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Daniele Corletto Efficacia e invalidità dell’atto amministrativo 1 Daniele Corletto Efficacia e invalidità dell’atto amministrativo in Le nuove regole dell'azione amministrativa (a cura di G. Sciullo), Bononia University Press,Bologna, 2006, pp.110- 183 SOMMARIO: 1. - Efficacia, esecuzione ed esecutorietà dei provvedimenti; 2. - L’art. 21-bis e la necessaria comunicazione degli atti limitativi; 3. - L’esecutorietà e l’art. 21-ter; 4. - Efficacia ed esecutività nell’art. 21-quater; 5. - Sospensione dell’efficacia e dell’esecuzione (art. 21-quater, comma 2); 6. - L’invalidità dei provvedimenti: nullità e annullabilità; 7. - L’invalidità degli atti nell’antica dottrina giuridica; 8. - La nullità nella dottrina francese e tedesca dell’800; 9. - Il trasferimento dei concetti civilistici al diritto amministrativo; 10. - Il rifiuto della nullità nella giurisprudenza del Consiglio di Stato; 11. - La discussione dottrinale sui concetti; 12. - La carenza di potere come criterio di riparto delle giurisdizioni; 13. - La giurisprudenza sulla nullità per elusione del giudicato; 14. - Le nullità testuali prese sul serio: le AP del 1992; 15. - Il regime della nullità, prima della legge 15 del 2005; 16. - L’art. 21-septies; 17. - Gli elementi essenziali del provvedimento; 18. - Il difetto assoluto di attribuzione; 19. - L’elusione o violazione del giudicato; 20. - Le nullità testuali; 21. - Il regime sostanziale dell’atto nullo; 22. - Regime processuale della nullità: la giurisdizione; 23. - Legittimazione e rilevabilità d’ufficio; 24. - Il termine; 25. - Nullità e inesistenza; 26. - Profili ricostruttivi; 27. - L’annullabilità e l’art. 21-octies; 28. - Le ragioni del legislatore; 29. - Le conseguenze delle nuove previsioni; 30. - La regola di non annullabilità degli atti vincolati “palesemente” legittimi nella sostanza; 31. - La differenziazione fra provvedimenti vincolati e provvedimenti discrezionali; 32. - La regola di non annullabilità per omissione della comunicazione di avvio; 33. - Il problema della definizione dei “vizi formali”; 34. - Il processo su atti vincolati come giudizio di (annullamento basato sull’accertamento della) spettanza; 35. - Illegittimità e invalidità; 36. - Interesse legittimo in trasformazione (o in crisi); 37. Conseguenze concrete. L’atto amministrativo ci interessa essenzialmente come strumento per il raggiungimento di risultati, per la produzione di utilità, o, in altra ottica, come fonte di conseguenze dalle quali vogliamo difenderci. Il cuore del nostro interesse è quindi ovviamente l’efficacia degli atti, e tutto ciò che la rende possibile, o che, all’opposto, la mette in pericolo o la esclude. Parlare di efficacia e di invalidità vuol dire quindi in fondo parlare sempre della stessa cosa. Infatti l’invalidità ci interessa come condizione del provvedimento dalla quale deriva o può derivare una qualche conseguenza sulla capacità del provvedimento di produrre i suoi effetti, ossia sulla sua efficacia. La legge 241, come è stata modificata l’anno scorso, dedica il capo IV bis a “Efficacia e invalidità del provvedimento.

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1

Daniele Corletto

Efficacia e invalidità dell’atto amministrativo

in Le nuove regole dell'azione amministrativa (a cura di G. Sciullo), Bononia University Press,Bologna, 2006, pp.110-183

SOMMARIO: 1. - Efficacia, esecuzione ed esecutorietà dei provvedimenti; 2. - L’art. 21-bis e la necessaria

comunicazione degli atti limitativi; 3. - L’esecutorietà e l’art. 21-ter; 4. - Efficacia ed esecutività nell’art. 21-quater; 5. - Sospensione dell’efficacia e dell’esecuzione (art. 21-quater, comma 2); 6. - L’invalidità dei provvedimenti: nullità e annullabilità; 7. - L’invalidità degli atti nell’antica dottrina giuridica; 8. - La nullità nella dottrina francese e tedesca dell’800; 9. - Il trasferimento dei concetti civilistici al diritto amministrativo; 10. - Il rifiuto della nullità nella giurisprudenza del Consiglio di Stato; 11. - La discussione dottrinale sui concetti; 12. - La carenza di potere come criterio di riparto delle giurisdizioni; 13. - La giurisprudenza sulla nullità per elusione del giudicato; 14. - Le nullità testuali prese sul serio: le AP del 1992; 15. - Il regime della nullità, prima della legge 15 del 2005; 16. - L’art. 21-septies; 17. - Gli elementi essenziali del provvedimento; 18. - Il difetto assoluto di attribuzione; 19. - L’elusione o violazione del giudicato; 20. - Le nullità testuali; 21. - Il regime sostanziale dell’atto nullo; 22. - Regime processuale della nullità: la giurisdizione; 23. - Legittimazione e rilevabilità d’ufficio; 24. - Il termine; 25. - Nullità e inesistenza; 26. - Profili ricostruttivi; 27. - L’annullabilità e l’art. 21-octies; 28. - Le ragioni del legislatore; 29. - Le conseguenze delle nuove previsioni; 30. - La regola di non annullabilità degli atti vincolati “palesemente” legittimi nella sostanza; 31. - La differenziazione fra provvedimenti vincolati e provvedimenti discrezionali; 32. - La regola di non annullabilità per omissione della comunicazione di avvio; 33. - Il problema della definizione dei “vizi formali”; 34. - Il processo su atti vincolati come giudizio di (annullamento basato sull’accertamento della) spettanza; 35. - Illegittimità e invalidità; 36. - Interesse legittimo in trasformazione (o in crisi); 37. – Conseguenze concrete.

L’atto amministrativo ci interessa essenzialmente come strumento per il raggiungimento di risultati, per

la produzione di utilità, o, in altra ottica, come fonte di conseguenze dalle quali vogliamo difenderci. Il

cuore del nostro interesse è quindi ovviamente l’efficacia degli atti, e tutto ciò che la rende possibile, o che,

all’opposto, la mette in pericolo o la esclude.

Parlare di efficacia e di invalidità vuol dire quindi in fondo parlare sempre della stessa cosa. Infatti

l’invalidità ci interessa come condizione del provvedimento dalla quale deriva o può derivare una qualche

conseguenza sulla capacità del provvedimento di produrre i suoi effetti, ossia sulla sua efficacia.

La legge 241, come è stata modificata l’anno scorso, dedica il capo IV bis a “Efficacia e invalidità del

provvedimento”.

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1. - Efficacia, esecuzione ed esecutorietà dei provvedimenti

Nella legge 241 si parla di efficacia per indicare la idoneità del provvedimento a produrre i suoi effetti, e

quindi per definire le condizioni alle quali gli effetti si producono.

Nella legge 241 non si dice nulla invece sull’efficacia intesa come tipo, contenuto e qualità degli effetti

che ciascun provvedimento, o ciascun tipo o categoria di provvedimenti, è in grado di produrre. In questo

senso si parla di “efficacia del provvedimento”, come elemento della definizione del provvedimento, per

indicare la capacità tipica del provvedimento di produrre effetti giuridici in maniera unilaterale e

autoritativa. O si parla di “efficacia degradatoria” dei provvedimenti che incidono su diritti per indicare la

loro capacità di sacrificare (unilateralmente e autoritativamente) i diritti dei loro soggetti passivi.

Sotto questo aspetto l’efficacia tipica dei provvedimenti non è altro che la loro autoritatività, la loro

capacità di produrre autoritativamente, e quindi unilateralmente i loro effetti giuridici, senza necessità del

consenso dei destinatari. O, se vogliamo spostare questa caratterizzazione dall’atto al potere di cui l’atto è

espressione, la loro caratteristica di essere atti di esercizio di una potestà pubblica, autoritativa e

unilaterale.

Sono quei discorsi che ricordiamo tutti, che si intrattengono sul mistero, o sulla mistica, del potere, che

girano attorno al carattere di fondo del potere pubblico, alla sua capacità di fare a meno, per ottenere i suoi

scopi, del consenso dei “sudditi”, e di imporre le sue decisioni, sempre giustificate dallo scopo di tutelare il

pubblico interesse e legittimate dal principio di legalità, anche contro la volontà, gli interessi, i diritti del

singolo cittadino. Abbiamo qui un affollarsi di concetti, tutti intrecciati e collegati fra di loro,

dall’autoritatitivà all’esecutività, all’imperatività, all’esecutorietà.

Al cuore vi è la prevalenza che la legge dà al potere pubblico sui diritti, i quali non sono, di fronte al

potere, garantiti; il potere che l’amministrazione ha di eseguire anche materialmente le proprie decisioni,

senza che la pretesa debba essere preventivamente vagliata da un giudice (esecutorietà); il regime degli atti

dell’amministrazione che non solo producono direttamente i loro effetti (esecutività), ma che sono

contestabili di fronte al giudice solo entro brevi termini, decorsi i quali i loro effetti si stabilizzano e si

producono in maniera incontestabile e definitiva (inoppugnabilità).

Dottrina e giurisprudenza ci hanno spiegato, da più di un secolo, che il provvedimento, quando c’è,

quando è finito di fare (perfetto), e quando si sono avverate tutte le condizioni alle quali la legge subordina

la sua efficacia, produce i suoi effetti giuridici.

Ma non di questo ci parlano gli articoli del nuovo capo IV-bis della legge 241, che non contengono una

definizione del provvedimento e della sua tipica efficacia, limitandosi a fissare alcuni punti in tema di

esecuzione, di sospensione dell’efficacia o dell’esecuzione, di esecutorietà, e della condizione a cui è

subordinata la produzione di effetti dei provvedimenti sfavorevoli.

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L’art. 21-bis ci parla infatti di efficacia del provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati, il 21-

ter di esecutorietà, 21-quater di efficacia ed esecutività del provvedimento, e della loro sospensione.

Per capire di cosa si sta parlando bisogna ricordare il quadro di fondo, (secondo la esatta impostazione

di G. Falcon, Lezioni di diritto amministrativo, Padova 2005, 164 ss.), che ci mostra provvedimenti che non

richiedono attuazione, provvedimenti che creano obblighi per i privati e per i quali si pone un problema di

esecuzione coattiva e di esecutorietà, e provvedimenti che richiedono l’attuazione, l’esecuzione diretta, da

parte della stessa amministrazione.

Vi sono innanzitutto categorie di provvedimenti che non richiedono alcuna attuazione. Una volta che un

provvedimento permissivo o autorizzativo sia efficace, produce l’effetto giuridico di rendere possibile,

lecita, una certa attività, che il privato non può svolgere fino a che l’amministrazione non abbia verificato

l’esistenza dei requisiti e delle condizioni che la legge ritiene necessari per svolgere quell’attività (la patente

di guida, il porto d’armi). Qui l’interesse pubblico è soddisfatto non dall’attività compiuta sulla base del

provvedimento, ma proprio dal fatto che si siano verificati i requisiti che garantiscono che una certa attività

potenzialmente pericolosa non sia svolta da chi non ne ha la capacità tecnica o non dà garanzie di svolgerla

in maniera accettabile.

Vi sono poi provvedimenti che hanno lo scopo di obbligare i destinatari a tenere comportamenti

considerati necessari o utili per l’interesse pubblico. Si tratta degli ordini. Qui l’interesse pubblico non è

soddisfatto dalla stessa esistenza del procedimento di verifica dei requisiti, né dai soli effetti giuridici

dell’atto (che si limita a far nascere un obbligo nel destinatario), ma richiede che il destinatario del

provvedimento tenga un certo comportamento, compia una certa azione, produca un certo risultato (ad es.

demolire l’immobile pericolante, consegnare il bene requisito, sciogliere la manifestazione illegale,

presentarsi alla caserma per il servizio militare). In questi casi se non vi è obbedienza all’ordine, se l’obbligo

che è l’effetto giuridico del provvedimento, pur rinforzato dalle sanzioni che vengono previste per la sua

mancata osservanza, non basta a indurre il privato all’attività che gli si impone, ci devono essere dei rimedi

che garantiscano un risultato equivalente, per l’interesse pubblico, a quello che sarebbe dato dalla

spontanea esecuzione dell’ordine (Falcon). Qui si pone dunque un problema di esecuzione coattiva, al

posto e contro la volontà dell’obbligato renitente, o di vera e propria costrizione fisica al comportamento

dovuto. Qui si parla allora del problema dell’esecutorietà, che si è considerato come uno dei caratteri

propri del provvedimento, come la sua attitudine ad essere eseguito coattivamente. Ma la dottrina ha poi

notato che l’esecutorietà non è un carattere di tutti, ma solo di un certo tipo di provvedimenti, quelli che

determinano un dovere di esecuzione nel destinatario. Più modernamente si è vista l’esecutorietà come

uno specifico potere dell’amministrazione, diverso e ulteriore rispetto a quello di provvedere, o ancora la si

è fatta rientrare in una nozione più generale di autotutela, come potere dell’amministrazione di dare

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garanzia agli interessi pubblici, e di raggiungere da sé gli scopi materiali delle sue decisioni, o anche di

correggere i propri precedenti provvedimenti.

Vi sono infine provvedimenti che richiedono di essere eseguiti dalla stessa amministrazione che li ha

posti in essere. Ad esempio i provvedimenti adottati per assicurare l’esecuzione di un provvedimento

ordinatorio rimasto inadempiuto (Falcon, 168) (l’ordine di demolizione, rimasto inadempiuto dal privato,

viene seguito da un ordine di servizio dato ad uffici dell’amministrazione stessa di compiere quella certa

attività di demolizione sul bene del privato). Devono poi essere eseguiti dall’amministrazione i

provvedimenti emessi nell’esercizio di poteri “gestionali” (Falcon, 169). Deliberato il bando di un concorso

pubblico, l’amministrazione dovrà curarne lo svolgimento, raccogliendo le domande, nominando la

commissione, approvando la graduatoria.

2. - L’art. 21-bis e la necessaria comunicazione degli atti limitativi

Dunque, tornando alla legge 241, quando l’art. 21-bis dispone in tema di “efficacia del provvedimento

limitativo della sfera giuridica dei privati” non si occupa affatto (come la rubrica dell’articolo potrebbe far

pensare) della qualità e del contenuto degli effetti tipici del provvedimento, capace appunto di limitare la

sfera giuridica dei privati, ma riguarda solo il momento in cui l’efficacia del singolo provvedimento si

produce, o meglio la condizione alla quale si vuole sia subordinato, in ogni caso, l’inizio della produzione

degli effetti tipici dei provvedimenti di una certa categoria, quelli “limitativi della sfera giuridica”.

Di questi l’art. 21 bis dice che acquistano efficacia, nei confronti di ciascun destinatario, solo con la

comunicazione a questo effettuata, salvo che sia prevista una clausola di immediata efficacia, esclusa però

per i provvedimenti sanzionatori. Si aggiunge poi che i provvedimenti limitativi aventi carattere cautelare

ed urgente sono immediatamente efficaci.

Non vi è invece nessuna esplicita previsione sull’efficacia (sul momento di inizio dell’efficacia) dei

provvedimenti non limitativi. Resta evidentemente sottointeso che in questi casi il completamento della

fattispecie del provvedimento comporta l’immediata efficacia. Immediata vuol dire però ovviamente che se

la fattispecie cui la legge vuole siano collegati gli effetti comprende come condizione un qualche

adempimento successivo alla formazione dell’atto (uno di quegli atti che si collocano nella fase integrativa

dell’efficacia, come una pubblicazione, un atto di controllo), è solo dal verificarsi di questo adempimento

che l’efficacia può prodursi.

La regola del 21 bis allora non vuol dire che i provvedimenti limitativi si comportino diversamente dagli

altri da questo punto di vista, nel senso che comunque tutti gli atti producono effetti se e da quando siano

venuti in essere tutti gli elementi richiesti dalla legge per la loro efficacia, ma solo che della fattispecie

necessaria per la produzione di effetti deve far parte sempre un atto (integrativo dell’efficacia) di

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comunicazione individuale. Quindi il 21 bis dice solo che degli elementi necessari per la produzione di

effetti del provvedimento sfavorevole fa parte anche la comunicazione individuale.

Sembrerebbe quasi una norma di principio destinata al legislatore, al quale ricorda che deve prevedere

nei procedimenti per l’esercizio di poteri limitativi della sfera giuridica dei privati una fase di integrazione

dell’efficacia della quale deve far parte in ogni caso la comunicazione personale all’interessato. O è una

norma direttamente operativa che aggiunge in tutti i procedimenti di quel tipo quel certo adempimento di

comunicazione e vi subordina l’efficacia?

L’ambito cui si riferisce la regola della necessaria comunicazione va oltre il tradizionale concetto di atti

recettizi: quelli erano intesi come gli atti che per realizzare il loro effetto pratico devono essere eseguiti,

con una attività di collaborazione, di adempimento, da parte del privato (tipicamente gli ordini). Qui invece

si subordinano alla comunicazione gli effetti di tutti gli atti “limitativi” della sfera giuridica, compresi quindi

evidentemente gli atti ablatori (espropriazioni, occupazioni, sequestri) che di per sé non presuppongono,

per la realizzazione del loro effetto giuridico, alcuna collaborazione del destinatario.

Ma allora, ci si potrebbe chiedere, perché non seguire l’esempio del VwVfG tedesco che al § 43 dice che

tutti gli atti divengono efficaci nei confronti del destinatario con la notificazione?

Resta poi comunque quella ampia e indeterminata previsione che consente efficacia immediata senza

troppe limitazioni ai provvedimenti cautelari e urgenti. Ma cosa vuol dire “immediata”? Evidentemente che

l’efficacia si riporta al momento della loro perfezione, esaurita cioè la fase costitutiva, senza che sia

necessaria la comunicazione.

3. - L’esecutorietà e l’art. 21-ter

Il 21 ter appare come una norma vuota perché rinvia in ogni caso ai “casi e modalità previsti dalla

legge”, solo nei quali è possibile per le pubbliche amministrazioni “imporre coattivamente l’adempimento

degli obblighi nei loro confronti”.

Quindi una norma che si limita a precisare un risvolto, del resto ovvio, del principio di legalità, e che si

direbbe che contenga un precetto negativo, ricordando all’amministrazione che non dispone del potere di

“imporre coattivamente” l’adempimento degli obblighi nei suoi confronti se la legge non lo preveda.

La norma prende posizione sul problema se il potere di imporre l’esecuzione sia implicitamente

compreso nel potere di provvedere o necessiti di una espressa e puntuale previsione normativa,

risolvendolo nel secondo senso, come già la dottrina, del resto, pacificamente riteneva.

Non è quindi una norma generale che fonda il potere di esecuzione coattiva, è anzi al contrario una

norma che esclude il potere di esecuzione fuori dei casi espressamente e singolarmente previsti dalle leggi.

Ci dice quindi che il potere di disporre circa un interesse pubblico non comprende sempre e

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automaticamente quello di realizzare il risultato, e che perlomeno nei casi in cui il soddisfacimento del

pubblico interesse passa attraverso la imposizione, a carico dei privati, di obblighi verso la p.a., la

realizzazione concreta del risultato che ci si attende dall’esecuzione dell’obbligo posto al privato richiede,

ove l’obbligo non venga spontaneamente eseguito, un ulteriore potere, che deve essere di volta in volta

attribuito e che non è implicito.

Inoltre fissa la regola generale che l’esecuzione coattiva deve sempre essere preceduta da diffida.

Dunque l’esecutorietà non può più, per legge, essere considerata un attributo generale del

provvedimento creativo di obblighi, il quale si caratterizzerebbe per la sua “attitudine ad essere eseguito

coattivamente” (Carpi, citato da V. Cerulli Irelli, Principi del diritto amministrativo, II, Torino 2005, 194), ma

deve considerarsi come un distinto potere, che necessita di una espressa attribuzione e disciplina.

A ben vedere (cfr. Falcon, Lezioni, 165) la vera esecutorietà come esecuzione forzata, coatta, di obblighi,

si vede solo rispetto ai provvedimenti che ordinano un fare infungibile, personale, come ad es. di

presentarsi alla leva, di sciogliere la manifestazione. In questi casi si tratta di ottenere con la coazione fisica

diretta l’esecuzione della stessa azione che avrebbe dovuto essere compiuta in adempimento dell’obbligo.

Negli altri casi, quando il provvedimento imponeva un fare fungibile (demolire l’immobile, pagare una

somma) più che di una esecuzione coattiva dello stesso obbligo, si tratta dell’adozione di un atto diverso

che garantisce per altra via lo stesso risultato finale: se il destinatario dell’ordine di demolizione non

ottempera, non vi è in senso stretto una “imposizione coattiva dell’adempimento”, ma vi è l’adozione di un

diverso provvedimento (l’ordine dato ad un ufficio dell’amministrazione che provveda direttamente a

demolire, o la determinazione di affidare ad una ditta il lavoro di demolizione) destinato a incidere sul bene

altrui per ottenere lo stesso risultato finale che si sarebbe dovuto ottenere con l’obbedienza all’ordine. A

voler essere precisi, non vi è quindi la diretta esecuzione coattiva del primo provvedimento, ma un nuovo e

diverso provvedimento con diverso destinatario. Cioè, una volta constatato che il provvedimento che

impone obblighi non ha ottenuto lo scopo per la mancata collaborazione dell’obbligato, si abbandona in

sostanza quella via (dell’imposizione di obblighi) e si segue una diversa via (il diretto intervento sul bene

con sua distruzione) che arriva allo stesso risultato, e poi si regolano le conseguenze economiche di questa

azione, mettendo la spesa relativa a carico di chi, con la mancata obbedienza, l’ha resa necessaria. In

sostanza in questi casi, constatato che il provvedimento creativo di obblighi per il destinatario non ha

consentito di raggiungere il risultato pratico voluto, si interviene con un provvedimento che richiede una

diretta esecuzione dell’amministrazione stessa, e che comporta la diretta disposizione del bene (da

demolire, nell’esempio).

Proprio questa considerazione dovrebbe dimostrare che l’esecutorietà è un potere distinto e diverso da

quello di ordinare e di creare obblighi, se il potere si definisce per l’effetto giuridico che produce, come

vuole il principio di tipicità, e non per il risultato pratico finale, quale che sia il mezzo per arrivarci.

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Rimangono quelli che Cerulli Irelli indica come provvedimenti ablatori reali (la requisizione ma anche –

dice Cerulli Irelli - espropriazione e occupazione d’urgenza), cioè quelli il cui contenuto dispositivo

“comporta la sua diretta ed immediata esecuzione, anche nell’ambito della sfera di soggetti terzi”, nei quali

“l’esecutorietà appare una caratteristica propria del provvedimento in quanto tale”.

