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Università degli Studi di Torino Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione Corso di Laurea in Filosofia DISSERTAZIONE FINALE Il processo d’integrazione europea secondo Jürgen Habermas. Un profilo storico-filosofico IL CANDIDATO RELATORE Federico Stella Matr. n. 714597 Prof. Pier Paolo Portinaro Anno accademico 2013/14

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Università degli Studi di TorinoDipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione

Corso di Laurea in Filosofia

DISSERTAZIONE FINALE

Il processo d’integrazione europeasecondo Jürgen Habermas.Un profilo storico-filosofico

IL CANDIDATO RELATORE

Federico StellaMatr. n. 714597

Prof. Pier Paolo Portinaro

Anno accademico 2013/14

«Mi si chiederà se sono un principe o un legislatore perscrivere di Politica. Rispondo di no, ed è il motivo per

cui scrivo di Politica. Se fossi un principe o unlegislatore non perderei il mio tempo a dire ciò che

bisogna fare; lo farei e rimarrei in silenzio. Nato cittadino di uno Stato libero e membro del sovrano,per quanto debole possa essere l’influenza della mia voce

negli affari pubblici, il diritto di votare su di essi èsufficiente a impormi il dovere di istruirmi in materia.»

(Jean-Jacques Rousseau, Du contrat social)

«E sanza quella occasione la virtù dello animo loro sisarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione

sarebbe venuta invano.»(Niccolò Machiavelli, Il principe)

Prefazione

Franco Alessio, nell’introdurre l’esposizione dell’opera di Tommaso d’Aquino,

parla di un «concordismo mediatore» di cui l’aquinate «resterà costantemente

maestro esemplare nella storia»1. Ciò che si può affermare di Tommaso –

l’inimitabile abilità per la sintesi, la quale dà luogo ad una monumentale opera

di composizione di prospettive divergenti e apparentemente inconciliabili – può

dirsi anche di Jürgen Habermas. Il filosofo tedesco, infatti, ha sempre «cercato

via via di integrare, nel suo ampio orizzonte di pensiero, teoria critica ed

ermeneutica, modelli filosofici e scienze empiriche, teorie sistemiche della

società e interpretazioni fenomenologiche del mondo della vita, approccio

normativo e approccio descrittivo alla società e alla politica»2, in un gioco di

incastri e superamenti dialettici che si offre come una summa philosophiae del

XX secolo.

Considerando equamente la tesi della modernità e la sua antitesi, la post-

modernità, il contributo habermasiano offre una sintesi che potrebbe attribuire

al filosofo tedesco un ruolo, nello sviluppo storico delle idee, non dissimile da

quello di Tommaso. In attesa di un vero innovatore, di un nuovo Rinascimento

che dischiuda orizzonti culturali e filosofici ancora impensati, Habermas ritrae

le possibilità reali di una razionalità non più onnipotente, ma non già

1 F. Alessio, Tommaso, in Pietro Rossi e Carlo Augusto Viano (a cura di), Storia della Filosofia. Vol. 2. Il Medioevo, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 324.

2 S. Petrucciani, Introduzione a Habermas, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 159.

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impotente.

Più specificamente, i temi della ricerca habermasiana si sviluppano attorno

ad un tema di fondo che orienta tutto il lavoro del filosofo: il concetto di

democrazia. Da Storia e Critica dell’Opinione Pubblica, attraverso la Teoria

dell’Agire Comunicativo e Fatti e Norme, sino alle recenti ricerche sulla

possibilità di una ‘condizione cosmopolitica’, tutto il lavoro del francofortese si

rivolge al chiarimento di quella prassi di autolegislazione identificantesi come la

più alta espressione di razionalità sociale del mondo contemporaneo. Ogni

sforzo del filosofo, in altri termini, è indirizzato a promuovere la bontà delle

procedure democratiche di formazione dell’opinione e della volontà, e ad

adattarle alle mutate condizioni storiche e geopolitiche. In particolare, dopo le

grandi sistematizzazioni teoriche degli anni Ottanta, l’ultimo trentennio di

ricerche – e qui è l’oggetto della presente trattazione – ha visto Habermas

occuparsi dell’adattabilità della democrazia deliberativa all’allargamento su

scala mondiale dei sistemi funzionali e all’esplosione delle connessioni

intersistemiche. Ovvero a quei processi ormai entrati nel lessico comune sotto il

nome di ‘globalizzazione’.

Oggi Habermas si adopera nell’elaborazione di un modello innovativo di

democrazia cosmopolitica grazie al quale poter superare i problemi che la

globalizzazione inocula nei processi deliberativi nazionali – sempre più

prigionieri degli imperativi sistemici – così da non dover sfociare nello scettico

vaticinio d’una sempre più incombente età post-democratica.

Scopo della presente dissertazione vorrebbe essere, oltre all’esposizione del

pensiero del filosofo in ambito cosmopolitico ed in particolare sulla questione

europea, la rilevazione della tensione tra la fattualità di un processo storico

complesso quale è l’integrazione delle nazioni del Vecchio Continente e l’idealità

del suo progetto così come è nel disegno di Habermas. A tal fine ho preferito

seguire, nella sezione dedicata al problema europeo, un’esposizione ordinata

diacronicamente, parallelamente ai fatti storici più significativi nello sviluppo

dell’integrazione. In questo modo vorrei sottolineare la progressione del

pensiero habermasiano e l’applicazione delle sue teorie normative all’effettività

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delle dinamiche storiche occorse nel Vecchio Continente durante gli ultimi tre

decenni circa. La prima parte ha invece carattere introduttivo, e va intesa quale

elemento funzionale alla retta comprensione della successiva.

Habermas ha il grande pregio, in un universo filosofico dominato dal

postmoderno e dalla negazione decostruzionistica, di riuscire ancora ad essere

un positivo, un affermativo. Il concetto di giustizia, concetto cardine di tutta la

filosofia politica, piuttosto che socialmente amorfo o insondabile – o peggio

“un’esperienza dell’impossibile” come vorrebbe Derrida – risulta

cognitivamente inesauribile3, sempre pronto a rinnovarsi e ad adeguarsi alle

circostanze storiche. In un’epoca densa di non- e di post-, la sua filosofia è una

ventata di aria fresca, uno sguardo verso un futuro possibile perché pensabile.

Un futuro non truce né apocalittico, ma nemmeno trascendente oltremisura:

bensì luminoso e tangibile. Realizzabile da un’umanità autenticamente conscia

di sé, così delle sue potenzialità, così dei suoi limiti. Quasi che la fiducia nel

futuro non debba infiacchirsi per la forza dei limiti ad esso attribuiti, ma che

anzi la ragione possa ergersi fiera per la vicinanza di un avvenire ridimensionato

forse nelle aspirazioni ma più plausibile. Ciò che Habermas, politicamente

parlando, auspica è una maturazione intellettuale dell’individuo inserito nella

società complessa. Una sua acquisizione di responsabilità, una rinnovata

consapevolezza del proprio status di cittadino il quale gli permetta di aspirare a

quella autonomia – privata e pubblica – che da sola conferisce dignità all’ente

intellegibile. Solo un’umanità socialmente maggiorenne può sperare di

affrontare la Storia con la maturità necessaria ad evitare involuzioni

autodistruttive. Una maturità che non è solo doveroso esigere, ma che è

opportuno promuovere dinanzi a pericolose regressioni culturali. La lezione

della modernità non va dimenticata, né gli ammonimenti della post-modernità

vanno semplicisticamente accantonati. Piuttosto è auspicabile, dalla prospettiva

habermasiana, un superamento dialettico che risolva le problematiche dell’una

e dell’altra tradizione, compendiandole da una nuova angolazione.

3 L. Ceppa, Il diritto della modernità. Saggi habermasiani, Trauben, Torino, 2009, p. 9.

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PRIMA PARTE

Un progetto ambizioso:

il diritto cosmopolitico

Sarebbe impossibile illustrare in modo esauriente il pensiero di Habermas in

merito alla questione europea senza prima tracciare uno schizzo del più ampio

progetto di cosmopolitizzazione giuridica. Ossia, quello sviluppo ulteriore del

diritto che, a livello globale, comporterebbe il passaggio da una comunità

internazionale degli Stati – in cui questi conservano interamente la propria

sovranità – a una più integrata comunità cosmopolitica degli Stati e dei cittadini

del mondo1 – nella quale un diritto parzialmente autonomizzatosi dagli stati

nazionali limita la sovranità degli stessi con criteri stabiliti universalmente. O,

per usare una terminologia classica: il processo di transizione dal “diritto delle

genti” al “diritto cosmopolitico”.

Per il filosofo tedesco, infatti, l’Unione Europea, quale che sia la sua natura,

costituisce null’altro che un momento di quel processo di integrazione giuridica

globale che ha le sue radici nell’ambizioso progetto kantiano di pace perpetua.

Progetto a cui Habermas rimarrà sempre debitore, sebbene quell’idea,

sviluppata con categorie giusnaturalistiche e in un orizzonte politico

settecentesco, vada riformulata, giacché sia la dimensione concettuale sia il

quadro storico ci allontanano da Kant2.

1 J. Habermas, Zur Verfassung Europas. Ein Essay, Suhrkamp, Berlin, 2011; trad. it. Carlo Mainoldi, Questa Europa è in crisi, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. XI.

2 J. Habermas, L’idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo; in J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen Theorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1996; trad. it. L. Ceppa, L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 177-178.

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Ma “momento” non significa “frazione”. L’UE non ha solo valore relativo: un

Unione compiuta e matura potrebbe nondimeno diventare esemplare. L’Europa

potrebbe (tornerebbe?) così svolgere un ruolo di guida culturale e modello

istituzionale. L’orizzonte escatologico del Sogno Americano, divenuto l’unico

pensabile dopo la fine del bipolarismo, potrebbe essere rimpiazzato da un più

lungimirante, e – mi si permetta di dirlo – più assennato, Sogno Europeo. Così

come recita il titolo di un ottimistico, finanche a scadere talvolta nell’ingenuità,

saggio di Jeremy Rifkin3.

Una sfida globale

Ma a quali esigenze risponde, oggi, l’ideale della pace perpetua? È davvero

necessario costruire – o meglio perfezionare, visto che un abbozzo di esso già

esiste: l’Onu – un ordinamento giuridico mondiale? La consolidata struttura

degli stati-nazione non è più sufficiente a garantire una sovranità legittima ed

efficiente?

Per offrire una risposta completa a questi annosi quesiti è utile riassumere

brevemente i primi paragrafi de La Costellazione Postnazionale4 (1998). In

particolare, il secondo saggio ivi contenuto muove dalla considerazione che la

costellazione storica in cui il processo democratico poté assumere una

configurazione istituzionale convincente – caratterizzata da tre elementi: stato

territoriale, nazione, economia nazionale – viene ora messa in discussione da

quell’ampliarsi e intensificarsi dei rapporti di traffico, comunicazione e scambio

al di là delle frontiere nazionali, comunemente denominato globalizzazione5. È

in particolare la globalizzazione economica a destare più inquietudini in

riferimento al destino dei processi democratici, ingabbiati entro i confini dello

3 J. Rifkin, The European Dream: How Europe's Vision of the Future Is Quietly Eclipsing the American Dream, Tarcher, New York City, 2004; trad. it. P. Canton, Il sogno europeo. Come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano, Mondadori, Milano, 2004.

4 J. Habermas, Die postnationale Konstellation. Politische Essays, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1998; trad. it. Leonardo Ceppa, La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano, 2002.

5 J. Habermas, La costellazione postnazionale e il futuro della democrazia; in La costellazione postnazionale, cit., p. 38.

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stato-nazione mentre flussi impetuosi di merci e capitali sfuggono ai controlli di

frontiera.

In un mondo sempre più strettamente interdipendente – sul piano

ecologico, economico e culturale – gli stati che prendono legittime

decisioni combaciano sempre meno, nel loro raggio sociale e

territoriale, con le persone e le sfere che sono potenzialmente

coinvolte dagli effetti di queste decisioni. Siccome lo stato nazionale

continua a decidere sulla base del territorio, nella società mondiale

interdipendente si accresce la discrepanza tra coloro cui tocca decidere

(i decisori) e coloro su cui ricadono gli effetti (gli interessati).6

Ma sotto quali aspetti, precisamente, la globalizzazione minaccia di far

crollare l’edificio nazional-statale eretto nel secondo dopoguerra? Habermas ne

individua quattro.

a) L’efficienza dell’amministrazione pubblica è messa a repentaglio, oltre

che dai rischi ecologici e alla transnazionalizzazione della criminalità

organizzata, anche e soprattutto dall’«accelerata mobilità di capitali» che

«impedisce allo Stato di intercettare guadagni e ricchezze monetarie;

mentre l’acuita “concorrenza di posizione” provoca una riduzione del

gettito fiscale»7. Con il termine concorrenza di posizione Habermas

vorrebbe intendere quella circostanza in cui gli stati sono costretti ad

adattarsi agli imperativi di un’economia globale non regolamentata, che

dunque favorisce quei regimi economici nei quali i diritti sono poco o

nulla tutelati, promuovendo una spirale involutiva delle condizioni

sociali.

b) I recenti regimi sovranazionali, nati con l’intenzione di colmare i vuoti di

efficienza generati dalla diminuita indipendenza dello stato nazionale,

generano però dei vuoti di legittimità, in quanto le procedure delle

collaborazioni internazionali sono ben lontane dal conferire una

legittimazione anche solo paragonabile a quella degli stati nazionali.

Dal punto di vista strettamente giuridico tale vacuità si manifesta nel

6 Ivi, p. 45.7 Ivi, p. 43.

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dislivello incolmato tra la dissoluzione fattuale dello stato di diritto

(nazionale) ed il vuoto di diritto pubblico a livello sovranazionale, il quale

dovrebbe regolare i nuovi poteri transnazionali che hanno detronizzando

i “vecchi” poteri statali, per guidare l’integrazione mondiale (o

continentale) su binari normativi e non meramente funzionalistici8.

c) La globalizzazione influenza negativamente quel sostrato culturale di

solidarietà civica che si era già formato e sedimentato nel quadro dello

stato nazionale. «Per un verso le dissonanze cognitive – nello scontrarsi

delle diverse forme culturali di vita – portano a un indurirsi dell’identità

nazionale. Per un altro verso le differenziazioni ibride – come

conseguenza dell’assimilarsi di una cultura materiale globale […] alle

specificità della cultura indigena – ammorbidiscono forme di vita

relativamente omogenee».

d) A causa della riduzione del gettito fiscale – vedi a) – la politica di welfare

si vede sottrarre le risorse necessarie al proprio funzionamento. Ciò

intacca alla base la legittimità democratica dello stato di diritto nella

misura in cui non è più possibile garantire, come lo era un tempo, la

fruizione dei diritti sociali da parte dei cittadini. Ossia, diritti materiali

senza i quali i diritti liberali e politici rimangono ad un livello astratto e

meramente formale.

