscere
il Tarasconese, sebbene il suo passamontagna, gli ordigni di ferro, e i giri di
corda lo distinguessero e lo etichettassero in modo tutto particolare. Tutti
sembravano vergognarsi del ballo della sera prima, e della follia a cui si erano
abbandonati, spinti dalla irresistibile foga di quell'omaccione.
Solo la signora Schwanthaler si era avvicinata al suo cavaliere, col suo volto
roseo e sorridente di piccola fata grassottella, e prendendosi la gonna con due
dita, come per accennare a un passo di minuetto: Tanzare... pallare... molto
pello... aveva detto gentilmente.
Evocava un ricordo, o le era presa la tentazione di volteggiare ancora? Non lo
voleva più lasciare, e Tartarino, per sfuggire alla sua insistenza, risalì sul
ponte, preferendo bagnarsi fino alle ossa piuttosto che rendersi ridicolo.
A Brunnen il cielo si schiarì, e lasciò vedere qualche squarcio di azzurro.
Ora si entrava nel lago di Uri, stretto e cupo, in mezzo a monti alti e
selvaggi. Sulla destra, ai piedi del Seelisberg, i turisti si additavano il
campo di Rutli, dove Melchthal, Furst, e Stauffacher, i personaggi del dramma
Guglielmo Tell del poeta tedesco Friedrich Schiller, giurarono di liberare la
loro patria.
Tartarino, profondamente commosso, si tolse il berretto con gesto solenne e, tra
lo stupore dei presenti, l'agitò in aria tre volte per rendere omaggio alla
memoria degli eroi. Alcuni passeggeri, senza capire il suo gesto, gli resero
gentilmente il saluto.
Finalmente il battello emise un rauco muggito che si ripercosse nella stretta
gola. Erano arrivati. La cappella era situata a cinque minuti dal pontile di
sbarco, proprio in riva al lago, sulla roccia stessa sulla quale, sempre in
quella stessa opera, balzò Guglielmo Tell dalla barca di Gessler durante la
tempesta.
Fu per Tartarino una grande emozione calpestare quello storico suolo, e
ricordare e rivivere i principali episodi del grande dramma, che conosceva come
la storia del suo paese. Guglielmo Tell era sempre stato il suo eroe prediletto.
Quando nella farmacia Bezuquet si giocava al gioco delle preferenze, dove
ciascuno doveva scrivere su un biglietto chiuso il poeta, l'albero, l'odore,
l'eroe, la donna che preferiva, uno di questi biglietti portava invariabilmente
scritto: L'albero preferito? il baobab. L'odore? quello della polvere. Lo
scrittore? Fenimore Cooper (Il romanziere americano famoso per i suoi libri di
avventure sui mari e descrisse la vita dei pionieri e degli indiani nelle
foreste americane. Chi avrei voluto essere? Guglielmo Tell...
E in farmacia, tutti ad una voce gridavano: E' Tartarino!
Figuratevi come era felice e ansioso di visitare la cappella commemorativa
innalzata dalla gratitudine di un popolo intero. Gli sembrava che Guglielmo Tell
in persona dovesse aprirgli la porta, ancora bagnato dall'acqua del lago, con la
sua balestra e le sue frecce in mano.
Non si entra!... Sto lavorando... Non è il giorno... gridò dall'interno della
cappella una voce forte, ingrandita dall'eco delle volte.
Monsieur Astier-Rèhu dell'Accademia di Francia!...
Herr Doctor Professor Schwanthaler!...
Tartarino di Tarascona!...
Dall'ogiva sovrastante il portale, arrampicato su un'impalcatura, si affacciò a
mezzo busto il pittore, col suo camice da lavoro e la tavolozza in mano. Il mio
famulus viene subito ad aprirvi, signori disse in tono rispettoso.
Ne ero sicuro, perbacco! pensò Tartarino. E' bastato fare il mio nome, e
subito... Comunque ebbe il buon gusto di mettersi da parte e, modestamente, di
entrare per ultimo.
Il pittore, un bel giovanottone dalla chioma rutilante e dorata di un artista
del Rinascimento, accolse i visitatori sulla scaletta di legno che portava
all'impalcatura sistemata per dipingere la parte superiore della cappella Gli
affreschi, che rappresentavano i principali episodi della vita di Guglielmo
Tell, erano quasi finiti. Ne mancava solo uno, la famosa scena della mela sulla
piazza di Altdorf. Il pittore ci stava lavorando proprio in quel momento, e il
suo giovane famulus, come lo chiamava lui, coi capelli da arcangelo, le gambe e
i piedi nudi sotto un camiciotto medievale, posava da figlio di Guglielmo Tell.
Tutti quei personaggi arcaici, vestiti di rosso, azzurro, giallo e verde,
dipinti più grandi del naturale per essere guardati a distanza, e che si
aggiravano per le straducole e le fortificazioni del tempo, facevano ai
visitatori un effetto opprimente, ma siccome erano venuti per ammirare,
ammirarono. D'altronde, nessuno se ne intendeva.
C'è molto carattere! pontificò Astier-Rèhu, con una valigetta in mano.
E Schwanthaler, con un seggiolino pieghevole sotto il braccio, non volendo
essere da meno, citò due versi di Schiller, la metà dei quali si perse nella sua
barba fluente. Poi fu la volta delle signore, che proruppero in esclamazioni, e
per un buon momento non si sentì che: Schon!... oh! schon... Yes... lovely...
Squisito, delizioso... Sembrava di essere in una pasticceria.
All'improvviso, quel silenzio riverente fu rotto da una voce sonora come uno
squillo di tromba: Quella balestra è imbracciata male, ve lo dico io... non è a
posto.
Immaginatevi lo stupore del pittore davanti all'esuberante Alpinista che, col
bastone in mano e la piccozza in spalla, rischiando di accoppare qualcuno ad
ogni movimento, voleva dimostrargli che la mossa del suo Guglielmo Tell era
sbagliata. Io me ne intendo, sa!... Mi deve credere!
Ma lei chi è? Come! Chi sono? esclamò il Tarasconese, seccato. Non era dunque
per lui che la porta si era aperta; poi, gonfiando il torace, aggiunse: Vada a
domandare il mio nome alle pantere dello Zaccar e ai leoni dell'Atlante, forse
le risponderanno.
I visitatori indietreggiarono spaventati.
Ma insomma domandò il pittore, cosa c'è di sbagliato nella posizione del mio
Guglielmo Tell?
Mi guardi, la prego! Mettendosi in guardia con un doppio batter di tacchi che
sollevò dall'assito nuvole di polvere, Tartarino, impugnando la piccozza come se
fosse stata la balestra, si mise in posa.
Magnifico! Ha ragione... Stia fermo così... poi, rivolgendosi al ragazzo:
Presto, un cartone, del carboncino!
In verità, il Tarasconese era un modello magnifico; tarchiato, le spalle curve,
la testa inclinata col passamontagna che sembrava un elmo medievale, e i suoi
occhietti fiammeggianti che fissavano il ragazzo terrorizzato.
Miracoli dell'immaginazione! Egli si credeva nella piazza di Altdorf, di fronte
a suo figlio, lui che non ne aveva mai avuti, una freccia nella cocca della
balestra, un'altra alla cintura, pronta per trafiggere il cuore del tiranno. E
la sua convinzione era così forte che si comunicava a coloro che lo
circondavano.
Ma è Guglielmo Tell in persona! esclamava il pittore, appollaiato sul suo
sgabello, disegnando con mano febbrile. Ah, signore, se l'avessi conosciuto
prima! Sarebbe stato il mio modello ideale...
Davvero? Trova qualche rassomiglianza? fece Tartarino, lusingato, senza
abbandonare la posa.
Sì, era proprio così che l'artista si era immaginato l'eroe. Anche la testa?
Be', la testa ha poca importanza... il pittore si tirò indietro per osservare il
suo schizzo. Un volto energico, virile, ecco quello che ci vuole, perchè di
Guglielmo Tell non si sa niente, nemmeno se sia veramente esistito.
Dallo stupore, Tartarino lasciò cadere la balestra. Come!... Mai esistito! Ma
che dice?
Lo domandi a questi signori...
Astier-Rèhu, col doppio mento appoggiato alla cravatta bianca, disse
solennemente: E' una leggenda danese.
Danese?... Islandese! affermò Schwanthaler, con non minore solennità.
Saxo Grammaticus racconta che un valoroso arciere chiamato Tobe o Paltanoke...
Es ist in der Vilkinasaga geschrieben... Insieme: ...fu condannato dal re di
Danimarca, Aroldo dai denti azzurri... ... dass der Islandische Konig Necding...
Lo sguardo fisso, il braccio teso, senza guardarsi nè capirsi, parlavano
contemporaneamente come in cattedra, e col tono dottorale e intransigente dei
professori sicuri di non essere mai contraddetti. Si accaloravano, citavano nomi
e date: Justinger di Berna! Jean di Winterthur!...
Poco per volta la discussione si fece generale e violenta. Si brandivano valige,
ombrelli, seggiolini pieghevoli, e lo sventurato artista correva dagli uni agli
altri raccomandando la calma, e tremando per la solidità della sua impalcatura.
Quando la tempesta si fu calmata, il pittore volle riprendere il suo schizzo, e
si mise in cerca dell'Alpinista misterioso, quello di cui solo le pantere e i
leoni dell'Atlante avrebbero potuto rivelare il nome; ma l'Alpinista era
sparito.
In quel momento, egli stava salendo a gran passi rabbiosi il sentiero
fiancheggiato di faggi e betulle che conduceva all'albergo della Tellsplatte,
dove l'accompagnatore dei Peruviani avrebbe passato la notte.
Al colmo dell'ira e della delusione, parlava ad alta voce, affondando
rabbiosamente il bastone nel terreno bagnato. Mai esistito Guglielmo Tell!
Guglielmo Tell una leggenda! Ed era proprio il pittore incaricato di decorarne
la cappella che glielo diceva tranquillamente. Ne era offeso come da un
sacrilegio, se la prendeva coi sapientoni di questo secolo negatore, demolitore
ed empio, che non rispettava più niente, nè la gloria nè la grandezza, mondo
cane! Così, tra due o trecento anni, quando si parlerà di Tartarino, ci saranno
degli individui come Astier-Rèhu e Schwanthaler che sosterranno che Tartarino
non è mai esistito, che si tratta di una leggenda provenzale o barbaresca.
Si fermò soffocato dall'indignazione e dalla durezza della salita, e si mise a
sedere su una panchina rustica. Di lassù, poteva scorgere tra i rami il lago e
la cappella bianca che sembrava un mausoleo. Il muggito di una sirena e l'urto
delle onde sulla riva, annunziavano l'arrivo di altri viaggiatori. Essi si
raggruppavano sulla riva, con la guida in mano, e si avvicinavano alla cappella
in atteggiamento riverente e con gesti solenni. Di colpo, per una brusca
inversione di idee, gli apparve tutta la comicità della situazione.
Pensò che tutta la Svizzera viveva su quell'eroe immaginario, costruendo
cappelle, innalzando statue in suo onore, organizzando feste patriottiche, alle
quali, bandiere in testa, accorreva il popolo di tutti i Cantoni; e banchetti,
brindisi, discorsi, acclamazioni, canti e commozione generale; e tutto questo in
onore di un grande patriota che tutti sapevano non era mai esistito.
E poi si dice di Tarascona! Quella sì che era una vera tarasconata, come a
Tarascona non avrebbero mai saputo immaginare!
Tornato di buon umore, Tartarino raggiunse con pochi energici passi la grande
strada di Fluelen, lungo la quale l'Hotel Tellsplatte metteva in mostra la sua
facciata dalle persiane verdi. In attesa dell'ora del pranzo, gli ospiti
passeggiavano in su e in giù davanti a una cascatella tra le rocce lungo la
strada fangosa, dove erano allineate delle carrozze con le stanghe a terra, in
mezzo alle pozzanghere illuminate dai riflessi di rame del sole al tramonto.
Tartarino si informò del suo uomo. Gli dissero che era a tavola. Accompagnatemi
da lui, diamine! e lo disse con un piglio così autoritario che, malgrado la
rispettosa riluttanza a disturbare un personaggio così importante, una cameriera
condusse l'Alpinista attraverso tutto l'albergo, dove il suo passaggio causava
moti di stupore, fino a una saletta sul cortile dove la famosa guida stava
mangiando.
Signore disse Tartarino entrando, piccozza in spalla, la prego di scusarmi se...
Si arrestò stupefatto, mentre la guida, un uomo lungo e magro col tovagliolo
infilato nel colletto, che sedeva davanti a una scodella di minestra calda e
profumata, lasciò cadere il cucchiaio dalla sorpresa: Guarda chi si vede, il
signor Tartarino... Toh, Bompard...
Era Bompard, ex amministratore del Circolo, brav'uomo, ma afflitto da una
fantasia favolosa che gli impediva di dire una sola parola di verità, tanto da
farsi soprannominare a Tarascona l'Imbroglione. Essere definito imbroglione a
Tarascona, figuriamoci! Quella era la guida incomparabile, lo scalatore delle
Alpi, dell'Himalaya, dei monti della luna!
Ah, ora capisco... mormorò Tartarino un po' deluso, ma nondimeno felice di
ritrovare una faccia di casa, e l'amato, delizioso accento del suo paese.
Lei pranza con me, naturalmente...
Tartarino si affrettò ad accettare, pregustando il piacere di sedersi a una
tavola privata, uno di fronte all'altro, senza prospettive di litigare sulla
coppa del dessert, con la possibilità di bere a volontà, di parlare mangiando, e
mangiando piatti eccellenti, ben cucinati e genuini, perchè le signore guide
turistiche sono trattate con grande riguardo dagli albergatori, sono servite a
parte con i vini migliori e delle pietanze speciali.
Ma allora era proprio lei che stanotte, lassù sul belvedere?...
Certo... facevo ammirare a quelle signorine.... Com'è bello, vero, il sorgere
del sole sulle Alpi?
Superbo! disse Tartarino, da principio senza convinzione, tanto per non
offenderlo, ma dopo un momento già esaltato; ed era veramente favoloso ascoltare
i due Tarasconesi celebrare con entusiasmo gli splendidi spettacoli che si
godevano dal Rigi.
Poi, col procedere del pranzo, la conversazione prese un tono più intimo;
affiorarono le confidenze, le effusioni, le assicurazioni di amicizia, che
bagnarono di lacrime i loro occhi di Provenza, occhi vivaci e brillanti che,
anche nei momenti di più sincera emozione, mantenevano nel fondo una punta di
scherno e di canzonatura.
Solo in questo si assomigliavano i due amici; l'uno, infatti era magro,
asciutto, abbronzato, coi lineamenti mobilissimi e marcati, l'altro era piccolo,
tarchiato, con la pelle liscia e l'aria bonacciona. Quante ne aveva viste quel
povero Bompard, dopo la sua partenza dal Circolo! La sua fantasia insaziabile,
che gli impediva di star fermo un minuto, L'aveva trascinato sotto molti cieli e
in molte avventurose vicende. Raccontava le sue avventure enumerando tutte le
occasioni che gli erano capitate per arricchirsi, e che erano fallite una dopo
l'altra, come la sua ultima invenzione che avrebbe alleggerito il bilancio del
Ministero della Guerra, eliminando la spesa degli scarponi militari... e sapete
come? Mio Dio, è una cosa semplicissima... facendo ferrare i piedi dei soldati.
Corpo di Bacco! esclamò Tartarino, spaventato. E Bompard seguitava imperterrito,
con la sua aria candida di pazzo tranquillo: Un'idea geniale, non le pare?
Eppure il Ministero non mi ha nemmeno risposto. Ah, caro signor Tartarino,
quanti momenti neri ho passato, quanto pane avvelenato ho dovuto mangiare prima
di entrare al servizio della Compagnia...
La Compagnia?
Bompard abbassò prudentemente la voce. Zitto! Ne parleremo tra poco, ma non
qui... poi, riprendendo il tono normale: E a Tarascona, che si fa di bello? Non
mi ha ancora detto cosa l'ha portato sulle nostre montagne...
Fu la volta di Tartarino. Senza collera, ma con quel malinconico distacco e quel
senso di noia che assale tutti i grandi artisti, tutte le belle donne, tutti i
grandi conquistatori di popoli e di cuori all'approssimarsi della vecchiaia,
raccontò il tradimento dei suoi concittadini, il complotto ordito per portargli
via la presidenza, e la sua decisione di compiere un gesto eroico, una grande
ascensione, per piantare la bandiera tarasconese più in alto di quanto mai
nessuno l'avesse piantata, e di mostrare così agli alpinisti di Tarascona di
essere sempre degno... sempre degno... L'emozione lo soffocava e gli impedì di
continuare; poi riprese: Lei mi conosce, Gonzago...E nessuno saprebbe descrivere
l'accento affettuoso e carezzevole che sapeva mettere su quel nome da trovatore.
Era un modo di stringergli la mano, di avvicinarsi al suo cuore Lei mi conosce,
vero? Lei sa che non ho esitato quando si trattò di affrontare i leoni; e non ho
esitato durante la guerra, quando abbiamo organizzato insieme la difesa del
Circolo...
Bompard scosse energicamente la testa con una mimica espressiva... gli pareva di
esserci ancora.
Ebbene, caro amico, quello che i leoni e i cannoni Krupp non sono riusciti a
fare, lo hanno fatto le Alpi... ho paura!
Ma non lo dica nemmeno, Tartarino!
Perchè dovrei tacerlo? disse l'eroe, pacatamente. Lo dico perchè è la verità...
E tranquillamente, senza pose, confessò l'impressione che gli aveva fatto il
disegno del Dorè, quella catastrofe del Cervino che gli era rimasta negli occhi.
Aveva paura di tutti quei pericoli, e avendo sentito parlare di una guida
straordinaria e capace, era venuto per affidarsi a lui... Poi, con naturalezza,
aggiunse: Ma lei non è mai stato guida alpina, vero, Gonzago?
Eh, sì rispose Bompard, sorridendo, ...solo che non ho fatto tutto quello che ho
raccontato.
Si capisce approvò Tartarino.
L'altro aggiunse tra i denti: Andiamo fuori un momento, per la strada potremo
parlare con più libertà.
La notte si avvicinava, una brezza tiepida e umida trascinava brandelli di
nuvole nere sul cielo dove il tramonto aveva lasciato tracce di pulviscolo
grigio. Si avviarono a mezza costa, in direzione di Fluelen, incrociando qualche
ombra indistinta di turista che rientrava in albergo, e si spinsero, ombre
silenziose anche loro, fino all'ingresso della lunga galleria che si apre, a
mezzo di arcate, sul lago.
Fermiamoci qui disse Bompard, con una voce che echeggiò come una cannonata sotto
la volta della galleria. Seduti sul parapetto contemplarono la vista mirabile
del lago, il digradare dei boschi neri di faggi e di abeti, le alte cime delle
montagne, poi, in una lontananza azzurrina, la chiazza bianca di un ghiacciaio
che improvvisamente si illuminò di luci multicolori, gialle, rosse, verdi.
Illuminavano la montagna con i bengala.
Da Fluelen salivano razzi che si sgranavano in stelle multicolori. Lampioncini
colorati andavano e venivano sul lago, appesi a battelli invisibili che
diffondevano musiche allegre e grida festose. Era uno scenario fantasmagorico,
incorniciato dalle fredde e regolari arcate della galleria.
Che strano paese, la Svizzera commentò Tartarino.
La Svizzera? Ma non la rammenti nemmeno!... Prima di tutto, la Svizzera non c'è
più!
5. Confidenze sotto una galleria.
La Svizzera, al giorno d'oggi, caro signor Tartarino, non è altro che un enorme
Kursaal, aperto da giugno a settembre, un casinò panoramico, dove ci si viene a
divertire da tutte le parti del mondo, sfruttato da una Compagnia ricca di
milioni di miliardi che ha sede a Ginevra e a Londra. S'immagini un po' quanti
soldi ci sono voluti per affittare riordinare ed abbellire tutto questo
territorio, laghi, foreste, montagne cascate, per mantenere una folla di
impiegati e di comparse, e per installare sulle cime più alte alberghi favolosi
col gas, il telegrafo e il telefono!...
Eppure, è vero dice Tartarino, che si ricorda del Rigi.
Se è vero! Ma lei non ha ancora visto niente!... si addentri un po' nel paese,
non troverà un angolino che non sia truccato come gli scenari di un teatro
d'opera; cascate illuminate a giorno, porte girevoli all'ingresso dei ghiacciai,
e per le ascensioni un sacco di ferrovie e di funicolari.
Tuttavia, la Compagnia, pensando alla sua clientela di scalatori inglesi e
americani, ha mantenuto a qualche cima più famosa delle Alpi, come la Jungfrau,
il Moine, il Finsteraarhorn, il loro aspetto pericoloso e selvaggio, benchè in
realtà non ci siano pericoli nemmeno lassù.
Eppure, quegli orribili crepacci... e se uno ci casca dentro?
Casca sulla neve, signor Tartarino, e non si fa nulla; in fondo al crepaccio c'è
sempre un portiere d'albergo, un fattorino, qualcuno insomma che lo rialza e
chiede premurosamente: Il signore ha bagagli?
Ma cosa diavolo mi racconta, Gonzago?
E Bompard, ancora più serio: Il mantenimento di quei crepacci è una delle spese
maggiori della Compagnia. C'è un momento di silenzio nella galleria. Anche
intorno è silenzio. I fuochi sono finiti e le luci si sono spente, nel lago non
ci sono più barche ma si è alzata la luna, creando un altro paesaggio
convenzionale, azzurrastro con delle impenetrabili zone d'ombra...
Tartarino sta riflettendo a tutto quello che ha veduto di straordinario in quei
quattro giorni, il sole sul Rigi, la farsa di Guglielmo Tell; e le fantasie di
Bompard gli sembrano tanto più verosimili in quanto in ogni Tarasconese esiste
in egual misura il fanfarone e l'ingenuo.
Ma allora, amico mio, come spiega certe terribili catastrofi?... quella del
Cervino per esempio!
Sono passati sedici anni... e allora la Compagnia non era stata ancora
costituita.
Ma anche l'anno scorso, l'incidente del Wetterhorn, quelle due guide sepolte
insieme ai due alpinisti!...
Diamine! Ci vuol pure qualcosa per attirare gli alpinisti... Su una montagna
dove non si è rotto la testa nessuno, gli Inglesi non ci vengono... Il
Wetterhorn era in decadenza da un po' di tempo, e con questo piccolo fatto di
cronaca, gli incassi sono aumentati immediatamente.
Ma allora, le due guide?...
Stanno benone, come gli alpinisti, del resto; li hanno fatti semplicemente
sparire, e li hanno mantenuti all'estero per sei mesi... E' una pubblicità che
costa cara, ma la Compagnia è abbastanza ricca per sostenerla.
Senta, Gonzago... lei non vorrebbe che mi succedesse una disgrazia, vero? Lei
conosce le mie abilità alpinistiche, sono modeste.
Molto modeste, è vero!
Lei pensa che potrei tentare l'ascensione della Jungfrau?
Ci metterei la mano sul fuoco... basta affidarsi alla guida.
E se mi vengono le vertigini?
Chiuda gli occhi.
E se scivolo?
Si lasci andare... E' come a teatro... ci sono i praticabili. Non si rischia
niente...
Ah! Se lei fosse vicino a me durante l'ascensione!
Bompard non chiederebbe di meglio, ma ahimè, ci sono di mezzo quei Peruviani
fino alla fine della stagione; e siccome il suo amico si meraviglia che egli
accetti quelle modeste funzioni di accompagnatore: Cosa vuole, signor Tartarino?
E' nel contratto; la Compagnia ha il diritto di disporre di noi come meglio
crede. Ed ecco che si mette a contare sulle dita i numerosi mestieri che ha
fatto in tre anni: guida nell'Oberland, suonatore di corno, vecchio cacciatore
di camosci, ex-soldato di Carlo X, pastore protestante...
Pastore protestante? chiede Tartarino, stupefatto.
E l'altro, senza scomporsi: Certo. Se lei viaggia nella Svizzera tedesca, le può
capitare, a volte, in alta montagna, di vedere un pastore evangelico che predica
all'aperto, in piedi su una roccia o seduto su un tronco d'albero. Intorno a lui
si raggruppano in pose pittoresche mandriani, formaggiai col berretto di cuoio
in mano, e alcune ragazze col costume del loro Cantone; il paesaggio è bello, i
prati sono verdi o falciati da poco, i campanacci delle mucche suonano sulle
pendici della montagna. Ma tutto questo, noti bene, non è che uno scenario con
delle comparse della Compagnia. Le guide alpine, i pastori, gli albergatori, le
guide turistiche, sono tutti al corrente del segreto, ma non è nel loro
interesse propagarlo per non perdere la clientela. L'alpinista tace, e ciò è per
lui l'espressione del massimo stupore.
In fondo, anche se ha qualche dubbio sulla sincerità di Bompard, si sente
tranquillizzato sui pericoli delle sue future ascensioni alpine, e a questo
punto la conversione si fa più allegra. I due amici parlano di Tarascona, e
rievocano gli episodi più divertenti della loro gioventù.
A proposito di tiri birboni dice ad un tratto Tartarino, me ne hanno fatto uno
proprio bello al Rigi-Kulm... s'immagini che stamani... e racconta della lettera
sullo specchio ... E' uno scherzo, no?
Forse... non saprei replica Bompard, che sembra considerare la cosa più
seriamente di lui. E s'informa se Tartarino, durante il suo soggiorno al Rigi,
non abbia per caso litigato con qualcuno, non abbia detto qualche parola di
troppo.
Una parola di troppo! Ma se non si riusciva nemmeno ad aprir bocca, con tutti
quei Tedeschi e quegli Inglesi muti come pesci, con la scusa della buona
educazione! Riflettendoci meglio, però, si ricorda di aver risposto per le rime
a una specie di Cosacco, un certo Mi... Milanof.
Manilof corregge Bompard.
Lo conosce?... Detto tra noi, credo che quel Manilof ce l'avesse con me per via
di una signorina russa...
Già, Sonia... mormorò Bompard pensieroso.
Conosce anche lei? Ah, amico mio, che creatura angelica... Sonia Wassilief... E'
stata lei ad assassinare per la via, con un colpo di rivoltella il generale
Felianine, Presidente del Consiglio di Guerra, che aveva condannato suo fratello
alla deportazione perpetua.
Sonia un'assassina! Quella fanciulla, quella biondina... Tartarino non vuole
crederci. Ma Bompard offre precisazioni, racconta particolari sull'avvenimento,
ben conosciuto, del resto. Da due anni, Sonia abita a Zurigo, dove suo fratello
Boris, fuggito dalla Siberia e malato di polmoni, è venuto a raggiungerla; è
tutta l'estate che se lo porta in giro in montagna, all'aria buona. Lui li ha
visti spesso, insieme ad altri amici, anche loro cospiratori e esiliati. I
Wassilief, molto intelligenti, ancora abbastanza ricchi, capeggiano il partito
nichilista insieme a Bolibine, l'assassino del prefetto di polizia, e a quel
Manilof che l'anno scorso ha fatto saltare il Palazzo d'Inverno.