La previsione che l’esecuzione coattiva richieda una specifica ulteriore previsione di legge è pregevole

dal punto di vista garantistico. Tuttavia la si potrebbe vedere come una espressione della tendenza a

concepire in termini astratti e formali il potere, allontanandosi via via dalla materialità del fatto fisico,

dell’uso concreto del potere come forza anche, e forse prima di tutto, materiale. Ad es. l’occupazione, da

quello che la parola ancora significa, la sottrazione del possesso, l’ingresso fisico nel fondo con mezzi e

materiali, diventa la nascita dell’obbligo di trasmettere il possesso; l’espulsione dello straniero diventa, dal

materiale accompagnamento forzoso al confine, l’ordine di andarsene. E al potere e al provvedimento che

fa nascere l’obbligo si sovrappone un distinto potere e provvedimento di esecuzione. Anche questo

peraltro preceduto da diffida, che vuol dire una reiterazione dell’invito ad eseguire, una ulteriore distanza

fra potere e concreta esecuzione.

Il 21 ter prevede che già nel provvedimento costitutivo di obblighi siano indicati termine e modalità

dell’esecuzione da parte dell’obbligato. E che si possa provvedere, nei casi di legge, alla esecuzione “previa

diffida”. La previsione del 21 ter dovrebbe superare la prassi, di cui si sono visti esempi in alcune

amministrazioni, a ritenere necessario, dopo il provvedimento creativo di obblighi, un ulteriore

provvedimento (nato come evoluzione provvedimentale della diffida ad adempiere) con il quale, constatato

l’inadempimento del primo ordine, si reitera l’ordine e se ne delibera l’esecuzione, e se ne precisano

termini e modalità, inadempiuti i quali segue la diffida vera e propria.

Fra le “modalità” che la legge può prevedere in tema di esecuzione coattiva, può esservi, a seconda del

tipo di obblighi nascenti dal provvedimento, anche la coazione fisica in personam (l’accompagnamento

dello straniero espulso, la somministrazione di trattamento sanitario obbligatorio).

4. - Efficacia ed esecutività nell’art. 21-quater

Il 21 quater si intitola a “efficacia ed esecutività” ma parla in realtà di esecuzione del provvedimento,

intendendosi per tale l’esecuzione da parte della stessa amministrazione: nel primo comma dice quando i

provvedimenti efficaci devono essere eseguiti (e ci dice che devono essere eseguiti immediatamente),

mentre sulla efficacia in senso proprio, o meglio sul momento in cui tale efficacia si produce, non aggiunge

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nulla a quello che dice l’art. 21 bis, che però si occupa solo dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica

dei privati.

L’art. 21 quater al primo comma, precisando che i provvedimenti efficaci sono eseguiti immediatamente,

salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento stesso, sembra consentire in via

generale alle amministrazioni di prevedere nei loro provvedimenti un momento per la loro esecuzione

diverso da quello della loro efficacia. Questa possibilità si riferisce testualmente solo all’esecuzione, mentre

nulla si dice circa la possibilità che i provvedimenti dispongano un termine iniziale della loro efficacia

diverso da quello della loro perfezione o dell’avverarsi di tutte le condizioni previste come elementi della

fase integrativa dell’efficacia. Anche su questo, sul potere cioè delle amministrazioni di disporre del

momento dell’inizio dell’efficacia dei loro atti, la legge costringe a rifarsi alle tradizionali soluzioni che sul

punto venivano fin qui seguite.

5. - Sospensione dell’efficacia e dell’esecuzione (art. 21-quater, comma 2)

L’efficacia e l’esecuzione del provvedimento possono essere sospese (art. 21 quater, comma 2). La

sospensione è stata vista da taluno come elemento di un generale potere cautelare spettante

all’amministrazione, e ricavabile dall’art. 7, 2 della l. 241. Sotto questo aspetto la norma del 21 quater

sarebbe solo ricognitiva di un principio generale già vigente (F. Saitta).

Talvolta si è considerata la sospensione un minus rispetto al generale potere di revoca, ma questa

prospettiva pare parziale e unilaterale. Non si può vedere la sospensione come implicita nel potere di

revoca: a tacer d’altro la revoca si può fare solo per atti a efficacia duratura e discrezionali, mentre la

sospensione può riguardare – a quanto sembra – l’esecuzione di atti istantanei e non discrezionali. Quindi si

direbbe che se un atto è revocabile, è verosimile che si possa, nella prospettiva di una sua eventuale

revoca, sospenderne intanto l’efficacia; ma i casi di sospensione di atti vanno oltre l’ambito degli atti

revocabili, e non si può quindi giustificare concettualmente il potere di sospensione con quello di revoca.

Si potrebbe anche vederlo connesso con il potere di annullamento d’ufficio, ma in questo caso si

dovrebbe dire che fra i presupposti della sospensione, sul quale motivare, ci deve essere il dubbio sulla

legittimità del provvedimento.

Il senso della norma sembra essere quello di restringere a casi limitati, con atto che esplicitamente

indichi il termine (per il tempo strettamente necessario) della sospensione e che motivi le ragioni (gravi)

che la giustificano, la possibilità per le amministrazioni di disporre degli effetti dei loro atti e delle attività di

esecuzione che questi comportano.

Mentre non pare dubbio che il provvedimento di sospensione abbia da essere motivato, rimane da

chiedersi se il potere di sospensione si eserciti d’ufficio o anche su ricorso o domanda dei privati.

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6. - L’invalidità dei provvedimenti: nullità e annullabilità

Veniamo adesso al tema della invalidità dei provvedimenti, ai quali sono dedicati i due articoli 21-septies

e 21-octies.

Il 21-septies è intitolato alla “nullità del provvedimento”. Il successivo alla “annullabilità”.

Si intende così che il legislatore vuole che “l’invalidità del provvedimento” (così nel titolo del Capo) si

articoli in due aspetti, uno più grave e uno meno.

Si è riaperta dopo le modifiche alla 241 la antica discussione sulla nullità dei provvedimenti

amministrativi. Per fare il punto della faccenda dobbiamo prenderla un po’ alla larga, se pur brevemente.

7. - L’invalidità degli atti nell’antica dottrina giuridica

Che l’atto contrario al diritto non possa, non debba, produrre effetti è una antica idea (viene dal diritto

romano e canonico). Anche se in diritto romano non c’era una elaborazione sistematica del concetto si

parlava in vari sensi di atti improduttivi di effetti giuridici (nullus, inutilis, effectum non habet, pro non facto,

non valet). Nel diritto canonico ci si rifà ad una decretale di S. Gregorio: “ea, quae contra leges fiunt, non

solum inutilia, sed etiam pro infectis habenda sunt”.

Quindi c’è da sempre l’idea che l’atto giuridico, cioè l’atto destinato a produrre modificazioni giuridiche,

e voluto per questo (il contratto, il testamento, la donazione, il matrimonio), se non rispetta la legge non

produce gli effetti, che l’ordinamento reagisce alle violazioni negando il suo sostegno, la sua difesa alle

posizioni o pretese che si basano sugli effetti dell’atto, e consentendo a chi riceve dall’atto conseguenze

negative di far accertare dal giudice che l’atto non è idoneo a produrre gli effetti. Sono i glossatori e in

particolare Bartolo che individuano un concetto intermedio fra atto nullo e atto valido, l’atto annullabile. E

distinguono a seconda dell’interesse che la norma violata intendeva proteggere: se si tratta dell’interesse

generale o pubblico, l’atto non può essere che nullo e privo di effetti ad initio, se si tratta dell’interesse di

una precisa parte, sarà questa a valutare se vuole servirsi di questo difetto per ottenere l’annullamento

dell’atto, il quale intanto produce i suoi effetti. Una diversa distinzione si basa invece sulla contrapposizione

fra substantia ed effectus: se sono violate delle regole che riguardano le condizioni di esistenza dell’atto, si

ha nullità, se sono violate regole sulle condizioni di efficacia, si ha annullabilità. Una ulteriore

prospettazione della dottrina medioevale distingue a seconda della apparenza: se un atto è evidentemente

difettoso, si può negare che produca qualunque effetto, se invece appare valido, bisogna ammettere che

produca effetti fintanto che la condizione viziata non sarà dichiarata.

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Daniele Corletto – Efficacia e invalidità dell’atto amministrativo

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8. - La nullità nella dottrina francese e tedesca dell’800

La discussione attorno al concetto di nullità riprende nel XIX secolo, nella dottrina che fa l’esegesi del

Code Napoléon, e delle sue previsioni sulla nullità dei negozi.

Il sistema francese contrappone “validité” a “nullité”, cioè chiama nullità genericamente ogni caso di

invalidità, ma di tale nullità non dà chiaramente il concetto.

Si creano nella giurisprudenza e in dottrina delle distinzioni, dei casi diversi di fattispecie nulla (nullità

assoluta, relativa, radicale o di pieno diritto o di ordine pubblico). Si propongono vari criteri: uno è quello

dell’apparenza (se il vizio è “estrinseco e apparente” si ha inefficacia radicale o nullità di pieno diritto,

altrimenti annullabilità); un altro si basa sugli elementi essenziali del negozio: se uno ne manca il negozio è

nullo, se invece uno degli elementi è viziato, sia ha annullabilità.

Principio fondamentale del sistema francese è la tassatività dei casi di nullità (pas de nullité sans texte):

l’idea è di tutelare e di riconoscere il più possibile la volontà dei privati espressa nei negozi, e di interferire il

meno possibile.

Si introduce, a fianco di quello di nullità, il concetto di inesistenza.

La dottrina tedesca (Zachariae, Handbuch des franzosischen Zivilrechts, 1808), studiando il diritto

francese nota che ogni atto giuridico deve la sua esistenza al verificarsi di certi “fatti generatori”. Se questi

mancano, semplicemente non vi è atto giuridico: la nullità è altra cosa perché presuppone l’esistenza

dell’atto. Si riprende la teoria medioevale della “substantia” e dell’ “effectus”. Poi si estende questo

concetto di inesistenza dalla mancanza materiale, in fatto, di un elemento essenziale, alla mancanza

“giuridica” di esso. Quindi il concetto di inesistenza assorbe quello di nullità, e si affianca alla annullabilità. Il

concetto di inesistenza serve anche a superare la difficoltà in cui ci si trova in presenza di difetti del negozio

non riportabili a nessuna delle tassative categorie di nullità previste dal Code, negando che addirittura

esista un negozio di cui parlare (come ad es. per il matrimonio fra persone dello stesso sesso, che il Code

non prevedeva come causa di nullità). Allo stesso risultato si arriva anche ammettendo, accanto alle nullità

testuali, delle nullità virtuali, ricavate dal sistema, implicite.

Questo è all’incirca il quadro delle dottrine ottocentesche. Si conosce la nullità come concetto generico,

si predica l’inesistenza per mancanza di elementi essenziali, che fa dire che l’atto non c’è, o è nato morto. Si

nota che nullità e inesistenza si possono rilevare senza termine, con legittimazione ampia, e fanno sì che

l’atto non possa produrre nessun effetto. Si conosce l’annullabilità, che si chiama talvolta nullità relativa, e

si ritiene che l’azione per farla valere sia soggetta a termine, con legittimazione ristretta (relativizzata), e

che l’atto abbia possibilità di produrre effetti temporanei, o anche definitivi se entro il termine non viene

attaccato.

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Daniele Corletto – Efficacia e invalidità dell’atto amministrativo

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9. - Il trasferimento dei concetti civilistici al diritto amministrativo

Quando nasce il diritto amministrativo, viene spontaneo applicare al problema della “patologia” degli

atti amministrativi le categorie già elaborate per la patologia del negozio giuridico. La teoria negoziale

dell’atto amministrativo parte dall’idea che questo è una manifestazione di volontà, come se ne conoscono

nel diritto civile, e applica i ragionamenti già elaborati in sede civilistica.

Tutti i ragionamenti, le contraddizioni e le scappatoie che la dottrina civilistica aveva trovato vengono

ripercorsi dalla scienza del diritto amministrativo.

Però vi è una diversa base delle nullità civilistiche e pubblicistiche: rispetto della libertà e volontà delle

persone, garanzia della autonomia privata e della libera determinazione, nei limiti della legge, cioè salvo il

proibito, per i negozi privati; principio di legalità e quindi necessità di rispettare ogni previsione sui

contenuti e sui limiti del potere, per gli atti amministrativi.

Comunque, per gli stati patologici degli atti amministrativi, che è necessario riconoscere per via del

principio di legalità, ci si ispira da noi (siamo negli ultimi anni dell’800) al sistema del codice civile del 1865

(il quale non conosceva una categoria di atto annullabile contrapposto a quello nullo: parlava

genericamente di nullità, distinguendo poi casi in cui la domanda era prescrittibile, era riservata ad un

legittimato specifico: si costruiscono quindi nullità e annullabilità in modo confuso, dal punto di vista

terminologico. E si riportano all’atto dell’amministrazione i ragionamenti della teoria del negozio: elementi

essenziali, norme imperative, volontà. Che però devono convivere con l’impostazione “autoritaria” del

potere pubblico come potere originario ed effettivo, che direttamente e immediatamente realizza i suoi

scopi attuando le sue volontà unilaterali.

Da un lato dunque una nozione rigorosa del principio di legalità vorrebbe che non si riconoscesse effetto

alla pretesa di esercizio del potere non sorretta dal puntuale rispetto delle norme che lo conferiscono e lo

definiscono; dall’altro le esigenze del governo e la fattuale disponibilità, da parte dell’amministrazione,

della forza e dei mezzi materiali per eseguire la propria volontà, portano a vedere l’atto di volontà

dell’amministrazione come immediatamente produttivo dei suoi effetti, nonostante le sue eventuali

difformità dal paradigma normativo.

La legge abolitrice del contenzioso amministrativo del 1865 era ispirata al modello Inglese: in Inghilterra

c’era (c’è in parte ancora) l’idea dell’ “ultra vires”, cioè l’idea che l’amministrazione deve rispettare

esattamente nella sua azione i limiti e le indicazioni della legge; se non lo fa va fuori dal “mandato” che ha

ricevuto e quello che fa è fatto oltre le sue possibilità e quindi “void”, cioè nullo, e privo di effetti giuridici.

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Ogni illegittimità comporta la nullità, e il diritto che l’amministrazione ha cercato di sacrificare eccedendo i

suoi poteri (e quindi senza potere) si difende dinanzi al giudice ordinario.

La legge del 1889 dà al giudice amministrativo il potere di annullamento di atti viziati da incompetenza,

eccesso di potere e violazione di legge. E non parla né di nullità, né di annullabilità, ma si limita a conferire

al giudice il potere di “annullare”.

Sul piano dei concetti (chiedendosi come definire l’atto viziato) c’è una soggezione alla tradizione

civilistica: si parla all’inizio di “nullità relativa”, poi si impone il concetto di annullabilità, come unica

conseguenza dei difetti dell’atto.

Nasce qui la questione di come si debbano qualificare i provvedimenti che violano la legge, se nulli o

annullabili, e in particolare se si possa applicare agli atti amministrativi la nullità in senso civilistico, o se la

violazione della legge da parte degli atti amministrativi dia luogo ad una condizione di annullabilità,

compatibile con l’efficacia.

La questione è in realtà risolta dalla legge del 1889, che dà al Consiglio di Stato il potere di annullare (e

non di dichiarare la nullità), su ricorso proponibile, entro brevi termini di decadenza, da soggetti dotati di

una precisa legittimazione (e non da chiunque vi abbia interesse), e che dice che (art. 39) “i ricorsi in via

contenziosa non hanno effetto sospensivo”, il che significa inequivocabilmente che il provvedimento è

efficace fino a che non sia annullato, salvo che la sua esecuzione non sia sospesa dallo stesso giudice.

10. - Il rifiuto della nullità nella giurisprudenza del Consiglio di Stato

Ci si chiedeva se accanto a questo regime di annullabilità, compatibile, fino all’annullamento, con la

produzione di effetti e con l’esecuzione del provvedimento, vi fosse anche spazio per dei casi di vera e

propria nullità (con inefficacia radicale fin dall’inizio, rilevabilità da parte di qualunque interessato o anche

d’ufficio e senza termine).

La giurisprudenza del Consiglio di Stato dopo qualche esitazione soprattutto terminologica, parlandosi

spesso all’inizio di nullità in termini poco precisi, con la sentenza 3 ottobre 1911 (in Giur. It. 1912, III, 162)

ha preso una posizione poi mantenuta saldissimamente per più di ottant’anni, dicendo che non c’è spazio

per la nullità in senso civilistico, e che l’invalidità dei provvedimenti amministrativi ha la sua causa

unicamente nella illegittimità, nella forma di uno dei tre vizi dell’art. 26, e ha come unica conseguenza, o

modo di manifestarsi, la annullabilità.

La IV Sezione nel 1911 diceva infatti: “il sistema amministrativo non ammette la nullità d’ordine pubblico

denunziabile in qualunque stato e grado della causa e rilevabile dallo stesso giudice di propria autorità”,

perché “le leggi di giustizia amministrativa esigono che il ricorso sia prodotto entro un dato termine e che

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nel ricorso si specifichino i motivi di gravame” e perchè altrimenti si giungerebbe alla “conseguenza

esorbitante che la massima parte delle violazioni di norme amministrative, dettate appunto nel pubblico

interesse, sarebbero in qualunque tempo denunziabili, mettendo così quasi nel nulla l’efficacia dei termini

stabiliti per ricorrere”.

La giurisprudenza si radica su questa impostazione e di lì non si muove fino quasi ai giorni nostri.

11. - La discussione dottrinale sui concetti

Quanto ai concetti, mentre nella prassi illegittimità, invalidità e annullabilità sono concetti usati

indifferentemente, nasce nella dottrina una discussione decennale su come definire e inquadrare la

situazione dell’atto illegittimo, e in particolare sul possibile utilizzo della nozione di nullità, o di quella di

inesistenza.

All’inizio si ragiona sulla carenza di elementi costitutivi della fattispecie, per dire che ne discende

l’inesistenza o la nullità (relativa, come annullabilità): ad es. S. Romano dice che sono inesistenti gli atti

adottati in caso di usurpazione del potere o di vis absoluta, negli altri casi vi è nullità. Nulli sono quindi gli

atti viziati di eccesso di potere (nel senso “antico” del termine) o incompetenza. Ma con Ranelletti si

afferma che la mancanza di un elemento essenziale causa la nullità, mentre il vizio dell’elemento causa

l’annullabilità. E’ nullo quindi l’atto emanato da persona estranea alla amministrazione o da funzionario la

cui nomina sia nulla; è nullo l’atto compiuto in stato di incapacità naturale (pazzia, delirio, suggestione

ipnotica, ubriachezza completa…). E’ nullo l’atto viziato di incompetenza “grave”, quando “il funzionario

compie un atto del tutto estraneo alla competenza dell’amministrazione alla quale appartiene”. Falsità,

illiceità, difetto della causa, mancato rispetto della forma scritta ad substantiam, contenuto impossibile o

indeterminato, determinano nullità.

La teoria negoziale del provvedimento viene poi messa in discussione: si nota che negozio privato e

provvedimento appartengono a due mondi diversi (autonomia privata – discrezionalità), e non è

ammissibile usare le logiche del negozio per il provvedimento.

Intanto la giurisprudenza continuava a guardarsi bene dall’utilizzare il concetto di nullità, rimanendo

rigorosamente ancorata all’annullabilità come regime unico del provvedimento viziato.

E anzi si fa notare, anche in dottrina, che il regime della annullabilità (come normale condizione degli atti

amministrativi invalidi, rimanendo la nullità eccezionale, se non del tutto esclusa secondo la vecchia

impostazione del Consiglio di Stato) è una conseguenza, anzi un risvolto, della esecutività degli atti, della

loro capacità di produrre immediatamente e irresistibilmente i loro effetti, indipendentemente dalla loro

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legittimità, almeno fino a che non intervenga l’annullamento (e salvi poi gli effetti retroattivi

dell’annullamento).

Ma si potrebbe osservare (con B.G. Mattarella, Il provvedimento, in Trattato di diritto amministrativo, a

cura di S. Cassese, Parte generale, Milano 2003, 1005) che “l’efficacia del provvedimento invalido dipende

dal regime dell’annullabilità”: cioè è il regime della patologia del provvedimento, risolta nella annullabilità,

che comporta la conseguenza che il provvedimento, finché non annullato, produce effetti.

Naturalmente si potrebbe obbiettare che viene prima l’esigenza di effettività, e che la scelta del

meccanismo della annullabilità non è che la conseguenza di quella necessità.

C’è sotto un dato culturale: il disfavore, e anzi la ripugnanza per l’idea della inefficacia direttamente e

automaticamente connessa con la nullità, e la conseguente possibilità di disobbedienza, di resistenza, di

non esecuzione. Cioè il principio del disordine, la spirale del caos e della perdita di autorità e di effettività

del sistema amministrativo.

Per questo la giurisprudenza si era assestata sulla conclusione che tutto si riporta all’annullabilità,

compresi quei pochi casi nei quali il legislatore parlava espressamente di “nullità”, svalutando quindi

addirittura il dato normativo.

Del resto il giudice è titolare di poteri di annullamento, e ritiene di poter pronunciare appunto solo

sentenze costitutive, e di non avere il potere di dare sentenze dichiarative. Quindi c’è una difficoltà

insuperabile di fronte alla nullità che secondo le categorie civilistiche, va appunto solo riconosciuta e

dichiarata.

12. - La carenza di potere come criterio di riparto delle giurisdizioni

La giurisprudenza della Corte di Cassazione introduce poi, dal 1949, la nozione di carenza di potere (SU

n. 1657 del 1949), essenzialmente per affermare la giurisdizione del giudice civile anche in presenza di un

atto amministrativo.

Sul piano del riparto delle giurisdizioni si ricordi infatti che la teoria della “degradazione” dei diritti ad

opera dell’atto amministrativo anche illegittimo, purché efficace, tagliava fuori del tutto il giudice ordinario

dalla possibilità di conoscere di atti amministrativi. Il potere in astratto riconosciutogli di disapplicare gli atti

illegittimi non aveva in concreto alcuna occasione di esercitarsi, perché tutte le volte che vi era un atto

amministrativo, questo, anche se illegittimo, “degradava” o “affievoliva” il diritto ad interesse legittimo, e

con ciò escludeva la giurisdizione ordinaria.

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Questo ragionamento era in una autorevole dottrina (Sandulli) riferito al potere, piuttosto che all’atto.

In sostanza si osservava che là dove c’è (dove viene esercitato) il potere dell’amministrazione, non c’è,

come situazione contrapposta, il diritto (che si attenua nella sua consistenza, si affievolisce) ma solo

l’interesse legittimo, e che il diritto c’è solo se non vi è il potere. Su questa base la Cassazione nella

sentenza del 1949 disse che se l’amministrazione pretende di esercitare un potere che non le è stato

conferito dalla legge, se cioè agisce “in carenza di potere”, l’effetto di degradazione del diritto non si

produce, e il diritto rimane diritto. Quindi, trovandosi in presenza in questi casi di un diritto (violato) e non

di un interesse legittimo, vi è la giurisdizione del giudice ordinario e non quella del giudice amministrativo.

