DA DRESDA A VENEZIA A PIEDI(estratto)

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James Henry Da Dresda a Venezia a piedi Ancora in viaggio con la Musa In appendice, riproduzione anastatica dell’edizione originale (1877) A cura di F. Favaretti Camposampiero Saggio introduttivo di P. Bottalla Libreria Editrice Marco Polo

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Di James Henry (1877). A cura di F. Favaretti Camposampiero. Libreria Editrice Marco Polo - Venezia

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James Henry (1798-1876), nato a Dublino, dove prese una laurea prima in studi classici e poi in me-dicina, fu medico, letterato e poeta. Appassionato stu-dioso di Virgilio, dalla metà degli anni ’40 trascorse buona parte del tempo viaggiando a piedi da una cit-tà all’altra d’Europa alla ricerca di manoscritti virgi-liani. I risultati dei suoi studi apparvero in Notes of a Twelve Years Voyage... (1853) e nei cinque volumi di Aeneidea, per lo più pubblicati postumi. La sua ope-ra poetica comprende My Book (1853), A Half Year’s Poems (1854), Poems Chiefly Philosophical (1856) e Poematia (1866). Il viaggio da Karlsruhe a Bassano, da lui compiuto nel 1856, venne descritto nel poema Thalia Petasata (1859), mentre il resoconto del suc-cessivo viaggio compiuto nel 1857 da Dresda a Vene-zia fu pubblicato postumo col titolo Thalia Petasata Iterum (1877). Un’antologia della sua opera poetica è stata pubblicata nel 2002 (Selected Poems of James Henry, The Lilliput Press, Dublin) a cura di C. Ricks, il quale definisce la poesia di J.H. “semplice, diretta, vigorosa, seriamente comica. E coraggiosa”.

Paola Bottalla, professore ordinario di Letteratura inglese, ha insegnato nelle università di Venezia, Trie-ste e Padova; si occupa di letteratura del Rinascimento inglese, su cui ha pubblicato libri, tra cui True Plain Words (1988) e Counting and Recounting (1995), e numerosi articoli, di poesia vittoriana, di letteratura postcoloniale, soprattutto australiana, e di letteratura per bambini.

Francesco Favaretti Camposampiero. Medico psicoterapeuta, originario di Bassano del Grappa, vive e lavora a Venezia. Nel 1998 ha pubblicato (in collabo-razione con P. Di Benedetto e M. Cauzer) per Dunod-Masson L’esperienza del corpo. Fenomeni corporei in psicoterapia psicoanalitica. Ha curato l’edizione italiana di Thalia Petasata di J.H. (In viaggio con la Musa, Editrice Marco Polo, Venezia, 2003).

Nel 1857 l’irlandese James Henry, medi-co, studioso di classici e poeta, e la figlia Katharine percorrono a piedi il lungo itine-rario che va da Dresda, attraverso la Boe-mia, la Baviera, l’Austria, il Tirolo, il Cado-re e la pianura veneta, fino a Venezia. Il resoconto in versi del viaggio dà origine ad un poema odeporico, Thalia Petasata Iterum: come già nella precedente opera (Thalia Petasata), anche qui viene invoca-ta quale ispiratrice Talia, Musa della poesia gaia e rustica, raffigurata col petaso, il co-pricapo dei viandanti dell’antica Grecia.

Analogamente a quanto osservato da Ma-gris a proposito de Il viaggio nello Hartz di Heine, il taccuino di viaggio di J.H. si svi-luppa secondo un modello nel quale viaggio sentimentale e viaggio dotto si intrecciano sul registro dell’ironia: in mezzo a polverose ed erudite citazioni recuperate dagli archi-vi della storia, tra insegne di locande, det-tagliate elencazioni botaniche e iscrizioni sui muri di chiese e conventi, traspare una visione appassionata dell’esistenza, una ca-pacità di gioire dei piccoli doni del viaggio e della vita: i fiori ad esempio... le persone incontrate lungo il cammino... le visioni del paesaggio... il vino... e, talora, la poesia...

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James Henry

Da Dresda a Venezia a piediAncora in viaggiocon la Musa

In appendice, riproduzione anastatica dell’edizione originale (1877)

A cura di F. Favaretti Camposampiero

Saggio introduttivo di P. Bottalla

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“Addio Dresda! Ci lasciamo alle spalle con piacere i tuoi otto lunghi mesi d’inverno, cielo deprimente, e nuvole e fumo, una folata di tagliente vento di nordest...” Detto questo... volgemmo allegramente il nostro volto verso un suolo più gentile e un sole più caldo e gente meno severa, meno rigida, meno puritana, più sana e più felice di vivere.

9 788890 125911

ISBN 88-901259-1-8

Libreria Editrice Marco Polo€ 18,00

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Titolo originale dell’opera: Thalia petasata iterum, or A foot journey from Dresden to Venice described on the way in verse by James Henry, M. D., Leipzig, Giesecke & Devrient Printers, 1877.

Traduzione di Francesco Favaretti Camposampiero

Realizzazione editoriale: Mirko Visentin – www.mirkovise.netStampa: Litostampa Veneta s.r.l. Mestre/Venezia

© 2006 by Libreria Editrice Marco Polo, Venezia Tel./Fax 041 5226343 www.libreriamarcopolo.com

ISBN-10: 88-901259-1-8ISBN-13: 978-88-901259-1-1

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James Henry

Da Dresda a Venezia a piedi

Ancora in viaggio con la Musa

In appendice, riproduzione anastatica dell’edizione originale (1877)

A cura diFrancesco Favaretti Camposampiero

Saggio introduttivo diPaola Bottalla

Libreria Editrice Marco Polo

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James Henry(da un’incisione di J.H.)

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PREFAZIONE

di Francesco Favaretti Camposampiero

Fortunato chi fece il viaggio di Odisseo.Fortunato se salda, alla partenza, sentiva la corazzad’un amore distesa nel suo corpo, come le venedove mugghia il sangue.

D’un amore di ritmo indissolubile, invitto comela musica, perenneperché quando nascemmo nacque e quandomoriamo, se muore, non lo sappiamo né altri lo sa.

GEORGE SEFERIS

Nella primavera e inizio estate del 1856 James Henry e sua figlia Katharine viaggiano a piedi da Karlsruhe a Bassano, attraversando la Svizzera, il valico del Bernina, le valli lombarde e del Trentino, la regione del Garda e la Valsugana. Il resoconto in versi del viaggio dà vita al poema odeporico Thalia Petasata1, con riferimento a Talia, Musa della poesia gaia e rustica, che portando il petaso, copricapo usato dai viandanti dell’antica Grecia, accompagna e ispira il medi-co-poeta-viaggiatore di Dublino nelle sue peregrinazioni. Nei mesi di giugno e luglio del 1857 la stessa coppia di cammina-tori percorre il lungo itinerario che da Dresda (Sassonia), attraverso la Boemia, la Baviera, l’Austria, il Tirolo e la pianura veneta, condu-ce fino a Venezia. Anche questa volta la musa Talia viene evocata e il viaggio raccontato in un secondo poema Thalia Petasata Iterum, che qui viene presentato in prosa italiana col titolo Da Dresda a Venezia a piedi e in appendice riprodotto nel testo originale inglese.

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Chi già ha avuto occasione di apprezzare il modo di viaggiare e di raccontare di Henry, sarà lieto di poter fare ancora un lungo tra-gitto in sua buona compagnia, immaginando paesaggi e panorami accuratamente descritti, partecipando alle fatiche del cammino per strade in salita e in discesa, lisce o accidentate, con l’alternarsi della pioggia e del sole, incontrando una miriade variopinta di fiori e di piante, con il contrappunto di qualche riflessione tra il filosofico e l’ironico... Infatti, se come scrive Attilio Brilli2, “ogni viaggio degno di que-sto nome tende a tradursi nel racconto di se stesso”, anche per J. Henry il gusto di viaggiare non solo è inestricabilmente legato al gusto del raccontare, ma si traduce con quieta regolarità in un vero e proprio taccuino di viaggio: “nella propria scansione giornaliera, il taccuino rivela la duplice dimensione di ogni viaggio, il sussistere, accanto all’ineffabile esperienza mentale, all’acre sapore dell’avven-tura, di una solerte vigilanza pragmatica, persino fisica”.3

Cieli plumbei, strade accidentate, tasse di soggiorno dell’inospi-tale Dresda, incontri fortuiti nelle sperdute locande di posta, città murate che si ergono sulla pianura boema, conventi che mescolano al loro interno storia e leggenda, processioni del Corpus Domini che sollecitano le domande dell’agnostico (“Chi è il Dio?… Il vesco-vo o quel tanto di acqua e farina impastata che lui porta nell’osten-sorio?”), tavole mortuarie incastonate nel sentiero battuto, e poi le fabbriche di vetro e di specchi della Baviera, la traversata dei Tauri, la visita di Salisburgo, i cieli e i fiumi della Carinzia, i contadini del Tirolo vestiti da festa, le montagne e le valli del Cadore, fino a Ser-ravalle e Ceneda4, Treviso, con la sua campagna, Mestre e Venezia. Gettando uno sguardo alla carta geografica, si vede bene come l’itinerario sia orientato in un’unica direzione: quella direttrice nord-sud che, attingendo all’immaginario mitico del viaggio iniziatico, rappresenta un caposaldo della visione romantica (“verso un suolo più gentile e un sole più caldo e gente meno severa, meno rigida, meno puritana, più sana e più felice di vivere”5), e implica l’idea di abbandonare territori cupi e tenebrosi per plaghe ridenti e solatie, superando la prova dell’attraversamento di alte montagne. Nell’Introduzione al volume In viaggio con la Musa ho sotto-

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lineato il significato profondo che può assumere l’andare a piedi: infatti guardare da lontano, fino alla linea dell’orizzonte, vedere le cose avvicinarsi, potersi fermare, osservare con tranquillità luoghi, fattezze del terreno, delle rocce, delle piante e degli arbusti, vedere poi il tutto alle proprie spalle, equivale a mettere in primo piano la dimensione temporale implicita nell’avvicinamento, nel contat-to sensoriale, nell’allontanamento dall’oggetto dell’osservazione, rendendo così plasticamente e metaforicamente rappresentabili le vicissitudini del rapporto del soggetto col proprio mondo, futuro, presente e passato. Ma il rapporto col mondo degli oggetti, come ha osservato Winnicott e più di recente Bollas, non riguarda soltanto la sfera della conoscenza del reale, bensì riveste anche un significato più profondo come esplorazione ed esperienza di sé: “il moto nel mondo degli oggetti, per scelta, per obbligo o per sorpresa invitante, evoca stati del Sé favoriti dagli oggetti specifici che incontriamo”.6