Accidenti! esclama Tartarino. Che razza di vicini di tavola mi erano capitati al
Rigi.
Ma ecco che Bompard fa l'ipotesi che quella famosa lettera provenga da quella
gente. Riconosce i metodi dei nichilisti. Lo Zar, infatti, tutte le mattine
trova delle lettere di quel genere sotto il tovagliolo.
Ma insomma dice Tartarino, impallidendo, perchè quelle minacce? Cosa ho fatto?
Bompard suppone che l'abbiano preso per una spia.
Io, una spia!
Be', sì! In tutti i centri nichilisti, a Zurigo, a Losanna, a Ginevra, la
Russia, senza badare a spese, mantiene un'attenta sorveglianza; da qualche tempo
ha assoldato l'ex-capo della polizia imperiale francese con una dozzina di
agenti còrsi, che tengono d'occhio tutti gli esiliati russi, servendosi di mille
travestimenti. L'abito da alpinista, gli occhiali, il suo accento meridionale,
niente di più facile che lei sia stato preso per uno di quegli agenti.
Mondo cane! Ora mi ci fa pensare dice Tartarino. Avevano sempre alle costole un
maledetto tenore italiano... dev'essere una spia di sicuro... E allora, cosa
devo fare?
Prima di tutto non farsi più trovare sulla loro strada; l'hanno già avvertita
che le succederebbe qualche disgrazia.
Disgrazia, un corno! Al primo che mi si avvicina, gli spacco la testa con la
piccozza! Nell'ombra della galleria, gli occhi del Tarasconese fiammeggiarono.
Ma Bompard, più impressionato di lui, sa che l'odio dei nichilisti è terribile,
colpisce a tradimento, penetra a fondo, ordisce congiure. Bisogna diffidare del
letto dove si dorme, della sedia dove ci si siede, della passerella del battello
che può cedere improvvisamente. E poi i cibi manipolati, i bicchieri spalmati di
un veleno invisibile. Faccia attenzione al kirsch della sua fiaschetta, al buon
latte schiumoso che le offre il vaccaro. Essi non indietreggiano davanti a
niente, le ripeto.
E allora? Sono spacciato! brontola Tartarino; poi, afferrando la mano del
compagno: Mi dia un consiglio, Gonzago.
Dopo un minuto di riflessione, Bompard gli traccia il suo programma.
Partire l'indomani di buon'ora, attraversare il lago, passare il colle di
Brunig, dormire la sera a Interlaken. Il giorno seguente Grindelwald e la
Piccola Scheideck. Il giorno dopo, la Jungfrau! Poi, ritorno a Tarascona senza
voltarsi indietro e senza perdere nemmeno un minuto.
Partirò domani, Gonzago... dice l'eroe con voce virile e con uno sguardo
spaventato all'orizzonte misterioso, ormai oscurato dalle ombre delle notte, e
alle acque fredde e tranquille del lago che sembrano nascondere tutti i
tradimenti.
6. Il colle del Brunig, Tartarino cade nelle mani dei nichilisti, Scomparsa di
un tenore italiano e di una corda fabbricata ad Avignone, Nuove gesta del
cacciatore di berretti, Pan! Pan.
Salide... salide, tunque!
Ma dove vuole che salga? Diavolo, è tutto completo... Non mi vogliono da nessuna
parte...
Questo dialogo si svolgeva sulla punta estrema del Lago dei Quattro Cantoni, su
quella riva di Alpnach, dove le carrozze postali si riuniscono in convoglio, e
accolgono i viaggiatori che scendono dai battelli, per portarli sul colle del
Brunig. Una pioggia sottile e penetrante, pungente come aghi, cadeva già dal
mattino, e il bravo Tartarino, impacciato dalla sua bardatura, spinto dagli
addetti al servizio postale e dai doganieri, correva da una vettura all'altra,
rumoroso e ingombrante.
A tutti gli sportelli lo accoglievano le stesse facce spaventate, lo stesso
sgarbato completo! grugnito in tutti i dialetti, lo stesso gonfiarsi dei
viaggiatori per occupare più posto possibile e impedire l'ingresso a un turista
così ingombrante e carico di ferraglie.
Lo sventurato sudava, ansimava, rispondeva con dei Mondo cane! e dei gesti
disperati alle grida impazienti del personale: En route! All right! Andiamo!
Vorwartz! I cavalli scalpitavano, i cocchieri imprecavano. Finalmente,
l'incaricato delle poste, un omaccione dal colorito acceso, in uniforme e col
berretto piatto, se ne occupò personalmente, e aprendo di prepotenza lo
sportello di una vettura, ci ficcò dentro Tartarino come se fosse un fagotto, e
restò immobile e maestoso accanto al parafango, con la mano tesa per la mancia.
Umiliato, irritato contro i viaggiatori che erano nella vettura e che lo avevano
accettato solo mano militari, Tartarino li ignorò, si ficcò il portamonete in
tasca, e sistemò la piccozza accanto a lui, con gli stessi gesti, sgarbati per
partito preso, di un viaggiatore che sbarca dal battello Calais-Dover.
Buongiorno, signore disse una voce dolce, a lui già nota. Alzò gli occhi e restò
paralizzato dal terrore davanti al visetto roseo e rotondo di Sonia, seduta
davanti a lui, accanto a un giovanotto con gli occhiali, imbacuccato in scialli
e coperte, e di cui si vedevano solo la fronte pallida e qualche ciocca di
capelli biondi. Erano accompagnati da un terzo personaggio, che Tartarino
purtroppo già conosceva: Manilof, l'incendiario del Palazzo Imperiale.
Sonia... Manilof... Era in trappola.
Era l'occasione che aspettavano per mandare ad effetto le loro minacce! Il colle
di Brunig, scosceso e circondato da abissi spaventosi, sarebbe stato il posto
ideale. L'eroe, afferrato da un subitaneo terrore, si vide già cadavere sul
fondo roccioso di un burrone. Fuggire? Dove? Come?
Le carrozze si muovevano ormai, si mettevano in fila al suono della tromba,
mentre un nugolo di ragazzini si affacciava agli sportelli offrendo mazzetti di
edelweiss. Tartarino, sconvolto, pensò di agire subito, di attaccare lui per
primo, facendo fuori con un colpo di alpenstock il Cosacco seduto vicino a lui;
poi, riflettendoci sopra, pensò che era più prudente aspettare.
Era chiaro che quella gente avrebbe fatto il colpo più lontano, in un posto più
solitario, e forse avrebbe avuto il tempo di scendere. D'altra parte, il loro
atteggiamento non gli sembrava aggressivo. Sonia gli sorrideva dolcemente coi
suoi begli occhi azzurri, il giovanotto pallido lo guardava con interesse, e
Malinof, sensibilmente addolcito, gli faceva posto cortesemente, lasciandogli
posare il sacco tra loro due. Avevano forse riconosciuto il loro errore,
leggendo sul registro del Rigi-Kulm il nome illustre di Tartarino?... Se ne
volle assicurare, e con aria gioviale e bonaria, esclamò: Felicissimo di
rivedervi, cari ragazzi! Ma permettetemi di presentarmi... Voi non sapete chi
sono io, mentre io so tutto di voi.
Ssst! fece sorridendo la piccola Sonia con un cenno del dito guantato, e gli
mostrò sul sedile vicino al guidatore, il tenore dei polsini e l'altro giovane
russo, riparati sotto lo stesso ombrello, che ridevano chiacchierando tra loro
in italiano.
Tra il poliziotto e i nichilisti, Tartarino non ebbe esitazione. Lei sa chi è
quell'uomo? chiese a bassa voce, avvicinando la testa al volto fresco di Sonia e
fissando i suoi occhi chiari, diventati freddi e duri quando avevano risposto di
sì con un battito di ciglia.
L'eroe fremette, come si freme piacevolmente a fior di pelle, quando a teatro
l'azione si fa drammatica. Sentendosi personalmente al di fuori della mischia,
liberato dalla tremenda angoscia che l'aveva perseguitato tutta la notte, che
gli aveva impedito di assaporare il suo caffè svizzero con burro e miele, e
l'aveva tenuto a debita distanza dal parapetto del battello, respirava ora a
pieni polmoni, ricominciava a godersi la vita, e trovava quella piccola Russa
irresistibilmente simpatica, col suo berretto da viaggio, e il maglione chiuso
fino al collo, che le modellava le braccia e il busto sottile con squisita
eleganza. E' ancora così bambina! Aveva della bambina il sorriso ingenuo, il
vellutato delle guance, e la grazia affettuosa con cui stendeva lo scialle sulle
ginocchia del fratello. Stai bene?... Non hai freddo? diceva. Come credere che
quella piccola mano così delicata nel guanto di camoscio, avesse avuto la forza
morale e il coraggio fisico di uccidere un uomo? Anche l'aspetto degli altri non
gli sembrava più così minaccioso. Sorridevano tutti nello stesso modo ingenuo,
un po' più forzato e doloroso sulle labbra del malato, più vivace in Manilof
che, così giovane sotto la gran barba arruffata, aveva degli accessi di ilarità
esuberante come quelli di uno scolaretto in vacanza.
Il terzo compagno, quello che chiamavano Bolibine, e che chiacchierava con
l'Italiano, era di ottimo umore, e si girava spesso verso i suoi amici per
tradurgli le storielle che gli raccontava il falso tenore: i suoi successi
all'Opera di Pietroburgo, le sue avventure galanti, la storia dei suoi famosi
gemelli da polso che le sue ammiratrici gli avevano offerto alla partenza, con
sopra incise le tre note, la, do, re, che in francese si leggono L'adorè, ossia
l'adorato; e questo gioco di parole, ripetuto nell'interno della vettura, causò
una tale allegria, e il tenore si pavoneggiò talmente arricciandosi i baffi e
guardando Sonia con aria di conquistatore, che Tartarino cominciò a domandarsi
se in realtà si trovasse in compagnia di semplici turisti e di un vero tenore.
Intanto le carrozze, sempre di buon passo, traversavano ponti, costeggiavano
laghetti, prati fioriti e frutteti umidi di pioggia.
Presto la strada si fece più dura, più selvaggia. Da un lato strapiombi cupi
rivestiti d'alberi tormentati e contorti, in basso un torrente spumeggiante, a
destra un'immensa roccia verticale dalle cui fenditure sporgevano piccoli
arbusti. Nella carrozza non si rideva più; tutti ammiravano e alzavano la testa
nel tentativo di scorgere la fine di quella galleria di granito.
Sembra di essere nelle foreste dell'Atlante! osservò solennemente Tartarino, ma
siccome la sua osservazione era passata inascoltata, aggiunse: Senza i ruggiti
dei leoni, naturalmente!
Lei li ha sentiti? chiese Sonia.
Se li aveva sentiti! Con un dolce e indulgente sorriso, disse: Io sono Tartarino
di Tarascona, signorina...
Ma che razza di barbari erano quei Russi? Anche se avesse detto: Io sono Dupont,
il cognome francese più comune, per loro sarebbe stato lo stesso. Non
conoscevano il nome di Tartarino.
Non se la prese, comunque, e rispose alla fanciulla, che voleva sapere se il
ruggito del leone gli aveva fatto paura: A me no, signorina, ma sentivo il mio
cammello tremare sotto di me; io controllavo le mie esche, ed ero tranquillo
come davanti a una mandria di mucche... A distanza, il ruggito del leone è
pressappoco così...
Per dare a Sonia un'impressione esatta della cosa, Tartarino emise dal più
profondo del petto un muggito così formidabile che la sua eco sonora si
ripercosse a lungo tra le rocce. I cavalli s'imbizzarrirono, e i viaggiatori
delle carrozze balzarono in piedi spaventati, domandandosi la ragione di tanto
fracasso. Quando riconobbero l'Alpinista, la cui testa incappucciata e il cui
armamentario erano visibili al di sopra del mantice della vettura, si
domandarono cos'altro avesse combinato quel bestione. Lui, calmissimo, seguitava
a dare dettagli sul modo migliore di affrontare la belva, di ucciderla, di
squartarla, e descrisse la sua carabina munita di uno speciale mirino di
diamante per mirare con precisione anche la notte. Sonia lo ascoltava con grande
attenzione, china verso di lui, con le narici palpitanti.
Si dice che Bombonnel cacci ancora, disse il fratello. Lei l'ha conosciuto?
Sì disse Tartarino, senza entusiasmo. E' abbastanza in gamba, ma ce ne sono di
assai migliori di lui.
A buon intenditor, poche parole. Poi aggiunse malinconicamente: Sì, le cacce
alle grandi belve offrono delle emozioni fortissime. Quando non si possono più
fare, l'esistenza sembra vuota, non si sa come riempirla.
A questo punto, Manilof, uomo di scarsa cultura, che non parlava il francese ma
lo capiva, e sembrava ascoltasse Tartarino con molta curiosità, disse ridendo
qualcosa ai suoi amici. Malinof dice che apparteniamo tutti alla stessa
confraternita spiegò Sonia a Tartarino. Anche noi andiamo a caccia di bestie
feroci.
Già, perbacco... i lupi, gli orsi bianchi...
Certo, lupi, orsi bianchi, e altre bestie nocive...
Le risate ricominciarono, rumorose e interminabili, ma ironiche e feroci questa
volta, risate che mostravano i denti, e fecero ricordare a Tartarino con quale
strana e pericolosa compagnia stava viaggiando. Improvvisamente, le vetture si
fermarono. La strada diventava più ripida, e faceva un lungo giro per
raggiungere la cima del passo, a cui si poteva arrivare anche a piedi, in circa
venti minuti, prendendo una scorciatoia che saliva ripidamente in mezzo a una
bellissima foresta di faggi.
Nonostante la pioggia della mattina, che aveva reso fangoso il terreno, i
viaggiatori scesero quasi tutti dalle carrozze e, approfittando di una
schiarita, si avviarono in fila lungo lo stretto sentiero tracciato dalle slitte
che trasportavano il legname.
Dalla carrozza di Tartarino, arrivata per ultima, gli uomini misero piede a
terra; ma Sonia, giudicando il sentiero troppo fangoso, rimase comodamente in
vettura, e vedendo che l'Alpinista, impacciato dal suo armamentario, si
accingeva a scendere dietro gli altri, gli disse a mezza voce, con tono
carezzevole.
Rimanga, la prego, mi terrà compagnia.
Il pover'uomo, sconvolto, si immaginò immediatamente un romanzo, tanto delizioso
quanto inverosimile, che fece palpitare il suo vecchio cuore.
Ma fu presto disingannato, perchè vide la fanciulla chinarsi ansiosa a osservare
Bolibine e l'Italiano che discutevano animatamente all'inizio del sentiero,
dietro a Malinof e a Boris che si erano già avviati. Il finto tenore esitava.
Pareva che l'istinto lo avvertisse di non avventurarsi solo in compagnia di quei
tre uomini. Alla fine si decise, e Sonia lo guardò salire il sentiero,
accarezzandosi la guancia rotonda con un mazzetto di ciclamini.
La carrozza andava al passo, il cocchiere era sceso e camminava avanti con gli
altri suoi compagni. Tartarino, emozionato e presentendo qualcosa di sinistro,
non osava guardare la sua vicina, tanto era in lui il timore che una parola e
uno sguardo lo avrebbero fatto attore involontario, se non addirittura complice,
del dramma che si sarebbe svolto tra breve.
Ma Sonia non gli prestava attenzione, aveva lo sguardo assorto, e continuava ad
accarezzarsi distrattamente la guancia col suo mazzolino di fiori.
E così disse dopo qualche momento, lei sa chi siamo, io ed i miei amici...
ebbene, cosa ne pensa di noi? Che ne pensano i Francesi?
L'eroe impallidì, poi arrossì. Non ci teneva a irritare con qualche frase
imprudente delle persone così vendicative... ma, d'altra parte, come parteggiare
per degli assassini? Si tolse d'impaccio con una metafora.
Signorina, lei mi diceva poco fa che eravamo della stessa confraternita, che
andavamo a caccia di mostri, di belve e di tiranni... e io le risponderò come un
confratello di Sant'Uberto... La mia convinzione è che, anche contro le belve,
dobbiamo usare armi leali... Il nostro Jules Gèrard, famoso cacciatore di leoni,
usava pallottole esplosive. Io non lo ammetto, e non l'ho mai fatto. Quando
andavo a caccia di leoni e di pantere, mi piantavo davanti alla belva, faccia a
faccia, con la mia carabina a due canne, e pan! pan! una pallottola per occhio.
Una pallottola per occhio! ripetè Sonia.
Non ho mai mancato un colpo.
La fanciulla lo guardò con ingenua ammirazione, riflettendo ad alta voce: Sì, è
certo il modo più sicuro.
Un improvviso schiantarsi di rami e di arbusti, e la macchia si aprì in alto,
vicino a loro in un modo così brusco e nello stesso tempo così circospetto, che
Tartarino, immerso com'era nei suoi ricordi di caccia avrebbe potuto credersi in
agguato nello Zaccar. Manilof saltò dalla scarpata senza far rumore e si
avvicinò alla carrozza. I suoi occhietti obliqui lampeggiavano, il suo viso era
graffiato dai pruni, i capelli e la barba, bagnati dall'acqua caduta dai rami,
ciondolavano come orecchie di cane.
Ansimante, con le mani tozze e pelose appoggiate allo sportello, interpellò
Sonia in russo; la fanciulla, voltandosi verso Tartarino, gli chiese brevemente:
Mi dia la corda... presto... La mia... la mia corda? balbettò l'eroe.
Presto, presto! Gliela renderemo tra poco.
Senza dargli altre spiegazioni, con le sue piccole mani guantate lo aiutava a
liberarsi della sua famosa corda fabbricata ad Avignone. Manilof afferrò la
grossa matassa mugolando di gioia, con due balzi risalì la scarpata, e sparì nel
folto con l'agilità di un gatto selvatico.
Che succede? Cosa stanno facendo?... Ha un aspetto così feroce... mormorò
Tartarino, non osando rivelare il suo pensiero.
Feroce, Manilof! Ah, come si vedeva che non lo conosceva. Non esisteva creatura
più dolce, più sensibile di lui; e come prova di quel carattere eccezionale,
Sonia raccontava, guardandolo coi suoi occhi azzurri, che il suo amico, dopo
aver eseguito una pericolosa missione affidatagli dal Comitato Rivoluzionario,
dopo essere salito sulla slitta che lo attendeva per la fuga, aveva dichiarato
al cocchiere che sarebbe sceso se non avesse smesso di frustare e maltrattare il
cavallo, pur sapendo che la rapidità della fuga era per lui la salvezza.
Tartarino ammirò quel gesto degno di un antico eroe, poi pensando a tutte le
vite umane che lo stesso Manilof aveva sacrificato con la stessa incoscienza di
un terremoto o dell'eruzione di un vulcano, chiese ingenuamente a Sonia: E'
morta molta gente nell'esplosione del Palazzo d'Inverno?
Troppa rispose tristemente Sonia, il solo che doveva morire, si è salvato.
Essa rimase in silenzio, come contrariata, ma così graziosa, con la testa bassa
e le lunghe ciglia bionde che le sfioravano le guance.
Tartarino si pentiva di averla addolorata, ed era ripreso dall'incanto che
emanava da quella giovane creatura.
Allora, la guerra che noi combattiamo le sembra ingiusta e inumana? E gli
parlava vicinissima, quasi carezzandolo col suo sguardo e col suo respiro;
l'eroe cominciava a cedere... Non crede che qualsiasi arma sia buona e legittima
per liberare un popolo che langue, che agonizza?...
Senza dubbio, senza dubbio...
La fanciulla si faceva più incalzante via via che Tartarino cedeva: Lei parlava
poco fa di riempire dei vuoti; non le sembra più nobile, più interessante
rischiare la vita per una grande causa, piuttosto che rischiarla per uccidere
leoni o per scalare ghiacciai?
Il fatto è... cominciò Tartarino ubriacato, con la testa in fiamme, preso
dall'ardente desiderio di stringere e di baciare quella piccola mano che si
posava sul suo braccio, come quella notte al Rigi-Kulm, mentre lui le infilava
la scarpetta. Alla fine, non potendo più resistere, prese tra le sue quella
piccola mano guantata: Senta Sonia disse con la sua grossa voce paterna e
confidenziale. Senta, Sonia...
Fu interrotto da una brusca fermata della vettura. Erano arrivati al culmine del
Brunig; viaggiatori e cocchieri tornarono alle loro vetture con l'intenzione di
recuperare il tempo perduto e di raggiungere, con una bella galoppata, il
prossimo villaggio, dove si doveva pranzare e cambiare i cavalli. I tre Russi
ripresero i loro posti, ma il posto dell'Italiano rimase vuoto.
Quel signore è salito nelle prime vetture disse Boris al cocchiere, che chiedeva
informazioni; poi, rivolgendosi a Tartarino, visibilmente preoccupato: Bisognerà
andare a richiedergli la sua corda, ha voluto tenerla con sè.
A questa frase, nuove risate scoppiarono nella carrozza, e il buon Tartarino fu
di nuovo assalito da atroci perplessità; non sapeva cosa pensare, cosa credere
davanti all'allegria e all'espressione candida dei presunti assassini. Mentre
avvolgeva il malato con scialli e coperte perchè l'aria di montagna si faceva
più fresca, Sonia raccontava in russo la conversazione avuta con Tartarino,
facendo pan!, pan! con la sua voce gentile, imitata dagli amici, alcuni dei
quali ammiravano l'eroe, mentre Manilof scuoteva la testa, incredulo.
Eccoci arrivati al cambio dei cavalli! L'albergo della posta, che si trova sulla
piazza di un grosso villaggio, è una vecchia locanda dai decrepiti balconi di
legno, e l'insegna arrugginita. La fila delle carrozze si ferma, e i
viaggiatori, affamati, danno l'assalto all'albergo.
E se si mangiasse in carrozza? propone Sonia, che non gradisce tutta quella
confusione. E siccome nessuno ha tempo di occuparsi di loro, gli uomini si
incaricano del servizio. Manilof torna con un cosciotto freddo, Bolibine con un
filone di pane e delle salsicce; ma il miglior fornitore è come sempre
Tartarino.
Certo, sarebbe stata questa un'ottima occasione per separarsi dai suoi compagni
nella confusione della sosta, o almeno per assicurarsi della presenza
dell'Italiano; ma lui non ci ha pensato nemmeno, unicamente preoccupato del
pranzo della piccola e di far vedere a Manilof e agli altri come sa arrangiarsi
un Tarasconese.
Quando scende le scale dell'albergo, con lo sguardo intento, sostenendo con le
braccia robuste un gran vassoio carico di piatti, tovaglioli, vivande assortite
e champagne svizzero, Sonia batte le mani e gli fa i complimenti.
Ma come ha fatto?
Non so... mi sono arrangiato! Siamo tutti così a Tarascona. Oh, momenti felici!
Che ricordo sarà nella vita dell'eroe questa deliziosa colazione, vicino a
Sonia, in uno scenario da operetta. Come gli sembra buono il pane, e le
salsicce, com'erano saporite! Anche il cielo sembra sorridere, è dolce, appena
velato; piove, è vero, ma è una pioggia leggera che fa cadere poche gocce sullo
champagne svizzero, così traditore per la testa dei meridionali.
Fife le Vranze! grida una una voce tra la folla, e si fa avanti un gran vecchio
che indossa una straordinaria divisa turchina a bottoni d'argento, con le falde
che strascicano per terra, e in testa un gigantesco sciaccò impennacchiato, così
pesante che lo obbliga a camminare con le braccia tese come un equilibrista.
Fieux soldat... carte royale... Charles tix. Il Tarasconese, memore dei discorsi
di Bompard, si mette a ridere, e gli dice sottovoce, strizzando l'occhio: Ti
conosco, vecchio mio! ma gli dà lo stesso una moneta e un bicchiere pieno, che
il vecchio accetta soddisfatto, strizzando l'occhio anche lui, senza sapere
perchè. Poi, togliendosi di bocca la pipa di porcellana, alza il bicchiere e
brinda alla compagnia!, ciò che conferma a Tartarino l'idea che sia un collega
di Bompard.
Che importa? Un brindisi ne vale un altro.
In piedi nella carrozza, a voce alta e bicchiere pieno, Tartarino, commosso fino
alle lacrime, brinda: Alla Francia, alla mia patria, poi alla Svizzera ospitale,
che è felice di onorare pubblicamente, e di ringraziare per l'accoglienza
generosa che fa a tutti i vinti, a tutti gli esiliati. Infine, abbassando il
tono, rivolgendosi verso i compagni di viaggio, col bicchiere in mano, augura
loro di tornare presto in patria, di ritrovare gli amati genitori, i fedeli
amici, di fare una carriera onorevole, e di metter fine a ogni dissenso, perchè
non si può passare la vita a divorarsi l'un l'altro.
Durante il brindisi, il fratello di Sonia sorride, freddo e ironico sotto gli
occhiali, Manilof, con la fronte corrugata, si domanda se il grosso abarine non
la finirà più con le sue chiacchiere, mentre Bolibine, seduto a cassetta, fa
delle smorfie col suo viso da tartaro giallo e grinzoso, e sembra un brutto
scimmiotto arrampicato sulle spalle del Tarasconese.
Solo Sonia lo ascolta con serietà, cercando di capire chi veramente sia quello
strano tipo d'uomo. Pensa davvero tutto quello che dice? Ha fatto tutto quello
che racconta? E' un pazzo, un attore, o soltanto un chiacchierone, come pretende
Manilof che, nella sua qualità di uomo d'azione, dà a quella parola un
significato spregevole?
La prova sarà fatta tra poco. Finiti i brindisi, Tartarino sta per sedersi,
quando un colpo d'arma da fuoco, un altro, un altro ancora, partiti non lontano
dall'albergo, lo fanno di nuovo balzare in piedi, eccitato, con gli occhi tesi,
fiutando la polvere.
Chi ha sparato?... dove?... che succede?
Nel suo cervello fantasioso si svolge già tutto un dramma, l'assalto del
convoglio a mano armata, l'occasione di difendere l'onore e la vita della
graziosa fanciulla. Ma no, quelle detonazioni provengono semplicemente dallo
stand di tiro a segno, dove la gioventù del luogo si esercita tutte le
domeniche. E poichè i cavalli non sono ancora attaccati, Tartarino propone, con
aria indifferente di fare un giretto fin là. Ha in testa un'idea, e Sonia,
accettando, ha la sua. Guidati dal vecchio della guardia reale, attraversano la
piazza e si fanno largo tra la folla, che li segue con curiosità.
Col suo tetto di paglia, e i pali di sostegno di legno di abete, lo stand ha
l'aspetto, più in rustico, dei nostri tiri a bersaglio situati nelle fiere, con
la differenza che qui i tiratori sparano con le loro carabine, dei fucili di
vecchio modello che sanno maneggiare con bravura. Silenzioso e a braccia
conserte, Tartarino giudica i colpi, critica a voce alta, dà consigli, ma non
tira. I Russi lo spiano e ammiccano tra loro. Pan! pan! sghignazza Bolibine
facendo il gesto di spianare un fucile e imitando l'accento del Tarasconese.
Tartarino si volge, rosso di collera: Proprio così, giovanotto! Pan! pan!... e
per quante volte vuole.
