DALLA SABBIA E DAL FUOCO Murano e il suo vetro · fascista e negozi di scarpe e d’abbigliamento....

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DALLA SABBIA E DAL FUOCO Murano e il suo vetro MAZZUCCATO s.r.l. edizioni Alessandro Marzo Magno

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DALLA SABBIA E DAL FUOCOMurano e il suo vetro

MAZZUCCATO s.r.l.

edizioni

Alessandro Marzo Magno

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Idea: Daniele MazzuccatoProprietà Mazzuccato s.r.l.ramo da Mula, 5/1 - 30141 Murano - Vewww.mazzuccatomurano.it

Testi di Alessandro Marzo MagnoTraduzioni di Frederika GebhardtFotografi e di Elio Borotto/PoligraphProgetto e layout di Maurizio Garofalo

Stampato presso Linea Grafi ca s.r.l.via della Borsa, 9 - 31033 Castelfranco Veneto - TvAprile 2011

Tutti i diritti riservati

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VIVERE DENTRO UNA CARTOLINA pag. 6

L’AVVENTURA DEL VETRO pag. 9

DAL BADILE AL MAESTRO pag. 27

E LUCE FU pag. 39

GLI ALTRI MESTIERI DEL VETRO pag. 53

FORNACI E DINTORNI pag. 71

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VIVERE DENTRO A UNA CARTOLINA

Raccontare cosa sia Murano a chi non conosce la realtà dell’isola è un’im-presa davvero impegnativa, specialmente quando bisogna – come ora

– rimanere in uno spazio contenuto. Per farlo, poi, è necessario raccontare anche cosa sia stata la circoscritta realtà isolana, almeno fi no a qualche anno fa. Oggi somiglia molto a una cartolina; beninteso, noi muranesi per primi l’abbiamo trasformata nell’immagine che gli altri volevano vedere, del luogo in cui da mille anni si fa vetro. Però, per darvi un’idea di come potesse essere anche solo una quarantina d’anni fa, sappiate innanzitutto che era strapiena di bambini.

Che aveva negozi di frutta e di giocattoli; l’elettricista, il fotografo, il barbiere (anzi, più d’uno, in cui gli uomini andavano più per farsi una chiacchierata che per tagliarsi i capelli); aveva il meccanico per i motori fuoribordo e un’enorme pasticceria, il pescivendolo nostalgico del regime fascista e negozi di scarpe e d’abbigliamento. I ragazzini si tuffavano dai ponti e – in generale – si vedevano molte più barche a remi di quante se ne contino oggi. Verso sera, d’estate, le donne più anziane sedevano in calle, a scambiare due parole e prendersi il fresco. Quando le grandi imbarcazioni scaricavano la bianca sabbia fi ne che serve all’impasto vetroso ne rimane-va sempre un po’ sulle rive. A Natale la usavamo per il presepe: un bianco fi ne deserto di silice. Forse accade ancora oggi, così come è ancora possi-bile, talvolta, sentire d’inverno l’odore del bisato su l’ara che esce dalle fornaci che ancora lo cucinano, direttamente alla bocca dei forni.

Mi rendo conto che anche questa è un’immagine da cartolina; me ne ren-do conto tanto più quanto mi allontano da quel tempo: una sorta di paese in cui al posto della miniera ci sono le fornaci; in cui ogni capofamiglia esce presto di casa al mattino e torna stanco la sera; eppure era così, anche solo trent’anni fa: un po’ fuori del tempo, ne converrete. E in questa raffi gura-zione idillica molti di noi sono cresciuti, e diventare grandi tra l’acqua della

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laguna e il fuoco dei forni è stato per noi la più naturale delle infanzie.Oggi tutti quei negozi hanno lasciato il posto a botteghe di vetro; l’iso-

la, come Venezia, ha perso molti dei suoi abitanti; la monocultura che ha governato per secoli i destini di Murano ha preso il sopravvento, perché i tempi non sono stati favorevoli (oppure lo sono stati troppo), perché siamo stati forse poco accorti, perché in fondo doveva andare così. Non leggete queste righe col senso di rimpianto di chi vorrebbe tornare a quei tempi. Ogni tempo ha la sua bellezza, ogni accadimento il suo signifi cato. E io mi tengo stretta la mia infanzia come un dono prezioso, irripetibile, che mi ha reso l’adulto che sono. Con la visione di mio nonno che, sul prato di casa (si era ricavato un fornetto a fi anco dell’abitazione), lavora il vetro seduto sul suo scranno da maestro in mezzo all’erba. Mi accompagna ancora oggi.

Oggi, appunto. Oggi il vetro è – molto più di ieri – tutto ciò che ci rimane, e che giustifi ca una storia lunga e importante della quale siamo depositari. Quindi è assolutamente necessario che sempre più persone lo conoscano, e che assieme al “prodotto”, tanto per usare un’espressione abbastanza in voga, si approprino anche della storia e della tradizione che accompagna ogni creazione, anche la più avanguardistica.

Perché quando nasce un oggetto in vetro, a Murano, questo non è solo il frutto dei gesti abili di un maestro vetraio: a plasmarlo sono le mani delle migliaia di persone che hanno fatto questo mestiere prima di lui, spesso suo padre, suo nonno, e prima di loro il padre del nonno, e via così. Una catena imprescindibile e infi nita che ci rende depositari di una “saggez-za” millenaria quasi incarnata nei gesti. Come se i movimenti non fossero dettati dalla pratica quotidiana, ma in qualche modo fossero impressi nei cromosomi; come se perfi no una genetica dell’anima si specchiasse nella gestualità del vetro, nel sentirlo, nel rispettarlo e nell’amarlo come materia viva; nel percepirlo prima che diventi qualcosa, mentre rosseggia bollente nel crogiuolo.

Un calore che anche una persona come me, che il vetro in realtà non l’ha mai lavorato, porta dentro al petto. Una gestualità che rimane anche se non si regge una canna, o un paio di borselle. Una dimensione da car-tolina, è vero. Ma anche quando appare un po’ patinata, quella cartolina non riesce a nascondere l’incredibile patrimonio di creatività e bellezza che alberga sulle rive dell’isola. E che ci rende orgogliosi di essere – oggi – uno degli anelli di una preziosa catena saldamente ancorata al passato, e proiettata comunque verso il domani. Possedere un oggetto in vetro di Murano signifi ca aver acquisito un bene di consumo, spesso di valore. Sa-pere come nasce, da dove arriva e cosa rappresenta all’interno di questa catena, signifi ca possedere la Storia. E, questo, davvero non ha prezzo.

ALBERTO TOSO FEI

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L’AVVENTURA DEL VETRO

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Chi dice Murano dice vetro. Almeno dal 1290, da quando cioè la Sere-nissima repubblica dispose di trasferire sull’isola tutta la produzione

per impedire che andasse arrosto l’intera Venezia, qualora una fornace avesse preso fuoco.

Da allora, ovvero da 720 anni, Murano ha legato la sua esistenza a questo materiale un po’ strano, perché è solido, ma ha la struttura di un liquido (“fl uido ad alta densità”, sarebbe la defi nizione esatta); perché è fragile, ma se nessuno lo scaraventa a terra può conservarsi quasi intat-to per secoli; perché nasce dal fuoco, ma serve soprattutto a contenere liquidi.

Il vetro come lo conosciamo noi ha origine nell’antico Egitto ed è sviluppato dai Romani, con tecniche che verranno riprese e riproposte proprio dalle fornaci muranesi (le perline a vari colori, dette “murrine”, come vedremo più avanti). La sapienza della materia si conserva grazie a Bisanzio e agli splendidi mosaici che ornano le basiliche della capitale dell’impero romano d’Oriente.

Perché proprio Venezia sia destinata a diventare la capitale europea del vetro non è dato sapere. In realtà, se ci si pensa bene, le lagune medie-vali sembrano proprio il luogo meno adatto per sviluppare questo tipo di lavorazione: manca la legna da ardere per alimentare le fornaci; la ma-teria prima, ovvero la silice, bisogna importarla (per secoli sotto forma di ciottoli di fi ume, che oltretutto è necessario macinare prima di metterli nel crogiolo per fonderli); l’unica cosa che forse ci si riesce a procurare con facilità è la barba di frate, o agretto, un’erba – oggi apprezzata in cu-cina – che una volta ridotta in cenere costituisce l’altro elemento base da mescolare alla silice per ottenere il vetro (ma nel XIII secolo questa cene-

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re si importava dal Medio Oriente). Ai nostri giorni si utilizza la soda di Rosignano Solvay, l’unico componente del vetro a non essere importato. La soda è un “fondente”, ovvero abbassa a 1400 gradi il punto di fusione che altrimenti per la sola silice sarebbe a 1700 gradi.

Non sappiamo nemmeno con precisione se le popolazioni romane che fuggivano davanti all’incalzare dei barbari e cercavano rifugio nelle inaccessibili isolette del litorale nord Adriatico portassero con sé questo antico sapere. Negli scavi archeologici, da Adria ad Aquileia (quest’ulti-ma ridotta oggi a un minuscolo paesello, al tempo la quarta città dell’im-pero romano), emergono sì oggetti in vetro, ma non abbiamo idea se fossero lavorati proprio lì o importati dal Mediterraneo orientale, dalla Siria, dall’Egitto, dove di sicuro il vetro veniva prodotto. Eppure...

Eppure a Venezia si fanno fuoco e fi amme per ottenere questo mate-riale. Probabile che alla base di tutto ci siano i mosaici, quelli che ancor oggi ornano le basiliche di San Marco, di Torcello e di Murano. Venezia per starsene per i fatti suoi e non avere troppo a che fare con Sacro roma-no impero che imperversava in terraferma, si sviluppa come provincia bizantina. E le sue chiese più importanti non riprendono tanto il modello degli edifi ci romanici dell’entroterra, quanto piuttosto lo stile della ca-pitale di riferimento, ovvero Costantinopoli, e del più vicino capoluogo dell’esarcato bizantino, cioè Ravenna. Molto probabile che all’inizio le tessere vitree necessarie a comporre i mosaici siano importate, ma da un certo punto in poi qualcuno si mette in testa di produrle. Sono i benedet-tini, i monaci che hanno come motto ora et labora e tra i lavori svolti non disdegnano quelli artigianali. Che i primi vetrai indossassero tunica e scapolare non è comprovato, ma è assolutamente possibile.

Siamo ancora in una fase in cui si importano semilavorati, ovvero blocchi di vetro grezzo prodotti in Levante e rifusi una volta giunti a de-stinazione. Le navi romane affondate, oltre alle consuete anfore, hanno sempre a bordo alcuni di questi blocchi che qualche volta sono anche stati sottratti e usati per realizzare falsi vetri antichi. Quando con preci-sione si siano cominciati a importare sassi del Ticino e dell’Adda (cogoi in veneziano) da macinare per ottenere la silice, è un altro buco delle nostre conoscenze storiche.

Quel che sappiamo, invece, è che in un tempo assai lontano un doge decide di fare ai benedettini un prezioso regalo di Natale: il terreno dove erigere un nuovo monastero. Il 20 dicembre 982 il doge Tribuno Memmo dona ai monaci la chiesa e l’isola di San Giorgio, giusto dirimpetto a Piazza San Marco (ancor oggi monastero benedettino, la chiesa attuale è di Palladio). Tra i nomi di cittadini insigni chiamati a testimoniare l’e-

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vento c’è quello di un tal Domenicus fi olarius, ovvero fabbricante di fi òle, bottiglie. Il che ci dice due cose: che il vetro si lavorava e pure che si sof-fi ava, perché le bottiglie sono cave, essendo destinate a contenere liquidi. Questa, di mille e ventinove anni fa, è la prima citazione scritta di un ve-traio a Venezia. Ce ne sono altre due, un po’ meno antiche, ma sempre di un’età rispettabile: un secolo dopo, nel 1087, riguarda ancora una volta al monastero di San Giorgio, tra i testimoni di un’ulteriore donazione viene citato un tal Petrus fi olarius; nome che si ripete – probabilmente si tratta della stessa persona – in un documento successivo di tre anni, del 1090. Interessante notare che le prime tre testimonianze scritte della presenza del vetro a Venezia abbiano a che fare con i benedettini.

Facciamo un balzo di un paio di secoli per arrivare alla IV Crociata. Nel 1204 Venezia la combina davvero grossa: anziché portare i cavalie-ri franchi a Gerusalemme, li devia alla conquista di Costantinopoli. A guidare le truppe cristiane c’è il doge in persona, un vecchietto arzillo assai, visto che Enrico Dandolo è quasi centenario. Il saccheggio è im-mane: i cristiani d’occidente fanno scempio della capitale dei cristiani d’oriente. Tanto per dire, aprono le tombe degli imperatori, che avevano status divino e venivano sepolti assisi su un trono d’oro, nonché vestiti di porpora – colore solo a loro riservato – e coperti dei gioielli distintivi del loro rango, per pigliarsi l’oro e poi gettarne gli scheletri ai cani. A Venezia arriva di tutto, a cominciare dai quattro cavalli di bronzo che ancor oggi si trovano nella basilica di San Marco e al tempo ornavano l’Ippodromo di Costantinopoli. È molto probabile che giunga anche una notevole quantità di tessere da mosaico, e le scorte dureranno un bel po’ perché i primi tentativi di fabbricare tessere dorate avverranno soltanto nel Quattrocento.

Sappiamo da statuti marittimi e da contratti che nel Duecento le navi veneziane provenienti da Medio Oriente caricano rottami di vetro come zavorra. Un capitolare del 1271 già distingue alcune categorie: padroni di fornace, maestri e operai. Alla prima possono appartenere soltanto i cittadini del dogadum, ovvero la sottile striscia di litorale che va da Grado a Cavarzere che costituisce il territorio primigenio della Repubblica di San Marco. Sappiamo anche che i fi olari possono bruciare legna di onta-no e di salice – per qualità diverse devono fare richiesta – e che l’anno lavorativo è stabilito in sette mesi continui, per dar modo di restaurare o sostituire le fornaci nei cinque di riposo.

Nel 1290, come detto, i produttori sono obbligati a concentrarsi sull’i-sola di Murano, in botteghe affacciate a una fondamenta che allora si chiamava “Verieri” e oggi “Vetrai”. Nel 1295 si vieta l’emigrazione per

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evitare lo sviluppo di attività concorrenziali all’estero, ma questo divieto rimarrà nella sostanza disatteso perché nel corso dei secoli le pene ver-ranno via via sempre più inasprite fi no ad arrivare alla detenzione dei familiari dei vetrai emigrati e all’omicidio mirato da parte dei sicari degli Inquisitori di stato, come vedremo accadere a Parigi nel 1667.