Si prese a dire allora che l’atto adottato in carenza di potere – cioè in assenza di una previsione di legge

che conferisca quel potere all’amministrazione, cioè pretendendo di usare un potere che in realtà non c’è,

un potere inesistente – è a sua volta un atto inesistente, nel senso che non esiste come atto

amministrativo, non è riconoscibile come atto amministrativo, e non può produrre l’effetto di

“degradazione” dei diritti.

Più avanti si allargò il campo della carenza di potere, riconoscendo accanto a casi nei quali manca

proprio l’attribuzione del potere da parte della legge (carenza in astratto), casi nei quali la legge dà, in

astratto, il potere, ma subordina il suo esercizio a presupposti precisi, in assenza dei quali il potere, pur in

astratto esistente, non può essere esercitato, è come se non ci fosse. Ad es. l’atto di espropriazione in

assenza della dichiarazione di pubblica utilità, o con una dichiarazione di p.u. scaduta.

Un filone di giurisprudenza apparso alla fine degli anni 80 utilizzò poi il concetto di carenza di potere in

concreto per i casi nei quali il potere, pur attribuito dalla legge all’amministrazione, si trovava di fronte dei

diritti inviolabili, “indegradabili”, direttamente tutelati dalla Costituzione. Ad es. si disse (Cass SU 20

febbraio 1992, n. 2092) che “l’attività della p.a. che, realizzando un impianto di depurazione in prossimità di

un’abitazione, venga ad incidere sul diritto individuale alla salute, è attività materiale senza potere”.

In effetti qui (come è stato notato: Tomei citato da A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel

rapporto amministrativo, Torino 2002, 236) si passa dalla concezione “c’è diritto soggettivo perché non c’è

potere” a quella opposta per cui “non c’è potere perché c’è diritto soggettivo”.

Ma questo filone sembra tramontato.

Chiedendosi poi come si dovesse qualificare l’atto (o l’apparente atto) con il quale l’amministrazione

aveva preteso di esercitare un potere che non aveva, prevalentemente si diceva che l’atto era inesistente,

ma talvolta si parlava anche di atto nullo.

In effetti spesso sia dalla giurisprudenza sia in dottrina i due termini, di nullità e di inesistenza, venivano

utilizzati in maniera indifferenziata.

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Il quadro dunque era questo, che o il provvedimento si riteneva non esistente, perché adottato in

assenza del potere relativo, oppure, se si diceva che un provvedimento c’era, il suo regime, in caso di

difetti, non poteva essere che quello della annullabilità, che restava quindi l’unica forma di invalidità

ammessa per gli atti amministrativo.

Sotto il regime della annullabilità si riportavano anche, come detto, quei casi nei quali pure la legge

espressamente parlava di nullità, considerando che il legislatore si era espresso male o non sapeva quello

che diceva: ad es. l’art. 288 del TU comunale e provinciale del 1934 che dice che “sono nulle le deliberazioni

prese in adunanze illegali o adottate sopra oggetti estranei alle attribuzione degli organi deliberanti o che

contengono violazioni di legge”.

A un certo punto però, dopo che già si parlava di inesistenza (o anche, confusamente, di nullità) per

affermare la giurisdizione del giudice ordinario, la giurisprudenza amministrativa cominciò a prendere sul

serio le disposizioni normative che parlano di “nullità”, e a introdurre a sua volta casi ulteriori di nullità.

13. - La giurisprudenza sulla nullità per elusione del giudicato

Nel 1984 (con la decisione n. 6 dell’AP) il Consiglio di Stato ha qualificato come nulli gli atti adottati in

violazione o in elusione del giudicato. Nel giudizio di ottemperanza, previsto per il caso che

l’Amministrazione non abbia ottemperato al giudicato, si è riconosciuto ad un certo punto che il giudice

può intervenire non solo nel caso di inerzia o di dichiarazione della p.a. di non voler adempiere, (Cons. St.,

sez. VI, n. 469 del 1991) cioè di fronte all’inottemperanza totale, ma anche nel caso di inottemperanza

parziale o erronea del giudicato, e di fronte alla elusione del giudicato, cioè quando la p.a. adotti un

provvedimento che formalmente dichiari di essere adempimento degli obblighi derivanti dal giudicato, ma

in realtà li tradisca o li aggiri, o sia un finto adempimento come, ad esempio, nel caso di adozione di meri

atti istruttori, preparatori od endoprocedimentali (cfr. Cons., St., sez. IV, decisioni n. 1225 del 1992 e n. 416

del 1990).

La sentenza n. 6 del 1984 dell’AP ha detto dunque che gli atti emanati dall’amministrazione, dopo un

annullamento giurisdizionale, sono soggetti all’ordinario regime di impugnazione quando si discostino dai

criteri indicati nella sentenza, perché in questo caso vi è un normale vizio di legittimità. Altra è la situazione

“quando dal giudicato derivi non già un semplice vincolo all’attività discrezionale, ma un obbligo talmente

puntuale da non lasciare spazio alcuno all’esercizio di poteri dell’amministrazione. In questi casi….

l’ottemperanza al giudicato si concreta nell’adozione di un atto il cui contenuto è integralmente desumibile

dalla sentenza, onde deve ritenersi che l’Amministrazione sia carente del potere di provvedere diversamente

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e che eventuali atti difformi dal giudicato possano essere dichiarati nulli, indipendentemente da una

impugnazione nel termine di decadenza”.

Da lì in poi la giurisprudenza prevalente ha, quindi, qualificato come nulli, in quanto emanati in carenza

di potere - con la conseguente sindacabilità da parte del giudice dell’ottemperanza senza la necessità di una

specifica impugnazione da parte del cittadino - gli atti elusivi (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 1001 del 1991; Cons.

St., sez. VI, n. 250 del 1995; Cons. St., sez. V, n. 238 del 1992; C.G.A., n. 369 del 1996); ma tale qualificazione

(nullità) ha adottato anche per gli atti violativi del giudicato nei casi in cui da esso discendano obblighi tanto

puntuali da non lasciare alcuno spazio alla discrezionalità (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 304 del 1992; Cons. St.,

Ad. Plen., n. 5 del 1991).

14. - Le nullità testuali prese sul serio: le AP del 1992

Poi si è ammesso, a partire dall’AP n. 1 e 2 del 1992, che si dovessero qualificare davvero come “nulle”

nel senso civilistico, e quindi prive di effetti e rilevabili d’ufficio, le assunzioni avvenute senza concorso

(previsto dall'art. 3, sesto comma, TU imp. civ. St. del 1957, che così dispone: “Salve le eccezioni previste

dal presente decreto, l'assunzione agli impieghi senza il concorso prescritto per le singole carriere è nulla di

diritto e non produce alcun effetto a carico dell'Amministrazione”) e tutte le nullità disposte da analoghe

norme in materia di impiego (assunzioni temporanee o conferme in servizio: legge n. 3 del 1979 art. 5,

comma 18 e varie finanziarie degli anni 80, che disponevano blocchi delle assunzioni).

Qui il ragionamento è questo: il regime della annullabilità e il normale giudizio di legittimità

(annullamento possibile solo sulla base di un ricorso proposto da un interessato in termini brevi, e per i

motivi in quello contenuti) non può funzionare in questi casi, perché mancano i soggetti interessati alla

rimozione dell’atto. I beneficiari dei provvedimenti invalidi ovviamente non hanno interesse, i terzi non

hanno una diretta lesione che li legittimi, un Pubblico ministero non è previsto; neppure si può aspettarsi

che sia l’amministrazione ad annullare d’ufficio l’atto, perché i funzionari o dirigenti che hanno adottato

questi atti temono l’azione di responsabilità amministrativa o contabile. E quindi atti certamente nocivi per

il pubblico interesse, per l’imparzialità dell’amministrazione, per la spesa pubblica, potrebbero rimanere

efficaci per sempre, se si fidasse solo sul meccanismo della annullabilità. Quindi, disse il Consiglio di Stato, si

deve ritenere che il legislatore abbia voluto, qualificando come “nulli” questi atti, rendere il vizio rilevabile

da chiunque, e quindi anche d’ufficio (per non accogliere pretese presentate al giudice sulla base di

rapporti nati da atti nulli), imprescrittibile e insanabile. Cioè che abbia voluto creare una vera nullità, in

senso civilistico.

Ecco qui il testo di quella pronuncia: “La nullità e l'illegittimità del provvedimento amministrativo

rappresentano il risultato di tecniche normative fondate su piani di interessi differenti ed ispirate a logiche

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diverse; e ciò in quanto l'illegittimità è la qualificazione tradizionale del provvedimento non conforme a

legge, idoneo a ledere anche interessi particolari; al contrario, la nullità in senso tecnico, intesa come

“illegittimità forte”, risponde alla esigenza di tutela della legalità, con spostamento della garanzia del polo

privatistico a quello pubblicistico, nei casi in cui il provvedimento non conforme a legge favorisce il singolo,

attribuendogli utilità che non gli spettano e lede, con effetti continuativi, principalmente interessi pubblici,

con la conseguenza che, stante tale situazione, la qualificazione di illegittimità, sia per la presumibile

mancanza di soggetti legittimati alla impugnazione sia per l'improbabile esercizio da parte

dell'amministrazione dei poteri di autotutela, non sarebbe idonea alla tutela della legalità” (Cons. Stato,

A.P. 29 febbraio 1992, n. 2, in Foro amm. 1992, 319).

15. Il regime della nullità, prima della legge n. 15 del 2005

Dunque la situazione al momento dell’entrata in vigore dei nuovi articoli della legge 241 è questa: vi è,

in giurisprudenza e in dottrina, una certa confusione sulle nozioni di nullità e di inesistenza, che vengono

spesso usate indifferentemente. La nullità si collega a condizioni, ispirate alle teorie delle nullità negoziali,

quali la mancanza di elementi essenziali (e si parafrasa la disposizione dell’art. 1418 e 1325 del Codice civile

dicendo che tali elementi essenziali sono il soggetto, l’oggetto, la forma, la causa); si nega invece di solito

che possa essere causa di nullità “la violazione di norme imperative” (art. 1418 CC) dato che per

l’amministrazione tutte le norme di legge sono imperative, in assenza di una autonomia privata e di poteri

di disposizione.

Si aggiunge poi come causa di nullità l’incompetenza assoluta (o mancanza di attribuzione, a cui si

assimila talvolta la incompetenza territoriale) e la carenza di potere in astratto, cioè l’assenza nella legge di

una previsione attributiva del potere che si è preteso di esercitare.

Quanto ai casi di nullità testuale, si ammette, dopo che per decenni si era sempre riportato ogni caso di

nullità testuale al regime della annullabilità, che si tratti di vera nullità, e ciò soprattutto in tema di

assunzioni senza concorso nel pubblico impiego.

Si riportano poi a situazioni di nullità i provvedimenti adottati dalle amministrazioni in elusione del

giudicato, e cioè ignorando o aggirando volutamente le prescrizioni di una sentenza, e ciò il giudice fa allo

scopo di poter ignorare, nella sede del giudizio di ottemperanza, l’atto elusivo, per non obbligare il cittadino

a “inseguire” con successive impugnazioni gli atti che l’amministrazione adotta eludendo il suo obbligo di

rispettare una sentenza.

Quanto al regime della nullità, cioè alle conseguenze sostanziali e processuali di essa, si afferma che la

nullità comporta la assoluta inefficacia del provvedimento, il quale quindi non può produrre alcun effetto. A

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Daniele Corletto – Efficacia e invalidità dell’atto amministrativo

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meno che la legge non preveda che l’atto, pur qualificato nullo, non produca qualche limitato effetto, come

ad es. il diritto dell’impiegato assunto senza concorso di avere il pagamento delle prestazioni comunque

effettuate. La giurisprudenza più attenta osserva però che questi limitati effetti non sono prodotti dall’atto,

ma sono ricollegati dalla legge al fatto dell’avvenuta prestazione di servizio per l’amministrazione.

Quanto all’applicabilità alla nullità dei provvedimenti degli art. 1421 e seguenti del Codice civile, che

danno legittimazione a far valere la nullità a chiunque vi abbia interesse e la rendono rilevabile anche

d’ufficio, e che dispongono la imprescrittibilità dell’azione di nullità e la inammissibilità della convalida del

contratto nullo, la sensazione è che la giurisprudenza interpreti in termini piuttosto restrittivi l’interesse

che legittima a far valere la nullità, che tenda a non fare eccezioni alla regola che i provvedimenti si

impugnano in termini di decadenza, e a intendere la rilevabilità d’ufficio della nullità come riferita solo al

caso in cui si tratti di rigettare una domanda basata su un presupposto nullo (tipo la richiesta di

riconoscimento del diritto all’assunzione a tempo indeterminato di persone assunte a tempo determinato

con atto nullo perché senza concorso) e mai per dare a chi agisce più di quello che ha chiesto.

In complesso l’esame della giurisprudenza mostra la tendenza ad interpretare la nullità in termini più

restrittivi possibile, e ciò non solo per la considerazione che la forma “normale”, quella “di base”

dell’invalidità dei provvedimenti sia l’annullabilità, e per la connessa forma mentis del giudice

amministrativo, per la sua abitudine a risolvere il difetto degli atti nella loro annullabilità, ma anche per il

timore che il riconoscimento di un caso di nullità comporti la ammissione di non avere giurisdizione. Ciò per

influenza dell’utilizzo che si è fatto, da parte della Cassazione, del concetto di carenza o inesistenza del

potere e di conseguente inesistenza dell’atto come fondamento della giurisdizione del giudice civile.

Ma di nullità si parla poco volentieri nella giurisdizione amministrativa anche perché si pensa che

manchi al giudice amministrativo lo strumento processuale per dichiararla, la pronuncia di accertamento,

ritenuta incompatibile con l’attribuzione del potere di “annullare” gli atti con sentenze essenzialmente

costitutive: un petitum di accertamento della nullità sarebbe quindi incompatibile con i poteri tipici del

giudice amministrativo.

Vi è poi naturalmente l’antico ragionamento che aveva indotto il Consiglio di Stato a risolvere la nullità

in annullabilità, che il riconoscimento di un vizio rilevabile senza termine e da qualunque interessato,

vanificando i termini per ricorrere, sarebbe contrario alla fondamentale esigenza di certezza e di stabilità

delle azioni della pubblica amministrazione.

Si riscontra così ad esempio la tendenza a ridurre a illegittimità i casi di incompetenza anche in astratto

definibile come assoluta (in pratica non si vedono se non casi di annullamento per incompetenza, e mai

dichiarazioni di nullità per incompetenza assoluta, la quale resta così un vizio puramente virtuale. Ad es.

Cons. St., IV, 28 febbraio 1992, n. 210: tranne che la legge disponga altrimenti, “l’incompetenza

dell’autorità che ha emanato l’atto si risolve in vizio di legittimità dell’atto e non già in nullità assoluta per

carenza di potere”.

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Daniele Corletto – Efficacia e invalidità dell’atto amministrativo

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Anche i provvedimenti adottati sulla base di decreti legge non convertiti o di leggi dichiarate

incostituzionali si ritengono (dal Consiglio di Stato) annullabili e non nulli, come invece parte della dottrina

sostiene che siano, se è vero che in questi casi viene meno con effetto retroattivo la norma attributiva del

potere, e quindi si è di fronte ad una carenza di potere.

Invece, almeno in linea teorica, si ammette un caso di nullità dei provvedimenti amministrativi quando

la norma di legge o di regolamento su cui il provvedimento si fonda sia da disapplicare per contrarietà al

diritto europeo. Attenzione: non quando il provvedimento sia direttamente contrario a norme europee, ma

quando ad essere contraria a quelle norme sia la norma interna attributiva del potere esercitato,

disapplicata la quale il provvedimento rimane privo di “titolo” normativo ed è nullo. Ad es. Cons. St., IV, 21

febbraio 2005, n 579: “la violazione di una disposizione comunitaria implica un vizio di illegittimità-

annullabilità dell’atto amministrativo interno con essa contrastante, mentre la diversa forma patologica

della nullità (o della inesistenza) risulta configurabile nella sola ipotesi in cui il provvedimento nazionale sia

stato adottato sulla base di una norma interna (attributiva di potere) incompatibile (e, quindi,

disapplicabile) con il diritto comunitario”. Ma anche qui la cosa è abbastanza discussa, e comunque

l’affermazione è fatta solo in via teorica, per poi concludere che nel caso concreto la nullità non si verifica.

Un ulteriore inghippo teorico che intralcia la giurisprudenza, e che assomiglia a un sofisma, è poi questo:

se si ritiene che un atto sia nullo, e che quindi non abbia prodotto alcun effetto, il giudice deve dichiarare

l’inammissibilità del ricorso perché l’interesse del ricorrente non ha potuto essere leso da un atto privo di

effetti. E in realtà si sono viste pronunce di questo tipo, nelle quali il giudizio si chiude con una pronuncia di

rito, perché si deve dire che addirittura manca l’atto, manca l’oggetto su cui il giudice può pronunciare (atto

inesistente), o che comunque manca la lesione e quindi l’interesse, dato che l’atto (nullo o inesistente) non

è in grado di produrre effetti. In questi casi si è talvolta poi cercato di dare una utilità sostanziale alle

pronunce di inammissibilità, che, in quanto pronunce non di merito, non sarebbero idonee a formare

giudicato. Ad es. il Cons. St., V, 12 marzo 1988, n. 151 e Cons. St.,VI, 19 gennaio 1995, n. 40 hanno ritenuto

che anche la sentenza in rito, che dichiara l’inammissibilità, può avere un contenuto di accertamento e

quindi passare in giudicato, ed essere così titolo per chiedere l’ottemperanza nel caso in cui

l’amministrazione pretenda comunque di dare esecuzione all’atto che, sia pure solo incidentalmente e solo

ai fini di una pronuncia processuale, è stato dichiarato nullo.

Ma su alcuni risvolti processuali della questione della nullità tornerò fra breve.

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16. - L’art. 21-septies

Dunque all’incirca questo è il quadro, sul quale arriva l’art. 21-septies, che ci dice che “è nullo il

provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di

attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi

espressamente previsti dalla legge”.

Si direbbe che i casi di nullità enunciati dall’art. 21-septies siano di natura diversa: la mancanza di

elementi essenziali rinvierebbe infatti piuttosto ad una condizione di inesistenza, mentre le nullità per

violazione del giudicato e quelle testuali sembrerebbero casi di nullità-sanzione o di “nullità di ordine

pubblico”. Potremmo così distinguere casi in cui il provvedimento è considerato nullo perché non è

strutturalmente in grado di produrre alcun effetto, e casi nei quali il legislatore non vuole che il

provvedimento (che pur avrebbe possibilità e “intenzione” di farlo) produca effetti (si pensi ad es. al caso

dei provvedimenti adottati dall’organo dopo la scadenza del termine di prorogatio).

Pur sottolineandosi che per la prima volta si codifica in termini generali la nullità degli atti

amministrativi, la prima sensazione, condivisa anche dalla giurisprudenza, è che la nuova norma non

aggiunga nulla a quanto già si diceva sul tema. E anzi lasci aperti una quantità di punti problematici.

Dispiace rischiare di fare la parte degli esterofili ad ogni costo, ma non si può fare a meno di riferirsi, per

sottolineare che cosa ci si sarebbe aspettati di trovare nelle nuove previsioni normative in tema di nullità, e

che invece non c’è, all’esempio delle leggi tedesche sul punto. Queste contengono previsioni sulla nullità

complete in ogni aspetto: si disciplinano con precisione (al § 44 della legge sul procedimento

amministrativo – VwVfG) i casi nei quali un provvedimento è nullo; precisano il regime dell’atto nullo,

dicendo espressamente che esso è inefficace: “Ein nichtiger Verwaltungsakt ist unwirksam”. Si dice poi chi e

come può rilevare la nullità, prevedendo che l’autorità amministrativa possa dichiarare la nullità, d’ufficio

(“Die Behörde kann die Nichtigkeit jederzeit von Amts wegen feststellen”), o su domanda di chi vi ha un

legittimo interesse, in ogni tempo. Si completa poi il quadro con la previsione (al § 43 della legge sul

processo amministrativo, la VwGO) dello specifico rimedio processuale, affidato al giudice amministrativo,

al quale con l’azione di accertamento (Feststellungsklage) si può appunto chiedere “l’accertamento

dell’esistenza o della non esistenza di un rapporto giuridico, o della nullità di un atto amministrativo,

qualora l’attore abbia un giustificato interesse ad un sollecito accertamento”. Mi si dica pure che sono

germanofilo, ma mi pare che questo fosse il modello che si doveva seguire.

Invece nel nostro art. 21-septies c’è una disciplina parziale e carente della nullità, che richiede di essere

integrata con incerti elementi dottrinari o giurisprudenziali. Ci si limita infatti a prevedere i casi di nullità,

ma nulla si dice sul regime sostanziale, né sul regime processuale di questa nullità.

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17. - Gli elementi essenziali del provvedimento

L’individuazione stessa dei casi di nullità è fatta con riferimento ad un concetto, quello di elementi

essenziali del provvedimento, che la legge non si cura di spiegare e che quindi dobbiamo andare a cercare

nelle non sempre concordi prospettazioni della dottrina e della giurisprudenza.

Quali sono gli elementi essenziali di un provvedimento? Fino a che punto è lecito rifarsi alle norme

civilistiche sui “requisiti” del contratto, e che adattamenti si devono fare? La causa lo è? E cosa si deve

intendere per “causa” di un atto, lo scopo, la funzione che la legge gli assegna? E la mancanza della causa,

ossia della causa che l’atto avrebbe dovuto avere per legge, della causa assegnatagli dalla legge, rivelando

che l’atto è stato adottato per uno scopo diverso da quello voluto dalla legge, non è semplicemente il caso

paradigmatico dello sviamento di potere? E la mancanza dell’oggetto va intesa come inesistenza materiale

del bene o della persona cui l’atto si riferisce (ma allora non si tratta di un vizio di eccesso di potere

derivante dalla erronea rappresentazione della realtà)? O si deve intendere mancanza di un “legittimo”,

“valido” oggetto (ma allora non ci si trova in un caso di violazione di legge, come nella nomina del dirigente

privo del titolo di studio)? E la incerta identificabilità dell’oggetto equivale a mancanza di esso?