Ora, dati per assodati tali problemi, e posto il fatto che la globalizzazione è

un processo irreversibile, rimane aperta la questione di come farvi fronte. Due

sono le soluzioni possibili: adattare le prerogative degli stati al sistema

economico transnazionale, o tentare di condizionarne politicamente la

struttura. La prima ipotesi, nelle frange più estreme, si ripropone, in ossequio

alle teorie economiche neoliberistiche, di “smantellare” lo stato sociale, il quale

sarebbe imploso a causa della velleità delle proprie pretese. Una proposta del

genere, però, comprometterebbe la coesione sociale e metterebbe in pericolo la

stabilità democratica della società9. La seconda ipotesi, la più ambiziosa, ed è

8 L. Ferrajoli, Per una sfera pubblica del mondo, in «Teoria Politica» XVII, n. 3, 2001, pp. 3-21.9 J. Habermas, La costellazione postnazionale e il futuro della democrazia; in La costellazione

postnazionale, cit., p. 20.

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quella che in effetti Habermas persegue, si ripropone invece di far

“riguadagnare terreno alla politica” sui mercati, mediante il «trasferimento a

istanze sovranazionali delle funzioni finora svolte dagli stati sociali nel quadro

nazionale»10.

Le modalità e le problematiche legate a un siffatto “riscatto” della politica

democratica verranno analizzate più avanti. Prima è opportuno ricostruire

brevissimamente la storia dei progetti di cosmopolitizzazione del diritto. In

realtà, occorre precisare che tali progetti avevano come unico obbiettivo quello

di stabilire un ordine pacifico tra le nazioni: la pace perpetua, appunto. Se

queste proposte sono significative, lo sono alla luce di un principio rilevato da

Habermas stesso. Quel principio, o meglio quel meccanismo sociale, secondo il

quale «l’addomesticamento del potere statale [o, nel nostro caso, sovrastatale]

punta direttamente a una pacificazione degli Stati; ma indirettamente, cioè

attraverso la repressione della concorrenza del potere anarchico e la promozione

della cooperazione fra gli Stati, questa pacificazione rende possibile anche la

costruzione di nuove capacità d’azione sovranazionali [corsivo mio]»11.

Indagare i progetti di pacificazione delle nazioni, insomma, significa porre i

fondamenti per l’istituzione di una capacità di agire politico che si estende al di

là degli stati nazionali.

Fondamenti

La storia dei progetti (moderni12) di pace perpetua, e del relativo diritto

cosmopolitico o sovranazionale – sempre connessi nella misura in cui il diritto

si pone come strumento di monopolio della violenza, la quale diviene così

legittima –, ha le sue origini nel XVII secolo. La guerra dei Trent’anni pose il

10 Ivi, 24.11 J. Habermas, Questa Europa è in crisi, cit., p. 41.12 Ci si può ovviamente spingere ancora indietro nella storia sino a citare le aspirazioni cosmopolitiche

di Alessandro Magno o l’ideale romano della civitas universalis. Ma ciò che attiene a questadissertazione è solamente offrire un terreno sul quale edificare l’esposizione del progettohabermasiano, il quale non necessita – a mio avviso – di approfondimenti che si spingano alle spalledella modernità occidentale.

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problema13. Le immagini fresche delle devastazioni e del sangue scorso

esortarono gli intellettuali dell’epoca ad adoperarsi per la ricerca di una

soluzione che preservasse l’Europa dall’autodistruzione.

Il primo significativo lavoro in tal senso fu pubblicato, a conflitto da poco

iniziato, da Emeric Crucé: quel Nouveau Cynée14 (1623) nel cui progetto si

delineano i tratti di una Società universale della Nazioni capace di rifiutare la

guerra quale mezzo per risolvere le controversie internazionali. In sostituzione

del mezzo bellico Crucé teorizzò la nascita di un collegio arbitrale formato da

delegati di ogni Stato europeo ed extraeuropeo15.

È il “La” che dà il via ad un’intenso dibattito che si protrae sino ad oggi, e che

vede in Habermas uno dei più affiatati contendenti.

In risposta all’universalismo di Crucé si staglia la proposta dell’Abate di

Saint-Pierre il quale, nel suo Projet de paix universelle entre les nations o

Projet pour rendre la paix perpetuelle en Europe16 (1713), restringe il piano di

pace alla sola Europa. Ciò in quanto solo la limitazione ai confini del continente

europeo garantirebbe quelle condizioni di “equilibrio complessivo” – eguale

religione, eguale diritto internazionale, costumi, letteratura, commercio –

necessarie affinché la pace perpetua possa essere instaurata con successo 17.

Entrambi i progetti sono rivolti però ad una conservazione dello status quo,

e prescindono a tal fine da qualsiasi prescrizione riguardo all’ordine politico dei

singoli paesi18. In questo senso, una proposta innovativa è quella di William

Penn19. Egli pone la pace in stretto rapporto ad un governo giusto, giacché «ciò

che impedisce la guerra all’interno di un popolo è lo stesso che potrebbe anche

impedire una guerra verso l’esterno, ossia: la giustizia [corsivo mio]»20. Penn

introduce così, anche nei rapporti tra le nazioni, quel concetto di giustizia

13 D. Archibugi, F. Voltaggio, Filosofi per la pace, Editori Riuniti, Roma, 1991, p. XXIII.14 E. Crucé, A. Lazzarino Del Grosso (a cura di), Il Nuovo Cinea, Guida, Napoli, 1979.15 D. Archibugi, F. Voltaggio, Filosofi per la pace, cit., p. XXIII.16 C. I. Castel de Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle en Europe, Fayard, Paris, 1986.17 S. Dellavalle, Per un concetto normativo di Europa. Stato nazionale e unificazione europea alla luce

della teoria politica, in «Teoria Politica», VIII, n. 1-2, 1992, p. 278.18 Ivi, p. 279.19 W. Penn, An Essay Towards the Present and Future Peace of Europe by Establishment of an

European Diet, Parliament or Estates, Hildesheim, Olms-Weidmann, 1983.20 S. Dellavalle, Per un concetto normativo di Europa, cit., p. 279.

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riservato precedentemente solo ai rapporti tra i cittadini all’interno degli Stati di

appartenenza. Un’innovazione che risulterà feconda per gli sviluppi ulteriori del

dibattito.

Come del resto per altre tematiche filosofiche, è con Kant che la questione

giunge ad una sistematizzazione matura, dalla quale i contributi successivi non

potranno prescindere. Nel breve opuscolo Per la pace perpetua21 Kant mostra di

accogliere le riserve di Penn riguardo alla costituzione interna degli Stati che si

uniscono in una lega sovranazionale. Il primo dei tre articoli “definitivi” recita

infatti che «in ogni Stato la costituzione civile deve essere repubblicana [corsivo

mio]». Ovvero «fondata: 1) sul principio della libertà dei membri una società

(come uomini); 2) sul principio della dipendenza da tutti da un’unica

legislazione comune (come sudditi); 3) sulla legge della eguaglianza (come

cittadini)»22. Il motivo è presto detto:

Se (come deve per forza accadere in questa costituzione) per decidere

se “debba esserci o no la guerra” viene richiesto il consenso dei

cittadini, allora la cosa più naturale è che, dovendo dovendo decidere

di subire loro stessi tutte le calamità della guerra […], rifletteranno

molto prima di iniziare un gioco così brutto.

Al contrario, invece, in una costituzione in cui il suddito non sia

cittadino, decidere la guerra è la cosa sulla quale si riflette di meno al

mondo, poiché il sovrano non è il concittadino, ma il proprietario dello

Stato, e la guerra non toccherà minimamente i suoi banchetti, le sue

battute di caccia, i suoi castelli in campagna, le sue feste di corte e così

via, e può allora dichiarare la guerra come una specie di gara di

piacere per futili motivi.23

Kant pone dunque, a fondamento della struttura istituzionale

sovranazionale, la prescrizione limitante secondo la quale tutti i paesi che ne

volessero far parte dovrebbero garantire ai propri cittadini l’autonomia: ossia

l’attributo di ogni costituzione democratica24 – normativamente intesa – nella

21 I. Kant, Zum Ewigen Frieden; trad. it. R. Bordiga, Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano, 2003.22 Ivi, p. 54.23 Ivi, pp. 55-56.24 «In effetti, Kant contrappone esplicitamente il governo repubblicano a quello democratico e, mentre

considera il primo come il migliore, respinge il secondo accusandolo di tendere inevitabilmente al

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quale i cittadini sono nello stesso tempo autori e destinatari delle leggi.

Questa considerazione risulta fondamentale per diversi motivi. Innanzitutto,

l’indiscusso valore dell’argomentazione sopravvive sino ai giorni nostri. Non a

caso un autore come Luigi Bonanate, seppur attraverso un itinerario

argomentativo e tematico differente, e rispetto al solo problema dell’Unione

Europea, ripropone la tesi per cui se la politica estera di un regime

sovranazionale fosse decisa democraticamente, si attenuerebbe il rischio di

conflitti dettati dalla volontà espansionistica25.

In secondo luogo il concetto kantiano di autonomia ci permette di

riavvicinarci alla dottrina politica habermasiana, per la cui economia siffatto

concetto ha valore fondativo.

Questa concezione [il paradigma proceduralista], così come quella

dello Stato di Diritto, conserva pur sempre un nucleo dogmatico: si

tratta di quell’idea di autonomia per cui gli uomini sono liberi solo se

obbediscono alle leggi che si danno a partire da conoscenze

intersoggettivamente acquisite [corsivi miei]».26

Vale a dire che, mentre in Kant è la ragione pura – e dunque individuale – a

“farsi” pratica nell’enunciazione dell’imperativo categorico, in Habermas il

dispotismo. Nonostante tutta la cautela indispensabile nel trattare l’argomento, ritengo sia lecitoaffermare che la contrapposizione kantiana ha perso oggi buona parte della sua legittimità. Infatti,l’accusa mossa dal filosofo tedesco nei confronti del principio democratico riguarda essenzialmente lasua sovrapposizione del potere esecutivo a quello legislativo, ragion per cui “il legislatore può essere,in una sola persona, al contempo esecutore della sua volontà”. È chiaro che Kant qui ha in mente lavolonté générale di Rousseau e le sue possibili degenerazioni autoritarie e giacobine. Per quantoriguarda invece la situazione attuale, è evidente che il potere esecutivo nelle democrazie modernecontinua a far dipendere la sua legittimazione dalla stessa istanza (il parlamento) in cui risiede anche ilpotere legislativo. D’altro canto, la divisione dei poteri, considerata insufficiente da Kant, è oggi ingenerale ampiamente garantita. Infine, la forma di governo che noi oggi chiamiamo democratica èsenz’altro quella che assicura nel migliore dei modi quell’autonomia dei cittadini che Kant stesso –come s’è visto – teneva in gran conto. La tensione kantiana tra esigenza di autonomia e timore di unatirannia della maggioranza sulla minoranza è stata pertanto risolta, nelle democrazie contemporanee,da un lato a favore di un potenziamento del principio di autonomia, dall’altro evitando il rischio dellatirannia soprattutto attraverso l’introduzione di meccanismi costituzionali». Cfr. S. Dellavalle, Per unconcetto normativo di Europa. Stato nazionale e unificazione europea alla luce della teoria politica ,cit., p. 291.

25 L. Bonanate, L’interesse nazionale dell’Unione Europea: il problema politologico della politica estera europea, in «Teoria Politica», XVIII, n. 2, pp. 117-141.

26 J. Habermas, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1992; trad. it. Leonardo Ceppa, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Laterza, Roma-Bari, 2013, p. 500.

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dettame razionale non può prescindere dalla comunicazione,

dall’intersoggettività. I rapporti tra gli individui non sono più regolati dalla

ragione pratica, ma dalla ragione comunicativa, mediante la quale gli attori

sociali negoziano interpretazioni comuni della situazione e coordinano

reciprocamente attraverso processi d’intesa i loro rispettivi piani d’azione27.

Inoltre, mentre in Kant il principio giuridico restringe sotto tre aspetti il

principio morale – a) riguarda l’arbitrio e non la libera volontà, b) concerne i

rapporti esterni tra le persone, c) è dotato di potere coercitivo28 – in Habermas

il concetto di autonomia viene «pensato in maniera tanto astratta da poter

assumere figura specificamente diversa in riferimento ora al primo ora al

secondo tipo di norme: principio morale in un caso, principio democratico

nell’altro29».

In Habermas, dunque, il principio normativo che sta alla base di tutte le sue

considerazioni politiche, altro non è che la declinazione in termini di agire

comunicativo del principio di autonomia kantiano.

PRINCIPIO DI DISCORSO: Sono valide soltanto le norme d’azione

che tutti i potenziali interessati potrebbero approvare partecipando a

discorsi razionali.30

Tale principio, però, «si colloca a un livello di astrazione che è ancora

neutrale rispetto all’alternativa “diritto o morale”: esso cioè si riferisce

indifferentemente a tutte le norme d’azione in generale»31. In altri termini, il

diritto non è subordinato alla morale, i due generi di norme d’azione sono,

piuttosto, complementari, e derivano dalla specificazione del principio

universale di discorso all’intera umanità (principio morale) o ad una collettività

circoscritta (principio democratico).

Resta ora da dedurre cosa accadrebbe qualora l’intera umanità

corrispondesse alla “collettività circoscritta”. Ossia, come, a livello globale,

27 Ivi, p. 27.28 Ivi, p. 123.29 Ibidem.30 Ivi, p. 125.31 Ibidem.

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possano essere legittimamente ordinate le relazioni interpersonali, coordinate le

azioni, e come si possano risolvere consensualmente conflitti d’azione alla luce

di regole e di principi normativi intersoggettivamente riconosciuti32.

È grazie al concetto di dignità umana che, secondo Habermas, la morale

universalistica e il diritto positivo possono convergere e dar vita a un

ordinamento politico giusto, cioè fondato sui diritti dell’uomo.