Il ciclo di lavorazione del vetro è sostanzialmente uguale a quello attuale, salvo alcuni particolari tecnici, di non secondaria importanza. Per esempio il focolare di allora è a livello del pavimento e quindi le temperature sviluppate sono relativamente basse – 1200 gradi al mas-simo – obbligando a due o tre fasi di fusione per ottenere pasta vitrea con le caratteristiche necessarie a lavorarla, né più né meno che come ai tempi di Plinio (in qualche caso la fusione poteva richiedere alcune setti-mane). Soltanto nell’Ottocento si diffondono le griglie su cui far bruciare la legna, in modo che l’intercapedine sottostante permetta il passaggio dell’aria e migliori la combustione, innalzando la temperatura. Dopo la Prima guerra mondiale la legna – che arriva con i trabaccoli dall’Istria e dalla Dalmazia, ce ne sono una trentina a fare la spola ogni settimana tra le due rive dell’Adriatico – viene sostituita dal carbone e dalla naf-ta, quest’ultima utilizzata solo per la fusione notturna perché è oleosa e durante la lavorazione sporcherebbe il vetro. Nel 1952 viene introdotto il metano, tuttora utilizzato. Al momento sembra essere il combustibile ideale: non inquina, brucia senza produrre scorie permettendo di otte-nere un bel vetro pulito e privo d’impurità. Se si osserva attentamente un vetro vecchio, si vedrà che è intriso di residui della combustione, di particelle di fuliggine. Questo anche perché le fornaci non avevano cami-ni, erano ambienti insalubri, pieni di fumo che se ne andava soltanto da un’apertura alla sommità del tetto.

Nel Trecento la fi gura del maestro vetraio assume una notevole ri-levanza sociale; tanto importante che nella seconda metà del secolo ai patrizi è concesso di sposare la fi glia di un vetraio senza che la loro prole perda le prerogative nobiliari (Venezia è una repubblica e i patrizi – clas-se di governo – sono coloro che sono iscritti nel Libro d’oro e siedono nel Maggior consiglio. Sono ammessi a far parte del consesso, all’epoca di circa duemila persone, solo i fi gli nati dai matrimoni autorizzati da-gli Avogadòri de comun in cui entrambi i coniugi siano patrizi. Quella delle fi glie dei maestri vetrai è una notevole – seppur maschilista, come usava – eccezione). Nel 1383 l’arte del vetro è dichiarata nobile, tanto che dal 1605 Murano avrà un proprio Libro d’oro. L’isola sarà anche dotata di propri consiglio, podestà e forze di polizia – ai birri provenienti da Venezia non è autorizzato sbarcarvi – e rimarrà comune autonomo fi no

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al 1929 quando il fascismo, in preda a manie di grandezza, estenderà artifi ciosamente molte città italiane inglobandovi i comuni limitrofi (e una statistica del 1928 mostra che Murano era il comune con il più alto consumo di vino pro capite in Italia).

Alla fi ne del Medioevo risale anche lo statuto (Mariegola) dell’arte dei vetrai, promulgata l’11 ottobre 1441 e nel medesimo secolo, attraversan-done tutta la prima metà, vive uno dei personaggi più illustri della storia del vetro muranese: Angelo Barovier. È lui che si inventa il vetro traspa-rente (detto “cristallo”, ma non perché sia cristallo, bensì perché ha il me-desimo colore del cristallo di rocca), ottenuto utilizzando manganese del Piemonte come decolorante, e gli sono attribuite pure le tecniche con cui ottenere il calcedonio (un vetro multicolore simile alle pietre dure). Tro-viamo Angelo in varie corti, tra cui quella di Francesco Sforza a Milano; è uomo di cultura profondissima, tanto da essere nominato segretario apostolico, onorifi cenza papale al tempo assegnata ai dotti di qualsiasi nazione. Il pezzo più famoso conservato al Museo vetrario di Murano è una coppa nuziale di vetro blu e smalto della metà del XV secolo, detta “coppa Barovier”, perché la tradizione vuole che sia stata opera proprio di Angelo, mentre altri due lavori a lui attribuiti sono conservati a Trento e a Bologna. Dopo la sua morte, nel 1460, la vetreria passa ai fi gli e la fi glia femmina, Marietta, sarà uno dei rari casi di vetraia donna nella storia muranese. Non solo: è la madre di una delle lavorazioni più note del vetro muranese: la rosetta, o murrina, già nota al tempo dei romani, ma poi perduta (e in seguito perduta di nuovo, tanto che sarà riscoperta nella seconda metà dell’Ottocento). Non c’è nessun documento che le attribuisca questa invenzione, però abbiamo un inventario del 1496 della sua fornace dove per la prima volta compare la parola “rosetta” e sap-piamo che le è attribuita l’invenzione di vetri bellissimi, colorati e non soffi ati. Se due più due fa quattro, i vetri bellissimi da lei prodotti pos-sono proprio essere le rosette che in base all’inventario si trovano nella sua fornace. Il Quattrocento, evidentemente meno misogino dei secoli successivi, ricorda anche un’altra donna, Elena de Laudo, che nel 1447 decora i vetri di Salvatore Barovier, fratello di Angelo.

Le perle colorate riscoperte da Marietta, e le perle monocrome avran-no nella storia un singolare ruolo geopolitico: saranno la moneta di scambio, le “perline colorate”, con cui i mercanti bianchi pagheranno gli schiavi dell’Africa nera (per uno strano contrappasso la produzione del-le perline che hanno svuotato l’Africa, è scomparsa a Murano, ma con-tinua proprio in Africa, in Marocco, dove un veneziano di terraferma ha delocalizzato la fabbrica). È per questo motivo che le perline prendono il

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L’interno della

stessa fornace

a qualche decennio

di distanza.

Oltre al modo

di vestire

(anteguerra

nell’immagine

in alto) sembrano

del tutto cambiate

le condizioni

di lavoro; anche

se le panchette

dei maestri

sono restate

sostanzialmente

sempre le stesse.

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Murano d’altri tempi.

In senso orario: le ceste

per i granchi, in attesa

che mutassero il carapace

e diventassero morbidi

(“moleche”, fritte costituiscono

una delle prelibatezze della cucina

veneziana); una riva con barche

da trasporto all’ormeggio;

quando i ponti erano strumenti

di propaganda; operaie

di una fabbrica (inquietante

che sembri una prigione).

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Quando la laguna era

ricca di pesce, quando

Murano era piena

di fabbriche e le ciminiere

la facevano sembrare

una città industriale;

quando palazzo da Mula,

uno degli edifi ci più belli

e antichi dell’isola, doveva

ancora essere restaurato.

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nome di “conterie”: perché si contavano, erano denaro, quindi si doveva conoscere esattamente la loro quantità. Non solo, sappiamo anche che è di origine lagunare la collana che Hernan Cortez porta al collo quando nel 1519 giunge al cospetto di Montezuma. Lo spagnolo si sfi la le colora-te murrine e le porge all’imperatore azteco, il quale gli dà in cambio due collane di pregiate conchiglie rosse, da ognuna delle quali pendono otto gamberi d’oro lunghi ciascuno una decina di centimetri (ci si potevano comprare tutte le fornaci di Murano, con quelle collane).

Sempre quattrocentesco è il lattimo, un vetro bianco latte che imita la porcellana cinese, al tempo rarissima e preziosissima, mentre si svilup-pa la produzione di specchi e di un oggetto per cui il vetro trasparente ottenuto da Angelo Barovier è assolutamente indispensabile: le lenti per occhiali. Erano fatte di cristallo di rocca levigato, ma in questo modo risultavano molto costose, mentre l’imitazione di vetro permette di ab-batterne il prezzo. All’inizio si tratta di una contraffazione bella e buona, almeno fi no a quando non si sancisce l’obbligo di dichiarare il materia-le da cui sono ottenute. Murano quindi acquisisce il primato assoluto nella produzione di lenti ottiche. Non sappiamo se le lenti utilizzate da Galileo Galilei (che insegnava nella vicina Padova) per inventare il can-nocchiale fossero state o meno prodotte nell’isola, ma è probabile, molto probabile, che lo fossero.

Per tutto il Cinquecento l’Europa si riempie di vetro muranese che molti si possono permettere, almeno nella forma di perlina colorata. Il XVI e la prima metà del XVII secolo sono i periodi di massima diffusione e splendore della produzione veneziana: Murano è l’indiscussa capitale del vetro. Il Seicento è anche il periodo di massima espansione della pro-duzione di lastre, sia bianche, sia colorate. Ma è proprio questo ruolo di primo piano a suscitare appetiti e a preparare l’inizio della fi ne. In mezza Europa, ma anche in Persia e persino in Cina, ci si mette a sfornare vetri à la façon de Venise. Nel 1675 in Inghilterra si comincia a produrre cristal-lo all’ossido di piombo, meno lavorabile del vetro veneziano, ma con un maggior grado di rifrazione della luce. Cinque anni dopo, nel 1680, si afferma sul mercato il cristallo boemo, con potassio e calce, anziché soda e piombo, eccezionalmente adatto all’intaglio e all’incisione pro-fonda. Inoltre la Francia di Luigi XIV sottrae a Venezia il monopolio nella produzione degli specchi. Il tutto avviene attraverso un’incredibile sto-ria di spionaggio, inseguimenti e persino omicidi mirati che hanno per protagonisti il ministro delle fi nanze del Re Sole, Jean-Baptiste Colbert, l’ambasciatore francese a Venezia e quello veneziano a Parigi, gli Inqui-sitori di stato e i loro agenti segreti. Colbert vuol promuovere l’industria

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francese e ci riesce talmente bene che nel 1665 nasce la Saint Gobain, tutt’oggi uno dei leader mondiali nella produzione di cristalli e spec-chi. Per farlo ordina al suo rappresentante diplomatico nella Serenissima di convincere, ricoprendoli d’oro, alcuni vetrai muranesi a emigrare a Parigi. Ci riesce senza grosse diffi coltà, e infatti l’ambasciata veneziana segnala l’arrivo in Francia di cinque artigiani. I vetrai, tuttavia, eviden-temente si intristiscono e così la diplomazia d’oltralpe di mette in moto per portare a Parigi anche le loro mogli. La repubblica di San Marco non ci sta e gli Inquisitori di stato scatenano i propri agenti con l’ordine di in-seguire e arrestare le donne e i loro accompagnatori francesi. Ma come in una specie di fi lm di James Bond ante litteram, l’inseguimento non riesce: gli agenti arrivano a Bassano del Grappa poche ore dopo che il gruppo è partito e non ce la fanno più ad acciuffarlo prima che arrivi in Francia. Venezia però non vuol rinunciare a proteggere la propria industria più preziosa e parte l’ordine per l’omicidio di stato, di “toglier di vita” a Pa-rigi il muranese Antonio della Rivetta. Così accade nel 1667 e assieme a lui muoiono misteriosamente (ma neanche tanto) un paio di lucidatori di specchi. Le morti seguono a poca distanza il divieto di importare specchi da Venezia, decretato proprio da Colbert. Gli altri muranesi afferrano al volo e rientrano in patria, accolti benevolmente dagli Inquisitori di stato (la benevolenza non è però di lunga durata, dopo qualche anno i medesi-mi artigiani fanno sapere di voler tornare a Parigi, ma questa volta sono i francesi a non volerli perché ormai l’industria si è avviata utilizzando personale locale). La fi ne del monopolio, per quanto grave, non è però il fattore determinante della crisi muranese, infatti la produzione di spec-chi continua per tutto il XVIII secolo. Ciò che veramente mette in ginoc-chio il vetro di Murano è il cristallo di Boemia. A inizio Settecento la sorte dell’isola sembra segnata: persino Venezia e la Repubblica sono territorio di conquista del cristallo boemo, pur uffi cialmente vietato.

A ribaltare la situazione è Giuseppe Briati che verso il 1740 avvia la produzione di vetro «all’uso di Boemia», riprendendo tecniche quattro-cinquecentesche. Murano da imitato diventa imitatore, producendo vetri potassici ad alta percentuale di calce, simili a quelli boemi, ma il successo è enorme. Anzi, a causa delle gelosie muranesi, Briati chiede al consiglio dei Dieci di impiantare la fornace a Venezia e per la prima volta dopo quattro secoli e mezzo, il permesso viene concesso. La sua fabbrica si tro-vava a Dorsoduro, tra i Carmini e l’Angelo Raffaele, in una fondamenta che ancor oggi si chiama Briati. Torna a produrre lattimi e calcedoni, s’inventa i trionfi da tavola, con decorazioni non più a diamante (graf-fi ate), ma a rotella (molate), tecnica introdotta dalla Boemia. Ma soprat-tutto si mette a fabbricare le “ciocche” ovvero i grandi lampadari dai

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molti bracci, con foglie, fi ori, frutti, colorati o in vetro trasparente, che illuminano i pòrteghi (saloni) dei palazzi veneziani. Arrivavano ad avere anche due metri e mezzo di diametro e qualcuno di quegli esemplari si può ammirare ancor oggi, per esempio a Ca’ Rezzonico, e anche ai nostri giorni si producono lampadari di quel tipo (poiché dovevano reggere le candele, dovevano avere i bracci all’insù, quelli con i bracci all’ingiù sono ovviamente posteriori all’avvento dell’energia elettrica). Come si diceva, a differenza dei vetri soffi ati, e nonostante la concorrenza fran-cese, gli specchi non risentono di un calo della produzione. Decorati da elaborate cornici vitree, fanno da contraltare alle ciocche, rimandandone moltiplicate le luci e diventando così un elemento caratteristico dei salo-ni nobiliari veneziani.

C’è anche un elemento tecnico che favorisce la rinascita settecentesca: la scoperta di cave di sabbie silicee in Istria, a Pola e Dignano (oggi Pula e Vodnjan), e dal 1735 sull’isola di Lissa (Vis), oggi in Croazia, al tempo tutti territori della Serenissima. In tal modo diventa inutile il costoso e faticoso procedimento di macinatura dei ciottoli di fi ume. Murano rifi o-risce, tanto che nel 1780 i Seguso hanno sull’isola cinque fornaci e una propria nave per l’esportazione delle loro merci.

Ma arriva il 12 maggio 1797 e la fi ne dell’ultramillenaria repubblica, decretata dalle baionette napoleoniche. Nel 1806 vengono sciolte tutte le corporazioni, vetrai compresi, e la produzione vetraria cessa, con la sola eccezione delle perle. Per una quarantina d’anni le fornaci riman-gono spente e la secolare sapienza dei maestri sembra destinata a per-dersi. Qualcosa ricomincia a muoversi in piena dominazione austriaca, nel 1830, quando un antiquario, tal Sanquirico, chiede ad alcuni anziani maestri vetrai di produrre pezzi che lui spaccia per antichi. Falsi, insom-ma, prodotti per truffare, ma diventano talmente tanti da assumere un nome specifi co: “zanfi rici”. Tuttavia nel 1850 si tocca il minimo storico: a Murano sono rimaste soltanto 19 vetrerie che occupano 160 addetti. Ma come già un secolo prima con Briati, anche questa volta la rinascita ha un nome e un cognome: Vincenzo Zanetti. Si tratta di un abate che si mette in testa di rilanciare le fornaci, il bello è che ce la fa.

Raduna tutto il meglio della produzione passata che riesce a trovare, in modo che possa costituire un esempio per le generazioni future, e nel 1861 fonda quello che ancor oggi è il Museo vetrario. Va alla ricerca degli anziani che non hanno dimenticato il mestiere e l’anno successivo apre una scuola perché lo insegnino ai giovani (anche la scuola esiste tutt’og-gi). Un’innovazione tecnica contribuisce a dare una mano: nelle fornaci viene introdotta la griglia per bruciare la legna e l’aria che si insinua

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da sotto fa innalzare la temperatura raggiunta, aiutando la fusione. Un altro intervento risulta decisivo, e non da parte di un vetraio, ma di un avvocato vicentino, Antonio Salviati, che, appesa la toga al chiodo, si de-dica anima e corpo alla vetreria muranese. Il vetro prodotto sull’isola va all’esposizione universale di Parigi del 1867 e torna a essere oggetto del desiderio. I saloni di mezza Europa sono di nuovo illuminati dai lampa-dari tutti fi ori e foglie che ora arrivano a essere ancora più grandi,

Nel 1879 Vincenzo Moretti e Andrea Rioda vanno a Capodimonte, con una lettera di presentazione dell’abate Zanetti, per vedere le murrine romane conservate nel museo. Ormai da vent’anni a Murano non si fa-cevano più murrine e i due riescono a ridare vita alla tradizione, Moretti produce anche murrine con all’interno ritratti o fi gure architettoniche.