Appena il tempo di caricare una vecchia carabina a canna doppia che deve aver
servito a generazioni di cacciatori di camosci... pan!... pan!... e il gioco è
fatto. Le due palle hanno fatto centro! Da tutte le parti scoppiano applausi di
ammirazione, Sonia ha l'aria trionfante, Bolibine non ride più.
Ma questo è niente dice Tartarino. State a vedere...
Lo stand non gli basta più, cerca un altro bersaglio, qualcosa da colpire; la
folla indietreggia spaventata davanti a quello strano e grosso alpinista dal
fiero cipiglio, che impugna la carabina e che propone al vecchio della guardia
reale di spaccargli la pipa tra i denti a cinquanta passi di distanza. Il
vecchio, spaventato, si rifugia urlando tra la folla. Eppure bisogna che
Tartarino tiri ancora, colpisca qualcosa. Perdiana, ho trovato! Come a
Tarascona!... e il vecchio cacciatore di berretti, getta il suo copricapo in
aria con tutta la forza dei suoi muscoli doppi, tira al volo, e lo attraversa!
Bravissimo! grida Sonia, infilando nel piccolo foro del berretto il mazzolino di
fiori di montagna che poco prima sfiorava la sua guancia.
Con questo grazioso trofeo, Tartarino sale di nuovo in vettura. La tromba suona,
il convoglio delle carrozze si muove, i cavalli iniziano velocemente la discesa
di Briez, una strada meravigliosa, scavata nella roccia a forza di mine, segnata
ogni due metri da paracarri che la riparano da un abisso profondo più di mille
piedi. Ma Tartarino non si accorge del pericolo, non ammira nemmeno il panorama,
non vede la vallata di Meiringen avvolta in una nebbia luminosa, col lago, i
villaggi, e un orizzonte immenso di montagne e di ghiacciai, che varia ad ogni
curva della strada come uno scenario in movimento.
Immerso in teneri pensieri, l'eroe ammira la fanciulla che gli sta di fronte,
pensa che la gloria sola non basta, che è triste invecchiare soli, anche se
carichi di gloria, e che quel fresco fiore nordico, trapiantato nel suo
giardinetto di Tarascona, ne avrebbe messo in fuga la monotonia, e sarebbe stato
delizioso a vedersi e a respirarsi molto più dell'eterno e minuscolo baobab
(arbor gigantea) da lui trapiantato.
Col suo sguardo infantile, la sua fronte larga e volitiva, anche Sonia lo sta
fissando, e sogna; ma si potrà mai sapere cosa sognano le giovinette?
7. Le notti di Tarascona, Dove sarà? Ansia, Le cicale del corso reclamano
Tartarino, Martirio di un grande santo tarasconese, Il Club degli Alpini. Quel
che succedeva in farmacia, Aiuto, Bèzuquet!
Una lettera, signor Bèzuquet!... Viene dalla Svizzera!... dalla Svizzera!
gridava allegramente il postino dal lato opposto della piazzetta, sventolando
qualcosa in aria, e dirigendosi rapidamente verso il farmacista che, in maniche
di camicia, stava prendendo il fresco davanti alla porta.
Bèzuquet balzò in piedi, afferrò la lettera con mani tremanti, la portò nel suo
antro dove si mescolavano odori di elisir e di erbe medicinali, ma non l'aprì
che quando il postino se ne fu andato, ristorato da un bicchiere dello squisito
sciroppo di cadavere in premio della buona notizia.
Erano quindici giorni che Bèzuquet aspettava quella lettera dalla Svizzera;
quindici giorni di angoscia! Ed ora, eccola lì. Gli bastò solo guardare la
calligrafia minuta ma energica della busta, il nome dell'Ufficio postale,
Interlaken, e il grande timbro violetto dell'HotelJungfrau, gestione Meyer,
perchè gli occhi gli si riempissero di lacrime, e tra i grossi baffi da corsaro
barbaresco gli uscisse un debole fischio bonario e affettuoso.
CONFIDENZIALE. STRAPPARE DOPO LETTURA.
Queste parole, scritte in grossi caratteri in cima alla pagina, e nello stile
telegrafico della farmacopea uso esterno, agitare prima dell'uso, lo turbarono
al punto che, come in un incubo, cominciò a leggere la lettera ad alta voce:
Quello che mi succede è spaventoso... Dal salotto vicino, dove faceva il suo
sonnellino del dopocena, la signora Bèzuquet madre poteva sentirlo; e poteva
sentirlo anche il suo aiutante che, in fondo al laboratorio, batteva col suo
pestello dei colpi regolari nel grande mortaio di marmo.
Bèzuquet continuò la lettura a voce bassa, rilesse due o tre volte la lettera,
pallidissimo e coi capelli irti sulla testa. Poi, dopo essersi guardato intorno,
cra cra, strappò la lettera in minutissimi pezzi e li gettò nel cestino. Si
chinò subito per riprenderli, perchè pensò che qualcuno li potesse trovare e
rimettere insieme, ma in quel momento fu chiamato da una voce tremolante:
Ferdinando, dove sei?
Sono qui, mamma.. risponde lo sventurato corsaro, paralizzato dalla paura,
mentre brancola sotto la scrivania.
Cosa stai facendo, tesoro?
Faccio... faccio il collirio per la signorina Tournatoire. La mamma si
riaddormenta, il pestello dell'aiutante, dopo una pausa, riprende il suo lento
movimento pendolare che culla tutta la casa, e la piazzetta assopita nelle
ultime ore stanche della giornata estiva.
Ora Bèzuquet si è messo a camminare a grandi passi davanti alla porta, mentre i
boccali colorati della vetrina lo illuminano alternativamente di rosa e di
verde. Gesticola, alza le braccia, pronuncia strane parole: Infelice... è
perduto... amore fatale... come salvarlo? e malgrado il suo smarrimento
accompagna con un'allegra fischiatina la ritirata dei dragoni che si allontanano
sotto i platani del viale.
Ehi! Buonasera, Bèzuquet dice un'ombra frettolosa nel crepuscolo grigio.
Dove va, Pègoulade?
Al Club, perbacco!... seduta notturna... Si parlerà di Tartarino e della
presidenza... deve venire anche lei.
Verrò, verrò... risponde bruscamente il farmacista, illuminato in quell'attimo
da un'idea provvidenziale; ritorna in farmacia, s'infila la giacca, si tasta le
tasche per assicurarsi di avere le chiavi e il pugno di ferro americano, senza
il quale nessun Tarasconese esce fuori dopo la ritirata. Poi chiama Pascalon, ma
a voce bassa per non svegliare la mamma.
Giovanissimo ma già calvo, come se tutti i suoi capelli si fossero rifugiati
nella sua barba bionda e ricciuta, l'aiutante farmacista Pascalon aveva l'anima
fanatica del cospiratore, la fronte sporgente, gli occhi allucinati e le gote
paffute e dorate come un panino sfornato di fresco. Nelle grandi gite
alpinistiche domenicali, era lui che portava la bandiera del Club. Pascalon
aveva per il P.C.A. l'ammirazione ardente e silenziosa del cero che si consuma
davanti all'altare.
Pascalon, disse il farmacista a voce bassa, e così vicino che i suoi baffi
facevano il solletico all'orecchio del giovanotto, ho avuto notizie di
Tartarino... Sono sconvolgenti... Poi, vedendolo impallidire, aggiunse:
Coraggio, ragazzo mio, c'è ancora un po' di speranza... Intanto ti affido la
farmacia... se ti chiedono dell'arsenico, non lo dare; dell'oppio, nemmeno... e
nemmeno del rabarbaro... non dare niente, insomma. Se alle dieci non sono ancora
tornato, chiudi e vai a letto. Detto questo s'immerse a passo rapido nelle
tenebre del viale, senza nemmeno voltarsi indietro, ciò che permise a Pascalon
di gettarsi sul cestino, di frugarlo con mani avide, e di rovesciarlo infine sul
balcone per vedere se ci fosse rimasto qualche pezzetto della misteriosa lettera
portata dal postino.
Per coloro che conoscono la facile esaltazione dei Tarasconesi, sarà facile
immaginare la costernazione della cittadina alla notizia dell'improvvisa
scomparsa di Tartarino. Tutti, chi più chi meno, avevano perso la testa, tanto
più che si era alla metà di agosto, e i crani bollivano sotto un sole capace di
farne saltare i coperchi. Dalla mattina alla sera, in città non si parlava
d'altro, non si sentiva che un nome: Tartarino... e persino le cicale tra i
platani dei viali ricoperti di polvere, vibravano nella luce sgolandosi a
ripetere in modo ossessionante: Tar... tar... tar... tar...
Nessuno sapeva niente, ma naturalmente tutti erano informatissimi sulla sorte
del presidente. Secondo alcuni era entrato in un convento di trappisti o era
fuggito con un'attrice; secondo altri era andato in un isola a fondare una
colonia col nome di Port-Tarascon, oppure stava percorrendo l'Africa centrale
alla ricerca di Livingstone, il famose esploratore inglese.
Livingstone! Ma se è già da due anni che è morto...
Ma l'immaginazione tarasconese sfida il tempo e lo spazio. Il bello è che queste
storie di trappisti, di colonizzazioni, di viaggi lontani, erano idee di
Tartarino, sogni che faceva ad occhi aperti e che aveva raccontato ai suoi
intimi, i quali, nell'attuale frangente, non sapevano cosa pensare, e irritati
nell'intimo per non essere stati messi al corrente, ostentavano davanti alla
folla un'aria di mistero e una grande riservatezza. Excourbaniès sospettava che
Bravida fosse al corrente; Bravida, dal canto suo diceva: Bèzuquet deve saper
tutto, guarda di traverso come un cane con l'osso in bocca.
Il vero è che il povero farmacista soffriva le pene dell'inferno, col suo
segreto che lo macerava, lo solleticava, lo martirizzava come un cilicio, lo
faceva impallidire e arrossire di continuo, gli annebbiava la vista. Pensate che
lo sventurato era di Tarascona, e ditemi se in tutto il martirologio esista un
supplizio più atroce di quello di San Bèzuquet, che sapeva tante cose, ma non le
poteva dire. Ecco perchè quella sera, malgrado le terrificanti notizie, egli si
dirigeva verso la riunione con passo più agile e più disinvolto.
Finalmente avrebbe potuto parlare!... sfogarsi, dire quello che da tempo lo
opprimeva; e nella fretta di liberarsi di quel peso, gettava qua e là delle
mezze parole ai passanti che incontrava nel viale di Circonvallazione.
La giornata era stata così calda che, malgrado l'ora insolita e le tenebre
imminenti, le otto meno un quarto all'orologio del municipio, c'era fuori una
folla di persone a prendere il fresco. In tutti i gruppi si parlava di
Tartarino. E così, signor Bèzuquet, niente lettere? domandavano al
farmacista, vedendolo passare.
Proprio così, ragazzi... leggete il Forum, domattina... Affrettava il passo, ma
gli andavano dietro, lo tiravano per la giacca, e l'accompagnarono in massa fino
alla porta del Club. Le sedute si tenevano nella vecchia sala da gioco, dove il
lungo tavolo ricoperto dello stesso panno verde, serviva ora da scrivania. Al
centro, la poltrona presidenziale con le lettere P.C.A. ricamate sullo
schienale, a un'estremità, come in sottordine, la sedia del segretario. Dietro,
era spiegata la bandiera del Circolo, e sotto era esposto un plastico di
cartapesta dove spiccavano in rilievo le Alpine coi loro nomi e le rispettive
altezze. Gli angoli della sala erano decorati di alpenstock d'onore incrostati
d'avorio e riuniti in fasci come stecche di biliardo. In una vetrinetta erano
esposte alcune curiosità raccolte sulle montagne, come minerali, selci,
cristalli, pietrificazioni, e una salamandra.
In assenza di Tartarino, Costecalde, ringiovanito, occupava trionfalmente la
poltrona; la sedia era riservata a Excourbaniès che faceva da segretario; questo
diavolo d'uomo, cresputo, barbuto, villoso, sentiva continuamente il bisogno di
agitarsi, di far rumore, cosa che non gli permetteva di assolvere mansioni
sedentarie. Al minimo pretesto, alzava le braccia, le gambe, emetteva urla
spaventose, degli ah! ah! ah! di gioia feroce, che finivano sempre col terribile
grido di guerra in dialetto tarasconese: Fen de brut! facciamo baccano! Lo
chiamavano il gong per via della sua voce metallica e insistente capace di
rompere i timpani.
Qua e là, su divani di crine erano seduti i membri del comitato. In prima linea,
il capitano della sussistenza in pensione Bravida, che tutti a Tarascona
chiamavano il Comandante; un ometto vestito in modo impeccabile, che compensava
la statura da fantaccino con un paio di baffoni alla Vercingetorige.
Poi la faccia lunga, scarna e malaticcia di Pègoulade, ufficiale postale,
l'ultimo dei naufraghi della Medusa. A memoria d'uomo, a Tarascona c'è sempre
stato un ultimo naufrago della Medusa; in un certo periodo se ne contavano
persino tre, che si davano l'un l'altro dell'impostore. Di quei tre, l'unico
naufrago autentico era Pègoulade. Imbarcato sulla Medusa coi suoi genitori, egli
era rimasto coinvolto nel naufragio all'età di sei mesi, cosa che non gli
impediva di descrivere nei minimi particolari, la fame, le scialuppe, la
zattera, e quando lui aveva afferrato per la gola il comandante che voleva
salvarsi! A sei mesi... mica male! Era insopportabile, del resto, con quella sua
eterna storia ripetuta a sazietà da almeno cinquant'anni, e che gli offriva il
pretesto di darsi un'aria di stanco della vita. Dopo quello che ho visto!
diceva, ed era ingiusto perchè proprio a quella storia doveva il posto di
ufficiale postale, mantenuto sotto tutti i regimi.
Erano presenti anche il presidente Bèdaride, l'avvocato Barjavel, e il terribile
dottore Tournatoire, di cui Bravida diceva che avrebbe cavato il sangue da una
rapa. A causa dell'afa opprimente, aumentata dal calore delle lampade a gas,
questi signori erano in maniche di camicia, e questo diminuiva alquanto la
solennità della riunione. La riunione era ristretta, e l'infame Costecalde
voleva approfittarne per fissare al più presto la data delle elezioni, senza
aspettare il ritorno di Tartarino. Sicuro del fatto suo, egli trionfava in
anticipo, e quando, dopo la lettura dell'ordine del giorno, si alzò per dare
inizio alle sue manovre, le sue labbra sottili erano atteggiate a un sorriso
diabolico.
Non ti fidare di chi sorride prima di parlare, sentenziò a mezza voce il
Comandante.
Costecalde, impassibile, e strizzando l'occhio al fedele Tournatoire, cominciò
con una voce piena di fiele: Signori, l'inqualificabile condotta del nostro
presidente, l'incertezza in cui si lascia...
E' falso! Il presidente ha scritto!...
Fremente, Bèzuquet si era piantato davanti alla scrivania, poi, riconoscendo
l'irregolarità del suo intervento e alzando la mano secondo le regole, chiese la
parola per una comunicazione urgente.
Parli! Parli!
Costecalde, livido, con un nodo alla gola, gli concesse la parola con un cenno
del capo. Allora, ma solo allora, Bèzuquet cominciò: Tartarino è ai piedi della
Jungfrau... sta per iniziarne la scalata... Ha chiesto la bandiera.
Un silenzio rotto solo dall'ansimare dei petti e dal sibilo delle lampade a gas;
poi una formidabile esplosione di entusiasmo, applausi, acclamazioni, scalpiccio
di piedi, mentre su tutto dominò il formidabile grido di guerra di Excourbaniès:
Ah! ah! ah! fen de brut! al quale fece eco la folla di fuori.
Costecalde, sempre più giallo, agitava disperatamente il campanello; finalmente
Bèzuquet potè proseguire, asciugandosi la fronte, e ansando come se avesse
salito cinque piani. Questa bandiera, reclamata dal loro presidente per essere
piantata sulla vergine cima, bisognava forse impacchettarla, legarla, e spedirla
per espresso come un qualunque pacco postale?
Mai! ah! ah! ah! ruggì Excourbaniès.
Non sarebbe stato meglio nominare una delegazione, e tirare a sorte tra i membri
del consiglio?
Non lo lasciarono finire. In un lampo la proposta fu votata, approvata, e i nomi
dei tre membri, tirati a sorte, uscirono nell'ordine seguente: 1. Bravida; 2.
Pègoulade; 3. il farmacista.
Pègoulade protestò. Quel lungo viaggio lo spaventava, si sentiva così debole e
sofferente dopo il naufragio della Medusa.
Partirò io al suo posto, Pègoulade disse Excourbaniès, gesticolando
animatamente.
Quanto a Bèzuquet, non poteva lasciare la farmacia. Ne andava della salute di
tutta la città. Un'imprudenza del suo aiutante... e Tarascona sarebbe stata
avvelenata, decimata.
Non sia mai! esclamò il comitato, alzandosi come un sol uomo. Non potendo
partire il farmacista, fu proposto di mandare il suo aiutante Pascalon, che si
sarebbe incaricato della bandiera. Lui se ne intendeva!
Altre acclamazioni, altri schiamazzi del gong, e sul Corso una tale esplosione
di entusiasmo popolare, che Excourbaniès fu costretto ad affacciarsi alla
finestra per dominare con la sua voce senza rivali, tutto quel clamore.
Amici, Tartarino è stato ritrovato! Sta per coprirsi di gloria! Non aggiunse che
un viva Tartarino!, seguito dal suo grido di guerra lanciato a pieni polmoni,
poi rimase per un minuto a godersi l'urlo della folla riunita sotto gli alberi
del Corso, che si agitava confusamente in una nuvola di polvere, mentre tra i
rami, innumerevoli cicale frinivano come se fosse di giorno.
Costecalde, che insieme ad altri, si era affacciato a una finestra per osservare
lo spettacolo, si diresse barcollando verso la sua poltrona.
Guardate Costecalde disse qualcuno. Cosa gli è preso?... Avete visto com'è
giallo!
Accorsero; già il terribile dottor Tournatoire aveva aperto la sua borsetta, ma
l'armaiolo, torcendosi dal dolore, mormorò candidamente, con un'orribile
smorfia: Non è niente... non è niente... lasciatemi stare... lo so cos'è... è
l'invidia! Povero Costecalde, come doveva soffrire!
Durante questi avvenimenti, all'altra estremità della Circonvallazione, nella
farmacia della piazzetta, l'aiutante di Bèzuquet, seduto alla scrivania del suo
principale, incollava pazientemente, e cercava di mettere insieme i pezzetti
della lettera dimenticati dal farmacista in fondo al cestino; ma molti frammenti
sfuggivano a un'esatta ricostruzione, ed ecco il curioso e cupo enigma,
somigliante a una carta dell'Africa Centrale dove larghi spazi vuoti sono
segnati come terra incognita, che si presentò davanti agli occhi terrorizzati
dell'ingenuo porta-bandiera: pazzo d'amore... lampada a cannel... conserve di
Cicago non possostaccarm... nichilista... a morte... condizioni abomin... in
cambio del suo... voi mi conoscete... Ferdin... sapete le mie idee liberali...
ma da questo allo zaricidio... rribili conseguenze... Siberia... impiccato...
l'adoro... ah!... stringere la tua mano onest... Tar... Tar....
8. Dialogo memorabile tra Tartarino e la Jungfrau, Un salotto nichilista, Duello
col coltello da caccia, Incubo spaventoso, Cercate me, signori? Strana
accoglienza dell'albergatore Meyer alla delegazione tarasconese.
Come tutti gli alberghi di lusso di Interlaken, l'Hotel Jungfrau, gestione
Meyer, era situato sulla Hoeheweg, un ampio viale con una doppia fila di alberi
di noce che ricordava vagamente a Tartarino il suo caro viale di
Circonvallazione, ma senza sole, senza polvere e senza cicale; infatti era una
settimana che non smetteva di piovere.
Tartarino occupava una bella camera con balcone al primo piano, e la mattina,
mentre si faceva la barba davanti allo specchietto appeso alla finestra, la
prima cosa che colpiva il suo sguardo, oltre i campi, i prati e le foreste, era
la Jungfrau, la cui cima aguzza sbucava oltre le nubi, bianca di neve e
illuminata sempre dal raggio furtivo di un invisibile sole.
Allora, tra quella vetta alpina rosea e bianca, e l'Alpinista di Tarascona, si
svolgeva un breve dialogo che non mancava di grandezza.
Tartarino, ci siamo? domandava severamente la Jungfrau. Eccomi, eccomi
rispondeva l'eroe, col pollice sotto il naso, accelerando il ritmo della
rasatura; poi indossava il suo abito a quadretti da alpinista, che da qualche
giorno aveva messo da parte, ingiuriandosi: Mondo cane! Mi sto comportando in un
modo...
Ma una piccola voce chiara e sommessa saliva dalla siepe di mirto davanti alle
finestre del pianterreno. Buongiorno! diceva Sonia, vedendolo apparire al
balcone, la carrozza ci aspetta... si sbrighi, pigrone. Vengo, vengo...
E in un attimo sostituiva la pesante camicia di lana con una fine camicia
inamidata, il suo abito da montagna con quella giacca verde-serpente che la
domenica, durante il concerto della banda, faceva girare la testa alle signore
tarasconesi. I cavalli scalpitavano davanti all'albergo, Sonia era già seduta
vicino al fratello, sempre più pallido e smunto nonostante il clima salubre di
Interlaken; ma al momento della partenza, Tartarino vedeva immancabilmente
alzarsi da una panchina col loro passo pesante di orsi di montagna due guide
famose di Grindelwald, Rodolphe Kaufmann e Christian Inebnit, che aveva
prenotato per la sua ascensione alla Jungfrau, e che tutte le mattine venivano a
vedere se il loro cliente era disposto a partire.
L'apparizione di quei due uomini dalle scarpe chiodate, con le loro consunte
giacche di fustagno, i loro volti gravi e ingenui, le quattro parole francesi
che tiravano fuori con difficoltà stiracchiando i loro grandi cappelli di
feltro, era per Tartarino un vero supplizio.
Non vi scomodate... penserò io ad avvertirvi... Ma tutti i giorni li ritrovava
allo stesso posto, e non se ne sbarazzava che dandogli una mancia proporzionata
al rimorso che lo attanagliava.
I due montanari, molto soddisfatti di fare la Jungfrau in quella maniera,
intascavano gravemente i soldi e riprendevano rassegnati la via del loro
villaggio, lasciando un Tartarino mortificato e vergognoso della sua debolezza.
Ma poi, l'aria fine, i prati fioriti che si riflettevano negli occhi limpidi di
Sonia, un piccolo piede che sfiorava il suo... all'inferno la Jungfrau. L'eroe
non pensava più che ai suoi amori, o piuttosto alla missione che si era
prefisso... quella di ricondurre sulla retta via la povera piccola Sonia,
criminale incosciente che, per amore fraterno, si era messa fuori della legge e
della natura.
Questo era il motivo che lo tratteneva a Interlaken nello stesso albergo dei
Wassilief. Alla sua età, col suo aspetto di buon papà, non poteva pretendere di
fare innamorare quella fanciulla, ma la vedeva così dolce, così efficiente, così
devota a quel fratello che le miniere della Siberia le avevano restituito roso
dal male, condannato a morte dalla tisi più che da tutte le corti marziali. Come
non commuoversi? Tartarino proponeva loro di portarli a Tarascona, di
installarli in una villa piena di sole nei dintorni della città, quella
deliziosa cittadina dove non piove mai, dove la vita trascorre tra feste e
canzoni. Si esaltava, accennava un motivetto, tamburellando con le dita sul
cappello, intonava un allegro ritornello tarasconese a tempo di farandola: Laga
di gadeù, la Tarasco, la Tarasco, laga di gadù, la Tarasco de Casteù.
Ma mentre un sorrisetto ironico rendeva ancora più sottili le labbra del malato,
Sonia scuoteva la testa. Nè sole nè feste per lei, finchè il popolo russo
agonizzava sotto il tiranno. Appena guarito il fratello, e il suo sguardo
accorato voleva dire ben altro, nessuno le avrebbe impedito di ritornare lassù,
a soffrire e a morire per la sacra causa.
Ma, mondo cane! gridava il Tarasconese, dopo quel tiranno, se riuscite a farlo
saltare in aria, ne verrà fuori un altro... e bisognerà ricominciare da capo; e
intanto gli anni passano! Passa il tempo della felicità e dell'amore...
Il suo modo di pronunciare la parola amore alla tarasconese, con tre erre e gli
occhi fuori della testa, divertiva Sonia; poi, con molta serietà, dichiarava che
non avrebbe amato che il liberatore della sua patria. Fosse anche brutto come
Bolibine, rozzo e volgare come Malinof, era pronta a darsi tutta a lui e a
vivere al suo fianco. E Sonia parlava di questa unione con tranquillità, con la
sua aria di ragazza di buona famiglia, davanti a quel Tarasconese, piccolo
borghese e attaccato alle tradizioni, disposto tuttavia a finire i suoi giorni
al fianco di quella adorabile creatura, se essa non vi avesse posto delle
condizioni odiose e criminali.
Mentre essi discutevano di questi delicati argomenti, i campi, i laghi, le
foreste, le montagne passavano davanti ai loro occhi, e sempre, ad ogni
cambiamento di scena, in mezzo al velo dell'eterna pioggia che seguiva l'eroe in
tutte le sue escursioni, la Jungfrau drizzava la sua bianca cima, come per
esacerbare il suo rimorso e turbare l'incanto di quei momenti.
Rientravano per l'ora di colazione, si sedevano all'immensa tavola, dove le
bande del riso e delle prugne continuavano la loro silenziosa ostilità. Ma
Tartarino non se ne interessava; seduto accanto a Sonia, attento a che Boris non
avesse alle spalle una finestra aperta, premuroso, paterno, sfruttava tutte le
sue seduzioni di uomo di mondo, e le sue qualità casalinghe di coniglio
domestico. Più tardi si prendeva il tè dai Russi, nel salottino del pianterreno,
davanti al giardinetto. Ancora un'ora deliziosa per Tartarino; parlavano vicini
a bassa voce, mentre Boris sonnecchiava su un divano. L'acqua bolliva dolcemente
nel samovar, un profumo di fiori bagnati si insinuava dalla porta socchiusa
insieme al riflesso azzurro del glicine che la incorniciava.
Un po' più di sole, un po' più di caldo... sembrava avverarsi il sogno del
Tarasconese, con la sua piccola Sonia accanto, nel giardinetto del baobab.
Ad un tratto, Sonia trasalì. Le due!... e la posta?
Ci vado subito diceva il buon Tartarino, e bastava il tono della voce, il gesto
teatrale e risoluto con cui si abbottonava la giacca e impugnava il bastone, a
dimostrare l'importanza di quella decisione, così semplice all'apparenza, di
andare cioè all'ufficio postale a ritirare la corrispondenza fermo posta dei
Wassilief.
