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Il dinamismo plastico Dal Barocco al Futurismo Italia, tardo Seicento e Settecento Si dice che il Barocco è teatrale, ornato all’eccesso. I protagonisti principali, Bernini e Borromini in persona non comprenderebbero questa accusa. Essi volevano che le chiese, le piazze, gli spazi urbani apparissero festosi, pieni di splendore e movimento. Se è scopo del teatro deliziarci con la visione di un mondo fatato, ricco di luce e di sfarzo, perché gli artisti che progettano spazi da percorrere, da vivere, non dovrebbero creare suggestioni ancora maggiori di fasto e gloria per ricordarci il paradiso? Le loro creazioni avevano il consapevole scopo di evocare una visione di gloria celeste assai più concreta di quella suggerita dalle cattedrali gotiche. Infatti, più i protestanti tuonavano contro l’esteriorità, più la chiesa cattolica si avvaleva dell’opera di artisti famosi e innovativi: l’arte poteva servire la religione ben oltre il compito di insegnare il Vangelo a chi non sapesse leggere. Architetti, scultori e pittori furono chiamati a trasformare le chiese in grandi mostre d’arte di travolgente splendore. Non contano tanto i dettagli quanto l’effetto d’insieme: candele accese, messe solenni, profumi d’incenso che inondano spazi chiusi e aperti, suoni d’organo, cori sommessi e assordanti, luci, colori e preziosi materiali devono trasportarci di slancio in un atro mondo. Le più squisite creazioni scenografiche furono quelle di Giovan Lorenzo Bernini (1598-1680). Egli era un abile ritrattista: la fig. 1 mostra il ritratto che egli fece di una giovane donna, un busto in marmo travertino che possiede tutta la freschezza e la schiettezza della carne vera. Tutta la figura sembra respirare e prender vita. Bernini ha colto un’espressione fuggevole che era certo caratteristica della modella. Nel fissare l’espressione del volto egli era insuperabile: si valeva dell’espressione per dar forma visiva alla propria esperienza religiosa. Arte e territorio Anno scolastico 2012.2013 Dario D’Antoni Il dinamismo plastico Pagina 1 Figura 1 Giovan Lorenzo Bernini Busto di Costanza Bonarelli 1635 Marmo, altezza 70 cm Museo Nazionale del Bargello, Firenze

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Il dinamismo plastico

Dal Barocco al Futurismo Italia, tardo Seicento e Settecento

Si dice che il Barocco è teatrale, ornato all’eccesso. I protagonisti principali, Bernini e Borromini in persona non comprenderebbero questa accusa. Essi volevano che le chiese, le piazze, gli spazi urbani apparissero festosi, pieni di splendore e movimento. Se è scopo del teatro deliziarci con la visione di un mondo fatato, ricco di luce e di sfarzo, perché gli artisti che progettano spazi da percorrere, da vivere, non dovrebbero creare suggestioni ancora maggiori di fasto e gloria per ricordarci il paradiso? Le loro creazioni avevano il consapevole scopo di evocare una visione di gloria celeste

assai più concreta di quella suggerita dalle cattedrali gotiche. Infatti, più i protestanti tuonavano contro l’esteriorità, più la chiesa cattolica si avvaleva dell’opera di artisti famosi e innovativi: l’arte poteva servire la religione ben oltre il compito di insegnare il Vangelo a chi non sapesse leggere. Architetti, scultori e pittori furono chiamati a trasformare le chiese in grandi mostre d’arte di travolgente splendore. Non contano tanto i dettagli quanto l’effetto d’insieme: candele accese, messe solenni, profumi d’incenso che inondano spazi chiusi e aperti, suoni d’organo, cori sommessi e assordanti, luci, colori e preziosi materiali devono trasportarci di slancio in un atro mondo. Le più squisite creazioni scenografiche furono quelle di Giovan Lorenzo Bernini (1598-1680). Egli era un abile ritrattista: la fig. 1 mostra il ritratto che egli fece di una giovane

donna, un busto in marmo travertino che possiede tutta la freschezza e la schiettezza della carne vera. Tutta la figura sembra respirare e prender vita. Bernini ha colto un’espressione fuggevole che era certo caratteristica della modella. Nel fissare l’espressione del volto egli era insuperabile: si valeva dell’espressione per dar forma visiva alla propria esperienza religiosa.