La dignità umana costituisce per così dire il portale attraverso cui il

contenuto universalistico-egualitario della morale viene immesso nel

diritto. L’idea della dignità umana è la cerniera concettuale che

connette la morale della medesima considerazione di ciascuna persona

con il diritto positivo e la sua legislazione democratica: dalla loro

azione congiunta, in circostanze storiche favorevoli, poté scaturire un

ordinamento politico basato sui diritti dell’uomo [corsivi miei].33

Tale concetto trova accesso nei testi di diritto internazionale e nelle

Costituzioni nazionali solo dopo le tragedie della seconda guerra mondiale. Sia

l’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – «All human

beings are born free and equal in dignity and rights» – sia il primo articolo del

Grundgesetz, la Legge Fondamentale della Repubblica Federale di Germania –

«La dignità dell’uomo è intangibile» – contengono un esplicito riferimento a

tale concetto. È impossibile, soprattutto nell’esempio tedesco, non avvertire

«l’eco che vi risuona: le urla di innumerevoli creature umane martoriate e

uccise»34. Ciò rivela un carattere specifico del concetto di dignità umana: esso si

pone non tanto come un etichetta giunta in ritardo nelle vicende storiche, ma

piuttosto come la «fonte morale cui si abbeverano i contenuti di tutti i diritti

fondamentali»35. Una “sorgente” i cui contenuti hanno potuto palesarsi, e

continueranno a farlo, solo mediante le circostanze storiche che ne hanno

definito negativamente i confini. È la violazione della dignità umana ad aver

32 Ivi, 124.33 J. Habermas, Questa Europa è in crisi, cit., pp. 12-13.34 Ivi, p. 6. 35 Ivi, p. 7.

16

avuto funzione euristica, ed è grazie al ripugnante sacrificio delle vittime della

seconda guerra mondiale, e non solo, che oggi è notoria e ha ottenuto

positivizzazione giuridica «quella sostanza normativa dell’uguale dignità umana

di ciascuno, che i diritti dell’uomo in certo qual modo sillabano in dettaglio»36.

Ma in cosa consiste, precisamente, questa dignità inviolabile di ogni essere

umano in quanto tale? Ancora una volta, è a Kant che occorre riferirsi. E

precisamente alla seconda formulazione dell’imperativo categorico quale appare

nella Fondazione della metafisica dei costumi: «agisci in modo da trattare

l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come

fine, mai semplicemente come mezzo37». Tale formulazione è definita da Kant

materiale, in quanto assegna alla volontà una materia a priori: la “dignità di

ogni uomo”, indipendentemente da qualsivoglia considerazione delle sue qualità

empiricamente rilevabili38. Sono così «delineati i confini di una sfera che deve

restare assolutamente sottratta alla possibilità di disporre di un’altra persona.

L’infinita dignità di ogni persona consiste nell’esigenza che tutti gli altri

rispettino come intangibile questa sfera del libero volere»39. Un “libero volere”

positivo, che si esprime nella «attività legislatrice propria della ragione

pura»40, la facoltà di darsi leggi da se stessi: l’autonomia, appunto. «Dunque la

legge morale non esprime altro che l’autonomia della ragione pura pura pratica,

ossia della libertà»41. E ancora: «L’autonomia è, dunque, il fondamento della

dignità della natura umana e di ogni natura razionale»42.

Ma per rilevare la distanza tra la concezione kantiana e quella habermasiana

è ancora necessario esaminare due questioni.

In primo luogo quella legata al regno dei fini. Il concetto romano di dignitas

viene infatti da Kant definitivamente spinto verso la trascendenza, superando il

36 Ivi, p. 8.37 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in I. Kant, Scritti morali, a cura di P. Chiodi, UTET,

Torino 1970, p. 91. 38 G. Riconda, Introduzione alla «Critica della ragione pratica»; in I. Kant, Critica della ragione

pratica, a cura di A. M. Marietti, Rizzoli, Milano, 2009, p. 23.39 J. Habermas, Questa Europa è in crisi, cit., p. 22.40 I. Kant, Critica della ragione pratica, cit., p. 171.41 Ibidem.42 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 161.

17

particolarismo in cui tale senso di rispetto era sbocciato43. In questo modo la

nozione di dignità viene caricata di un carattere universalistico e

individualistico che ne trasfigura il bagaglio semantico, legato invece in origine

ad uno status civile particolarmente eminente, proprio per questo creditore di

onorificenze sociali. Questa concezione, che assegna pari dignità a tutti gli enti

intellegibili in quanto tali, «paga tuttavia la sua radicalità con un incorporeo

status della libera volontà nel “regno dei fini” svincolato dal mondo»44.

Habermas diffida di questa trascendenza assoluta e, come è solito fare, tenta di

mediare tra i due estremi dell’idealismo e del materialismo. Dal punto di vista

del filosofo francofortese, infatti,

anche la dignità universalizzata, che spetta in eguale misura a tutte le

persone, conserva la connotazione di un rispetto di sé che poggia su un

riconoscimento sociale. […] Anche la dignità umana desidera

fortemente ancorarsi a uno status civile, cioè a una appartenenza a

una comunità organizzata nello spazio e nel tempo. Ora però lo status

deve essere per tutti il medesimo.

Il concetto di dignità umana trasmette il contenuto di una morale tesa

all’eguale considerazione per ogni persona con il rango di status di

cittadini, i quali attingono il rispetto che hanno di sé dal fatto di essere

riconosciuti da tutti gli altri cittadini come soggetti con gli stessi diritti

rivendicabili per vie legali.45

Questa tensione tra una idealità il cui discernimento è possibile solo

attraverso una accettazione fattuale di presupposti legittimanti, altro non è che

il riverbero della concezione logico-ontologica habermasiana. Una concezione in

grado di fondare una trascendenza ammorbidita, una trascendenza non più

afflitta dai problemi del dualismo: una «trascendenza dall’interno» che, sebbene

ancorata ad un qui ed ora ben preciso, esorbita spazio sociale e tempo storico

agganciandosi a quell’uditorio ideale in grado di fondare l’accettabilità

43 «Il concetto concreto di dignità o “onore sociale” appartiene al mondo delle società tradizionaliarticolate in gerarchie». Cfr. J. Habermas, Questa Europa è in crisi, cit., p. 18.

44 Ivi, p. 22.45 Ivi, p. 18.

18

razionale46. In altri termini, ciò significa che «i diritti dell’uomo possono

ottenere la validità positiva di diritti fondamentali soltanto in una comunità

particolare, in primo luogo all’interno di uno Stato nazionale». Cosicché, «la

rivendicazione universalistica di una loro validità al di là di tutti i confini

nazionali potrebbe adempiersi solamente in una comunità che includesse

l’intero mondo [corsivi miei]»47. È da leggersi in questo senso la nozione

ossimorica di utopia realistica; i diritti dell’uomo, infatti, «ancorano il

traguardo ideale di una società giusta nelle istituzioni degli Stati costituzionali

stessi»48.

La seconda differenza ha il sapore di un “rimprovero” che Habermas oppone

a Kant relativamente all’indipendenza/dipendenza degli Stati rispetto alla lega

dei popoli. La condizione cosmopolitica delineata dal filosofo di Königsberg si

distingue infatti dalla

condizione giuridica interna ai singoli stati per il fatto che gli stati – a

differenza di ciò che avviene ai singoli cittadini – non si assoggettano

alle pubbliche leggi costrittive di un potere sovraordinato, bensì

conservano sempre la loro indipendenza. […] Associandosi tra loro a

tempo indeterminato, gli stati mantengono, per così dire, la

competenza sulle loro competenze e non si trasformano in una

repubblica mondiale dotata di prerogative statali. In luogo “dell’idea

positiva di una repubblica universale” subentra il “surrogato negativo

di una lega che rifiuta la guerra”. […] I trattati internazionali non

fondano diritti che siano mutualmente azionabili da parte degli stati

membri. Essi vincolano soltanto questi stati ad allearsi stabilmente tra

loro in “associazione libera e permanente” [corsivi miei].49

Per un verso, dunque, la sovranità dei singoli stati è garantita dalla

“rescindibilità del contratto”, per l’altro verso, una lega siffatta è funzionale al

suo obbiettivo – lo ricordiamo: la pace perpetua – solo a condizione di essere

durevole. L’obbligo di subordinare la propria ragion di stato allo scopo comune

46 J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 23.47 J. Habermas, Questa Europa è in crisi, cit., p. 24.48 Ivi, p. 26.49 J. Habermas, L’idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo; in L'inclusione dell'altro, cit., p.

180.

19

– risolvere le controversie senza l’utilizzo della forza – fa perno, per Kant, sulla

sola obbligazione morale alla quale i governi dovrebbero autovincolarsi. La qual

cosa risulta quantomeno poco realistica. Sicché, se una comunità sovranazionale

non dev’essere soltanto un’organizzazione morale ma anche giuridica, allora

non possono mancarle gli attributi propri di ogni costituzione statale50.

È opportuno soffermarsi ancora su un paio di tematiche, in verità tra loro

connesse. In primis su quella critica alla moralizzazione del diritto che vede in

Carl Schmitt il più autorevole sostenitore. Tale controversia si cristallizza

attorno al seguente quesito: «Quand’è che una politica dei diritti umani portata

avanti da una organizzazione mondiale si rovescia in fondamentalismo dei

diritti umani?»51. Schmitt risponderebbe: sempre. Egli infatti afferma

perentoriamente che una politica dei diritti umani condurrebbe a guerre che

assumerebbero, ammantate sotto l’appellativo di “azioni di polizia”, una valenza

morale. Dal che seguirebbe la criminalizzazione del nemico, foriera delle più

aberranti disumanità. L’obiezione viene spazzata via da Habermas

semplicemente rilevando il carattere giuridico dei diritti dell’uomo. «Ciò che

conferisce loro l’apparenza di diritti morali non è il loro contenuto – né

tantomeno la loro struttura – bensì piuttosto quel senso di validità che li

proietta “al di là” di tutti gli ordinamenti giuridici nazionali»52, e che li rende

indisponibili alla volontà del legislatore; ma non immutabili, in quanto diritti

positivi. La pretesa di validità universale dei diritti umani è conseguenza del

fatto che essi possono essere fondati soltanto da una prospettiva morale53. Ciò

non significa che siano assimilabili a norme morali. L’atteggiamento stesso che

il soggetto assume in un rapporto morale (che cosa devo fare?) rispetto a un

rapporto giuridico (che cosa posso rivendicare?) evidenzia la differenza tra i

due generi di relazioni. «Il passaggio dalla morale razionale al diritto

razionale esige un cambiamento dalle prospettive simmetricamente incrociate

della considerazione e dell’apprezzamento dell’autonomia altrui alle

rivendicazioni del riconoscimento e dell’apprezzamento della propria

50 Ivi, p. 182.51 Ivi, p. 214.52 Ivi, p. 203.53 Ivi, p. 204.

20

autonomia da parte dell’altro»54. In altri termini, mentre gli uni assumono la

forma positiva di imperativi categorici gli altri si strutturano come diritti

soggettivi azionabili, cioè svincolano dai doveri morali le persone giuridiche e

concedono loro sfere legali per un agire orientato dalle rispettive preferenze55.

«A differenza della morale deontologica, che fonda doveri, il diritto serve a

proteggere la libertà d’arbitrio del singolo individuo»56. Venuta perciò meno

l’identificazione di diritti umani e morale, tutta l’argomentazione schmittiana

viene smontata pezzo per pezzo. La morale sarebbe introdotta nelle istituzioni

solo mediante quei canali legittimanti che tutelerebbero i soggetti devianti –

siano essi individui o apparati governativi – contro ogni forma incontrollata e

violenta di discriminazione morale.

Per ritornare alla domanda precedente, Habermas risponderebbe che il

paventato fondamentalismo dei diritti umani sarebbe tale solo nella misura in

cui un’organizzazione mondiale, invece che implementare procedure

democratiche inclusive di formazione dell’opinione e della volontà, si ergesse a

paladina di un’interpretazione unilaterale dei diritti dell’uomo. Ciò che peraltro,

dopo l’11 settembre, si denunciò in riferimento alle politiche egemoniche

dell’amministrazione Bush. Il rischio dunque sussiste, ma vi si può far fronte

con il ricorso a rigide procedure democratiche che permettano una realizzazione

dei diritti dell’uomo attenta alle differenze culturali. La quale non può

prescindere dalla discussione attorno alle interpretazioni altre di tali diritti.

Il che ci riconnette alla seconda questione: la spinosa disputa riguardo gli

asian values. A partire dai primi anni Novanta, infatti, molti governi asiatici

concordarono una posizione unitaria sui diritti umani, esplicitata poi nella

Dichiarazione di Bangkok del 1993, presentata, in seguito, alla Conferenza di

Vienna sui diritti umani (1997)57. Le obiezioni ivi elaborate si rivolgono contro il

taglio individualistico dell’interpretazione occidentale dei diritti umani, e fanno

appello ai valori delle culture confuciane. Esse possono riassumersi attorno a tre

54 J. Habermas, Questa Europa è in crisi, cit., p. 17.55 J. Habermas, L’idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo; in L'inclusione dell'altro, cit., p.

204.56 Ivi, p. 205.57 L. Corchia, L'occidente diviso?, in M. Ampola, L. Corchia, Dialogo su Jürgen Habermas. Le

trasformazioni della modernità, ETS, Pisa, 2007, p. 302.

21

tesi: 1) la priorità dei diritti soggettivi sui doveri verso la comunità di

appartenenza non appartiene alla cultura politica orientale; 2) nella gerarchia

dei diritti, la priorità assegnata ai diritti di libertà civile e ai diritti di

partecipazione politica pregiudica i superiori diritti sociali e culturali; 3) la

priorità dei diritti soggettivi provocherebbe effetti negativi nei confronti delle

forme di vita solidaristiche che soddisfano il fabbisogno di integrazione sociale.

Alla prima obiezione Habermas ribatte, lapidariamente, che «le società

asiatiche non possono imboccare la strada di una modernizzazione capitalistica

senza servirsi anche delle prestazioni di un ordinamento giuridico

individualistico»58. Non è un mistero infatti che tale forma giuridica si adatti

particolarmente bene ai requisiti funzionali delle società di mercato. Riguardo

alla seconda tesi, il filosofo tedesco imputa ai suoi autori di giustificare un

«modello autoritario di sviluppo che subordini la libertà dell’individuo al “bene

della comunità” percepito e definito paternalisticamente»59. L’ultima asserzione,

di cui Habermas accoglie la «sacrosanta critica alla concezione dei diritti

soggettivi che è nata con Locke e che viene oggi riproposta dal neoliberismo

dilagante»60, è probabilmente quella più delicata. Tant’è che Habermas si

guarda bene dal confutarla, ma piuttosto la integra nel suo ampio spettro

speculativo. Anche per il filosofo tedesco, infatti, «la concezione dei diritti

umani deve liberarsi della zavorra metafisica di una concezione aprioristica

dell’individuo»61. Una volta compiuto questo passo verrebbe meno la necessità

di una siffatta critica.