Accennerei ora ad un altro topos particolarmente utilizzato da Henry, quello della descrizione panoramica delle catene montuose incontrate durante il viaggio:

Il figlio del padrone il mattino seguente ci accompagna su al Burg e ci mostra l’ampia visuale del bacino del grande Danubio: Nesselbach a sudest e la guglia di Hofkirchen da questo lato del fiume, dal lato op-posto Kenzingen; a sudovest il Damenstift di Osterhofen, luogo della memoria della battaglia da quel lato vinta dai Cristiani, persa dagli Ava-ri, un giorno di Pasqua di un migliaio di anni or sono; a nordovest, in lontananza e all’estremo orizzonte, la collina e la chiesa di Bogen, meta desiderata da una moltitudine di esausti, lenti pellegrini bavaresi; più in prossimità la collina separata di Natternberg, sul lato destro del fiume, segnala lo sbocco dell’Isar, che qui non scorre rapidamente; ancor più vicino a noi, a nordovest, da questa parte del fiume, Hengersberg con le sue due colline, le sue due chiese e, un tempo famoso, il monastero di Niederaltaich, a sud infine i verdi pendii sormontati dalla lunga, nera, ininterrotta linea dell’Hardt che chiude la vista; lo sguardo poi spostandosi verso nord può posarsi sul Dachstein, sulla tripartita Rusel e la sommità dominante del Bichlstein.7

Simili vedute panoramiche da un lato sono espressione di un retag-

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gio illuministico o anche di un nascente atteggiamento conoscitivo di tipo positivistico: collocarsi in un punto elevato della crosta terre-stre ed enumerare le vette circostanti per tutto l’arco dell’orizzonte, recuperando al mondo della realtà un territorio precedentemente popolato da dei e da mostri8; ma contemporaneamente sono il risul-tato di un abbandono alla contemplazione estatica delle meraviglie della natura che si ispira al Romanticismo e di cui Heine fornisce più di un esempio:

Ecco la fata della montagna: è lei che ha pronunciato la formula ma-gica che rende così meraviglioso il mondo laggiù». Sì: tutto ci appare sommamente meraviglioso, quando per la prima volta lo abbracciamo con lo sguardo dall’alto del Brocken; da ogni lato il nostro spirito riceve nuove impressioni che, varie fino a contraddirsi, si combinano nella nostra anima in un sentimento grande, ancora confuso, ancora non compreso.9

Seguendo Magris, possiamo dire che se la tradizione dell’Illumi-nismo settecentesco ha portato all’affermazione del grande model-lo del viaggio colto, proteso alla conoscenza concreta del mondo, il Romanticismo ne ha capovolto il senso, trasformando il Grand Tour in “metafora filosofica, ancorché calata nella realtà e trasfigura-ta nella poesia”, “odissea alla ricerca della propria identità”10; vi sono tuttavia esempi (Heine) in cui viaggio sentimentale e viaggio dotto vengono presi e intrecciati insieme sul registro dell’ironia:

Viaggio sentimentale vuol dire concentrare la propria attenzione non soltanto e non tanto sui grandi monumenti e momenti della storia del-la cultura, bensì soprattutto su quei piccoli dettagli, apparentemente irrilevanti, nei quali traluce, come in un trepido balenio, il riflesso di una universalità altrimenti inaccessibile. Osterie, effimeri colori di un cielo o di una sera, un sorriso su un volto, le chiacchiere o il battibecco colti per caso sulla strada diventano lo spiraglio attraverso il quale si può gettare un’occhiata fuggevole su quel Tutto che altrimenti è inac-cessibile, oppure viene presuntuosamente falsificato se si presume di poterlo rappresentare monumentalmente, in presa diretta.11

Il taccuino di viaggio di J. Henry si sviluppa su una simile sensibili-

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tà, lasciando trasparire, in mezzo a polverose ed erudite citazioni re-cuperate dagli archivi della storia, tra insegne di locande, dettagliate elencazioni botaniche, epigrafi su pietre tombali, iscrizioni sui muri delle chiese e dei conventi, un’apertura alla visione appassionata del-l’esistenza, una capacità di gioire dei piccoli doni offerti dalla vita – i fiori, ad esempio, o il vino o la poesia – e insieme un’attitudine all’ironia di fronte alla finitezza di ogni realtà. Difficile trovare per questo poema di viaggio parole più adatte di quelle usate da Magris a proposito de Il viaggio nello Harz di Hei-ne:

Il viaggio […], così pieno d’amore per l’esistenza e per la natura, si snoda tra la carta e la vita; fra la mappa che copre il mondo, con arzigo-golata, meticolosa e puntigliosa varietà […], e l’accidentata, variegata e irregolare superficie della vita stessa coperta da quella mappa. In questo senso Heine crea un modello di viaggio, o almeno rielabora il grandis-simo modello sterniano; quel viaggio ironico e dotto, impossibile senza la precisione filologica e giuridica, che va teneramente incontro alla vita, consapevole della sua latitanza e della sua lontananza.12

Certo le differenze non mancano. Quando scrive il Il viaggio nello Harz Heine ha 29 anni, un’età in cui più facilmente si può provare un sentimento di sintonia e armonia con il pulsare della vita e del-l’universo:

[…] il mio cuore esala profumi così intensi da stordirmi: e io non so più dove l’ironia finisca e dove inizi il cielo e popolo l’aria dei miei so-spiri, e vorrei dissolvermi di nuovo in atomi dolcissimi, in una divinità increata.13

L’Henry del Thalia Petasata Iterum, giunto sulla soglia dei 60 anni, ha già conosciuto il dolore della perdita della donna amata e non è passato indenne attraverso alcune strettoie dell’esistenza (ad esempio le delusioni riservategli dall’essersi troppo fidato dell’amicizia), ma ciò non gli impedisce di aprirsi ancora con vigore alla vita: quando ad esempio invita Talia, la dolce fanciulla della montagna, a seguirlo per colli e per valli, a respirare aria nuova, ad incontrare nuovi suo-ni e nuovi colori; quando risalendo la forra della Taurach, si lascia

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sedurre dai dolci sussurri della Musa; quando protesta il suo diritto di uomo libero di non rispondere ai quesiti rivoltigli dal gendarme asburgico per gli interessi del Kaiser; quando dà voce alle visionarie immagini del sogno, riportando in vita antichi eroi Unni sperduti sulle rive della Drava o il gigante di Dobbiaco o quando canta l’eter-na giovinezza di Bacco che, tirso in mano e corona d’edera in fronte, giunge s’un cocchio tirato da tigri e con pampini di vite avvolti alle redini, a civilizzare le selvagge pianure d’Occidente. È nella natura del vero taccuino di viaggio l’alternarsi di vari toni e di vari umori, cronache minute e talora voli pindarici, in suc-cessione non prevedibile, come spesso accade nel fluire del viaggio autentico e della vita. La meta finale del lungo viaggio è Venezia, ma non è il caso di aspettarsi grandi descrizioni: niente suggestioni “turistiche”, solo poche, scarne pennellate per tratteggiare una Venezia estiva e son-nolenta:

Isole incoronate da chiese arginano il mare e striano l’orizzonte di torri e di minareti. Lunghe, strette, silenti, le gondole, nere come la notte o come la morte, non vogate ma sospinte in avanti da vogatori in piedi, incessantemente scivolano in su e in giù, in avanti e indietro, a destra e a sinistra, in tutte le direzioni, allegre per quel tanto di allegria che può esservi nel più completo silenzio.14

Un’immagine di Venezia non dissimile da quella tratteggiata da Ruskin poco più di vent’anni prima: “Venezia giace ancora dinanzi ai nostri sguardi nel periodo finale della decadenza; un fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così immobile, così spoglio di tutto”.15

E infine il commiato dal lettore, venato da un pizzico di nostal-gia, e una timida, unica, richiesta, quella di essere ricordato qualche volta con piacere come un vecchio cantore di storie e di viaggi, un nuovo Gleeman16 irlandese.

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1 In viaggio con la Musa, Editrice Marco Polo, Venezia, 2003.

2 A. Brilli, Arte del viaggiare. Il viaggio materiale dal XVI al XIX secolo, Silvana ed., Cinisello Balsamo, 1992, p. 11.

3 A. Brilli, op. cit., p. 11.

4 Antichi abitati che attualmente costituiscono la città di Vittorio Veneto.

5 p. 61 del volume.

6 C. Bollas, Essere un carattere, Borla, Roma, 1995, p. 20.

7 p. 19 del volume.

8 Siamo agli albori del viaggio turistico e dell’escursionismo alpinistico, attivi-tà per le quali diviene indispensabile poter avere indicazioni topografiche dei luoghi montani: sono quindi anche gli anni in cui si afferma il panorama di montagna pittorico o fotografico. Proprio nel 1857 Gustav Seelos (1831-1911) presenta a Vienna la sua veduta panoramica a 360° delle Dolomiti dal Corno del Renon. Vedi a questo proposito: F. Cucinato, P. Pizzo, (1994) “Panorami delle Alpi” in Panorami della Mitteleuropa, Edizioni della Laguna, Monfalcone, 1994; S. Demetz, A. Loner e B. Pellegrinon (a cura di), Le Dolomiti nelle anti-che vedute. Catalogo della Mostra, Museo di Bolzano, 2002.

9 H. Heine (1826), Il viaggio nello Hartz, tr. it. Marsilio, Venezia, 1994, p. 117.

10 C. Magris, Prefazione a H. Heine H, op. cit., p. 9.

11 C. Magris, op. cit. p. 12.

12 C. Magris, op. cit. p. 15.

13 H. Heine, op. cit., pp. 169-170.

14 p. 133 del volume.

15 J. Ruskin, Viaggi in Italia 1840-1845, tr. it. Passigli, Firenze, 1985.

16 Gleeman come nome comune significa menestrello, ma per J. H. è il leggendario autore de “La canzone del viaggiatore”, vedi nota 36 a p. 135 del volume.