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Figura 1Giovan Lorenzo BerniniBusto di Costanza Bonarelli 1635Marmo, altezza 70 cmMuseo Nazionale del Bargello, Firenze

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La fig. 2 mostra un altare del Bernini destinato alla cappella laterale di una chiesetta romana, dedicato alla spagnola santa Teresa d’Avila, una monaca del ‘500 che aveva narrato in un libro famoso1 la sua esperienza mistica, descrivendo quel momento di rapimento celeste in cui l’angiolo del Signore, trapassandole il cuore con una freccia d’oro e di fuoco, le aveva arrecato tormento e insieme una beatitudine infinita.

Tutta la Cappella Cornaro è opera di incredibile ricchezza e sontuosità, dal pavimento intarsiato alla volta affrescata; i marmi sono prevalentemente verdi e gialli, con lampi di bronzo dorato e lo spazio è illuminato con tanto ingegno che lo si è paragonato a un teatro, con tanto di commedianti affacciati alla balconata che si parlano dalle quinte laterali della cappella (fig. 3). L’elemento centrale è un gruppo in marmo bianco dell’estasi della santa, illuminata dall’alto da una finestra invisibile.

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1 “Vidi nelle sue mani una lunga freccia d’oro e sulla punta di ferro mi parve di vedere un fuoco. Con esso sembrò trafiggere più volte il mio cuore fino a penetrarmi nelle viscere (...) Il dolore era talmente forte che mi strappò qualche gemito; e tale era la dolcezza provocata in me da questa sofferenza estrema che non si può desiderare di perderla (...) Non è una pena fisica, ma spirituale, anche se il corpo ha in essa parte- anzi una grossa parte. (Santa Teresa, Vida)

Figura 2

Giovan Lorenzo BerniniCappella Cornaro 1652Tecniche misteS. Maria della Vittoria, Roma

Figura 3Giovan Lorenzo BerniniCappella Cornaro, Coretto sinistro. 1644-51. Marmi policromi, legno, stucco. S. Maria della Vittoria, Roma

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È l’istante del rapimento che Bernini ha osato rappresentare. Vediamo la santa sollevata in una nube verso il cielo, mentre torrenti di luce scendono dall’alto come una pioggia di raggi d’oro. L’angiolo sembra avvicinarsi dolcemente verso la santa riversa e tramortita nell’estasi. Il gruppo sembra sospeso senza alcun punto d’appoggio nella cornice dell’altare (fig. 4). È vero che l’intera composizione potrebbe apparire eccessivamente patetica: è ovviamente una questione di gusto e di educazione sulla quale è inutile polemizzare.

Ma se un’opera d’arte può servire a suscitare sentimenti di fervida esaltazione e trasporto mistico cui miravano gli artisti barocchi, dobbiamo ammettere che Bernini raggiunge lo scopo in maniera magistrale. Egli mette via ogni ritegno e tocca un vertice di commozione che fino ad allora gli artisti avevano evitato. Se paragoniamo il volto della santa in estasi (fig. 5) con qualunque opera dei secoli precedenti, vediamo che Bernini riesce ad esprimere una intensità fino ad allora mai tentata in arte.

Perfino il trattamento del drappeggio è interamente nuovo: invece di farlo ricadere con pieghe dignitose alla maniera classica, egli le contorce, le rende vorticose e accentua l’effetto drammatico e dinamico dell’insieme. Ben presto tutta l’Europa lo imiterà.