Sorvegliatissimi dalle autorità locali e dalla polizia russa, i nichilisti, e
soprattutto i loro capi, erano obbligati a prendere certe precauzioni, come
quella di farsi indirizzare lettere e giornali fermo posta e solo con semplici
iniziali. Da quando si erano installati a Interlaken, poichè Boris si teneva
appena in piedi, Tartarino, per evitare a Sonia la noia di una lunga attesa
davanti allo sportello, si era incaricato, a suo rischio e pericolo, di questo
servizio giornaliero. La posta si trovava a dieci minuti dall'albergo, in una
strada larga e rumorosa che faceva seguito alla passeggiata.
Il soldato in avanscoperta, il fuciliere che rasenta i muri della città nemica,
non camminano con maggior diffidenza di Tartarino nel breve tragitto
dall'albergo alla posta. Al minimo rumore di passi dietro di lui, si fermava ad
ammirare con attenzione le fotografie esposte, o a sfogliare un libro inglese o
tedesco, per obbligare il poliziotto a sorpassarlo; oppure si girava bruscamente
e fissava da vicino con occhi feroci una cameriera d'albergo che faceva la
spesa, o qualche turista inoffensivo che, spaventato, scendeva dal marciapiede,
prendendolo per un pazzo.
All'altezza dell'ufficio, i cui sportelli si aprivano direttamente sulla strada,
Tartarino cominciava a passarci davanti più volte, scrutando le fisionomie dei
presenti prima di avvicinarsi, poi si slanciava, infilava la testa e le spalle
nello sportello, sussurrando parole indistinte, che, con sua grande
disperazione, gli facevano sempre ripetere; una volta in possesso della
misteriosa corrispondenza, tornava all'albergo facendo un gran giro dalla parte
delle cucine, con la mano contratta in fondo alla tasca sul pacchetto delle
lettere e dei giornali, pronto a strappare e anche a inghiottire ogni cosa al
minimo allarme.
Quasi sempre Manilof e Bolibine aspettavano notizie dai loro amici non
alloggiavano all'albergo per economia e prudenza. Bolibine aveva trovato lavoro
in una tipografia, e Manilof, ebanista abilissimo, lavorava per degli
imprenditori. Il Tarasconese non aveva simpatia per quei due l'uno gli dava
fastidio con le sue smorfie e la sua aria sorniona, l'altro lo perseguitava con
le sue occhiate feroci. E poi, tenevano troppo posto nel cuore di Sonia.
E' un eroe! diceva Sonia, parlando di Bolibine, e raccontava che per tre anni
aveva stampato da solo un giornale rivoluzionario nel pieno centro di
Pietroburgo. Per tre anni non era mai uscito, non si era mai affacciato alla
finestra, e aveva dormito in un grande armadio in cui la padrona di casa lo
chiudeva tutte le sere insieme al suo torchio clandestino. E Manilof, che per
sei mesi era rimasto nel sottosuolo del Palazzo Imperiale, aspettando
l'occasione buona, dormendo la notte sulla sua carica di dinamite, ciò che gli
procurava terribili mal di testa e disturbi nervosi aggravati dalla continua
angoscia, e dalle improvvise irruzioni della polizia che aveva avuto delle vaghe
segnalazioni e che spesso eseguiva delle perquisizioni tra gli operai che
lavoravano nel palazzo. Le rare volte che usciva, Manilof si incontrava nella
piazza dell'Ammiragliato con un membro, del Comitato rivoluzionario che gli
chiedeva a bassa voce, camminando: Fatto?
Non ancora rispondeva l'altro, senza muovere le labbra. Finalmente, una sera di
febbraio, alla stessa domanda, rispondeva con la massima calma: Fatto...
Subito dopo, un boato spaventevole confermava le sue parole; tutte le luci del
palazzo si spegnevano di colpo, la piazza piombava nella più completa oscurità
attraversata da grida di dolore e di terrore, da squilli di tromba, dal galoppo
sfrenato delle guardie e dei pompieri.
Sonia interrompeva qui il suo racconto; poi riprendeva: E' orribile, tante vite
umane sacrificate, tanti sforzi, tanto coraggio, tanta intelligenza sprecata
inutilmente... No, no, questi non sono i mezzi, queste uccisioni in massa...
Colui che si vuole colpire sfugge sempre...
Il mezzo migliore, il più umano; sarebbe quello di affrontare la Zar come voi
affrontate il leone, ben deciso, ben armato, mettersi in agguato a una finestra,
allo sportello di una carrozza... e quando fosse a tiro...
Certo, certo diceva Tartarino, imbarazzato, fingendo di non aver capito
l'allusione, e si lanciava subito in qualche discussione filosofica o umanitaria
con uno dei numerosi presenti. Perchè Bolibine e Manilof non erano i soli a
visitare i Wassilief. Tutti i giorni si vedevano facce nuove, uomini e donne
giovani, spesso con l'aspetto di studenti poveri, di maestrine esaltate bionde e
rosee, con l'aria ostinata e l'ingenua ferocia di Sonia; dei fuorilegge, degli
esiliati, persino dei condannati a morte, fatto che non gli impediva di
comportarsi con giovanile esuberanza.
Ridevano, parlavano forte, e siccome quasi tutti parlavano francese, Tartarino
si sentiva a suo agio. Lo chiamavano lo zio, e sentivano in lui qualcosa di
ingenuo e di infantile che attirava la loro simpatia.
Forse eccedeva un po' nei suoi racconti di caccia, alzava la manica per far
vedere sul braccio la cicatrice del graffio di una pantera, o si faceva palpare
sotto la barba dei buchi che ci avevano lasciato le zanne di un leone
dell'Atlante; forse era un po' troppo confidenziale con quella gente, li
prendeva sotto braccio, gli dava delle pacche sulle spalle, chiamandoli per nome
dopo cinque minuti che li conosceva: Senta, Dimitri... Lei mi conosce, Fedor
Ivanovich... Non da molto tempo, comunque; ma in fondo riusciva simpatico per la
sua rotondità, la sua bonomia, la sua fiducia e il desiderio di essere
apprezzato.
Leggevano le lettere davanti a lui, complottavano, inventavano parole d'ordine
per sviare la polizia, creando tutta un'atmosfera di cospirazione estremamente
congeniale allo spirito fantasioso del Tarasconese. Sebbene per natura egli
fosse contrario alla violenza, non poteva trattenersi talvolta dal discutere i
loro progetti criminali; approvava, criticava, dava consigli dettati
dall'esperienza di un gran capo che è sceso sul sentiero di guerra, abituato
all'uso di tutte le armi e alla lotta corpo a corpo con le belve.
Un giorno, mentre parlavano davanti a lui dell'uccisione di un poliziotto,
pugnalato da un nichilista in teatro, dimostrò a tutti che il colpo era stato
inferto male, e dette loro una lezione sull'uso del coltello.
Si fa così, guardate! Dal basso in alto, così non si rischia di ferirsi!
Poi, esaltandosi alla propria finzione: Immaginiamo che io abbia il vostro
tiranno faccia a faccia, durante una caccia all'orso. Lui è là, dove e lei,
Fedor, io sono qui vicino al tavolino, e ognuno di noi ha il coltello da
caccia... A noi due, messere! Dobbiamo farla finita!
Piantato in mezzo alla stanza, raccolto sulle corte gambe per darsi lo slancio,
soffiando come un mantice, imitava i gesti di un vero combattimento che
terminava con un grido di trionfo, quando riusciva, mondo cane!, a infilzare
l'arma fino all'impugnatura e dal basso in alto, nel ventre dell'avversario.
Ecco come si fa, ragazzi miei!
Ma quando, sfuggito all'incantesimo degli occhi azzurri di Sonia e all'ebrezza
che emanava dal gruppo di quelle teste matte, si ritrovava solo coi suoi
pensieri, il berretto da notte, e il bicchiere d'acqua zuccherata, quali rimorsi
e quali terrori lo assalivano! Ma di che cosa si andava immischiando? In fin dei
conti, quello Zar non era il suo Zar, e tutte quelle storie non lo riguardavano
affatto...
C'era anche il caso che un giorno o l'altro lo arrestassero e lo consegnassero
alla polizia moscovita... Mondo cane! Quei Cosacchi non scherzano mica...
Nell'oscurità della camera, con la potenza di immaginazione di cui era dotato e
che aumentava in posizione orizzontale, egli vedeva svolgersi davanti ai suoi
occhi i vari e atroci supplizi che lo minacciavano: vedeva Tartarino nelle
miniere di rame, come Boris, che lavorava con l'acqua fino alla vita, il corpo
disfatto e avvelenato. Fugge, si nasconde nelle foreste coperte di neve,
inseguito dai Tartari e dai cani addestrati alla caccia all'uomo. Estenuato dal
freddo e dalla fame, è catturato, e infine impiccato tra due forzati,
abbracciato da un pope dai capelli unti che puzza di acquavite e di grasso di
foca, mentre laggiù, a Tarascona, in una domenica piena di sole, la folla
ingrata ed immemore, insedia il raggiante Costecalde sulla poltrona
presidenziale.
Era stato nell'angoscia di uno di questi incubi che Tartarino aveva lanciato il
suo grido di disperazione: Aiuto, Bèzuquet... e aveva spedito al farmacista
quella lettera confidenziale bagnata dal sudore di quell'incubo spaventoso. Ma
il buongiorno mattutino che Sonia indirizzava alla sua finestra, bastava per
stregarlo di nuovo, e per farlo ripiombare nelle sue snervanti indecisioni.
Una sera, ritornando all'albergo dal Kursaal insieme ai Wassilief e a Bolibine,
dopo due ore di musica esaltante, lo sventurato dimenticò ogni prudenza, e la
frase: sonia, ti amo, che tratteneva da tanto tempo, gli sfuggì dalle labbra,
mentre le stringeva il braccio che si appoggiava al suo.
Essa non si turbò, lo fissò, pallida sotto la luce della lampada dell'ingresso,
dove si erano fermati.
Il mio amore, lei deve meritarselo disse con un grazioso ma enigmatico sorriso,
che le scopriva i piccoli denti candidi. Tartarino stava per rispondere, per
impegnarsi sotto giuramento a qualsiasi follia criminale, quando fu avvicinato
da un fattorino dell'albergo.
Ci sono delle persone che la desiderano... dei signori... sono saliti a
cercarla.
Mi cercano?... Mondo cane!... e come mai?
Nel suo cervello cominciò a prender forma il primo episodio del suo incubo:
Tartarino arrestato... estradato in Russia... Aveva paura, certo, ma il suo
atteggiamento fu eroico. Si staccò bruscamente da Sonia: Fugga, si salvi... le
disse con voce soffocata. Poi salì le scale a testa alta, lo sguardo fiero, come
se andasse al patibolo, ma era così sconvolto che fu obbligato a sorreggersi
alla ringhiera.
Inoltrandosi nel corridoio, vide un gruppetto di persone davanti alla porta
della sua camera, che guardavano dal buco della serratura, e bussavano
chiamando: Ehi, Tartarino!
Fece due passi, e con la gola secca, disse: Cercate me, signori?
Certo, signor presidente! Un vecchietto arzillo, vestito di grigio, che pareva
portare sulla giacca, sul cappello, sulle ghette, sui lunghi baffi spioventi,
tutta la polvere del viale di Circonvallazione, saltò al collo dell'eroe,
strofinando le sue guance aride ed appassite a quelle lisce e paffute del
presidente.
Bravida!... non è possibile!... Anche Excourbaniès?... E laggiù chi c'è?
Gli rispose un belato: Illustre capo!... e l'aiutante di Bèzuquet si avanzò,
urtando le pareti con una specie di canna da pesca impacchettata, legata, e
avvolta in carta grigia e tela cerata.
Toh! C'è anche Pascalon... Dammi un bacio, ragazzo... Ma cosa hai portato? Fammi
vedere!
La carta... leva la carta! suggerì il comandante. Il giovanotto tolse
rapidamente l'involucro, e la bandiera tarasconese si spiegò davanti a Tartarino
annientato. I delegati si scoprirono.
Presidente! la voce di Bravida era maschia e solenne... lei ci ha chiesto la
bandiera, noi gliel'abbiamo portata. Il presidente spalancò tanto d'occhi. Io...
vi ho chiesto la bandiera?
Come! Non ce l'ha chiesta?
Ma sì, certo, certo... si affrettò a dire Tartarino, improvvisamente illuminato
al pensiero di Bèzuquet. Comprese tutto, e indovinò il resto; commosso
dall'ingegnosa menzogna del farmacista per richiamarlo all'onore e al dovere,
cominciò a balbettare tra i peli della barba: Ah, come sono contento, ragazzi!
Quanto bene mi fate... Viva il presidente! ululò Pascalon, brandendo la
bandiera. Risuonò allora il gong di Excourbaniès, e il suo grido di guerra: Ah!
Ah!
Ah!, fen dè brut... echeggiò fino alle cantine dell'albergo. Delle porte si
aprirono, facce incuriosite fecero capolino a tutti i piani, per sparire subito
spaventate alla vista della bandiera e di quel gruppo di uomini neri e pelosi
che gesticolavano, gridavano parole incomprensibili. Mai il pacifico Hotel
Jungfrau aveva sentito un simile baccano.
Entriamo in camera disse Tartarino, un po' a disagio. Stavano girando a tentoni
nel buio della camera, alla ricerca dei fiammiferi, quando, dopo un colpo
autoritario bussato alla porta, apparve la faccia gonfia e congestionata
dell'albergatore Meyer. Stava per entrare, ma si arrestò davanti a quel buio,
dove brillavano degli occhi minacciosi, e dalla soglia a denti stretti, col suo
duro accento tedesco, ringhiò: Cercate di tenervi tranquilli... o vi faccio
acciuffare dalla polizia...
Un brontolio minaccioso commentò dal buio quella frase infelice. L'albergatore
indietreggiò di un passo, ma aggiunse: Sappiamo chi siete, ormai. So che vi
tengono d'occhio, e non voglio più avere gente come voi nel mio albergo!
Signor Meyer disse Tartarino, gentilmente ma con fermezza. Mi faccia preparare
il conto. Questi signori ed io partiremo domattina per la Jungfrau.
Oh paese natio, oh piccola patria nella grande patria! E' bastato l'accento
tarasconese, che ha fatto vibrare l'aria del paese tra le pieghe azzurre della
bandiera, ed ecco Tartarino liberato dall'amore e dalle sue insidie, restituito
agli amici, alla sua missione, alla gloria. Avanti, dunque!
9. Al camoscio fedele.
L'indomani mattina, il tragitto a piedi tra Interlaken e Grindelwald, dove
avrebbero incontrato le guide per salire alla Piccola Scheideck, fu veramente
delizioso; fu una marcia trionfale per il P.C.A. rivestito del suo abbigliamento
da alpinista, mentre si appoggiava da un lato alla spalla ossuta del comandante
Bravida, dall'altro al braccio robusto di Excourbaniès, ambedue orgogliosi di
essere vicini e di sostenere il loro presidente, di portargli la piccozza, il
sacco e l'alpenstock, mentre, ora più avanti, ora più indietro, sgambettava come
un cagnolino il fanatico Pascalon, con la bandiera accuratamente arrotolata e
impacchettata onde evitare le scene e i tumulti della sera prima.
L'allegria dei suoi compagni, il sentimento del dovere compiuto, la Jungfrau
tutta bianca che si intravedeva all'orizzonte, bastarono per far dimenticare al
nostro eroe tutto quello che, forse per sempre e senza nemmeno una parola di
addio, aveva lasciato dietro di sè. Alle ultime case di Interlaken, gli occhi
gli si riempirono di lacrime, e mentre camminava, si sfogava a turno con
Excourbaniès: Mi stia a sentire, Spiridione... o con Bravida: Lei mi conosce,
Placido... Per ironia della sorte, quel prode soldato si chiamava Placido,
mentre quel rozzo bestione dai modi grossolani rispondeva al nome di Spiridione.
Disgraziatamente, i Tarasconesi, gente più galante che sentimentale, non
prendevano troppo sul serio gli affari di cuore: Chi perde una donna e quindici
soldi, è un gran peccato per i soldi..., sentenziava Placido, e Spiridione la
pensava esattamente come lui: quanto al candido Pascalon aveva una paura
terribile delle donne, e diventava rosso quando sentiva parlare della Piccola
Scheideck, credendo si trattasse di una donna di facili costumi. Il povero
innamorato fu costretto a tenersi per sè le sue confidenze e a consolarsi da
solo, ciò che è per lo meno più sicuro.
D'altronde nessun dolore avrebbe potuto resistere all'incanto di una strada come
quella che stavano percorrendo, incassata in una valle profonda e scura,
percorsa da un fiume sinuoso e spumeggiante, che scrosciava con rumore di tuono
tra i fianchi scoscesi della montagna ricoperti di folti boschi di abeti.
I delegati tarasconesi, con la testa in aria, avanzavano in preda a una specie
di terrore religioso. Non conoscendo che le loro collinette aride e pietrose,
non avrebbero mai immaginato che potessero esistere tanti alberi tutti insieme
su delle montagne così alte.
Questo è niente! Vedrete la Jungfrau! diceva il P.C.A. che godeva della loro
meraviglia, sentendosi aumentare di importanza davanti a loro. Ma dopo due ore
di marcia nello stesso scenario i quattro Tarasconesi cominciarono ad averne
abbastanza dello scroscio dei torrenti, del corno delle Alpi che faceva
echeggiare tra le montagne il suo malinconico ritornello, e soprattutto
dell'umidità, una specie di vapore che saliva da quella terra umida, fiorita di
piante acquatiche, dove il sole non penetra mai.
C'è da buscarsi una polmonite diceva Bravida, rialzandosi il bavero della
giacca. Poi, alla stanchezza si unì la fame, e il cattivo umore.
Non si trovavano alberghi, e Excourbaniès e Bravida, che si erano ingozzati di
lamponi, cominciarono a sentirsi male. Persino quell'angioletto di Pascalon,
carico non solo della bandiera, ma della piccozza, dell'alpenstock e del sacco,
che i suoi compagni gli avevano vigliaccamente affidato, aveva perduto la sua
allegria e la sua agilità.
A una svolta della strada, appena attraversata la Lutschine su uno di quei ponti
coperti che si trovano spesso nei paesi dove cade molta neve, li accolse un
formidabile suono di corno.
Basta! Ora basta!... urlò la delegazione, esasperata. Il suonatore, un gigante
nascosto tra i cespugli al margine della strada lasciò andare l'enorme tromba di
abete lunga fino a terra che terminava con una cassa di risonanza capace di dare
a quello strumento preistorico la sonorità di un pezzo di artiglieria.
Gli chieda se conosce un albergo, disse il presidente a Excourbaniès che, con
una straordinaria faccia tosta e un minuscolo dizionario tascabile, pretendeva
di fare l'interprete della delegazione.
Un albergo, signori?... ma certo. C'è il Camoscio Fedele, a due passi da qui;
permettetemi di accompagnarvi. Strada facendo, raccontò di essere stato a
lavorare a Parigi per diversi anni.
Un altro della Compagnia, perbacco! pensò Tartarino, lasciando che gli altri si
meravigliassero. Il collega di Bompard, del resto, fu loro molto utile, perchè i
padroni del Camoscio Fedele non parlavano che un orribile dialetto tedesco.
Ben presto, la delegazione tarasconese, riunita intorno a un'enorme frittata con
patate, ricuperò, la salute, e quel buon umore necessario ai meridionali come il
sole al loro paese. Si mangiò forte e si bevve con abbondanza. Dopo numerosi
brindisi in onore del presidente e della sua ascensione, Tartarino, che si era
incuriosito dell'insegna dell'albergo, chiese al suonatore di corno, che stava
facendo uno spuntino in un angolo: Ci sono ancora dei camosci da queste parti?
Credevo che in Svizzera non ce ne fossero più.
L'uomo strizzò un occhio. Non è che ce ne siano molti, ma si potrebbe provare a
farvene vedere qualcuno.
Vedere? Bisognerebbe che il presidente gli potesse tirare! disse Pascalon, pieno
di entusiasmo: Non ha mai fallito un colpo.
Tartarino si rammaricò di non aver portato la sua carabina.
Aspettate, vado a parlare al padrone.
Per combinazione il padrone era un vecchio cacciatore di camosci, e offrì a
Tartarino il suo fucile, le munizioni speciali, e propose di guidare i signori
in un posto che conosceva.
Avanti, ragazzi! esclamò Tartarino, soddisfacendo il desiderio dei suoi compagni
che volevano veder brillare l'abilità del loro presidente.
In fondo non si trattava che di un piccolo ritardo; la Jungfrau poteva
aspettare. Usciti dal cancelletto posteriore dell'albergo, si trovarono subito
in mezzo alle rocce della montagna, piene di crepacci color ruggine, di abeti e
di cespugli spinosi. L'albergatore li aveva preceduti, e i Tarasconesi lo
vedevano, già assai più in alto, che agitava le braccia e tirava sassi, certo
per stanare l'animale. Fecero molta fatica a raggiungerlo, un po' perchè si
erano alzati allora da tavola, e un po' perchè il terreno era scosceso, sassoso
e molto diverso dalle collinette di Tarascona. Oltre tutto l'aria era pesante e
temporalesca, e nuvole minacciose stavano addensandosi proprio sopra le loro
teste.
Accidenti! gemeva Bravida.
Porca miseria! brontolava Excourbaniès.
Cosa mi verrebbe voglia di dire... aggiungeva flebilmente il mansueto Pascalon.
Ma la guida gli disse bruscamente di starsene fermi e zitti, e Tartarino
aggiunse severamente che: Quando siamo armati, non si parla! Allora, sebbene
solo il presidente fosse armato, tutti trattennero il fiato. A un tratto,
Pascalon gridò: Eccolo, eccolo, il camoscio!
Cento metri sopra di loro, con le corna ritte, il pelame fulvo, le quattro zampe
unite sull'orlo di una roccia, il bell'animale, che sembrava scolpito nel legno,
li stava guardando tranquillamente. Tartarino imbracciò il fucile, prese la mira
col metodo che gli era abituale, e stava per sparare, quando il camoscio sparì.
E' colpa tua disse il comandante a Pascalon. Hai fischiato... gli hai fatto
paura.
Fischiato, io?...
Allora è stato Spiridione.
Ma nemmeno per sogno!
Eppure tutti avevano sentito un fischio stridente e prolungato.
Il presidente li mise allora al corrente del fatto che il camoscio
all'avvicinarsi del nemico, emette un segnale acuto dalle narici. Quel diavolo
d'uomo sapeva tutto sulla caccia!
Chiamati dalla guida, ripresero la salita; ma il cammino diventava sempre più
ripido, le rocce più scoscese, le frane più frequenti. Tartarino era in testa, e
si voltava ogni momento per aiutare i compagni, tendendo loro la mano o la
carabina. La mano, la mano, per favore diceva il prode Bravida, che aveva una
paura matta delle armi cariche. Nuovo segnale della guida, nuovo arresto del
gruppo, a naso in aria.
Ho sentito cadere una goccia mormorò inquieto il presidente.
Nello stesso istante rombò il tuono, e più forte del tuono si sentì la voce
potente di Excourbaniès: A lei, Tartarino! Il camoscio era balzato proprio
accanto a loro, saltando il precipizio come un lampo di luce dorata, ma
l'apparizione era stata troppo rapida perchè Tartarino potesse prenderlo di
mira, anche se si era sentito il lungo sibilo delle sue narici.
Lo beccherò, mondo cane! esclamò il presidente, ma i delegati protestarono.
Excourbaniès gli domandò ironicamente se aveva l'intenzione di sterminarli
tutti.
Caro ca... caapo, belò timidamente Pascalon, ho sentito dire che il camoscio,
quando non ha più scampo, si rivolta contro il cacciatore e diventa pericoloso.
Cerchiamo di non provocarlo, allora! fece Bravida minacciosamente, calandosi il
berretto sugli occhi.
Tartarino disse che erano dei pulcini bagnati.
Bruscamente, mentre stavano litigando, furono avvolti da una nebbia fitta e
tiepida che puzzava di zolfo, si persero di vista, e cominciarono a chiamare e a
cercarsi.
Ehi! Tartarino!
E lei, Placido?
Ca... caapo!
Calma e sangue freddo!
Vennero presi dal panico. Poi una folata di vento disperse e lacerò la nuvola, e
un lampo a zig-zag, accompagnato da un tuono spaventoso, si ripercosse fino ai
piedi dei turisti. Il mio berretto! gridò Spiridione a testa nuda nella bufera,
coi capelli ritti crepitanti di scintille elettriche.
Si trovavano proprio nel mezzo del temporale, nella fucina di Vulcano.
Bravida fu il primo a darsela a gambe, il resto della delegazione si slanciò
dietro di lui, ma un grido del P.C.A., che pensava a tutto, li trattenne:
Sciagurati... attenzione ai fulmini!
Del resto, oltre al reale pericolo da lui segnalato, come correre su quei
sentieri scoscesi, trasformati in torrenti dall'acqua che cadeva? Il ritorno fu
tragico; procedevano a lenti passi sotto l'imperversare della bufera, tra brevi
lampi seguiti dall'esplosione del tuono, scivolando, cadendo, fermandosi di
colpo. Excourbaniès imprecava, Pascalon si segnava e invocava a voce alta i
santi protettori di Tarascona. Bravida, che era in retroguardia, si voltò
inquieto. Ma cosa diavolo succede dietro di noi?... Sento galoppare e fischiare.
Il prode comandante non riusciva a levarsi dalla testa l'idea del camoscio che
assaliva i cacciatori. A bassa voce, per non spaventare gli altri, comunicò i
suoi timori a Tartarino, il quale prese eroicamente il suo posto nella
retroguardia, marciando a testa alta, bagnato fino alle ossa, ma con la fredda
determinazione che dà la presenza del pericolo.
Ma una volta rientrati in albergo, quando vide i suoi cari alpinisti al sicuro,
intenti ad asciugarsi e a ripulirsi intorno a un'enorme stufa di maiolica nella
sala del primo piano, dove stava già arrivando l'odore del grog al vino che
avevano ordinato, il presidente fu preso da brividi, e dichiarò impallidendo:
Credo di aver preso il male!
Prendere il male, espressione sinistra nella sua concisione e nel suo vago
significato, e che comprendeva tutte le malattie, peste, colera, vomito nero,
febbri gialle, nere, folgoranti, tutte le malattie insomma di cui ogni
Tarasconese si sente afflitto, ad ogni minimo segno di malessere.
Tartarino aveva preso il male! Non era più possibile ripartire, e del resto la
delegazione non chiedeva che un po' di riposo. Il letto fu subito scaldato, fu
sollecitato il vino caldo, e appena bevuto il secondo bicchiere, il presidente
si sentì serpeggiare per tutto il corpo un piacevole calore, un formicolio di
buon auspicio. Con due cuscini dietro la schiena, un piumino sui piedi, il
passamontagna calato in testa, si sentiva pervadere da un delizioso benessere,
ascoltava con piacere i ruggiti della bufera annusava il buon profumo di abete
di quella stanza rustica dalle pareti di legno, guardava i suoi cari alpinisti
raggruppati intorno al suo letto.
Paludati in tende, copriletti e coperte che mettevano in risalto le loro
fisionomie galliche, saracene e romane, essi sorvegliavano il loro capo col
bicchiere in mano, mentre i loro vestiti fumavano davanti alla stufa. Tartarino,
dimenticando i propri mali, domandò con voce dolente: Come si sente, Placido?...