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JAMES HENRY, ALL’INCROCIO TRA VISIONE BUCOLICA E GUSTO ROMANTICO,

TRA ‘COMTE PHILOSOPHIQUE’ E ‘GRAND TOUR’.1

Saggio introduttivo di Paola Bottalla

James Henry è una personalità vigorosa e originale di viaggiatore e scrittore che si pone a un crocevia, o meglio traccia un percorso tra paesi e culture diverse, intraprende il suo viaggio in cerca della verità nella natura, nella società e nella letteratura (intitola la prima parte della sua traduzione/commento dell’epica di Virgilio Dodici anni di viaggio di scoperta nei primi sei libri dell’Eneide). Il viaggio è metafora chiave della vita, della conoscenza, della crescita interiore: è insieme itinerario fisico e mentale, reale e fan-tastico. La letteratura di viaggi conosce un’enorme eterogeneità e varietà di tipi e modelli, dai viaggi favolosi di San Brandano o di Sir John Mandeville, a quelli reali e non meno favolosi di Marco Polo, dall’esperienza dello spazio più prossimo del Viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre, a quella dello spazio più re-moto del Viaggio al centro della terra o Ventimila leghe sotto i mari di Verne, dai viaggi moderni ai margini delle galassie a quelli avanti e indietro nel tempo, dal viaggio nel Paese delle Meraviglie, cui si accede scendendo nella tana del Bianconiglio o passando attraverso lo specchio, a quello verso l’Isola che non c’è, cui si arriva volando in direzione della seconda stella a destra e dritto verso il mattino. Come sostiene Whitman, la vita è un “perpetuo viaggio”, rivolto a “scoprire l’universo stesso in forma di strada, in forma di strade innumerevoli che si aprono alle anime in cammino”.2

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Più uno viaggia e più scopre che in viaggio non ci sono itinerari né regole, che quello che si crede noto non lo è, mentre forse l’igno-to è familiare, che l’oggetto della ricerca, la meta del viaggio, non è segnata sulle mappe. Ismaele, imbarcato sul Pequod per l’epica cac-cia a Moby Dick, mentre racconta la storia di Queequeg, constata che il suo paese: “Non è su nessuna mappa. I posti veri non ci sono mai”3; il capitano della grande epopea nonsense di Carroll, la Caccia allo Snualo 4 (Snark=serpente/squalo), fornisce alla sua ciurma una grande mappa che raffigura il mare “senza la minima traccia di ter-ra”, “il vuoto perfetto e assoluto”, e i marinai l’accolgono con entu-siasmo perché, senza latitudine e longitudine, meridiani e paralleli e altre complicazioni, tutti la possono capire; il Paziente inglese di Ondaatje5 svolge i suoi intrighi di guerra e spionaggio e le sue storie d’amore e di morte intorno a una copia di Erodoto, costellata di appunti, disegni e riscontri, che per Almasy rappresenta la map-pa individuale della sua mente e la mappa collettiva della storia di civiltà incrociate, che sconfiggono i tentativi degli stati di stabilire confini, controlli e proprietà, come il mare e il deserto cancellano continuamente le vecchie tracce e creano nuovi percorsi. Il libro di viaggio, memoria, diario, libro di bordo, racconto di esplorazione, di avventura, di esilio o di fuga, offre una triplice pos-sibilità di esplorazione, nel mondo, nella mente dell’autore, e nella nostra. Nel corso della lunga e variegata storia del genere (da Omero a Erodoto, dalla monaca Egeria a Marco Polo, da Colombo a Sir Walter Ralegh, da Lady Montague a J. Boswell, da Sterne a Darwin, a H.D. Thoreau, a Evelyn Waugh, Graham Greene, Naipaul, R. Barthes, B. Chatwin) il passaggio alla modernità è segnato dal dia-logo che si stabilisce tra l’io del viaggiatore/narratore e i luoghi e le persone che incontra, cui il suo umore e sensibilità conferiscono significato.6 Sterne nel Viaggio sentimentale attraverso la Francia e l’Italia, 1768, decostruisce con garbata ironia il ‘grand tour’ sette-centesco, destinato tradizionalmente a completare l’apprendistato culturale, filosofico e politico dell’aristocratico o altoborghese, so-stituendo ai luoghi dell’arte e del potere l’asino morto per strada o il borsellino di raso verde di una cameriera. Che tipo di viaggiatore è James Henry? Un viaggiatore a piedi,

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che cerca il contatto concreto con la natura e affronta fatiche e disa-gi, (insieme con la moglie, e poi con la figlia, attraversò 17 volte le Alpi) per guadagnare una prospettiva dall’alto, per raggiungere una biblioteca rara, reincontrare a distanza di anni un amico. Quando nobili ospiti lo fanno riaccompagnare in carrozza, soffre per questa infrazione al suo stile di vita, e invidia persino il guidatore e i cavalli, agognando di tornare libero di fermarsi o deviare quando gli pare, di raccogliere piante aromatiche o ascoltare il cinguettio del ciuffolot-to, o salutare una bella contadina dai capelli corvini e gli orecchini d’oro, che porta un paio di galline legate al mercato (In viaggio con la Musa [VM], p. 245). Il viaggio popolano, a piedi o a dorso d’asi-no, contrapposto a quello aristocratico, a cavallo o in carrozza, ha una sua tradizione fra gli spiriti liberi, squattrinati o benestanti che siano, a partire da Ben Jonson, che nel 1618 si reca a piedi in Scozia a trovare W. Drummond di Hawthornden, e consuma varie paia di scarpe come nelle fiabe, emulato poco dopo da John Taylor, il poeta barcaiolo, che si impegna con il suo pubblico a raggiungere la Scozia senza spendere, accattonare o rubare, contando solo sull’ospitalità procuratagli da simpatia e fama, e vince la scommessa e la raccon-ta nel Pellegrinaggio senza un soldo, per arrivare a Johann Gottfried Seume, che compie a piedi nel 1802 un Viaggio o Passeggiata dalla Germania a Siracusa, parallela e contrapposta al Viaggio in Italia (1786-87) di Goethe, che si sposta talvolta a piedi, più spesso in carrozza, o a Da Vienna a Napoli in carrozza (1775-76) di Lessing. Henry stesso, viaggiatore a piedi per scelta, racconta ironicamente di essere arrivato a notte in qualche locanda in condizioni tali che l’oste, prima di accogliere lui e la figlia, pretende di vedere i soldi, di cui peraltro è abbondantemente rifornito. I ritardi nei trasferimenti bancari, che provocano soste forzate, sono a loro volta accettati con ironica bonomia, poiché “come tut-ti sanno, la mancanza di denaro non dissuade dagli acquisti, ma piuttosto li favorisce”(VM, p. 128). In cima alla lista degli acquisti indispensabili si trovano naturalmente delle scarpe robuste. Con fi-losofica rassegnazione vengono affrontati anche altri inconvenienti di viaggio, soprattutto l’inclemenza del tempo, che obbliga a pro-cedere con abiti umidi e ombrelli gocciolanti, “tra strade piene di

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pozzanghere, campi e fossi allagati, cime delle montagne brumose e cateratte che minacciano di portare via tutto il mondo” (VM, p. 54). Ma il viaggiatore è spinto a procedere da un’urgenza inspiega-bile, perché “c’è mai qualcosa a cui il viaggiatore, il viaggiatore della vita, non debba volgere le spalle, che non debba lasciare dietro di sé, castello o villetta, amico o avversario, o anche sé medesimo?” (VM, p. 224). Henry tratteggia spesso schizzi vivaci di sé e della figlia “con le scarpe ricoperte di spessa polvere, depositatasi sopra il fango dei giorni precedenti e con i bagagli in mano, gli ombrelli laceri, il passo assiduo e determinato del viaggiatore, con occhio indagatore e aspetto nordico, poco dignitoso retaggio dell’Inghilterra dei com-merci” (VM, p. 59), mentre si mescolano indifferenti “con la gente in abito di gala che passeggia sulla collina fuori della città” (Chur, nei Grigioni), la quale si ritrae come Amleto davanti allo spettro, o Macbeth davanti alle streghe, o mentre incrociano sulla strada principale del paese di Mori “una mezza dozzina di monelli di età scolare, zazzeruti, con le loro cartelle e i logori calzoni alla zuava, a piedi nudi”, che “trotterellavano dietro di noi o correvano avanti e ghignavano alla nostra faccia come scimmie”, sbeffeggiando “gli sfortunati visitatori in cerca di conoscenza” (VM, p. 126). J.P. Mahaffy, il prevosto del Trinity College di Dublino, religio-so arguto e dotto classicista, vecchio amico del poeta, rievoca nel necrologio “la sua faccia circondata da lunghe ciocche candide, che spirava ruvida bontà e onesta franchezza” e “l’abito curioso guarnito di pelliccia, che gli dava un’aria da Robinson Crusoe”, da rifondato-re della civiltà in territori inesplorati del mondo e della letteratura.7 Il diario di Henry, in inglese Thalia Petasata, la Musa con il cap-pello da viaggio, in italiano In viaggio con la Musa, prende le mosse dall’altra grande passione della sua vita, il culto di Virgilio, che al-l’inizio dell’Egloga VI invoca una Musa campestre che non arrossisce di abitare nei boschi (“Nec erubuit silvas abitare Thalia”). Il titolo è probabilmente anche reminiscente della Thalia Rediviva di Henry Vaughan, poeta metafisico del Seicento, con cui Henry poteva avere in comune il rimpianto dell’età dell’oro, il ritiro dall’agone politico e l’accesa polemica religiosa. La passione per Virgilio spiega forse anche la sua simpatia per un poeta assai poco noto in Inghilterra