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Figura 5Giovan Lorenzo BerniniCappella Cornaro, Estasi di santa Teresa Particolare della fig. 4S. Maria della Vittoria, Roma

Figura 4Giovan Lorenzo BerniniCappella Cornaro, Estasi di santa Teresa Marmi policromi, legno, stucco. S. Maria della Vittoria, Roma

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Mentre procedevano i lavori della cappella, Bernini era impegnato anche in un’altra delle sue opere più importanti, il colonnato di piazza San Pietro (fig. 6). La sistemazione della piazza fu compiuta sotto il pontificato di Alessandro VII, tra il 1656

e il 1667. L’opera è considerata il simbolo della chiesa trionfante sulla riforma luterana e Bernini lo conferma dichiarando «l’ho concepita per ricevere a braccia aperte maternamente i cattolici, per confermarli nella fede».

Ma oltre che per motivi simbolici e liturgici, la piazza esprime anche un’es igenza vis iva: rendere maggiormente evidente la cupola michelangiolesca di San Pietro. Bernini concepisce uno spazio trapezoidale (fig. 7) antistante la chiesa, definito da due “bracci” d irettamente collegati alla facciata.

I l trapezio è uti l izzato in senso antiprospettico, proprio per avvicinare visivamente il fronte della chiesa.

Ma il trapezio è solo uno spazio di transizione tra la basilica e l’immensa piazza ellittica. Questa ha l’asse maggiore nel senso della lunghezza ed è delimitata da un grandioso colonnato. Questa forma, in realtà una via di mezzo tra circolo ed ellisse, è stata considerata un compromesso tra la teoria_tolemaica e quella che con Keplero sosteneva la forma ellissoidale della terra.

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Figura 6Giovan Lorenzo BerniniColonnato di piazza San Pietro 1656-1667Roma

Figura 7Giovan Lorenzo BerniniColonnato di piazza San PietroSchema geometrico di riferimento

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A Roma, insieme al Bernini, operava anche l’architetto svizzero-italiano Francesco Borromini (1599-1667), formatosi come intagliatore di pietre, ma impiegato come scultore decorativo e disegnatore. Collaborò con Bernini per i lavori di San Pietro, ma i due furono divisi presto da un’incompatibilità di carattere. Borromini era cupo, litigioso, frustrato e nevrotico - e morì suicida -. In realtà conosceva assai meglio del Bernini l’antica architettura romana e aveva un interesse assai più profondo per i problemi strutturali e un coraggio maggiore nel risolverli, oltre ad essere un ispirato studioso della geometria.

Cominciò a lavorare in proprio piuttosto tardi e completò un numero relativamente ridotto di edifici. Sant’Ivo alla Sapienza (figg. 9, 10, 11) è uno dei più belli. La sua pianta ingegnosa, formata da due triangoli equilateri che si intersecano e da cerchi (fig. 8), crea un insolito interno esagonale.Nato come cappella dell’Archiginnasio -la

futura università di ROMA- il nuovo edificio doveva fornire e s s e n z i a l m e n t e s p a z i o sufficiente alle prediche per gli studenti.

La cupola non ha precedenti per l a s u a c o n c e z i o n e , e s s e n d o semplicemente la continuazione delle pareti interne verso l’alto, sino al loro incontro nel cerchio di luce sotto la lanterna (fig. 9). Si raggiunge una assoluta unità spaziale senza sacrificare né la varietà né il movimento. Aveva però in questo progetto una parte importante anche il simbolismo: si dice che la pianta fosse basata sul disegno schematico di un’ape con le ali piegate, simbolo della famiglia Barberini, a cui apparteneva il papa Urbano VIII che aveva dato l’incarico al Borromini.

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Figura 8Francesco BorrominiSant’Ivo alla Sapienza RomaSchema geometrico di riferimento

Figura 9Francesco BorrominiSant’Ivo alla Sapienza 1642 RomaInterno della cupola

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La “stella di David” a 6 punte, formata dall’intersezione di due triangoli, è un antico simbolo di saggezza particolarmente adatto a una cappella universitaria: in effetti l’intero edificio è concepito come emblema della sapienza portata dalla discesa dello Spirito Santo, che con la Pentecoste aveva fatto dono agli apostoli della conoscenza delle lingue.