Il trionfo è sancito da Gabriele D’Annunzio, che nella tragedia Il Fuo-co, descrive Murano: «Ferveva il lavoro intorno alla fornace. In cima ai ferri da soffi o il vetro fuso si gonfi ava, serpeggiava, diventava argentino come una nuvoletta, splendeva come la luna, scoppiava, si divideva in mille frammenti sottilissimi, crepitanti, rutilanti, più esigui dei fi li che si vedono al mattino nelle foreste tra ramo e ramo. Gli artefi ci foggiava-no le coppe armoniose, ciascuno obbedendo nell’operare a un ritmo suo proprio generato dalla qualità della materia e dalla consuetudine delle movenze atte a dominarla. I garzoni ponevano una piccola pera di pasta ardente nei punti indicati dai maestri; e la pera s’allungava, si torceva, si mutava in un’ansa, in un labbro, in un becco, in uno stelo, in una base».

Ancora una volta è un avvocato, ancora una volta non veneziano (mi-lanese, in questo caso) a far parlare di sé: nel 1921 Paolo Venini fonda una fornace destinata a diventare celebre. La produzione si indirizza sempre di più verso l’arte e svariate fornaci seguiranno: comincia l’era del vetro artistico come lo conosciamo oggi. Negli anni Venti viene meno l’obbligo per i maestri vetrai di essere iscritti nel Libro d’oro delle famiglie mura-nesi, è una sorta di liberalizzazione e nelle fabbriche cominciano a lavo-rare i buranelli (in un clima di diffi denza che ancor oggi in qualche misu-ra sopravvive). I posti di lavoro più umili e meno qualifi cati, i cosiddetti òmeni de terèn, sono occupati dai friulani: spaccano legna, rimuovono la cenere, alimentano il fuoco.

Al vetro artistico di affi anca quello industriale, diventa importante la produzione di catarifrangenti (inventati a Murano e all’inizio usati per scrivere i nomi delle località in bianco sui cartelli stradali blu), di fari per automobili, di vetro per la chimica (provette, matracci), per usi medici (siringhe, fi alette), di bottiglie e damigiane.

La Seconda guerra mondiale impone grandi cambiamenti: alcuni ma-

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teriali, primo fra tutti l’oro, scarseggiano e anche Murano viene converti-ta alla produzione bellica, per esempio producendo vetri per i fanali degli aerei o luci di via per le imbarcazioni. Queste produzioni industriali con-tinueranno anche nel dopoguerra e contribuiranno in modo determinan-te a rilanciare il settore vetrario. Gli anni Cinquanta del Novecento sono di grande espansione, ma anche di grande povertà. Erano tempi in cui la manodopera costava pochissimo (e l’opera dei sindacati per innalzare il potere d’acquisto degli operai ancor oggi divide profondamente dipen-denti e datori di lavoro, con i primi che la considerano una benedizione e i secondi una maledizione) per cui non era raro che chi conosceva il me-stiere emigrasse all’estero. C’è più di qualche anziano, sull’isola, che ha alle spalle storie di emigrazione. Qualcuno ricorda che si lavorava dieci ore al giorno, dalle sei alle diciassette, con un’ora di pausa per il pranzo, e con ciò che si guadagnava in una settimana non ci si riusciva a compra-re nemmeno un paio di scarpe. Le vetrerie artistiche chiudevano dopo Natale e riaprivano in marzo-aprile, il mercato si fermava e i lavoratori restavano a casa, senza ammortizzatori sociali. Erano periodi di fame, le famiglie avevano numerosi fi gli, e durante la “cavate” – chiusure – se ne concepivano di nuovi, così poi ci sarebbero state altre bocche da sfama-re. Chi conosceva il mestiere poteva trovare all’estero condizioni di vita migliori, magari in Perù, a Lima, dove una grande fabbrica con trecento operai lavorava ventiquattro ore su ventiquattro per produrre bottiglie, bottigliette per liquori, medicinali, profumi. Il miglioramento delle con-dizioni di vita era immediato, ma il Sudamerica non offre prospettive a lungo termine e così con le prime gravi crisi monetarie, questi emigrati si ritrovano con un pugno di mosche in mano. Molti tornano indietro verso la fi ne degli anni Sessanta, quando l’America era proprio qui, a Murano, prima che la crisi spazzasse via i posti di lavoro a migliaia.

All’inizio del decennio Sessanta a Murano lavorano nel vetro circa 6 mila persone. Una delle fabbriche più importanti è la Società veneziana conterie: occupa 500 operai e produce tubo neutro per fi ale e fl aconi far-maceutici nonché perle di vetro, sia forate, sia senza foro. Curioso l’uso di queste ultime: venivano mescolate alle scorie nucleari per stabilizzarle pri-ma dello stoccaggio (uso oggi venuto meno). I tubi per fi ale erano lunghi un metro e mezzo di diversi diametri e spessori, in base al tipo di fi ala che doveva poi essere prodotto, erano inviati a Treviglio, in provincia di Ber-gamo, dove subivano la trasformazione defi nitiva. La produzione di tubi per fi ala è stata abbandonata all’inizio degli anni Settanta a causa della concorrenza tedesca e americana, d’altra parte il margine di guadagno era soltanto dell’1,5 per cento e le spese di trasporto via barca ingentissime.

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La produzione di perline colorate, le cosiddette perle di conteria, oggi totalmente cessata, era importantissima. Venivano per la quasi totalità esportate soprattutto in Africa e in Francia. Nel continente nero erano usate come moneta di scambio, oltralpe invece servivano per realizzare fi ori fi nti e ornamenti per le corone funerarie. Oggi quei lavori soprav-vivono solo, abbastanza apprezzati, nelle botteghe degli antiquari. Le perline colorate erano la principale fonte di lavoro per numerose donne veneziane, soprattutto nei sestieri popolari di Castello e Cannaregio: con una cassetta sulle gambe piena di perline, le impiraresse trascorrevano le giornate tuffando gli aghi tra le perline e formando in tal modo fi li pronti per essere venduti. Pagate una miseria, queste donne assise a lavorare davanti all’uscio di casa erano parte integrante del paesaggio urbano della Venezia minore fi no al secondo dopoguerra, come testimoniano cartoline e fotografi e d’epoca e anche alcuni fi lm, per esempio Canal Grande, del 1942.

Intanto dalla Svezia arriva il vetro biancolatte satinato per lampade e lampadari. Siamo agli inizi degli anni Sessanta e Murano si getta a capo-fi tto nel nuovo business: quasi metà dei 6 mila operai di cui si diceva è occupata in questo tipo di produzione. Una sola fabbrica, la Moretti Ul-derico, sfornava 5 mila pezzi al giorno. Erano i tempi in cui ogni mattina attraccavano a Murano su pontoni galleggianti cinque carri ferroviari carichi di sabbia e uno o due di soda per ripartirsene alla sera pieni di vetri pronti per i negozi.

La prima grande chiusura è del 1967, quando scompare la Cristal-leria Murano. Durante tutto il decennio Settanta vengono dismesse le produzioni industriali e le fornaci si spengono una dopo l’altra. Alcuni trasferiscono le attività in terraferma, dove sono minori i costi di gestio-ne trasporto (ancor oggi alcuni importanti produttori si trovano nell’en-troterra veneziano), ma con tali spostamenti viene meno una dei fattori fondamentali della cultura del vetro: la discussione in osteria. I maestri, fi nito il lavoro, si ritrovano davanti a un bicchiere di vino e si suggeri-scono l’un l’altro soluzioni per i vari problemi tecnici che via via si pro-fi lano. Come ottenere una nuova tonalità di blu può essere argomento di conversazione per diverse serate. Oggi si chiamerebbe brain storming e sarebbe rigorosamente analcolico (quindi meno fantasioso). Ai tempi si raccontava che la più fi ne conoscitrice dei segreti delle fornaci fosse l’o-stessa, istruita da decenni di discussioni, e che non si tirasse indietro dal fornire lei stessa suggerimenti e soluzioni. Chi va in terraferma e lavora da solo non può usufruire di questo continuo aggiornamento empirico.

Negli anni Settanta si contano 4 mila operai, negli anni Ottanta 2-3 mila, oggi si sono ridotti a 900, ma gli attivi assommano appena a 3-400,

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perché gli altri 5-600 si trovano in cassa integrazione.Alla crisi industriale si somma quella commerciale. La produzione

delle fornaci viene venduta soprattutto fuori Murano, mentre alcune delle cosiddette “sale”, piene di vetri coloratissimi e con una piccola for-nace dimostrativa, ingannano i turisti spacciando per locali vetri in re-altà prodotti in Cina (lo stesso accade anche in molti dei negozi di vetro veneziani). Sono stati gli stessi muranesi a inaugurare la via della Cina, parecchi anni fa – dopo aver percorso quella dei vetri prodotti a Empoli prima e nell’Europa centrale poi – scoprendo che si potevano realizzare guadagni strepitosi. Solo che poi sono rimasti travolti dalla loro stessa intraprendenza commerciale. Oggi quella cinese ha assunto i contorni di una vera e propria invasione, con i disonesti che appiccicano etichette “Murano” sui vetri orientali e gli onesti che non riescono a far apprez-zare la propria produzione. La Guardia di fi nanza il 25 giugno 2010 ha sequestrato la bellezza di undici milioni di pezzi fatti in Cina e spacciati come prodotti dell’isola (poi dissequestrati).

Il vetro di Murano, come visto, è già stato in un paio di occasioni sul punto di scomparire. È risorto nel Settecento per merito di Giusep-pe Briati e nell’Ottocento di Vincenzo Zanetti. Dopo la crisi del secondo Novecento, nessuno è in grado di dire se possa profi larsi all’orizzonte un nuovo angelo salvatore.

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DAL BADILE AL MAESTRO

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DAL BADILE AL MAESTRO

Il vetro è una creatura notturna. Cova per lunghe ore, e mentre la luna ammanta d’argento i tetti e i canali di Murano, la fi amma nei forni

arde sempre più calda, più viva, più brillante, fi no a fondere nei crogioli quell’ammasso informe di sabbia e cocci di vetro, fi no a farlo diventare una pasta incandescente, pronta a sottomettersi al volere delle mani sa-pienti del maestro. Bisogna anche intendersi sulle parole: a Murano so-pravvivono termini che fuori dall’isola sono privi di signifi cato. In ogni caso, per farla semplice, meglio specifi care subito che la fornace è la fab-brica, mentre il forno è il manufatto di mattoni dove avviene la fusione.

A vederlo prima che entri nel forno, il vetro non è granché: un am-masso formato al 70 per cento da sabbia (che oggi viene da Fontainbleau, nella regione di Parigi, in Francia ed è pura, quindi ne risulta un vetro trasparente, mentre quella che proveniva da Pola era ricca di ferro e il vetro che dava tendeva al verdognolo), 18-20 per cento di soda, calce, qualche altro componente minore di cui parleremo in seguito e gli ossidi metallici che servono a dare il colore.

Il tutto viene mescolato a terra col badile, o nelle betoniere, e por-tato verso le fornaci in carriola; una procedura da muratori, insomma. Si deve mescolare almeno una mezz’ora per tre quintali di composto, perché la sabbia è più pesante e tende ad andare verso il fondo, lo stesso accade durante il trasporto, quindi davanti alla fornace bisogna dare alla mescola un’altra rivoltata. La procedura avviene durante la giornata,

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verso sera si porta il composto davanti alla fornace e con una paletta lo si trasferisce nei crogioli. In ogni forno sono stati in precedenza collocati diversi crogioli, di forma ovale per ottimizzare lo spazio, e di diverse di-mensioni secondo le esigenze di utilizzo: il vetro trasparente nei crogioli più grandi, i colori meno usati in quelli più piccoli. Se si pensa al leggia-dro vasetto, al luminoso lampadario, al sottile bicchiere, risulta piuttosto diffi cile associare questi oggetti a betoniere e carriole. Eppure proprio da là si comincia. Poi il composto fi nisce nella forno che dev’essere già stata portata alla temperatura di 1400 gradi.

Ma prima di vedere che succede di notte, durante la fusione, vale la pena spendere due parole sui componenti di quest’amalgama che dopo vari passaggi si chiamerà vetro. È facile comprendere che il vetro desti-nato a diventare il parabrezza della nostra automobile deve avere carat-teristiche diverse da quello a cui un maestro vetraio darà una determi-nata forma e sarà venduto come un prezioso oggetto d’arte. Banalmente, al vetro di Murano non è richiesto di essere resistente, è richiesto invece di essere lavorabile. Per questo motivo è un vetro molto sodico, alcune volte è persino possibile cogliere l’alto tenore di soda odorando l’oggetto (il vetro industriale ha meno soda e più calcio, ma in questa sede non ci interessa). Il vetro artistico deve fondere più facilmente e avere un inter-vallo di lavorazione più lungo, ovvero dev’essere maggiore il tempo in cui la pasta incandescente rimane fusa e lavorabile. Per fare una bottiglia industriale bastano cinque secondi, mentre per un bicchiere fatto a mano possono essere necessari anche venti minuti, questa seconda lavorazione richiede quindi periodici ritorni nel forno per rendere il vetro nuova-mente malleabile. «Tutte le proprietà del vetro dipendono dalla compo-sizione, il dosaggio ne determina i difetti», precisa Alessandro Hreglich, consulente della Stazione sperimentale del vetro. L’alto tasso di soda fa sì che sia sconsigliabile mettere in lavastoviglie il vetro di Murano: dopo i lavaggi diventerebbe bianco e opaco. Nel caso, per renderlo nuovamen-te trasparente bisogna passarlo con acqua e acido muriatico.

Il più antico uso del vetro, e mai del tutto venuto meno fi no ai nostri giorni, è quello dell’imitazione delle pietre naturali. È per questo motivo che i colori sono defi niti con i nomi delle pietre: non rosso, ma rubi-no; non marrone, ma ambra; non verde, ma smeraldo e, come visto, non trasparente, ma cristallo. I colori si ottengono con l’aggiunta di ossidi metallici e si distinguono in caldi e freddi (per comodità li chiameremo con i loro nomi usuali e non con quelli delle pietre). Freddi sono il blu, il verde, l’acquamarina, e il viola; quest’ultimo è un colore importantis-

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simo perché serve a ottenere varie tonalità, dal lilla al nero, che in realtà è un viola così scuro da apparire nero. Caldi sono il rosso, l’arancio, il giallo e hanno la caratteristica di essere più diffi cili da gestire perché si alterano durante il raffreddamento (“smontano”, si dice in gergo) e quin-di bisogna lavorarli in modo che cambino il meno possibile. Non solo, anche all’interno del crogiolo il colore non è uniforme: verso il fondo è più chiaro (“coloretto”, in gergo). Il rosso è uno dei colori più ambiti, ma anche dei più diffi cili. Il rosso classico, il “rubino all’oro”, si ottiene con l’ossido di rame, ma è di tonalità brunastra, così scuro che un tempo per schiarirlo veniva racchiuso tra due strati di vetro trasparente. Durante la dominazione austriaca (fi no al 1866) si mette a punto il “rosso im-periale”, ottenuto con selenio e solfuro di cadmio, si tratta di un colore molto più brillante smagliante del precedente. Anche questo può servire per valutare l’autenticità di un vetro antico: meglio rizzare le antenne se cercano di spacciarvi per settecentesco un vetro rosso come una Ferrari. A fi ne Ottocento, dall’utilizzo di terre rare risultano nuovi colori, come il rosa e il violetto, in precedenza ottenuti mescolando oro e cobalto (tec-nica usata per l’incarnato dei mosaici già dagli Egizi). Un colore che non si usa più è il giallo all’uranio: aveva avuto un successo clamoroso all’i-nizio del Novecento, ma aveva anche la non trascurabile particolarità di essere radioattivo, per cui è stato abbandonato.