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e morto a Campese, presso Bassano, Teofilo Folengo, che chiude il Baldus con l’ultimo verso dell’Eneide. Merlin Cocai respinge sì l’assistenza delle Muse classiche (“non mihi minchiona Thalia, non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent”), e questo avrebbe scandalizzato Henry, ma invoca le grasse Camene perché “dent[que] polentarum vel quinque vel octo cadinos”, dimostrando un robusto appetito plebeo che Henry non avrebbe certo disprezzato.8 Del poema Henry dà nei versi introduttivi una caratterizzazio-ne precisa. È un viaggio illustrato da “molte osservazioni naturali, alcune riflessioni sull’arte, sui costumi e i pregiudizi, in parte filoso-fiche e in parte descrittive, sinceramente delineate lì per lì secondo l’impressione del momento”. È soprattutto un viaggio finalizzato a “vedere la verità e ancor più a far sì che l’altro la veda” (VM, p. 18). Val la pena ricordare che Henry sta facendo appello a criteri pitto-rici, gli schizzi preparatori disegnati all’aperto, ma anche a categorie letterarie. Richardson, all’atto di introdurre nel romanzo il realismo psicologico, dichiarava nella prefazione di Pamela, che le lettere ab-bondavano di “descrizioni e riflessioni per così dire istantanee”. Il diario documenta il quotidiano colloquio di uno spirito solitario con la natura, con il mondo e con se stesso; registra la conversazione con il lettore di un uomo intelligente, vivace, urbano, dotato di buon senso e scetticismo, di fede nella giustizia e nella morale, ma di scarsa convinzione nella naturale bontà dell’uomo. Henry parte animato dal desiderio di conoscere usi e costumi di altri paesi e confrontarli con i propri, come accade nel ‘comte philo-sophique’, sia che si tratti della versione voltairiana, in cui il prota-gonista descrive ironicamente la propria cultura, politica e religione, sotto le mentite spoglie di una civiltà esotica, o di quella alla Mon-tesquieu, in cui l’osservatore confronta e critica due culture, finen-do per ritrovarsi estraneo a entrambe e in crisi d’identità. È spinto da interessi umani e speculativi, più che dall’intento di completare una formazione scientifica e militare, politica e letteraria, visitando luoghi e personaggi famosi, come accade ai fautori del ‘grand tour’.9 Incontra con uguale interesse la ragazza con le capre, che li rimette sulla giusta strada, accompagnandoli un tratto verso Ballino, e lo speziale di Pieve, custode di una verità scientifica sorpassata, che

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guida lui e la figlia per il suo orto botanico inselvatichito e mostra loro le immagini del venerato Linneo, nel giorno della cui morte egli è nato, un ritratto da giovane esploratore sul campo, armato di zaino, rete, misuratore, fucile e entusiasmo, l’altro da vecchio Ret-tore di Upsala, circondato di agi e rispetto, e trasformato in un dio menzognero (VM, p. 148). Ricorda con simpatia la locanda di Villa Banale, dove il letto scomodo viene compensato dalla civiltà, e “dal-l’ancor più rara onestà e umana gentilezza”(VM, p. 113) dell’oste, e menziona con sarcasmo il “caffè chiaro come l’ambra”(VM, p. 61) della locanda della Croce bianca di Churwalden. Racconta con orgoglio ferito di come il poeta Maffei rifiuti di riceverlo, rispon-dendo attraverso la porta ai suoi affabili approcci: “Il signor Maffei abita qui, ma non vi abita alcuna Musa” (VM, p. 131), e racconta con affettuosa gratitudine di come il botanico Ambrosi, incontra-tolo casualmente, scopra comuni interessi e conoscenze, e metta a loro disposizione una “compagnia insieme semplice e istruttiva, non troppo né troppo poco dotta, non troppo né troppo poco raffinata” (VM, p. 221), una giusta mescolanza di scienza, tatto e sensibilità. Descrive con caustica ironia l’incontro con il barone Moll, il quale lo invita a un lauto banchetto che si trasforma in spinoso incontro diplomatico (VM, p. 138), o quello con la contessa d’Arco, che si conclude con una triplice capriola e con un Urrah! di sollievo da parte di Henry (VM, p. 164), e descrive con reverente rispetto l’incontro con il vescovo di Bindo, fratello di Canova, il quale li riceve con signorile semplicità e apre loro il tesoro della Gipsoteca, affollata di calchi, modelli e disegni, compiuti e incompiuti, le cui realizzazioni sono sparpagliate in tutto il mondo, una rapida occhia-ta al mondo delle idee (VM, p. 242). Gode della visione della natura, che interpreta talvolta secondo il gusto romantico del sublime, descrivendo montagne e laghi, rocce e ghiacciai, talaltra secondo la tradizione neoclassica, controllando la prospettiva dall’alto, e descrivendo campagne e città, edifici e opere umane, documentando il retaggio delle antiche culture che si sono avvicendate nei luoghi plasmandoli, e osservando le trasformazioni prodotte sul paesaggio dal progresso meccanico, dalla ferrovia e dal-l’industria.

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Osserva il paesaggio con un’attenzione minuziosa e un gusto in-finito e ne annota i continui cambiamenti e gradazioni con occhio addestrato a cogliere e fissare la composizione. Come lo spettatore di un quadro del Lorenese o di Poussin guarda da un osservatorio privilegiato la prospettiva, notando le sapienti alternanze delle fasce che creano l’impressione della distanza, delle luci e delle ombre, dei gruppi di alberi e rovine, dei colori bruni e dorati, delle figure ani-mali ed umane, convergenti verso un punto focale sotto l’orizzonte (si veda l’insistenza dei termini take in, command, fix, prospect, com-position, vision, scene 10): “Salgo veloce sulla collinetta, dalla quale la chiesa di Malsch domina il sottostante villaggio, e colgo la visio-ne delle nuvole che si stanno rompendo, delle occhiate sfolgoranti del sole e dell’orizzonte che si apre” (VM, p. 22). Avvicinandosi a Bassano nota come la prospettiva si chiuda tra muri di mattoni ininterrotti, che fiancheggiano la strada bianca e polverosa, senza un sentiero, un bordo, un filo d’erba (VM, p. 232). Oppure si fa attrarre dalla più capricciosa arte di Salvator Rosa, scegliendo un punto di vista dal basso, che immerga lo spettatore in un paesaggio pittoresco, caotico, inquietante, capace di ricordare all’uomo che la sua presenza breve e insignificante fa parte di un ciclo di vita ben più ampio e possente. Lo specchio tranquillo del laghetto di Nem-bia si stende “su frammenti di roccia calcarea, staccati dalla Natura che scava da sotto e scagliati giù per il fianco montagnoso della ripi-da valle a strapiombo sull’acqua”. Spostando lo sguardo verso l’alto, Henry coglie “sopra la superficie della roccia le rosse cicatrici non ancora guarite dalla mano del tempo né ancora sfumate in un grigio diffuso” (VM, p. 110). Henry è capace di entrambe le reazioni emotive, ma come tutti gli uomini colti del suo tempo, guarda sempre la natura con l’occhio dell’arte, invertendo il rapporto tra realtà e pittura: non riproduce la natura in un quadro, proietta il quadro sopra la natura. Non pecca di mancanza di realismo, ma ha l’abitudine di interpretare cultu-ralmente la scena, come fanno anche i primi grandi fotografi, che operano approssimativamente nello stesso periodo. Anch’essi non cercano di rendere realisticamente o topograficamente i loro obiet-tivi, ma li filtrano attraverso i canoni artistici in voga.11

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Il poeta concepisce la natura come paradiso terrestre o ‘locus amoenus’, in cui si rifugia in tempi di imbarbarimento sociale. L’in-terpretazione letteraria, e anche illustrativa delle Bucoliche di Vir-gilio, ha una notevole incidenza sulla tradizionale lettura del pae-saggio. Il testo virgiliano alberga contrasti irrisolti tra l’artista e il potere, che trovano corrispondenza nella scelta di Henry di abban-donare una prospera carriera medica per dedicarsi completamente al viaggio e alla poesia. La predilezione per il classico sul romantico è spiegata efficacemente da Henry stesso: “C’era un tempo – ed era un tempo felice – in cui amavo queste scene di orrore: rocce nude, deserti, regioni selvagge, profondi boschi, scure, nere grotte, la sommità solitaria della montagna e la spiaggia con il mare sem-pre agitato e mugghiante” (VM, p. 156). Avendo avuto un’infanzia felice, lo attirava l’orrido per contrasto; a distanza di anni, avendo sperimentato le tragedie del mondo reale, si rivolge almeno a so-gni di innocenza e di pace, e ammira la natura non nel suo volto notturno, aspro e scosceso, bensì nel volto dolce e soleggiato delle valli digradanti verso sud. Le illustrazioni delle Egloghe di Virgilio da parte di W. Blake, poeta caro a Henry per la semplicità sapiente, il radicalismo politico, la potenza visionaria, mediano tra l’interpre-tazione illuministica e romantica del paesaggio.12 A tal punto la visione culturale era legata a quella naturale che il bagaglio necessariamente sintetico del viaggiatore comprendeva, insieme a indumenti essenziali, l’ombrello per la pioggia e il sole ec-cessivo, la bussola, il cannocchiale, il termometro Reaumur, talvolta un pedometro, le mappe, estratti di guide turistiche e di testi lette-rari pertinenti, il quaderno di appunti e il blocco di schizzi, anche lo specchio di Claude (Lorrain), uno specchietto apribile convesso, tondo o rettangolare, con l’altro lato nero, che miniaturizzava il pae-saggio e ne componeva le fattezze elusive in un quadro, idealizzan-dolo e sfumandone le irregolarità dei contorni, secondo un principio analogo a quello della camera oscura. Così venivano chiamati anche vetri affumicati o colorati, che senza modificare le forme, fungevano da filtri, creando particolari atmosfere.13 Non sappiamo se l’equi-paggiamento di Henry ne comprendesse uno, anche se menziona la ‘camera lucida’ dell’occhio, ma certo la sua narrazione è organizzata