Dal momento che anche le persone giuridiche possono individuarsi

soltanto passando attraverso processi di socializzazione, ne consegue

che l’integrità della singola persona è tutelabile solo a patto che le

venga simultaneamente garantito l’accesso a quelle relazioni

interpersonali, e a quelle tradizioni culturali, che le sono necessarie

per conservare la propria identità.62

58 J. Habermas, Legittimazione tramite diritti umani; in L'inclusione dell'altro, cit., p. 227.59 Ibidem.60 Ivi, p. 228.61 Ibidem.62 Ivi, p. 229.

22

Le brillanti confutazioni di Habermas, sia nei confronti del realismo

schmittiano sia nei confronti del comunitarismo paternalistico delle obiezioni

asiatiche, spianano il terreno alla costruzione dell’auspicato ordinamento

giuridico mondiale.

Costituzionalizzazione del diritto internazionale

Mentre la democrazia sostanziale mal si adatta a essere direttamente

trasposta alle relazioni internazionali per il semplice fatto che gli stati

(come soggetti) non sono assimilabili a degli esseri umani, meglio si

può comprendere come possa adattarvisi la concezione procedurale

della democrazia: la stessa storia della diplomazia è una storia di

trattative, dialoghi, concertazioni, e all’incontrario di rotture delle

trattative, di interruzione di relazioni diplomatiche, di inganni: le

guerre in effetti non sono che un periodo estremamente limitato di

tempo nel quale lo scontro trascende i limiti delle procedure

concordate, e in cui dunque si decide a chi toccherà il governo nel

nuovo ordine internazionale.63

La concezione proceduralista della democrazia, dunque, precisamente quella

che Habermas tratteggia in Fatti e Norme, ben si attaglia

all’istituzionalizzazione di ordinamento sovranazionale con fattezze

democratiche. L’alternativa tra lega dei popoli e repubblica mondiale risulta

oggi anacronistica, così come il dogma dell’indivisibilità della sovranità.

Piuttosto è pensabile, anche alla luce delle evidenze empiriche, un ordinamento

mondiale disposto su una struttura a più livelli. Se, infatti, «si prende l’idea

della legalizzazione dello stato di natura fra Stati in maniera sufficientemente

astratta, senza caricarla di false analogie, come percorso concettualmente

possibile per la realizzazione ci si offre un’altra forma di costituzionalizzazione

del diritto internazionale, arricchita di idee liberali, federalistiche e

63 L. Bonanate, L’interesse nazionale dell’Unione Europea: il problema politologico della politica estera europea, in «Teoria Politica», XVIII, n. 2, p. 137.

23

pluralistiche»64.

Habermas mette in guardia, precisamente, dalla fuorviante analogia con lo

stato di natura tra gli individui e lo stato di natura tra gli Stati. Giacché,

«diversamente dagli individui nello stato di natura, i cittadini degli Stati

naturalmente concorrenti fra loro godono già di uno status che garantisce loro

diritti e libertà (per quanto si voglia limitati). […] I cittadini di uno Stato […]

sono [già] in possesso del patrimonio politico di libertà garantite dal diritto, e

metterebbero in gioco questo patrimonio se accettassero una limitazione della

sovranità di quel potere statale che garantisce questa condizione giuridica»65.

Gli Stati nazionali non sono solo comunità di destino degne di essere preservate

in quanto tali. Essi cioè, oltre ad avere valore etico-esistenziale, posseggono

anche “virtù” di tipo normativo, in quanto garantiscono un livello di giustizia e

di libertà che, sedimentatosi lungo il corso storico, vuole essere legittimamente

conservato dai cittadini66. L’immediata conseguenza è che i soggetti giuridici

continuano ad essere – benché affiancati dagli attori statali, ma non da essi

sostituiti nell’arena sovranazionale – gli individui. La cui cittadinanza, e le cui

lealtà, debbono scindersi in due o più parti.

Nella vita politica di un cittadino si sovrappongono molte lealtà, che

individualmente vengono valutate in modo diverso. […] Il diffondersi

sovranazionale della solidarietà civica dipende da processi di

apprendimento che, come l’attuale crisi lascia sperare, possono essere

stimolati dalla percezione degli stati di necessità in cui versino

l’economia e la politica.67

Questo ingrediente irrinunciabile ai fini di una sufficiente integrazione della

società cosmopolitica – la solidarietà dei cittadini del mondo – non si alimenta,

come quella civica, attraverso valutazioni e pratiche etiche “forti” di una cultura

politica e una forma di vita comuni. «È sufficiente una consonanza di

indignazione morale verso grossolane violazioni dei diritti umani ed evidenti

64 J. Habermas, Der gespaltene Westen, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004; trad. it. Mario Carpitella, L'Occidente diviso, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 140.

65 Ivi, p. 123.66 J. Habermas, Questa Europa è in crisi, cit., p 70.67 Ivi, p. 76.

24

trasgressioni del divieto di compiere azioni militari di aggressione. Per

l’indignazione di una società di cittadini del mondo bastano le concordi reazioni

negative ad atti di criminalità di massa percepiti come tali»68. La riprovazione

morale sarebbe perciò sufficiente a promuovere quell’ulteriore delocalizzazione

della solidarietà che già ha dato luogo alla coscienza nazionale69.

La condizione cosmopolitica, dunque, passa necessariamente per una

riforma dell’Onu. Il complesso istituzionale delle Nazioni Unite abbisogna, per

non collidere con i suoi presupposti concettuali, di una profonda

ristrutturazione in senso cosmopolitico. In quanto oggi, di fatto,

l’organizzazione delle relazioni mondiali si muove su un piano transnazionale.

Ciò che deve essere modificata è la «modalità di negoziazione di compromessi

interstatali che è stata finora predominante nel commercio internazionale e che

si è sempre basata sul potere e sull’influenza»70.

Siccome lo Stato non è affatto un presupposto necessario per l’istituzione di

un ordinamento costituzionale, non è neanche necessario pensare

un’organizzazione mondiale a carattere statale – o, come la definiva Kant: una

repubblica mondiale. A tal proposito Habermas introduce il concetto di

68 J. Habermas, L'Occidente diviso, cit., p. 139.69 J. Habermas, La costellazione postnazionale, cit., p. 27.

«Da tempo ormai la popolazione mondiale è stata costretta a unificarsi come “comunità del rischio”.Non appare dunque inverosimile l’aspettativa che, sotto questa pressione, la grande spinta astrattivache ha già trasformato sul piano storico la coscienza locale e dinastica in una coscienza nazionale edemocratica possa ulteriormente svilupparsi». Cfr. Ibidem.

70 J. Habermas, L'Occidente diviso, cit., p. 130.La questione, che non è possibile qui approfondire ulteriormente, conduce direttamente alle radici delpensiero habermasiano. Egli infatti concepisce l’agire politico, e le relative procedure, non come unmero sistema di trattative più o meno efficiente nel cui svolgimento il potere ha ruolo esclusivo.Muovendo da questi presupposti infatti non sarebbe possibile alcuna critica dello stato di cose attualedi un’organizzazione mondiale ostaggio dei potenziali di minaccia delle superpotenze con diritto diveto. Piuttosto, la sostanza normativa della democrazia deliberativa si fonda sul quel modello diinterazione che è l’agire comunicativo. Quell’atteggiamento performativo del “mettersi d’accordo”che fonda ogni consenso, ossia la circostanza in cui tutti i partecipanti alla deliberazione sono convintidalle medesime ragioni. Il quale si distingue radicalmente dal compromesso, unico risultato possibiledi una trattativa, di cui le controparti accettano l’esito per ragioni differenti. Cfr., J. Habermas, Fatti enorme, cit., cap. 4.2. «Nelle trattative il principio di discorso non può operare direttamente, in quanto l’uso linguistico è quiristretto al “perseguimento strategico di effetti perlocutivi”. Anche in esse, tuttavia, questo principiopuò essere fatto valere indirettamente, almeno nella misura in cui le parti accettino “procedimenti chedisciplinano le trattative nella prospettiva della equità”. In questo caso, naturalmente, non si tratterà diuna “intesa reciproca tra partecipanti al discorso”, bensì semplicemente di un “accordo procedurale tradetentori di potere”». Cfr., L. Ceppa, Dispense habermasiane. Sommari da “Fatti e norme”, Trauben,Torino, 2001, p. 52.

25

«politica interna mondiale senza governo mondiale»71.

Comunità sovranazionali come l’Onu o l’Unione Europea non

dispongono di quel monopolio di mezzi per l’impiego legittimo della

forza che al moderno stato di diritto , amministrativo e fiscale, serve

da copertura per la sovranità interna ed esterna; ciò nondimeno, esse

rivendicano la preminenza del diritto sovranazionale sugli

ordinamenti giuridici nazionali72.

Vale a dire che la legalizzazione del potere politico, comunque

imprescindibile, passa per una distribuzione del potere sovrano, ossia un

«addomesticamento dell’autorità tramite la divisione istituzionale e la

regolazione in forma procedurale dei rapporti di forza esistenti»73.

Pertanto, a detta di Habermas, si dovrebbe procedere risolutamente ad una

riforma delle Nazioni Unite, le quali dovrebbero essere organizzate come una

«comunità di Stati e cittadini dotata di una Costituzione politica»74. Le cui

funzioni debbono essere sufficientemente astratte da poter essere avallate dalla

comunità globale: esse si riducono così alla conservazione della pace e

all’affermazione su tutto il pianeta dei diritti dell’uomo.

Habermas prefigura la trasformazione dell’Assemblea generale in una sorta

camera federale, che divida le sue competenze con una seconda camera nella

quale non sarebbero più rappresentati dai loro governi, bensì da rappresentanti

eletti direttamente75. In termini concreti, questa innovazione renderebbe

possibile, ad esempio, appellarsi al diritto cosmopolitico qualora il governo del

proprio stato violasse quei principi base di rispetto della dignità umana sanciti

dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. La presenza di queste due

camere76

71 J. Habermas, L'Occidente diviso, cit., p. 131.72 Ivi, p. 132.73 Ivi, p. 133.74 J. Habermas, Questa Europa è in crisi, cit., p. 85.75 J. Habermas, L’idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo; in L'inclusione dell'altro, cit., p.

199.76 Che in verità, nell’ultimo lavoro di Habermas (trad. cit. Questa Europa è in crisi, 2012) sembrano

fondersi in una sola «rinnovata Assemblea generale» (cfr. Ivi, p. 88).

26

dovrebbe assicurare che le concorrenti prospettive di giustizia trovino

considerazione da parte dei cittadini del mondo da una parte, dei

cittadini degli Stati dall’altra, e siano portate ad armonizzarsi. Alle

ragioni egualitarie dei cittadini del mondo, che insistono su uguali

diritti e uguale distribuzione, si contrappongono già oggi le ragioni

comparativamente conservatrici di cittadini degli Stati che ribadiscono

la conservazione delle loro libertà già realizzate dagli Stati. […] La

concorrenza di queste due prospettive trae la sua giustificazione da

uno storico dislivello nello sviluppo, che la politica interna mondiale

non può semplicemente ignorare, anche se deve impegnarsi al suo

superamento.77

La Corte internazionale dell’Aia, sprovvista ora di qualsivoglia autorità

vincolante, dovrebbe inserirsi nel quadro di una giurisdizione penale

internazionale istituzionalizzata in forme permanenti78.

Infine, il Consiglio di Sicurezza potrebbe continuare ad esprimere gli

effettivi rapporti di forza esistenti nel mondo. Pur tuttavia sostituendo il

dispositivo decisionale unanime con un voto privilegiato alle grandi potenze

mondiali e ai regimi regionali (come l’Ue). Insomma «bisognerebbe che il

Consiglio di sicurezza dell’Onu diventasse un efficace potere esecutivo sul

modello del Consiglio dei ministri di Bruxelles»79. Inoltre, se le risoluzioni Onu

debbono essere adottate nella forma di interventi legali, anche il diritto

internazionale umanitario deve essere ulteriormente sviluppato in un diritto di

polizia commisurato alle necessità militari, tipico di uno stato di diritto»80.

Tuttavia, in quanto l’organizzazione mondiale non ha carattere statale, i

detentori del monopolio del potere statale devono sottomettersi alle risoluzioni

del consiglio di sicurezza, in ossequio allo spostamento nel rapporto tra potere

sanzionatorio dello Stato e diritto81.

77 J. Habermas, Questa Europa è in crisi, cit., p. 88.78 J. Habermas, L’idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo; in L'inclusione dell'altro, cit., p.

200.79 Ibidem.80 J. Habermas, Questa Europa è in crisi, cit., p. 89.81 Ibidem.

27

SECONDA PARTE

Sfera pubblica e

Costituzione europea

È ovviamente una casualità che il 1992 sia l’anno della prima edizione di

Faktizität und Geltung e al contempo sia l’anno della firma del Trattato di

Maastricht. Non è invece un caso che i contenuti di quel testo fondamentale per

il pensiero del filosofo tedesco siano particolarmente congeniali all’estensione

oltre i confini nazionali delle procedure democratiche.

Il proceduralismo habermasiano, infatti, con la sua neutralità incolore, sfida

lo stato-nazione, lo prepara alla propria dissoluzione. In un certo qual modo,

può leggersi il paradigma proceduralista come un modello di democrazia che

supera non solo i paradigmi precedenti (liberalismo, repubblicanesimo) ma

anche quel contesto in cui detti paradigmi hanno potuto proliferare. Il

superamento dunque è doppio: per un verso, modelli democratici obsoleti, per

l’altro verso, quei presupposti entro cui tali modelli si sono sempre accomodati.

Senonché oggi siffatti contesti nazionali si sbriciolano da sé sotto il peso di

un’interdipendenza sempre più invasiva. Poco conta per Habermas: la soluzione

è già pronta. Un paradigma che non stona – anzi nasce – entro i confini

nazionali, ma che certo ha ambizioni le quali esorbitano gli angusti spazi

“vestfaliani”. Vale a dire che il grande pregio dell’intuizione di Fatti e norme, la

convinzione che la giustezza di un ordinamento giuridico risieda nelle procedure

istituzionalizzate di una comunicazione libera ed equa, sembra attagliarsi

particolarmente bene ad una società globale, multiculturale, interdipendente,

29

interconnessa. In cui i sistemi funzionali assumono dimensioni mondiali, le

culture si incontrano (e si scontrano) con sempre maggiore facilità, mentre i

processi comunicativi travalicano liberamente le frontiere nazionali

vagabondando per i continenti.

Non è un caso che Fatti e norme si chiuda proprio con un accenno alla

«dissoluzione tendenziale della sovranità degli Stati nazionali che, nell’orizzonte

di una nascente sfera pubblica planetaria, potrebbe segnare l’inizio di un nuovo

ordinamento mondiale di tipo universalistico»1. Ordinamento mondiale nel

quale il continente europeo – lo si è già accennato – ha al contempo uno statuto

subordinato ed eminente. Subordinato in quanto parte dell’assetto globale,

eminente in quanto modello possibile di redistribuzione della sovranità oltre lo

stato-nazione.