18. - Il difetto assoluto di attribuzione

E ancora, quanto alla individuazione dei casi di nullità, il 21 septies parla di “difetto assoluto di

attribuzione”. La formula è ambigua. Sembra che risulti dalla fusione di due tradizionali concetti, quello di

difetto di attribuzione, e quello di incompetenza assoluta: ne è venuto fuori il “difetto assoluto” di

attribuzione. Però qualcuno ha già osservato che le parole del legislatore vanno prese sul serio e che se si

parla di “difetto assoluto” dell’attribuzione, bisogna intendere che voglia riferirsi ad una “assoluta”

mancanza nell’ordinamento dell’attribuzione che si è preteso di esercitare. Quindi se l’attribuzione vi sia

nell’ordinamento, pur spettando ad ente o amministrazione del tutto diversi, non vi sarebbe difetto

“assoluto”, ma solo relativo. Ne deriverebbe che quella che chiamiamo “incompetenza assoluta” e che

tradizionalmente è ritenuta una dei casi sicuri di nullità, non lo sarebbe più, dovendosi qualificare come un

difetto solo relativo e non assoluto dell’attribuzione, e provocherebbe quindi solo annullabilità. E’ una

interpretazione possibile, e anzi in linea con la già ricordata tendenza della giurisprudenza a far rientrare

per quanto possibile tutti i casi di incompetenza nelle ipotesi di normale annullabilità.

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19. - L’elusione o violazione del giudicato

Su questo punto la legge non fa altro che accogliere la giurisprudenza, chiarendo però opportunamente

che entrambe le condizioni, la elusione e la violazione del giudicato, danno luogo a nullità. Viene meno così

il dubbio se si tratti di situazioni da differenziare (si era detto che l’elusione si ha quando

all’amministrazione non resti, dopo la sentenza, nessuna scelta sul provvedimento da adottare, mentre la

violazione si avrebbe nei casi in cui all’amministrazione residui un qualche spazio di discrezionalità.

Interessanti le prime pronunce sul punto: ad es. TAR Campania, Napoli, 28 luglio 2005, n. 10440:

<<Pertanto la potestà che residua all'amministrazione dopo una sentenza non comprende il potere di

emanare atti che, nonostante le intenzioni eventualmente dichiarate, si pongono in diretto contrasto con il

comando (o con il divieto) giudiziale, riproducendo una situazione giuridica e di fatto che solo

apparentemente adempie alla decisione del giudice.

Un atto di tal specie è da considerare alla stregua di un mero simulacro, essendo esso invalido per nullità

assoluta in quanto emanato in carenza di potere (cfr. Cons. St., sez. V, 6/10/1999, n. 1329; sez. IV,

24/2/2000, n. 1001).

Tali principi, stratificati in un consolidato orientamento della prevalente giurisprudenza amministrativa,

trovano ora articolata trattazione nell'art. 21-septies della legge n. 241 del 1990 (introdotto dall'art. 14

della legge n. 15 del 2005) che esplicitamente prevede la nullità dei provvedimenti adottati in violazione o

elusione del giudicato, con attribuzione della giurisdizione esclusiva in materia al giudice amministrativo.

Il contenuto realmente innovativo di tale disposizione va individuato nell'ampliamento sia della

cognizione devoluta al giudice amministrativo (estesa ai diritti soggettivi), sia dell'ambito della nullità degli

atti reiterativi (a prescindere dalla tradizionale distinzione tra elusione e violazione del giudicato).

A parte ciò, il nucleo della disposizione in esame recepisce sostanzialmente gli orientamenti

giurisprudenziali, almeno per quanto riguarda la radicale invalidità degli atti direttamente ed

immediatamente contrastanti con il giudicato.

Nel delineato quadro normativo, il ricorso al giudizio di ottemperanza si palesa dunque ammissibile,

essendo da escludere che l'interessato, per consolidare un effetto già contenuto nel giudicato, abbia

l'onere di instaurare un nuovo giudizio cognitorio per l'accertamento della nullità degli atti adottati

dall'amministrazione, né tanto meno che abbia l'onere di proporre una ulteriore impugnativa di atti che

non sono meramente illegittimi (e quindi solo annullabili), ma si palesano piuttosto radicalmente invalidi ed

inefficaci.>>

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20. - Le nullità testuali

Circa i casi di nullità “testuale”, espressamente prevista da disposizioni di legge, oltre a quelli già

ricordati, che dispongono nullità di assunzioni senza concorso, altri casi riguardano il regime dell’impiego

nelle pubbliche amministrazioni: art. 53 co. 8 del d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165: “le pubbliche

amministrazioni non possono conferire incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente

autorizzati dall’ amministrazione di appartenenza …… il relativo provvedimento è nullo di diritto”, e l’art. 52

dello stesso d. lgs. dispone che “è nulla l’ assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica

superiore”.

Si tratta, come la giurisprudenza ha riconosciuto, di norme ispirate ad esigenze di imparzialità e di

contenimento delle spese pubbliche: ad esigenze di garanzia dell’interesse generale si devono riportare

pure le previsioni della legge n. 444 del 1994, in tema di prorogatio degli organi scaduti.

E’ interessante notare che molte delle previsioni legislative nelle quali si dispone una espressa nullità

dell’atto accompagnano tale previsione con quella della personale responsabilità di chi l’ha adottato:

(Bartolini e Cesarini, Nullità dell’atto e responsabilità del dirigente, in www.giustamm.it): dall'art. 3, sesto

comma, t.u. imp. Civ. St.: " Salve le eccezioni previste dal presente decreto, l'assunzione agli impieghi senza

il concorso prescritto per le singole carriere è nulla di diritto e non produce alcun effetto a carico

dell'Amministrazione, ferma restando la responsabilità dell'impiegato che vi ha provveduto.".

All'art. 14, settimo e ottavo comma, legge 20 maggio 1985, n. 207 (Disciplina transitoria per

l'inquadramento diretto nei ruoli nominativi regionali del personale non di ruolo delle unità sanitarie locali):

" Dalla data di entrata in vigore della presente legge è fatto divieto di conferire incarichi, supplenze o

rapporti libero-professionali anche mediante convenzioni o comunque di utilizzare a qualsiasi titolo

personale in deroga alle vigenti disposizioni di legge.

Tutti gli atti ed i provvedimenti relativi adottati in violazione del divieto di cui al precedente comma sono

nulli ed impegnano la responsabilità personale e diretta dei componenti degli organi di amministrazione

che li dispongono.".

La stessa tecnica è stata, poi, utilizzata dalla legge 15 luglio 1994, n. 444 (di conversione del decreto -

legge 16 maggio 1994, n. 293) sulla prorogatio degli organi amministrativi, la quale, all’art. 6, secondo e

terzo comma, l. n. 444/94 stabilisce che: " 2. Tutti gli atti adottati dagli organi decaduti sono nulli. 3. I

titolari della competenza alla ricostituzione e nei casi di cui all'art. 4, comma 2, i presidenti degli organi

collegiali sono responsabili dei danni conseguenti alla decadenza determinata dalla loro condotta, fatta in

ogni caso salva la responsabilità penale individuale nella condotta omissiva”.

E ancora il d.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (attuativo della legge n. 59/97 – c.d. Bassanini I) prevede due

ipotesi di responsabilità dirigenziale da atto nullo. L’art. 56, quinto comma, d.Lgs. n. 29/93 (così come

modificato dall’art. 25, d.Lgs. n. 80/98), così dispone: "Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, e' nulla

l'assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore e' corrisposta

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la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore. Il dirigente che ha disposto

l'assegnazione risponde personalmente del maggior onere conseguente, se ha agito con dolo o colpa

grave".

L’art. 36, ottavo comma, del d.Lgs. 29/93 (nella novella introdotta dall’art. 22, d.Lgs. n. 80/98): "In ogni

caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle

pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato

con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione.” Qui la nullità

non è nominata ma è evidente la previsione di inefficacia (“non può comportare…) E continua “Il

lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in

violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l'obbligo di recuperare le somme pagate a

tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave".

Si ricordi ancora l’art. 123 del d.p.r. n. 382 del 1980, che stabilisce la “nullità di diritto e l’assoluta

improduttività di qualunque effetto e conseguenza nei confronti dell’amministrazione dell’assunzione di

personale e dell’affidamento di compiti istituzionali effettuati in violazione” della legislazione universitaria.

21. - Il regime sostanziale dell’atto nullo

Quanto al regime sostanziale, che l’atto nullo sia radicalmente inefficace lo dice la dottrina e la

giurisprudenza, ma non la legge. Trattandosi tuttavia della tradizionale e ben nota conseguenza che viene

ricollegata alla nullità, si può ipotizzare che il legislatore abbia voluto, sia pure implicitamente (come non

dovrebbe fare), rinviare proprio a questo tipico tratto del regime dell’atto nullo.

Niente si dispone circa i risvolti concreti di questa inefficacia: non si dice se sia lecita la disobbedienza

del cittadino, se sia lecito o addirittura doveroso il rifiuto della amministrazione di dare esecuzione al

provvedimento nullo. Un intervento normativo esplicito sarebbe stato però quanto mai opportuno: già si

incontrano nei primi commenti opinioni che negano la possibilità di produrre effetti solo a quelli, fra gli atti

nulli, che presentino una piena e indubitabile abnormità o non riferibilità all’amministrazione, ossia in

sostanza agli atti “inesistenti”, non considerabili in nessun modo degli atti amministrativi, mentre fuori di

questi casi il provvedimento nullo dovrebbe produrre comunque i suoi effetti, e lascerebbe intatto, fino a

che la nullità non sia dichiarata, il potere e il dovere di eseguirlo.

Nulla si dice circa la possibilità dell’amministrazione di rilevare in sede di autotutela, d’ufficio o su

segnalazione degli interessati, la nullità; nulla sulla possibilità dell’amministrazione di sanare o di convertire

l’atto nullo.

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Daniele Corletto – Efficacia e invalidità dell’atto amministrativo

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Se dovessi prendere posizione su questi ultimi punti, direi che l’inefficacia dell’atto comporta

ovviamente che non vi sia l’obbligo del privato di attenersi al provvedimento, né il dovere

dell’amministrazione di darvi esecuzione. A parte i casi nei quali la stessa condizione che dà luogo alla

nullità rende impossibile l’esecuzione (la mancanza o impossibilità dell’oggetto, ad esempio), nei quali si

direbbe che la nullità sia conseguenza della impossibilità di eseguire l’atto, va notato comunque che l’art.

21-quater dice infatti che i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, e noi

diamo per dato - anche se non è scritto - che l’atto nullo non sia efficace.

Ma direi che si deve andare oltre e concludere che vi è il dovere della p.a. di non darvi attuazione: ogni

attuazione di una disposizione giuridica che non è efficace è infatti a sua volta una attività non solo non

doverosa ma priva di titolo e quindi illecita, se tocca diritti, e comunque arbitraria, non basata su un titolo

giuridico.

Quanto al problema dell’autotutela nei confronti, o in presenza di un atto nullo, non occorre richiamare

l’esempio tedesco per sostenere la spettanza all’amministrazione di un tale potere, e anzi la doverosità del

suo esercizio. Lo richiedono ovvie esigenze di ristabilimento della certezza dei rapporti, attraverso una

formale dichiarazione che chiarisca la situazione e sgombri il campo da ingannevoli simulacri. Dovrebbe

trattarsi di una autotutela dichiarativa, più che costitutiva, da esercitarsi anche d’ufficio e senza termine, e

senza necessità di una valutazione degli interessi pubblici e privati coinvolti, se si vuole prendere sul serio

l’assunto di partenza, sulla originaria e assoluta improduttività di effetti dell’atto nullo.

Contro questa conclusione ancora una volta sta il silenzio della legge, che costringe a ricercare il

fondamento di un tale potere nei principi e nelle generali esigenze dell’ordinamento, salvo però doversi

chiedere se le previsioni degli articoli 21-quinquies e 21-nonies non siano di ostacolo all’individuazione di

forme di autotutela ulteriori rispetto a quelle espressamente individuate.

Quanto alla convalida, è corrente l’idea che anche gli atti amministrativi non siano convalidabili, come

non lo sono, per l’art. 1423 del Codice civile, i contratti nulli. Non si vedono però ragioni di negare in

astratto (ma riesce difficile pensare ad un esempio) che si possa convertire l’atto nullo in un altro del quale

siano presenti gli elementi.

22. - Regime processuale della nullità: la giurisdizione

Quanto al regime processuale, sorge in primo luogo il problema della giurisdizione alla quale ci si deve

rivolgere: su questo la previsione dell’art. 21-septies crea più problemi di quanti ne risolva.

Si dice infatti che “le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o

elusione del giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”. Ma rimane il

dubbio se questa norma significhi (come anche è stato ipotizzato) che tutte le questioni di nullità, diverse

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da quelle connesse con il rispetto dei giudicati, vadano invece devolute al giudice ordinario. E ancora: ci si è

chiesti (Satta) se l’aver attribuito espressamente alla giurisdizione esclusiva questa categoria di questioni di

nullità, che al momento dell’entrata in vigore della novella erano risolte all’interno del giudizio di

ottemperanza, con poteri quindi di giurisdizione di merito, non significasse la volontà di cancellare

addirittura il giudizio di ottemperanza ex art. 27, n. 4 TU Cons Stato.

Ma più in generale rimane al fondo il dubbio circa la spettanza della giurisdizione.

In prima lettura della nuova disposizione si è da alcuni avanzata l’idea che le questioni sulla nullità degli

atti amministrativi vadano in linea di principio risolte dal giudice ordinario. Di ciò sarebbe conferma la

espressa previsione, che si è appena ricordata, della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per

le (sole) questioni di nullità derivanti da violazione del giudicato.

Si direbbe che questa conclusione sia affrettata e superficiale. Essa deriva certo, in primo luogo, dal

ricordo dell’utilizzo che la giurisprudenza della Cassazione ha fatto della contrapposizione fra illegittimità e

nullità o fra esistenza e inesistenza dell’atto per fondare la discriminazione fra la giurisdizione

amministrativa e quella del giudice ordinario; in secondo luogo dalla sensazione che il petitum che si rivolge

in questi casi al giudice, essenzialmente di accertamento e non costitutivo, non sia compatibile con le

attribuzioni giurisdizionali del giudice amministrativo.

Ricorda R. Caranta (L’inesistenza dell’atto amministrativo, Milano 1990, 269 e 261), citando Cammeo e

Giannini, che il criterio del petitum veniva utilizzato in seconda battuta per escludere la competenza del

giudice amministrativo qualora il provvedimento richiesto esulasse dai poteri del detto giudice (e), e che il

criterio di riparto è stato, ad un certo punto dell’evoluzione giurisprudenziale, concepito come un criterio

“misto”, basato sulla natura della controversia (causa petendi) e sul tenore della domanda, e che i due

criteri si integravano a vicenda.

Pare invece esatta l’impostazione del problema proposta da Cerulli Irelli (Principii, 237): che applica al

caso dell’atto nullo i normali criteri di riparto della giurisdizione, basati sulla diversa situazione soggettiva

che viene in gioco. Se l’atto nullo lede diritti, o meglio se i comportamenti di esecuzione dell’atto inefficace

e quindi privi di titolo giuridico ledono dei diritti, per via della mancata degradazione del diritto, ci si rivolge

al giudice ordinario, che conosce della nullità dell’atto in via incidentale e “disapplica”, o meglio accerta

incidentalmente la inidoneità dell’atto a produrre effetti e dà quindi diretta tutela ai diritti. Non si tratta

quindi di una impugnazione dell’atto e neppure di una sentenza di accertamento della nullità, ma solo di

una disapplicazione, che consente di risolvere il caso singolo prescindendo dal provvedimento, del quale si

accerta solo incidentalmente e con efficacia limitata al caso deciso, la improduttività di effetti. L’obiezione

della dottrina a questa soluzione (Bartolini 368) è che non è logico disapplicare un atto privo di effetti.

Tuttavia se pure a rigore non si può parlare di effetti giuridici dell’atto, non vi è dubbio (altrimenti non se ne

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starebbe parlando dinanzi ad un giudice) che delle conseguenze derivino dall’atto, o dalla sua apparenza, e

dai comportamenti che di quell’atto pretendono di fare applicazione, e che se non altro vi sono delle

conseguenze di incertezza di rapporti che la pronuncia chiarisce.

Se l’atto nullo lede invece interessi legittimi (ad es. il diniego opposto alla richiesta di un provvedimento

favorevole, con un atto adottato da organo scaduto dopo il termine della prorogatio, caso nel quale siamo

certamente di fronte ad un interesse legittimo) non si vede perché non riconoscere la giurisdizione del

giudice amministrativo, e non si vede che tutela si potrebbe avere dal giudice dei diritti.

La distinzione in pratica coincide con la differenziazione fra situazioni oppositive e situazioni pretensive:

dove il cittadino “lotta” per difendere diritti già suoi dall’attacco dell’amministrazione che vuole sottrarglieli

o limitarne il godimento, dell’atto nullo si occuperà il giudice ordinario, cui il privato si sarà rivolto per

difendere il suo diritto dall’incertezza che quell’atto provoca o dalle turbative provocate da attività di

esecuzione dell’atto nullo (ad es. con un’azione possessoria); dove il cittadino cerca di ottenere un

provvedimento a lui favorevole, la questione della nullità sarà presentata al giudice amministrativo.

E’ vero che qui la critica radicale al provvedimento di diniego finisce per essere poco utile al ricorrente:

se si lamenta l’illegittimità del diniego dimostrando che per legge il provvedimento favorevole “spettava”,

converrebbe impugnare per la legittimità e ottenere, nei limiti consentiti dal tipo di vizio che si può

allegare, una pronuncia che vincoli l’amministrazione a riconoscere le pretese del privato. Nel caso invece si

eccepisca la nullità, il contenuto di accertamento della sentenza sarà modesto, riferendosi soltanto

all’aspetto strutturale o formale (in senso forte) del provvedimento, il quale manca dei requisiti di

“esistenza” o è adottato in carenza di potere o in un caso in cui espressamente la legge prevede la nullità,

ma senza toccare il merito, la sostanza, della pretesa del ricorrente (per quel tanto o poco che il giudice può

dire, in presenza di discrezionalità dell’amministrazione, ma comunque fissando dei punti che la

vincoleranno il successivo uso della discrezionalità). La pronuncia che accertasse la nullità del

provvedimento di diniego, dichiarando che il diniego non c’è stato, o comunque è stato inefficace, finirebbe

per equivalere ad una pronuncia sul silenzio, limitandosi a dire che permane il dovere dell’amministrazione

di rispondere alla domanda del privato.

Non si può sottovalutare la riluttanza del giudice amministrativo ad adottare pronunce diverse da quella

tipica di annullamento: in presenza di una attribuzione di poteri giurisdizionali che effettivamente è

formulata (dall’art. 45 del TU Cons. Stato e dall’art. 26 legge TAR) con riferimento al potere di “annullare

l’atto”, in caso di accoglimento del ricorso, è corrente opinione del giudice amministrativo di non poter

adottare sentenze francamente e direttamente dichiarative.

Se la giurisprudenza non dovesse evolvere nel senso di ritenere che l’accertamento sia comunque, in

tutto o in parte, il contenuto proprio di ogni attività giurisdizionale ricavandone l’ammissibilità di pronunce

di accertamento, una possibile alternativa potrebbe essere quella prospettata dalla sentenza TAR Puglia 26

ottobre 2005, n. 4581, che ha ritenuto di poter annullare il provvedimento nullo. Si capisce che una tale

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soluzione è tutt’altro che soddisfacente sul piano teorico, ma (se è vero che lo scopo del gatto è quello di

prendere i topi) può darsi che comunque funzioni.

23. - Legittimazione e rilevabilità d’ufficio

Che la nullità si possa far valere da qualunque interessato e che si possa rilevare anche d’ufficio, lo si

ritiene generalmente, ricavandolo dalle regole che il codice civile detta per i contratti, anche se la legge non

ci dice se questa applicazione è lecita.

Quanto alla legittimazione, resta ovvio che il riferimento a “chiunque vi ha interesse” comporta il

riferimento alle regole, normali per ciascun processo, in tema di interesse e di legittimazione ad agire e a

resistere. Si può presumere che la domanda di accertamento di nullità non sarà nella gran parte dei casi

proposta come domanda principale, ma sarà una domanda pregiudiziale, posta a fondamento di una

diversa domanda principale.

Un effetto certo e già rilevabile della nuova previsione dell’art. 21-septies è che gli avvocati

presenteranno per maggiore cautela domande di annullamento “arrotondate” ad ogni buon conto con

domande di dichiarazione di nullità. L’effetto che vi è da attendersi è una qualche confusione e

sovrapposizione di concetti, e un uso promiscuo e generico dei termini in gioco.

Quando si dice poi che la nullità si può rilevare d’ufficio, è ben evidente non solo che il giudice non può

andarsi a cercare atti nulli per dichiararli tali, ma neppure (a quanto sembra) che possa rilevare la nullità a

favore di chi agisce, se questo non l’ha chiesto.

Per le nullità civilistiche questo è pacifico: cfr. Cass. 11 marzo 1988, n. 2398: “il potere del giudice di

dichiarare d’ufficio la nullità di un contratto va coordinato con il principio della domanda, sicché solo se sia

in contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo

della domanda, il giudice è tenuto a rilevare … l’eventuale nullità dell’atto, indipendentemente dall’attività

assertiva delle parti; al contrario, qualora la domanda sia diretta a far dichiarare la invalidità del contratto o

a farne pronunciare la risoluzione per inadempimento, la deduzione di una causa di nullità diversa da quella

posta a fondamento della domanda o di una qualsiasi causa di nullità o di un fatto costitutivo diverso

dall’inadempimento sono inammissibili: né tali questioni possono essere rilevate d’ufficio, ostandovi il

divieto di pronunciare ultra petita”. Però la dottrina civilistica critica questa soluzione.

Rilevabilità d’ufficio significa solo che il giudice, di fronte ad una domanda fondata su di un titolo nullo,

rigetta la domanda sulla base della ritenuta nullità, anche in assenza di corrispondente eccezione delle

parti. La rilevabilità d’ufficio è quindi una rilevabilità solo in malam partem, per rigettare la domanda

proposta ma basata su un titolo nullo.

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Nel processo amministrativo abbiamo infatti casi in cui si è dichiarata d’ufficio la nullità in malam

partem, tipicamente quando chi sia stato assunto contra legem senza concorso chiede il riconoscimento del

rapporto a tempo indeterminato, o il riconoscimento delle mansioni superiori, o nel caso di incarichi

attribuiti senza copertura finanziaria (Cons. St., IV, 27 aprile 2005, n. 1946), e il giudice si accorge che alla

base di tutto c’è un atto nullo, ma in pratica mai in bonam partem, cioè a vantaggio del ricorrente, andando

oltre la sua domanda.

L’altro caso in cui emerge d’ufficio la questione di nullità è nel giudizio di ottemperanza, quando

l’amministrazione eccepisce di avere adempiuto il giudicato, e il giudice, pur se l’atto non è stato

impugnato, lo considera nullo per pronunciare comunque sulla inottemperanza e mandare il commissario

ad acta ad adempiere esattamente.