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come i diari di viaggio prestampati, da usarsi sulle due facciate, con colonne segnate per le date, i luoghi, le ‘osservazioni’ e le ‘omissio-ni’, per gli oggetti e le persone celebri non viste, o i ripensamenti sulle pagine precedenti. La duchessa del Northumberland nel 1760 portò con sé in viaggio un questionario di 150 articoli da annotare, tra cui: “è il luogo piacevole o malinconico, romantico, selvaggio o cupo?”. Siamo grati a Henry di non essere mai arrivato a tali eccessi, tuttavia egli annota regolarmente le date, i luoghi, le temperature, le colazioni e le cene, le locande e i sonni, le ascese e le discese, i cambiamenti del tempo, i santi del calendario (curiosa precisione per un anticlericale feroce). La struttura è monotona, così come sempre uguale e sempre diversa è la strada. Le figure asciutte dei due viaggiatori, padre e figlia, si stagliano come silhouettes su uno sfondo cangiante e fantasmagorico di paesaggi e personaggi, piante e animali, episodi di cultura e storia dei paesi che visita, cenni alla sua vita personale, apostrofi al lettore. Il suo pensiero radicale si manifesta nella polemica contro il cattolicesimo e nel disprezzo per l’oppressione politica, che gli fa contrapporre le isole felici del liberalismo, l’Inghilterra, l’America, la Svizzera, ai regimi dispotici come l’impero austriaco, e lo fa sim-patizzare con i fermenti del Risorgimento. Nel vedere delle capre ar-rampicarsi con sicurezza su pietre che rotolano, le apostrofa: “capre imperiali” poiché, come i Cesari, fatte sicure dall’insicurezza altrui, provocano la caduta degli strumenti della propria ascesa (VM, p. 110). La sua natura di anglo-irlandese non lo rende però cieco alla brutalità della dominazione britannica in Irlanda, che stigmatizza con vigore swiftiano. Particolarmente virulenta la polemica anticattolica, e più in ge-nerale antireligiosa, che nasce dal rifiuto dell’intolleranza dogmati-ca, che ha mietuto tante vittime fra i liberi pensatori, e della discre-panza spesso riscontratasi storicamente tra i principi evangelici e la pratica ecclesiastica attenta al potere e al denaro. L’anticlericalismo si traduce in preferenza per il paganesimo, che ospita nel proprio pantheon il dio ignoto, ma tale convinzione non gli impedisce di incontrarsi sul piano umano con prelati colti e civili, come il cano-nico Brunati, rettore del Seminario di Trento, di cui rimpiange l’op-

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posta militanza, stupito di ritrovarlo così simile, così fratello (VM, p. 122). A volte confronta esplicitamente i paesi dove ha soggiornato più a lungo, Inghilterra, Germania, Italia, valutandone aspetti e abitu-dini, dimostrandosi generalmente favorevole all’Italia, di cui ama le lenzuola candide e i giardini simmetrici, la campagna ubertosa e la gente “cortese e generosa, fin troppo passionale, che dice la verità, quasi sempre” (VM, p. 80). Questo non gli impedisce di preoccu-parsi giudiziosamente dei “banditti”, poiché, secondo una tenace e diffusa credenza inglese, metà della popolazione italiana era costi-tuita da briganti e l’altra metà da cantanti. Non ama il disegno del giardino inglese, apparentemente casuale, curvilineo e pittoresco, preferisce caratteristicamente il viale italiano di cipressi o di lecci, che “va dritto al segno” (VM, p. 134), e unisce armoniosamente villa e territorio. Non ama le villette inglesi, con stalle e porcili sullo stesso piano dell’abitazione, maleodoranti di muffa e “cruda, umida terra” (VM, p. 164); preferisce la villa con lo scalone, la sala cen-trale ariosa, con due balconi e le stanze laterali. Non ama il valletto inglese, incipriato, con il naso all’insù e le calze di seta, che precede insolentemente il padrone, gli antepone il domestico italiano, alto e bruno, dal naso aquilino e i modi deferenti. Viceversa disapprova in Italia l’educazione illiberale dei figli e il ruolo subordinato dei tutori, e critica tutta la poesia successiva a Dante, coinvolgendo in un unico giudizio di condanna Petrarca e Tasso, Maffei e Prati, per scarsa familiarità con i classici! (VM, p. 173). Corrosivo il confronto tra la cortesia dei bibliotecari italiani e tedeschi e la testardaggine ottusa degli addetti della British Library, dall’impiegato al direttore, che gli impediscono di consultare velocemente un volume perché privo della tessera di accesso alle stanze in cui comunque è già entra-to. Non avendo ottenuto il piccolo favore che chiedeva, si consola pensando che in base alle teorie di Darwin sull’adattamento all’am-biente, se i libri continueranno a venir custoditi come i pomi delle Esperidi, con il tempo i lettori svilupperanno la forza di Eracle e l’istinto di usarla nel momento del bisogno.14 Potrebbe sembrare che la veste poetica fosse accessoria alla narra-zione, poco più di un modo di dare disciplina formale al pensiero.

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Henry usa un pentametro giambico non rimato, con numerose in-versioni trocaiche, e alterna spesso ai cinque accenti regolari i quat-tro accenti caratteristici del ‘verso spezzato’, la broken line medioe-vale. Ne risulta un doggerel, ritmo trotterellante e canino, al posto dell’ampio e dignitoso passo del verso classico. Tuttavia questo verso informale e popolare, colloquiale e flessibile, fa parte di un’onorata tradizione alternativa nella letteratura inglese, che esalta gli elementi giocosi e ironici della poesia, cari ai classici, all’Ariosto e al Folengo, a Shakespeare e a Jonson, a Swift, a Burns, a Blake e a Byron. La forma poetica risponde per Henry a un bisogno profondo, è legata alla sua ricerca esistenziale di verità e umanità. Poesia è per lui un fatto concreto, un solido oggetto, un’erma intagliata posta a segnare i confini e a proteggere il viandante (“ΟΠΟΙΗΤΗΣ”).15 Poesia è un intimo colloquio spirituale, la presenza della moglie morta, trasfor-matasi in Musa ispiratrice, e della giovane figlia sempre al suo fianco in patria e all’estero, con il compito di trascrivere, correggere, condi-videre, rallegrare e consigliare. Poesia è un gesto di amicizia che tra-valica il tempo, e suggella un patto postumo con gli spiriti affini dei lettori. Henry conduce una vita solitaria, a contatto con una natura aspra e difficile, sradicato dalla patria a parte il cordone ombelicale delle lettere, destinato a stabilire legami intensi ma fugaci con le persone che incontra nelle sue peregrinazioni da uccello migratore, che ritorna in determinati luoghi in determinate stagioni, a distanza di anni. Perora appassionatamente la causa dell’ amicizia:

Amo la società, amo un amico, ma non amo la società diseguale: non posso inchinarmi e dire: Signorsì, mio Signore... Sua Signoria ha sem-pre ragione. E chi dice così a me, è per me la volpe, la quale sa che la via più breve al mio formaggio passa attraverso la mia vanità; per me è un barboncino eretto sulle zampe posteriori con mascelle sbavanti e occhi girati verso l’osso. Amo la compagnia, amo gli amici, e nessuno ha bisogno di essere un Damone o un Oreste, perché io non sono Pizia né Pilade; né ha bisogno di essere Socrate, perché io, ahimè, non sono né il saggio giudeo né il saggio ateniese; ma deve essere qualcuno che, in situazione di ristrettezze, mi impresti senza interessi una corona o,

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in caso estremo, anche due; un uomo che, se un albero stesse cadendo sopra di noi, mentre egli stesso corre, faccia in modo che corra anch’io; ... un uomo in breve non più né meno dotato di me, quanto a cuore e a testa. Se incontrerò un uomo simile gli giurerò eterna amicizia (VM, pp. 221-2).

Con la voce della poesia interpella ed evoca gli amici lontani nel tempo e nello spazio, percorrendo le tappe di un viaggio nella me-moria. Per chi non creda nel trascendente, la poesia è l’unico mezzo di misurare i guadagni e le perdite della vita, di constatare le tra-sformazioni proprie e altrui, di ricongiungere in unità i vicini e i lontani. Con la voce della poesia consegna il suo legato di idee ed esperienze al lettore, che dev’essere riscosso dal torpore e dal disin-teresse per i libri e convinto a non sparare sull’autore come un cac-ciatore spara su uno stambecco (VM, p. 236). Persuaso a sollevare il capo dalle fatiche del trimestre a Oxford o a Cambridge, o dalla copia del Times in un caffè del West End, il lettore si farà allettare da un viaggio estivo nel Sud Tirolo, e ritornerà in ottobre alla tran-quilla, calda Inghilterra, agli amici, ai libri, alla casa (VM, p. 216); sarà divertito e stuzzicato, e costretto a giocare a nascondino con il poeta (VM, p. 216); intrattenuto su argomenti decenti e non su particolari realistici come sporco e sudore (VM, p. 56), sarà saggiato e, si spera, trovato degno di quell’amicizia che per Henry è il valore più prezioso della vita. In una poesia (“Doctor, when will you at home be?”)16, immagina la morte come un amico che annuncia cor-tesemente una visita e viene invitato a fare un’improvvisata quando vuole, per fumare la pipa davanti al camino, e poi uscire insieme a tirar notte. In realtà, con la morte si intrattenne sull’amico Virgilio, discutendo fino all’ultimo l’interpretazione di un passo dell’Eneide. La poesia, da cui si congeda alla fine del Viaggio con la Musa come da una provata compagna di strada, salutandola in forma provvisoria perché prevedeva di riprendere il viaggio in un secondo tempo, o forse perché sapeva che non se ne sarebbe mai separato definitivamente, è da lui servita con somma fedeltà e purezza, anche se non esercitata con perfetta professionalità e maestria. Le tappe del secondo viaggio, Thalia Petasata Iterum o Da Dresda