Non era certo questo l’unico uso malsano di sostanze connesse alla produzione vetraria. Le perle, per esempio, affi nché risultassero bucate, venivano fuse con un fi lo di rame all’interno; poiché il metallo si saldava fortemente al vetro, non era possibile toglierlo semplicemente sfi lando-lo, allora lo si scioglieva mettendo il tutto a bagno nell’acido solforico. Qua e là, nelle zone più aperte e ventilate, o anche in barche ormeggiate in laguna, si vedevano inquietanti fumate giallastre sollevarsi da secchi di plastica (sostanza, quest’ultima, resistente all’acido). In tempi in cui il concetto di rifi uto tossico-nocivo doveva ancora farsi strada, è faci-le ipotizzare dove quell’acido solforico fi nisse una volta esaurita la sua funzione: in acqua, come tutto il resto. Da tempo, per fortuna, il modo di produrre le perle è cambiato: si utilizza un macchinario che mantiene il fi lo metallico in movimento, in modo da impedirgli di aderire al vetro. Ma qualche vecchio se lo ricorda ancora quel fumo giallo e puzzolente.

Uno dei composti minori, ma sempre presente nel vetro artistico, è l’arsenico. Attenzione, nonostante il nome sinistro, l’arsenico in picco-le dosi non è affatto pericoloso, anzi, com’è noto, viene utilizzato come medicinale. Un tempo i maestri vetrai per saggiarne il titolo intingevano il polpastrello nel fusto dell’arsenico e se lo mettevano in bocca, consta-tando quanto fosse dolciastro: non è mai morto nessuno. L’arsenico è una

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Gesti fl uenti, rapidi, sicuri: l’informe pasta

incandescente fi ssata in cima a una canna viene

modellata (qui a fi anco si lavora con una “borsella”,

l’attrezzo più utilizzato) per ottenere tutte le varie

componenti che una volta assemblate formeranno

il lampadario classico di Murano.

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A mano a mano che si procede con la lavorazione

escono dalla fornace le varie parti di cui un lampadario

è composto. Prima di essere montate e assemblate

devono essere raffreddate nel forno da tempera.

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delle sostanze affi nanti più effi caci: forma un gas che sviluppa grandi bolle in grado di catturare, assorbire ed eliminare dalla pasta incande-scente le bollicine di sostanze estranee che alla fi ne del processo produt-tivo risulterebbero essere difetti. Inoltre aiuta a stabilizzare l’intensità di alcuni colori. La Stazione sperimentale sta cercando di individuare una sostanza che possa permettere di eliminare l’arsenico (anche perché per i vetrai è un fastidio tenere i registri separati per tale componente) si sta provando con l’antimonio, ma pure quello è tossico, in quantità notevoli.

Avevamo lasciato il composto di sabbia, soda, ossidi metallici e com-ponenti minori portato in carriola davanti alla forno e trasferito con una paletta nei crogioli già esposti al fuoco. Le prime infornate avvengono verso le sei del pomeriggio, le ultime attorno alle dieci di sera, dipende da quantità e colore del vetro che si dovrà lavorare all’indomani. I cro-gioli vengono rabboccati un paio di volte perché il materiale fuso occupa meno spazio di quello solido. Al momento dell’infornata la temperatura è di 1200 gradi, quindi scende perché la sabbia è fredda, poi viene alzata fi no ai 1400 gradi, quando comincia la fusione vera e propria. Chi lavora davanti ai forni è in grado di percepirne la temperatura a occhio: se si guarda dentro la bocca e non si vedono più né l’orlo del crogiolo né il suo contenuto, vuol dire che la temperatura ha superato i mille gradi; se si chiude un occhio e attraverso la palpebra si vede bianco, vuol dire che si è oltre ai 1400 gradi.

Siamo verso mezzanotte e il vetro ora è un liquido pieno di bollicine che salgono verso l’alto; si alza ancora il fuoco perché più alta è la tem-peratura, più velocemente le bolle vengono in superfi cie (esattamente come succede con l’acqua minerale gasata). Per accelerare l’ebollizione gli addetti alla fusione (in ogni fornace c’è almeno una persona che lavo-ra tutta la notte) mettono nei crogioli una patata fi ssata a un’asta di me-tallo: l’acqua contenuta nel tubero forma bolle di vapore all’interno del vetro che contribuiscono a miscelarlo e a favorire il processo. Intanto si fa una prova: si prende un grumo di vetro e lo si fa fi lare, i fi li sottili sono abbastanza freddi da essere presi tra due dita, se al tatto il vetro risulta liscio signifi ca che si sta procedendo per il meglio. Tutto questo va avanti fi no alle tre-quattro del mattino, quando il vetro si è purifi cato dalle bolle e la temperatura viene abbassata fi no a 1100 gradi. Per farlo si spengono del tutto i forni e si riaccendono un’ora più tardi, verso le cinque. Lo spegnimento serve anche a rendere omogeneo il vetro: quando è liquido tende a essere più chiaro nella parte alta del crogiolo e più scuro sul fon-do, raffreddandolo e mescolandolo si ottiene una massa indifferenziata.

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Verso le sei del mattino il fuochista di giorno dà il cambio a quello di notte ed effettua le prove tecniche della dilatazione, perché se i vetri di di-versi colori hanno un coeffi ciente di dilatazione diverso, anziché saldarsi fra loro, si spaccano. Quindi si fa una pallina di vetro colorato, la si riveste col trasparente e si soffi a fi no a ottenere un salsicciotto che viene rotto a metà e affettato. Se il disco ottenuto rimane dov’è, è tutto a posto; se invece le due parti si separano o si sovrappongono, vuol dire che i vetri non sono compatibili. Se il difetto è leggero, si può rimediare, altrimenti si butta via tutto: impasto e lavoro di una notte. Queste prove durano un paio d’ore, fi no all’arrivo del maestro, quando si inizia a prelevare il vetro fuso dai crogioli andando avanti fi no alle quattro-cinque del pomeriggio (sal-vo la pausa pranzo). Naturalmente ci sono degli scarti: il vetro che bolle nei crogioli schizza, esattamente come il sugo di pomodoro nella pentola, questo materiale si raccoglie sul fondo del forno e ogni tanto si apre un’in-tercapedine in modo che fuoriesca. Questo vetro non è più recuperabile, così come quello riuscito male. Finirà triturato e mescolato all’asfalto per ottenere il manto drenante di strade e autostrade.

A lavorare davanti alla fornace è la cosiddetta “piazza”, più o meno immutata da svariati secoli. È formata da un minimo di tre a un massi-mo di sei persone; quella più consueta ne aveva cinque: il maestro, che rifi nisce e modella il pezzo; il servente, che prepara e abbozza l’oggetto; il serventino, che preleva il vetro dal crogiolo e lo porta al servente o al maestro; il garzone, che aiuta il maestro tagliando o aggiungendo vetro; il garzonetto; che ripara la mano del maestro dal calore con un pezzo di legno, porta il pezzo fi nito in tempera, batte le canne per rimuoverne i grumi di vetro rimasti, asciuga il sudore del maestro. Ai nostri giorni spesso il garzonetto non è presente per risparmiare sul personale. La ve-treria-tipo di un tempo aveva otto o dieci piazze, ognuna specializzata in un tipo di produzione: una faceva bicchieri, una portaceneri, una lampa-dari, e così via; se c’era bisogno, però, tutti facevano tutto. Si cominciava al mattino con i lavori più leggeri e via via si producevano i pezzi più im-pegnativi. Esisteva una vera e propria gerarchia tra le piazze, distingui-bile dai berretti che indossavano i maestri: con un bottone grande per la prima piazza, due medi per la seconda, tre piccoli per la terza, e così via.

Oggi è cambiato tutto: le vetrerie sono più piccole, con meno forni e sono le stesse vetrerie a specializzarsi in una determinata lavorazione. Ennio Frattin, che però tutti chiamano Angelo, è un anziano maestro in pensione. Ha cominciato a lavorare a nove anni, durante le vacanze della quarta elementare, portando acqua ad Archimede Seguso, uno dei gran-dissimi del vetro, scomparso nel 1999 (i maestri bevono moltissima ac-

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qua per compensare il sudore provocato dal caldo). È diventato maestro a vent’anni, nel 1956, e si ricorda bene quando l’allora segretario gene-rale della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, venne a Murano e volle conoscere Aldo Bon, un maestro vetraio che al tempo guadagnava più di Vittorio Valletta, l’amministratore delegato della Fiat (oggi nessuno – neanche i paroni de fornasa – si avvicina nemmeno lontanamente ai compensi di Ser-gio Marchionne, successore di Valletta). Anche sul versante del salario è cambiato tutto: ai giorni nostri la differenza tra la paga base di un mae-stro e quella di un garzonetto è di un centinaio di euro (i fuoribusta non sono sconosciuti). Gli avanzamenti di carriera avvenivano di generazio-ne in generazione: quando un maestro andava in pensione il servente più bravo ne prendeva il posto, ma c’era – e c’è – chi restava servente tutta la vita. Maestro e servente tendevano a fare coppia: se un maestro cambiava fabbrica, portava con sé anche il proprio assistente.

Ogni piazza produce gli oggetti assegnati e ogni oggetto torna al fuo-co una o più volte durante la lavorazione: quando il maestro sente che la pasta vitrea si sta solidifi cando la rimanda in forno fi no a lavoro ulti-mato. Per essere malleabile il vetro deve mantenere una temperatura di circa 800 gradi. Quando l’oggetto è terminato viene affi dato al garzonet-to che lo mette in tempera, ovvero un forno di raffreddamento mobile che lo porta a temperatura ambiente. Se fosse lasciato all’esterno, l’og-getto scoppierebbe a causa delle tensioni provocate dal raffreddamento del vetro. I pezzi più grandi sono raffreddati in un forno statico – detto “muffola” – che abbassa la temperatura in dodici, ventiquattro o anche quarantotto ore, secondo dimensioni, colore e lavorazione.

Una volta raffreddati quasi tutti i pezzi – solo i bicchieri ne sono esclusi – vanno in molatura, ovvero con una fresa si elimina il puntello, cioè il punto in cui l’oggetto era attaccato alla canna di metallo e dove il vetro è tagliente. Un vaso, un oggetto normale, viene molato in una ven-tina di minuti, a e meno che non ci siano da effettuare incisioni o ribat-titure. A questo punto l’oggetto è pronto per la vetrina del negozio. Da quando un operaio ha cominciato a mescolare sabbia e soda con la pala sono passati un paio di giorni (se ci sono urgenze particolari il processo può essere ridotto a un giorno solo, meno è quasi impossibile). Da ciò se ne può dedurre che il prezzo fi nale è determinato dalla manodopera, il costo della materia prima è quasi nullo: la sabbia costa 25 centesimi al chilo e un chilo di vetro fuso costa un paio di euro, a prescindere da cosa poi diventerà quella massa informe e caldissima.

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E LUCE FU

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Il lampadario classico come lo conosciamo noi oggi nasce nel Settecen-to, con Giuseppe Briati. In precedenza ci si illuminava utilizzando i

“cesendelli”, ovvero coppe di vetro piene di olio su cui galleggiava un sughero dal quale fuoriuscivano uno o più stoppini. Ci si può fare un’i-dea di come fossero guardando le lampade appese ai volti delle Procu-ratie, in Piazza San Marco. Nel XVIII secolo, però, cambia tutto: arrivano colori, fi ori, foglie tanto che quello che noi oggi denominiamo lampada-rio al tempo viene chiamato “ciocca”, ovvero “mazzo di fi ori” proprio per la ricchezza delle sue decorazioni. Da allora poco è mutato, nome a parte: è nel corso dell’Ottocento che la ciocca diventa lampadario. I modelli ancor oggi vengono defi niti in base al loro inventore (Ferro) o al luogo per cui sono stati concepiti (Rezzonico). Questi ultimi – nati per ornare i saloni di Ca’ Rezzonico, ora sede del Museo del Settecento vene-ziano – sono i lampadari più grandi, costosi, colorati e complicati. Non hanno una struttura portante centrale, come tutti gli altri, ma un telaio di metallo sui cui bracci sono infi lati tanti bicchierini, chiamati bossette. Ciò consente ai Rezzonico di raggiungere dimensioni altrimenti diffi cili da ottenere. Già, perché sono in pochi a saperlo, ma i lampadari di Murano, se realizzati da una sola persona, hanno un limite fi sico: quello dell’a-pertura delle braccia del maestro vetraio che li lavora, e tale barriera impedisce di superare il metro e trenta, metro e cinquanta di diametro.

Il braccio di un lampadario è uno degli oggetti più lunghi che un vetraio possa tirare. Lo si ottiene partendo dal solito bolo di vetro fuso infi sso sulla canna che il maestro tiene in una mano, mente con l’altra afferra l’attrezzo per tirare il vetro. Oltretutto bisogna stare piegati in avanti perché se il maestro arcuasse e sollevasse troppo il corpo per gua-

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dagnare lunghezza, il materiale incandescente si appoggerebbe al petto, cosa decisamente non consigliabile. La regola base per chiunque lavori il vetro è che deve sempre e comunque tenerlo lontano da sé. Salvo qual-che variabile dovuta all’altezza del maestro, l’oggetto in vetro tirato e soffi ato in questo modo, una volta tolti dalle due estremità i circa trenta centimetri, di scarto risulterà lungo più o meno un metro, dopodiché viene piegato (e quindi accorciato) nella forma voluta.

Cerchiamo di chiarire bene questo punto. In teoria è possibile che un maestro tenga la canna e un altro tiri il vetro, in modo da ottenere un braccio più lungo. In effetti qualcuno lo fa; ma solo qualcuno: il maestro vetraio è quasi sempre un lupo solitario. È una questione di sensibilità, di coordinamento, ma anche di abitudine e di tradizione: il maestro ha sempre lavorato così e così continuerà a lavorare, con tutti i relativi an-nessi positivi in fatto di qualità e negativi nel campo dell’innovazione. «Il vetro bisogna ‘sentirlo’», spiega Dario Losi, maestro vetraio di lungo corso, «quello che sento io non lo sente un altro. Quando scaldo, io so a che temperatura è il vetro, un altro no». E poi dà una dimostrazione pra-tica di cosa voglia dire: prende un grumo di pasta incandescente, lo tira, lo fa oscillare tenendo la canna verso il basso in modo che si allunghi e quindi lo tira ancora fi no al punto massimo concesso dall’apertura delle braccia; a questo punto appoggia il futuro braccio di lampadario su una guida di metallo, lo stacca dalla canna e lo piega a esse, bagna con un po’ d’acqua il punto dove il vetro, ancora caldissimo, dovrà rompersi per eliminare lo scarto, dà un colpetto, il vetro si spezza ed è pronto per andare in tempera. «È un lavoro individuale, due teste non funzionano, si fi nirebbe per intralciarsi l’un l’altro, non si possono coordinare i mo-vimenti che devono essere veloci e sicuri perché il vetro più di tanto non rimane caldo», osserva Losi.