Un curioso elemento dell’esterno (fig. 11) è la corona a spirale della lanterna conclusiva, simile a una ziqqurat babilonese. Allude forse alla confusione delle lingue presente nella Babele della Bibbia?Per gli interni, Borromini non impiegava i ricchi materiali tanto cari al Bernini. Quello di S. Ivo è tutto decorato di stucchi2, originariamente dipinti di bianco o di tonalità biancastre.

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2 Col termine stucco si definisce un impasto di calce, polvere di marmo, sabbia lavata, caseina mescolati in proporzioni variabili rispetto alla funzione e alla necessità. L’impasto varia anche in rapporto al tipo di materiale reperibile a seconda delle località. Lo stucco viene utilizzato, sin dalle civiltà più remote, sia come elemento di riempimento e rifinitura in architettura, sia come elemento di decorazione.Nel Seicento e nel Settecento lo stucco ha un ruolo importante come complemento alla scenografia architettonica. Questo cambiamento esige una tecnica di modellazione più spericolata: le figure sono realizzate con vere e proprie “anime” o armature in ferro o altro metallo, intorno a cui sono sono modellate le forme in stucco. Da ricordare le figure a tutto tondo che entrano in ampia misura nella decorazione architettonica, come ad esempio le statue di Giacomo Serpotta, pensate come attori nelle sue scenografie a stucco che caratterizzano tanti interni siciliani, soprattutto palermitani.

Figura 10Francesco BorrominiSant’Ivo alla Sapienza 1642 RomaIndividuazione della stella a 6 punte

Figura 11Francesco BorrominiSant’Ivo alla Sapienza 1642 RomaVeduta dall’interno del cortile

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Il Barocco siciliano e il caso di Catania

Nel 1693 tutte le città e i villaggi della Sicilia orientale furono devastate da un forte terremoto. Nell’area sud-orientale molte città andarono completamente distrutte e la decisione di ricostruirle rese possibili le piante geometricamente regolari di Noto, Avola e Grammichele (figure A, B e C).

Catania aveva già duramente risentito dell’eruzione dell’Etna del 1669, quando una muraglia di lava tagl iò in due la parte occidentale della città e ne invase il porto. Il terremoto la danneggiò più gravemente di qualsiasi altra g rande c i t t à . Deg l i ed i f i c i precedenti al 1693 non restano che il medievale Castello Ursino e le tre absidi normanne della

Cattedrale. In effetti la città fu ricostruita di sana pianta sulla sede originaria. Gli ideatori della Catania moderna sfruttarono il disastro per tracciare le due grandi arterie che si tagliano ad angolo retto nella Piazza del Duomo e dividono la città in quattro rioni. L’opera di ricostruzione fu organizzata rapidamente sotto la guida del vescovo di Catania e dell’architetto Alonzo Di Benedetto. Ma poiché solo un uomo non poteva far fronte alla mole dell’intera riedificazione, si chiesero aiuti ad altre città. Alonzo e i suoi colleghi dovettero lavorare in armonia, perché lo stile dei monumenti è omogeneo.

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Figura AVeduta aerea di Noto (SR)

Figura CPianta settecentesca di Avola

Figura BVeduta aerea di Grammichele (CT)

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I primi risultati dello sforzo ricostruttivo sono evidenti negli edifici che circondano la piazza del Duomo (figura D): l’Arcivescovado, il Seminario dei Chierici e un palazzo privato nell’angolo sud-ovest. Le decorazioni tutt’intorno alle finestre sono ricche di

immaginazione nei particolari; ma le bugne3 sono estremamente varie, ora piatte, ora quadrate, ora oblunghe, ora sfaccettate, ora decorate con foglie d’acanto. Lo stile tocca complessi gradi di elaborazione: nel portale di Palazzo Massa, sulle facciate del Palazzo Biscari, sull’ala principale del Convento dei Benedettini (oggi sede dell’Università), le finestre si arricchiscono ancora ed esplodono in una lussureggiante fantasia di rilievi con putti, festoni e ghirlande. Ma l’intera situazione artistica catanese mutò in seguito all’arrivo, intorno al 1730, di Giovanni Battista Vaccarini, che il Senato aveva nominato «architetto commissario prefetto delle opere della città». Nato a Palermo nel 1702, aveva seguito un periodo di formazione a Roma, dove era rimasto folgorato dalle idee di Bernini e Borromini. Di fronte al Municipio di Catania, in piena Piazza del Duomo, il Vaccarini costruì nel 1736 una fontana (figura F) composta da un obelisco eretto su un elefante, destinato a diventare il simbolo della città. Nella sua concezione generale essa si può ricondurre all’elefante berniniano della Minerva a Roma (figura E).