Le odierne istituzioni europee pongono le proprie radici negli anni

Cinquanta. Prima con la CECA, poi con la CEE e l’Euratom (CEEA), si diede avvio

alla stagione di un potere parzialmente indipendente dagli stati nazionali

europei, il quale avrebbe sollevato l’ostica questione riguardo la natura, la

definizione e la struttura di dette istituzioni. Ancora oggi, «è più facile dire che

cosa l'Ue non sia che non ciò che effettivamente è»2. Ma non solo, definire

l’Unione Europea significa anche porre i fondamenti per capire in che direzione

essa dovrebbe muoversi. Che cosa, in sostanza, dovrebbe essere per non

incorrere in incoerenze e contraddizioni con se stessa, con la propria essenza ed

i propri obbiettivi. Schiere di giuristi, politologi e filosofi si sono, nell’ultimo

mezzo secolo, imbattuti nel rompicapo europeo. Un complesso istituzionale e

(chissà) culturale che non è una federazione, non è indubbiamente uno stato,

ma non è nemmeno più una semplice confederazione interstatale.

Forse non è un caso neanche il fatto che il mito che dà il nome al nostro

continente termini con una ricerca mai conclusa. I fratelli di Europa, la

principessa fenicia rapita e fecondata da Zeus, ancora inseguono la propria

1 J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 498.2 L. Bonanate, L’interesse nazionale dell’Unione Europea: il problema politologico della politica

estera europea, in «Teoria politica» XVIII, n. 3, 2002, p. 118.

30

sorella. Frattanto fondando nuove città ed esplorando gli orizzonti di un Vecchio

Continente ancora nuovo, desideroso di essere ancora una volta “scoperto”.

Trascorsi i tempi del mito e millenni di storia, la “ricerca d'Europa” è stata

ripresa. Ma sembra di nuovo rivelarsi un'impresa vana. In realtà, l'unico

modo di “trovare” Europa è quello di costruirla, di farla nascere, di darle

un’esistenza concreta, unendo le molte città fondate dai fratelli d'Europa in

un’unica civitas civitatum.3

Verso Maastricht

La strada verso il Trattato di Maastricht, il trattato che più di tutti proclama

l’intenzione di approfondire il processo di integrazione europea, è una strada

tortuosa che prende le mosse dai primissimi anni ‘80. Fu una sentenza della

Corte di Giustizia europea del 1979 a compiere il primo passo formale sulla via

di una riforma dei Trattati di Roma del 1957. Tale sentenza statuì il principio

secondo cui ogni prodotto legalmente fabbricato e commercializzato in uno

Stato membro doveva essere ammesso nel mercato di tutti gli altri Stati,

cosicché qualsiasi disposizione intesa a impedire l’importazione di prodotti di

altri paesi era da considerarsi illegale. In altre parole, dovevano essere aperte le

frontiere di tutti i prodotti provenienti da paesi nei quali gli stessi circolavano

liberamente4. Ciò diede avvio a un imponente proliferazione di commissioni e

progetti di riforma culminanti prima nell’Atto unico europeo del 1986, e infine

nel suddetto Trattato sull’Unione Europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio

1992.

L’AUE è decisivo per alcune importanti innovazioni in ambito procedurale,

che ne fanno la pietra angolare delle successive riforme. Fu infatti istituita la

cosiddetta “procedura di cooperazione”5 tra Parlamento e Consiglio, la quale

prevedeva un sistema di doppia lettura di una proposta della Commissione da

3 M. Bovero, Quale Europa? Quali radici?, in «Teoria politica» XXV, n. 3, 2009, p. 65.4 B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda alla Costituzione

dell’Unione, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 125.5 Un’antenata della “procedura di codecisione”, divenuta la procedura legislativa ordinaria dell’Unione

Europea con il Trattato di Lisbona, di cui si tratterà più avanti.

31

parte del Parlamento e del Consiglio, così da rafforzare la posizione del primo

nel dialogo istituzionale. Tuttavia, il campo di applicazione di questa procedura

rimase piuttosto limitato. Ma l’Atto unico, pensato come primo tassello di una

riorganizzazione delle strutture comunitarie finalizzata al compimento del

mercato interno, prevedeva altresì un aumento del numero di casi in cui il

Consiglio poteva decidere a maggioranza qualificata invece che all'unanimità6.

Ciò al fine di snellire le procedure di deliberazione, evitando le situazioni di

blocco che si verificavano quando si cercava un accordo unanime degli allora 12

Stati membri7. Fu con questa modifica che si aprì quella forbice tra competenze

decisionali (già ampliate nell’AUE) e procedure legittimanti divenuta famosa

sotto la formula di “deficit democratico”. Era infatti grazie alla rigida

limitazione dell’unanimità in seno al Consiglio dei Ministri (depositario del

potere legislativo) che poteva venir garantita la piena legittimità democratica

delle decisioni.

Infatti, giacché l’unica effettiva legittimazione, a causa dell’allora scarso peso

del Parlamento Europeo, derivava dalla partecipazione politica interna agli

stati membri, la non liceità dello scavalcamento dei loro rappresentanti

tramite il voto a maggioranza negli organi sovranazionali tutelava l’integrità

della sovranità delle cittadinanze nazionali, conservando così la catena di

legittimità che andava dai cittadini degli stati nazionali agli organi

comunitari.8

Habermas rilevò immediatamente tale disallineamento e, sebbene da una

prospettiva di più ampio respiro, ne denunciò i rischi: «Laddove, con strumenti

giuridico-amministrativi, si formerà presto in Europa un ampio mercato

interno, regolato sul piano sopranazionale, continua a restare alquanto

improbabile che, dall’ottica delle sfere politiche degli stati membri, si possa

prestare attenzione a un parlamento europeo dalle deboli competenze. Finora i

6 «Prima dell’Atto unico, poco meno di un terzo delle decisioni previste potevano essere adottate amaggioranza. Questo rapporto saliva a quasi tre quarti dopo l’Atto unico». Cfr. B. Olivi, R.Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda alla Costituzione dell’Unione, cit.,p. 148.

7 Cfr. http://europa.eu/legislation_summaries/institutional_affairs/treaties/treaties_singleact_it.htm8 S. Dellavalle, La legittimazione del potere pubblico europeo, in «Teoria politica» XIX, n. 1, 2003, p.

51.

32

diritti di cittadinanza intrinsecamente politici non oltrepassano l’ambito dello

stato nazionale»9. Ora, “diritti politici” significa “democrazia”. Per Habermas,

infatti, delle tre categorie di diritti descritte da Marshall, solo i diritti politici

sono in grado di fondare la posizione giuridica riflessiva del cittadino, cioè

quella posizione che è capace di avere effetti retroattivi su se stessa10. Stato di

diritto e stato sociale – rispettivamente legati ai diritti negativi di libertà e ai

diritti sociali di benessere – sono possibili, in linea di principio, anche senza

democrazia, e le categorie di diritti ad essi correlate possono essere concesse

paternalisticamente11. Così non è per i diritti di partecipazione politica, i quali

fondano la cittadinanza politica attiva, ossia l’esercizio pubblico

dell’autonomia12: la coincidenza – per usare le parole di Habermas – tra l’essere

coinvolto e l’essere partecipe13.

Dunque, i diritti di partecipazione politica ottenuti dai cittadini a livello degli

stati nazionali debbono essere estesi anche alla dimensione continentale, nella

misura in cui i processi che necessitano di essere disciplinati scavalcano le

frontiere nazionali. In particolare, il progetto di realizzare un mercato unico

europeo si prestava alla previsione di un incremento del fabbisogno di

coordinamento che, oltre all’ambito economico, avrebbe coinvolto altri settori

adiacenti come la politica ambientale, tributaria e sociale, scolastica, e via

9 J. Habermas, Staatsbürgerschaft und nationale Identität. Überlegungen zur europäischen Zukunft, Erker Verlag, St. Gallen, 1991; trad. it. L. Ceppa, Cittadinanza politica e identità nazionale. Riflessioni sul futuro dell’Europa, in J. Habermas, L. Ceppa (a cura di), Morale, diritto, politica, Einaudi, Torino, 2007, p. 119.

10 Ivi, p. 122.11 Ibidem.12 Solo infatti mediante i «diritti fondamentali a pari opportunità di partecipazione ai processi formativi

dell’opinione e della volontà» i cittadini possono esercitare la loro autonomia politica e produconodiritto legittimo. Con questa categoria di diritti si dà così applicazione riflessiva ai diritti chegarantiscono l’autonomia privata. Questi concepiscono i soggetti come meri destinatari delle leggi,mentre quelli come autori. «I diritti politici fondano lo status dei cittadini liberi ed eguali. Questostatus è autoreferenziale, in quanto consente loro di modificare la propria posizione giuridica materialeal fine di dare interpretazione e sviluppo all’autonomia privata e pubblica». Cfr. J. Habermas, Fatti enorme, cit., pp. 141-142.

13 Habermas, Cittadinanza politica e identità nazionale. Riflessioni sul futuro dell’Europa, in Morale,diritto, politica, cit., p. 120. «La genesi logica dei diritti teorizzata da Habermas equivale così alla illustrazione del nesso internoricollegante i “diritti di libertà” […] alla “sovranità popolare” […]. Il sistema dei diritti poggia sullaequiparazione, o cooriginarietà, di autonomia privata e autonomia pubblica. Ognuna delle dueautonomie rende possibile l’altra, la presuppone e le dà sviluppo». Cfr. L. Ceppa, Dispensehabermasiane. Sommari da “Fatti e norme”, cit., p. 52.

33

discorrendo14. Il problema di fondo è quello di scorgere una piattaforma

culturale sulla quale poter edificare una estensione dei processi democratici

oltre le obsolete frontiere nazionali.

Prima di tutto, perciò, è opportuno chiarire quale rapporto intrattengano tra

loro cittadinanza politica e identità nazionale. Non è un mistero, infatti, che i

detrattori di un’unione politica europea oppongano la tesi secondo la quale il

Vecchio Continente sarebbe inadatto ad un integrazione siffatta a causa della

sua eterogeneità culturale, sulla quale sarebbe impossibile istituire un

ordinamento giuridico stabile. L’argomento è arcinoto, e la sua inesauribile

efficacia propagandistica costringerà Habermas ad affrontarlo ripetutamente da

molteplici prospettive.

Richard Münch15, per citare un esempio, afferma perentoriamente che le

differenze culturali interne all’Europa impediscono il formarsi di un’identità nel

senso forte del termine. Senza la quale, a detta del sociologo, nessuna struttura

istituzionale può assicurarsi quel minimo di omogeneità sociale indispensabile

per garantire sicurezza e benessere collettivi16. Da questo punto di vista, l’unica

soluzione realistica al rompicapo europeo è l’ipotesi confederativa di un

Nationalitätenstaat, ossia uno “stato delle nazionalità” in cui «la responsabilità

delle decisioni risiederebbe pertanto ancora sempre presso i governi nazionali e

la legittimità delle stesse verrebbe sancita dalle diverse assemblee

parlamentari»17. È la tesi per la quale solidarietà sociale e discorso democratico

sono possibili solo all’interno di un contesto nazionale, di un demos compatto e

tetragono. Una tale concezione rivela però una nozione di identità collettiva

sostanzialmente monolitica, la cui funzione ultima consiste nella distinzione

dell’omologo dall’estraneo. Una concezione che si concentra sulle differenze

esclusivamente per quanto riguarda i rapporti esterni tra i popoli, sorvolando

invece sulla loro costituzione interna, per la quale viene postulata

un’omogeneità normativamente discutibile, quanto descrittivamente

14 Habermas, Cittadinanza politica e identità nazionale. Riflessioni sul futuro dell’Europa, in Morale, diritto, politica, cit., p. 120.

15 Cfr. R. Münch, Das Project Europa. Zwischen Nationalstaat, regionaler Autonomie und Weltgesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt/M, 1993.

16 S. Dellavalle, Chi ha paura dell’Unione europea?, in «Teoria politica» XIV, n. 1, 1998, p. 15.17 Ibidem.

34

improbabile18.

Ed è proprio sulla denuncia del malinteso rapporto tra democrazia e

nazione che Habermas innesta la sua replica. Mentre è innegabile che «Stato

nazionale e democrazia nacquero come fratelli gemelli dalla Rivoluzione

francese»,19 non è altrettanto incontestabile che il loro connubio sia

indispensabile per la prassi democratica. Innanzitutto il concetto stesso di

nazione presenta per Habermas un carattere di artificialità.

Questa coscienza nazionale è fenomeno specificamente moderno

dell’integrazione culturale. La coscienza politica di una comune

appartenenza nazionale scaturisce a posteriori, da una dinamica che la

popolazione diventa capace di comprendere soltanto dopo che i processi di

modernizzazione economica e sociale l’hanno definitivamente strappata alle

sue consociazioni corporative, rendendola fluida e atomizzata allo stesso

tempo. Il nazionalismo, in altri termini, è una forma di coscienza che

presuppone un’appropriazione delle tradizioni culturali già filtrata dalla

riflessione storiografica. Nello stesso tempo esso si diffonde attraverso i

canali della moderna comunicazione di massa. Entrambe le caratteristiche

conferiscono al nazionalismo un aspetto artificiale; e proprio questo suo

essere ‘costruito’ lo rende naturalmente soggetto ad abusi manipolativi da

parte delle élites politiche.20

Il nazionalismo fu cioè funzionale alla fondazione di un’identità collettiva

adatta al nuovo concetto di cittadinanza repubblicana sbocciato dalla

Rivoluzione francese21. Un ruolo che richiedeva alti livelli d’impegno personale,

sino al sacrificio della propria vita in onore della patria, in un momento storico

in cui, inoltre, gli antichi vincoli di solidarietà venivano spazzati via dal processo

di secolarizzazione. Legittimità delle nuove istituzioni e integrazione sociale

vennero dunque garantiti proprio dal sorgere della coscienza nazionale, la quale

permise, e anzi promosse, una mobilitazione politica dei cittadini.

18 Ivi, p. 17.19 J. Habermas, Cittadinanza politica e identità nazionale. Riflessioni sul futuro dell’Europa, in Morale,

diritto, politica, cit., p. 108.20 Ibidem.21 Ivi, p. 110.