Il braccio piegato a esse è destinato a un lampadario con le luci all’in-sù, se invece è curvato le luci risulteranno all’ingiù. La distanza tra i vertici è data dalla somma dei due bracci contrapposti e il piatto che li regge (anche questo per limiti fi sici non può avere un diametro superiore ai trenta-quaranta centimetri) dà un metro e mezzo al massimo.

Chiarite un po’ le dimensioni, passiamo ad altre caratteristiche che possano identifi care un oggetto fatto a Murano. Per esempio, un lampa-dario rosso rubino della fi ne degli anni Trenta non può esistere. Dopo le sanzioni contro l’Italia votate nel 1935 dalla Società delle Nazioni in se-guito l’aggressione all’Etiopia, e la campagna “oro alla patria” promossa dal regime fascista nel medesimo anno, oro in giro non ce n’era e quindi non era possibile ottenere il “rubino all’oro”, ovvero il rosso. Mancavano

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pure gli ossidi per ricavare altri colori e i vetri di quel periodo sono tutti verdi o di tonalità derivate dal verde (come già osservato, il vetro dei de-cenni precedenti è di fondo verdino perché la sabbia delle cave istriane conteneva percentuali altissime di ossido di ferro).

Del fatto che prima dell’avvento della corrente elettrica non esistesse-ro bracci piegati all’ingiù (dovevano reggere le candele di cera) abbiamo già detto, anche se la soffi atura che permetteva di ottenere bracci cavi non è necessariamente legata alla presenza del fi lo elettrico. Solitamente uno dei sistemi usati per verifi care se un lampadario di Murano sia o meno vecchio è guardare se il cavo elettrico passa all’interno del braccio, o all’esterno, solitamente fi ssato con fi lo metallico. Ma un tempo – al contrario di oggi – la materia prima era assai costosa, mentre lo era molto meno la manodopera, quindi i bracci venivano soffi ati semplicemente per risparmiare vetro. Fino agli anni Quaranta potevano esserci bracci sì soffi ati, e quindi cavi, ma chiusi all’estremità superiore e conseguen-temente senza il buco per far passare il cavo elettrico. Si tenga presente che la produzione di lampadari in grado di montare lampadine a incan-descenza viene avviata all’inizio del secolo scorso, ma si sviluppa deci-samente soltanto qualche decennio più tardi. Quindi perché un lampa-dario sia anteriore all’avvento dell’energia elettrica il fatto che il fi lo stia all’esterno è condizione necessaria, ma non suffi ciente.

Un altro particolare che bisogna guardare per giudicare l’età di un lampadario sono le bossole, ovvero le coppettine di metallo che ricoprono l’estremità del braccio che si infi la nel fondino (un disco con un numero di buchi corrispondente a quello dei bracci e degli ornamenti che deve sorreggere) affi nché stia al suo posto. Oggi sono tonde, di alluminio, fi ssate con il gesso e infi sse in un disco di metallo. Ma non è sempre stato così. Sono fatte di alluminio solo dagli anni Cinquanta, nel Sette-Ottocento erano di ottone o rame, nel Novecento di ferro, generalmente ricavate da lamierino tagliato e saldato, talvolta ottenuto riciclando sca-tole di tonno o di pomodori pelati. Inoltre erano fi ssate con la resina di pino che nelle vetrerie veniva usata anche per ottenere l’ambra, ovvero il colore giallo. Fino ai primi decenni del Novecento avevano anche una diversa forma: erano quadrate. Lo scopo era molto semplice: impedire ai fi ori e alle foglie di ruotare e quindi di fi nire sulla verticale della fi amma della candela fi no a surriscaldarsi e a spezzarsi. Oggi un lampadario si illumina con un clic dell’interruttore, ma ai tempi della cera bisognava accendere (e spegnere) gli stoppini uno a uno, inoltre le candele si con-sumano e bisogna sostituirle. Non era affatto improbabile, quindi, che un fi ore o una foglia fi nisse fuori posto e la bossola quadrata impediva

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Il lampadario con fi ori, foglie e bracci per reggere

le candele è stato inventato nel Settecento

da Giuseppe Briati, un geniale vetraio. Nei secoli

precedenti ci si illuminava utilizzando lampade a olio.

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Il lampadario classico

di Murano costituisce

un oggetto d’arredo

di eleganza e classe

senza pari, in grado

da sole di cambiare

in meglio l’aspetto

di qualsiasi ambiente.

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I lampadari classici possono essere a più piani (sopra)

e raggiungere le dimensioni notevoli dei modelli

Razzonico (in alto a sinistra) che prendono il nome

dal palazzo sede del Museo del Settecento veneziano.

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questi movimenti accidentali. Gli alloggiamenti per i bracci venivano scavati nel legno con uno scalpello e risultavano uno doverso dall’altro, quindi a ogni foro corrispondeva la propria bossola e le foglie non erano intercambiabili, come accade oggi. Il fondino di legno, oltre a tarlarsi, poteva anche piegarsi a causa del calore sprigionato dalle candele prima e dalle lampadine poi, ma con il foro quadrato le bossole non fuoriusci-vano e la foglia o il braccio non cadevano, con il buco tondo prima o poi qualche pezzo si sarebbe frantumato a terra. I vecchi lampadari, tuttavia, non rispondono alle norme di sicurezza (il legno prende fuoco, il metallo no, tanto per dirne una) e così accade – per esempio negli uffi ci pubblici – che fondini e bossole del tempo che fu siano sostituite con i loro corri-spondenti attuali. «Ma facendo così i lampadari perdono il loro valore, vengono snaturati» obietta Daniele Mazzuccato, che nella sua fornace produce solo lampadari classici.

Se volete ammirarne qualcuno sicuramente settecentesco potete fare un salto alla Reggia di Caserta, dove i lampadari hanno ancora i piombi con il leone della Serenissima e nell’archivio sono conservate le fatture con il nome della fabbrica che li aveva prodotti. Sigilli originali del XVIII secolo si ritrovano anche nei lampadari muranesi del duomo di Amalfi . Chi è esperto davvero è in grado di distinguere i lavori di quest’epoca in base al colore, sia delle decorazioni, sia della tonalità di base del vetro, determinata dal tipo di sabbia utilizzata per la fusione.

Il lampadario ottocentesco è più semplice, meno lavorato, ma più co-lorato, rispetto a quello del secolo precedente (come detto, non viene più chiamato “ciocca”, bensì “lampadario”, ovvero con il nome che gli rimarrà fi no ai nostri giorni). Un genere che si sviluppa in questo perio-do è il “roseto”, così chiamato perché ha le tazze (le estremità del braccio che reggono le candele) di vetro a colori pastello e a forma di rosa. Ov-viamente i roseti di quel periodo hanno i bracci all’insù, mentre quelli prodotti oggi li hanno prevalentemente all’ingiù perché la le tazze di ve-tro non trasparente fanno poca luce, a meno che il soffi tto non sia bianco o il braccio non sia piegato verso il basso. Bellissimi lampadari muranesi dell’Ottocento si possono vedere al Quirinale – alcuni risalgono al pe-riodo papalino, prima che Roma diventasse capitale d’Italia (1870) – e all’Hermitage di San Pietroburgo.

Tra fi ne Ottocento e inizi Novecento si sviluppa il liberty e i lampada-ri diventano più lisci. Compare il “tipo chiesa”, che anziché foglie e fi ori ha un ricciolo a forma di pastorale, il bastone vescovile. In realtà la sua diffusione in chiese e sacrestie sarà abbastanza limitata e non riuscirà a

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scalzare i prodotti di Boemia, ma emigrerà nelle case, apprezzato pro-prio per la sua linearità. Ma il grande semplifi catore si chiama Vittorio Zecchin che nel 1921 riduce il lampadario all’essenziale, facendo sparire foglie e fi ori e trasformandolo da oggetto d’arredo a strumento di illu-minazione. Altre rivoluzioni sono quelle di Carlo Scarpa, che realizza lampadari completamente trasparenti, e di Giò Ponti che nel 1948 dise-gna un lampadario con i bracci di colori diversi. Il grande boom è nei tre decenni dal Sessanta all’Ottanta, quando i maestri danno libero sfogo alla fantasia e si producono pezzi di ogni forma, dimensione e colore. Si punta al mass market e dalle vetrerie escono lampadari molto piccoli, anche a sole tre luci, con pochi pezzi, in modo da renderli alla portata di tutti. Oggi questa produzione super economica è stata abbandonata e, dopo il periodo (inizio anni Duemila) in cui tutte le fornaci si erano indi-rizzate all’alta gamma, ora la crisi «costringe a mediare tra alta gamma e poca tasca», come precisa Daniele Mazzuccato. Grazie agli stilisti Dolce & Gabbana, che hanno voluto un enorme lampadario nero per il loro show room milanese, da qualche anno è esplosa la moda del lampadario monocromo: forme classiche, fi ori e foglie, ma tutto di una sola tinta, rosso e nero, soprattutto, ma anche verde o ambra.

Per risparmiare si prova un po’ di tutto, per esempio ci sono forna-ci che producono lampadari dipinti e non di vetro colorato: i maestri lavorano solo vetro trasparente (si risparmia su tutto il ciclo della fu-sione poiché non occorre suddividere i crogioli in base ai colori) che poi viene dipinto e infornato per fi ssare la tinta. Alla fi ne ne esce un lampadario dal colore perfettamente intenso e omogeneo, mentre nei lampadari di vetro colorato i pezzi più piccoli sono inevitabilmente più chiari di quelli più grossi, cosa che qualche compratore poco accorto scambia addirittura per un difetto. Comunque basta grattare il vetro con una punta di metallo per vedere se è dipinto o colorato, nel primo caso la tinta viene via.

Ai nostri giorni, crisi a parte, il peggior nemico dei lampadari di Murano sono le case costruite con i soffi tti bassi per migliorarne la resa energetica. Alcune Regioni hanno stabilito per legge che non si passa-no costruire abitazioni con i soffi tti più alti di 2,60 metri e poiché un lampadario di Murano è alto mediamente 80 centimetri, si capisce bene che è piuttosto diffi cile sistemarlo. Sempre di più, quindi, questo tipo di illuminazione trova la via dei paesi caldi. In Italia, il Nord si sta differen-ziando dal Sud: nel Triveneto, che ha sette milioni e mezzo di abitanti, il lampadario di Murano, pur giocando in casa, fattura meno che in Cala-bria, dove gli abitanti sono solo un paio di milioni.

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GLI ALTRI MESTIERI DEL VETRO

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Il vetro è sabbia e la sua culla è di terracotta. Sia destinato a diventare un lampadario, un vaso o un bicchiere, tutto nasce da un impasto primige-

nio spalato pian piano in quel crogiolo dove la sabbia si fonde, si purifi ca e si prepara alla canna del maestro. Le grandi fabbriche industriali usano vasche di fusione, ma a Murano il vetro artistico continua a esser concepito nel crogiolo, un vaso ovale di argille refrattarie (che agli occhi di un profano assomiglia alla terracotta), uguale oggi come secoli fa. Anche la produzio-ne di questi oggetti risente della crisi che attanaglia l’isola: all’inizio degli anni Ottanta esistevano cinque aziende di crogioli, che occupavano fi no a venticinque-trenta persone. Oggi ne è rimasta una sola, con cinque operai. E non è soltanto l’unica di Murano, bensì l’unica in Italia. Per trovare un’altra fabbrica di crogioli bisogna andare in Germania e se si volesse raggiungere pure la terza sarebbe necessario arrivare fi no in Gran Bretagna.

L’Ivra (Industria veneta refrattari e affi ni), l’azienda attiva da quattro generazioni oggi guidata da Mario Dall’Acqua, produce oltre un migliaio di pezzi all’anno, da quelli piccoli lunghi 25-30 centimetri a quelli più grandi di un metro e mezzo, con un’altezza variabile dai 35 ai 75 centimetri. I cro-gioli hanno forma ovale – perché in tal modo possono essere stivati meglio all’interno dei forni – e sono costituiti di una miscela di argilla importata dalla Germania che ha la caratteristica di resistere all’alta corrosività del ve-tro liquido. Un tempo si usavano argille provenienti dall’attuale Repubblica céca – ma avevano un contenuto di ferro tale da poter colorare il vetro – e a queste si aggiungevano scarti macinati; oggi la macinatura è stata invece quasi del tutto abbandonata. Le argille vengono prima mescolate, poi sta-gionate per tre-quattro mesi e infi ne viene modellato il crogiolo, sempre e rigorosamente a mano. Una volta ottenute forma e dimensione volute, si

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copre con un telo e si lascia asciugare in essiccatoio, tenuto alla temperatura costante di 18-19 gradi e a umidità controllata. La durata dell’asciugatura è variabile e non solo in base alla grandezza del manufatto, ma anche a causa della stagione e del clima (Murano è piuttosto umido), può andare da un mese e mezzo a sette-otto mesi. L’intero processo produttivo di un crogiolo di grandi dimensioni dura circa un anno. Il costo varia dai 250 euro per un crogiolo piccolo ai 2 mila per uno grande e realizzato con miscele speciali.

Il miglioramento della miscela di argille ha anche elevato la qualità dei manufatti, determinandone una durata superiore. Un tempo venivano cam-biati tre volte all’anno, in occasione dei tradizionali stop delle fornaci: a Na-tale, Pasqua e per le ferie estive. Nel frattempo il cambio pasquale è stato eliminato, mentre si tendeva a non spegnere i forni in dicembre almeno fi n-ché sono stati mantenuti gli incentivi sul gas. Ora invece costa di più tenere il forno acceso durante la pausa natalizia che cambiare il crogiolo.

Risparmiare sui crogioli, tuttavia, comporta un rischio: se sono troppo vecchi possono fessurarsi, il tal caso il vetro liquefatto cola nel forno obbli-gando a una complicata ripulitura. La persona che sovrintende alla fusio-ne notturna ha anche l’incarico di intervenire nel caso di rotture. I crogioli possono essere lavati e riutilizzati per produrre un vetro di diversa tonalità, ma l’ideale sarebbe tenere un crogiolo per ogni colore. Dall’iridescenza, dal-le stratifi cazioni arcobaleno, dei vecchi crogioli ormai inservibili si capisce però quanto questo ideale sia poco praticato.