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a Venezia a piedi. Ancora in viaggio con la Musa [DV], sono sempre schematicamente scandite dall’elencazione dei giorni, del cibo, del-le piogge, delle strade, delle locande e degli incontri, degli scenari naturali e delle opere umane. Compaiono più frequenti e spigliate note personali, le chiacchiere con il dottore del villaggio o il dentista compagno di strada, la lettura di indovinelli o della posta, i proble-mi di visti, documenti e conti, l’odore del fieno appena tagliato o le gelate che rovinano i campi di segala, i rami che si spezzano sotto le raffiche rovinando sul capo suo e della figlia e bloccando il sentiero, i guadi passati a piedi scalzi. Il poeta racconta le sue avventure, ossia le piccole vicissitudini quotidiane, caldo e freddo, umido e asciutto, salita e discesa, moto e riposo; manifesta le sue simpatie e umori, come quando distingue orgogliosamente fra inglesi e irlandesi, o esprime la sua ripugnanza per le feste nuziali, e soprattutto depreca ironicamente quelle tra cielo e terra, che si celebrano fra scrosci tor-renziali, oppure proclama la sua convinzione che la donna non è per nulla inferiore all’uomo in perseveranza e fortezza, inferiore forse per forza fisica e raziocinio, o così piace credere a uomini logici e ra-zionali che si fanno circonvenire a piacere dalle illogiche femmine. Viene ampliata la meditazione sulla morte, mentre il poeta si fer-ma a raccogliere l’invito di cippi e lapidi alla preghiera e al ricordo, ma preferisce affidare la sua memoria e il suo nome al frontespizio di un libro. Viene intensificata la riflessione sulla vita, dove il poe-ta pondera divertito la paradossale condizione dell’uomo, che non vuole abbandonare la realtà per il sogno la sera, né vuol lasciare il sonno per la realtà la mattina, e non può comunque scegliere se far-lo o non farlo. L’uomo è perennemente insoddisfatto, e l’insoddisfa-zione è la molla della vita. Si affollano i ricordi, evocati da un pino cembro, i cui fiori bianchi si legano indissolubilmente alla memoria dell’infanzia a Dalkey Lodge, nella contea di Dublino, o richiamati dal profumo intenso e dalla pallida tinta di una ragusina centaurea, che la moglie, morta da dodici anni, aveva raccolto da casa per por-tarla con sé nella terra straniera da cui non è mai tornata. Troviamo minor sfoggio di citazioni storiche e letterarie, men-tre resta il continuo riferimento agli amati classici. Permane anche l’attacco aspro alle religioni, al cattolicesimo in particolare, per le

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contraddizioni di una chiesa che proclama il regno dei miti e degli umili, ma corteggia i violenti e i potenti. Si intensifica e diventa più familiare la conversazione con il let-tore, discepolo di vita e compagno di viaggio, quel colloquio che il poeta intensamente desiderava e sta ottenendo ora, a un secolo e mezzo di distanza. Henry sa bene che il rapporto tra autore e lettore è reciproco, e, come quello tra padre e figlia, impone negoziazioni: presuppone fedeltà, tollera sollecitazioni, ma necessita anche di tat-to, e richiede talvolta lusinghe. Si veda il passo in cui la considera-zione della mutevolezza del Tempo, buffone ironico che trasforma il vigliacco in eroe e l’assassino in santo, si volge in una captatio benevolentiae al lettore, perché il Tempo potrebbe con un ennesimo paradosso trasformare il viaggiatore in poeta e il critico malizioso in pupillo devoto (DV, p. 125). Le descrizioni di paesaggio si fanno più veloci e mosse. Tendono a catturare effetti di luci e ombre, sprazzi di cieli radiosi e corse di nuvole basse. In Boemia, gli appare “Solitaria la campagna intorno, e ancor più solitaria la foresta di pini rossi, non animata da alcuna visione o suono di essere vivente, eppure non tetra, perché, in alto tra le cime degli alberi, vediamo attraverso aperture dalle sempre mutevoli forme, lo zaffiro brillante del cielo estivo e sotto i nostri piedi si proietta non tanto l’ombra, screziata di luce, dello scuro bo-sco, quanto il riflesso del sole a picco, variamente intercettato dagli alti pini” (DV, p. 9). A Schwihau Henry e la figlia si dirigono a sud in balia di pioggia e vento, che mezzo li ostacolano, mezzo li sospin-gono. Ma il giorno regala loro un glorioso tramonto: “Il sole della sera aveva disperso le nuvole e, risplendendo scintillante giù dal cul-mine della collina ricoperta di pini sulla destra, proiettava l’ombra del castello di Schwihau sul fiume, inondando i lecci e avvolgendo la strada davanti a noi e le colline a sinistra in una luce dorata” (DV, p. 49). La scena si fa possente e pittoresca quando raggiungono la Salzach:

Qua e là aiutati da amichevoli scalini di pietra o da grossolana scala a pioli boschiva in lieve pendenza, zigzaghiamo sicuri giù per il fianco scosceso, fin dove massi rocciosi, precipitati nel mezzo del torrente e

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incastratisi l’uno con l’altro, ci consentono di superarlo. Guardiamo in giù il vuoto dentro l’abisso dove in profondità sotto di noi le acque bloccate mulinano, schiumeggiano, fanno attrito e rimbombano: una lavanderia adatta anche a purgare la colpa inveterata del puro spirito e a cancellare la macchia carnale! Orribile guardare in giù e altrettanto orribile guardare in su. Scuri pini diffondono una fitta ombra e rocce a strapiombo chiudono quasi la luce tenue del cielo e ci offrono un po’ riparo dalla pioggia battente. Facendo cadere gocce da ogni lucida foglia l’acquazzone comincia a bagnarci e ci spinge a trovar rifugio sotto la gronda sporgente di una roccia, acquattati e rannicchiati come ranocchi, con nero elleboro tut-t’intorno, agarico e lisimachia gialla, azzurro fiteuma e palle bianche come neve di Viburnum opulus piegate a terra dalla pioggia. Rimania-mo seduti al sicuro nel rifugio dove mai dal diluvio universale in poi era caduta una goccia d’acqua nonostante tutta la zona intorno fosse allagata. Il cielo scintillante finalmente, il vento che rinfresca e i raggi del sole che rifrangono migliaia di colori dalle punte adamantine di ciascuna foglia carica di gocce, ci invitano a procedere... (DV, pp. 77-78).

Fornisce il filo conduttore l’attenzione minuziosa ad alberi e piante, amorevolmente descritti nelle loro linee e colori, forme e caratteri-stiche, funzioni nutritive e curative, leggende popolari e colte:

Ora la nostra via si snoda lungo un terreno acquitrinoso, ai nostri piedi verdi rane schizzano nell’acqua e azzurre libellule, svolazzandoci davan-ti ad ali dispiegate, ci sfidano a dar loro la caccia. Ma noi preferiamo un gioco meno effimero: ad ogni passo raccogliamo qualche nuovo “adep-to” di colore azzurro o rosso o giallo per il nostro mazzolin di fiori: sanguigna anchusa, alto e robusto barbasso, tenero eriophoron e non-tiscordardimé, fragrante sambuco in fiore, spiraea e sassifraga, umile convolvolo del ciglio della strada, salutare malva, foglie verdi e bacche ancora verdi di crespino e cicoria, in questo viaggio qui per la prima volta in fiore – economica e vile contraffazione dell’arabico chicco – e margheritine dall’ampio disco, crisantemi, rivali dei grandi, splendenti occhi di Giunone, fior di cuculo rosa e fior di cuculo bianco, carex, purpurea centaurea e giallo caprifoglio e guarnendo il tutto con rose

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rosse rubescenti, lo rivestiamo poi di verde pteris aquilina e lo leghiamo con un vilucchio. Mazzolin di fiori più bello di questo mai fu porto da un devoto di Flora ai piedi della sua dea (DV, p. 98-99).

È chiaro che per Henry fiori e piante non rappresentano solo un oggetto di studio curioso, un’utile risorsa economica, un impareg-giabile ornamento, ma simboleggiano un modo di vivere, stabile e mutevole, fragile e forte, radicato nella terra e teso verso l’aria, consapevole delle proprie necessità e dei propri limiti. Descrivere le piante diventa un atto di amore, di riconciliazione verso la natura e Dio, che gli parla più direttamente attraverso di loro che attraverso il culto, una strada in cui la Musa lo accompagna per rientrare nel giardino dell’Eden, dove natura e arte si combinavano armoniosa-mente, senza costringersi e sopraffarsi, e l’uomo, prima della cono-scenza del bene e del male, conosceva la pace e l’amore. Come osserva Rudolf Borchardt circa un secolo dopo nel Giar-diniere appassionato, scritto in Italia nel 1938, pianta e fiore saranno poveramente espressi dalla fotografia, finché resterà vincolata alla riproduzione meccanica, che esagera i particolari più grossolani, attenua gli intermedi, non riportando affatto quelli più fini che ca-ratterizzano la fisionomia dell’oggetto, finchè l’obiettivo non sarà educato a guardare come l’occhio umano, che impronta e collega, trasforma e spiritualizza. Borchardt si scaglia contro le rozze imma-gini fotografiche, “qualcosa di bianco e nero e lucido che soltanto la didascalia indica come fiori: immagini tutte simili e tutte equivo-che”.17 Apprezza invece i sommari disegni botanici delle piante, integra-ti da particolari ingranditi, secondo il metodo sviluppato in Francia e poi continuato in Germania da Haage e Schmidt, che nella “di-messa discrezione” delle piccole xilografie, metteva a disposizione l’essenziale al giardiniere, e la rappresentazione stilizzata dei fiori da parte degli artisti di mestiere su quadri e oggetti, ceramiche e tessuti, che offrivano all’amatore tradizione e immaginazione. La cataloga-zione attenta, vivace, affettuosa di Henry è un atto di cultura, di amore e di libertà, perché non cerca di impossessarsi della natura, di costringerla nelle proprie simmetrie e ritmi, vi passa attraverso con

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il robusto passo del viaggiatore, certo, ma in fondo sommessamen-te, in punta di piedi. Vi sosta talvolta a riposare il corpo e la mente, ma sa bene di essere solo un elemento provvisorio di uno scenario più vasto nello spazio e nel tempo. La natura suscita sogni e ricordi, desiderio e speranza, suggeri-sce parabole e miti, si trasforma in poesia e, all’ultimo, in ciò che ci aspetta e ci spetta al di là, Giardino delle Esperidi, Campi Elisi, Paradiso. Forse per motivi casuali, forse per motivi profondi, la rappresen-tazione di Venezia, tappa finale del viaggio e città densa di valenze simboliche, non suggella il poema con una chiusura trionfale. La città sembra parlare alla tardiva sensibilità settecentesca di Henry, adattarsi agli schizzi e ai quadretti di vita quotidiana del Longhi, con i nugoli di zanzare e mosconi, lo spettacolo delle barche che sfrecciano incessanti da tutte le parti, la folla rumorosa, affaccendata e gaia, piuttosto che intonarsi a una precoce sensibilità romantica, ai delicati ed evanescenti disegni gotici di Ruskin, anche se Henry nota i profili leggeri di torri e campanili sull’orizzonte, e il silenzioso scivolare delle gondole nere come la notte e la morte. Venezia non è priva di piante e giardini, ma sono nascosti e mu-rati, è un sogno d’acqua e di pietra, una fusione di natura e arte continuamente rinegoziata dalla caparbia volontà dell’uomo, dove il ritmo delle stagioni è segnato dal cangiar del colore dell’acqua più che dallo spuntare e dal cader delle foglie, e forse per questo parla meno direttamente al cuore di Henry.