35

Il sorgere della coscienza nazionale rendeva possibile annodare una forma

più astratta d’integrazione sociale a rinnovate strutture decisionali di tipo

politico. Il lento imporsi della partecipazione democratica creava – con lo

status della cittadinanza politica – un nuovo livello di solidarietà

giuridicamente mediata; nello stesso tempo si apriva allo stato una fonte

secolarizzata di legittimazione.22

Nazionalismo e repubblicanesimo stanno cioè sin dall’inizio in un rapporto

di complementarietà, laddove il primo divenne il veicolo che consentì la nascita

del secondo23. Ed è da questo legame estrinseco e strumentale che, secondo

Habermas, trae alimento la convinzione (errata) che tra i due concetti vi sia un

nesso concettuale. Di nuovo, è la nozione di autonomia che permette di fare

luce sulla questione. Da essa sola può derivare il concetto moderno di

cittadinanza politica inteso, alla maniera di Rousseau e Kant, come auto-

determinazione, strumentalizzazione del potere ai fini di un’autolegislazione in

cui destinatari e autori delle norme siano i medesimi soggetti. Nel “contratto

sociale” il potere perde il carattere di una forza naturale, s’istituisce un potere

nuovo, artificiale e funzionale alla volontà di coloro che lo hanno costituito24.

Mentre invece «le nazioni sono anzitutto delle comunità di origine etnica: esse

sono integrate geograficamente per insediamento e vicinanza, culturalmente per

identità di lingua, costumi e tradizioni, ma non ancora politicamente, ossia nel

quadro di una forma organizzativa di tipo statuale»25. Insomma, la formazione

storica degli stati da un lato, e delle nazioni dall’altro, risalgono a due processi

diversi e per nulla paralleli, i quali però, ad un certo punto ed in circostanze

storiche favorevoli, hanno finito per convergere in quel modello sociale che

chiamiamo “stato nazionale”.

Così, appurata la contingenza che lega tra loro i concetti di cittadinanza

22 J. Habermas, trad. it. L. Ceppa, Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza; in J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen Theorie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1996; trad. it. L. Ceppa, L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 125.

23 J. Habermas, Cittadinanza politica e identità nazionale. Riflessioni sul futuro dell’Europa, in Morale, diritto, politica, cit., p. 110.

24 Ivi, p. 111.25 J. Habermas, Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza; in

L'inclusione dell'altro, cit., p. 123.

36

politica e identità nazionale, è possibile per Habermas agganciare la sovranità

popolare non a un sostrato culturale tout court, ma alle «procedure

giuridicamente istituzionalizzate» e ai «processi informali […] di una più o

meno discorsiva formazione dell’opinione e della volontà»26. In altri termini, la

legittimità delle istituzioni viene ancorata alle procedure della democrazia e

all’«infrastruttura di una ‘sfera pubblica’ politica che informalmente attinge a

fonti spontanee», che cioè si nutre di quella circolazione informale di

comunicazione pubblica tenuta in piedi da una cultura politica di tipo liberale

ed egualitario27. Il filosofo tedesco, dunque, differenzia esplicitamente la

dimensione politica dell’identità collettiva da quella sociale. La cultura politica

condivisa diventa come una specie di rete che si estende su tutte le identità non

politiche comprese in un determinato territorio, permettendone la convivenza

civile28. Egli può così pronosticare come «in futuro, a partire dalle diverse

culture nazionali potrebbe svilupparsi per differenziazione una comune cultura

politica»29, sulla quale potrebbe innestarsi un patriottismo costituzionale

europeo – ossia una riconversione su una base più astratta della solidarietà

reciproca dei cittadini30.

Dopo essersi dilatata a cultura nazionale, la cultura di maggioranza deve ora

“sganciarsi” da questa sua (storicamente motivata) fusione con la cultura

politica generale, dal momento che dev’essere in egual misura consentito a

tutti i cittadini di identificarsi con la cultura politica del paese.31

Già nel 1991 Habermas poneva così le basi teoriche per una struttura

sovranazionale europea. Da queste sue riflessioni traspare una notevole fiducia

nell’aspirazione “spinelliana” verso un’Europa compiutamente federale. Nel

tempo la posizione del filosofo tedesco muterà, traendo insegnamento dagli

26 J. Habermas, Cittadinanza politica e identità nazionale. Riflessioni sul futuro dell’Europa, in Morale, diritto, politica, cit., p. 123.

27 Ivi, p. 124.28 S. Dellavalle, Chi ha paura dell’Unione europea?, cit., p. 23.29 J. Habermas, Cittadinanza politica e identità nazionale. Riflessioni sul futuro dell’Europa, in «Morale,

diritto, politica», cit., p. 126.30 J. Habermas, La costellazione postnazionale e il futuro della democrazia; in La costellazione

postnazionale, cit., p. 50.31 Ibidem.

37

sviluppi storici che l’integrazione europea di fatto gli porrà innanzi. Specie dopo

la débâcle del progetto costituzionale, la sua dottrina si arricchirà di un pacato

realismo, il quale però non distoglierà mai lo sguardo dall’ideale di un progresso

politico e sociale travalicante le frontiere nazionali.

Il Trattato sull’Unione europea

Il 9 dicembre 1991 si apriva a Maastricht, un modesto capoluogo olandese

sulle rive del fiume Mosa, il Consiglio europeo che avrebbe dato alla luce il

nuovo trattato. Grazie al Cancelliere Kohl e al Presidente Mitterrand fu

introdotto nel progetto di trattato un accenno ad un «processo graduale che

avrebbe condotto a una Unione a vocazione federale». Nel corso del Consiglio, a

causa dell’opposizione di britannici, danesi e tedeschi, l’espressione «a

vocazione federale» fu la prima a cadere.

Sin dagli anni ‘50, per i cosiddetti “funzionalisti” l’obiettivo dell’unità

europea poteva essere raggiunto mediante integrazioni settoriali frutto di

parziali e successive cessioni di sovranità a nuove istituzioni indipendenti dagli

stati32. Al contrario, le correnti federaliste perseguivano il progetto di una

frantumazione degli Stati nazionali, premessa per una rivoluzione radicale della

struttura del potere che riuscisse a federare gli europei sotto un’unica

bandiera33. Nonostante gli sforzi dei federalisti, la prospettiva funzionalistica e

gradualistica prevalse. La stessa precedenza che acquisirono la costruzione del

mercato unico e l’introduzione dell’Euro certifica questa inclinazione. Si

procedette ad un’integrazione sistemica, prima ancora che politica. Secondo

alcuni, in modo non del tutto avventato.

Quando fu introdotto [l’Euro] molti economisti saccenti ci misero in guardia,

sostenendo che introdurre la moneta unica senza aver prima creato

32 B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda alla Costituzione dell’Unione, cit., p. 16.

33 L’ipotesi confederalista si dissolse invece dopo l’approvazione dell’Atto unico. Questa forma dicooperazione non esclude la creazione di organismi interstatali, ma questi restano sottoposti allavolontà dei membri, senza il cui accordo unanime è impossibile l’espressione della volontà collettiva.Cfr. Ivi, p. 15.

38

un’unione politica sarebbe stato come mettere il carro davanti ai buoi. Non

volevano o non riuscivano a capire che si voleva fare proprio quello! Proprio

l’Euro, insieme ai problemi politici che avrebbe prevedibilmente comportato,

avrebbe costretto con la potenza dell’interesse materiale i singoli governi e i

singoli paesi, irretiti nei loro egoismi nazionali, a realizzare l’unione

politica.34

Secondo altri – vedi Habermas – «il motivo delle aspettative economiche

non basta, di per sé, a mobilitare nella popolazione il necessario sostegno

politico al rischioso progetto di un’Unione che meriti questo nome. A questo

scopo sono necessari orientamenti comuni sui valori»35. Infatti oggi i problemi

da risolvere, dopo la creazione del mercato e della moneta unica, sono di natura

genuinamente politica e non vengono più regolati unicamente in virtù degli

imperativi funzionali36.

Ciononostante, il Trattato di Maastricht, sul solco dell’Atto unico, introdusse

alcune importanti innovazioni istituzionali. Innanzitutto, per alcune particolari

e circoscritte competenze, venne istituita la “procedura di codecisione”, la quale

consentì al Parlamento di adottare atti insieme al Consiglio, e dunque di

sollevarsi da quel ruolo meramente consultivo cui era relegato. Fu inoltre

enunciato ufficialmente il principio di sussidiarietà – già presente nel

Grundgesetz della Repubblica Federale di Germania – secondo il quale, nei

settori che non sono di sua esclusiva competenza, la Comunità può intervenire

solo qualora gli obbiettivi possano essere realizzati meglio a livello comunitario

che a livello nazionale37.

Malgrado tali innovazioni mirassero a rafforzare la legittimità democratica

34 U. Beck, La crisi dell’Europa, Il Mulino, Bologna, 2012.35 J. Habermas, Perché l’Europa ha bisogno di una Costituzione?, in J. Habermas, Zeit der Übergänge.

Kleine Politische Schriften IX, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2001; trad. it. Leonardo Ceppa, Tempo di passaggi, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 60.

36 J. Habermas, La creazione di un’identità europea è necessaria o possibile?, in L’Occidente diviso, cit., p. 55.

37 «La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obbiettivi che le sonoassegnati nel presente Trattato. Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza, la Comunitàinterviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettividell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possonodunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio alivello comunitario. L’azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per ilraggiungimento degli obbiettivi del presente Trattato». Cfr. Trattato sull’Unione europea, art. 3B.

39

delle istituzioni, esse non riuscirono comunque a colmare quel deficit che rende

tuttora l’Unione un’entità insatura, incompiuta, tesa fra la statualità e la

sovranazionalità. Negli anni ‘90 Habermas è ancora un federalista ortodosso

che, come tutti i suoi pari, deve confrontarsi con coloro che denunciano i «rischi

connessi a un’ulteriore erosione delle competenze nazionali per effetto del

diritto comunitario». Secondo gli scettici, infatti, «lungi dal compensare il

lamentato deficit democratico, ogni approccio meramente statalistico non

farebbe altro che allargare il problema»38. È di questa stagione immediatamente

successiva alla firma del Trattato sull’Unione europea, infatti, la disputa tra

Habermas ed il più eloquente tra gli scettici: Dieter Grimm.

Un’Europa che guardasse ad un futuro a tinte statalistiche non potrebbe

evidentemente prescindere dal darsi una Costituzione, una legge fondamentale

che fondi lo stato federale europeo e colmi i vuoti di legittimazione della

burocrazia di Bruxelles. Sicché, la questione fondamentale attorno alla quale i

due intellettuali si confrontano, si presenta come segue:

è plausibile, nonché utile e desiderabile, che la promulgazione di una

Costituzione europea, sul modello di quelle delle democrazie continentali,

favorisca la formazione – o il consolidamento, o la maggiore consapevolezza

– di una “sfera pubblica” […] che possa dare nuovo slancio e vigore al

progetto originario di un’Europa federata (superando il deficit democratico,

proponendo una politica estera comune, affrontando politicamente la sfida

della globalizzazione)? Oppure è vero il contrario, e cioè che una costituzione

“adesso” sarebbe una fuga in avanti, un pericoloso passo falso foriero più di

disgregazione che di miglior integrazione, per cui è assai più plausibile che

solo lavorando, in tempi inevitabilmente più lunghi, alla definizione di un

demos europeo, e previamente di un comune contesto di discussione per ora

inesistente o molto fragile, si creino le condizioni per pensare in maniera

realistica ad una Costituzione europea?39

La risposta del giurista tedesco è lucida e risoluta. Muovendo dall’assunto

38 J. Habermas, Remarks on Dieter Grimm’s ‘Does Europe Need a Constitution?’, in «European Law Journal», n. 1, 1995, pp. 303-307; trad. it. L. Ceppa, Una costituzione per l’Europa? Commento a Dieter Grimm, in L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, cit., p. 168.

39 E. Vitale, Siamo pronti per una costituzione europea?, in «Teoria politica» XVII, n. 1, 2001, p. 36.

40

per cui «una costituzione nel senso pieno del termine deve necessariamente

risalire a un atto del popolo o quantomeno attribuito al popolo, mediante cui

questo può autoconferirsi la capacità di agire politicamente»40, e negando che

una tale circostanza sia riferibile ai trattati europei41, egli si chiede se il modello

statale-costituzionale possa avere l’effetto sperato di una saturazione del vuoto

di legittimità delle istituzioni europee. La risposta è drasticamente negativa: per

Grimm mancano le condizioni di fatto necessarie all’istituzione di una compiuta

democrazia europea. In particolare, il costituzionalista tedesco denuncia

l’assenza di quelle «strutture intermedie interne alla società che, pur riferendosi

alle istituzioni statali, non possono essere da queste né garantite né

rimpiazzate» – ossia partiti, associazioni, movimenti civili, mezzi di

comunicazione – che permettono il formarsi di un’«opinione pubblica

indispensabile per la formazione di un’opinione generale e per la partecipazione

democratica»42. In altri termini, quelle strutture capaci di assicurare

l’interazione costante fra popolo e Stato43. Particolare enfasi viene posta

sull’inesistenza di un vero sistema di comunicazione europeo, ossia un contesto

comunicativo sovranazionale, da non confondere con la presenza di temi

europei all’interno delle arene nazionali – le quali rimangono agganciate a punti

di vista, interessi e contesti comunicativi strettamente nazionali, anche a causa

della babele linguistica che limita la partecipazione dei cittadini44. Ma non solo:

l’Europa difetta anche di un’identità, intesa quale presupposto per una società

che si costituisce in unità politica. Sarebbe perciò assente quel legame

necessario a fondare un senso di appartenenza sufficientemente idoneo a

sostenere le decisioni della maggioranza e le prestazioni di solidarietà, e a

comunicare discorsivamente scopi e problemi. Grimm non può che concluderne

che, «in queste circostanze, la trasformazione dell’Unione europea in uno Stato

40 D. Grimm, Does Europe Need a Constitution?, in «European Law Journal», n. 1, 1995, pp. 303-307; trad. it. F. Fiore, Una costituzione per l’Europa?, in G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther, a cura di,Il futuro della costituzione, Einaudi, Torino, 1996, p. 353.

41 «I trattati non sono affatto una costituzione nel senso pieno del termine. La differenza sta nellariconduzione alla volontà degli stati membri anziché al popolo dell’Unione». Cfr. Ibidem.

42 Ivi, p. 357.43 Ivi, p. 358.44 Ivi, p. 360-361.

41

federale non è auspicabile come obiettivo a breve termine», in quanto

«attualmente una tale unione non potrebbe soddisfare alle precondizioni di una

democrazia»45.

La risposta di Habermas si realizza in due movimenti argomentativi. Il

filosofo condivide la diagnosi di Grimm per ciò che riguarda il i rischi di

disgregazione sociale derivanti dall’insufficienza dei presupposti necessari ad

una efficiente e legittima struttura istituzionale europea.