Al primo piano dell’azienda di Dall’Acqua c’è una sorprendente esposi-zione di memoria storica: per costruire i crogioli c’è bisogno di uno stampo in legno e poiché i muranesi costruivano ogni forno con dimensioni diverse da quelli delle altre fornaci – per motivi di spazio e a causa del tipo di lavorazione – avevano anche bisogno di crogioli di differenti misure. Quindi ogni fornace aveva i propri stampi per ottenere i crogioli adatti ai propri forni. Ne sono conservati circa 150 di quegli stampi, appesi alle pareti dell’Ivra: appartene-vano a fornaci che da anni e anni hanno smesso di esistere. Se si vuole avere un’idea visiva di cosa signifi chi la crisi del vetro di Murano, bisogna venire qui, oppure anche scendere al pian terreno e farsi portare nel deposito delle portine. Durante la fusione, e quando non utilizzato, il forno viene chiuso da uno sportello pur’esso in miscela refrattaria, come i crogioli. Dato che ogni forno è diverso dagli altri, c’è pure bisogno di una specifi ca portina; a ciò si aggiunga la personalizzazione richiesta da ogni maestro: «Mi serve un po’ più alta, più larga, più bassa, più stretta». Ovviamente non aveva senso met-tere in produzione una sola portina, quindi se ne facevano una decina, una specie di magazzino ricambi, insomma. Ora quell’immenso magazzino se ne sta lì, inutilizzato e inutilizzabile. Un bel giorno Mario Dall’Acqua metterà

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tutte quelle portine nei macinatoi. Altri scaffali sono occupati da centinaia di anelli, simboli della divisione del lavoro tra maestri e apprendisti. Quando il vetro nel crogiolo è liquido, gli anelli di argilla refrattaria galleggiano sulla fritta (pasta fusa) e il vetro all’interno dell’anello rimane più puro, per cui solo i maestri e i serventi sono autorizzati a immergere la canna dentro l’a-nello. Gli altri, invece, che a causa della loro imperizia potrebbero procurare impurità alla pasta incandescente, devono pescare il vetro all’esterno.

Il crogiolo, a dispetto del suo aspetto massiccio, è un manufatto estre-mamente delicato. Se piove non si fanno consegne, tanto per fare un esem-pio, perché i crogioli potrebbero bagnarsi e quindi diventare inutilizzabili (oppure vengono accuratamente imballati dentro strati di nylon). È fragile e facile alle rotture, basta un urto anche non particolarmente forte perché ne salti un pezzo o si fessuri. Siccome i crogioli grandi sono anche molto pesanti, li si sposta con i muletti meccanici, quindi non è infrequente che prendano colpi. Se il danno non è grave si rimedia, per esempio abbassando il bordo nel caso in cui sia saltato un pezzetto dell’orlo. Se invece il danno è più serio, non è riparabile e non resta altro che macinare il tutto.

Per lavorare il vetro ci vogliono gli attrezzi e naturalmente c’è bisogno di qualcuno che li faccia, questi attrezzi. Il grande esperto di borselle, pinze e taglianti è un vivace signore di 83 anni, di nome Carlo Donà. L’attività di famiglia è stata cominciata da suo nonno e viene continuata dal fi glio Ro-berto. Da questa offi cina nascosta in una calle di Murano (si trova qui dal 1923, prima era in un’altra parte dell’isola), partono attrezzi metallici verso ogni angolo del mondo: soprattutto Stati Uniti, Scandinavia e Giappone. Con i livelli di produzione a cui purtroppo è caduta Murano, i Donà avreb-bero chiuso bottega da un bel pezzo. Ogni strumento è ricavato da lamiera tagliata, sagomata e pressata a mano; fi no al 1940 non c’erano saldature, era tutto ribattuto. Se l’utilizzatore fi nale sarà un muranese, è prassi normale che torni in offi cina per farsi adattare l’attrezzo. «Devono essere comodi, come le scarpe vecchie», osserva Carlo Donà. E poiché non tutte le mani sono uguali, ogni maestro si fa apportare le modifi che che ritiene opportu-ne. Diciamo anche che a Murano c’è una lunghissima e radicata tradizione che va nel verso opposto rispetto all’omologazione, come già visto nel caso dei crogioli e delle portine.

A sfavore del ricambio gioca il fatto che, essendo di acciaio, questi at-trezzi durano per anni, spesso per generazioni, tanto da non esser raro che il padre li passi al fi glio. «In tanti usano attrezzi vecchi di decenni», sottolinea Carlo Donà, «se li fanno riparare più volte, ma non li vogliono sostituire. Poi i muranesi sono molto conservatori e non ne vogliono sapere di sperimenta-re attrezzi nuovi». Qualcun altro aveva raccontato che un imperituro motto

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del mondo del vetro è: «Lo so già». Ovvero si domanda al maestro di turno se abbia provato questa o quella novità. Lui risponde di no, perché non fun-ziona. E alla logica domanda: «Ma come puoi dirlo se non l’hai provata?» l’invariabile replica è: «Lo so già».

Anche se appesi alla parete dell’offi cina di Donà ci sono decine di tipi diversi di attrezzi, uno è senza dubbio il re: la borsella, una pinza a lama, con il fulcro all’apice delle due parti, senza la quale non sarebbe possibile nem-meno cominciare a lavorare il vetro. Accanto alle borselle – che si limitano a soli otto tipi di diverse dimensioni – sono appese le taglianti (forbici, per i profani): qui la fantasia si è sbizzarrita meglio, arrivando a concepirne una ventina di tipi. Poi ci sono pinze, compassi, soffi etti (questi due ultimi servo-no per fare bicchieri di uguali dimensioni) e quant’altro possa servire a mo-dellare il vetro, fi no ad arrivare a specifi ci attrezzi commissionati da singole fornaci. Anche questa è una tradizione antica. «Una volta», ricorda Donà, «i maestri facevano merenda e poi sulla carta della mortadella tracciavano un po’ di segni con il gesso, quindi venivano qua e ci chiedevano di realizzare l’attrezzo». A quel punto l’abilità dell’offi cina stava nell’interpretare il “pro-getto”. Più in basso sono appoggiati gli stampi di ottone che servono per fare le righe e rilievi sul vetro: si tratta di una specie di bicchieroni dentro i quali si inserisce la pasta incandescente.

Un attrezzo al quale invece si dedicano con particolare attenzione è la canna da soffi o. Le canne devono avere precise caratteristiche: non essere troppo grosse, altrimenti pesano e sono poco maneggevoli, ma nemmeno troppo sottili perché si piegherebbero quando tirano su dal crogiolo anche quasi quaranta di chili di pasta incandescente. Ce ne sono una trentina di tipi che raddoppiano se si calcola che possono avere il puntale in ferro o di acciaio. Non è indifferente che la bocchetta sia realizzata nell’uno o nell’altro materiale: se di ferro, il vetro che rimane attaccato può essere tolto subito, ma non è più riutilizzabile perché rimane sporco di ossido di ferro; se di acciaio, il vetro può essere rifuso, perché resta pulito, ma è necessario aspet-tare che la canna si raffreddi e il vetro si stacchi da solo. In questo secondo caso bisogna avere molte più canne per poter lavorare, l’alternativa quindi è risparmiare sul vetro o risparmiare sull’acciaio. Talvolta è anche il tipo di lavoro a richiedere l’una o l’altra canna: per i pezzi piccoli è meglio la boc-chetta di ferro, quelli grandi richiedono in ogni caso un giro di canne, quindi può essere vantaggioso usare l’acciaio.

Ma ora lasciamo gli attrezzi e torniamo al vetro vero e proprio, pur re-stando al di fuori delle fornaci. È del tutto normale prendere in mano un oggetto di vetro e non tagliarsi, ma d’altra parte è anche del tutto normale

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che un pezzo di vetro uscito dalla fornace presenti parti taglienti. Ciò che salvaguarda le nostre mani è il lavoro della moleria: per dirla molto in breve il vetro viene fresato in modo da eliminarne le sporgenze. Ma il processo di lavorazione non è poi così semplice e immediato. Non tutti i pezzi hanno bisogno di essere molati: una foglia di lampadario, per esempio, presenta la parte tagliente nella sezione del gambo che viene infi lata nella bossola e fi ssata con la scagliola, quindi non occorre che vada in moleria. Per le foglie è infatti suffi ciente un taglio che le porti alla misura voluta. Nei lampadari quasi tutti i pezzi vengono tagliati perché assumano la dimensione deside-rata; solamente alcuni – come tazze e bracci (dalla parte della dove si appog-gia la tazzina reggicandela) – vengono invece molati.

La base di un vaso o di un bicchiere, al contrario, hanno spesso (ma non sempre) da eliminare il punto dov’erano attaccati alla canna. Alcune fornaci posseggono una moleria interna, altre si rivolgono a offi cine dove si svolge esclusivamente questo tipo di lavorazione, come la Maguse, fondata da Ser-gio Cavagnis nel 1974 e ora gestita dal fi glio Daniele.

Seguiamo passo a passo il percorso di un oggetto che entra in moleria. Le sporgenze particolarmente grosse vengono eliminate con un seghetto al diamante, altrimenti si va direttamente allo smeriglio, ovvero una ruota orizzontale in ghisa di vari diametri (dai 40 ai 150 centimetri) sulla quale viene fatta colare una mescola di acqua, smeriglio nuovo (carburo di sili-cio) e smeriglio usato (favorisce l’amalgama). Si tenga presente che tutto il ciclo della moleria ha bisogno di acqua, altrimenti il vetro lavorato a secco scoppierebbe. Un tempo si usava acqua del rubinetto che fi niva in canale dopo essersi decantata nelle vasche, oggi – da un quindicennio – il ciclo è completamente a circuito chiuso e i fanghi di risulta sono smaltiti con proce-dure controllate. Lo smeriglio serve a lisciare i fondi dei bicchieri e dei vasi, raddrizzare piani, togliere i buchetti che ci possono essere nel vetro e lisciare i pezzi che lo richiedano. Alcuni particolari oggetti possono uscire rugosi dalla fornace e diventano quindi lisci in moleria. La spianatura effettuata dallo smeriglio è grezza e avrà bisogno di essere raffi nata alla mola di dia-mante. Il tornio, con la sua ruota di arenaria e diamante, serve per lavorare gli orli in modo da renderli non taglienti e con il nastro ad acqua si effettua la sellatura, ovvero si eliminano gli spigoli esterni. Ora il vetro – poniamo che sia un vaso – è perfettamente liscio, ma opaco. Viene prima passato su ruote di sughero bagnate con acqua e pomice macinata (un tempo si usava la pomice delle Lipari, oggi viene importata dagli Usa) che conferiscono una lucidatura ancora abbastanza opaca e infi ne sfregato con ruote di panno pressato e ossido di cerio che donano la brillantezza tipica del vetro. A que-sto punto – il ciclo dura un paio d’ore – il portacenere, il vaso, la scultura, il fermacarte, sono pronti per lo scaffale del negozio. La lavorazione però non

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Crogioli: si parte dagli stampi (in alto vecchi esemplari

di fornaci ormai chiuse) e la miscela di argille refrattarie

viene lavorata a mano; poi si passa al reparto riservato

all’asciugatura (nelle pagine successive).

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A sinistra: crogioli nuovi e usati, all’interno

dei forni, e le portine che servono a

chiudere la bocca dei forni durante la fase

di fusione del vetro. Sopra, il laboratorio

della famiglia Donà, dove dal 1923 si

fabbricano gli attrezzi necessari a lavorare

la pasta di vetro incandescente.

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La “borsella” (in basso

a sinistra) è lo strumento

principe del maestro

vetraio, quello più usato;

ma ce ne sono decine

di tipi diversi, per i vari

tipi di lavorazione.

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è consequenziale, ovvero non si fa compiere l’intero ciclo a un pezzo per volta, ma si spianano vari pezzi dello stesso tipo tutti assieme che il giorno successivo vengono lisciati, in base alle esigenze delle fornaci.

Sarebbe troppo lungo spiegare quali pezzi abbiano bisogno di sottostare a tutto il processo di lavorazione della moleria e per quali invece sia suffi -ciente soltanto eliminare la parte tagliente. Detto in parole semplici, tutto ciò che ha spigoli e orli (tipicamente vasi e bicchieri) deve essere lisciato e lu-cidato, mentre altri oggetti, come le componenti dei lampadari, rimangono tali e quali sono usciti dalla fornace.

In moleria si fanno anche le riparazioni. Pochi lo sanno, ma in alcuni casi il vetro si può aggiustare; per esempio quando un bicchiere a calice si stacca dallo stelo (se invece l’oggetto si frantuma non c’è nulla da fare). Si spiana-no e si lisciano e superfi ci spezzate, si uniscono con una colla industriale a due componenti e si sottopongono per qualche secondo a una lampada a raggi ultravioletti. A questo punto ci vuole una temperatura di 400 gradi per scollarli, i bicchieri riparati in questo modo potrebbero anche andare in lavastoviglie, se non fosse che il vetro di Murano, come già detto, è meglio non metterlo in lavastoviglie.

Fin qui abbiamo parlato della lavorazione di moleria in conto terzi, ma esiste anche una produzione artistica tipica. Se un vaso anziché essere tondo presenta superfi ci sfaccettate, potete star certi che quella sfaccettatura è stata ottenuta con ruote e smeriglio; se un oggetto è ornato con fi gure e incisioni, è molto probabile che tali lavori siano stati eseguiti in moleria (oppure con la tecnica altrettanto antica della graffi atura, ma la differenza è facilmente distinguibile anche per un profano). Sergio Cavagnis ha nelle sue vetrine vasi e farmacarte sfaccettati e una serie di oggetti molto belli (telefoni, au-tomobiline, e soprattutto spade) che però hanno sempre avuto un mercato diffi cile perché pochi sono in grado di comprendere la quantità di lavoro necessaria per ottenerli.

La moleria ha spesso a che fare con il grande o il molto grande, passia-mo ora a una produzione completamente diversa che riguarda il piccolo e il molto piccolo. Se avete a casa un animaletto di vetro, o un oggettino grazioso e colorato, è probabile che sia stato lavorato a lume, ovvero davanti a un cannello da cui esce una fi amma alimentata dal gas. È un tipo di lavorazione abbastanza recente, nata nel secondo dopoguerra, in un primo periodo uti-lizzando la fi amma ossidrica normalmente usata dagli idraulici per saldare i tubi. In tempi successivi la resa è stata migliorata addizionando ossigeno e metano, in modo da ottenere una fi amma più viva e più calda. L’attrezzatura è abbastanza semplice: gas per uso domestico, una bombola di ossigeno, e un cannello a sei fori (molto più silenzioso di un ugello con un unico foro:

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pensate di avere nelle orecchie per sette-otto ore il rumore di una fi amma ossidrica). Poi servono occhiali scuri, gli attrezzi in metallo e, ovviamente, le canne di vetro. Queste ultime sono un prodotto della fornace, vengono ven-dute a mazzi da dieci chili e sono tagliate lunghe un metro. Il loro prezzo, al chilo, cambia in base al colore: cristallo, nero e blu costano 4,80 euro; rosso, giallo e arancio 5,25 euro: l’opalino, nelle tonalità bianco, rosa o azzurro, 9 euro; il corniola 12 euro. Ma, come sempre nel vetro, il prezzo fi nale non è certo determinato dal costo della materia prima, bensì da quello della mano-dopera e dal valore di chi esegue il lavoro. In realtà la spesa più importante non è quella per le canne in vetro, bensì quella dell’ossigeno: una bombola costa una trentina di euro e può durare dai due ai quattro giorni, dipende dal tipo di pezzi che si eseguono (più sono grossi, più hanno bisogno di essere scaldati). La lavorazione a lume dev’essere veloce – dai cinque ai dieci minu-ti – e consequenziale, diversamente il vetro scoppierebbe. Non si può mette-re nuovamente il vetro al fuoco, come invece avviene in fornace, e quindi bi-sogna partire da un punto per arrivare a un altro, senza avere la possibilità di tornare sopra a qualche particolare già eseguito. Alcuni pezzi a lume vanno in tempera, altri invece non ne hanno bisogno; un oggetto che tipicamente dev’essere raffreddato nel forno da tempera per circa un giorno è il penden-te, perché altrimenti il buco per far passare il cordone scoppierebbe.