Spiridione, mi sembra che lei non stia bene...
No, Spiridione stava benissimo; gli era passato tutto, vedendo il presidente
ammalato. Bravida, che accomodava la morale secondo i proverbi del suo paese,
aggiunse cinicamente: Il male del vicino, consola e guarisce! Poi parlarono
della loro caccia al camoscio, eccitandosi al ricordo di alcuni episodi
pericolosi, come quando l'animale si era rivoltato, furioso, e senza la
complicità della menzogna, ma con ingenuità infantile, fabbricavano già la
favola che avrebbero raccontato al ritorno. Improvvisamente Pascalon, sceso per
andare a prendere un'altra porzione di grog, tornò su sbalordito, con un braccio
nudo che stringeva pudicamente la tenda a fiorellini azzurri in cui era avvolto.
Rimase a boccheggiare per più di un secondo, poi rantolò: Il camoscio!
Ebbene, il camoscio?
E' giù in cucina che si scalda al fuoco.
Ma va'! Vuoi scherzare?
Vuole andare lei a vedere, Placido?
Bravida esitava. Excourbaniès scese in punta di piedi, poi tornò quasi subito,
sconvolto. Cose da non credersi... il camoscio stava bevendo del vino caldo!
Se lo meritava, povera bestia, dopo le folli corse che aveva dovuto fare sulla
montagna per eseguire gli ordini del padrone che, di solito, si contentava di
farlo girellare per la casa, per far vedere ai turisti come era bene
addomesticato. Cose da pazzi! disse Bravida, sbalordito, mentre Tartarino si
calava sugli occhi il passamontagna per nascondere ai delegati la piacevole
ilarità che gli procurava questo imbattersi ad ogni passo nella Svizzera
rassicurante di Bompard, coi suoi trucchi e le sue comparse.
10. L'ascensione della Jungfrau, Toh, i buoi! I ramponi Kennedy non funzionano,
Lo scalatore cieco, Il presidente nel crepaccio, Ci lascia gli occhiali, Sulla
cima! Tartarino diventa un dio.
Molta folla, quella mattina, all'Hotel Bellevue sulla Piccola Scheideck.
Nonostante le raffiche di pioggia, avevano preparato le tavole all'aperto, al
riparo della veranda, dove si poteva ammirare una mostra di alpenstock,
cannocchiali, orologi a cucù di legno scolpito. I turisti potevano mangiare,
ammirando a sinistra la meravigliosa vallata di Grindelwald, a destra quella del
Lauterbrunnen, e di fronte l'immacolato splendore della Jungfrau, che sembrava a
un tiro di schioppo, e che col riflesso dei suoi ghiacciai e dei suoi fianchi
innevati, rendeva l'atmosfera di un bianco luminoso, i bicchieri più
trasparenti, le tovaglie più bianche.
Da qualche momento l'attenzione generale si era concentrata su una carovana
rumorosa di uomini barbuti, che era arrivata a cavallo, a dorso di mulo e di
asino, persino in portantina, e che si preparava all'ascensione con
un'abbondante e animatissima colazione, il cui brio contrastava con l'aria
annoiata e solenne delle bande del riso e delle prugne, i cui membri più
illustri erano riuniti a Scheideck: lord Chippendale, il senatore belga con la
famiglia, il diplomatico austro-ungarico, ed altri ancora. Si sarebbe potuto
pensare che tutta quella gente barbuta riunita a tavola, dovesse tentare insieme
l'ascensione, perchè tutti si occupavano dei preparativi; si alzavano, si
precipitavano a fare delle raccomandazioni alle guide, a dare un'occhiata alle
provviste, e da un'estremità all'altra della terrazza si interpellavano a voce
altissima.
Ehi, Placido, guarda un po' se il pentolino è nel sacco! Non dimenticate la
macchinetta per fare il caffè, mi raccomando.
Al momento della partenza, però, ci si accorse che la compagnia rimaneva, e che
la scalata l'avrebbe intrapresa solamente uno di loro... ma quale uno!
Ci siamo, ragazzi? chiese il buon Tartarino con voce allegra e trionfante, senza
nemmeno un'ombra di inquietudine per i pericoli dell'impresa; la stessa mattina,
infatti, era in lui svanito ogni dubbio sui trucchi usati in Svizzera, quando
aveva visto davanti ai due ghiacciai del Grindelwald due cancellini con la
scritta: Entrata al ghiacciaio: un franco e cinquanta. Poteva dunque assaporare
in pieno e senza pensieri questa trionfale partenza, godere la soddisfazione di
sentirsi guardato e ammirato da quelle disinvolte signorine inglesi dai capelli
corti, che lo avevano così graziosamente preso in giro al Rigi-Kulm. e che ora
si entusiasmavano confrontando quell'ometto con l'enorme montagna che avrebbe
scalato. Una di loro disegnava il suo ritratto su un album, un'altra voleva
avere l'onore di toccare il suo alpenstock.
Tchempègne!... tchempègne! esclamò ad un tratto un lungo signore inglese
dall'aria funerea e col viso color mattone, dopo aver obbligato l'eroe a bere
con lui.
Lord Chippendale, sir... E' lei?
Tartarino di Tarascona.
Oh, yes... Tarterine... un bel nome per un cavallo, disse il lord che doveva
essere uno sportivo d'oltre-Manica. Anche il diplomatico austro-ungarico venne a
stringere la mano all'alpinista, ricordandosi vagamente di averlo incontrato in
qualche posto.
Felicissimo! Felicissimo! balbettò parecchie volte, e non sapendo come
cavarsela, aggiunse: Ossequi alla signora! che era la sua formula mondana per
por fine alle presentazioni. Ma le guide si impazientivano, bisognava arrivare
prima di sera al rifugio del Clup Alpino per passare la notte; non c'era un
minuto da perdere.
Tartarino capì, salutò tutti con un largo gesto, sorrise paternamente alle
ragazzine inglesi, poi con voce tonante: Pascalon, la bandiera!
La bandiera sventolò, i meridionali si scoprirono, perchè le scene teatrali
piacciono ai Tarasconesi; e accompagnata dal grido ripetuto di Viva
Tartarino!... Ah! Ah! Ah!... fen de brut! la colonna si mise in moto le due
guide in testa, col sacco e le provviste, poi Pascalon con la bandiera infine il
P.C.A. e i delegati che dovevano accompagnarlo fino al ghiacciaio del Guggi.
Incolonnata come in processione, con lo stendardo sventolante sullo sfondo delle
valli e delle montagne, quel corteo ricordava vagamente il giorno dei morti in
campagna. Ad un tratto, il comandante, allarmato, gridò: Ci sono dei buoi!
Si vedeva infatti del bestiame sparso che brucava l'erba su un pendio.
L'ex-ufficiale aveva una paura morbosa di quegli animali, e siccome non si
poteva lasciarlo solo, la delegazione dovette arrestarsi. Pascalon consegnò la
bandiera a una delle guide, poi un'ultima stretta di mano, un'occhiata alle
mucche e alcune rapide raccomandazioni: Addio, dunque!
Non facciamo imprudenze, mi raccomando!
Quanto a proporre al presidente di accompagnarlo, nessuno ci pensò; era troppo
alta, quella montagna! Più ci si avvicinava, più diventava alta, e si vedevano i
crepacci e i precipizi. Meglio osservare l'ascensione dalla Scheideck.
Naturalmente, il presidente del Club delle Alpine non aveva mai messo piede su
un ghiacciaio. Non c'erano ghiacciai sulle collinette di Tarascona, aride e
profumate di erba selvatiche, eppure l'avvicinarsi al Guggi, risvegliava in lui
ricordi di caccia in Provenza, ai margini della Camargue, verso il mare.
No, grazie, ho i miei ramponi. Disse Tartarino alle guide che gli offrivano dei
calzini di lana da infilarsi sopra gli scarponi. Ramponi Kennedy, perfezionati,
comodissimi urlava, come parlando a un sordo, per farsi capire da Christian
Inebnit, che al pari del suo compagno Kaufmann, non sapeva una parola di
francese. Intanto, seduto sulla morena, si assicurava ai piedi con le cinghie
una specie di zoccoli ferrati provvisti di tre grosse punte. Cento volte li
aveva provati, questi ramponi Kennedy, nel suo giardinetto; ma questa volta
l'effetto fu sorprendente. Sotto il peso dell'eroe le punte si conficcarono nel
ghiaccio con tanta forza, che tutti gli sforzi fatti per tirarli fuori, furono
vani. Tartarino, inchiodato al ghiaccio, cominciò a imprecare e a fare disperati
segnali con le braccia e col bastone per richiamare le guide, che si erano già
avviate credendo di avere a che fare con un alpinista provetto.
Nell'impossibilità di sradicarlo, sciolsero le cinghie, e i ramponi, abbandonati
sul ghiaccio, furono sostituiti da un paio di grossi calzini di lana.
Il presidente continuò così la sua strada, con molta fatica e molte difficoltà.
Incapace di manovrare il bastone, se lo trovava sempre fra le gambe; il puntale
di ferro scivolava, e lo trascinava via quando ci si appoggiava troppo; provò
con la piccozza, ma era ancora più difficile a manovrare; intanto la superficie
del ghiacciaio si faceva sempre più aspra, le increspature diventavano sempre
più alte e prendevano l'aspetto di una furiosa tempesta marina pietrificata.
Ma l'immobilità era solo apparente, poichè sordi scricchiolii, schianti
spaventosi cominciavano a farsi sentire, ed enormi lastre di ghiaccio si
spostavano lentamente. L'eroe cadde più volte, una volta fino a mezza vita, in
uno di quegli imbuti verdastri, ma fortunatamente, le sue larghe spalle lo
trattennero senza lasciarlo sprofondare.
A vederlo così maldestro e nello stesso tempo così tranquillo e sicuro di sè,
sempre sorridente e animato come durante la colazione di poco prima, le guide
pensarono che lo champagne svizzero gli avesse dato alla testa. Come potevano
supporre diversamente di un presidente di Club Alpino, di uno scalatore famoso
di cui i compagni parlavano con esclamazioni ammirative?
Dopo averlo preso ciascuno sotto un braccio con la rispettosa fermezza di un
poliziotto inglese che fa salire in carrozza un giovanotto di buona famiglia
ubriaco, cercarono con gesti e monosillabi di farlo tornare alla ragione, perchè
si rendesse conto dei pericoli della montagna, e della necessità di arrivare al
rifugio prima di notte; cercavano di fargli paura parlandogli dei crepacci, del
freddo, delle valanghe. Con la punta delle loro piccozze gli indicavano gli
enormi blocchi di ghiaccio, nevai vertiginosi che incombevano su di loro in un
riverbero accecante.
Ma il buon Tartarino se ne infischiava allegramente. I crepacci? Ma via!... Le
valanghe? Roba da ridere! E scoppiava in una sonora risata, strizzando l'occhio
e dando loro delle gomitate nelle costole per far capire alle guide che non
gliela davano a bere, e che conosceva il segreto di tutta quella commedia.
Gli altri finirono per scherzarci sopra, e per rallegrarsi al ritmo delle
canzoni tarasconesi; e quando si fermavano un minuto per permettere al signore
di riprender fiato, si mettevano a cantare i loro Jodler alla moda svizzera, non
troppo forte per paura delle valanghe, e per poco tempo, perchè si faceva sempre
più tardi.
Si avvertiva l'avvicinarsi della notte dal freddo che si faceva pungente, e
soprattutto dallo strano scolorarsi delle nevi e dei ghiacci, che anche sotto un
cielo brumoso mantengono una luminosità iridescente, ma che al morire della luce
assumono i colori lividi e spettrali di un paesaggio lunare.
A un certo momento, Kaufmann gli indicò sopra di loro qualcosa che sembrava una
catasta di legna sulla neve. Die Hutte! Era il rifugio. Sembrava di poterlo
raggiungere in pochi salti, ma ci volle ancora una buona mezz'ora di marcia. Una
delle guide andò avanti per accendere il fuoco. Ormai scendeva la notte, e si
era alzato un forte vento che spazzava il terreno gelato. Tartarino, che aveva
perduto in parte la nozione delle cose, sostenuto saldamente dal braccio del
montanaro, procedeva a sbalzi e a strattoni, senza nemmeno accorgersi
dell'abbassamento della temperatura. Improvvisamente, la luce di una fiamma
scaturì a pochi passi da loro, portando un buon odore di zuppa di cipolle.
Erano arrivati.
Niente di più rudimentale di quei rifugi costruiti in montagna dal Club Alpino
svizzero. Una sola grande stanza, con un castello di legno che serve da letto, e
lascia poco spazio per un fornello, una lunga tavola e degli sgabelli. La cena
era già pronta: tre scodelle, tre cucchiai di stagno, la macchinetta speciale di
Tartarino per preparare il caffè, e due scatole di carne in conserva aperte.
Tartarino trovò la cena deliziosa, anche se la zuppa puzzava di fumo, e se la
famosa macchinetta automatica che doveva preparare un litro di caffè in tre
minuti, si rifiutava di funzionare.
Dopo cena, si mise a cantare: era l'unico modo di tenersi in contatto con le
guide. Cantò le canzoni del suo paese: La Tarasque, Le Ragazze di Avignone. Le
guide risposero con le canzoni locali in dialetto tedesco: Mi Vater isch en
Appenzeller... Brava gente, dai lineamenti duri e scabri, come scolpiti nella
roccia, la barba cespugliosa tra le rughe, e gli occhi chiari abituati ai grandi
orizzonti come quelli dei marinai: e la stessa sensazione di mare e di spazio
che Tartarino aveva provato avvicinandosi al Guggi, la ritrovò qui, in quella
capanna bassa e fumosa come l'interno di una nave, mentre folate di vento
investivano il rifugio, facendone scricchiolare le pareti.
Avevano finito di mangiare, quando sentirono dei passi pesanti e delle voci che
si avvicinavano. Colpi violenti fecero tremare la porta. Tartarino,
impressionato, guardò le guide. Un attacco notturno a quell'altezza?...
I colpi raddoppiarono. Chi va là? fece l'eroe, afferrando la piccozza; ma già il
rifugio era invaso da due giganteschi Yankee, coi vestiti bagnati di sudore e di
neve, accompagnati dalle guide e dai portatori, da tutta una carovana che aveva
fatto l'ascensione della Jungfrau.
Siate i benvenuti, milords; fece il Tarasconese con un largo gesto accogliente,
di cui i milords non avevano affatto bisogno per mettersi a loro agio. In un
attimo presero possesso della tavola; i cucchiai e le scodelle furono lavati con
acqua calda per essere usati dai nuovi venuti, come si usa nei rifugi alpini.
Gli scarponi dei milords fumavano davanti al fuoco, mentre loro, levatesi le
calze e avvolti i piedi nella paglia, si accomodavano davanti a un'altra zuppa
di cipolle. I due Americani erano padre e figlio, due giganti dai capelli rossi,
vere teste da pionieri dall'espressione dura e volitiva.
Uno di loro, il più anziano, aveva nel volto abbronzato e rugoso due occhi
dilatati e bianchi; dall'esitazione con cui cercava a tasto il cucchiaio e la
scodella e dalle attenzioni con le quali il figlio lo circondava, Tartarino capì
ben presto che quello era il famoso alpinista cieco di cui gli avevano parlato
all'Hotel Bellevue, senza che lui ci avesse creduto. Era stato un famoso
scalatore, in gioventù, ed ora a sessant'anni rifaceva col figlio tutte le sue
ascensioni. Aveva già fatto il Wetterhorn e la Jungfrau, e contava di affrontare
il Cervino e il Monte Bianco. Diceva che l'aria delle cime, quel vento freddo
che ha il gusto della neve, gli procuravano una gioia indicibile, un ritorno del
passato vigore.
Insomma domandava Tartarino a uno dei portatori, giacchè i due Americani erano
poco comunicativi, e rispondevano solo con yes, o no, a tutti i suoi tentativi
di attaccare discorso, insomma, se non ci vede, come fa nei passi pericolosi?
Oh, ha il piede del montanaro, e poi c'è sempre suo figlio che lo sorveglia e
gli mette il piede nel punto giusto... Il fatto è che non gli è mai successo
nessun incidente.
Tanto più che gli incidenti non sono poi così pericolosi, no? fece il
Tarasconese e, dopo un sorrisetto d'intesa al portatore sbalordito, sempre più
convinto che fosse tutto un trucco, si distese sul pancone, si avvolse nella
coperta, si tirò il passamontagna sugli occhi, e nonostante la luce, il chiasso,
il fumo delle pipe e l'odore di cipolle, si addormentò profondamente.
Mossiè!... Mossiè!
Una delle guide lo scuoteva perchè era l'ora della partenza, mentre l'altra
versava nelle tazze il caffè bollente. Si sentirono delle imprecazioni e dei
grugniti che provenivano dai dormienti, urtati da Tartarino che si avvicinava
alla tavola, e poi alla porta. Tartarino si trovò improvvisamente all'aperto, al
freddo, abbagliato dal fantastico riverbero della luna su quella candida
distesa, sulle cascate congelate, dove si stagliavano nerissime le ombre delle
creste e dei picchi. Non era il caos luminoso del pomeriggio, nè le livide ombre
incalzanti della serata grigia, era una città fatta di vicoli scoscesi, di antri
misteriosi, di angoli bui, di monumenti di marmo e di cadenti rovine; una città
morta con immense piazze deserte.
Le due! Camminando di buon passo, si poteva arrivare in cima a mezzogiorno.
Avanti, dunque! esclamò energicamente il P.C.A., avviandosi con decisione. Ma le
guide lo fermarono. Bisognava legarsi in cordata, per superare i passaggi
pericolosi. Legarsi? Be', se proprio ci tenete...
Christian Inebnit si mise in testa, lasciando tre metri di corda tra lui e
Tartarino, che era separato da un uguale tratto di corda dalla seconda guida,
carica delle provviste e della bandiera. Il Tarasconese si portava meglio del
giorno prima, e in realtà la sua convinzione doveva essere addirittura
incrollabile per non prendere sul serio le difficoltà del cammino, se si può
chiamare cammino la terribile cresta di ghiaccio sulla quale avanzavano con
prudenza, larga solo pochi centimetri, e così scivolosa che Christian doveva
scavarci dei gradini con la piccozza.
La sommità della cresta scintillava tra due abissi profondi. Pensate che
Tartarino avesse paura? Nemmeno per sogno! Appena appena un piccolo brivido a
fior di pelle. Posava con precisione il piede dove la guida aveva scavato il
gradino, faceva tutto quello che vedeva fare, tranquillo come quando si
esercitava sull'orlo della vasca del suo giardinetto. A un certo punto, la
cresta diventò così stretta che fu necessario mettersi a cavalcioni, e mentre
avanzavano lentamente aiutandosi con le mani, rintronò sopra di loro un boato
formidabile.
Valanga! disse Inebnit, e rimase immobile finchè durò il ripercuotersi degli
echi che riempirono il cielo e che terminarono con un lungo brontolio di tuono.
Superata la cresta, s'incamminarono per un nevaio dalla pendenza abbastanza
dolce, ma di una lunghezza interminabile. Stavano già arrampicandosi da più di
un'ora, quando una sottile linea rosea cominciò a disegnarsi sulle cime più
alte. Era l'annunzio dell'alba. Da buon meridionale nemico del buio, Tartarino
intonò il suo inno di gioia: Oh gran sole di Provenza, gaio amico del Mistral...
Una brusca scossa della corda lo fermò di netto in mezzo alla strofa.
Zitto!... Zitto! faceva Inebnit, indicando con la piccozza il gruppo minaccioso
di seracchi giganteschi che si accavallavano gli uni sugli altri, pronti a
crollare alla minima scossa. Ma il Tarasconese era sicuro di sè; non era a lui
che si dovevano raccontare simili panzane, e ricominciò tranquillamente a
cantare a squarciagola: tu che bevi la Duranza, come fosse vin di Crau.
Le guide, visto e considerato che non era possibile far tacere quell'energumeno,
fecero un lungo giro per allontanarsi dai seracchi, ma ben presto si dovettero
fermare davanti a un enorme crepaccio nelle cui profondità verdi-azzurre
penetrava il primo timido raggio di sole. Il crepaccio era sormontato da quello
che si chiama un ponte di neve, ma così stretto e così fragile, che al primo
passo si sciolse in un turbinio di polvere bianca, trascinando con sè la prima
guida e Tartarino. Il Tarasconese e la guida rimasero sospesi alla corda,
trattenuti con tutta la sua forza di montanaro da Rodolphe Kaufmann che si era
aggrappato alla piccozza infissa profondamente nel ghiaccio. Ma se la sua forza
bastava ad impedire che i due uomini sprofondassero nell'abisso, non era
sufficiente per tirarli fuori; la guida rimaneva immobile a denti stretti e coi
muscoli tesi, troppo lontano dal crepaccio per vedere quello che succedeva.
Da principio Tartarino, sorpreso dalla caduta, accecato dalla neve, aveva
agitato braccia e gambe come un burattino, con movimenti istintivi, poi,
trattenuto dalla corda, era rimasto penzoloni sul baratro, col naso vicino alla
parete di ghiaccio che il suo fiato rendeva più liscia. Vedeva in alto il cielo
che schiariva e le ultime stelle che impallidivano, in basso un abisso profondo
e tenebroso da cui saliva un soffio gelido. Nonostante tutto, passato il primo
stordimento, riprese la sua disinvoltura e il suo buonumore.
Ehi, lassù, papà Kaufmann, non ci lascerai mica qui a muffire? Ci sono delle
correnti d'aria! e questa corda maledetta mi rompe la schiena.
Kaufmann non poteva rispondere; schiudere i denti avrebbe significato perdere
forza. Ma Inebnit gridava dal basso: Mossiè!... Mossiè!... piccozza... perchè la
sua si era smarrita nella caduta; allora, il pesante arnese, passato con
difficoltà dalle mani di Tartarino a quelle della guida, servì al montanaro per
intaccare il ghiaccio davanti a lui e fare dei gradini dove reggersi coi piedi e
con le mani.
Col peso della corda diminuito della metà, Kaufmann, con energia calcolata e
infinite precauzioni, cominciò a tirare verso di sè il presidente, il cui
berretto tarasconese fece capolino dall'orlo del crepaccio. Fu poi la volta di
Inebnit a risalire, e i due montanari, felici, si scambiarono quelle brevi
espressioni che le persone di poche parole usano dirsi dopo un grave pericolo;
erano commossi e tremavano per lo sforzo compiuto.
Tartarino dovette passare loro la sua fiaschetta di kirsch per rimetterli in
forze. Lui, invece era tranquillissimo, si scuoteva e batteva i piedi a tempo di
musica, canterellando sotto il naso delle guide sbalordite.
Brav... Brav... Franzese... diceva Kaufmann battendogli la mano sulla spalla; e
Tartarino, ridendo: Mattacchione, lo sapevo io che non c'era pericolo!
A memoria di guida, un simile alpinista non si era mai veduto.
Si rimisero in cammino arrampicandosi a picco su una gigantesca parete di
ghiaccio, dove era necessario scavare i gradini uno per uno. L'uomo di Tarascona
cominciò a sentirsi allo stremo delle forze; il sole sprigionava dalla neve
accecanti riflessi che gli affaticavano gli occhi non più protetti dagli
occhiali che erano caduti nel crepaccio. Venne preso allora da una grande
debolezza, da quel mal di montagna che produce gli stessi effetti del mal di
mare. Esausto, con la testa vuota, le gambe molli, sbagliava il passo, e le
guide dovettero sostenerlo una per parte, come la sera prima, issandolo fino in
cima alla parete di ghiaccio. Cento metri appena li separavano ormai dalla vetta
della Jungfrau, ma sebbene la neve fosse dura e il cammino più agevole, l'ultima
tappa richiese un tempo interminabile perchè la fatica e l'affanno del P.C.A.
andavano sempre aumentando.
Improvvisamente i due montanari lo lasciarono andare, e agitando i cappelli si
misero a cantare con entusiasmo i loro Jodler. Erano arrivati in cima! Quel
punto dello spazio immacolato, quella cresta bianca un po' arrotondata, era la
meta, e segnò per il buon Tartarino la fine del torpore in cui era caduto.
Scheideck! Scheideck! gridavano le guide, indicandogli in fondo, molto in fondo,
su un verde altopiano che emergeva dalla nebbia della valle, l'Hotel Bellevue
minuscolo come un dado da gioco.
Un panorama meraviglioso si stendeva davanti a loro: distese di neve indorate
dal sole o immerse in una profonda ombra azzurra, cumuli di ghiaccio a forma di
torri, di creste, di punte acuminate, di gobbe gigantesche. Sulla superficie
tormentata dei grandi ghiacciai, sulle cascate irrigidite dal gelo, sui torrenti
che si formavano sotto i caldi raggi del sole, scintillavano tutti i colori del
prisma. Ma più in alto, in quel gran deserto misterioso, lo scintillio della
luce si trasformava in un riflesso freddo e immobile che dava a Tartarino la
sensazione del silenzio e della solitudine.
Un po' di fumo e qualche detonazione salirono dall'albergo. Li avevano veduti, e
sparavano in loro onore; il pensiero che i suoi amici alpinisti fossero laggiù,
che le Miss e gli altri clienti dell'albergo avessero i cannocchiali puntati su
di lui, fecero tornare in mente a Tartarino la grandezza della sua missione.
Oh bandiera tarasconese! egli ti strappò dalle mani della guida, e ti fece
sventolare tre volte; poi, seduto sulla piccozza piantata nella neve e con la
bandiera in pugno, Tartarino si mise fieramente in posa davanti al pubblico. In
quel momento, a causa dei riflessi dello spettro solare, fenomeno frequente
sulle cime, tra il sole e la nebbia che si alzava dietro di lui, un gigantesco
Tartarino si disegnò nel cielo, con la barba ritta fuori del passamontagna,
simile a uno di quegli dèi scandinavi che la leggenda raffigura troneggianti tra
le nuvole.
11. In viaggio per Tarascona, Il lago di Ginevra, Protesta di una visita alla
prigione di Bonivard, Breve dialogo in mezzo alle rose, Tutti in prigione, Lo
sventurato Bonivard, Dove si ritrova una certa corda fabbricata ad Avignone.
In seguito all'ascensione, il naso di Tartarino si spellò e si gonfiò, e le gote
gli si riempirono di vesciche. Per cinque giorni rimase chiuso in camera
all'Hotel Bellevue. Cinque giorni di impacchi e di pomate; per ingannare il
tempo, faceva delle partite a carte coi suoi delegati, o dettava loro un lungo e
dettagliato resoconto della sua impresa, che doveva esser letto durante una
seduta del Club delle Alpine, e pubblicato sul Forum; poi, una volta passato
l'indolenzimento generale, e rimasta solo qualche vescichetta sul volto che
aveva preso un bellissimo colore da vaso etrusco, la delegazione e il presidente
presero la via del ritorno per Tarascona, passando per Ginevra.
Non ci dilungheremo sugli episodi del viaggio, sullo scompiglio causato dal
gruppetto dei meridionali nei vagoni stretti, sui battelli, negli alberghi e nei
ristoranti, coi suoi canti, le sue grida, la sua esuberante cordialità, la
bandiera e gli alpenstock, poichè, dopo l'ascensione del loro capo, si erano
tutti muniti di pittoreschi bastoni da montagna.