1 Le traduzioni dei poemi di viaggio di Henry sono di F. Favaretti Camposam-piero, tutte le altre, se non altrimenti specificato, sono di P. Bottalla.

2 “Canto della strada” in Foglie d’erba, Einaudi, Torino, 1965.

3 Herman Melville, Moby Dick, Garzanti, Milano, 1966, cap. XII.

4 Tr. Milli Graffi, in Carte scoperte, I, 1982.

5 Il paziente inglese, Garzanti, Milano, 1999.

6 Cfr. Casey Blanton, Travel Writing. The Self and the World, Routledge, New York and London, 2002, p. 5.

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7 Selected Poems of James Henry, a c. di Christopher Ricks, The Other Press, New York, 2002, p. 15.

8 Opere di Teofilo Folengo, a c. di Carlo Cordié, Ricciardi, Milano,1977, pp. 71-72.

9 Cfr. Jeremy Black, The Grand Tour in the Eighteenth Century, Sutton, Stroud, 1997, e Italy and the Grand Tour, Yale University Press, London, New Haven, 2003.

10 Cfr. John Barrell, The Idea of Landscape and the Sense of Place, 1730-1840, C.U.P., Cambridge, 1972, p. 51.

11 Jurgis Baltrušaitis, “Giardini e paesi d’illusione” in Aberrazioni, Adelphi, Mila-no,1983, p. 133.

12 Cfr. Annabel Patterson, Pastoral and Ideology (Virgil to Valéry), University of California Press, Berkeley, 1987, p. 198 segg.

13 Cfr. Malcolm Andrews, The Search for the Picturesque, Scolar Press, Alder-shot, 1989, cap. 4 “travelling knick-knacks” o “salmerie del Grand Tour”, pp. 67-82.

14 Ricks, p. 25.

15 Ibid., p. 61.

16 Ibid., p. 45.

17 Adelphi, Milano, 2003, pp. 240-41.

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“Deutschland und anliegende Länder, zur Übersicht der Eisenbahnen und Hauptsstrasen.Neu gezeichnet 1847”. Riproduzione parziale e modificata della Tav. n° 20.

Dresden

Venedig

Braunau

Salzburg

Hallein

Lueg Pass

Tauer Pass

Spital

Gmünd

Tobl

ack

Pass

Peutelstein Pass

Pieve di Cadore

Venas

Conegliano

Treviso

Teplitz

Saaz

Pilsen

Klattau

Vilshofen

Lienz

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DA DRESDA A VENEZIA A PIEDI

Ancora in viaggio con la Musa

A TALIA1

Indossa di nuovo il tuo copricapo, o dolce fanciulla della montagna, e vieni a farlo viaggiare così come tante volte l’hai fatto viaggiare insieme a me per colli e per valli, uniti mano nella mano, e mai senza la conchiglia del pellegrino. Vieni e, per una stagione, lascia dietro di te i monti dell’Aonia 2 e le care sorelle, e respira con me aria nuova e guarda nuove vedute e ascolta nuovi suoni: c’é una quantità di vedute e di suoni nuovi anche per te in questo bel vasto mondo: e canta insieme a me una nuova canzone, e che non sia – spero – per noi l’ultima, e amami ogni giorno di più, così come io amerò te ogni giorno di più, per sempre. Vieni, vieni, dolce fanciulla della montagna, vieni ancora una volta.

Rosamond, 6 Ottobre 1859

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Nota del Curatore – Salvo diversa indicazione le note sono opera del Curatore e i toponimi sono riportati nella lingua e nella grafia del testo originale. Il corsivo in-dica l’uso nel testo originale di termini in lingua diversa dall’inglese, fatta eccezione per la denominazione scientifica in latino delle piante. I nomi delle locande e dei luoghi di ristoro sono per lo più tradotti in italiano, a meno che la versione tedesca (o ceca) non sia stata mantenuta per il suo effetto evocativo.Un grazie molto riconoscente ad Anna Albanello per il suo impegno nel paziente lavoro di revisione della traduzione e i preziosi consigli sullo stile della versione italiana. A Paola Bottalla viva gratitudine, oltre che per la risoluzione di diverse questioni, anche per l’incoraggiamento a proseguire nell’impresa.I versi dell’epigrafe a p. 5 sono tratti da G. Seferis, Poesie, tr. it. Mondadori, Milano, 1963, p. 149.

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1Sassonia

“Addio Dresda! Ci lasciamo alle spalle con piacere i tuoi otto lunghi mesi d’inverno, cielo deprimente, e nuvole e fumo, una folata di tagliente vento di nordest; la desolata, nuda terra, senza protezioni ove ripararsi e senza viottoli ove camminare sicuri, è un problema sconcertante anche per l’assiduo frequentatore; e la pavimentazione è così accidentata, che ciascuna pietra se ne sta in disparte come un masso tondeggiante, disdegnando ogni connessione, ogni intima conoscenza con i suoi vicini. Anche i tuoi stridenti carri di carbone, senza rimpianto lasciamo indietro nei brutti edifici sempre pieni di frastuono, malfatti, in-gombranti, tant’è che lo scopo del costruttore dev’essere stato quel-lo di dissipare le risorse minerarie e di disturbare la strada, non di estrarre il carbone. Senza neppure fingere rammarico lasciamo alle nostre spalle, a farla da padroni incontrastati su entrambi i lati impercorribili della stretta, polverosa strada principale, le tue carriole e carrelli sempre in movimento, e uomini e donne che, aggiogati alla stessa corda dei cani, trainano lo stesso comune carico. O inospitale, mercenaria Dresda, tu che esigesti dallo stanco viag-giatore una tassa per il permesso di rimanere anche una sola notte nella tua orribile, maleodorante città, tu che conduci un meschino, misero commercio di carte di soggiorno3 seguendo l’esempio dei tuoi re, adusi a conteggiare in quanti anni tanti groschen a testa per

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ogni visitatore avrebbero ripagato il costo iniziale di un dipinto, tu che ti prendi come tariffa4 quello che il ladro, più apertamente, più arditamente e più onestamente prende a forza di braccia, noi ti voltiamo le spalle; ecco la tassa per la nostra denuncia di partenza5; contala, vedi se è giusta, e lasciaci andare in nome di dio, e che sia l’ultima volta che vediamo il tuo caparbio, altezzoso luteranesimo, già troppo razionale per il cristiano, ma non abbastanza razionale e semplice, non abbastanza libero dalla ciarlataneria e dai sofismi, per il puro, schietto, non sofisticato ateismo.”

Detto questo, pagammo il nostro riscatto e volgemmo allegramente il nostro volto verso un suolo più gentile e un sole più caldo e gente meno severa, meno rigida, meno puritana, più sana e più felice di vivere. È martedì 2 Giugno dell’anno 1857, vento fresco da nord; Reaumur6 a +12°, cielo assolato e splendente chiazzato di nuvole bianche, il campanile della Kreuzkirch7 batte le una pomeridiane: spaventati dal rumore dei nostri passi i vecchi abitanti dello stagno di Strehla cessano di gracidare, ritirano sotto acqua il muso magro e raggrinzito, nascondendosi rapidi all’uomo, universale nemico. Sotto l’ombra del tiglio ci riposiamo per un po’, sorseggiando una birra al Ristoro di Strehla e guardando indietro contenti la nuvola di polvere mischiata a fumo che, per i lunghi sette mesi invernali avevamo aspirato come atmosfera nei nostri irritati e recalcitranti polmoni.

Piegando a destra a Ober-Lockwitz la nostra via conduce lungo un pianoro piacevole, quieto e verde d’erba, fitto di alberi dalle foglie diverse: aceri e graziose betulle con la corteccia ornata di bianco, grandi ippocastani che tengono sospesi alle estremità dei rami i loro maestosi fiori piramidali. Tale la parte aerea del bosco, con qua e là una robusta, ben attrezzata quercia, ritta come un protestante in mezzo ai suoi più flessibili vicini cattolici. Diversi i canti degli uccelli: merli, tordi e usignoli animano il sottobosco di nocciolo. In

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disparte se ne sta temuto sul suo ramo solitario il cuculo a suonare la tromba, e nella segale purpurea la quaglia della Cina gracchia, gracchia, gracchia incessantemente. Pallido nella siepe l’evonimo8 e brillante l’erba guarnita dalla stella di Betlemme.9

Nel lindo Ristoro del mulino da farina ci riposiamo di nuovo e beviamo di nuovo un goccio10; poi proseguiamo nel fresco della sera fino a Kreischa e al “Rittergut”11 della Signora inglese Thoman e al “Bad-Anstalt”, cercando invano alloggio in quest’ultimo; il “Bad-Anstalt” è vuoto, le stanze deserte, la stagione non ancora iniziata; e così avanti ancora, attraverso i viottoli di campagna, a Lungwitz con successo analogo, perché nella Gasthaus c’è un concerto, musica e danza e tutti i letti sono occupati; quindi, sebbene stanchi, andiamo ancora avanti fino a Reinhardsgrimma, dove arriviamo al calar della sera, ceniamo con uova al burro e una pinta di birra a testa; poi, dopo un’ora di chiacchiere col medico del villaggio e di indovinelli, affaticati ce ne andiamo a letto, per risvegliarci alle sei, il mattino dopo, ristorati e ci congratuliamo l’un l’altro di non trovarci più a Dresda.