Nella misura in cui sono ancora carenti la rete di una società civile a livello

europeo, una sfera pubblica estesa all’intera Europa e una cultura politica

condivisa, i processi decisionali presi a livello sovranazionale non farebbero

altro che “automatizzarsi” ulteriormente nei confronti dei singoli processi

nazionali di formazione dell’opinione e della volontà.46

Ma pone un altra questione: «E tuttavia, qual è l’alternativa?»47. Se l’ipotesi

di Grimm sembra suggerire un cauto conservatorismo, pavido dinanzi alla

possibilità di accrescere il livello del deficit democratico, la strada suggerita da

Habermas appare più audace. Il filosofo tedesco ammonisce chi opta per una

remissiva accettazione del male minore. Giacché, oltre ad accennare al fatto che

il deficit democratico si approfondisce di giorno in giorno, Habermas mostra

come si apra una forbice di tutt’altro genere: quella tra «i ristretti margini di

azione degli stati nazionali, da un lato, e gli imperativi globali della rete

planetaria, dall’altro»48. La distinzione tra sovranità esterna e sovranità interna

appare sempre più un anacronismo, di fronte ai sovvertimenti indotti dai vincoli

e dagli imperativi del mercato mondiale e di fronte all’intensificazione

planetaria della comunicazione e del traffico49. Grimm dimentica che la

45 Ivi, p. 364.46 J. Habermas, Una costituzione per l’Europa? Commento a Dieter Grimm, in L'inclusione dell'altro.

Studi di teoria politica, cit., p. 168.47 Ibidem.48 Ivi, p. 169.49 «A me sembra che il pericolo maggiore provenga da quella automatizzazione di reti e di mercati

globali che accresce la frammentazione della coscienza pubblica. Se a questi intrecci sistemici non sicontrapporranno istituzioni politiche veramente efficaci, allora noi vedremo risorgere, dal cuore di unamodernità economica estremamente mobile, il paralizzante fatalismo politico-sociale che già fececrollare i vecchi imperi. Gli elementi essenziali dello scenario futuro sarebbero allora la miseriapostindustriale di una popolazione “eccedente” direttamente prodotta dalla società opulenta – un Terzo

42

sovranità degli Stati nazionali è già messa a repentaglio dalla globalizzazione, e

che gli organismi di Bruxelles non sono solo un’esibizione di virtuosismo

istituzionale, ma rispondono all’esigenza di riconquista della sovranità

invischiata nelle reti globali. Ciò è possibile soltanto ampliando la base

territoriale dei processi di deliberazione politica.

Vi sono, certo, dei requisiti funzionali necessari alla formazione di una

volontà democratica. Essi sono identificabili nei circuiti comunicativi di una

“sfera pubblica” politica sviluppatisi in passato mediante l’associazionismo

borghese e la stampa di massa. Il corretto funzionamento di una società

postnazionale europea dipende cioè

dalla rete comunicativa di una sfera pubblica politica estesa all’intera

Europa. Questa sfera pubblica deve inserirsi in una cultura politica comune;

deve essere sostenuta da una società civile che sia dotata di gruppi

d’interesse, organizzazioni non governative, iniziative e movimenti civici; e

infine deve venire occupata da arene in cui i partiti politici possano

immediatamente riferirsi alle decisioni di istituzioni comunitarie europee e

svilupparsi – attraverso e oltre i gruppi parlamentari – in un vero e proprio

sistema partitico europeo.50

Ma ciò non significa che gli europei debbano fatalisticamente limitarsi ad

aspettare che una sfera pubblica continentale si autoproduca. Proprio a questo

occorrerebbe – per ritornare alla domanda da cui siamo partiti – una

costituzione europea. È lecito pensare infatti che nuove istituzioni da essa

create potrebbero ottenere quell’effetto inducente utile a favorire lo sviluppo di

un contesto comunicativo già costituzionalmente avviato51. Evidentemente, si

mosse in questa direzione l’articolo 8 del Trattato di Maastricht che introdusse

mondo che rinasce dentro al Primo – insieme alla conseguente erosione morale della comunità.Questo presente prossimo venturo andrebbe anche visto, retrospettivamente, come il futuro di unaillusione tramontata: ossia quell’illusione democratica per cui le società si credettero un tempo capaci– in base a volontà e coscienza politica – di modificare la propria storia». Cfr. J. Habermas, Unacostituzione per l’Europa? Commento a Dieter Grimm, in L'inclusione dell'altro. Studi di teoriapolitica, cit., p. 170.

50 J. Habermas, Inclusione: coinvolgere o assimilare? Sul rapporto di nazione, stato di diritto e democrazia, in L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, cit., p. 166.

51 J. Habermas, Una costituzione per l’Europa? Commento a Dieter Grimm, in L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, cit., p. 173.

43

la cittadinanza europea52. Esso poggiò le fondamenta giuridiche che avrebbero

permesso la realizzazione di una sfera pubblica europea, ossia quel presupposto

che fondò normativamente il riconoscimento dell’altro europeo come

concittadino e non più come straniero.

Ma, in verità, Habermas nutre dubbi – ed è il secondo movimento

argomentativo – anche in merito alla fondazione normativa, esposta dal

costituzionalista, dei prerequisiti funzionali a una formazione democratica della

volontà. Per il filosofo l’identità collettiva dei cittadini «non è mai indipendente

dal processo democratico, né può esistere “prima” di questo stesso processo».

Infatti, «ciò che lega insieme una “nazione di cittadini” – a differenza di una

“nazione di popolo” – non è una qualche forma di sostrato primordiale, bensì

semplicemente il contesto intersoggettivamente condiviso di un’intesa

possibile»53. In altre parole, la cittadinanza democratica fonda la coesione

sociale su di una solidarietà tra estranei mediata giuridicamente e astratta. È

proprio la modalità d’integrazione propria della democrazia – l’intesa

comunicativa – a stabilire un nuovo fondamento per l’identità di una società, la

quale deve potersi garantire dalla disgregazione di una collettività sempre più

soggetta a differenziazione, multiculturale e proteiforme. «Se entro una stessa

collettività democratica devono poter convivere (e collaborare) differenti forme-

di-vita culturali, religiose ed etniche, allora la cultura di maggioranza deve

sapersi staccare dalla sua tradizionale e storica fusione con una cultura politica

da tutti condivisa». In definitiva, per Habermas «l’identità europea non può

comunque significare nient’altro che una unità nella pluralità delle nazioni»54.

L’Europa verso il nuovo millennio

Il 2 ottobre 1997 venne firmato, ad Amsterdam, un nuovo trattato. Oltre ad

aver rafforzato la procedura di codecisione, estendendola alla grande

52 «È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro». Cfr., Trattato di Maastricht sull’Unione europea, art. 8.1.

53 J. Habermas, Una costituzione per l’Europa? Commento a Dieter Grimm, in L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, cit., p. 171.

54 Ivi, p. 173.

44

maggioranza delle procedure legislative, il trattato introdusse formalmente il

cosiddetto meccanismo della “cooperazione rafforzata”. Si tratta di un

dispositivo istituzionale volto a permettere una collaborazione più stretta tra i

paesi dell’Unione che desiderano approfondire la costruzione europea55. Veniva

cioè introdotta, nella prospettiva di un allargamento, la possibilità di

consolidare l’integrazione tra una maggioranza di Stati membri, con l’esclusione

della minoranza contraria56. Si aprì così la discussione attorno all’idea di

un’Europa “a due (o più) velocità”.

Per conoscere il parere di Habermas sulla questione occorre fare un balzo in

avanti di qualche anno. La sua posizione indica un atteggiamento

sorprendentemente pragmatico. Il che, a ben vedere, può interpretarsi come il

primo indizio di un lieve spostamento in senso realistico della sua dottrina. O,

se vogliamo, di un leggero disincantamento rispetto alle “cose” europee.

L’ortodossia del suo deontologismo post-metafisico, infatti, si ammorbidisce

non poco di fronte all’alternativa, seguita alla guerra in Iraq del 2003, tra la

docile sottomissione alla “protezione” di Washington e l’emancipazione

rappresentata da una politica estera comune. Ossia di fronte all’alternativa, per

dirla con Rorty, tra «umiliazione o solidarietà»57.

L’appoggio di Gran Bretagna, Spagna e Italia ai progetti belligeranti di

George W. Bush, in contrasto con l’opposizione di Francia e Germania, spaccò

l’Europa, e dimostrò ancora una volta l’inconsistenza della presunta politica

estera comune dell’Unione. «Anche nell’assemblea costituente di Bruxelles si

delinea la contrapposizione tra le nazioni che vogliono davvero un

rafforzamento dell’Unione Europea e quelle che hanno un comprensibile

interesse a congelare o, nel migliore dei casi, ad apportare modifiche di facciata

alla modalità esistente di governo intergovernativo»58.

In questo contesto Habermas indicò nel meccanismo delle cooperazioni

55 Cfr. http://europa.eu/legislation_summaries/glossary/enhanced_cooperation_it.htm56 B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda alla Costituzione

dell’Unione, cit., p. 246.57 R. Rorty, trad. it. Karin Hoedlmoser, Umiliazione oppure solidarietà. Sarebbe una tragedia per gli

Stati Uniti se l’Europa non affermasse rispetto nei confronti di Washington, in «Sueddeutsche Zeitung», 30.05.2003.

58 J. Habermas, Il 15 febbraio, ovvero: ciò che unisce gli Europei, in L’Occidente diviso, cit., p. 21.

45

rafforzate l’unica via per fuoriuscire dallo stallo in cui l’Europa si era cacciata.

«La politica americana [di Bush] non ha fatto che approfondire il contrasto tra

gli integrazionisti e i loro oppositori. […] Noi non vorremmo farci impedire da

altri un’ulteriore integrazione. […] L’Europa deve imparare a parlare nel mondo

con un’unica voce. Da questo vicolo cieco ci fa uscire soltanto una “Europa a più

velocità” con le sue molteplici sovrapposizioni»59. Per evitare che le spinte

centrifughe facciano deflagrare il difficile equilibrio europeo, Habermas invita

dunque Germania e Francia a svolgere quel ruolo di locomotive

dell’integrazione cui in fondo, dall’Atto unico in avanti, hanno sempre assolto.

Per il momento soltanto gli Stati membri del nucleo originario sono disposti

a conferire all’Unione Europea certe qualità statali. […] Se l’Europa non deve

disgregarsi, oggi queste nazioni debbono far uso del meccanismo di

“collaborazione rafforzata” stabilito a Nizza per dare inizio, in una “Europa a

più velocità”, a una politica estera comune, come a una comune politica della

difesa e della sicurezza. Ne sortirà un effetto di trascinamento cui gli altri

membri […] non potranno alla lunga sottrarsi.60

«Ciò non porterà piuttosto alla disintegrazione dell’Unione Europea?»61, gli

domanda legittimamente Anna Rubinowicz-Gründler. Habermas risponde

negativamente a questa obiezione. Le nazioni che inizialmente non

parteciperanno a quello che il filosofo chiama “nucleo d’avanguardia” non

debbono per questo sentirsi escluse dall’Europa. Si tratta, in fin dei conti, di un

espediente per favorire lo sviluppo delle nazioni meno avanzate dal punto di

vista economico, sociale e politico, al fine di promuovere un’integrazione di

fatto. A condizione, però, che il nucleo avanguardistico dell’Europa non si

coaguli in una “piccola Europa”, e anzi lasci le porte aperte alle nazioni più

“attardate” del continente62. In questo modo «l’Europa si congederebbe così dal

modello del convoglio navale, la cui velocità è condizionata da quella della nave

più lenta. Anche in un’Europa formata da un nucleo e da una periferia, i paesi

59 J. Habermas, Tedeschi e polacchi: le posizioni reciproche, in L’Occidente diviso, cit., pp. 49-50.60 J. Habermas, Il 15 febbraio, ovvero: ciò che unisce gli Europei, in L’Occidente diviso, cit., pp. 21-22.61 J. Habermas, Tedeschi e polacchi: le posizioni reciproche, in L’Occidente diviso, cit., p. 50.62 J. Habermas, Il 15 febbraio, ovvero: ciò che unisce gli Europei, in L’Occidente diviso, cit., p. 22.

46

che preferissero rimanere temporaneamente ai margini potrebbero

naturalmente mantenere l’opzione di aggregarsi al centro in ogni momento»63.

Habermas ricorda, inoltre, tre circostanze da non trascurare: 1) la velocità

variabile dell’unificazione europea è sempre dipesa dalla locomotiva

dell’accordo tra Francia e Spagna, 2) esiste già, come è dimostrato dalla zona

euro, un’Europa a più velocità, 3) l’esigenza di una politica estera comune non è

tanto un’iniziativa quanto una reazione nata dalla necessità64. La questione

viene praticamente ribaltata: proprio per non disintegrarsi, l’Europa dovrebbe

compattarsi attorno ad un nucleo forte che la conduca verso una maggiore

integrazione. In sostanza, «invece che un’autodistruzione, o uno sfaldamento, è

pur sempre meglio un’Europa delle due o tre velocità»65.

Più scettico risulta invece Habermas per quanto riguarda la presenza della

Gran Bretagna all’interno dei confini europei. In verità, il concetto di un’Europa

a più velocità fu coniato nel 1992 proprio in riferimento all’ambigua situazione

del Regno Unito, cui fu concessa la clausola dell’opting out. Ossia una speciale

deroga che, per impedire uno stallo generale, fu accordata agli stati membri che

non desideravano associarsi agli altri in relazione ad un particolare settore della

cooperazione comunitaria66. Il filosofo invita a riflettere seriamente

sull’opposizione tra l’inclinazione continentale-deontologica e quella

anglosassone-utilitaristica. «Gli inglesi», infatti, «hanno della futura Unione

Europea un’idea del tutto diversa dai Tedeschi o dai Francesi»67. Pur senza mai

metterne esplicitamente in dubbio l’impronta europea, Habermas sollecita i

britannici a interrogarsi sulla special relationship con gli Stati Uniti, e dunque

ad aprire un serio dibattito sull’identità stessa del Regno Unito.

Ma per comprendere a pieno la paradigmatica ambiguità della condizione

britannica durante il primo decennio del nuovo millennio – costretta ad un

63 J. Habermas, Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa, in Ach, Europa. Kleine Politische Schriften XI, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2008; trad. it. Carlo Mainoldi, Il ruolo dell'intellettuale e la causa dell'Europa. Saggi, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 13.

64 J. Habermas, Nucleo d’Europa potenza antagonistica? Alcune domande, in L’Occidente diviso, cit., p. 34.

65 J. Habermas, Perché l’Europa ha bisogno di una Costituzione?, in Tempo di passaggi, cit., p. 76.66 Cfr. http://european-convention.eu.int/IT/glossary/glossaryfe33.html67 J. Habermas, Nucleo d’Europa potenza antagonistica? Alcune domande, in L’Occidente diviso, cit., p.