Giancarlo Morassi ha lavorato a lume per oltre trent’anni, oggi si gode la pensione, ma è un po’ la memoria storica di questo tipo di produzione. «Fino agli anni Novanta», spiega, «era una tipica attività da dopolavoro: erano numerosi i dipendenti che, una volta tornati a casa, arrotondavano le entrate mettendosi al cannello. Era una lavorazione diffusissima, ma oggi è anche quella che risente di più della concorrenza cinese. Una delle differen-za può essere che i cinesi usino vetro pirex, non in grado di saldarsi, quindi i diversi pezzi siano uniti con la colla e dopo un po’ di tempo si stacchino con una certa facilità».

In effetti quella della concorrenza tra Murano e la Cina è una storia in-fi nita e le vicende del vetro a lume sono piuttosto signifi cative. Sono stati proprio alcuni muranesi a insegnare il mestiere a chi avrebbe loro scavato la fossa: tenevano corsi a pagamento, oppure andavano a fare dimostrazioni in Oriente, dove venivano attentamente fi lmati. Così i vetrai con gli occhi a mandorla si sono messi a lavoro: oggi quasi tutti i pezzi di piccolissime di-mensioni (e di pochissimo prezzo) sono made in China. A Murano a un cer-to punto si erano scoperte le caramelle: simpatici e colorati oggetti di vetro a forma di bon bon; oggi questa lavorazione è stata quasi del tutto fagocitata dai cinesi. I vetrai a lume muranesi resistono ancora grazie ai pezzi di medie dimensioni (quelli troppo grandi sono invece vittime dei costi d’imballag-

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gio) e che per essere realizzati richiedano una certa dose di abilità. Infi ne c’è da tener conto del fattore di imponderabilità legato alle mode: per esempio i pappagallini colorati hanno notevolmente più mercato degli ugualmente colorati uccellini. I motivi sono del tutto ignoti.

Un tipo di lavorazione che è andata completamente perduta è quella delle perline colorate, o conterie, che erano ricavate da canne di vetro bucate tagliate a mano. Abbiamo già visto che un tempo il fi lo di rame all’interno veniva eliminato mettendo tutto a bagno nell’acido solforico. Una volta ri-dotta la canna in pezzettini, le perline grezze risultano ovviamente taglienti, per questo venivamo messe all’interno di grossi cilindri assieme a calce e carbone vegetale. I suddetti cilindri erano poi fatti girare in appositi forni perché la levigatura doveva avvenire a caldo. Ma non era fi nita qui: le conte-rie si facevano un altro giro, ma questa volta in compagnia di sabbia di mare che non doveva aver mai preso acqua dolce. I cilindri giravano per una tren-tina di minuti, dopodiché il contenuto era messo a raffreddare. A questo punto le perline erano tonde, ma risultavano opache. Per lucidarle si mette-vano di nuovo nel cilindro, assieme a crusca di frumento e venivano fatte gi-rare per un’altra ora. Quindi si passava alla setacciatura, eseguita mediante fi ltri di pelle di capra con fori di diverse dimensioni (le perline più piccole avevano un diametro di un millimetro, quelle più grandi di sei-sette), una volta divise si sistemavano in casse da un quintale l’una mandate a casa del-le varie mistre che a loro volta smistavano il lavoro alle impiraresse. Abbiamo già accennato nel primo capitolo a queste donne di Murano e Burano, ma anche dei sestieri veneziani di Castello e Cannaregio, che lavoravano per una paga da fame davanti all’uscio di casa. Utilizzavano sottilissimi aghi lunghi una ventina di centimetri, riuscivano a tenerne dai venti ai trenta in una mano, disponendoli a ventaglio, quindi li tuffavano nelle cassette, dette sèssole, piene di conterie. La legge delle probabilità faceva sì che ogni volta un certo numero di perline si trovasse con il buco rivolto in direzione dell’ago. Questo era collegato a un fi lo di un metro e mezzo che, una volta riempito di perline, veniva tagliato a lunghezze determinate, in modo che gli spezzoni formassero dei mazzetti pronti per essere messi in commercio. Le impiraresse sono scomparse del tutto verso la metà degli anni Sessanta.

Abbiamo già visto che uno dei motivi principali per cui nella Venezia medievale si è sviluppata la lavorazione del vetro era fabbricare le tessere per i mosaici (nei lavori di restauro della basilica di San Marco sono sta-te rinvenute alcune “lingue” – vetri oblunghi da tagliare per ricavarne le tessere – di origine duecentesca). Qualcosa di quella millenaria tradizione è sopravvissuto. Quel qualcosa sono un produttore muranese, Donà, ma

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soprattutto la Orsoni mosaici, una delle meraviglie nascoste che Venezia è in grado di svelare a chi voglia davvero scoprirla. La ditta Angelo Orsoni è stata fondata nel 1888, si trova a Venezia e non a Murano: nel XIX secolo ormai non valeva più la proibizione di installare fornaci in città sancita ai tempi della Serenissima. Per oltre un secolo proprietà della famiglia Orsoni, nel 2003 è stata acquistata dalla Bisazza. Continua però a operare nella sua sede tradizionale nel cuore di Cannaregio, a due passi dal Ghetto ebraico. Di recente è stato sventato il pericolo di trasferire in India il reparto del taglio. La Orsoni è una fornace del tutto simile a quelle muranesi, solo che invece di produrre oggetti, produce “smalti” e “foglia d’oro”, ovvero quadrati di ve-tro di una trentina di centimetri di lato, coloratissimi, oppure con uno strato d’oro racchiuso tra due di vetro trasparente, destinati a essere fatti a pezzi, in minuscoli quadratini, le tessere da mosaico, appunto. Quello che noi ve-diamo in un mosaico è la sezione di taglio di questi smalti, perché la loro superfi cie – troppo ampia – assume una colorazione disomogenea, mentre l’interno, spesso un paio di centimetri, non subisce alterazioni di colore. Gli smalti, quindi, vengono per così dire “affettati” lungo lo spessore e poi le listarelle di vetro ottenute sono spezzettate in modo da ottenere dei quadra-tini di eguali dimensioni. Il reparto più sorprendente, e assolutamente spet-tacolare, della Orsoni mosaici è il magazzino: lungo una scaffalatura simile a una libreria sono conservati smalti di quasi tremila colori diversi. Soltanto il rosa degli incarnati ha decine e decine di differenti tonalità. Qua splendono i rossi, là baluginano i gialli, da un’altra parte occhieggiano i blu: una visione impareggiabile. La Orsoni realizza mosaici un po’ in tutto il mondo: dalla Municipio di Stoccolma all’Università di Toronto, dalla fontana della Défen-se, a Parigi, ai Buddha dorati di Singhabury, in Thailandia, passando per il bagno di casa vostra, qualora vogliate qualcosa di assolutamente insolito.

Non si può chiudere una rassegna sulle attività muranesi senza citare la Stazione sperimentale del vetro. Fondata nel 1954 assieme ad un’altra manciata di stazioni sperimentali italiane, è operativa da un paio d’an-ni più tardi. Se la sua collocazione naturale è a Murano, con il vetro di Murano ha a che fare solo relativamente. La Stazione sperimentale infatti – unica in Italia a occuparsi di vetro – lavora per risolvere i problemi tec-nici e scientifi ci di tutta l’industria del settore. Occupa una cinquantina di persone, soprattutto tecnici (laureati in chimica, fi sica, ingegneria, periti), tra la sede muranese e quella distaccata di Marghera dove si studia il vetro piano per gli edifi ci. Detto in parole semplici: se si possono costruire grat-tacieli sempre più alti con vetri sempre più resistenti, è anche merito degli studi che si conducono all’interno di queste mura. Non è che nel resto d’Europa ci siano molti altri istituti di ricerca simili: uno in Gran Bretagna,

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uno in Repubblica céca (lì c’è il cristallo di Boemia) e qualcosa in un paio di università tedesche e in una olandese.

Alessandro Hreglich, consulente della Stazione, spiega che fi no agli anni Ottanta si faceva soprattutto ricerca pura, mentre ormai da un ventennio l’attività è molto più rivolta all’assistenza e alla ricerca tecnologica per l’in-dustria, con una particolare attenzione a tutte le tematiche legate alla salva-guardia ambientale (la Stazione ha una decina di persone che gira tutta Italia per fare i controlli nelle fabbriche di vetro). Anche i fi nanziamenti rifl ettono questo stato di cose: il trenta per cento delle entrate viene dai contributi di-retti dei produttori, il restante settanta dalle attività a pagamento. Le azien-de, infatti, mandano a Murano campioni della loro produzione perché siano analizzati e commissionano studi affi nché siano sperimentate nuove com-posizioni e nuove tecniche, siano scovati corpi estranei o disomogeneità, e si individui come intervenire sul processo produttivo per eliminare i difetti.

Uscire da una fornace muranese ed entrare nella Stazione comporta una specie di shock temporale: nelle prime, a parte il combustibile, l’ambiente è molto simile a quella che poteva essere una fabbrica settecentesca; nella seconda è tutto un macchinario, un computer, una provetta. Nelle fornaci si producono oggetti d’arte, nella Stazione si prova a rompere lastre per sag-giarne la resistenza, si sperimentano composizioni, si fanno analisi. Ci sono anche le forze dell’ordine tra i clienti: l’unico modo certo per sapere se un vetro sia davvero autentico consiste nell’analizzarlo. Hreglich ricorda che una decina d’anni fa è stata smascherata una truffa a base di falsi oggetti romani. Qualcuno aveva recuperato da un relitto affondato alcuni blocchi di vetro romani, li aveva rifusi a un paio di millenni di distanza dalla loro realizzazione, e ne aveva ricavato oggetti da spacciare sul mercato delle an-tichità. Grazie alle analisi sono stati ritrovati elementi contemporanei all’in-terno dei fi nti ritrovamenti archeologici.

Le medesima tecnica utilizzata per stabilire l’età di un vetro viene ap-plicata per svelarne la provenienza. Si è così in grado di sapere se un pezzo è autenticamente muranese o se sia stato fatto in Cina, poiché nell’uno si ritrovano elementi che invece non sono presenti nell’altro.

È facile quindi capire che le ricerche legate al vetro artistico siano solo una piccola frazione delle attività della Stazione, le più importanti, come già detto, sono quelle volte a eliminare defi nitivamente l’uso dell’arsenico (nel-la produzione industriale già non lo si usa più, sostituendolo con il solfato di sodio, ma questa sostanza sviluppa le sue capacità affi nanti solo in presenza di temperature molto alte che invece non vengono raggiunte nei forni per il vetro artistico).

In un’isola come Murano, dove tutto parla di tradizione, quella della Stazione sperimentale è a sua volta un’isola di assoluta contemporaneità.

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FORNACI E DINTORNI

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Un’attività così importante come quella del vetro muranese ha ovvia-mente sviluppato un indotto altrettanto importante, basti pensare ai

trasporti, o ai muratori incaricati di demolire e ricostruire i forni (i matto-ni non sopportano un calore tanto elevato oltre un certo limite di tempo, inoltre i crogioli hanno dimensioni maggiori rispetto a quelle delle bocche dei forni, quindi per estrarli bisogna abbattere una parete del forno stes-so). Ma ci sono anche altre attività, non strettamente collegate al processo produttivo. Per esempio nella fornace si è sviluppata la cucina di fornace. Eh sì, i vetrai mangiavano quello che si cucinavano sfruttando il fuoco che ardeva ventiquattro ore al giorno (a proposito, si potrebbero tutti allegra-mente scaldare gratis a Murano, utilizzando il calore delle fornaci, ma bi-sognerebbe mettere d’accordo i proprietari perché lascino passare un tubo d’acqua nei loro forni: probabilmente è stato più semplice fi rmare i trattati di Versailles, nel 1919).

C’era il fuoco, e c’era anche il pesce: un tempo nelle barene dietro a Burano le anguille venivano su a secchi. Per ottenere uno spuntino coi fi occhi bastava metterle in una pentola e lasciarle cuocere lentamente sull’ara, ovvero la parte iniziale del forno da tempera, dove il calore non è troppo violento. Il vetraio all’inizio del turno collocava il proprio pen-tolino sull’ara e a ora di pranzo l’anguilla (che in veneziano si chiama bisato) era cotta e mangiata. Oggi quasi nessuno più cucina sull’ara e in laguna le anguille sono diventate una rarità. Elda Perinotto, dal 1954 re-gina dei fornelli della trattoria “Ai Frati”, ricorda quando suo marito Pie-ro, detto “Papote”, e il fi glio Gigi Camozzo (l’attuale titolare assieme al fratello Giovanni che è in cucina) ancora bambino, non appena il tempo si metteva al brutto, salivano in barca e si precipitavano a pescare anguil-

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le. Ne portavano talmente tante che lei si lamentava perché erano troppe e temeva di non riuscire a cucinarle (invece ci riusciva, oh se ci riusciva). Altri tempi. Oggi il bisato sull’ara si prepara ancora, ma cucinandolo nel forno. Ecco la ricetta dei Frati.

Bisato sull’ara.1 anguilla (300 grammi)½ bicchiere di vino bianco6 foglie di alloroBurro, una noceSale, una presa

Si prenda un’anguilla di circa tre etti, la si pulisca e la si lavi bene in modo da togliere il viscidume che ne ricopre la pelle. La si disponga arrotolata su se stessa in una padella, si aggiungano sale e una noce di burro al centro, si cospargano sopra il pesce 5-6 foglie di alloro, si spruzzi con un po’ di vino bianco e si cucini senza coprire per mezz’ora-tre quarti d’ora nel forno precedentemente portato a 180 gradi. L’anguilla è cotta quando assume un bel colore dorato e al tatto risulta morbida.

Questo è il cibo più muranese che si possa concepire: senza ara, non poteva nemmeno esserci bisato sull’ara, ovviamente. Tuttavia, poiché la cu-cina è una scienza assolutamente inesatta, ognuno varia le ricette come preferisce. Nani, il compianto cuoco delle Antiche Carampane (a Venezia, quindi i muranesi doc potrebbero inorridire) preparava il bisato sull’ara in una pentola coperta e deponendo l’anguilla su un letto di alloro, in modo che il grasso scolasse al di sotto delle foglie.