In sostanza dunque, di fronte ad un atto nullo, se la reazione del privato si muovesse sul piano della

diretta impugnazione dell’atto al giudice amministrativo, è verosimile che il giudice potrebbe assimilare la

nullità all’annullabilità, sia quanto al tipo di pronuncia, sia quanto al regime processuale complessivo, a

cominciare dal termine (sempre che non si ricada nella giurisprudenza che ritiene inammissibile il ricorso

contro l’atto nullo per carenza di interesse data la sua mancanza di efficacia). Al giudice ordinario del resto

ci si potrebbe rivolgere in presenza di atto limitativo di diritti anche prima di ogni comportamento di

concreta lesione, per far dichiarare la inefficacia dell’atto e risolvere l’incertezza sulla sorte del diritto.

La reazione in presenza di atto nullo potrebbe però più caratteristicamente presentarsi come rivolta

contro i comportamenti di esecuzione (lesivi direttamente di diritti, e quindi al giudice ordinario) o come

impugnazione degli atti (illegittimi o nulli a loro volta) che avevano come presupposto l’atto nullo (e quindi

al giudice amministrativo). In quei casi nei quali gli effetti prodotti da un precedente provvedimento sono il

presupposto di un successivo provvedimento, per il quale creano “l’ambiente”, la nullità e quindi

l’inefficacia dell’atto presupposto priva il provvedimento consequenziale di un elemento di legittimità (e

forse addirittura di esistenza, se fa mancare l’attribuzione del potere… salvo vedere, come detto, se la

carenza in concreto rientri ancora nelle ipotesi di nullità).

La cognizione del giudice ordinario o amministrativo sarà allora in questi casi essenzialmente una

cognizione incidentale o pregiudiziale, per accertare l’assenza di un presupposto (efficacia del

provvedimento nullo) e decidere sulla domanda, che non è in via principale quella di dichiarare la nullità.

Nel caso di atto sfavorevole nullo, esso, inefficace, non degrada i diritti, non crea obblighi e non fonda

pretese di esecuzione, non consente, o rende senza titolo se comunque compiuti, gli atti con cui si dispone

esecuzione coattiva.

Nel caso di atto favorevole nullo, il terzo controinteressato può chiedere all’amministrazione che

reprima come abusivo e privo di titolo il comportamento tenuto dal destinatario dell’atto in attuazione

dell’atto nullo, e quindi ad es. può denunziare come abusiva l’edificazione effettuata su permesso nullo e

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chiedere che l’amministrazione eserciti i propri poteri di autotutela (dichiarativi sull’atto) e quelli repressivi

e sanzionatori sull’attività e sui suoi risultati.

Chi aspirava ad una concessione data ad altri con un atto nullo, può chiedere all’amministrazione che la

concessione venga data a lui, può insistere nella sua domanda o reiterarla, ignorando (e invitando

l’amministrazione a ignorare) l’atto nullo che la dà ad un altro.

Nel caso di diniego (nullo) di atto favorevole l’interessato può chiedere, senza termine e quindi anche se

ha omesso di impugnare il diniego, che l’amministrazione si pronunci nuovamente (ma in effetti per la

prima volta in maniera efficace) sulla sua domanda, e poi rivolgersi al giudice amministrativo sul diniego o

sul silenzio.

24. - Il termine

Quello del termine è uno dei punti difficili, sui quali si vedrà se la giurisprudenza riesce ad accettare

davvero le conseguenze del concetto di nullità. La sensazione è che di fronte ad un atto, pur nullo, che il

privato conosceva e che avrebbe potuto portare dal giudice entro i termini di decadenza, il giudice

amministrativo avrà grandi difficoltà a fare eccezioni alla perentorietà del termine per impugnare.

Viceversa la rilevabilità senza termine potrebbe trovare spazio nei casi di utilizzo del vizio di nullità in via di

eccezione (di parte o d’ufficio) alla domanda di chi agisca sulla base di titolo nullo.

Quanto al caso specifico della nullità per elusione del giudicato, si è talvolta ritenuto (Cons. St., VI, 3

febbraio 1992, n. 59) che comunque vale il termine decennale dell’azione di giudicato. La soluzione pare

esatta: in questo caso del resto l’accertamento della nullità è incidentale in un giudizio che tende ad

accertare l’inadempimento di un giudicato. Se l’azione in cui la valutazione della nullità si colloca è soggetta

a termine, resta (di riflesso) soggetto allo stesso termine anche l’accertamento della nullità, che di quella è

un momento interno e incidentale. Quindi non si può dire a rigore in questo caso che vi sia un termine per

l’azione di nullità: il termine c’è per l’azione di giudicato.

25. - Nullità e inesistenza

L’uso dei concetti di nullità e di inesistenza è stato finora confuso e promiscuo. Vi è da chiedersi se la

codificazione della nullità ci impedisca d’ora in poi di continuare a parlare di inesistenza degli atti

amministrativi.

Si può osservare che, dei casi previsti dall’art. 21-septies, quelli contrassegnati come dovuti a mancanza

“degli elementi essenziali”, potrebbero anche configurarsi come casi nei quali l’atto amministrativo non

può neppure considerarsi esistente.

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Un orientamento potrebbe essere quello (Cerulli Irelli) che, notando come “l’inesistenza non <sia> una

categoria positiva, ma <è> una categoria di teoria generale” e ricordando come in questi casi “in un

determinato fatto o fenomeno della realtà non è ravvisabile un atto giuridico o quantomeno un atto

giuridico ascrivibile alle categorie di cui si tratta”, conclude “quando si fa riferimento nella norma in esame

<il 21-septies> alla mancanza di elementi essenziali, ci si riferisce ad un difetto certamente gravissimo ma

non tale da rendere l’atto privo di identificazione”. L’inesistenza avrebbe quindi ancora uno spazio, per

caratterizzare quei casi nei quali la “cosa” è talmente abnorme da non poter neppure essere considerato un

atto amministrativo, sia pure gravemente viziato e inefficace.

In passato ci si è chiesti se ha un senso cercare di distinguere casi di nullità da casi di inesistenza, posto

che il regime dell’atto o comunque della situazione è lo stesso, la assenza di effetti. Ora però la espressa

previsione (che la giurisprudenza ha cominciato subito a dire essere tassativa) dei casi di nullità pone il

problema, mettendo di fronte all’alternativa di ricondurre l’inesistenza alla nullità, facendola rientrare nella

ipotesi della “mancanza degli elementi essenziali”, o di continuare a dire che c’è una altra figura, logica o di

teoria generale, che continua a potersi vedere nei casi più vistosi e subito riconoscibili di non riferibilità del

presunto atto all’amministrazione.

26. - Profili ricostruttivi

Si potrebbe proporre, per fronteggiare il problema della nullità, una prima distinzione, fra nullità

strutturale, per mancanza di elementi costitutivi (per la quale si pone il problema della eventuale

coesistenza con la categoria della inesistenza), e le nullità testuali.

Si potrebbe forse dire che nel caso delle prime l’atto è nullo perché non riesce ad essere efficace,

mancandogli elementi strutturali per esserlo, nelle seconde l’atto è nullo perché si vuole che sia inefficace,

trattandosi di una nullità-sanzione. Le nullità testuali sono in sostanza casi nei quali il legislatore “fa la faccia

feroce” (anche con la previsione della diretta responsabilità del dirigente che dispone ad es. l’assunzione

senza concorso) per stroncare prassi illegittime e far passare la voglia di ricaderci. Sono casi questi nei quali

l’atto di per sé sarebbe ben vitale, avrebbe ogni carattere necessario e ogni “intenzione” di produrre effetti,

e lo scopo è proprio di impedire quegli effetti, che sarebbero il premio di comportamenti amministrativi

ritenuti contrari a principi o a regole di buon funzionamento del sistema.

Su queste ultime ipotesi non c’è molto da dire. C’è una espressa volontà del legislatore di non

riconoscere efficacia a certi tipi di atti: è una scelta normativa.

Sulle nullità “strutturali” si potrebbe cercare di ragionare per vedere se c’è una qualche idea di dottrina

generale che le può spiegare e accomunare.

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Una prima idea potrebbe essere basata sul concetto di effettività di potere. E imperniata quindi sul

profilo soggettivo di chi agisce.

Se l’amministrazione è un apparato dotato di poteri, di potestà pubbliche, si potrebbe dire che

qualunque azione dell’amministrazione riguardi oggetti o interessi sui quali ha il potere di intervenire non è

nulla. Perché l’attribuzione del potere comporta l’effettività, la possibilità legale e anche materiale di agire

in quel certo ambito, anche con atti viziati, purché il potere ci sia.

E’ nulla invece l’attività che pretenda di essere esercizio di potere ma sia svolta da chi il potere non ce

l’ha. La assenza dell’attribuzione del potere toglie a chi agisce la qualità soggettiva di amministrazione. Fa

venir meno il soggetto.

Si noti del resto che la Cassazione SU n. 1657 del 1949 faceva questione non di atto viziato o nullo ma di

potere. L’accento era sulla qualità soggettiva dell’agente: che sia titolare del potere; e non sull’atto: che sia

un atto “esistente” o “non nullo” o regolare e non viziato atto di esercizio di quel potere.

Una seconda prospettiva potrebbe basarsi sul concetto di riconoscibilità, di evidenza. L’atto nullo è

quello riconoscibilmente, evidentemente, difettoso; l’atto inesistente è quello non riconoscibile nemmeno

come atto.

La nullità (e anche la inesistenza, in grado più grave) centrata sulla apparenza, sulla riconoscibilità,

sull’evidenza del difetto che fa subito capire o che l’atto non si riporta, non si attribuisce

all’amministrazione (inesistenza). O che questa ha agito in maniera abnorme, mostruosa, evidentemente e

gravemente sbagliata, tanto da risultare evidente che non si può prendere sul serio quel preteso esercizio

di potere.

L’elemento della riconoscibilità, dell’evidenza del difetto, vi è anche nel § 44 del VwVfG che dice che

“Ein Verwaltungsakt ist nichtig, soweit er an einem besonders schwerwiegenden Fehler leidet und dies bei

verständiger Würdigung aller in Betracht kommenden Umstände offensichtlich ist.”: la previsione comporta

che qualunque vizio, purché grave e riconoscibile, produce nullità e quindi inefficacia. Poi vi sono casi

puntuali di nullità previsti dal secondo Absatz (se non si può identificare chi l’ha fatto, se si era fuori dalla

attribuzione dell’autorità, che non è materialmente eseguibile (impossibile), che esige il compimento di atti

contrari al diritto o penalmente o disciplinarmente rilevanti o contrari al buon costume).

La riconoscibile, evidente, difettosità, giustifica la mancanza di efficacia, sia nei riguardi degli interessati,

che sono autorizzati a non obbedire, sia nei riguardi della p.a. stessa come non dovere di esecuzione. O

meglio come dovere di non esecuzione.

Quanto alle prospettive, uno scenario possibile potrebbe essere che il giudice amministrativo riesca a

ricondurre la nullità nell’annullabilità, o quanto meno entro le regole di questa: per cominciare annullando

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l’atto nullo, anziché dichiararne la nullità (TAR Puglia 4581/2005), eventualmente con la giustificazione di

dover usare poteri costitutivi anziché dichiarativi per eliminare quella parvenza, quel simulacro, di atto che

con la sua presenza crea incertezza; in secondo luogo pretendendo in linea di massima il rispetto del

termine perentorio per l’impugnativa anche per “impugnare” l’atto nullo.

A ciò il giudice amministrativo potrebbe essere indotto, dove possibile, dai rischi che la figura della

nullità porta con sé, quelli della incertezza, della confusione, e inoltre quella dell’instabilità, del non

consolidamento di situazioni, connessi con la inapplicabilità del termine per impugnare. E sono le ragioni

per le quali la saggia giurisprudenza delle origini (inizi del secolo 20°) aveva escluso la nullità e ricondotto

ogni vizio degli atti alla sola annullabilità.

Se il legislatore insiste, deve essere evidentemente per delle ragioni che nella sua valutazione superano

gli inconvenienti ricordati, e che richiedono di negare a certe fattispecie qualsiasi possibilità di produrre

effetti (se è questo il proprium della nullità) e una rilevabilità ampia e senza termine.

L’interpretazione delle previsioni in tema di nullità deve essere comunque, per via dei gravi

inconvenienti accennati, rigorosa e tassativa.

27. - L’annullabilità e l’art. 21-octies

Una grande attenzione è stata dedicata all’art. 21-octies.

Il primo comma del 21-octies non sembra dire nulla di nuovo. Non fa che ripetere quanto già

l’ordinamento diceva in tema di vizi degli atti (art. 26 TU Cons. St. e Legge TAR).

Non pare così significativo il fatto che qui si tratti di una previsione “sostanziale” e non fatta in occasione

dell’attribuzione di poteri giurisdizionali.

Né mi pare si possa collegare un qualche significato (come anche è stato detto) alla circostanza che

l’elenco tradizionale dei vizi è qui messo in un ordine diverso, con la violazione di legge in testa e

l’incompetenza in coda (anche se si potrebbe avanzare l’ipotesi che il legislatore volesse imporre con ciò un

ordine di esame delle questioni, capovolgendo il tradizionale impianto dell’art. 45 del TU Cons. St. e dell’art.

26 della legge TAR, che voleva il vizio di incompetenza valutato per primo, e con effetto assorbente, con

remissione dell’affare all’autorità competente, in caso di accoglimento). Neppure si può dare rilievo alla

formula che parla di “atto adottato in violazione di legge” (e non dice “viziato da…”) mentre parla di atto

“viziato da eccesso di potere o da incompetenza”.

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Salvi i casi eccezionali di nullità, nei quali o un difetto strutturale impedisce o una volontà legislativa

nega la produzione di effetti, lo schema di base, che resta normale per gli atti amministrativi, è quello

dell’annullabilità.

In sostanza si ribadisce la impostazione tradizionale e ben radicata, che risolve il problema della

qualificazione degli atti non conformi al diritto con la nozione, o con la tecnica, dell’annullabilità. Cioè

considerando gli atti non conformi alle norme come capaci di produrre comunque i loro effetti, salva la

possibilità (una ristretta finestra di possibilità) per chi ne sia danneggiato di impugnarli e di ottenerne

l’annullamento, e salvo che non sia interesse della stessa amministrazione eliminarli (annullamento

d’ufficio). Il regime dell’annullabilità degli atti viziati dà quindi a tutti gli atti, viziati e “sani”, la stessa

efficacia, salvo che l’atto viziato ha una efficacia precaria, aleatoria, soggetta a una possibilità di venire

meno.

Il regime di annullabilità è stato inventato perché è quello che risponde alle necessità di effettività del

potere, all’esigenza di ottenere comunque obbedienza, nonostante si sia violata la legge.

Si ricorre a quella che i sociologi hanno chiamato la “tecnica del reclamo” (Romano Tassone, Studi per

Ottaviano, 1132), che consente di rilevare e di sanzionare il comportamento non conforme alle regole solo

se la difformità sia denunciata, lasciando altrimenti a tutti gli atti una piena e definitiva efficacia, e consente

alle decisioni dell’amministrazione anche se contrarie alla legge di essere comunque efficaci, fino a che la

questione non sia sollevata (e non basta, dato che il ricorso non ha effetto sospensivo) e riconosciuta

fondata dal giudice; e di restarlo per sempre se un tale reclamo non viene sollevato.

La “reclamabilità” è alla fine una tecnica astuta per giustificare, dare copertura, legittimare la operatività

dell’atto nonostante il suo difetto.

O meglio, è un compromesso fra l’esigenza di effettività del potere e la tutela dei cittadini imposta dal

principio di legalità.

La possibilità di mettere in discussione l’efficacia degli atti è comunque ristretta nel tempo (soggetta a

brevi termini di decadenza), limitata a soggetti puntualmente individuati per una particolare legittimazione,

e non data a chiunque, e una volta che non venga utilizzata consente di “stare tranquilli” sull’efficacia

dell’atto, che da lì in poi potrà produrre i suoi effetti in maniera incontestata e indisturbata.

Tanto che nella vecchia dottrina si individuava un carattere dei provvedimenti nella “inoppugnabilità”,

cioè in quella condizione dell’atto che, non essendo stato attaccato nei termini entro i quali poteva esserlo,

si “consolida”, anche se originariamente illegittimo, e diventa una sicura e indiscutibile fonte di effetti

giuridici.

A meno che non sia l’amministrazione stessa che si accorge che l’atto gli è d’intralcio e nuoce

all’interesse pubblico, e decide quindi di annullarlo d’ufficio. Qui sorge allora il problema di riconoscere in

qualche modo le aspettative del cittadino favorito dall’atto, pur basate su un atto difettoso, e si giustificano

le limitazioni che l’art. 21-nonies indica (sulla scia della giurisprudenza) al potere di annullamento: le ragioni

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di interesse pubblico, il termine ragionevole, e la considerazione degli interessi dei destinatari e dei

controinteressati.

Un altro modo di descrivere la situazione dell’atto e della sua legittimità, è di sottolineare che il dubbio

sulla legittimità dell’atto non ha conseguenze, e in particolare non autorizza né la disobbedienza né la

resistenza alla volontà dell’amministrazione, fino a che non viene condiviso da pochi, selezionati soggetti

dell’ordinamento (i giudici amministrativi, o la stessa amministrazione). In sostanza l’ordinamento

concentra in mani selezionate la valutazione della legittimità, o meglio la gestione dell’efficacia degli atti (la

decisione sul loro annullamento) in relazione alla valutazione della legittimità. Questa, finché è fatta solo

dal “chiunque”, dal destinatario stesso dell’atto, non ha alcuna conseguenza sull’efficacia, sulla forza,

dell’atto stesso.

Ma queste sono le tradizionali considerazioni sull’annullabilità, come altra faccia dell’imperatività.

Come tutti sanno, la novità sta invece nel secondo comma dell’art. 21-octies.

Dunque cosa viene fuori dalla previsione secondo la quale "non è annullabile il provvedimento

amministrativo adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora per la

natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere

diverso da quello in concreto adottato"? E dalla ulteriore proposizione con cui il comma continua: “Il

provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del

procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non

avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”?

28. - Le ragioni del legislatore

Si è osservato che questa previsione razionalizza il sistema dell’invalidità: il 21-octies infatti valorizza la

contrapposizione fra vizi di sostanza, cioè di contenuto dispositivo degli atti, e vizi solo formali o del

procedimento, per escludere l’annullamento del provvedimento quando il difetto sia appunto solo formale,

mentre la decisione nella sostanza appaia corretta, e anzi si presenti come la sola decisione legittimamente

possibile in presenza dei presupposti dati e di un potere dell’amministrazione di carattere vincolato.

Dunque, se il provvedimento è riconoscibilmente legittimo nella sostanza, cioè rispetta le previsioni di

legge che riguardano il suo contenuto, la violazione delle norme relative al procedimento e alla forma non

può dar luogo all’annullamento.

La nuova norma – si è detto – è giustificata dal principio di strumentalità delle forme e da quello del

raggiungimento dello scopo.

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Le forme e i passaggi del procedimento hanno il senso di garantire che la sostanza delle decisioni

dell’amministrazione sia corretta: una volta che questo risultato sia raggiunto, la eventuale mancata

osservanza di regole del procedimento diventa irrilevante, visto che lo scopo del procedimento stesso e

delle norme formali (la correttezza sostanziale della decisione) è stato raggiunto.

Del resto annullare un provvedimento che è legittimo quanto alla sua sostanza è un inutile spreco di

tempo e di fatica, dato che tale annullamento lascerebbe comunque intatto il potere (e anzi il dovere,

trattandosi di atto vincolato) dell’amministrazione di rifare il provvedimento con lo stesso contenuto.

Il rilievo dato ai vizi di forma e di procedimento – si è osservato – è un residuo di una impostazione

formalistica e astratta, superata dagli orientamenti che valorizzano il concetto di “amministrazione di

risultato”, cioè di una amministrazione che trae la sua legittimazione non da un cieco rispetto delle

formalità della legge, ma dalla produzione di utilità effettive e concrete, di “risultati” per l’economia e per il

benessere dei cittadini.

La sanzione con l’annullamento di ogni minima violazione di norme produce inoltre un eccesso di

protezione a favore di quegli interessi (oppositivi) che “sfruttano” qualunque trascurabile difetto dei

provvedimenti per paralizzare l’azione amministrativa, a danno dell’interesse pubblico, anche quando non

vi è nessun “buon diritto”, nessuna fondata ragione da far valere nella sostanza contro l’atto. E’ ragionevole

invece – si conclude – e corrisponde all’interesse pubblico, che la tutela sia data a chi può lamentare la

violazione di regole che gli attribuiscono un’utilità, una posizione di “spettanza”.

A sostegno poi della ragionevolezza della soluzione del 21-octies si ricorda l’esempio della Germania,

dove il par. 46 della legge sul procedimento (VwVfG) dispone che „Die Aufhebung eines Verwaltungsaktes,

der nicht nach § 44 nichtig ist, kann nicht allein deshalb beansprucht werden, weil er unter Verletzung von

Vorschriften über das Verfahren, die Form oder die örtliche Zuständigkeit zustande gekommen ist, wenn

offensichtlich ist, daß die Verletzung die Entscheidung in der Sache nicht beeinflußt hat“.

Ed effettivamente di quella disposizione la nostra sembra quasi la traduzione: quando è “offensichtlich”,

cioè quando è “palese”, che la violazione non ha influenzato la decisione nella sostanza (in der Sache),

l’eliminazione dell’atto non può essere chiesta (beansprucht) solo per essere stato adottato in violazione

delle norme sul procedimento, la forma o la competenza territoriale.

Però a ben vedere la differenza che c’è non è da poco: nella legge tedesca si dice che deve essere palese

che il vizio di forma non ha influenzato la decisione; da noi si dice che deve essere palese che il contenuto

dispositivo della decisione non avrebbe potuto essere diverso. Nel primo caso si sottintende un giudizio

storico, a posteriori; nel secondo si sottintende un giudizio astratto, a priori, secondo il quale quel

contenuto e nessun altro era a priori possibile.

Questi sono gli argomenti del legislatore, che stanno a fondamento della scelta normativa operata.

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Daniele Corletto – Efficacia e invalidità dell’atto amministrativo

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29. - Le conseguenze delle nuove previsioni

Può essere interessante riflettere sulle conseguenze che l’art. 21 octies può produrre sia sul

funzionamento e sui caratteri del processo amministrativo, sia sul regime dei provvedimenti (che si

differenzia molto a seconda del loro carattere vincolato o no), sia sui concetti di invalidità e illegittimità, sia

sulla nozione stessa di interesse legittimo.

Bisogna trattare separatamente le due enunciazioni del secondo comma: la prima si riferisce ai

provvedimenti vincolati, per i quali sia “palese” che il loro contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere

diverso da quello in concreto adottato: in tal caso non sono annullabili, nonostante il vizio nella forma o nel

procedimento. La seconda riguarda in maniera specifica il vizio di omissione della comunicazione di avvio

del procedimento, e si dispone che il provvedimento non è “comunque” annullabile se l’amministrazione

dimostra in giudizio che il provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso.