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3 ll bugnato è una lavorazione muraria utilizzata sin dall'antichità e ripresa, con modalità e forme diverse, in altre epoche e fino ai giorni nostri.È costituito da blocchi di pietra sovrapposti a file sfalsate preventivamente lavorate in modo che i giunti orizzontali e verticali risultano scanalati ed arretrati rispetto al piano di facciata della muratura, con un effetto aggettante di ogni singolo blocco.Il bugnato si distingue secondo la forma e il rilievo delle bugne, che può essere di diverse dimensioni e forme e con trattamenti materici rustico, liscio, squadrato, a cuscino, a punta di diamante.

Figura DPiazza del Duomo a Catania

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Ma mentre a Roma la ba se è s emp l i c e e rettangolare e tutto l’interesse è concentrato n e l m o v i m e n t o dell’animale, nell’opera del Vaccarini la base è riccamente articolata e l’elefante, scolpito in un blocco grezzo di lava ne ra , sp r i g i ona un fascino quasi primitivo, essenziale. Tradizione e leggenda vogliono che tanto l’obelisco quanto l’elefante siano antichi ma molto restaurati e rimaneggiati.

Ad ogni modo il Vaccarini, architetto geniale, intervenne un pò in ritardo nel disegno urbanistico della città, direi quasi a cose fatte. Ma il suo grande merito fu quello di non lacerare il tessuto urbano, che ai suoi occhi dovette sicuramente apparire provinciale e non propriamente moderno. La ricostruzione di Alonzo, del Duca di Camastra, di Monsignor Riggio aveva seguito alterne vicende di ripicche, di noncuranza dei regolamenti comunali e di veri e propri abusi. Capomastri contro impiegati comunali, vigili contro potenti signorotti di quartiere: uno sviluppo unitario e organico, pur possibile, si era arenato davanti a tali contrasti. La differenza fondamentale tra Alonzo di Benedetto e i successori con Giovan Battista Vaccarini sta nell’uso della decorazione: per Alonzo la struttura doveva essere ricoperta, sommersa dagli ornamenti, doveva sparire come le ossa nella carne. Per Vaccarini conta la composizione architettonica, il dialogo tra i vari edifici del contesto urbano, la potenza strutturale delle masse edili. La sua prima opera catanese, la facciata del Duomo (figura G), si mantiene ancora troppo rigida e non esprime al meglio la creatività dell’architetto palermitano. È evidente la sua padronanza del mestiere ma il risultato non decolla.

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Figura EGiovan Lorenzo BerniniObelisco della Minerva 1667S. Maria sopra Minerva, Roma

Figura FGiovanni Battista VaccariniFontana dell’Elefante 1735Piazza del Duomo, Catania

Figura GGiovanni Battista VaccariniDuomo 1758, Catania

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La facciata, preesistente, risulta eccezionalmente larga e, sebbene le colonne in risalto e i frontoni ricurvi non manchino di vivace movimento (figura H), il mov imento non un i f i ca l a superficie e sembra disperdersi in tanti episodi non sincronizzati. In seguito, il Vaccarini creerà facciate panciute, ondulate, articolate. La rigidità di questa sua prima opera catanese venne però chiaramente avvert ita dall’architetto, che non volle ripetere le incongruenze.

Più complessa è la Badia di Sant’Agata (figura I). In pianta presenta una doppia curva ad “esse”, come la chiesa borrominiana di San Carlo al le Quattro Fontane. Nel prospetto le porzioni laterali sono convesse mentre quella centrale è concava. Un alto attico corre lungo la parte superiore della facciata, nel quale si incunea, spezzandolo, il frontone centrale. Un elemento insolito è la panciuta gelosia4 che taglia orizzontalmente il

disegno a livello dei capitelli.