Oggi le insegne dei locali parlano di ristoranti, o trattorie, ma un tem-po si trattava di semplici osterie, ovvero luoghi dove si vendeva vino, al consumo o per esportazione (e per portarselo via i muranesi arrivava da casa in compagnia di bottiglioni o fi aschi). C’erano quattro o cinque oste-rie sull’isola e i Frati avevano una marcia in più perché erano – e sono ancora – dotati di una cantina, l’unica di Murano e forse anche di Venezia. Non è sotterranea, ovviamente, perché non potrebbe esserlo, ma consiste in un ampio locale rettangolare, isolato, e adatto a conservare damigiane e bottiglie. «Il sabato e la domenica avevamo la gente in coda per prendersi il vino», ricorda Elda. Vino che proveniva dalla vicina Sant’Erasmo (so-prannominata “l’orto della laguna”, l’isola oggi è conosciuta soprattutto

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per le sue carciofaie, c’è ancora qualche vite per il consumo domestico, mentre un francese si è messo a da pochi anni a produrre un bianco di qualità, battezzato “Orto di Venezia) e ne andava via una gran quantità. La qualità avrebbe fatto inorridire tutti quelli che oggi si baloccano tra etichette, uvaggi, terroir e barrique, ma i tempi – e i gusti – erano diversi. Negli anni Sessanta le osterie hanno cominciato a far da mangiare e sono diventate trattorie; gli operai avevano in tasca qualche soldo in più e la gavetta messa a riscaldare sulla stufa veniva prima affi ancata, poi magari sostituita, da qualche mangiarino preparato in cucina. Gli esotismi non erano neanche concepiti e si apprezzava quella che oggi viene chiamata pomposamente “cucina di territorio” o a “chilometro zero”. Al tempo si trattava di un obbligo, non di una scelta. Bastava piantare una rete in la-guna a qualche centinaio di metri dalle fornaci e una preda era garantita: il cefalo (muggine). Questi pesci venivano cucinati utilizzando lo scarto del vino, ovvero l’aceto, un sottoprodotto che nelle osterie (con gran scorno dell’oste) non mancava mai. Oggi i cefali non sono più granché apprezzati perché, se pescati nelle zone sbagliate, possono avere un sapore terrifi can-te, e quindi si va più sul sicuro utilizzando al loro posto i pesci di mare. Ai Frati preparano in questo modo i sardoni (alici).

Sardoni a la muranese.1 chilo di alici (sardoni)1 bicchiere di vino bianco1 bicchiere d’acqua1/2 bicchiere d’acqua3 pomodori freschi spelatiOlio d’olivaAale, una presa

Si puliscano i sardoni nella quantità voluta privandoli della testa e delle interiora. Si dispongano in una teglia da forno affi ancandoli strettamente l’uno all’altro, in modo da riempire il fondo della teglia stessa e li si cosparga di olio. A parte, in una bacinella, si prepari un intingolo con vino, acqua e aceto e un po’ di pelati ben strizzati (per un chilo di alici si calcoli un bicchiere di vino e uno d’acqua, mezzo di aceto, tre pelati). Si frusti il tutto in modo da ricavarne un composto omogeneo e lo si versi sul pesce. Si aggiunga sale grosso. Qualora i sardoni non siano sommersi dall’intingolo, si aggiunga acqua. Si metta la teglia, coperta, sulla fi amma viva, in modo da sfumare l’aceto, poi si passi il tutto nel

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forno ben caldo, lasciando cucinare per una mezz’ora circa. Si controlli che il pesce rimanga asciutto, ma non secco, in modo che resti un po’ di sugo. Le alici preparate in questo modo si possono mangiare anche il giorno successivo.

C’è stato un tempo in cui ogni giorno che dio mandava in terra nella trattoria “Al Corallo” preparavano venti chili di baccalà mantecato. Avete idea di cosa signifi chi? No che non ce l’avete. Vuol dire sbattere in un pen-tolone per almeno un’ora una massa di stoccafi sso (che a Venezia è detto baccalà) precedentemente bollito assieme a una quantità di olio fi nché il tutto non divenga della consistenza di una crema. Provate un po’ a imma-ginare quanta fatica si debba fare per trasformare del pesce in una crema (non un patè, una crema) da spalmare sulla polenta o sul pane. Infatti oggi molti usano il frullatore, ma il risultato non è uguale. Non è affatto uguale.

Al Corallo (ma anche ai Frati) lo battono ancora a mano il baccalà. Giu-seppina Sorbara è lì dentro dal 1964, chissà quanti quintali, tonnellate, di baccalà ha prodotto. Bisogna prendere un pentolone e un legno che stia a metà tra un mestolo e un manico di scopa (ottimo il bastone per girare la polenta) e girare, girare, sempre battendo contro la parete della pento-la che va dal canto suo tenuta ben salda in mezzo alle gambe. Il baccalà dev’essere battuto, non mescolato. Più chiaro ora? E tutto questo due-tre volte al giorno, fi no ad arrivare a venti chili, cioè un quintale alla settima-na, ovvero cinque tonnellate in cinquanta settimane lavorative. Il che fa cinque tonnellate di baccalà mantecato all’anno. E solo in una trattoria. Ovviamente anche le altre lo preparavano. Quante tonnellate di baccalà mantecato si consumavano ogni anno sull’isola? Questa è la ricetta del Corallo.

Baccalà col bastòn.Un pezzo di stoccafi sso (detto baccalà a Venezia)Olio d’oliva, quanto bastaSale, una presaPepe

Si prenda del buon stoccafi sso precedentemente fatto ammollare in acqua per almeno un giorno. Lo si pulisca bene togliendo tutte le spine e la pelle e lo si cucini facendolo bollire per 20-25 minuti, fi nché non abbia interamente assorbito l’acqua. Lo si metta in un pentolone alto di alluminio (nel quale non andrà però conservato), si aggiunga olio, sale e pepe («E basta», Giuseppina ci tiene a sottolineare

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quel «basta») e lo si batta per almeno un’ora girando in tondo col bastone contro la pentola tenuta fra le gambe, fi nché non sia ridotto a una fi ne crema.

Ovviamente, ai Frati la ricetta è un po’ differente. Eccola:

Un chilo di staccafi sso ben pulitoMezzo litro di olio d’olivaAglio, uno spicchio schiacciatoSale, una presaPepe

Il baccalà sia tenuto a bagno 24 ore in acqua tiepida, poi quest’acqua venga fi ltrata e utilizzata per cuocere il pesce. La polpa dev’essere appena coperta d’acqua e bollita per soli 3-4 minuti. Poi si metta tutto immediatamente nella pentola alta per essere battuto, facendo attenzione che sia ben caldo. Si aggiunga l’olio man mano, all’incirca mezzo litro d’olio per un chilo di pesce (ma bisogna vedere a occhio quanto “beva” il baccalà), sale e pepe, ma anche aglio schiacciato.

Se lo facevano fuori tutto, quel baccalà, gli operai delle vetrerie, abba-stanza indifferenti al fatto che fosse battuto con o senza aglio. Erano oltre seimila (ben più degli attuali abitanti, che sono 4600) e almeno la metà ve-niva da fuori: Burano, Mazzorbo, Treporti, dalla terraferma. Gli orari delle fornaci erano stati modifi cati perché i mezzi pubblici non ce la facevano a trasportarli tutti assieme. Così c’erano vetrerie che cominciavano alle sette e fi nivano alle quattro del pomeriggio e ce n’erano altre che aprivano i cancelli alle otto per chiuderli poi alle cinque.

La trattoria Corallo è in fondamenta Vetrai, la strada più importante dell’isola, quella che conduce all’imbarcadero principale, Murano Colon-na (prende il nome da una colonna lì vicino che un tempo sembra esser stata sovrastata dalla statua del doge Domenico Contarini). Tutti ci pas-savano – e ancor oggi ci passano – davanti, molti ci entravano. Comincia-vano i fuochisti, che alle 5-6 del mattino smontavano dal turno di notte. Facevano merenda, ma allora non usava il cappuccino con il croissant. No, mangiavano, frittura, seppie ai ferri e baccalà, per l’appunto. E poi vino, ma mai puro: vino bianco col chinotto, vino rosso con la gassosa, oppure tajada, ovvero liquore d’anice con la menta (versione lagunare del pastis).

A mezzogiorno era il turno degli operai. Ai vecchi tempi, quando an-cora le osterie non erano diventate trattorie, si scaldavano la gavetta nel

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pentolone d’acqua calda sistemato sulla stufa. L’oste vendeva loro il vino e se poi c’era qualcuno che voleva farsi la bocca, giusto fuori dalla porta c’era Tantan (il nome? E che importa, sull’isola contano i soprannomi) con i suoi cesti di crostacei: un’istituzione. Una foto d’epoca (il taglio dei ve-stiti e le bandiere monarchiche con lo scudo sabaudo ci parlano degli anni Trenta) lo restituisce col grembiule bianco e una serie di muranesi che lo guardano curiosi; dietro di lui occhieggia la vecchia insegna del locale: “Da Stanghet”.

Finiti i turni, di nuovo un salto a bere un’ombra (bicchiere di vino), come si dice a Venezia, assieme a qualche cicheto, ovvero una seppioli-na, un po’ di baccalà, o quel che era esposto nei piatti e nelle terrine di ceramica bianca. «Eravamo in tre a servire al banco, per la tanta gente che c’era», ricorda Giuseppina. E nessun oste si sognava di tirar giù le serrande prima di mezzanotte: nelle case non c’era la televisione e allora si andava in osteria a giocare a carte e poi c’erano gli omèni de note nelle fornaci da accontentare. Nessuno pagava al consumo, tutti facevano anno-tare. Lasciavano pum, come si dice in gergo sull’isola. Saldavano quando ricevevano la paga, una volta alla settimana, una volta al mese. «Tanti non hanno mai pagato», ricorda Giuseppina. Chissà se il baccalà è mai andato loro per traverso.

Nei giorni si festa era d’uso preparare il dolce e Murano aveva il suo dolce che condivide nome e forma (e solo quelli) col bussolà della vicina-ri-vale Burano, ma il contenuto è completamente diverso. Il bussolà buranello è un biscotto circolare con uova e burro, ben adatto a essere inzuppato nel vino. Il bussolà forte muranese è una bomba calorica che probabilmente trova le sue origini nel riutilizzo degli scarti delle cucine nobiliari.

Bussolà forteMezzo chilo di farina bianca Mezzo chilo di melassaMezzo chilo di un composto di mandorle, pinoli, cedrini e bucce d’arance candite, cioccolato fondente a pezzi.Rum, un bicchierinoSale, una presaIngredienti opzionaliPepeNoce moscataBuccia grattugiata di limone

Si prendano eguali quantità di melassa, farina e di un insieme formato da mandorle, pinoli, cedrini e bucce d’arance

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candite, pezzi di cioccolato fondente. Si aggiungano un bicchierino di rum e un pizzico di sale. Ingredienti facoltativi da aggiungere tutti o in parte secondo il gusto personale: un pizzico di pepe, una spolverata di noce moscata, la buccia di un limone grattugiato. Bisogna impastare bene il tutto a freddo, con le mani unte d’olio. L’impasto è piuttosto duro, tanto che un tempo lo mescolavano con i piedi, mentre oggi è sconsigliabile l’uso di impastatrici o robot da cucina perché il risultato sarebbe irrimediabilmente diverso. Quando si è lavorato ben bene l’ammasso, gli si dia la forma di una ciambella e lo si metta in forno. Per la cottura ci sono due scuole di pensiero: dieci-dodici minuti nel forno molto caldo (200 gradi), un’ora nel forno a calore moderato (140 gradi). Meglio consumarlo il giorno successivo, è possibile conservarlo senza danni, purché in un ambiente non troppo secco (infatti nel clima lagunare trovare un ambiente secco non è affatto banale).

Un nutrimento adeguato è alla base di un buon stato di salute, il pe-sce forniva proteine nobili a buon mercato, il vino contribuiva a dare le calorie necessarie a sopportare le fatiche fi siche, ma spesso si esagerava. Pietro Gavagnin, da 35 anni medico di base a Murano, ricorda i tempi in cui le cirrosi epatiche da alcol non erano un’eccezione. Ogni maestro aveva il proprio goto de fornasa, ovvero un bicchiere piuttosto capace che egli stesso si era fabbricato e lui solo utilizzava. Uno dei compiti del gar-zonetto, come già visto, era far sì che quel bicchiere non fosse mai vuoto. Barovier & Toso aveva persino cominciato una produzione di goti de for-nasa per la vendita. «Oggi si beve molto meno vino e molta più acqua», osserva il dottor Gavagnin, «nel periodo in cui sono stato medico di fab-brica faticavo non poco a convincere i vetrai a lasciar perdere il vino e a sostituirlo con acqua o succhi di frutta. Ma ora la tendenza dei giovani è non abusare mentre sono al lavoro».

A uno dei tre medici di base di Murano viene spontaneo domandare se esistano malattie professionali tra i vetrai la risposta è consolatoria: «La situazione sanitaria dell’isola è buona». L’unico malanno piuttosto diffuso che possa essere in qualche modo legato alle condizioni di lavoro è la bronchite cronica ostruttiva, dovuta agli sbalzi di temperatura tra la parte anteriore del corpo e quella posteriore di chi sta tanto tempo da-vanti alle fornaci (dove, a una certa distanza, si possono tranquillamente registrare 70-80 gradi, mentre l’altra parte del corpo rimane a 20-30).

Per fortuna sembrano scomparse alcune malattie gravissime che si

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registravano fi no ad alcuni anni fa. Per esempio, si riscontrava una gros-sa e misteriosa incidenza di tumori al cervello, della quale non si sono mai scoperte le cause; e c’erano anche alcuni casi di tumore ai polmoni provocato dall’amianto. Chi lavorava a lume un tempo teneva sul piano di lavoro un lastra di amianto per appoggiare i pezzi, lo spolverìo veniva inalato e provocava questa forma letale di cancro. Una volta scoperta la pericolosità dell’amianto, la sostanza è stata eliminata.

Fino agli anni Cinquanta era abbastanza diffusa la cataratta, dovuta agli ambienti bui, spesso illuminati dal solo chiarore proveniente dal for-no, che costringevano il maestro a lavorare guardando l’oggetto a distan-za ravvicinata; quando le fornaci hanno cominciato a essere illuminate dalla luce elettrica, il disturbo è scomparso. E fi nché non si è utilizzata l’accortezza di lavorare la sabbia bagnata, si registravano casi di silicosi gli addetti alle composizioni.

A memoria del dottor Gavagnin la diffusa presenza di arsenico non ha mai prodotto avvelenamenti, salvo un singolo caso, ma si trattava di suicidio e quindi il poveretto si è ammazzato con quello che aveva sotto-mano. Non c’è ricordo neanche di malattie legate ai fumi e agli scarichi, oggi molto più rigidamente controllati di un tempo, grazie all’uso obbli-gatorio di cappe aspiranti e fi ltri. In ogni caso l’utilizzo del gas è stato decisivo nell’abbattere l’inquinamento da combustione.

Molto diffuso, invece, è il disagio psichico. Ansie e depressioni han-no un’incidenza altissima, soprattutto nella popolazione femminile. «Per ogni ricetta di farmaci tradizionali», precisa il dottor Gavagnin, «ne compilo una di antidepressivi». Nessuno si è mai occupato di studiare a fondo il fenomeno, forse imputabile nella natura della popolazione isolana. «La vicina Burano», osserva il medico, «costituisce un nucleo compatto, la sera tutti si ritrovano in piazza. Murano invece è solitaria, gli abitanti la sera si rinchiudono in casa». Un disagio tradizionale, que-sto, che non pare esser stato ampliato dalla crisi e dalle conseguenti dif-fi coltà occupazionali, e che non ha in alcun modo infl uito su quella che sembra si stia affermando come una caratteristica muranese: diventare un’isola felicemente multietnica. Un alto numero di bambini stranieri adottati si inseriscono ottimamente nell’ambiente. A questi, si affi anca una notevole presenza di mogli straniere, soprattutto caraibiche, con una buona persistenza dei matrimoni. Alle mogli immigrate non cor-risponde però un egual numero di lavoratori immigrati: nel settore del vetro non ce ne sono, mentre sono numerosi nei settori collaterali, per esempio tra i muratori che costruiscono i forni, ma questo tipo di mae-stranze non risiede sull’isola.