Questa seconda enunciazione non limita il suo campo di applicazione ai provvedimenti vincolati, e non

subordina la non annullabilità al carattere “palese” della impossibilità di un contenuto diverso, ma alla

dimostrazione di tale impossibilità “in giudizio” e da parte dell’amministrazione.

30. - La regola di non annullabilità degli atti vincolati “palesemente” legittimi nella sostanza

La regola è destinata ad operare essenzialmente nel processo amministrativo. Di per sé tuttavia la

formula, diversa da quella della seconda frase del comma (che parla di “dimostrare in giudizio”), ne

consente l’applicazione a casi in cui la situazione strutturale è analoga a quella che si ha nel processo, e cioè

ai procedimenti di ricorso amministrativo, gerarchico e straordinario. Penso si debba concludere anche che

la regola sia applicabile anche in sede di autotutela. Contro l’opinione di chi ha sostenuto (A. Calegari, Sulla

natura sostanziale o processuale e sull’immediata applicabilità ai giudizi pendenti delle disposizioni

concernenti l’annullabilità dei provvedimenti amministrativi contenute nell’art. 21 octies della L. n. 241 del

1990, nel sito www.giustamm.it) che in quella sede la valutazione della “legittimità sostanziale” del

provvedimento sia “assorbita” dalla valutazione dell’interesse pubblico, direi invece che la previsione del

secondo comma del 21 octies vale proprio come limite alla discrezionalità dell’amministrazione nel valutare

l’interesse ad un annullamento in autotutela, per impedire che l’amministrazione possa considerare

esistente un tale interesse quando si tratti di un vizio che non riguarda il contenuto del provvedimento.

Si è molto discusso se la regola di cui ci occupiamo di debba considerare una norma “processuale”.

Molta giurisprudenza lo ha ritenuto, per concludere quindi per la sua immediata applicabilità, anche a

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vicende avvenute e a processi instaurati prima della sua entrata in vigore. Il Consiglio di Stato però, pur

senza prendere esplicitamente posizione sul carattere processuale o no della norma, ha ritenuto non

applicabile ad un caso in discussione la previsione del 21 octies, “in quanto entrata in vigore dopo la

conclusione del procedimento controverso” (Cons. St., IV, 20 settembre 2005, n. 4836).

In realtà il 21 octies non si limita a prevedere una modalità di conduzione del giudizio, ma, sotto la veste

della individuazione di una obbligatoria questione pregiudiziale, fissa la regola sostanziale che deciderà

l’esito del giudizio stesso. E la norma che fissa la regola del giudizio, dice che contenuto deve avere la

sentenza, non pare possa definirsi “processuale”. Se no si dovrebbe dire che anche la regola che dice che

chi detiene senza titolo la cosa altrui la deve restituire al legittimo proprietario è una norma processuale,

perchè “disciplina il potere del giudice” di decidere sulla domanda di restituzione.

In ogni caso resta evidente che la disposizione di cui ci occupiamo troverà applicazione essenzialmente

nel processo. E in questa prospettiva, ci si deve chiedere come essa funzionerà concretamente, e quali

conseguenze produrrà.

La disposizione testualmente consente l’annullamento per vizio di forma o di procedimento solo dopo

che ci sia chiesti se risulti “palese” che il provvedimento, in quanto vincolato, non poteva avere contenuto

diverso, vietandola nel caso la conclusione sia proprio questa.

La prima questione che il giudice deve risolvere è dunque se il provvedimento impugnato sia da

qualificarsi come vincolato oppure no. Poi deve chiedersi se gli pare “palese” che il provvedimento non

potesse avere altro (legittimo) contenuto che quello che in concreto l’amministrazione gli ha dato. In effetti

si tratta, evidentemente, di una sola operazione: valutato il quadro normativo e la situazione di fatto, il

giudice deve decidere se ne discenda un unico possibile atto, e quale. Se l’atto che la legge impone di

adottare è quello che l’amministrazione ha preso, e di cui il giudice si deve occupare in seguito al ricorso di

chi ne è danneggiato, il ricorso proposto per i soli motivi di forma o di procedimento si rivela inammissibile,

o comunque deve essere rigettato, non potendo, per volontà di legge, dar luogo all’annullamento richiesto.

Si tratta, a ben vedere, della stessa attività logica che il giudice compie ogni volta che, ricavato dai testi

normativi il significato che ritiene esatto, e accertati i fatti della causa, giudica se ciò che l’amministrazione

ha fatto è quello che era (secondo il giudice) doveroso fare, o se invece l’azione dell’amministrazione,

risultando diversa, in qualche suo aspetto o nel suo insieme, da quella che il giudice ritiene imposta dalla

legge, va considerata illegittima. Si tratta insomma proprio di ciò che avviene in tutti i casi nei quali vi è una

previsione di legge che non consente spazi di valutazione o di scelta per l’amministrazione, in tutti i casi

cioè nei quali si può compiere, da parte di chi ha la posizione istituzionale per farlo in maniera vincolante e

finale, una valutazione di legittimità. Ciò che vi è di più, nell’ipotesi del 21-octies, è che la valutazione di

legittimità non si riferisce (non può riferirsi) ad un singolo aspetto o ad un elemento dell’agire

dell’amministrazione, ma alla sua sostanza, alla circostanza di aver provveduto, e di aver provveduto dando

all’atto quel certo contenuto e quei certi effetti, e che dunque tale valutazione di legittimità risponde

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esclusivamente alla domanda se davvero la legge voleva, come unica possibile risposta ad una certa

situazione di fatto, proprio quella concreta soluzione adottata dall’amministrazione, considerando

irrilevanti le valutazioni di legittimità riferite ad ogni altro aspetto dell’azione (appunto gli aspetti di forma e

di procedimento).

A questa valutazione della legittimità sostanziale dell’atto il giudice dovrebbe procedere poi anche senza

una corrispondente domanda di parte.

31. - La differenziazione fra provvedimenti vincolati e provvedimenti discrezionali

La disposizione di cui ci occupiamo produce evidentemente conseguenze, e apre problemi, di non poco

rilievo.

In primo luogo si ha una differenziazione di regime legale fra provvedimenti vincolati e provvedimenti

discrezionali.

Prima dell’art. 21 octies la dottrina poteva osservare (F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua

formulazione alla legge sul procedimento, in Dir. amm. 1995, 35) che “l’atto amministrativo vincolato è

positivamente trattato allo stesso modo dell’atto discrezionale”. E che esso ha “alla pari dell’atto

discrezionale, effıcacia costitutiva dell’effetto; la tutela avverso di esso è concepita, tranne ipotesi

particolari, nei termini della tutela tipica dell’interesse legittimo, con tutte le implicazioni che ne derivano,

sia in tema di giurisdizione, sia in tema di azioni esperibili”. Si notava del resto come la soluzione di diritto

positivo “basata sulla omogeneità di disciplina dei provvedimenti (sia vincolati che discrezionali) si mostra

anche come l’unica soluzione semplice e razionale, a fronte della infinita varietà in cui profili vincolati e

profili discrezionali possono coesistere nei confronti del medesimo atto o di una serie di atti che siano

ordinati ad un solo risultato”.

Ora la omogeneità della disciplina dei provvedimenti viene meno, per aspetti significativi.

Già la giurisprudenza aveva individuato degli aspetti della disciplina dei procedimenti e degli atti

relativamente ai quali il carattere vincolato del potere e quindi del provvedimento consentiva delle

eccezioni alla disciplina comune. Si pensi ad esempio alla possibilità spesso riconosciuta di omettere, senza

incorrere in illegittimità, la comunicazione di avvio del procedimento, o alle posizioni assunte da dottrina e

giurisprudenza sul diverso atteggiarsi, per i provvedimenti vincolati, dell’obbligo di motivazione. Pacifica è

poi sempre stata considerata l’esclusione della possibilità di far valere il vizio di eccesso di potere nei

confronti di provvedimenti vincolati.

Anche in tema di silenzio si era ritenuto (prima dell’art. 21 bis della legge TAR) che il carattere vincolato

del potere consentisse al giudice di andare al di là del mero riconoscimento dell’astratto dovere

dell’amministrazione di provvedere, per pronunciarsi invece proprio sulla fondatezza della pretesa (“Se

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l’attività è vincolata il giudice deve, nell’impugnazione del silenzio-rifiuto, dire se è fondata la pretesa

sostanziale del ricorrente”: Cons. St., IV, 26 febbraio 1982, n. 92, in Cons. St. 1982, I, 74, su cui vedi G.

Greco, Silenzio della p.a. e oggetto del giudizio amministrativo, in Giur. it. 1983, III, 1, 137).

Parlando poi del problema del risarcimento degli interessi legittimi si è osservato come l’ingiustizia del

danno, per la lesione dell’interesse-diritto al provvedimento, “ricorre certamente in caso di attività

amministrativa vincolata” (G. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione

di spettanza, in Dir. proc. amm. 2001, 303 nota).

Ora però non si tratta più di una differenza di regime dovuta a soluzioni giurisprudenziali, ma di un vero

e proprio differenziarsi del regime normativo dei provvedimenti fra provvedimenti vincolati e no.

Nasce così un nuovo problema, per la riflessione della dottrina, non meno che per la giurisprudenza.

Quello di individuare con chiarezza e senza confusioni i contorni precisi del campo dei provvedimenti

vincolati.

Una soluzione che tende a circoscrivere le conseguenze dell’applicazione dell’art. 21 octies, e che ha un

buon fondamento testuale, è quella che ritiene applicabile la disciplina di cui ci occupiamo non a tutti i

provvedimenti vincolati, ma solo a quelli che si fondano su presupposti univoci, semplici da accertare (quelli

che la giurisprudenza chiama “presupposti di fatto verificabili in modo immediato ed univoco e non

suscettibili di vario apprezzamento”). In questo senso sta la formula dell’art. 21 octies, che fa riferimento al

carattere “palese” della inesistenza di alternative al provvedimento adottato, e sembra rinviare quindi a

casi nei quali “ictu oculi”, senza bisogno di particolari valutazioni, e senza possibili contestazioni, sia

riconoscibile la piena e inevitabile doverosità di quel provvedimento proprio così come l’amministrazione lo

ha adottato.

Cadrebbero così sotto la previsione dell’art. 21 octies solo quei poteri vincolati che sono da esercitarsi

come conseguenza “automatica” di un precedente atto (la revoca dell’autorizzazione al commercio come

conseguenza della cancellazione dal registro degli esercenti; l’esclusione da una gara per perdita di validità

dell’attestazione di qualificazione rilasciata da una SOA), o di un dato di fatto semplice e indiscutibilmente

accertabile (l’arrivo fuori termine di una offerta o di una domanda rispetto al provvedimento di esclusione

dalla gara o dal concorso; l’assenza del permesso di soggiorno rispetto al provvedimento di espulsione dello

straniero), o risultante da inequivoci documenti dell’amministrazione (la perdita dell’idoneità fisica

all’impiego risultante da giudizio di commissione medica non contestato).

Vi è però da temere che l’applicazione dell’art. 21 octies vada oltre i limiti segnati dai casi nei quali i dati

di fatto e la volontà normativa si lascino accertare in modo “palese” e indiscutibile.

Già la giurisprudenza ha applicato il 21 octies in casi nel quali il rifiuto del permesso di costruire (TAR

Abruzzo – Pescara, 14 aprile 2005, n. 185) o l’ordinanza di demolizione (TAR Campania – Napoli, 12 aprile

2005, n. 3780) presupponevano ampi e tutt’altro che pacifici accertamenti di situazioni fattuali e normative,

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compreso il contenuto e il senso di previsioni urbanistiche, che non si direbbero proprio di “semplice e

univoca determinazione”.

Una delle possibilità che sul punto si presentano è poi che il 21 octies finisca per trovare applicazione a

singole parti o aspetti vincolati di fattispecie più complesse, e quindi anche a casi nei quali, accanto ad

ambiti vincolati, sussistano più o meno ampi margini di discrezionalità (e vedi in questo senso il TAR

Sardegna 25 maggio 2005, n. 1170) e quindi a ipotesi nelle quali non il provvedimento finale nel suo

insieme, ma singoli elementi del suo contenuto risultino viziati negli aspetti formali ma privi nella sostanza

di legittime alternative. Verrebbe così estesa la regola dell’irrilevanza del vizio formale anche a fattispecie

nell’insieme da caratterizzarsi come non vincolate.

Resta poi da chiedersi se la natura vincolata sia da riconoscersi solo in astratto e a priori o se si debba

ammettere anche, in concreto, nei casi in cui lo svolgimento e le acquisizioni del procedimento così come

precedenti atti dell’amministrazione escludano in sostanza ogni ulteriore margine di scelta, sì da lasciare

all’amministrazione una sola legittima possibilità di azione. Sono questi i casi che la giurisprudenza tedesca

vede quando “nur noch eine Entscheidung richtig (rechtsfehlerfrei) ist” e che si contrassegnano come

Ermessensreduzierung auf Null.

Lo spazio di valutazione che così si affida al giudice è assai ampio.

A ben vedere del resto la individuazione dei provvedimenti vincolati e la esclusione di possibili legittime

alternative al provvedimento in concreto adottato sono operazioni intellettuali connesse circolarmente: il

legislatore assume che l’esclusione di alternative sia la conseguenza della natura vincolata del

provvedimento; ma la natura vincolata viene riconosciuta ad un tipo di provvedimento in conseguenza

della valutazione (riservata appunto in ultima analisi al giudice) che la norma non consenta se non una

possibile soluzione ed escluda la possibilità di scelte diverse. Se il potere vincolato è quello che consente

all’amministrazione una sola decisione legittima, valutare se “il contenuto non avrebbe potuto essere

diverso” significa determinare insieme se il provvedimento è vincolato e se è legittimo. Si potrebbe dire

dunque che si tratta di valutare, alla fine, se il provvedimento vincolato sia “palesemente legittimo”.

Se dunque il giudice si convince che, trattandosi di un provvedimento non qualificabile come vincolato,

la regola dell’art. 21 octies non debba trovare applicazione, dovrà andare oltre nel giudicare sui motivi

formali proposti, che in questo caso continuano, anche da soli, a rendere direttamente annullabile l’atto.

Se invece ritiene che si tratti di provvedimento vincolato, il giudice deve (secondo un logico ordine di

esame delle questioni) proseguire valutando se il motivo formale, proposto dal ricorrente, sia fondato o no.

Se non lo è, non ha bisogno di andare oltre per valutare se (sia palese che) il contenuto dispositivo

avrebbe potuto o no essere diverso, dovendo direttamente e semplicemente respingere il ricorso perché

infondato.

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Se invece i motivi formali appaiono fondati, il giudice non li può accogliere, ma deve aprire la fase

“d’ufficio”, nella quale valuta se gli sembra “palese” che il provvedimento non poteva essere diverso.

La logica di questo accertamento è però ben diversa da quella che si richiede di solito al giudice. Non si

tratta di valutare la fondatezza di una o più contestazioni di legittimità, ma di chiedersi, per così dire “a

priori”, e mettendosi nei panni dell’amministrazione, se di fronte alla norma che disciplina il potere, lui

stesso, il giudice, avrebbe o no considerato di non avere altra scelta che adottare quell’atto così come in

concreto ha fatto l’amministrazione.

L’accertamento della assenza di alternative legittime al provvedimento diventa così il vero oggetto del

giudizio, e pare inevitabile, pur se a fatica compatibile con i principi del processo, che risulti quindi coperto

dal giudicato, indipendentemente dalla circostanza che tale accertamento sia stato o no chiesto da una

parte.

L’eccezione al principio della domanda potrebbe forse considerarsi meno grave se si vedesse la

disposizione in questione (anche) come una norma “di sanatoria”.

Si potrebbe infatti pensare che la disposizione della prima parte del secondo comma rappresenti allo

stesso tempo una norma destinata ad operare stabilmente (“a regime”, come si dice), e insieme una norma

transitoria, dettata per far fronte alle immediate contingenze del trapasso dalla vecchia alla nuova regola.

Nell’immediato (come norma di transizione alla nuova disciplina) e con riferimento alle controversie già

pendenti, la norma darebbe al giudice un potere officioso extra ordinem di integrazione o di modificazione

dell’oggetto del giudizio, da utilizzarsi per “smaltire” le questioni di legittimità formale già proposte, con

salvezza di tutti i provvedimenti della cui legittimità sostanziale il giudice si convinca.

A regime, e cioè con riferimento ad azioni proposte dopo l’entrata in vigore della norma e alla luce delle

sue previsioni, il potere officioso del giudice di allargare o di cambiare l’oggetto del giudizio, e di valutare

non l’illegittimità (formale) denunciata, ma altri profili, pur formalmente persistendo, dovrebbe rivelarsi

non più necessario. E’ ovvio infatti che i ricorrenti si guarderanno bene dal proporre censure di sola forma,

delle quali è ormai evidente che non sono in grado di ottenere l’annullamento voluto.

Il significato “percepito”, da giudici e cittadini (e voluto, dal legislatore), della nuova disposizione, e

quindi il suo contenuto “operativo”, sarà dunque che, nell’impugnazione di atti vincolati, i motivi di forma

non sono più ammissibili o comunque non vale la pena di presentarli.

La disposizione si traduce dunque in questa: chi agisce contro un provvedimento vincolato non può

limitarsi a sollevare motivi di forma o di procedura, ma ha l’onere di prospettare il diverso contenuto (a lui

favorevole) che il provvedimento avrebbe, secondo lui, dovuto avere (cfr. E. Follieri, L’annullabilità dell’atto

amministrativo, in Urbanistica e appalti, 2005, 627).

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Altro problema è poi se questa prospettazione si possa ricavare, per implicito, dalla vicenda: si potrebbe

anche dire che chi ha presentato domanda per ottenere un’autorizzazione, e se l’è vista negare, ricorrendo

contro il diniego, quali che siano i motivi di ricorso, agisca in sostanza per ottenere il provvedimento

negato, del quale quindi, anche se implicitamente, afferma la spettanza.

In conclusione: non può mancare nel ricorso l’indicazione del possibile contenuto favorevole che il

ricorrente si aspettava e quindi, con la contestazione dell’erroneità sostanziale del concreto

provvedimento, l’affermazione di una “pretesa”.

E la nuova norma vuole che comunque questa contestazione della legittimità sostanziale, e cioè, in

positivo, l’affermazione della spettanza, divenga l’oggetto del processo.

In ogni caso dunque oggetto principale del processo diventa la questione se, in base alla legge, avrebbe

dovuto essere adottato il provvedimento favorevole al ricorrente (e da esso richiesto) (o non adottato

quello a lui sfavorevole) o invece quello in fatto adottato dall’amministrazione.

Di fronte ad un atto vincolato, i motivi formali sono alla fine destinati a restare sempre e del tutto

irrilevanti.

Una volta dimostrato da parte del ricorrente o comunque accertato da parte del giudice che il

provvedimento era viziato nella sostanza, dato che non aveva il contenuto, favorevole al ricorrente, che

avrebbe dovuto avere, l’annullamento (direi) deve avvenire sulla base dell’accertamento che garantisce la

soddisfazione della aspettativa sostanziale del ricorrente, e quindi (solo) sulla base del vizio di sostanza,

mentre il vizio formale resta irrilevante, in quanto assorbito in quello sostanziale, il cui accoglimento fa

venir meno ogni interesse del ricorrente a sentir pronunciare anche sul vizio formale.

Se invece il vizio di sostanza non è dimostrato, il provvedimento non può essere annullato, e il vizio di

procedimento o di forma resta, comunque, irrilevante.

32. - La regola di non annullabilità per omissione della comunicazione di avvio

Quanto poi alla previsione del secondo periodo, riferito solo alla violazione della norma dell’art. 7 della

stessa legge n. 241, che impone come obbligatoria, per tutti i provvedimenti, la comunicazione di avvio, si

può ritenere intanto che quella disposizione riguardi solo i provvedimenti discrezionali, dato che per quelli

vincolati vale la frase precedente, che, fra “le violazioni di norme sul procedimento” comprende anche la

violazione della norma in tema di comunicazione di avvio. Si potrebbe però pensare che la regola valga

anche per gli atti vincolati, in subordine alla ritenuta non applicabilità della regola del primo periodo. Se si

ragionasse nel secondo modo, anche di fronte allo specifico vizio relativo alla comunicazione di avvio, il

giudice, in presenza di un atto vincolato, dovrebbe prima di tutto chiedersi se gli pare “palese” che il

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contenuto dell’atto non avrebbe potuto essere diverso. E se è così, respingere il ricorso. In mancanza del

carattere “palese”, subentrerebbe la possibilità (e l’onere) dell’amministrazione di dimostrare, per salvare il

provvedimento, l’assenza di alternative.

Colpisce innanzitutto la formulazione secondo la quale si tratta di dimostrare in giudizio, da parte

dell’amministrazione, che il contenuto del provvedimento “non avrebbe potuto essere diverso”.

Trattandosi di provvedimento rispetto al quale la legge attribuisce all’amministrazione poteri di

valutazione e di scelta discrezionale, una tale dimostrazione (che il provvedimento non avrebbe potuto

essere diverso) non ha alcun senso: per definizione il provvedimento discrezionale avrebbe potuto

(legittimamente, e anzi insindacabilmente) essere diverso, se solo l’amministrazione si fosse convinta che

l’interesse pubblico lo richiedeva diverso.

Si può immaginare che l’amministrazione affermi che il provvedimento non poteva essere diverso, ma

non che lo dimostri, dato che la valutazione della doverosità di un certo contenuto rispetto ad altri possibili

dipende dall’applicazione di criteri e di metri di valutazione relativi al merito esclusivamente affidati

all’amministrazione, e che il giudice non ha il potere di utilizzare direttamente. In tale condizione il giudice

non potrebbe quindi valutare se la dimostrazione sia stata raggiunta oppure no, sempre che gli aspetti

discrezionali non siano stati del tutto “esauriti” da atti intermedi del procedimento.

A pensare diversamente (come fa ad es. TAR Sardegna, 10 giugno 2005, n. 1386, il quale ritiene che

all’amministrazione tocchi “la dimostrazione oggettiva della impossibilità materiale o della inopportunità di

non incidere nella sfera giuridica del ricorrente”) si chiederebbe al giudice di dire se condivide le valutazioni

di opportunità compiute dall’amministrazione, che l’hanno spinta a scartare come peggiore o impraticabile

per l’interesse pubblico ogni soluzione diversa da quella seguita. Con ciò si attribuirebbe al giudice il potere

di valutare l’inesistenza di alternative opportune al provvedimento adottato, e cioè quello di giudicare il

merito discrezionale delle scelte amministrative.

A prendere alla lettera la disposizione, essa sembrerebbe quindi applicabile solo per gli aspetti vincolati,

per i profili di conformità del contenuto dell’atto alla legge che non lascino alcun margine, sì da consentire

di dimostrare l’inesistenza di qualsiasi legittima alternativa.