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4 Gelosia: tipico balcone barocco, concepito all'epoca per permettere alle dame di affacciarsi nonostante le gonne dell'epoca.

Figura HGiovanni Battista VaccariniFacciata del Duomo 1758Piazza del Duomo, Catania

Figura IGiovanni Battista VaccariniBadia di Sant’Agata 1748-67 Catania

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La gelosia si estende sull’intera lunghezza del prospetto e sembra integrarsi con grande m a e s t r i a n e l d i s e g n o architettonico.Nella facciata il Vaccarini dà il meglio di se come ideatore di particolari decorativi, aiutato anche dalla particolarità della pietra lavica catanese, priva di grazia intrinseca ma adattissima ad esser tagliata e lavorata in maniera precisa.

Brillanti e geniali sono i capitelli delle robuste lesene 5 (figura L),

composti simbolicamente dalle palme del martirio, dai gigli come simboli di verginità e dalle corone di gloria eterna, tutti propri della santa. Vaccarini si ispirò certo al modello del capitello corinzio, ma sostituì le foglie d’acanto e le tradizionali decorazioni con i simboli di Agata e diede vita ad una composizione carica di fantasia estremamente controllata. Alcuni elementi del l ’ intera composizione in effetti risultano poco armonizzati nel contesto generale e non presentano la stessa freschezza innovativa dei capitelli e delle gelosie, ad esempio. Ma forse la spiegazione di questa dissonanza compositiva sta nel fatto che la costruzione della Badia si prolungò per un trentennio e può aver inevitabilmente risentito di diversi rallentamenti progettuali ed esecutivi. Lo stile del Vaccarini dominò per diversi decenni l’architettura catanese, ma altri architetti lavorarono in stili diversi dal suo.Val la pena ricordare Stefano Ittar, autore della Collegiata e il suocero Francesco Battaglia, che lega il proprio nome al restauro e all’ampliamento di Palazzo Biscari.Entrambi furono coinvolti nel dibattito artistico e culturale della città di Catania dal grande collezionista ed archeologo Ignazio Paternò, principe di Biscari.

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5 Lesena Risalto verticale di una parete muraria, ripetuto in genere ritmicamente, che può avere funzione sia decorativa sia di rinforzo della parete medesima. Quando ha funzione tendenzialmente strutturale, è più propriamente detta parasta.

Figura LGiovanni Battista VaccariniBadia di Sant’Agata 1748-67 CataniaDettaglio dei capitelli

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In via dei Crociferi (figura M), dove la massima parte degli edifici, sacri e profani, sono del Vaccarini o di suoi diretti collaboratori, si ha la sensazione della più straordinaria composizione di spazi che sia dato ammirare in una strada. La chiesa di San Benedetto, quella di San Giuliano e quella di Santa Chiara non sembrano semplicemente allinearsi all’asse stradale, ma costituiscono una vera e propria composizione affidata a delle gelose aree di rigore, delimitate da importantissime e curatissime cancellate in ferro battuto, veri e propri capolavori di artigianato locale, che assumono un valore simile a quello delle cornici nei quadri.

Questi spazi sembrano incastrarsi alla perfezione come nei pezzi di un prezioso mosaico: un’architettura di vuoti, che in assenza di un preciso allineamento crea una composizione cementata come un luogo di altissima civiltà. Sta forse qui il segreto di questa piccola e straordinaria strada catanese, non a caso insignita dell’onore di essere patrimonio UNESCO.

«Nella luce trafiggente del mezzogiorno siciliano, per cui le ombre sono di una luce appena meno intensa, un luce in minore, i risalti gonfi delle colonne, gli sbattimenti delle cornici e dei timpani acquistano forme d’aria densa, come l’acqua che resta nelle rocce dopo la mareggiata, e lentamente svaporando imbianca.»

Cesare Brandi, 1949

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Figura MCataniaVia dei Crociferi

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Il Futurismo«Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavorodal piacere o dalla sommossa; canteremo le mareemulticolori o polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi.»