Montreux! Qui i delegati, su proposta del capo, decisero di sostare un giorno o
due per visitare le rive del Lemano. e soprattutto Chillon. dove si trova il
carcere leggendario del grande patriota Bonivard, celebrato da Byron e
Delacroix.
In fondo, a Tartarino importava poco di Bonivard; la sua avventura con Guglielmo
Tel l'aveva illuminato sulla attendibilità delle leggende svizzere; ma passando
da Interlaken, aveva saputo che Sonia era partita per Montreux a causa di un
improvviso aggravamento della salute del fratello, e la trovata del
pellegrinaggio storico gli serviva di pretesto per rivedere la fanciulla, e...
chissà!... per convincerla a seguirlo a Tarascona.
I suoi compagni, naturalmente, credevano con sincerità di andare a rendere
omaggio al grande cittadino di Ginevra di cui il presidente aveva raccontato la
storia; per di più, seguendo il loro gusto per le manifestazioni teatrali,
appena arrivati a Montreux, volevano mettersi in fila, spiegare la bandiera, e
marciare su Chillon al grido di Viva Bonivard! Il presidente fu obbligato a
calmarli. Prima facciamo colazione, poi vedremo...
E riempirono l'omnibus di una qualsiasi pensione Muller che, insieme a molti
altri aspettava lo sbarco dei turisti. Guardate quella guardia come ci osserva!
disse Pascalon, impacciato come sempre dalla bandiera, montando per ultimo. E
Bravida, inquieto, Già, e vero, cosa vuole da noi? Perchè ci guarda?
Mi avrà riconosciuto, perbacco! disse modestamente Tartarino, e sorrise da
lontano all'agente di polizia il cui lungo cappotto blu si volgeva con
ostinazione verso l'omnibus che filava tra i pioppi della riva.
Quel giorno, a Montreux, c'era mercato. C'erano tante bancarelle all'aperto
lungo il lago, mostre di fiori, di merletti, di cianfrusaglie. Anche il piccolo
porto era in fermento, e se un raggio di sole avesse illuminato la scena, ci si
sarebbe potuti credere sulla riva di qualche cittadina mediterranea, tra Mentone
e Bordighera. Ma il sole non c'era, e i Tarasconesi osservavano il pittoresco
paese attraverso una nebbiolina azzurra che saliva dal lago, e si riuniva, al di
sopra delle case, con dei nuvoloni saturi di pioggia che incombevano sui fianchi
verdi delle montagne.
No, perbacco! Non mi sento lacustre, io! esclamò Spiridione Excourbaniès,
ripulendo il vetro dello sportello e osservando lo sfondo di ghiacciai e di
vapori bianchi che chiudevano l'orizzonte.
Nemmeno io sospirò Pascalon ... questa nebbia e quest'acqua morta... mi fanno
venir voglia di piangere.
Anche Bravida si lamentava, era preoccupato per la sua sciatica. Tartarino li
rimproverò aspramente. Non aveva dunque nessuna importanza per loro il poter
raccontare, al ritorno, di aver visitato il carcere di Bonivard, di aver scritto
i loro nomi su quelle storiche pareti, accanto alle firme di Rousseau, di Byron,
Victor Hugo, George Sand, Eugène Sue? Improvvisamente, nel bel mezzo della sua
concione, il presidente si interruppe, impallidì... aveva visto passare in quel
momento un berrettino posato su delle trecce bionde... Senza nemmeno far fermare
l'omnibus, che del resto aveva rallentato per la salita, saltò giù, gridando
agli amici stupefatti: Ci vediamo all'albergo! Sonia! Sonia!
Temeva di non poterla raggiungere, perchè la fanciulla camminava molto in
fretta, rasentando con la sua graziosa figura il muro lungo la strada. Ma essa
si volse, e lo attese: Ah, è lei... disse, e riprese a camminare dopo avergli
stretto la mano.
Tartarino, ansante, le si mise al fianco, scusandosi di averla lasciata così
bruscamente... l'arrivo degli amici.. la necessità dell'ascensione di cui
portava ancora i segni sul viso... Sonia lo ascoltava senza parlare, senza
guardarlo, affrettando il passo con gli occhi fissi davanti a sè. Di profilo gli
parve più pallida, coi lineamenti privi del loro candore infantile, con qualcosa
di duro, di risoluto che fino allora aveva notato solo nella sua voce; ma la sua
grazia giovanile, valorizzata dall'oro dei suoi capelli, era rimasta intatta.
E Boris, come sta? chiese Tartarino, un po' a disagio per quel silenzio e per
quella freddezza, Boris? fece Sonia, trasalendo. Già, è vero, lei non può
saperlo... venga!
Camminavano per una stradina di campagna fiancheggiata da vigneti che si
spingevano fino al lago, da ville e da giardini pieni di fiori.
Entri disse Sonia, spingendo un cancello che si apriva sotto un frontone bianco
su cui era tracciata in lettere d'oro un'iscrizione in caratteri russi.
Tartarino non capì subito dove si trovava. Era un giardinetto dai sentieri ben
curati, pieno di rose rampicanti bianche e gialle che diffondevano fra gli
alberi il loro profumo e la loro luminosità. In mezzo a quella meravigliosa
fioritura si vedevano alcune lapidi, dritte o distese, con sopra incisi dei nomi
e delle date. Su di una, un nome inciso di recente sulla pietra: Boris de
Wassilief, 22 anni.
Lo avevano portato là da pochi giorni; era morto quasi subito dopo il loro
arrivo a Montreux. Rimasero un momento immobili e muti, davanti al biancore di
quella lapide nuova che spiccava sul bruno della terra smossa di fresco; la
fanciulla, con la testa china e gli occhi arrossati, respirava il profumo di
tutte quelle rose.
Povera piccola! disse Tartarino, commosso, e strinse tra le sue mani robuste la
punta delle dita di Sonia. Ed ora cosa ne sarà di lei?
Essa lo guardò seria, con gli occhi scintillanti, dove non brillava più nemmeno
una lacrima: Io? Io parto fra un'ora.
Parte?
Bolibine è già a Pietroburgo... Manilof mi aspetta per passare la frontiera...
io rientro nella fornace. Si sentirà parlare di noi. E sussurrò con un mezzo
sorriso, fissando coi suoi occhi azzurri quelli di Tartarino che li sfuggivano:
Chi mi ama, mi segua!
Seguirla? una parola! Quella esaltata gli faceva davvero paura. E poi
quell'ambiente funereo aveva raffreddato il suo amore. Ora si trattava di
battere in ritirata con onore; la mano sul cuore, con un gesto da cavaliere
antico, l'eroe cominciò: lei mi conosce, Sonia...
Sonia non volle sentire altro.
Chiacchierone! disse, con un'alzata di spalle. E se ne andò, dritta e fiera,
allontanandosi senza voltarsi tra i cespugli di rose.
Chiacchierone!, non una parola di più, ma il tono era stato così sprezzante che
il povero Tartarino era arrossito fin sotto la barba, e si era guardato intorno
per assicurarsi che nessuno avesse sentito.
Per fortuna, nel cuore del nostro Tarasconese, le impressioni duravano poco.
Cinque minuti più tardi si avviava di buon passo verso Montreux, in cerca della
pensione Muller, dove i suoi alpinisti dovevano aspettarlo per il desinare, e da
tutta la sua persona spirava un senso di liberazione e di sollievo, e la gioia
di aver finalmente troncato quel legame pericoloso. Camminava sottolineando con
energiche mosse del capo le eloquenti spiegazioni che Sonia non aveva voluto
ascoltare, e che ora si ripeteva mentalmente: Be', certo il dispotismo... non
dico di no... ma passare dall'idea all'azione, c'è una bella differenza! E poi,
bel mestiere sparare sui tiranni! Ma se tutti i popoli oppressi si fossero
rivolti a lui, come gli Arabi si rivolgevano a Bombonnel quando una pantera si
aggirava intorno al loro villaggio, lui da solo non ce l'avrebbe fatta, andiamo!
Una carrozza di piazza che si avanzava di carriera interruppe il suo monologo.
Ebbe appena il tempo di saltare sul marciapiede. Attento, animale! Possibile?...
Mio Dio! Cosa è successo? In quella vecchia carrozza Tartarino aveva scorto la
delegazione al completo, Bravida, Excourbaniès e Pascalon, ammucchiati sul
sedile di fondo, disfatti, smarriti, pallidi, con addosso i segni di una lotta,
sorvegliati da due guardie armate di moschetto. Tartarino rimase inchiodato al
suolo, come era rimasto inchiodato dai ramponi Kennedy, e mentre seguiva con lo
sguardo quella incredibile carrozza dietro la quale schiamazzava un gruppetto di
scolaretti usciti da scuola, sentì dietro le spalle qualcuno che gridava: E
quattro! e nel medesimo tempo fu afferrato, ammanettato, legato, e issato a sua
volta su una carrozza a nolo, in mezzo a due guardie e a un ufficiale armato di
un enorme sciabolone.
Tartarino voleva parlare, spiegarsi. Si trattava di un equivoco,
evidentemente... disse il suo nome, reclamò il console, fece persino il nome di
un mercante svizzero che aveva conosciuto alla fiera di Beaucaire; poi, davanti
all'ostinato mutismo delle guardie, pensò che anche quello fosse un trucco della
serie di Bompard, e rivolgendosi all'ufficiale con aria maliziosa: E' uno
scherzo, no? Andiamo, lo so che non fate sul serio!
Non una parola di più, o la faccio imbavagliare! disse l'ufficiale, roteando
degli occhi così feroci che sembrava volesse passare a fil di spada il suo
prigioniero. Tartarino non parlò più, e si mise a guardare dallo sportello il
lago e le montagne che lo circondavano. Osservò anche un trenino che
assomigliava a quello del Rigi, e che si arrampicava pericolosamente fino a
Glion. Per completare la somiglianza col Rigi-Kulm, si era messo a piovere. La
carrozza rotolò su un ponte levatoio, tra negozietti di oggetti di pelle di
camoscio, temperini e altre cianfrusaglie, superò un basso portone, e si fermò
nel cortile di un antico mastio, invaso dall'erba e circondato da torri rotonde.
Dov'era? Tartarino lo capì sentendo l'ufficiale discutere col sorvegliante del
castello, un omone che agitava un mazzo di grosse chiavi arrugginite.
Nella cella segreta? Ma non ho più posto... ci ho messo tutti gli altri. Non c'è
che metterlo nella cella di Bonivard... Mettetelo nella cella di Bonivard, è
anche troppo bella per lui! ordinò il capitano; e così fu fatto.
Il castello di Chillon, di cui il presidente non faceva che parlare ai suoi
alpinisti, e nel quale, per una triste ironia della sorte, si trovava in carcere
senza nemmeno sapere il perchè, è uno dei monumenti storici più visitati di
tutta la Svizzera. Dopo aver servito da residenza estiva ai Conti di Savoia, poi
da prigione di stato e da deposito di armi e di munizioni, non è ormai che un
pretesto di escursioni, come il Rigi-Kulm e la Tellsplatte. Vi era rimasto
tuttavia un corpo di guardia e una gattabuia per gli ubriachi e i cattivi
soggetti del paese, ma questi erano così rari in quel tranquillo cantone di
Vaud, che la prigione era sempre vuota, e che il sorvegliante ci teneva la sua
provvista di legna per l'inverno. Naturalmente l'arrivo di tutti quei
prigionieri l'aveva messo di cattivo umore, soprattutto all'idea di non poter
più far visitare ai turisti la famosa cella che, in quella stagione, era il suo
maggior guadagno.
Irritato, faceva strada a Tartarino che lo seguiva scoraggiato, senza fare la
minima resistenza. Qualche scalino malsicuro, un corridoio umido che puzzava di
cantina, una porta spessa come un muro, dai cardini enormi... e si trovarono in
un vasto sotterraneo a volta, col pavimento in terra battuta, e dei pilastri di
pietra dove erano ancora saldati gli anelli di ferro che, in antico, servivano a
tenere incatenati i prigionieri di stato.
Una luce smorzata e tremolante, come i riflessi del lago, scendeva dalle strette
feritoie da dove non si scorgeva che un po' di cielo.
Eccoci a casa! disse il carceriere... le raccomando di non andare verso il
fondo, ci sono i trabocchetti.
Tartarino indietreggiò spaventato.
Mamma mia!... I trabocchetti!
Cosa vuole, figliolo mio, mi hanno detto di metterlo nella cella di Bonivard, e
io la metto nella cella di Bonivard!... Comunque, se lei ha dei mezzi, potrò
fornirle qualche comodità, una coperta, per esempio, o un materasso per la
notte.
Prima di tutto, da mangiare! esclamò Tartarino a cui, per fortuna, non avevano
tolto il portafoglio. Il guardiano tornò con del pane fresco, della birra e
delle salsicce, che il nuovo prigioniero di Chillon, digiuno dalla sera prima e
disfatto dalla stanchezza, divorò avidamente. Mentre mangiava seduto su una
panca di pietra, alla luce delle feritoie, il carceriere lo osservava con occhio
bonario.
In fede mia disse non capisco quale delitto abbia potuto commettere, nè perchè
la trattino con tanta severità...
Nemmeno io, mondo cane! fece Tartarino a bocca piena.
A dire il vero, lei non ha l'aria di essere un delinquente, e sono sicuro che
non vorrà impedire a un padre di famiglia di guadagnarsi la vita. Il fatto è che
lassù c'è tutta una compagnia di turisti venuti per visitare la prigione di
Bonivard... Se lei mi promette di starsene tranquillo e di non tentare la
fuga...
Il buon Tartarino promise sotto giuramento, e cinque minuti dopo vedeva la sua
cella invasa dalle sue vecchie conoscenze del Rigi-Kulm e della Tellsplatte:
quell'asino calzato e vestito di Schwanthaler, l'ineptissimus Astier-Rèhu, il
membro del Jockey Club con la nipote (uhm! uhm!) tutti i viaggiatori della
carovana Cook. Pieno di vergogna, temendo di essere riconosciuto, lo sventurato
si nascondeva dietro i pilastri, indietreggiando e scomparendo via via che si
avvicinava il gruppo dei turisti preceduto dal guardiano che recitava il suo
discorsetto con voce dolente: E' qui che l'infelice Bonivard... I turisti
avanzano lentamente, ritardati dalle discussioni dei due studiosi sempre in
polemica e pronti e saltarsi addosso, l'uno brandendo il suo seggiolino
pieghevole, l'altro la sua valigetta.
A forza di indietreggiare, Tartarino si trovò vicinissimo al pozzo dei
trabocchetti, un'apertura tenebrosa rasente al suolo che esalava il fiato dei
secoli passati, un sentore di palude e di ghiaccio. Spaventato, si fermò, si
rannicchiò in un angolo, calandosi il berretto sugli occhi; ma il salnitro umido
della muraglia ebbe l'effetto di fargli sparare un formidabile starnuto che fece
arretrare i turisti, avvertendoli della sua presenza.
Toh, ecco Bonivard! esclamò l'impertinente ragazza parigina, che il membro del
Jockey Club faceva passare per sua nipote. Il Tarasconese non perse le staffe.
Questi trabocchetti sono veramente graziosi commentò con la voce più naturale
del mondo, come se anche lui stesse visitando la prigione per divertimento, e si
mescolò agli altri viaggiatori che sorridevano, riconoscendo in lui l'alpinista
del Rigi-Kulm, l'animatore del famoso ballo.
Mossiè... pallare, tanzare! La figura grassottella della piccola signora
Schwanthaler sorse improvvisamente davanti a lui, accennando un passo di danza.
Aveva proprio voglia di ballare, lui! Non sapendo come sbarazzarsi da quella
implacabile donnina, le offrì il braccio, le mostrò con estrema gentilezza la
sua cella, l'anello dove veniva saldata la catena del prigioniero, la traccia
che avevano lasciato i suoi passi sul pavimento intorno al pilastro. Nel
sentirlo parlare con tanta disinvoltura, la brava signora non si sarebbe mai
immaginata che chi la guidava era anche lui un prigioniero, una vittima
dell'ingiustizia e della cattiveria degli uomini. Il momento più terribile fu
quello della partenza, quando l'infelice Bonivard, dopo aver accompagnato la sua
dama fino alla porta, la salutò con un sorriso da perfetto uomo di mondo.
No, grazie, resto qui un altro momento. Il carceriere, che lo teneva d'occhio,
chiuse la porta col catenaccio, tra lo stupore di tutti.
Che affronto! Lo sventurato sudava dall'angoscia nel sentire i commenti dei
turisti che si allontanavano. Fortunatamente, per quel giorno il supplizio non
si ripetè. A causa del cattivo tempo non ci furono altri visitatori. Un vento
terribile faceva scricchiolare le vecchie assi, dai trabocchetti salivano dei
gemiti come se vi giacessero ancora delle vittime insepolte, e le onde agitate
del lago penetrando coi loro spruzzi attraverso le feritoie, bagnavano il
prigioniero. Ogni tanto si udiva la campana di un battello, e il ritmico
sciacquio delle sue ruote scandiva i pensieri del povero Tartarino, mentre una
sera grigia e triste rendeva più cupa la cella che sembrava sprofondare nelle
tenebre.
Come spiegare quell'arresto, e la prigionia in quel luogo sinistro? Forse
Costecalde? Una manovra elettorale dell'ultim'ora? Oppure era la polizia russa,
informata delle sue frasi imprudenti e della sua amicizia con Sonia, che
chiedeva la sua estradizione? Ma allora, perchè arrestare i delegati? Cosa c'era
da rimproverare a quei disgraziati? Egli si immaginava la loro ansia e la loro
disperazione, anche se non erano come lui nella cella di Bonivard, sotto quella
pesante volta di pietra, dove si aggiravano, all'avvicinarsi della notte, topi
enormi, scarafaggi e grossi ragni dalle zampe pelose.
Ma vedete cosa vuol dire avere la coscienza a posto! Malgrado i topi il freddo,
e i ragni, il grande Tartarino fu colto, nell'orrore di quella prigione abitata
dai fantasmi dei martiri, dallo stesso sonno profondo e sonoro, a bocca aperta e
a pugni chiusi, che lo aveva colto anche nel rifugio del Club Alpino, tra il
cielo e gli abissi. Credeva ancora di sognare, quando la mattina dopo sentì il
carceriere che gli diceva: Si alzi, c'è il prefetto di polizia che è venuto per
interrogarla.
Poi aggiunse con un certo rispetto: Se si è scomodato lui... vuol dire che lei è
un delinquente importante.
Delinquente! No, ma si può anche averne l'aspetto dopo una notte passata in una
cella umida, senza aver avuto nemmeno il tempo di ripulirsi un po'. Nella
vecchia scuderia del castello, trasformata in gendarmeria, dove faceva bella
mostra di sè una rastrelliera di moschetti intorno al muro, Tartarino, dopo aver
dato un'occhiata rassicurante ai suoi alpinisti, seduti tra le guardie, comparve
davanti al prefetto di polizia. Aveva la sensazione spiacevole di apparire
sporco e trasandato davanti a quel funzionario vestito correttamente di nero,
con la barba ben curata, che lo interpellava severamente:
Lei si chiama Manilof, vero?... cittadino russo... incendiario a Pietroburgo...
profugo e assassino in Svizzera.
Ma neanche per idea!... Ci deve essere un errore, un equivoco.
Taccia, o le metto il bavaglio... interrompe il capitano.
Il prefetto riprende dignitosamente: Insomma, per tagliar corto, riconosce
questa corda?
La sua corda, mondo cane! La sua corda intrecciata con fili di ferro fabbricata
apposta ad Avignone. Tartarino abbassa la testa, tra lo stupore dei delegati, e
dice: La riconosco.
Con questa corda, un uomo è stato impiccato nel cantone di Unterwald...
Tartarino freme, giura che lui non c'entra per niente.
Adesso vedremo! E viene introdotto il tenore italiano, il poliziotto che i
nichilisti avevano appeso a un ramo di quercia, ma che dei boscaioli avevano
miracolosamente salvato.
La spia guarda Tartarino: Non è lui! E nemmeno quelli là aggiunge, indicando i
delegati. Vi siete sbagliati.
Il prefetto domanda furibondo a Tartarino: Ma allora, cosa ci sta a fare qui?
E' quello che mi domando anch'io... risponde il presidente con la sicurezza
dell'innocenza.
Dopo una breve spiegazione, gli alpinisti di Tarascona, rimessi in libertà, si
allontanano dal castello di Chillon, di cui nessuno più di loro ha provato la
romantica, opprimente malinconia.
Si fermano alla pensione Muller per prendere i bagagli e la bandiera, e pagare
il pranzo della sera, che non hanno avuto il tempo di gustare, poi via in treno
verso Ginevra. Piove, attraverso i vetri rigati di pioggia si leggono i nomi dei
luoghi aristocratici di villeggiatura, Clarens, Vevey, Lausanne; chalet rossi,
giardini pieni di piante rare passano immersi in una nebbia umida; sgocciolano i
rami, le grondaie dei tetti, le terrazze degli alberghi.
Sistemati in un angolino del lungo vagone svizzero, su due sedili, l'uno di
fronte all'altro, gli alpinisti hanno l'aria disfatta e delusa. Bravida, acido,
si lamenta continuamente dei dolori, e domanda a Tartarino con feroce ironia:
Ebbene, l'ha avuta la sua prigione di Bonivard... aveva tanta voglia di vederla,
no? Excourbaniès, afono per la prima volta in vita sua, guarda malinconicamente
il lago, lungo il quale corre il treno: Acqua, acqua... sempre acqua! Non farò
più un bagno, lo giuro!
Annientato da uno spavento che dura ancora, Pascalon, con la bandiera tra le
gambe, cerca di nascondersi, e si guarda intorno come una lepre che ha paura di
esser presa... E Tartarino?... Oh, lui, sempre calmo e dignitoso, si diverte a
leggere i giornali del Mezzogiorno, un pacco di giornali spediti alla pensione
Muller, che riportano, dal Forum, il resoconto della sua ascensione, quello da
lui dettato, ma con qualche abbellimento e profusione di mirifici elogi.
Improvvisamente, l'eroe lancia un grido; un grido formidabile che echeggia per
tutto il vagone. Tutti i viaggiatori balzano in piedi, pensando a uno scontro.
Si tratta semplicemente di un trafiletto del Forum, che Tartarino legge a voce
alta ai suoi alpinisti. State a sentire: Corre voce che il V.P.C.A. Costecalde,
non appena rimesso dall'itterizia che lo teneva a letto da qualche giorno, stia
per partire per l'ascensione del Monte Bianco, allo scopo di salire più in alto
di Tartarino... Ah, farabutto!... vuole distruggere l'effetto della mia
Jungfrau... Ma io te lo soffio, il tuo caro Monte Bianco! Chamonix è a poche ore
da Ginevra. Farò il Monte Bianco prima di lui! Ci state, ragazzi?
Bravida protesta. Diamine! Lui ne ha abbastanza. Basta, basta, e ancora basta!
tenta di urlare, con la voce afona, Excourbaniès.
E tu, Pascalon? domanda a bassa voce Tartarino.
Pascalon non osa nemmeno alzare gli occhi. Caa... po! bela.
Anche lui lo rinnega.
E va bene dice l'eroe, solenne ma seccato. Partirò solo, l'onore sarà solo per
me... rendetemi la bandiera.
12. L'albergo Baltet a Chamonix, Puzzo d'aglio, L'uso della corda nelle
ascensioni alpine, Shake hands, Un allievo di Schopenhauer, Il rifugio dei
Grands-Mulets, Tartarino, devo parlarle.. .
Il campanile di Chamonix suonava le nove di una gelida sera di vento e di
pioggia; le strade erano buie, le case senza luci, solo le facciate degli
alberghi erano illuminate dai lampioni a gas, e per contrasto facevano sembrare
ancora più bui i luoghi circostanti.
All'Hotel Baltet, uno dei migliori e più frequentati del villaggio, i numerosi
turisti e i pensionanti, stanchi delle escursioni del giorno, si erano dileguati
a poco a poco; nel salone non erano rimasti che un pastore protestante, che
giocava silenziosamente a dama con sua moglie, mentre le sue innumerevoli figlie
erano intente a copiare gli inviti per il prossimo servizio evangelico, e un
giovanotto svedese, pallido e scarno, seduto davanti al caminetto, intento a
guardare le fiamme con aria sconsolata e a bere dei grog al kirsch.
Di tanto in tanto, un turista ritardatario attraversava il salone con le ghette
inzuppate d'acqua e l'impermeabile gocciolante, si avvicinava al grande
barometro appeso al muro, lo picchiettava, interrogava il mercurio per sapere il
tempo del giorno dopo, e andava a letto, costernato. Nessuno parlava. Si sentiva
solo il crepitio del fuoco, il fruscio del nevischio sui vetri, e lo scroscio
rabbioso dell'Arve sotto le arcate del ponte di legno, a pochi passi
dall'albergo.
Di colpo la porta del salone si spalancò, e un portiere gallonato entrò carico
di valige e di coperte, seguito da quattro alpinisti tremanti dal freddo,
colpiti dal contrasto tra il gelo della notte e il calore del fuoco.
Che tempaccio, mondo cane!
Da mangiare presto!
Scaldateci subito il letto!
Parlavano tutti insieme sotto i berretti di lana, le sciarpe e i passamontagna,
e non si sapeva a chi dare ascolto, quando un uomo, che chiamavano il
presidente, impose il silenzio urlando più forte di tutti.
Prima di tutto il registro dei clienti! cominciò, e prese a sfogliarlo con la
mano intirizzita, leggendo ad alta voce i nomi dei viaggiatori che da otto
giorni erano passati dall'albergo: Dottor Schwanthaler e signora... ancora!...
Professor Astier-Rèhu dell'Accademia di Francia... decifrò due o tre pagine,
impallidendo ogni volta che credeva di aver trovato un nome simile a quello che
cercava; poi, alla fine, gettò il libro sulla tavola con una risata trionfale e
fece una piroetta che non ci si sarebbe aspettata da un uomo della sua
corporatura.
Non c'è, perbacco! Non e ancora venuto!... Gliel'ho fatta a Costecalde! A
tavola, a tavola, ragazzi. E il buon Tartarino, dopo aver salutato le signore,
si diresse verso la sala da pranzo, seguito dalla delegazione affamata e
rumorosa.
Sì! C'erano tutti, anche Bravida. Cosa avrebbero detto a Tarascona se li
avessero visti tornare senza Tartarino? Al momento di separarsi, laggiù alla
stazione di Ginevra, si era svolta una scena patetica. Pianti, abbracci,
strazianti saluti alla bandiera, ma poi, alla fine, erano partiti tutti insieme
nella carrozza che il presidente aveva noleggiato per Chamonix.
La stupenda strada che fecero, la fecero a occhi chiusi, ben avvolti nelle
coperte, riempiendo la carrozza col loro sonoro russare, senza preoccuparsi del
meraviglioso panorama che, da Sallanches in poi, si stendeva sotto la pioggia:
abissi, foreste, cascate spumeggianti e, a seconda delle curve della strada, la
cima del Monte Bianco avvolta nelle nuvole. Stanchi ormai di bellezze naturali,
i nostri Tarasconesi non pensavano che a rifarsi della notte orribile passata
sotto chiave a Chillon.