Con riferimento ai profili discrezionali dei provvedimenti, si deve “tradurre” la formulazione normativa e

intendere che il compito dell’amministrazione, per salvare dall’annullamento il provvedimento, sia in realtà

quello di dimostrare che anche se il privato pretermesso avesse partecipato al procedimento, la decisione

presa avrebbe potuto essere la stessa senza incorrere con ciò nel vizio della funzione discrezionale e cioè

nell’eccesso di potere. In sostanza l’amministrazione ha da dimostrare che la partecipazione del ricorrente

al procedimento non sarebbe stata significativa, non avrebbe ragionevolmente condotto ad una decisione

diversa.

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La dimostrazione della “impossibilità” che il provvedimento fosse diverso deve essere tentata,

dall’amministrazione, non in assoluto, ma con riferimento a puntuali dati di fatto nuovi o ad una definita

ipotesi alternativa di composizione degli interessi.

Il ricorrente, lamentando di non aver potuto partecipare al procedimento, per l’omissione della

comunicazione di avvio, dovrà quindi portare nel giudizio le allegazioni e le argomentazioni che avrebbe

portato nel procedimento, se ne fosse stato a conoscenza.

L’obiezione a questa soluzione potrebbe essere che così si aggrava il ricorrente, e che si trasforma il

processo in un procedimento dinanzi al giudice.

Ed effettivamente va detto che la soluzione davvero rispettosa del ruolo del processo e delle garanzie

del ricorrente sarebbe quella di considerare l’omissione della comunicazione di avvio come un vizio idoneo

in ogni caso a provocare l’annullamento dell’atto, almeno di quello discrezionale, potenzialmente

influenzabile dalle argomentazioni che il ricorrente non ha potuto proporre.

Sembra tuttavia che la volontà della norma sia chiara, nel senso di consentire sempre

all’amministrazione la dimostrazione della legittimità del contenuto del provvedimento. Se è così, pare

ragionevole che tale dimostrazione abbia almeno dei contenuti puntuali su cui appuntarsi dialetticamente,

anziché consentire all’amministrazione una generica difesa delle sue scelte.

Una lettura semplificatrice (a danno del ricorrente) e non rispettosa del dettato normativo potrebbe

addirittura concludere che tocchi al ricorrente provare che sarebbe stato in grado di portare elementi di

valutazione “idonei a incidere, in termini a lui favorevoli, sul provvedimento finale” (così TAR Puglia, Bari,

21 settembre 2005, n. 3953). L’onere di “dimostrazione” che la legge carica sull’amministrazione finirebbe

così per cadere, capovolto, come dimostrazione che il provvedimento avrebbe dovuto essere diverso, sul

ricorrente.

Si dovrebbe invece ribadire che l’omissione della comunicazione di avvio capovolge l’onere della prova,

rendendo di per sé annullabile il provvedimento, a meno che l’amministrazione non dimostri che il

provvedimento poteva essere ragionevolmente e accettabilmente lo stesso anche se le allegazioni del

ricorrente fossero state presenti nel procedimento. Al ricorrente spetta dunque indicare i fatti e gli

argomenti con cui avrebbe partecipato al procedimento, all’amministrazione dimostrare che quello che il

ricorrente avrebbe detto non rende comunque illegittimo l’originario esito del procedimento, che dunque

può essere mantenuto nonostante il vizio procedimentale.

Lo schema di ragionamento che emerge ci è ben noto: è quello che si percorre quando si valuta il vizio di

eccesso di potere, sotto una delle sue forme più caratteristiche.

In sostanza dunque il giudizio che in base al 21 octies si deve aprire quando venga denunciato, con

riferimento a provvedimenti discrezionali (o meglio, agli elementi discrezionali di un provvedimento), il

vizio derivante dalla violazione dell’art. 7 della legge n. 241, per omissione della comunicazione di avvio,

comporta che il giudice valuti se il provvedimento, così come è stato adottato, risulti irragionevole,

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indifendibile, sproporzionato, alla luce delle allegazioni di fatti e delle prospettazioni di interessi che

avrebbero dovuto trovare spazio nel procedimento e che invece solo ora, nel processo, sono state rese

possibili.

E quello che ci si aspetta dall’amministrazione (la dimostrazione…) si riduce quindi a questo:

argomentare la ragionevolezza, spiegare la accettabilità, del provvedimento nonostante si sia omesso di

tener conto delle allegazioni che emergono ora.

Anche qui dunque il processo, instaurato sulla base della denunciata violazione dell’art. 7 della l. n. 241,

sposta il suo oggetto su un diverso profilo.

Non essendo qui però previsto un potere officioso, e non riuscendo verosimile credere che spetti

all’amministrazione chiedere in via riconvenzionale (come invece ha ritenuto TAR Lazio, Latina, 10 giugno

2005, n. 534) l’accertamento della assenza del vizio, il ricorso deve arricchirsi di contenuti ulteriori, oltre

alla denuncia del vizio procedimentale.

Spetterà quindi al ricorrente mostrare al giudice quali prospettazioni e allegazioni egli avrebbe potuto

portare nel procedimento, perché il giudice si convinca che l’amministrazione, priva degli apporti di

conoscenza e di argomentazione che vengono ora presentati, non ha potuto ragionevolmente prendere

una buona decisione: ne risulta così una (esplicita o implicita) contestazione del vizio di eccesso di potere.

Toccherà all’amministrazione l’onere di dimostrare che tale vizio in concreto non sussiste, spiegando al

giudice come la scelta discrezionale compiuta con l’atto sia ugualmente ragionevole e accettabile,

nonostante le “nuove” prospettazioni del ricorrente.

L’amministrazione dovrà in sostanza o dimostrare che i fatti, gli argomenti e le prospettazioni di interessi

operate dal ricorrente erano già stati presenti nel procedimento, ed erano stati valutati nell’assumere la

decisione, ovvero spiegare le ragioni per le quali i nuovi argomenti non la inducono a modificare la sua

precedente decisione.

Si tratta quindi per l’amministrazione di costruire nel processo la motivazione della decisione già presa,

o meglio della decisione confermativa della precedente che prende lì stesso, nel confronto con le

allegazioni di merito del ricorrente.

Il giudizio cambia quindi natura e funzione: la previsione del 21 octies relativa alla comunicazione di

avvio trasforma in effetti il processo in un improprio procedimento di riesame, svolto sotto spoglie

processuali, e condotto dal legale dell’amministrazione e non dai suoi funzionari, ovvero in una sorta di

riapertura del procedimento, del quale una fase omessa si svolge “in diretta” sotto gli occhi del giudice

stesso, il quale subito dopo giudica se la motivazione è adeguata e se l’esito corrisponde a criteri di

ragionevolezza o pecca invece di eccesso di potere.

Quando la “dimostrazione” non vi sia o non riesca convincente per il giudice, non essendosi realizzata la

condizione (la dimostrazione che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso) posta dalla legge, di

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Daniele Corletto – Efficacia e invalidità dell’atto amministrativo

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per sé si dovrebbe procedere all’annullamento sulla base del vizio procedimentale dell’omessa

comunicazione di avvio.

Anche qui però non pare verosimile e sensato che si proceda ad accertare addirittura, alla luce delle

nuove allegazioni del ricorrente, la non accettabilità, sotto il profilo dell’eccesso di potere, della decisione

presa a suo tempo e confermata in giudizio, solo per farne un punto preliminare alla decisione sul vizio

procedimentale. Deve essere piuttosto il contrario, rimanendo il vizio formale assorbito o irrilevante una

volta accertato l’eccesso di potere.

L’art. 21 octies, in questa sua parte, trasforma dunque l’omissione della comunicazione di avvio da vizio

a sé, in ogni caso ragione di invalidità, in un indizio di eccesso di potere.

Sembrerebbe però più sensato che la affermazione del ricorrente di fatti e argomenti non valutati

dall’amministrazione portasse all’annullamento del provvedimento solo sulla base di una delibazione della

novità e della plausibilità delle nuove allegazioni, e non della loro decisività: in questo senso il TAR

Sardegna, 18 aprile 2005, n. 777, ha ritenuto che la prova richiesta dalla norma non sia stata raggiunta in un

caso in cui “le soluzioni difformi prospettate dal privato” (giudicate non prive di ragionevolezza) non

risultano essere state mai concretamente esaminate dall’amministrazione nel corso del procedimento.

Anche in questo caso il vizio procedimentale diventa in ogni caso irrilevante, rimanendo inevitabilmente

assorbito e superato dall’accertamento di sostanza.

Le previsioni dell’art. 21 octies si traducono dunque nella inammissibilità di impugnazioni basate

esclusivamente, per gli atti vincolati, su vizi procedimentali e formali, e per gli atti discrezionali, sul solo

vizio di violazione dell’art. 7 della l n. 241: la proposizione di tali vizi deve, appunto a pena di

inammissibilità, essere accompagnata dalla presentazione di doglianze relative al contenuto.

Ma i vizi formali sono destinati a rimanere sempre irrilevanti, ai fini dell’annullamento dell’atto: le

censure sostanziali, la cui fondatezza costituisce condizione perchè il vizio formale provochi l’annullabilità

dell’atto, una volta che le si ritenga fondate, assorbono in ogni caso il vizio formale; una volta che le si

ritenga infondate, impediscono ex lege l’annullamento per vizio formale.

33. - Il problema della definizione dei “vizi formali”

Si pone naturalmente il problema di individuare e definire i “vizi formali” e “procedimentali”. Vi è da

temere che si affermerà una nozione residuale, differenziale, di tali vizi.

Contro la nozione precisa di vizi formali come violazione delle regole giuridiche attinenti la forma, le

modalità dell’esternazione, degli atti, si afferma invece una nozione ampia comprendente tutti quei vizi

(violazioni di legge) che non hanno a che fare direttamente, che non toccano in sé, il contenuto del

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provvedimento, o l’an del provvedimento. Una tale ampia nozione copre quindi anche i vizi procedimentali,

come difetti dell’iter voluto dalla legge per l’adozione dell’atto.

Sono tali in questo senso il difetto della motivazione (l’assenza completa di essa, che si può considerare

vizio dell’esternazione, della forma che l’esternazione dovrebbe avere, che dovrebbe comprendere la

spiegazione dei fondamenti giuridici, dei dati di fatto e in generale delle ragioni dell’atto) ma anche la

insufficienza, lacunosità, povertà della motivazione, e più in generale ogni difetto di motivazione che in

quanto tale non viene visto come incidente sulla sostanziale fondatezza della decisione presa col

provvedimento. Le vecchie opinioni che dubitavano che per i provvedimenti vincolati la motivazione fosse

necessaria ne traggono nuovo alimento e quindi direi che l’obbligo di motivazione, nonostante le

affermazioni di principio della stessa legge 241, è finito.

Nella nozione di vizi di forma nel senso ampio e residuale accennato, potrebbe rientrare anche il vizio di

incompetenza. A tacere della circostanza che l’originario testo della proposta Cerulli-Irelli eliminava

direttamente il vizio di incompetenza, questione ritenuta evidentemente interna all’amministrazione e

ininfluente dal punto di vista dell’interesse dei cittadini, la riconduzione della incompetenza ai vizi formali, e

quindi la sua irrilevanza ai fini dell’annullabilità del provvedimento, torna perfettamente con l’impostazione

che vede offerta tutela ai cittadini solo nel caso che essi possano far valere una loro spettanza, una

posizione loro garantita nella sostanza direttamente dalla legge.

La giurisprudenza fa qualche resistenza, per la tradizione normativa (art. 26 TU Cons. St.) che voleva il

vizio di incompetenza assorbente e preclusivo dell’esame di ogni altra doglianza, e perché il tema della

competenza tocca le esigenze organizzative e funzionali dell’amministrazione. Del resto il rispetto delle

regole di competenza può rilevare anche sotto il profilo della garanzia dell’imparzialità (si pensi al problema

della ripartizione di competenza fra organi politici e dirigenti).

La disposizione del 21 octies può rappresentare un avallo alla tendenza a svalutare – di fronte a

previsioni normative dalle quali si ricavi una vincolante e diretta attribuzione di utilità (“spettanze”) al

privato – non solo il procedimento, ma anche lo stesso potere dell’amministrazione.

In quest’ottica, in tutti i casi nei quali si può pensare che la legge predetermini il risultato, stabilisca una

“spettanza”, attribuisca direttamente o automaticamente in presenza di certi presupposti un certo bene (o

un certo “male”) al cittadino, il potere, il provvedimento, e tanto più la forma e il procedimento, diventano

irrilevanti.

Quindi quando si possa dire che un potere è vincolato, quando l’amministrazione non ha spazi di

valutazione e di scelta, è del tutto irrilevante come si arrivi al provvedimento, e gli eventuali difetti dell’iter

seguito, e finisce in prospettiva per essere irrilevante anche il potere stesso e il provvedimento, il quale

forse addirittura (come il potere) già non c’è neppure più in senso proprio, come fattore produttivo degli

effetti, come volontà cui si riportano gli effetti. I quali invece sono da ricondursi interamente alla norma,

alla predeterminazione normativa.

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Sotto questo aspetto sarebbe del tutto paradigmatico l’istituto della DIA, come segno del venir meno

della rilevanza del procedimento, del potere, dell’atto e dell’amministrazione stessa, pienamente

sostituibile e fungibile, nelle sue funzioni di attribuzione di possibilità di azione ai privati, ora riportabili

direttamente alla norma e alla autoresponsabilità dei privati stessi.

34. - Il processo su atti vincolati come giudizio di (annullamento basato sull’accertamento

della) spettanza

La previsione della prima parte del comma, relativa al caso dei provvedimenti vincolati, produce poi

delle conseguenze sistematiche di notevole significato.

I provvedimenti vincolati possono infatti essere annullati solo se si dimostri o comunque risulti che la

corretta applicazione del diritto avrebbe condotto ad adottare un atto con il contenuto che il ricorrente

chiede, e cioè che al ricorrente “spettava” un provvedimento diverso da quello adottato. L’annullamento

avverrà, come si è detto, sulla base della ritenuta violazione delle norme sostanziali che “attribuivano” al

ricorrente il vantaggio da lui richiesto. Questa soluzione risponde certamente ad un principio di

ragionevolezza (come ha ritenuto G. Morbidelli, Invalidità e irregolarità, in Annuario AIPDA 2002, Milano,

2003, 79 ss., in part. 99).

Sono chiare però le conseguenze di questa scelta: il giudizio di annullamento di provvedimenti vincolati

diventa esclusivamente un giudizio di spettanza (per usare la fortunata espressione coniata da Falcon). Un

giudizio sulla “meritevolezza intrinseca” della pretesa del privato (v. A. Romano Tassone, Danno risarcibile e

situazioni giuridiche soggettive. Le radici di una problematica, in www.diritto-amministrativo.org).

L’annullamento dell’atto vincolato segue dunque (solo) alla valutazione della fondatezza della pretesa

del privato e trova solo in questa il suo fondamento.

Questa pretesa (la spettanza, ma in questo caso si può dire: il diritto, o la spettanza della pretesa a

conservare il diritto) è poi definitivamente assicurata nel caso di interessi oppositivi: l’accertamento della

illegittimità sostanziale dell’atto, con il suo annullamento, vincola l’amministrazione a non reiterarlo.

Nel caso di interessi pretensivi, l’annullamento dell’illegittimo diniego, basato sull’accertamento della

fondatezza della pretesa del privato al “bene”, vincola l’amministrazione a dare seguito positivo

all’originaria istanza, o nel caso questo non sia possibile, a risarcire il danno. In prospettiva ci si potrebbe

chiedere se la prossima tappa dell’evoluzione del processo amministrativo in questo tipo di controversie

non potrà essere il superamento delle strettoie del giudizio di annullamento e la esplicita e diretta

dichiarazione della “spettanza” del bene richiesto, o addirittura una pronuncia che tenga luogo del

provvedimento richiesto.

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Il giudizio su provvedimenti vincolati non ha quindi più a suo fondamento o a suo oggetto un interesse

legittimo e non ha neppure in senso proprio a suo oggetto l’illegittimità dell’atto.

Un solo tipo di illegittimità può infatti dar luogo all’annullamento, quella dalla cui dimostrazione risulta

provata la “spettanza” del provvedimento. Tanto da dover dire che non è l’illegittimità che porta

all’annullamento, ma è la violazione di una pretesa riconosciuta direttamente dall’ordinamento, la

violazione di una “spettanza”, la si voglia poi vedere come un diritto oppure no. Abbiamo quindi, nel caso

degli atti vincolati, un giudizio diretto e principale su una pretesa di provvedimento (nel caso di interessi

pretensivi) o sulla pretesa di non essere disturbati nei propri diritti dal potere (interessi oppositivi).

Forse però sarebbe troppo concludere che nel giudizio su provvedimenti vincolati non vi sono più

interessi legittimi, ma solo “spettanze” e cioè diritti, e che il processo amministrativo diventa, per questo

tipo di controversie, un processo di accertamento “del rapporto”.

Infatti si può contestare che si tratti di un “diritto”, ragionando sulla “direzione” delle norme e

ricordando quanto si sostiene tradizionalmente sul carattere “indiretto” ed eventuale della protezione

accordata agli interessi dei cittadini dalle norme che disciplinano i poteri della amministrazione.

Il potere, oggetto primario e diretto della disciplina, fa da diaframma, si interpone (anche se vincolato),

fra le norme e la soddisfazione dell’interesse del privato, ed impedisce di parlare in senso proprio di

posizioni dei cittadini direttamente ed incondizionatamente tutelate, alla stregua di diritti (ma non manca

chi ritiene che proprio di diritti si debba ragionare: L. Ferrara, Diritti soggettivi ad accertamento

amministrativo. Autorizzazione ricognitiva, denuncia sostitutiva e modi di produzione degli effetti, Padova,

1996; A. Orsi Battaglini, Attivita` vincolata e situazioni soggettive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, 3 e ss.).

Resta comunque il fatto che se la legge prescrive all’amministrazione un certo contenuto di un atto, e

questo contenuto soddisfa l’interesse di un soggetto, questo può in qualche modo dire che la norma “gli”

garantisce la soddisfazione dell’interesse, senza troppo preoccuparsi della “intenzione” della legge, cioè di

quale sia l’interesse che la norma è destinata primariamente e principalmente a tutelare, e senza chiedersi

se il suo interesse sia tutelato in sé, o se invece si tratti solo di una tutela riflessa, che egli ottenga senza che

propriamente gli “spetti”.

Come già si era notato a proposito della questione del risarcimento degli interessi legittimi si

sovrappongono e si unificano così i due piani, finora rimasti incomunicanti, della illegittimità del

provvedimento e della spettanza del provvedimento favorevole (G. Falcon, Il giudice amministrativo tra

giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in Dir. proc. amm. 2001, 298 e 301).

Come il risarcimento è dovuto se le norme fondano “ad un tempo un dovere dell’autorità e una pretesa

dei singoli”, così l’annullamento dei provvedimenti vincolati è pronunciato se risulta accertata la violazione

delle norme che fissavano il dovere dell’autorità di provvedere in senso favorevole all’interessato, ossia, più

brevemente, se è violato il “diritto” dell’interessato.

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Il legislatore subordina in questo caso l’invalidità alla spettanza, ricollegando l’invalidità alla violazione

delle sole norme che assicurano all’interessato l’utilità sostanziale.

La possibile trasformazione del processo nel senso di giudizio sulla pretesa sostanziale del privato può

leggersi poi, dall’opposto punto di vista, come una trasformazione del processo da giudizio sull’atto a

giudizio sulla sostanza della “pretesa” dell’amministrazione nei confronti del privato.

Congiungendo i due punti di vista, si dovrebbe arrivare a dire (come già la giurisprudenza inizia a fare)

che il processo diventa processo sul rapporto fra amministrazione e privato.

35. - Illegittimità e invalidità

Si pone il problema di qualificare sul piano della dogmatica, dei concetti di cui i giuristi si servono, come

sia da qualificarsi il provvedimento “non annullabile” in base alla regola del 21 octies, secondo comma.

L’uso corrente dei giuristi è, da un tempo che può sembrare immemorabile, di utilizzare le due nozioni di

illegittimità e di invalidità come sinonimi, come nozioni del tutto coincidenti.

Ciò perché vi è (o forse vi era) una corrispondenza biunivoca fra illegittimità e invalidità, nel senso che

l’illegittimità non ha, nel nostro sistema, altra conseguenza che l’invalidità, e l’invalidità non ha altra causa

che l’illegittimità.

Sulla base di questa idea di fondo, di fronte alla novità del 21 octies si è ragionato così: se illegittimità e

annullabilità sono la stessa cosa, e comunque non possono essere disgiunte e neppure concepite

separatamente, nel senso che i provvedimenti illegittimi sono (per definizione) e devono essere sempre

annullabili, allora, ove una norma disponga che i provvedimenti che si trovano in una certa condizione non

sono annullabili, ciò esclude di poterli qualificare come illegittimi.

Si è così proposto di ricorrere al concetto di irregolarità, come quella condizione dei provvedimenti che,

pur contrari a questa o a quella disposizione normativa, non potrebbero qualificarsi come illegittimi per

l’irrilevanza del difetto, che si presenterebbe come inadeguato a far considerare illegittimo il

provvedimento e a giustificarne l’annullamento.

Un’altra soluzione fa perno invece sul concetto di sanatoria per raggiungimento dello scopo, modellata

sullo schema dell’art. 156, 2, del c.p.c., riferita però non allo scopo della singola formalità omessa o viziata,

ma allo scopo sostanziale della norma attributiva del potere, alla realizzazione in fatto e nella sostanza,

nonostante le violazioni incorse, dell’interesse pubblico affidato all’amministrazione.

Secondo un punto di vista parzialmente diverso (F. Fracchia – M. Occhiena, Art. 21 octies, comma 2, in

La pubblica amministrazione e la sua azione, a cura di N. Paolantonio, A. Police, A. Zito, Torino, 2006, 617-

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618) si dovrebbe dire, con riferimento ai vizi del procedimento, che la adozione dell’atto finale della

sequenza procedimentale, avvenuta, da parte del titolare del relativo potere, nonostante la rilevata

presenza di difetti nell’iter procedimentale, sottintenda o comporti una volontà di sanare i vizi del

procedimento. La fattispecie non si potrebbe quindi caratterizzare come “invalida”. La valutazione

compiuta dal titolare del potere provvedimentale circa la corrispondenza del contenuto del provvedimento

a quello voluto dalla legge “romperebbe” la catena della invalidità derivata, che dal procedimento ricade

sull’atto finale di esso. Questo quindi nascerebbe legittimo, e dotato della capacità di sanare il precedente

procedimento.

Si è anche parlato di una sorta di sanatoria ex lege, come risultato diretto della volontà del legislatore di

non considerare illegittimi gli atti che nella sostanza e nel contenuto sono conformi alla legge. O anche di

una sanatoria giudiziale, operata dal giudice tramite l’accertamento dell’assenza di alternative al contenuto

del provvedimento.