Filippo Tommaso Marinetti

Se Caravaggio ha inventato la fotografia e il Neorealismo, Giovan Lorenzo Bernini ha precorso, con quattro secoli di anticipo, il dinamismo plastico. Ogni sua scultura va guardata a 360 gradi, non ci si può limitare a un’occhiata frontale. Le sue figure scorrono come una pellicola, ogni particolare genera il successivo, tutto è concepito come un continuum spazio-temporale. Il suo interesse è concentrato sul vento, sull’acqua, su tutto ciò che agita la materia dall’interno. Proprio come trecento anni dopo faceva Umberto Boccioni.Come a Caravaggio e ai cubisti, a Galileo e al Greco, ai futuristi gliene dissero di tutti i colori. Che erano dei cialtroni, dei buffoni, degli intruglioni. Che i loro quadri erano peggio dei cartelloni delle pubblicità, che sembravano scarabocchi degli alienati del manicomio. E giù schiaffi, pugni, lancio di pomodori marci e altri ortaggi di stagione. A differenza di altri movimenti moderni, il Futurismo non si occupava però soltanto di arte. Più che uno stile fu un’ideologia. Creato a Milano nel 1908 dal poeta Filippo Tommaso Marinetti, già l’anno dopo, con la pubblicazione a Parigi del primo Manifesto, ebbe subito un impatto internazionale. Dall’Italia alla Russia zarista e persino negli Stati Uniti il Futurismo divenne più noto del Cubismo. Affascinato dal rumore, dalla velocità e dall’energia meccanica della città moderna, Marinetti voleva cancellare il passato, in particolare il culto e la cultura del passato italiano, voleva bruciare i musei, prosciugare i canali di Venezia, e sostituire tutto con una nuova società, una nuova poesia e una nuova arte basate su nuove sensazioni dinamiche. Tra gli artisti che risposero all’appello di Marinetti, il più lucido e il più talentuoso come pittore e scultore fu Umberto Boccioni (1882-1916). Fu lui a scrivere il Manifesto dei pittori futuristi del 1910, nel quale si proclamava «il dinamismo universale deve essere reso come sensazione dinamica: il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi». Egli sosteneva che le composizioni artistiche dovessero combattere la staticità, in nome di quella che chiamava “simultaneità”, un procedimento per concepire i quadri come piccole sezioni di totalità continue.

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Altri protagonisti della pittura futurista furono Giacomo Balla, Gino Severini, Carlo Carrà, Fortunato Depero tra i più famosi, e folta fu la schiera di artisti futuristi che proveniva dalla Sicilia (Rizzo, Corona). Del resto, lo stesso Boccioni frequentò qualche anno di scuola superiore a Catania. Il Futurismo fu un fenomeno di breve durata -già nel 1916 può definirsi finito, nonostante un tentativo di riportarlo in vita dopo la prima guerra mondiale- ma ebbe conseguenze ben più durature e un’influenza ben più vasta di quanto si possa credere. Ne risentirono quasi tutti i movimenti artistici europei contemporanei, compreso il Cubismo nella sua fase sintetica, il movimento Dada e il Surrealismo, compreso l’Espressionismo astratto americano. La città che sale è uno dei quadri più potenti, intelligenti e innovatori del XX secolo. La rappresentazione del movimento è ottenuta attraverso una spinta incalzante e continua di colori e forme lungo la diagonale del dipinto, da destra verso sinistra.

La rappresentazione del movimento è ottenuta attraverso una spinta incalzante e continua di materia pittorica lungo la diagonale del dipinto, da destra verso sinistra. In questo, Boccioni è erede di tutti i grandi “rappresentatori di movimento”, che hanno utilizzato le diagonali e le linee guida direzionate come indicatori di un moto interno alle figure rappresentate.