Anche ora, in fondo alla lunga sala da pranzo deserta, mentre stavano servendo
loro della minestra riscaldata e gli avanzi del pranzo, mangiavano avidamente
senza parlare, preoccupati soprattutto di andare a letto presto.
Improvvisamente, Spiridione Excourbaniès, che stava trangugiando come un
sonnambulo, alzò il naso dal piatto, e fiutando l'aria disse: Perbacco, sento
odore d'aglio!
E' vero, che buon odore! esclamò Bravida. E tutti, rincuorati da quel ricordo
della patria, da quel profumo particolare dei piatti nazionali che Tartarino non
aveva gustato da tanto tempo, si rigirarono sulle sedie, ingolositi. L'odore
proveniva da una stanzetta in fondo alla sala, dove mangiava per conto suo un
cliente, senza dubbio una persona molto importante, perchè ad ogni momento la
berretta del cuoco appariva allo sportello per porgere alla cameriera dei
piattini coperti che erano portati in quella direzione.
Sarà qualcuno che viene dal Mezzogiorno, sospirò il mite Pascalon, e il
presidente, impallidendo al pensiero di Costecalde, ordinò: Vada dunque a dare
un'occhiata, Spiridione, poi mi riferirà. Un formidabile scoppio di risa
echeggiò nella stanzetta privata dove il prode Excourbaniès era penetrato, per
ordine del suo capo. Ne uscì poi tenendo per mano uno spilungone con un gran
naso, gli occhi canzonatori e il tovagliolo al collo.
Guarda chi si vede! Bompard!
Ecco l'imbroglione!
Ciao, Gonzago, come va!
Sì, sono proprio io, e al vostro servizio disse la guida turistica, stringendo
tutte le mani e sedendosi a tavola insieme ai Tarasconesi per gustare insieme un
piatto di funghi all'aglio preparati dalla signora Baltet.
Sarà stato l'effetto della pietanza nazionale, o la gioia di ritrovare un
simpatico paesano come Bompard pieno d'estro e di fantasia, il fatto è che la
stanchezza e la sonnolenza dei delegati svanirono; fu stappato dello champagne,
e tutti, coi baffi pieni di spuma, ridevano, gridavano, si prendevano per la
vita, gesticolavano animatamente.
Giuro che non vi lascio più! disse Bompard. I miei Peruviani sono partiti...
sono libero.
Libero? Ma allora farà il Monte Bianco con me!
Ah! Lei fa il Monte Bianco, domani? rispose Bompard, con poco entusiasmo.
Sì, l'ho soffiato sotto il naso a Costecalde! Quando arriverà... rimarrà con un
palmo di naso. Ci sta, Gonzago?
Ci sto... ci sto... tempo permettendo... Ma so che di questa stagione la scalata
non è sempre comoda.
Andiamo! Comoda! fece Tartarino, strizzando l'occhio con un sorrisetto d'intesa
che Bompard, comunque, parve non capire. Intanto andiamo in sala a prendere il
caffè; sentiremo il parere di papà Baltet. Lui se ne intende; è una vecchia
guida che ha fatto il Monte Bianco ventisette volte.
Ventisette volte! Capperi! esclamarono i delegati.
Bompard esagera sempre! disse il presidente con severità, ma con una punta
d'invidia.
Nel salone trovarono le ragazze del pastore sempre intente a scrivere gli
inviti; il padre e la madre sonnecchiavano davanti alla scacchiera, e il lungo
Svedese seguitava a mescolare il suo grog con aria sconsolata.
Ma l'invasione degli alpinisti tarasconesi, esilarati dallo champagne, offrì
alle figlie del pastore un po' di distrazione. Quelle graziose ragazze non
avevano mai veduto prendere il caffè con tanti gesti e tante occhiate.
Zucchero, Tartarino?
Ma no, comandante!... Lo sa bene... dopo l'Africa...
E' vero, mi scusi; ma ecco il signor Baltet.
Si accomodi, signor Baltet.
Viva il signor Baltet!... Allegria! Allegria!
Circondato, spinto da tutta quella gente che non aveva mai visto, papà Baltet
sorrideva con aria tranquilla. Era un Savoiardo robusto, grande e grosso,
schiena tonda, passo lento; mostrava nel faccione raso due occhietti scaltri e
ancora giovanili, che contrastavano con la sua calvizie.
Questi signori desiderano fare il Monte Bianco? chiese, misurando i Tarasconesi
con uno sguardo rispettoso e ironico ad un tempo. Tartarino stava per
rispondere, ma Bompard lo prevenne.
Non le sembra che la stagione sia troppo inoltrata?
Ma no disse la vecchia guida. C'è quel signore svedese che salirà domani, e a
fine settimana aspetto due signori americani che vogliono salire anche loro. Uno
di loro è persino cieco.
Lo so. L'ho incontrato al Guggi.
Ah! Il signore è stato al Guggi?
Otto giorni fa, mentre facevo la Jungfrau.
Un fremito percorse le giovani figlie del pastore, che smisero di scrivere e
voltarono la testa verso Tartarino, che ai loro occhi di ragazze sportive
diventava un personaggio importante. Era salito sulla Jungfrau!
Una bella scalata disse papà Baltet, osservando il P.C.A. con una certa
meraviglia. Pascalon, intimidito dalle signore, arrossendo e balbettando,
mormorò: Capo, rac... racconti la... la cosa... il crepaccio.
Il presidente sorrise: Sei un ragazzo! Ma cominciò il racconto della sua caduta;
prima con aria distaccata e indifferente, poi gesticolando efficacemente,
descrisse il suo sgambettare nel vuoto, appeso alla corda al di sopra
dell'abisso e le sue invocazioni con le braccia tese. Le ragazze fremevano e se
lo divoravano con gli occhi.
Nel silenzio che seguì, si alzò la voce di Bompard: Sul chimhorazo, per superare
i crepacci, noi non ci leghiamo mai.
I delegati si guardarono. Quella era una grossa tarasconata!
Ma papà Baltet, che aveva preso sul serio il Chimborazo, protestò contro l'uso
di non legarsi; secondo lui nessuna ascensione era possibile sul ghiaccio senza
la corda, una buona corda di canapa di Manila. Almeno, se uno scivola, gli altri
lo trattengono.
Basta che la corda non si spezzi, signor Baltet osservò Tartarino, ricordando la
catastrofe del Cervino.
Ma l'albergatore disse, pesando le parole: Non è la corda che si è spezzata sul
Cervino... è stata la guida che l'ha tagliata con un colpo di piccozza.
E poichè Tartarino s'indignava: Scusi, egregio signore, la guida era nel suo
diritto. L'ha capito che era impossibile trattenere gli altri. e si è staccata
da loro per salvare la sua vita, quella del figlio e del suo cliente... senza la
sua decisione, ci sarebbero state sette vittime invece di quattro.
Si accese allora una discussione. Tartarino sosteneva che legandosi in cordata,
era come impegnarsi sul proprio onore a vivere e a morire insieme, ed
esaltandosi anche per la presenza delle signore, sostenne la sua affermazione
con argomenti personali. E così domani, legandomi con Bompard, non avrò
solamente preso una semplice precauzione, ma avrò fatto un giuramento davanti a
Dio e davanti agli uomini di essere tutt'uno col mio compagno, e di morire
piuttosto che tornare senza di lui. Ecco.
Accetto il giuramento per me come per lei, Tartarino! gridò Bompard dall'altro
lato della tavola.
Fu un momento commovente. Il pastore, elettrizzato, si alzò e venne a dare
all'eroe una di quelle strette di mano all'inglese che lasciano il segno. Sua
moglie l'imitò, seguita con pari vigore da tutte le signorine. I delegati,
bisogna dirlo, si mostrarono molto meno entusiasti.
Io, disse Bravida sono dell'opinione del signor Baltet. In quei frangenti,
ognuno pensa alla propria pelle, perbacco.
Mi meraviglio di lei, Placido fece Tartarino severamente, e aggiunse a bassa
voce e a denti stretti: Un po' di contegno, disgraziato, l'Inghilterra ci
guarda!
Il prode Bravida, che dopo l'avventura di Chillon, era rimasto un po' inasprito,
fece un gesto che voleva dire: Me ne infischio io, dell'Inghilterra!, e si
sarebbe forse attirato una bella ramanzina del presidente scandalizzato da tanto
cinismo, se il giovanotto dall'aria annoiata, pieno di grog e di tristezza, non
fosse intervenuto nella discussione col suo pessimo francese. Anche lui era
dell'idea che la guida aveva avuto ragione a tagliare la corda. Liberare dal
peso dell'esistenza quattro sciagurati ancora giovani, e perciò condannati a
vivere ancora per molto tempo, offrire loro con un gesto la pace eterna, il
nulla... quale azione nobile e generosa! Tartarino protestò vivacemente.
Ma come, giovanotto! Alla sua età parlare della vita con tanto distacco, con
tanto pessimismo! Cosa le ha fatto la vita?
Niente, mi annoia... Studiava filosofia a Cristiania, e secondo le idee di
Schopenhauer e di Hartmann, trovava l'esistenza triste, inutile, informe. Si era
deciso al suicidio quando, cedendo alle suppliche della famiglia, aveva chiuso i
libri e si era messo a viaggiare, ma dovunque incontrava la stessa noia, la
stessa cupa malinconia. Tartarino e i suoi amici gli erano sembrati i soli
esseri felici di vivere che avesse incontrato.
Tutto merito della nostra razza, caro giovanotto. Siamo tutti così a Tarascona.
E' il paese del buon Dio. Dalla mattina alla sera si canta, si ride, e se avanza
tempo, si balla la farandola... guardi, così! E accennava un passo di danza con
la grazia e la leggerezza di un grosso maggiolino che batte le ali.
Ma i delegati non avevano i nervi d'acciaio e l'infaticabile brio del loro capo.
Excourbaniès brontolava: Il presidente esagera. E' quasi mezzanotte.
Bravida si alzò, furioso: Andiamo a letto, perdio! Non ne posso più con la mia
sciatica. Tartarino acconsentì, pensando all'ascensione dell'indomani, e i
Tarasconesi salirono, col candeliere in mano, il grande scalone di granito che
conduceva alle camere, mentre papà Baltet si occupava delle provviste, delle
guide e dei muli.
Toh! Nevica!
Queste furono le prime parole che pronunziò Tartarino al risveglio vedendo i
vetri coperti di gelo, e la camera inondata da un riflesso bianco ma quando
appese lo specchietto da barba alla maniglia della finestra, capì il suo errore,
era il Monte Bianco che, illuminato dai raggi di uno splendido sole, diffondeva
tutto quel chiarore. Aprì la finestra al vento frizzante e tonico del
ghiacciaio, che gli portava il suono dei campanacci delle mandrie e i lunghi
muggiti dei corni dei mandriani. Era un'atmosfera pastorale e tonificante che in
Svizzera non aveva mai respirato.
Da basso lo aspettava un assembramento di guide e di portatori. Lo Svedese era
già in sella, e insieme ai curiosi che li accerchiavano, c'era la famiglia del
pastore al completo, con le ragazze venute a dare un altro shake hands all'eroe
che aveva ispirato i loro sogni.
Tempo magnifico! Affrettatevi! gridava l'albergatore.
Affrettarsi? Una parola! Non era facile strappare dai loro letti i delegati che
dovevano accompagnarlo fino alla Pierre-Pointue, dove finisce la mulattiera. Nè
preghiere nè ragionamenti riuscirono a far saltare dal letto il comandante; col
berretto da notte ficcato fino alle orecchie, il naso contro il muro, si
limitava a rispondere alle suppliche del presidente con un cinico proverbio
tarasconese: Chi ha fama di mattiniero, dorma pure fino a mezzogiorno.
Quanto a Bompard, ripeteva di continuo: Non mi scocciate l'anima con questo
Monte Bianco! E non si alzò che dopo un ordine perentorio del presidente.
La carovana che finalmente si mosse, attraversando le stradine di Chamonix,
aveva un aspetto imponente. In testa Pascalon sul mulo, con la bandiera
spiegata, in coda, circondato dalle guide e dai portatori, il buon Tartarino,
solenne sulla sua mula come un mandarino cinese, più alpinista che mai, con un
paio di occhiali nuovi dalle lenti convesse e affumicate e la famosa corda
fabbricata ad Avignone che, come sappiamo, aveva riconquistata a caro prezzo.
Molto ammirato da tutti, quasi quanto la bandiera, il suo portamento solenne
mascherava un'intima allegria; lo divertiva l'aspetto pittoresco di quelle
stradine di villaggio savoiardo, così diverso dai villaggi svizzeri, troppo
puliti, troppo verniciati, che sembrano giocattoli nuovi o chalet da bazar. Lo
divertiva il contrasto tra quelle baite basse, dove la stalla era la stanza
principale, e gli alberghi di lusso alti cinque piani.
All'uscita del villaggio, Bompard avvicinò il suo mulo a quello del presidente,
e gli disse con una strana espressione negli occhi: Tartarino, devo parlarle...
Più tardi disse Tartarino, tutto preso da una discussione filosofica col giovane
Svedese e impegnato a combattere il suo nero pessimismo facendogli ammirare il
meraviglioso spettacolo che li circondava.
Dopo altri due vani tentativi per avvicinare Tartarino, Bompard fu costretto a
rinunciarvi. Attraversato l'Arve su un ponticello, la carovana iniziò la salita
di uno di quei sentieri che si inerpicano in mezzo agli alberi e dove i muli,
uno dietro l'altro, sfiorano coi loro zoccoli infallibili gli orli vertiginosi
dei precipizi. I Tarasconesi avevano un bel daffare per mantenersi in equilibrio
sulla sella, e per trattenere le cavalcature.
Allo chalet della Pierre Pointue, dove Pascalon e Excourbantiès sarebbero
rimasti ad aspettare il ritorno degli scalatori, Tartarino, occupatissimo a
ordinare la colazione e a sorvegliare la sistemazione dei portatori e delle
guide, non prestò orecchio al sommesso brontolio di Bompard.
Cosa strana, malgrado il bel tempo, il vino buono, e l'aria fine dei duemila
metri, la colazione fu malinconica; ma di questo ci si ricordò solo più tardi.
Mentre le guide ridevano e scherzavano vicino a loro, la tavolata dei
Tarasconesi era silenziosa, tanto che si poteva sentire il tintinnio dei
bicchieri e l'urto dei piatti sul ruvido tavolo di legno. Fosse la presenza del
lugubre Svedese; fosse l'inquietudine di Bompard, o fosse anche un oscuro
presentimento, il fatto è che la comitiva si mise in cammino tristemente, come
un battaglione senza musica, verso il ghiacciaio dei Bossons dove aveva inizio
la scalata vera e propria.
Posando il piede sul ghiaccio, Tartarino non potè fare a meno di sorridere
pensando al Guggi e ai suoi ramponi perfezionati. Che differenza tra il neofita
di allora, e l'alpinista di prim'ordine che credeva di essere diventato! Ben
piantato sui pesanti scarponi che il portiere dell'albergo gli aveva ferrato,
quella mattina stessa, con quattro grossi chiodi, abile a servirsi della
piccozza, ebbe appena bisogno di una delle guide, che con la mano, più che
sostenerlo, gli indicava la via. Gli occhiali neri lo proteggevano dal riverbero
del ghiacciaio che una valanga aveva coperto da poco di neve fresca, e dove si
aprivano, scivolosi e traditori, dei laghetti azzurri; calmissimo, convinto per
esperienza che non c'era alcun pericolo, Tartarino avanzava lungo i crepacci
dalle pareti lucide e iridescenti che sprofondavano in abissi senza fondo,
passava in mezzo ai seracchi con la sola preoccupazione di tener dietro allo
studente svedese, le cui lunghe gambe magre scattavano veloci accompagnate dal
movimento dell'alpenstock.
Malgrado le difficoltà della scalata, le loro discussioni filosofiche
continuavano, e nell'atmosfera gelida si sentiva vibrare una voce sonora e
bonaria, un po' affannata, che diceva: Lei mi conosce, Otto...
Bompard, intanto, subiva mille disavventure. Convinto fermamente, fino a quella
mattina, che Tartarino non avrebbe mai realizzato la sua vanteria, e non avrebbe
fatto il Monte Bianco, come non aveva fatto la Jungfrau, lo sventurato si era
vestito come il solito, senza mettere le scarpe chiodate, e senza nemmeno
utilizzare la sua famosa invenzione di ferrare i piedi ai soldati; con la scusa
che i montanari del Chimborazo non se ne servivano, non aveva portato nemmeno
l'alpenstock.
Armato solo di un sottile bastoncino da passeggio, bene intonato al suo cappello
col nastro azzurro e al suo elegante cappotto, fu preso dal terrore alla vista
del ghiacciaio, perchè, malgrado tutti i suoi racconti, l'imbroglione non aveva
mai fatto un ascensione. Si rassicurò, comunque, quando dall'alto di una morena
osservò la facilità con la quale Tartarino si destreggiava sul ghiaccio, e
decise di seguirlo fino al rifugio dei Grands-Mulets, dove dovevano passare la
notte. Ma ci arrivò con molta fatica. Al primo passo, cadde lungo disteso sulla
schiena, la seconda volta sui ginocchi e sulle mani. No, grazie, l'ho fatto
apposta, disse alle guide accorse a rialzarlo. Stile americano... come sul
Chimborazo!
E siccome quella posizione gli parve comoda, seguitò ad andare avanti a quattro
zampe col cappello all'indietro e col cappotto che strisciava sul ghiaccio come
la pelliccia di un orso grigio; diceva tranquillamente che sulla Cordigliera
delle Ande aveva scalato, in quella posizione, una montagna di diecimila metri.
Non disse, però, quanto ci aveva messo, e a giudicare dal tempo che ci mise a
raggiungere il rifugio dei Grands-Mulets, doveva averci messo parecchio. Ci
arrivò infatti un'ora dopo Tartarino, tutto grondante di neve fangosa e con le
mani intirizzite nei guanti di lana.
In confronto al rifugio del Guggi, quello fatto costruire dal comune di
Chamonix, è veramente bene attrezzato. Quando Bompard entrò nella cucina, dove
fiammeggiava un bel fuoco di legna, trovò Tartarino e lo Svedese che si stavano
asciugando gli scarponi, mentre il custode del rifugio, un vecchio scarno dalle
lunghe ciocche di capelli bianchi, stava mostrando loro i tesori del suo piccolo
museo. Quel museo era davvero sinistro. Era composto dei ricordi di tutte le
sciagure che erano avvenute sul Monte Bianco nei quarant'anni e più in cui il
vecchio era stato custode del rifugio; togliendoli dalla vetrina, raccontava la
storia della loro triste provenienza... A quel pezzetto di stoffa e a quei
bottoni da panciotto, era legata la memoria di uno scienziato russo precipitato
durante un uragano nel ghiacciaio della Brenva... quei pezzi di mascella erano i
resti di una guida della famosa carovana di undici scalatori e portatori
scomparsi in una tormenta... Nella triste luce del tramonto, e nel pallido
riflesso della neve che veniva dalle finestre, quella mostra di reliquie funebri
e quei monotoni racconti avevano qualcosa di angoscioso, tanto più che il
vecchio dava un tono drammatico alla sua voce tremolante nei punti più patetici,
e si commoveva fino alle lacrime mostrando il pezzetto di velo verde di una
signora inglese inghiottita da una valanga nel 1827.
Tartarino aveva un bel rassicurarsi con le date, convincendosi che a quell'epoca
la Compagnia non aveva ancora organizzato le ascensioni senza pericolo, quei
racconti del vecchio savoiardo gli stringevano il cuore, e si mise sulla porta a
respirare un po' d'aria.
La valle era stata inghiottita dall'oscurità. I Bossons incombevano tetri e
vicinissimi, mentre la cima del Monte Bianco era ancora rosea dell'ultima
carezza del sole. Tartarino si sentiva rasserenare davanti alla bellezza di
quello spettacolo, quando si levò dietro di lui l'ombra di Bompard.
E' lei, Gonzago? Stavo respirando un po' d'aria pura; mi infastidiva quel
vecchio con le sue storie...
Tartarino... disse Bompard, stringendogli il braccio come in una morsa, spero
che ne abbia abbastanza, e che finirà qui questa ridicola ascensione.
Il grand'uomo spalancò gli occhi, inquieto: Ma cosa diavolo mi sta dicendo,
Gonzago?
Allora Bompard gli tracciò un quadro spaventoso di tutti i pericoli che li
minacciavano, i crepacci, le valanghe, la tormenta...
Tartarino l'interruppe: Ma via, burlone! E la Compagnia? Il Monte Bianco non è
organizzato come tutti gli altri?
Organizzato?... La Compagnia? Bompard, che aveva dimenticato completamente la
sua tarasconata, cadde dalle nuvole, ma l'altro cominciò a ripetere una per una
tutte le sue parole: la Svizzera in società, le montagne in affitto, i crepacci
truccati...
Bompard si mise a ridere: Ma come! Lei ci ha creduto?... ma era tutta una
buffonata. Tra Tarasconesi, ci si capisce subito...
Allora domandò Tartarino, agitatissimo la Jungfrau non era organizzata?
Nemmeno per sogno!
E se la corda si fosse spezzata?
Ah, povero Tartarino...
L'eroe chiuse gli occhi, pallido di paura retrospettiva, e per un minuto fu
preso dall'esitazione... quel paesaggio da cataclisma polare, freddo, tetro,
solcato da fenditure enormi... la voce lamentosa del vecchio custode che ancora
gli risuonava negli orecchi... Mondo cane! e se...
Poi, di colpo, pensò alla gente di Tarascona, alla bandiera che avrebbe fatto
sventolare sulla vetta, e si convinse che con delle buone guide e un compagno a
tutta prova come Bompard... Aveva fatto la Jungfrau, perchè non tentare anche il
Monte Bianco?
E appoggiando la sua mano robusta sulla spalla dell'amico, cominciò a dire con
voce virile: Mi stia a sentire, Gonzago...
13. La catastrofe.
Nella notte nera, senza stelle e senza luna, sul vago biancore di un immenso
pendio di neve, si muove lentamente una lunga cordata, composta di piccole ombre
timorose, tutte in fila, precedute da una lanterna che macchia di rosso la neve.
Il silenzio del nevaio, dove si smorzano i passi della carovana, è rotto solo
dai colpi di piccozza che risuonano sulla neve ghiacciata, o dallo schianto di
qualche lastra di ghiaccio; ogni tanto un grido, un lamento soffocato, la caduta
di un corpo sul ghiaccio... e subito una grossa voce che, dall'altro capo della
corda, dice: Piano, Gonzago, stia attento a non cadere.
Perchè, nonostante tutto, il povero Bompard si è deciso a seguire l'amico
Tartarino fino alla cima del Monte Bianco. Dalle due del mattino, ora sono le
quattro all'orologio del presidente, l'infelice Bompard avanza a tentoni, come
un forzato alla catena, trascinato e spinto, e costretto a tenersi in corpo
tutte le imprecazioni che gli salgono alle labbra ogni volta che inciampa o
vacilla, per paura che alla minima vibrazione dell'aria una valanga possa
cadergli addosso.
Soffrire in silenzio... che supplizio per un Tarasconese! Ora la carovana si è
fermata; Tartarino si informa; si sentono delle discussioni a voce bassa.
E' il suo amico che non vuol più proseguire, rispose lo Svedese. L'ordine di
marcia è rotto, il rosario umano si allenta, gira su se stesso, ed eccoli tutti
sull'orlo di un enorme crepaccio, di quelli che i montanari chiamano croture.
Ne hanno attraversati altri per mezzo di una scaletta gettata sopra la
fenditura, ma questo crepaccio è troppo largo, e la parete opposta si drizza
quasi verticale per circa trenta metri. Occorre perciò scendere in fondo alla
voragine con l'aiuto di gradini scavati con la piccozza, e risalire dalla parte
opposta con lo stesso sistema. Ma Bompard rifiuta ostinatamente di proseguire.
Curvo sull'abisso che l'ombra fa sembrare senza fondo, vede agitarsi nel buio la
lanterna delle guide che stanno preparando il passaggio. Tartarino, un po
preoccupato anche lui, cerca di farsi coraggio esortando il suo amico: Andiamo,
Gonzago, via! Poi, a voce bassa, gli parla del suo onore, invoca Tarascona, il
Club delle Alpine...
Me ne infischio del club! Tanto non ne facevo parte! risponde. Allora Tartarino
gli spiega che lo aiuteranno a mettere i piedi sui gradini, che è facilissimo.
Già, forse per lei, ma non per me.
Ma come! Lei diceva che aveva l'abitudine...
Be', sì, l'abitudine... ma quale? Ne ho tante di abitudini... quella di fumare,
di dormire...
E soprattutto quella di mentire! lo interrompe il presidente.
Di esagerare un po', via! dice Bompard senza scomporsi.
Tuttavia, dopo molte esitazioni e la minaccia di lasciarlo solo, anche Bompard
si decide a scendere, lentamente e con precauzione, quella terribile scaletta di
ghiaccio... Risalire è ancora più difficile; la parete è dritta e liscia come il
marmo, e più alta della torre di Tarascona. In basso brilla come una lucciola la
lanterna delle guide. Bisogna decidersi, la neve non è troppo solida, e vicino a
una grande fenditura che si intravede alla base della parete, si sentono
gorgogliare delle cascatelle.
Piano, Gonzago, attenzione a non cadere!
Questa frase che Tartarino pronunzia con tono affettuoso e quasi supplichevole,
assume un significato solenne se si riferisce alla posizione degli scalatori,
aggrappati piedi e mani alla parete, uno al disopra dell'altro, legati dalla
corda e dalla sincronia dei movimenti; la caduta o un movimento sbagliato di uno
di loro, li metterebbe tutti in pericolo. E che pericolo!
Basta sentire il rumore dei pezzi di ghiaccio che cadono, l'eco della loro
caduta, per immaginare quale mostro vi aspetti a bocca spalancata, per
inghiottirvi al minimo passo falso. Ma che succede, ora? Ecco che il lungo
Svedese che precede Tartarino, si ferma coi tacchi dei suoi scarponi che toccano
il berretto del P.C.A.
Le guide hanno un bel gridare: Avanti! e il presidente: Si muova, giovanotto!
Quello non si muove. Allungato in tutta la sua alta statura, aggrappato al
ghiaccio con mano indifferente, lo Svedese si piega, mentre il sole nascente
sfiora la sua barba sottile e illumina la strana espressione dei suoi occhi
dilatati. Che bella caduta, eh, se mi lasciassi andare! dice a Tartarino.
Mondo cane! Lo credo bene! Ci trascinerebbe tutti!... Via, si muova!
Ma l'altro rimane immobile.
Che bella occasione per finirla con la vita, per ritornare nel nulla, per
rotolare di crepaccio in crepaccio, come questo pezzo di ghiaccio che stacco col
piede... E si sporge pericolosamente per seguire con lo sguardo il pezzo di
ghiaccio che rimbalza ed echeggia senza fine nelle tenebre dell'abisso.