La mattina di mercoledì 3 Giugno è splendente, il Reaumur al-l’esterno alle sette precise +6°; all’interno +12°. Alle dieci siamo in strada e rapidamente lasciamo fuori dalla vista la locanda di Veisner e gli ultimi fastigi di Reinhardsgrimma. Non appare più in basso sotto di noi il Goldne Höhe sulla destra, né il Wilischberg – en-trambi lasciati indietro verso Dresda – mentre ci spingiamo, dritti di fronte al sole, su per la collina, verso Luchau sotto il poggio bo-schivo, poi di nuovo giù e di nuovo su e giù, per raggiungere infine Johnsbach, dove alle dodici in punto pranziamo con vitello arrosto freddo, pane e insalata di lattuga. “Di sicuro non siete tedesco, Signore” – dissi ad un ospite che stava pranzando ad un tavolo vicino a noi con Cervelat-wurst 12 e un bicchiere di brandy, presto seguito da un secondo e da un terzo bicchiere. “Sono un abitante dei Grigioni, vengo dall’alta valle del Reno – disse sorridendo – e voi siete inglese.” “Congettura non del tutto errata – dissi – sebbene non del tutto giusta. Non ho davvero

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squadrata fronte teutonica, bocca ampiamente sviluppata e mento e collo robusti e posso dire di sì senza smascellarmi fino a che il mio stomaco o quello dell’ascoltatore non sia sul punto di vomitare, eppure non son per questo un Inglese. Un profondo mare salato – Ahimè! non abbastanza ampio – divide la mia piccola isola dal-l’Inghilterra. Lì nei tempi antichi, sotto le loro leggi, con una loro religione, secondo le loro maniere e i loro costumi e con originario linguaggio, senza offendere uomo alcuno, vivevano felicemente gli Irlandesi. Ma in un’epoca malvagia dall’Inghilterra vennero navi ar-mate e uomini armati balzarono sulla spiaggia, offrendo la mano in segno di amicizia con l’intento di insegnare religione, maniere, leggi e lingua superiori, e in parte con la corruzione, in parte con la forza – guai al debole che vive accanto al forte! – presero, a poco a poco, possesso della terra, cacciando i nativi e stabilendosi al loro posto. Io sono di quel ceppo che nacque in Irlanda, inglese di sangue, ma non di sentimenti.” “Come me, svizzero politicamente, ma non per inclinazione” – disse l’abitante dei Grigioni, tirando la sedia verso di noi in confidenza. “Non c’è alcun diritto se non la forza e se la giustizia umana è lenta ad arrivare, quella del cielo è ancora più lenta.” La nostra nuova conoscenza è un uomo sulla sessantina, che di questo grande mondo ha visto poco meno dello stesso Itaco13 che di sicuro si avventurò assai lontano. Infatti è stato ad Algeri e ha at-traversato la Beresina14 col primo Napoleone, come corriere munito di stivali e speroni; e da quando il Fato a Waterloo ha interrotto il lavoro del suo padrone, non ha mai smesso di portare, benefico, attraverso le terre dell’Europa centrale, le benedizioni di Denteia, fata così denominata da lui non a sproposito, la cui cura è lenire le pene inflitte all’umanità da dispetti della Natura, come una corona di denti simile a filo di perle ma pari al dono di Nesso15: di bella apparenza ma intrise di aspro veleno, pestifere, maligne, che fanno gelare il sangue, impazzire il cervello, amareggiare la dolcezza della vita. Così dopo pranzo ci mettiamo in strada tutti insieme, compagni ben assortiti, il dottore e il dentista, da Johnsbach in giù dentro la Müglitzthal a Bärenhecken; di là lungo la Müglitz su verso il castello

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del barone di Bärenstein, alto sulla destra sulla roccia di solida gneiss. Ci mettiamo a sedere sulla banchina coperta di muschio offerta sul ciglio della strada al viaggiatore da Kammerherr von Lüttichau, be-viamo dalla fontana dal lato opposto al getto d’acqua e torniamo con la mente indietro a quello che era stato per quattro anni il no-stro alloggio a Dresda, nella via costruita proprio da Lüttichau e che da lui aveva preso il nome; poi proseguiamo fino alla macina dello stagno, osserviamo la frantumazione e il lavaggio della ghiaia per ottenere lo scintillante metallo, più utile dell’argento e poco meno risplendente e guardiamo il Castello di Bärenstein rimasto dietro di noi e la valle e lo scuro bosco di faggi, in posizione dominante, e, più modesta, sulla sella del colle, la città di Bärenstein, città solo di nome. Successivamente lasciamo la Muglitz e su per la collina salia-mo sulla sinistra a Lauenstein e al suo Schloss, un tempo forte, ora cadente. Qui facciamo sosta anticipata, beviamo caffè, ceniamo e dormiamo nella “Gasthof zur Stadt Teplitz”, ivi salutati dai sorrisi inattesi di una vecchia conoscenza di Dresda, la cameriera, nativa della Slesia, del “Trompeter Schlösschen”, ora prima cameriera qui a Lauenstein.

1 Musa della poesia gaia e rustica.

2 Aonia regione della Beozia (dal nome dell’antico suo re, Aon, figlio di Poseido-ne) ove si trovano l’Elicona e le fonti Aganippe e Ippocrene, luoghi di origine del culto delle Muse.

3 Nel testo originale Aufenthalts- e meldungs-karten: fogli di soggiorno e di de-nuncia.

4 Nel testo originale Gebühr: tariffa.

5 Nel testo originale Abmeldung: denuncia di partenza.

6 La scala Reaumur o Ottantigrada (1734) si costruisce attribuendo i valori di 0 e 80 alle temperature corrispondenti rispettivamente al punto di fusione del ghiaccio e di evaporazione dell’acqua bollente a pressione normale.

7 Chiesa della Croce, situata nel cuore della città vecchia di Dresda.

8 Euonymus, genere di piante della famiglia delle Celastracee, delle quali la più

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comune è l’Euonymus europaea (volgarmente “berretta da prete”) con frutti capsulari rossi.

9 Ornithogalum, genere di piante perenni, bulbose.

10 Nel testo originale Töpfchen.

11 Nome di un albergo: “Il Feudo del Cavaliere”.

12 Salsiccia di carne magra di suino e bovino, un tempo per buona parte costituita da cervella.

13 Per eccellenza, Ulisse, re di Itaca.

14 Fiume della Russia bianca, storicamente famoso per la tragica traversata, nel novembre 1812 nei pressi di Studjanka, dei resti in ritirata della grande armata napoleonica.

15 Nella mitologia greca, centauro, il quale, avendo tentato di far violenza a Deia-nira, sposa di Eracle, fu da questi colpito a morte, ma prima di morire donò alla donna un talismano d’amore avvelenato che fu per Eracle fonte di tormenti, spasimi e morte.

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James Henry (1798-1876), nato a Dublino, dove prese una laurea prima in studi classici e poi in me-dicina, fu medico, letterato e poeta. Appassionato stu-dioso di Virgilio, dalla metà degli anni ’40 trascorse buona parte del tempo viaggiando a piedi da una cit-tà all’altra d’Europa alla ricerca di manoscritti virgi-liani. I risultati dei suoi studi apparvero in Notes of a Twelve Years Voyage... (1853) e nei cinque volumi di Aeneidea, per lo più pubblicati postumi. La sua ope-ra poetica comprende My Book (1853), A Half Year’s Poems (1854), Poems Chiefly Philosophical (1856) e Poematia (1866). Il viaggio da Karlsruhe a Bassano, da lui compiuto nel 1856, venne descritto nel poema Thalia Petasata (1859), mentre il resoconto del suc-cessivo viaggio compiuto nel 1857 da Dresda a Vene-zia fu pubblicato postumo col titolo Thalia Petasata Iterum (1877). Un’antologia della sua opera poetica è stata pubblicata nel 2002 (Selected Poems of James Henry, The Lilliput Press, Dublin) a cura di C. Ricks, il quale definisce la poesia di J.H. “semplice, diretta, vigorosa, seriamente comica. E coraggiosa”.

Paola Bottalla, professore ordinario di Letteratura inglese, ha insegnato nelle università di Venezia, Trie-ste e Padova; si occupa di letteratura del Rinascimento inglese, su cui ha pubblicato libri, tra cui True Plain Words (1988) e Counting and Recounting (1995), e numerosi articoli, di poesia vittoriana, di letteratura postcoloniale, soprattutto australiana, e di letteratura per bambini.

Francesco Favaretti Camposampiero. Medico psicoterapeuta, originario di Bassano del Grappa, vive e lavora a Venezia. Nel 1998 ha pubblicato (in collabo-razione con P. Di Benedetto e M. Cauzer) per Dunod-Masson L’esperienza del corpo. Fenomeni corporei in psicoterapia psicoanalitica. Ha curato l’edizione italiana di Thalia Petasata di J.H. (In viaggio con la Musa, Editrice Marco Polo, Venezia, 2003).

Nel 1857 l’irlandese James Henry, medi-co, studioso di classici e poeta, e la figlia Katharine percorrono a piedi il lungo itine-rario che va da Dresda, attraverso la Boe-mia, la Baviera, l’Austria, il Tirolo, il Cado-re e la pianura veneta, fino a Venezia. Il resoconto in versi del viaggio dà origine ad un poema odeporico, Thalia Petasata Iterum: come già nella precedente opera (Thalia Petasata), anche qui viene invoca-ta quale ispiratrice Talia, Musa della poesia gaia e rustica, raffigurata col petaso, il co-pricapo dei viandanti dell’antica Grecia.

Analogamente a quanto osservato da Ma-gris a proposito de Il viaggio nello Hartz di Heine, il taccuino di viaggio di J.H. si svi-luppa secondo un modello nel quale viaggio sentimentale e viaggio dotto si intrecciano sul registro dell’ironia: in mezzo a polverose ed erudite citazioni recuperate dagli archi-vi della storia, tra insegne di locande, det-tagliate elencazioni botaniche e iscrizioni sui muri di chiese e conventi, traspare una visione appassionata dell’esistenza, una ca-pacità di gioire dei piccoli doni del viaggio e della vita: i fiori ad esempio... le persone incontrate lungo il cammino... le visioni del paesaggio... il vino... e, talora, la poesia...

3

James Henry

Da Dresda a Venezia a piediAncora in viaggiocon la Musa

In appendice, riproduzione anastatica dell’edizione originale (1877)

A cura di F. Favaretti Camposampiero

Saggio introduttivo di P. Bottalla

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“Addio Dresda! Ci lasciamo alle spalle con piacere i tuoi otto lunghi mesi d’inverno, cielo deprimente, e nuvole e fumo, una folata di tagliente vento di nordest...” Detto questo... volgemmo allegramente il nostro volto verso un suolo più gentile e un sole più caldo e gente meno severa, meno rigida, meno puritana, più sana e più felice di vivere.

9 788890 125911

ISBN 88-901259-1-8

Libreria Editrice Marco Polo€ 18,00