Tutte queste proposte portano come risultato a negare che il provvedimento affetto da vizi di forma sia,

nelle circostanze individuate dall’art. 21 octies, illegittimo. O perché non lo si può definire tale fin

dall’origine, ma solo irregolare, o perché l’illegittimità, pur presente, viene poi in qualche modo, in un senso

ampio, “sanata”.

Si potrebbe però osservare che l’illegittimità di un atto non è “disponibile” per il legislatore: si tratta di

una qualificazione oggettiva che descrive semplicemente il fatto che vi è una difformità da una previsione

normativa. Non mi pare che il legislatore possa a suo piacimento dire che questa difformità c’è o non c’è:

quello che il legislatore può fare è (a parte l’opzione di fondo di eliminare le previsioni normative dal

contrasto con le quali discende l’illegittimità) decidere il regime legale di questa condizione di illegittimità,

definendolo con una sua decisione, sulla base di una sua scelta.

Mi pare in sostanza che si debba prendere atto che due sono le nozioni in gioco, quella di illegittimità e

quella di invalidità, e che fra le due non c’è una necessaria sovrapposizione. Se in passato si poteva

osservare che “finché in diritto positivo dalla illegittimità di un provvedimento amministrativo … discenderà

immancabilmente la sua invalidità … la illegittimità e l’invalidità costituiranno le due facce di una stessa

medaglia…” (A. Police, L’illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi c.d.

formali e vizi sostanziali, in Dir. amm. 2003, 742), ora sembra giunto il momento di ricordare che le due

nozioni, concettualmente distinte, sono legate fra di loro dal rapporto che lega la causa con la conseguenza:

l’illegittimità la causa, l’invalidità è la conseguenza. E precisamente quella conseguenza che il legislatore

sceglie, se crede, per non lasciare “impunita” o irrilevante la mancata obbedienza alle norme che aveva

dettato.

Del resto chi aveva studiato a fondo il concetto di invalidità (A. Romano Tassone, Tra diversità e

devianza. Appunti sul concetto di invalidità, in Studi in onore di V. Ottaviano, Milano, 1993, 1122) aveva già

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notato come la nozione di invalidità fosse caratterizzata da una duplicità di prospettiva, quella che accentua

il profilo causale (e quindi identifica l’atto invalido con quello difforme dal diritto), e quella che sottolinea

l’aspetto effettuale della nozione (e identifica perciò l’atto invalido come l’atto attualmente o

potenzialmente inefficace).

Si tratta ora, mi pare, di prendere atto della separazione delle due prospettive, e costringerci a rivedere

quella che non è, forse, se non una lunga e pigra tradizione di lessico. E del resto se si identifica la invalidità

con l’illegittimità, si è poi costretti a recuperare il dualismo dei concetti nel momento in cui ci si chiede quali

rapporti vi siano fra validità ed efficacia (G. Corso, Validità (dir. amm.), in Enc. dir., XLVI, Milano 1993, 88).

Può darsi infatti, alla fine, che si tratti solo di una convenzione linguistica, e che il problema sia appunto

solo quello di capirsi.

Ora è il legislatore stesso che ci dice che in alcuni casi il provvedimento, “adottato in violazione di

norme…”, e quindi per definizione illegittimo, non è però annullabile, e quindi è il legislatore che separa la

conseguenza della invalidità (annullabilità) dalla premessa dell’illegittimità.

Si tratta in fondo di prendere sul serio il significato delle parole, anche sulla base della loro etimologia:

illegittimo è ciò che si presenta “non legittimo”, non conforme a legge, “adottato in violazione di norme…”.

Invalido è ciò che non ha vigore, non ha resistenza, non ha la forza caratteristica dei soggetti della categoria

cui appartiene. Invalidus è ciò che è privo di forze, debole, malaticcio, che non è forte e sano, che non avrà

vita lunga.

Come l’efficacia di un atto esercizio di potere non è un dato di natura, ma è la conseguenza di una

attribuzione normativa, così l’invalidità è una conseguenza voluta, decisa dalla volontà del legislatore, se si

vuole, la sanzione di una difformità.

L’invalidità è insomma il regime che l’ordinamento riserva agli atti non legittimi, e precisamente è il

regime (normativo e non “naturale”) della loro efficacia.

L’ordinamento, o meglio, il legislatore non ritiene conveniente alla sua credibilità ed all’effettività dei

suoi comandi che un atto compiuto in spregio delle regole che lo disciplinano e alle quali si doveva

conformare sia in grado di produrre gli effetti che l’autore di esso voleva raggiungere, o almeno non vuole

che quell’atto produca i suoi effetti con la stessa permanenza e incontestabilità che vengono riconosciuti

agli effetti dell’atto conforme al diritto.

A seconda della gravità della violazione, o dell’importanza che il legislatore attribuisce alla norma

violata, l’invalidità può avere, se il legislatore lo crede opportuno, contenuti e regimi diversi.

Da noi, per lungo tempo (dalla sentenza 3 ottobre 1911 del Consiglio di Stato, già citata in a proposito

della nullità) si è ritenuto che l’unica forma di invalidità coerente con le esigenze di effettività e di certezza

dell’azione amministrativa fosse l’annullabilità. Ora anche per questo verso le antiche abitudini concettuali

ricevono un colpo. La nullità viene infatti ormai normativamente riconosciuta come uno dei possibili modi

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di essere dell’invalidità degli atti, quello più grave, nel quale la conseguenza del vizio sugli effetti è

originaria e radicale, tanto da escludere ab origine ogni efficacia dell’atto.

E’ tutta la catena di concetti, finora così strettamente collegati tanto da confondersi, che si rompe.

L’identificazione fra illegittimità e invalidità, e l’identificazione di quest’ultima con la annullabilità vengono

meno, perché abbiamo provvedimenti illegittimi ai quali la legge non conferisce il regime di invalidità, e

provvedimenti invalidi per i quali l’invalidità assume le forme e i contenuti della nullità, anziché della

annullabilità.

Una volta ammesso, sul piano concettuale, che le due nozioni di illegittimità e di invalidità siano distinte,

e fissato il concetto che il regime dell’invalidità non è una conseguenza “naturale” dell’illegittimità, ma è il

risultato di una ulteriore decisione normativa, vi è però da chiedersi quale senso e quale giustificazione

possa avere la scelta legislativa di tenere, anche praticamente, separate le due condizioni, contro una

tradizione che le collegava in maniera talmente stretta e automatica da indurre a fonderle nell’uso

linguistico.

Bisogna poi chiedersi se una tale scelta sia a sua volta legittima, dal punto di vista delle regole

costituzionali cui il legislatore non può mancare di portare rispetto.

Sotto il primo punto di vista si deve molto semplicemente ipotizzare che l’interesse del legislatore (o

dell’ordinamento) a dare garanzia ed effettività al principio di legalità dell’azione amministrativa,

“sanzionando” sul piano dell’efficacia degli atti le violazioni alle regole relative all’esercizio dei poteri

amministrativi, non sia considerato più così primario e assoluto come lo si riteneva finora. E che anzi

l’interesse alla garanzia della legalità venga in questo momento storico considerato, dal legislatore, di

minore peso rispetto all’interesse al più rapido ed efficace raggiungimento dei risultati che ci si aspetta

dall’azione amministrativa.

Sulla base di una siffatta valutazione di interessi, il legislatore sceglie di privilegiare, su quello alla legalità

e sulla conseguente tutela del privato che ha interesse a far valere la violazione occorsa, l’interesse alla

conservazione dell’atto e al raggiungimento degli scopi dell’azione amministrativa.

Bisogna probabilmente prendere atto che si è perso, nell’ordinamento e anche nel sentire comune, il

senso della legalità come valore in sé, che non si deve più la legalità come sola fonte di legittimazione del

potere dell’amministrazione, e che si è abbandonata l’idea che il miglior agire dell’amministrazione richieda

il rispetto minuzioso di ogni regola. Con ciò sono venute meno le basi culturali a fondamento del

tradizionale automatismo che vedeva collegati indissolubilmente la illegittimità, qualunque tipo di

illegittimità, e l’invalidità del provvedimento.

Restano naturalmente i dubbi sulla legittimità costituzionale di una tale scelta.

E non tanto sotto il profilo della violazione del primo comma dell’art. 113 Cost., dato che si potrebbe

ben sostenere che la garanzia costituzionale della tutela dell’interesse legittimo sia compatibile con una

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evoluzione dei confini e del contenuto di quella posizione soggettiva, quanto sotto il profilo della

“limitazione a particolari mezzi di impugnazione”, di cui al secondo comma dello stesso art. 113.

Può essere interessante ricordare la situazione normativa di cui la Corte costituzionale ebbe occasione di

occuparsi (per dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma) con la sent. n. 40 del 1958. Nella legge

istitutiva della IV sezione del 1889 si escludeva che certi tipi di atti (le decisioni ministeriali in materia di

controversie doganali) potessero impugnarsi per violazione di legge, limitando la ricorribilità di tali decisioni

ai vizi di incompetenza e di eccesso di potere (inteso allora come “difetto di potere amministrativo”). I

lavori preparatori della legge giustificano questa previsione con la considerazione che “la maggiore tutela

degli interessi individuali sarebbe riuscita irreparabilmente dannosa alla difesa ed all'economia sociale”.

Quindi si tratta, allora come oggi, di una valutazione (della stessa valutazione) di interesse pubblico: nel

possibile contrasto fra la difesa degli interessi individuali (per il tramite di un rigoroso rispetto della legalità)

e il perseguimento dell’interesse pubblico, è la prima che il legislatore sceglie di limitare.

Né varrebbe obbiettare che qui la limitazione non toccherebbe la ricorribilità, quanto il regime

sostanziale degli atti. All’evidenza infatti non si tratta che di due modi diversi di descrivere una stessa

situazione.

In conclusione dunque si potrebbe dire che il legislatore ha ridefinito con la novella legislativa il rapporto

fra l’illegittimità e la invalidità, decidendo che il regime dell’invalidità, nella forma dell’annullabilità, non

consegua a certe forme di illegittimità.

Avendo ritenuto non corrispondente all’interesse pubblico considerare annullabile un provvedimento

illegittimo per ragioni di illegittimità che non toccano il contenuto provvedimentale, ha ritenuto cedevole,

non meritevole di tutela in questi casi l’interesse (legittimo) del privato ad ottenere l’annullamento in

ragione di quei vizi. O, si potrebbe dire, ha ridefinito il concetto di interesse legittimo nei confronti di certe

categorie di provvedimenti, restringendolo alla violazione di norme che conferiscono al privato una utilità

sostanziale.

36. Interesse legittimo in trasformazione (o in crisi)

E con l’ultima osservazione arriviamo alla conclusione di questo nostro lungo discorso. La novità del 21

octies ci costringe a rivedere la nozione di interesse legittimo, almeno quanto ai provvedimenti vincolati: al

centro del giudizio su provvedimenti vincolati sembrerebbero non esservi più interessi legittimi, ma solo

“spettanze” e cioè diritti.

Si era a suo tempo capito (A. Romano Tassone, I problemi di un problema. Spunti in tema di risarcibilità

degli interessi legittimi, in Dir. amm. 1997, 63) che si andava ormai nel senso de “l’impossibilità di dedurre

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motivi meramente formali che non diano alcun conto della meritevolezza e fondatezza della posizione

giuridica (e della correlata pretesa) fatta valere”.

E già si era preconizzato che l’esito dell’evoluzione in corso sarebbe stata “la inammissibilità nel ricorso,

dei motivi che non si ricolleghino alla violazione da parte del provvedimento impugnato di norme di cui non

sia percepibile una correlazione con gli interessi del ricorrente” (così A. Romano, I caratteri originari della

giurisdizione amministrativa e la loro evoluzione, in Dir. proc. amm. 1994, 635 e ss., in partic. 701).

Nello stesso senso andava già del resto il riconoscimento della risarcibilità dell’interesse legittimo o

meglio dell’interesse-diritto al provvedimento, anche nella forma attenuata e probabilistica della chance.

Anche su quel versante infatti il carattere solo strumentale aveva lasciato il campo al riconoscimento di una

pretesa direttamente tutelata.

E non è affatto casuale che la dottrina che ha ragionato sulla sent. n. 500 del 1999 della Corte di

Cassazione abbia notato come proprio nel caso dell’attività amministrativa vincolata si desse con certezza il

presupposto per riconoscere il risarcimento, dato l’esito scontato del “giudizio prognostico” diretto a

stabilire se, in base alla normativa di settore, “il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa,

come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa

la sua conclusione positiva”.

Così l’interesse-diritto al provvedimento, che configura “una vera e propria pretesa al provvedimento”,

che ricorre “certamente in caso di attività amministrativa vincolata” (G. Falcon, Il giudice amministrativo tra

giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, cit., 303 nota) e che dà fondamento, ove resti

insoddisfatta, ad una pretesa risarcitoria, si pone esattamente nella stessa logica dell’interesse-diritto al

provvedimento (con la spettanza del provvedimento favorevole) che l’art. 21 octies vuole al centro della

cognizione nel caso di impugnazione di atti vincolati.

L’uno e l’altro caso mostrano parallelamente una drastica evoluzione (o addirittura un mutamento

genetico) dell’interesse legittimo.

Ma si potrebbe andare oltre ed immaginare che la valutazione della illegittimità formale (o addirittura

della illegittimità come conformità a norme) sia recessiva e destinata a scomparire anche quando il

processo amministrativo abbia ad oggetto provvedimenti discrezionali.

E non solo per le prevedibili attitudini espansive del concetto di “provvedimenti vincolati”, o per il

possibile “contagio” della “cultura” dell’irrilevanza dei vizi formali, che non potrà restare confinata ad una

certa serie di controversie.

Ma soprattutto perché pare di poter leggere nelle linee evolutive del processo sull’uso del potere

discrezionale la progressiva tendenza a farne un processo che si risolve nella valutazione (spesso anche

sintetica e diretta) della ragionevolezza dell’uso del potere, della sua accettabilità sociale, tecnica,

economica. Sempre più il giudizio sui provvedimenti discrezionali, imperniato ormai sull’eccesso di potere,

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si avvicina ad un giudizio di merito, sia pure ragionato e rigoroso, e non “capriccioso” e soggettivamente

arbitrario.

In questo tipo di giudizio i vizi di procedimento, ma più in generale i vizi di violazione di legge, finiscono

per avere solo la funzione di un sintomo, di un indizio del cattivo uso del potere. Come segni di slealtà, di

prevaricazione, di arroganza, o di trascuratezza e cialtroneria del potere. Essi però, di fronte ad un giudizio

complessivo di accettabilità, di ragionevolezza dell’uso della discrezionalità, del risultato di questo uso, non

hanno più o perderanno ben presto rilievo autonomo.

In questo quadro si può immaginare che la violazione di legge costituisca da sola ragione di

annullamento solo quando sia in sé sufficiente a destare un “allarme sociale” o un risentimento di opinione

pubblica, o quando abbia dei riflessi organizzativi per la stessa pubblica amministrazione (ed ecco perchè il

vizio di incompetenza potrebbe non essere ricompreso fra i vizi “formali”).

L’interesse legittimo è sempre più (come pronosticava A. Romano) quell’interesse sostanziale che è

tutelato se sono violate le norme che lo prendono in considerazione, che c’è, come posizione difendibile, se

l’illegittimità denunciata lo lede.

L’interesse legittimo si sostanzializza davvero, non è più l’interesse indiretto ad avere i vantaggi

dell’annullamento “facendo valere”, a tutela dell’interesse privato, la violazione di norme dirette a tutelare

l’interesse pubblico, ma è solo l’interesse a vedersi riconoscere i vantaggi e le posizioni che la norma

garantisce proprio al privato.

Quindi da una parte l’interesse legittimo si dissolve nella logica della spettanza, e cioè del diritto. E per

questo verso scompare, anche se si tratta pur sempre di un diritto che si confronta con il potere, e che

richiede tecniche di accertamento e di valutazione che certo non sono quelle dei diritti civilistici.

Dall’altra parte l’interesse legittimo si trasforma nella pretesa ad un comportamento leale, e a scelte

ragionevoli, proporzionate e non vessatorie. E anche per questo verso si “sostanzializza”.

Pur nell’impossibilità di condurre a giudizi di spettanza, di fronte al potere discrezionale, la pretesa o

l’aspettativa che l’interesse legittimo veicola è riferita al contenuto delle scelte, alla loro sostanza, mentre

la violazione di prescrizioni formali viene in questione come sintomo, indizio, della sleale privazione di una

possibilità di spettanza, e non come difetto dell’atto di per sé decisivo.

L’interesse legittimo non comporta più la possibilità di “servirsi” di qualunque illegittimità, in vista di un

interesse la cui soddisfazione non può essere garantita se non quando coincida con la soddisfazione

dell’interesse pubblico, e cioè con la legalità.

E ciò perché è venuto meno il bisogno dell’ordinamento di servirsi degli interessi dei cittadini per

ristabilire la legittimità, per difendere il principio di legalità.

L’interesse legittimo figlio e strumento del principio di legalità ha cambiato volto perché viene meno il

suo presupposto, e cioè il principio di legalità così come si configurava quando l’interesse legittimo è nato e

ha conosciuto i suoi fasti.

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E’ venuta meno l’idea della giurisdizione oggettiva, come è venuta meno la rilevanza del principio di

separazione dei poteri. E inoltre è venuta meno l’idea che il rispetto della legalità si identifichi

automaticamente con il trionfo dell’interesse pubblico.

Ma l’interesse legittimo scompare anche perché non c’è più bisogno di lui. Nasce come modo di

ottenere una tutela necessariamente occasionale, riflessa, indiretta, di fronte ad una amministrazione

insindacabile. Se si può ora rivalutare la sostanza delle decisioni, stringere d’assedio il merito delle scelte,

verificarne la correttezza e la difendibilità, non c’è più bisogno di conservare quella tutela indiretta e

imprecisa, che talvolta ottiene troppo (l’annullamento, quando non c’è spettanza) e talvolta troppo poco

(l’annullamento, quando c’è spettanza).

Si può quindi immaginare che come risultato della evoluzione in atto, della quale pare che anche la

previsione del 21 octies sia un passaggio significativo, si possa arrivare ad un assetto di giustizia

amministrativa che, per i provvedimenti vincolati (nel senso ampio cui si accennava), giudica sulla

spettanza; e per quelli discrezionali valuta direttamente (nel merito….) il buon uso del potere, assumendo i

vizi procedimentali e di forma come indizi del contrario.

37. Conseguenze concrete

Se ci chiediamo quali conseguenze possano discendere dalla nuova disposizione, dobbiamo forse prima

di tutto pensare a degli effetti di tipo “culturale”, di atteggiamento, a conseguenze potremmo dire

“pedagogiche”.

La conseguenza più grave che si può prospettare è l’alimento che può venirne all’idea della irrilevanza

del procedimento.

In prospettiva, l’attività ora regolata come procedimento diventa al limite del tutto informale, non

partecipata, segreta, “privatizzata” o “aziendalizzata”, purché risulti alla fine che il “risultato”, l’assetto

finale, era quello che la legge voleva (secondo la valutazione a posteriori condotta dal giudice).

Potrebbe esserne così incoraggiata una tendenza al venir meno delle garanzie, dalla partecipazione alla

motivazione.

Un primo risultato mi pare certo: l’obbligo di motivazione dei provvedimenti vincolati è colpito a morte;

la regola dell’art. 3 della l. n. 241 è vanificata e resa irrilevante per una ampia serie di atti. Di questo già ci

sono univoci e assai diffusi segni nella prima giurisprudenza sull’art. 21 octies (TAR Abruzzo – Pescara, 13

giugno 2005, n. 394; TAR Sardegna, 15 luglio 2005, n. 1653; TAR Sicilia – Catania, 18 agosto 2005, n. 1325;

TAR Campania – Salerno, 4 maggio 2005, n. 760), che seguono ai dubbi già a suo tempo emersi sulla

necessità della motivazione per atti vincolati.

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Vi è poi da temere che lo spirito di irrilevanza del procedimento e delle forme non si fermi entro i confini

degli atti vincolati, e divenga cultura e atteggiamento dell’amministrazione.

Non meno preoccupante è la messa in discussione, anche per i provvedimenti discrezionali, della

garanzia rappresentata dalla partecipazione degli interessati al procedimento: con il principio che i

provvedimenti possono, in sostanza, essere adottati senza che gli interessati siano stati messi in condizione

di partecipare, purché si riesca a motivare a posteriori il provvedimento comunque adottato, non solo si

rinuncia a un punto fondamentale della legalità procedimentale, ma si mette a rischio la stessa qualità delle

decisioni dell’amministrazione, che è autorizzata a rinunciare, privandosi dell’apporto degli interessati, ad

uno strumento insostituibile di acquisizione di elementi conoscitivi e di punti di vista.

Nella prassi, sia pure ad una osservazione non “scientifica”, pare di poter notare una tendenza delle

amministrazioni ad allargare la nozione e l’ambito degli atti vincolati, ai quali la previsione del 21 octies, 2,

prima frase, si applica. Non riservando affatto tale nozione a quegli atti i quali risultino necessariamente e

doverosamente da emanare in presenza di presupposti univoci, chiaramente e indiscutibilmente accertabili

per la loro semplicità ed evidenza, ma estendendola a tutti quegli atti, anche risultato di valutazioni

complesse e opinabili, per le quali la legge disponga un qualche profilo o aspetto di doverosità.

In secondo luogo sembra emergere la tendenza a adottare la nozione più ampia di vizi formali.

In assenza della previsione della sanzione dell’annullamento, molti uffici già ignorano il dovere di

comunicare l’avvio del procedimento, quello di comunicare il preavviso di rigetto dell’art. 10 bis, quello di

motivare i provvedimenti. Una massiccia regressione, una perdita progressiva e che si teme imponente del

senso del procedimento come sede del confronto leale degli interessi, dell’accurato e paziente

accertamento dei dati di fatto, come necessaria e trasparente costruzione partecipata e condivisa

dell’esercizio del potere.

Ma non stupisce: che senso ha prevedere, da un lato, delle regole, per poi dire che la loro violazione non

ha in pratica conseguenze? E’ ragionevole svalutare il principio di legalità, consentendo che vi siano delle

norme, vigenti, ma non più sanzionate in nessun modo?

Sembrerebbe una scelta perdente e contraddittoria.

Sarebbe più ragionevole invece eliminare le norme il cui rispetto non sia ritenuto indispensabile, sfoltire,

tagliare, ridurre, semplificare le previsioni procedimentali e formali. Lasciando in vigore solo quelle

considerate veramente necessarie per il bene di tutti, indispensabili per il funzionamento del sistema e per

il rispetto dei diritti dei cittadini, sanzionando pienamente e rigorosamente la loro inosservanza.

Invece si lascia in vigore tutto il castello delle norme che il legislatore stesso sembra considerare

superflue, svalutando però le conseguenze della loro violazione. Si fa in questo modo della cattiva

pedagogia nei confronti della amministrazione.

Si fa fatica a considerare positivo questo risultato.

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