Disgraziato, faccia attenzione grida Tartarino, livido di paura; poi,
disperatamente aggrappato alla parete sdrucciolevole, riprende con esasperato
calore l'argomento della sera prima in favore dell'esistenza: Ma la vita ha del
buono, diamine! Alla sua età, un bel ragazzo come lei... ma via!... Non crede
nemmeno all'amore?
No, lo Svedese non ci crede. L'amore ideale è una menzogna dei poeti l'altro è
un bisogno che non ha mai sentito.
Va bene, va bene! E' vero che i poeti sono un po' come i Tarasconesi, esagerano
sempre. Ma le donne sono così carine; e poi si possono mettere al mondo dei
bambini, dei deliziosi marmocchi che vi rassomigliano!
Già, i bambini, un'altra fonte di preoccupazioni. Da quando sono nato, mia madre
non ha fatto altro che piangere.
Senta Otto, amico mio, lei mi conosce...
Con tutto lo slancio generoso del suo cuore, Tartarino si sforza di incoraggiare
e d scuotere quella vittima di Schopenhauer e di Hartmann quei due buffoni che
lui vorrebbe volentieri infilzare, mondo cane! per tutto il male che hanno fatto
alla gioventù. Immaginatevi, durante questa discussione filosofica, l'alta
muraglia di ghiaccio, viscida e gelida, illuminata da un pallido raggio di sole,
e un grappolo di esseri umani aggrappati alla parete, tra i sinistri gorgoglii
che si levano dal fondo dell'abisso e le imprecazioni delle guide che minacciano
di abbandonare i loro clienti. Tartarino, certo ormai che nessun ragionamento
potrà convincere quel matto, gli suggerisce l'idea di buttarsi dalla cima più
alta del Monte Bianco... sarebbe una cosa magnifica... ne varrebbe la pena... di
lassù che bella fine! Qui, invece, in fondo a una buca.. . Che orrore! E mette
nelle sue parole una tale forza di persuasione, un accento così convincente, che
lo Svedese si lascia persuadere; ed ecco che finalmente, uno dopo l'altro,
sbucano fuori da quel terribile crepaccio.
Si slegano le corde, e si fa una sosta per bere un bicchiere e fare uno
spuntino. E' giorno. Un giorno freddo e pallido in un grandioso anfiteatro di
picchi e di guglie, dominato dalla gigantesca mole del Monte Bianco. Le guide,
che fanno gruppo a parte, gesticolano e si consultano, scuotendo la testa. Sul
terreno bianco, infagottati e raccolti, con le schiene curve e le giacche scure,
sembrano delle marmotte pronte a scavarsi la tana per l'inverno. Bompard e
Tartarino, infreddoliti e preoccupati, si avvicinano a capo delle guide, nel
momento in cui questi sta dicendo con aria grave: Non ci sono dubbi, sta fumando
la pipa.
Chi e che fuma la pipa? domanda Tartarino.
Il Monte Bianco, signore. Guardi.
E la guida gli indica, proprio sulla vetta, una fumata bianca, una specie di
pennacchio che si volge in direzione dell'Italia.
E allora, quando il Monte Bianco fuma la pipa, cosa vuol dire?
Vuol dire, egregio signore, che lassù in cima c'è un vento terribile, una
tempesta di neve che presto ci verrà addosso. E sarà una cosa pericolosa.
Torniamo indietro! dice Bompard, verde dalla paura.
Sì, certamente, non facciamoci vincere da uno stupido amor proprio.
Ma lo Svedese non l'intende così. Ha pagato perchè lo portino sul Monte Bianco,
e nessuno gli impedirà di arrivarci. Se nessuno verrà con lui, ci arriverà da
solo. Vigliacchi! Vigliacchi! grida rivolgendosi alle guide, e ripete l'ingiuria
con la stessa voce lugubre con cui poco prima aveva invocato il suicidio.
Se ne accorgerà se siamo dei vigliacchi! grida il capo delle guide.
Su, rifacciamo la cordata, e via!
Questa volta è Bompard che protesta con energia: Ma non vedete che quel
giovanotto è pazzo! urla, indicando lo Svedese che si è già messo in cammino, a
lunghi passi sotto i primi fiocchi di neve ghiacciata portata dal vento che
comincia a volteggiare sulle loro teste. Ma niente e nessuno arresterà quegli
uomini che sono stati chiamati vigliacchi. Le marmotte si sono risvegliate piene
di coraggio. Tartarino non trova nessuno che voglia ricondurre lui e Bompard al
rifugio dei Grands-Mulets. D'altronde la direzione è semplice: tre ore di
cammino, contando uno scarto di venti minuti per aggirare il grande crepaccio,
se li spaventa attraversarlo da soli.
Perbacco se ci spaventa! esclama Bompard, senza pudore, e i due gruppi si
separano.
Ora i due Tarasconesi sono soli. Avanzano con precauzione sul deserto di neve,
attaccati alla stessa corda. Tartarino avanti tasta il suolo con la piccozza,
conscio della responsabilità che pesa su di lui, e cercando in essa uno stimolo.
Coraggio e sangue freddo! Ce la caveremo grida ogni momento a Bompard. Così
l'ufficiale in battaglia vince la paura, gridando ai suoi uomini: Avanti,
perdio, non tutte le pallottole ammazzano!
Finalmente hanno aggirato quell'orribile crepaccio. Non ci sono più grossi
ostacoli da superare per arrivare al rifugio. Ma la tormenta di neve li acceca,
avanzano con difficoltà, rischiano di smarrirsi.
Fermiamoci un momento, dice Tartarino. Un gigantesco seracco offre loro un
riparo alla sua base; si infilano là dentro, stendono la coperta impermeabile
del presidente, stappano la borraccia del rhum. Si sentono penetrare da un po'
di calore e da un po' di benessere, mentre in lontananza si sentono ancora i
colpi di piccozza della spedizione. Quei colpi echeggiano nel cuore di Tartarino
come il rimpianto di non aver fatto il Monte Bianco fino alla cima.
E chi lo saprà? replica cinicamente Bompard. I portatori hanno la bandiera con
loro, da Chamonix crederanno che sia stato lei.
Ha ragione, l'onore di Tarascona è salvo, conclude con convinzione Tartarino.
Ma gli elementi si scatenano, la tormenta diventa uragano, la neve aumenta. I
due amici non parlano, ossessionati da sinistri pensieri... ricordano l'ossario
della vetrina del vecchio custode del rifugio, i suoi orripilanti racconti, la
leggenda di quell'alpinista americano che venne ritrovato ormai irrigidito dal
freddo e dalla fame, che teneva nella mano stecchita un taccuino dove aveva
annotato tutta la sua agonia, fino all'ultimo sussulto che aveva fatto deviare
la matita nel punto della firma.
Lei ha per caso un taccuino, Gonzago?
E l'altro che capisce a volo: All'inferno il taccuino! Se crede che mi lasci
morire come quell'Americano... Presto! Usciamo di qui, andiamocene.
Impossibile! Il vento ci porterà via come fuscelli. Ci trascinerà in qualche
precipizio!
Allora bisognerà chiedere aiuto; il rifugio non è lontano.
E Bompard s'inginocchia, mette fuori la testa, e muggisce: Aiuto! Aiuto!
Soccorso!
All'armi! grida Tartarino con una voce di tuono che si ripercuote nella grotta.
Bompard lo afferra per un braccio: Disgraziato! Il seracco!
Infatti tutto il blocco ha tremato; ancora un soffio, e quella massa di ghiaccio
sarebbe crollata sulle loro teste. Rimangono immobili, irrigiditi, circondati da
un silenzio pauroso, rotto dopo pochi istanti da un rombo lontano che si
avvicina, aumenta, invade l'orizzonte, muore infine, di crepaccio in crepaccio,
nell'interno del suolo.
Poveretti! mormorava Tartarino, pensando allo Svedese e alle guide, senza dubbio
inghiottiti e travolti dalla valanga.
E Bompard, scuotendo la testa: Non stiamo meglio di loro. In realtà la loro
situazione è difficile; non osano muoversi dalla loro grotta di ghiaccio, nè si
possono arrischiare fuori nella bufera. Per aumentare la loro angoscia, sale
dalla valle un funereo ululare di cani. Improvvisamente Tartarino, con gli occhi
gonfi e le labbra tremanti, afferra le mani del compagno, e lo guarda con
affetto: Mi perdoni, Gonzago, sì, sì, mi perdoni. L'ho trattato male poco fa, le
ho dato del mentitore...
Ma lasci perdere! Che importa?
Ne avevo il diritto meno di chiunque altro, perchè anch'io ho mentito più di una
volta durante la mia vita, e in quest'ora suprema sento il bisogno di sfogarmi,
di liberarmi, di confessare pubblicamente le mie imposture.
Imposture, lei?
Mi stia a sentire, amico mio; prima di tutto, non ho mai ammazzato leoni.
Non mi sorprende dice Bompard tranquillamente. Perchè si tormenta per così poco?
La colpa è del nostro sole... si nasce con la bugia sulla lingua. Guardi me...
Ho mai detto una sola verità da quando sono al mondo? Appena apro la bocca per
parlare, il mio temperamento meridionale si impadronisce di me. Le persone di
cui parlo, non le conosco nemmeno; i paesi che descrivo, non ci sono mai stato;
e tutto questo si mescola e si accumula in un tale groviglio di menzogne, che io
stesso non mi ci so raccapezzare.
E' colpa dell'immaginazione, perbacco! sospira Tartarino. Siamo bugiardi per
eccesso di immaginazione. E le nostre bugie non hanno mai fatto male a nessuno,
mentre un malvagio e un invidioso come Costecalde...
Non mi parli di quel miserabile! interrompe il P.C.A., e preso da un improvviso
accesso d'ira: E' triste pensare... si ferma davanti a un gesto di terrore di
Bompard.
Ah già, il seracco! abbassa il tono, e continua a bassa voce, articolando le
parole con comiche contrazioni della bocca. Pensare di morire nel fiore degli
anni per colpa di uno scellerato che in questo momento, mondo cane!, starà
prendendo la sua tazzina di caffè sul Viale di Circonvallazione!
Ma mentre Tartarino sta scagliando i suoi fulmini, nel cielo si fa poco a poco
una schiarita. Non nevica più, il vento è cessato, si vedono squarci di azzurro.
Presto, in cammino! Si legano di nuovo alla corda. Tartarino prende la testa, ma
prima di avviarsi si volta indietro e, col dito sulla bocca: Intendiamoci bene,
Gonzago, quello che abbiamo detto, resti fra noi.
Certo, perbacco!
Ripartono pieni di ardore, affondando fino al ginocchio sulla neve fresca che ha
cancellato tutte le precedenti tracce della carovana. Tartarino consulta la
bussola ogni cinque minuti. Ma quella benedetta bussola tarasconese, abituata ai
climi caldi, è stata colpita da congelamento da quando è arrivata in Svizzera.
L'ago si sposta in tutte le direzioni, agitato, esitante. I due camminano
diritti davanti a loro, in attesa di veder comparire in mezzo alla bianca
distesa silenziosa irta di picchi, di guglie, e attraversata da pericolosi
crepacci, le rocce nere dei Grands-Mulets.
Sangue freddo, Gonzago, sangue freddo!
E' proprio quello che mi manca risponde lamentosamente Bompard, e geme: Ohi, il
mio piede! Ohi, la mia gamba!... dobbiamo esserci smarriti... non arriveremo
mai...
Stanno marciando da due ore, quando a metà di una salita piuttosto ripida,
Bompard esclama spaventato: Tartarino, ma qui si sale!
Eh, perbacco, me ne sono accorto anch'io risponde il presidente che comincia a
perdere la sua serenità.
Eppure, secondo me, si dovrebbe scendere!
Be, sì, ma cosa vuole che ci faccia? Saliamo intanto fino in cima, forse
dall'altra parte scenderà. Scendeva, infatti, in un ripidissimo digradare di
nevai e di ghiacciai; in fondo, a una profondità che sembrava irraggiungibile,
una minuscola capanna era abbarbicata alle rocce. Ora che avevano perduto la
direzione dei Grands-Mulets, era quello l'unico rifugio che dovevano raggiungere
prima del cader della notte, ma a prezzo di quali fatiche e di quali pericoli!
Soprattutto, non si lasci andare, Gonzago...
Anche lei, Tartarino.
Stanno scambiandosi queste raccomandazioni senza vedersi, separati da una cresta
dietro la quale è sparito Tartarino, e stanno avanzando con infinite
precauzioni, uno per salire, l'altro per scendere.
Non parlano; concentrano tutte le loro forze per evitare un passo falso, una
scivolata. Ad un tratto, quando è arrivato a un metro dalla cresta Bompard sente
un urlo terribile del suo compagno, e nello stesso tempo la corda si tende con
una scossa violenta e disordinata... vuole resistere aggrapparsi per trattenere
il suo compagno sospeso sull'abisso. Ma la corda deve essere vecchia, perchè si
spezza bruscamente sotto lo sforzo.
Due gridi disperati echeggiano e si incrociano sinistri, spezzando il silenzio e
la solitudine. Poi una calma mortale si diffonde nell'immensità delle nevi
immacolate. Verso sera, un uomo che assomigliava vagamente a Bompard, uno
spettro dai capelli irti, grondante, fangoso, arrivava all'albergo dei
Grands-Mulets, dove venne frizionato, riscaldato e messo a letto. Le sole parole
che riuscì a pronunziare tra le lacrime e con le braccia levate al cielo furono:
Tartarino... perduto... corda rotta. E allora ci si rese conto della gravità
della disgrazia.
Mentre il vecchio custode si lamentava e aggiungeva un nuovo capitolo alla
storia dei sinistri della montagna, in attesa che l'ossario si arricchisse dei
resti dell'incidente, lo Svedese e le guide, di ritorno dall'ascensione si
mettevano alla ricerca dello sventurato Tartarino con corde, scale, e tutto
l'armamentario necessario per un salvataggio in montagna.
Ma le ricerche, ahimè, non dettero nessun risultato positivo. Bompard, rimasto
inebetito, non sapeva dare alcun indizio preciso nè sullo svolgimento della
tragedia, nè sul punto dove era avvenuta. Fu trovata soltanto, al Dome du
Gouter, un pezzo di corda rimasta incastrata in una fenditura del ghiaccio.
Fatto strano, la corda era tagliata alle due estremità come da uno strumento
tagliente. I giornali di Chambèry ne pubblicarono una riproduzione. Alla fine,
dopo otto giorni di indagini e di ricerche coscienziose, quando si ebbe la
certezza che il povero presidente era introvabile, i delegati inconsolabili
ripresero la via di Tarascona, riportando con loro Bompard, il cui cervello
sconvolto portava ancora i segni della tremenda scossa. Non me ne parlate!
rispondeva, quando sentiva gli amici discutere sulla sciagura. Non me ne parlate
più. Il Monte Bianco aveva fatto un'altra vittima... e che vittima.
14.
Non esistono sotto il sole e in nessun paese località più eccitabili di
Tarascona. Talvolta, in piena domenica, mentre tutta la popolazione è in strada,
mentre il corso è pieno di una folla pittoresca e variopinta, mentre manifesti a
colori vivaci annunziano gare di lotta e combattimenti di tori, basta che un
burlone si metta a gridare: C'è un cane arrabbiato! oppure: E' scappato un bue!,
che tutti se la danno a gambe, le porte si serrano a chiavistello, le persiane
sbattono come per un temporale, ed ecco Tarascona deserta, muta, senza nemmeno
un gatto in giro, senza il più piccolo rumore; persino le cicale tacciono e si
tengono nascoste.
Questo era l'aspetto di Tarascona, quella mattina, benchè non fosse domenica nè
altro giorno di festa. Le botteghe chiuse, le case silenziose, le piazze e le
piazzette fatte più grandi dalla solitudine e dal silenzio, Vasta silentio, dice
lo storico romano Tacito, di Roma, durante i funerali di Germanico, quel famoso
generale la cui morte prematura in Antiochia, fu celebrata con lutto pubblico.
E il paragone si addice a Tarascona, che in quel giorno, nella sua cattedrale
affollata di popolo piangente, celebrava il rito funebre per l'anima di
Tartarino, il suo eroe, il suo dio, l'uomo invincibile dai muscoli doppi,
sparito nei ghiacciai del Monte Bianco.
Ora, mentre i rintocchi funebri sgranavano le loro note pesanti sulle strade
deserte, la signorina Tournatoire, sorella del dottore, che a causa del suo
stato di salute era costretta a restare sempre in casa, sprofondata nella sua
poltrona vicino alla finestra, stava guardando fuori ascoltando le campane. La
casa dei Tournatoire si trovava sulla strada di Avignone quasi di fronte alla
villetta di Tartarino, e la vista di quella illustre dimora il cui padrone non
doveva più tornare, e del cancelletto del giardino chiuso per sempre, spezzava
il cuore della povera inferma, che una segreta passione per l'eroe tarasconese
divorava da più di trent'anni.
Improvvisamente, la lunga faccia cavallina della signorina Tournatoire si colorì
leggermente, i suoi occhi incolori orlati di rosso, si dilatarono, mentre la sua
mano magra accennava un gran segno di croce... Lui! Era lui che rasentava il
muro dal lato opposto della strada... Era un'allucinazione?... ma no, era
Tartarino in carne ed ossa, solamente più pallido spaurito, cencioso, che si
addossava ai muri come un mendicante o un ladro.
Ma per spiegare la sua furtiva riapparizione a Tarascona, bisogna tornare
indietro sul Monte Bianco, al Dome di Gouter, in quel preciso istante in cui i
due amici si trovavano uno da un lato e uno dall'altro del Dome.
Bompard sentì la corda che li teneva legati tendersi bruscamente, come per la
caduta di un corpo. In realtà, la corda si era impigliata tra due lastroni di
ghiaccio, e Tartarino, subendo la stessa scossa, pensò anche lui che il suo
compagno stesse precipitando dalla parte opposta, trascinandolo con sè.
Allora, in quel supremo momento... come dirlo, Dio mio?... presi dal panico,
tutti e due, dimenticando il solenne giuramento fatto all'Hotel Baltet, con lo
stesso gesto istintivo, tagliarono contemporaneamente la corda, Bompard col
coltello, Tartarino con un colpo di piccozza; poi, terrorizzati dal loro
crimine, convinti ambedue di aver sacrificato l'amico, fuggirono in opposte
direzioni.
Quando lo spettro di Bompard apparve ai Grands-Mulets, quello di Tartarino
arrivava all'osteria dell'Avesailles. In che modo? Dopo quante cadute e
scivolate ci era arrivato? Solo il Monte Bianco avrebbe potuto dirlo, perchè il
povero presidente restò per due giorni in uno stato di sbalordimento completo,
incapace di pronunziare una parola. Appena si fu un po' ripreso, lo fecero
scendere a Courmayeur. All'albergo dove prese alloggio per cercare di rimettersi
in forze, sentì parlare di una spaventosa tragedia successa sul Monte Bianco,
simile in tutto alla catastrofe del Cervino; ancora un alpinista inghiottito da
un crepaccio a causa della rottura della corda.
Convinto che la vittima fosse Bompard, Tartarino, dilaniato dal rimorso, non osò
più riunirsi alla delegazione per ritornare a Tarascona. Nella sua immaginazione
vedeva già su tutte le labbra e in tutti gli sguardi il tremendo rimprovero:
Caino, cosa hai fatto al tuo fratello?
Tuttavia, la mancanza di denaro, di biancheria, e i primi freddi di settembre
che vuotarono gli alberghi, lo obbligarono a riprendere il cammino.
In fondo, nessuno l'aveva visto commettere il delitto. Niente gli avrebbe
impedito di inventare una storia qualsiasi; e così, aiutato dalle distrazioni
del viaggio, aveva cominciato a ritornare alla normalità. Ma all'avvicinarsi di
Tarascona, quando vide profilarsi sotto il cielo azzurro le dolci ondulazioni
delle Alpine, fu assalito di nuovo dal rimorso, dalla vergogna, e dal timore
della giustizia; allora, per evitare la pubblicità di un arrivo alla stazione,
scese all'ultima fermata prima della città.
Ah, com'era bella quella strada tarasconese, bianca di polvere, con le sole
ombre dei paracarri e dei pali telegrafici, quella via trionfale dove tante
volte era passato alla testa dei suoi alpinisti e dei suoi cacciatori di
berretti! Chi avrebbe riconosciuto ora, in quella specie di vagabondo stracciato
e dallo sguardo sospettoso, il gagliardo e inappuntabile Tartarino. L'aria
ardeva anche se la stagione era avanzata, e il cocomero che comprò da un
ortolano gli parve delizioso, mangiato così, all'ombra del barroccino, mentre il
contadino si sfogava contro le massaie di Tarascona, che quella mattina non si
facevano vedere per via di una messa funebre per un tale che è cascato in un
burrone lassù sulle montagne... Sente le campane? Ormai non c'era più dubbio,
era per Bompard che echeggiavano quei suoni funebri dalla brezza tiepida
attraverso la campagna solitaria!
Che accompagnamento per il ritorno del grand'uomo in patria!
Più tardi, quando, aperto e rinchiuso bruscamente il cancello del giardinetto,
Tartarino si trovò di nuovo a casa sua, quando vide il vialetto di bosso
rastrellato e ben tenuto, la vasca, lo zampillo, e i pesciolini rossi che si
misero a guizzare al rumore dei suoi passi sulla ghiaia, e il baobab gigante nel
suo vaso da reseda, si sentì penetrare da un tenero senso di benessere, dal
calore della sua tana di coniglio domestico, tranquilla e sicura dopo tanti
pericoli e tante avventure. Ma le campane, quelle campane maledette,
raddoppiarono il loro rintocco, e le loro note cupe caddero come macigni sul
cuore di Tartarino.
Sembravano ripetergli, coi loro rintocchi funebri: Caino, cos'hai fatto di tuo
fratello? Tartarino, cosa è successo a Bompard? Allora, incapace di muoversi, si
mise a sedere sull'orlo caldo della vasca, e rimase lì annientato, distrutto,
tra l'emozione dei pesciolini rossi.
Ora le campane non suonavano più. La piazza della cattedrale era tornata
silenziosa. Appena finita la cerimonia religiosa, tutta Tarascona si era
riversata al Club delle Alpine dove, in una seduta solenne, Bompard doveva fare
il resoconto della catastrofe e dare dettagli sugli ultimi momenti del
presidente. Oltre ai soci del circolo alcuni privilegiati, esercito, clero,
nobiltà, commercio, avevano preso posto nel salone delle conferenze le cui
finestre spalancate permettevano alla banda cittadina di mescolare qualche
eroico o lamentoso accordo ai discorsi degli oratori.
Una folla enorme si pigiava intorno ai suonatori, si alzava sulla punta dei
piedi, allungava il collo, nella speranza di afferrare qualche frase, ma i
davanzali erano troppo alti, e non si sarebbe avuta nessuna idea di quello che
succedeva, senza la presenza di due o tre monelli arrampicati sui rami di un
grosso platano, che di lassù buttavano giù le notizie come se fossero noccioli
di ciliege.
Guarda Costecalde che si sforza di piangere! Furbacchione! E' lui che siede
sulla poltrona, ora... Bèzuquet si soffia il naso. Poveretto, ha gli occhi
rossi!... Toh, hanno messo il crespo nero alla bandiera! Ecco Bompard che si
avvia verso il tavolo con i tre delegati... Mette qualcosa sulla scrivania...
ora parla... che belle cose deve dire... Si sono messi tutti a piangere.
In realtà la commozione diventava generale via via che Bompard procedeva nel suo
racconto. Ah, la memoria gli era tornata. E anche la fantasia! Dopo aver
raggiunto, lui e il suo compagno, la cima del Monte Bianco, senza guide, perchè
a causa del maltempo nessuno aveva voluto seguirli, soli, con la bandiera
spiegata, erano rimasti cinque minuti sulla vetta più alta d'Europa. Continuava
poi, descrivendo con accenti drammatici la perigliosa discesa e la caduta,
Tartarino che precipita in fondo a un crepaccio, e lui che si lega alla corda
per esplorare l'abisso, una corda lunga sessanta metri.
Più di venti volte... che dico?... più di novanta volte ho esplorato
quell'abisso di ghiaccio senza poter raggiungere il nostro amato presidente, ma
riuscivo a trovare le prove del suo passaggio in questi piccoli frammenti
rimasti nelle fessure del ghiaccio...
A questo punto metteva in mostra sul tappeto del tavolo, un frammento di
mascella, qualche pelo di barba, un brandello di panciotto e una fibbia di
bretelle; sembrava l'ossario dei Grands-Mulets.
Davanti a quella esposizione, il raccapriccio e la commozione dei presenti non
poterono più essere trattenuti; anche i cuori più duri, i partigiani di
Costecalde, e i personaggi più solenni, come il notaio Cambalalette e il dottor
Tournatoire, avevano il volto rigato di grosse lacrime. Le grida strazianti
delle signore erano dominate dai rumorosi singhiozzi di Excourbaniès e dai
belati di Pascalon, mentre la banda accompagnava queste manifestazioni di
cordoglio con una solenne marcia funebre.
Allora, quando vide che la commozione e l'eccitamento avevano raggiunto il
colmo, Bompard finì il suo racconto con un gran gesto di pietà verso quelle
reliquie, raccolte in un vaso di vetro come prove della tragedia.
Ed ecco, signori e miei cari concittadini, tutto quello che ho potuto ritrovare
del nostro amato presidente... il resto ci verrà restituito dal ghiacciaio tra
quarant'anni.
Stava per spiegare, a beneficio delle persone ignoranti, la recente teoria sul
movimento dei ghiacciai, quando fu interrotto dal cigolio della porticina in
fondo alla sala; qualcuno entrava: era Tartarino, più pallido di un fantasma,
che si avanzò verso l'oratore.
Guarda chi si vede! Tartarino!
Toh... Bompard!
E questa razza tarasconese è così bizzarra, così pronta ad accettare le storie
più incredibili e le menzogne più audaci, anche se subito smentite che
l'apparizione del grand'uomo, i resti del quale erano ancora esposti sulla
scrivania, non causò nella sala che una mediocre sorpresa.
E' stato un malinteso, via! disse Tartarino, sollevato e raggiante con la mano
sulla spalla dell'uomo che credeva di avere assassinato.
Ho fatto il Monte Bianco dalle due parti. Sono salito da un versante e sono
sceso dall'altro; è per questo che mi hanno creduto morto.
Ma non confessò di aver fatto il secondo versante sulla schiena.
Benedetto Bompard! Ci ha scombussolato tutti con la sua storia! disse Bèzuquet.
E cominciarono a ridere e a stringersi la mano, mentre fuori, la banda, che si
cercava invano di far tacere, seguitava imperterrita a suonare la marcia funebre
per Tartarino. Guardi Costecalde come è giallo! mormorava Pascalon a Bravida,
indicandogli l'armaiolo che si alzava dalla poltrona per cedere il posto al
vecchio presidente che irradiava felicità dal faccione bonario. Bravida, sempre
pronto a citare un proverbio, sentenziò a bassa voce, guardando Costecalde
decaduto e ridotto al suo rango di subalterno: La fortuna dell'abate Macario,
che da curato diventò vicario. E la seduta continuò.
FINE