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Figura NUmberto BoccioniLa città che sale 1910 cm 200 x 290,5Metropolitan Museum of Art, New York

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Così fu per Donatello, per Michelangelo, per Caravaggio, per il grande Giovan Lorenzo Bernini.Ma oltre ai puri accorgimenti tecnici Boccioni aggiunse un’emotività senza pari. Il vortice a spirale di questa periferia sferzata da un vento-frullatore modella le forme in una sorta di moviola accelerata. La pittura sembra perdere contorni e dimensioni e profetizzare le intuizioni americane dell’Action Painting americana del secondo dopoguerra. L’onda pittorica sembra incresparsi, in basso a destra, e generare un gigante di materia rossa alto come una montagna. Il gigante rosso si infrange contro il s e l c i a t o m e t r o p o l i t a n o , frantumandosi in filamenti di materia bluastra. Dall’impatto dinamico del colore sembrano generarsi le forme, il grande cavallo scatenato, gli operai che tentano di arginarne la furia, le altre teste equine abbassate e impennate, come squassate nella concitata azione. In alto, il fantasma di una casa in costruzione sembra avvolto in una corazza di tubi metallici, a ricordare l’inquieto sonno della provincia

italiana.

G i gan t i , p i gme i , azione da Far West, fumo, macch inar i , ed i f i c i i n c o s t r u z i o n e : i l t e m a futurista del dinamismo si svolge con le immagini d e l l e n u o v e

“tecnologie” (treni, tram, automobili, transatlantici, aerei) contrapposte alla potenza e all’energia del cavallo. Ma non il cavallo romantico ed eroico della tradizione, bensì la “macchina animale” che è destinata, nella sua forza inarrestabile, a travolgere e schiacciare ogni passatismo e vecchiume. Per ottenere questi effetti di progressiva dematerializzazione e ricostruzione delle forme Boccioni si serve di pennellate sottili e saettanti, incandescenti nel colore, disposte secondo le direttrici dinamiche della composizione, strutturata, come già ricordato, secondo un concitato moto diagonale.

Arte e territorio Anno scolastico 2012.2013 Dario D’Antoni

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Il dipinto, esposto per la prima volta nella “Mostra d’arte libera” a Milano nel 1911, si intitolava inizialmente Il lavoro; ovviamente anche in questo caso non mancarono i dibattiti e gli sberleffi, addirittura la critica parlò di “un quadro poco eloquente e suggestivo, che manca di chiarezza e di organicità”. In seguito a questo insuccesso e alle violente polemiche accese dall’intero movimento futurista, Marinetti e i suoi decisero di esportare il movimento a Parigi, allora capitale mondiale dell’arte. Marinetti, Carrà, Russolo, Boccioni e Severini incontrarono Picasso e Braque, mentre

Guillame Apollinaire, uno degli intellettuali e critici d’arte più ascoltati del tempo, scrisse entusiastici articoli su di loro, specialmente di Boccioni. Il grande dipinto Il lavoro era stato intanto venduto a Londra e aveva ormai assunto il nome The rising city. Ma fu nel 1916, durante una retrospettiva organizzata a Milano in onore e memoria di Boccioni, morto prematuramente a 34 anni, che la critica cominciò a leggere in questo dipinto una sorta di programma pittorico, un manifesto per immagini del Futurismo. Si parlò del cavallo come di “una ruota d’elica, azzurro come l’acciaio (in realtà azzurro è il giogo, il collare) che vortica nell’onda o nell’aria”.

Il Futurismo lascia alla pittura moderna e contemporanea la selvaggia e incontaminata sensazione di una corsa che esplode e che non si interromperà mai più.

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Figura OIl gruppo futurista a ParigiRussolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini

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Tutte le considerazioni sono rielaborate e sintetizzate da Dario D’Antoni.

Le citazioni sono liberamente tratte dai testi

Ernst H. Gombrich Il mondo dell’arte (Verona 1952)

Pablo Echaurren Controstoria dell’arte (Roma 2011)

Honour-Fleming Storia universale dell’arte (Bari 1982)

Anthony Blunt Barocco siciliano (Milano 1968)

Cesare Brandi Sicilia mia (Palermo 1989)

Ada Masoero Umberto Boccioni (Milano 2003)

Flavio Caroli La pittura contemporanea (Milano 1987)

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