35.

47

esasperante equilibrio tra i due lati dell’Occidente, al di qua e al di là di un

Atlantico irrimediabilmente fratturato – occorre ritornare ai primissimi anni

dell’amministrazione Bush.

Dopo l’11 settembre: il ruolo dell’Europa nello scacchiere

internazionale

L’11 settembre 2001 crollano le Twin Towers di New York. Il mondo è

ancora sconvolto dall’immagine delle due torri in fumo e dalle migliaia di morti,

quando George W. Bush, a meno di un mese dagli attacchi terroristici, decide di

attaccare militarmente l’Afghanistan. La percezione di una svolta epocale negli

equilibri globali è subito evidente. In una intervista a Giovanna Borradori,

Habermas ipotizza che l’11 settembre possa essere considerato come il «primo

evento storico mondiale in senso rigoroso: l’urto, l’esplosione, il lento crollo –

tutto ciò che irrealmente non era più Hollywood, ma spietata realtà, si è

compiuto letteralmente davanti agli occhi del pubblico di tutto il mondo»68.

Nella medesima intervista, però, Habermas afferma anche qualcosa di più

interessante. E cioè che l’Onu perde la propria credibilità nella misura in cui

sussiste una fatale differenza di potere tra la sua debole – ma legittima –

autorità, e la forza delle grandi potenze, del cui apparato le Nazioni Unite non

possono fare a meno69. Sicché, «l’Onu spesso non è altro che una tigre di

carta»70, squarciata dal dislivello tra ciò che si dovrebbe fare e ciò che può

effettivamente fare, ossia tra diritto e potere. Gli Stati che possono

concretamente intervenire per ripristinare la normatività infranta, il diritto

violato, in realtà non sono legittimate a farlo, usurpano un mandato che sarebbe

riservato all’organizzazione mondiale, cosicché «quella che dovrebbe essere

un’azione di polizia finisce allora per non distinguersi più da una normalissima

guerra»71.

68 G. Borradori, Filosofia e terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 32.

69 Ivi, p. 45.70 Ibidem.71 Ibidem.

48

Nasce così un dissenso all’interno dello stesso Occidente tra paesi

anglosassoni e continentali: i primi preferiscono lasciarsi ispirare dalla

“scuola realistica” delle relazioni internazionali, mentre i secondi legittimano

le proprie decisioni anche nell’ottica normativa di una promozione ed

accelerazione della trasformazione del diritto internazionale in un

ordinamento giuridico transnazionale.

[…] La tensione tra un orientamento più realistico ed uno più decisamente

normativo si risolverà solo il giorno in cui i grandi organismi continentali,

come l’Unione Europea, il Nafta e l’Asean saranno diventati attori capaci di

agire e potranno quindi concludere accordi transnazionali e assumersi

responsabilità per una rete transnazionale sempre più fitta di organizzazioni,

conferenze, iniziative. Solo con global players di questo tipo, in grado di

costruire un contrappeso politico all’espansione illimitata dei mercati, l’Onu

troverà un’infrastruttura che assicuri la realizzazione di programmi e

strategie di alto profilo.72

Ecco aprirsi la frattura che, secondo Habermas, dividerà l’Occidente per tutti

gli otto anni dell’amministrazione Bush, e che esploderà definitivamente

durante la scellerata guerra in Iraq. In questo contesto l’Europa avrebbe dovuto

caricarsi sulle spalle l’onere di rappresentare sullo scacchiere internazionale

l’unico barlume rimasto di normatività, di contro alla prospettiva di una pax

americana a forti tinte paternalistico-egemoniche. D’altronde, il filosofo

afferma che la sua critica, così come molte altre, si colloca proprio sul solco

tracciato dai principi liberali enunciati dalle migliori tradizioni degli Stati

Uniti73.

Nonostante il beneplacito dell’Onu74 per la guerra in Afghanistan, la

diffidenza del filosofo nei confronti di Bush è da subito evidente. La decisione

del presidente statunitense di dichiarare “guerra al terrorismo” è considerata già

di per sé «un grave errore, sia dal punto di vista normativo che da quello

pragmatico. Sul piano normativo ha riconosciuto a questi criminali la dignità di

72 Ivi, p. 45-46.73 J. Habermas, Nucleo d’Europa potenza antagonistica? Alcune domande, in L’Occidente diviso, cit., p.

32.74 Risoluzione 1373 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata nel corso della sua

4385esima riunione, il 28 settembre 2001.

49

nemici di guerra, e su quello pragmatico, non si può condurre una guerra contro

una “rete”, contro un’entità quasi impalpabile, almeno se vogliamo che la parola

“guerra” continui ad avere un significato preciso»75. Ma l’antipatia diviene vera e

propria ostilità non appena ha inizio la seconda guerra del Golfo. La decisione di

Bush di attaccare “preventivamente” l’Iraq senza l’autorizzazione dell’Onu

suscita profondo scandalo nell’opinione pubblica mondiale.

I toni di Habermas sono categorici, severi, apocalittici. Il titolo e l’incipit de

L’Occidente diviso (2004) non potrebbero essere più eloquenti.

L’Occidente è stato diviso non dal pericolo del terrorismo internazionale,

bensì dalla politica dell’attuale governo statunitense, che ignora il diritto

internazionale, emargina le Nazioni Unite e dà per acquisita la rottura con

l’Europa.

In gioco è il progetto kantiano della abolizione dello stato di natura fra gli

stati. Le menti si dividono non su fini politici superficiali, ma su una delle più

grandiose iniziative tendenti a civilizzare il genere umano. 76

La nuova dottrina della sicurezza promulgata da Bush, con la quale egli si

riservava il diritto di un intervento militare preventivo (preemptive strike), e la

dichiarazione del 28 gennaio 2003 in cui affermava solennemente che avrebbe

ignorato il divieto al ricorso della violenza prescritto nella Carta delle Nazioni

Unite nel caso che il Consiglio di Sicurezza non avesse approvato un’azione

militare, dimostrano inequivocabilmente, secondo Habermas, che il presidente

avrebbe voluto «sostituire alla virtù civilizzatrice di procedure giuridiche

universalistiche l’armamento di un ethos americano con pretese di

universalità»77. Vorrebbe cioè affermare, di contro all’universalismo egualitario

del diritto cosmopolitico, un “unilateralismo egemonico” nel quale «gli Stati

75 Ivi, p. 40. «Contro i nemici globalmente ramificati, decentrati e invisibili, l’unica difesa è una prevenzione su undiverso piano operativo. Qui non servono bombe e missili, aerei e carri armati, bensì il collegamentointernazionale tra servizi segreti e magistrature penali dei vari Stati, il controllo dei flussi finanziari, ein genere l’individuazione dei collegamenti logistici». Cfr. J. Habermas, Che cosa significa il crollodel monumento?, in L’Occidente diviso, cit., p. 12.

76 J. Habermas, Premessa, in L’Occidente diviso, cit., p. V.77 J. Habermas, La costituzionalizzazione del diritto internazionale ha ancora una possibilità?, in

L.Occidente diviso, cit. p. 185.

50

Uniti si assumono per così dire quel ruolo di curatore fiduciario in cui l’Onu ha

fallito»78. Tuttavia, agendo in questo senso l’America smantella

quell’autorevolezza normativa guadagnatasi nei cinquant’anni precedenti, nei

quali proprio gli Stati Uniti hanno potuto ergersi a garanti legittimi del diritto

internazionale79. Ciò ha conseguenze nefaste sia dal punto di vista normativo,

giacché «è esattamente il nucleo universalistico dei diritti umani che proibisce

la loro imposizione unilaterale col ferro e col fuoco. La pretesa di validità

universalistica che l’Occidente collega ai propri “valori politici fondamentali”,

ossia alla procedura di autodeterminazione democratica e al vocabolario dei

diritti umani, non va confusa con la pretesa imperiale che la forma di vita e la

cultura politica di una data democrazia, foss’anche la più antica, diventi un

modello al quale tutte le società debbono ispirarsi»80; sia dal punto di vista

fattuale, in quanto «la complessità di una società mondiale decentrata [...] non

può più venir dominata da un centro»81.

Anche ammettendo lo scenario migliore in cui alla potenza egemonica

vengano attribuiti i propositi più benevoli, sarebbe difficile distinguere gli

interessi nazionali da quelli effettivamente generalizzabili. Il giusto, per

Habermas, non può essere affatto “l’utile del più forte”, poiché la valutazione di

ciò che è giusto deve passare attraverso la considerazione e il libero giudizio di

coloro che dagli effetti di un’azione – nel caso specifico “l’esportazione della

democrazia” – saranno coinvolti. «L’eguale distribuzione dei diritti soggettivi»,

infatti, «non sarà mai separabile da quella pubblica autonomia che i cittadini

[del mondo] possono esercitare solo partecipando alla prassi della

legislazione»82. La supervisione paternalistica statunitense, cioè, contraddice i

presupposti stessi di universalità ai quali retoricamente si richiama.

78 J. Habermas, Che cosa significa il crollo del monumento?, in L’Occidente diviso, cit., p. 13.79 Ivi, p. 8.80 Ivi, p. 15.81 J. Habermas, La costituzionalizzazione del diritto internazionale ha ancora una possibilità?, in

L.Occidente diviso, cit. p. 187.82 J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 469.

«In una comunità giuridica nessuno è libero finché la libertà dell’uno dev’essere pagata conl’oppressione dell’altro. La distribuzione degli indennizzi può soltanto risultare da un’ugualedistribuzione dei diritti; quest’ultima può, a sua volta, soltanto risultare dalla reciprocità delriconoscimento tra gli associati. In questa prospettiva del pari rispetto i soggetti possono pretenderepari diritti. […] I diritti si lasciano godere solo a patto di esercitarli». Cfr. Ibidem.

51

Chi se non l’Europa dovrebbe allora reggere il vessillo dell’idea

squisitamente moderna di un universalismo egualitario? Chi se non l’Europa

dovrebbe assumersi l’onere di sollecitare «l’elaborazione cosmopolitica di un

diritto internazionale che faccia sentire in misura paritaria e reciproca le voci di

tutti gli interessati»83?

L’Europa deve gettare sulla bilancia il suo peso, sul piano internazionale e

nell’ambito dell’Onu, per controbilanciare l’unilateralismo egemonico degli

Stati Uniti. Nei vertici sull’economia mondiale e nelle istituzioni quali

l’Organizzazione del commercio mondiale, la Banca mondiale e il fondo

monetario internazionale, essa dovrebbe far valere il suo influsso nella

delineazione di una futura politica interna mondiale.84

Sul piano globale, il peso culturale del Vecchio Continente risulta

fondamentale. L’Unione Europea deve dimostrare al mondo come sia possibile,

e desiderabile, un modo d’impostare le relazioni interstatali non fondato sul

diritto internazionale classico, ma su di una legalizzazione che, muovendo dal

divieto delle guerre di aggressione, spiani il terreno per forme di collaborazione

continentali, nella prospettiva di un assetto giuridico cosmopolitico.

Ma non solo. Oltre a questa funzione, per dir così, “esemplare”, l’Unione

Europea – assieme agli altri regimi continentali – andrebbe a svolgere quel

ruolo di attore legittimato ad agire politicamente (global player) al livello

intermedio dei sistemi negoziali adibiti al coordinamento politico nei campi

dell’economia, dell’ambiente, dei traffici, della sanità, e via dicendo. Tutte quelle

funzioni di pianificazione politica, cioè, alle quali un Organizzazione mondiale

destinata alla sola tutela della pace e all’affermazione dei diritti umani non

potrebbe ottemperare. «Una riforma delle Nazioni Unite, per quanto riuscita,

non avrebbe alcun effetto, se gli Stati nazionali delle diverse parti del mondo

non si unissero in regimi continentali sul modello dell’Unione Europea»85.

È chiaro, però, che «se l’Unione Europea, in vista dell’ampliamento

83 J. Habermas, Che cosa significa il crollo del monumento?, in L’Occidente diviso, cit., p. 16.84 J. Habermas, Il 15 febbraio, ovvero: ciò che unisce gli Europei, in L’Occidente diviso, cit., p. 22.85 J. Habermas, E. Mendieta, Un’intervista sulla guerra e sulla pace, in L’Occidente diviso, cit., pp. 100-

101.

52

universalistico dell’ordine internazionale, vuole affermare un progetto

concorrente nei confronti degli Stati Uniti, o se dall’Unione Europea deve

almeno nascere un contrappeso politico all’unilateralismo egemonico, l’Europa

deve acquistare coscienza di sé e un profilo suo proprio»86. Ovverosia, per

sobbarcarsi il fardello di così grandi responsabilità, i cittadini europei devono

potersi riconoscere in un destino politico vissuto e progettato in comune.

Riemerge, mai conclusa, la questione dell’identità europea. Il cui dibattito –

indissolubilmente legato a quello sulla possibilità di una Costituzione europea –

si svolge parallelamente ai fatti appena narrati.

Fallimento di una costituzione per l’Europa

Questa volta è Nizza il teatro di una solenne proclamazione, foriera di grandi

speranze: il 7 dicembre 2000 è infatti la volta della Carta dei diritti

fondamentali dell’Unione europea. Il documento nasce con l’intento di riunire

in un’unica Carta i diritti fondamentali prima dispersi in vari strumenti

legislativi, al fine di dar loro maggiore visibilità e, implicitamente, per posare il

primo mattone di una Costituzione europea.

Già nel 1998 Habermas faceva appello alla stipulazione di una “Carta”

europea, finalizzata all’anticipazione delle modificate competenze di una

costituzione vera e propria87. L’integrazione sociale non può infatti svilupparsi

automaticamente a partire da una integrazione funzionale prodotta da

interdipendenze economiche: una dinamica meramente sistemica di questo tipo

non sarebbe sufficiente a far sorgere automaticamente il sostrato culturale

richiesto per una solidarietà transnazionale. «Perché si formi questo sostrato

dobbiamo immaginarci uno scenario diverso, che veda tutta una serie di

“anticipazioni” appoggiarsi e stimolarsi a vicenda in una sorta di processo

spiraliforme»88. Ancora una volta, è implicita la ferma convinzione di Habermas

86 J. Habermas, Nucleo d’Europa potenza antagonistica? Alcune domande, in L’Occidente diviso, cit., p. 32.

87 J. Habermas, , La costellazione postnazionale e il futuro della democrazia; in La costellazione postnazionale, cit., p. 88.

88 Ibidem.

53

per cui il principio repubblicano (associato alla cittadinanza giuridica e

universalistica del demos) deve potersi sganciare dal principio nazionalistico

(associato invece alla cittadinanza culturale e particolaristica dell’ethnos)89. In

questo orizzonte, un atto costituzionale in senso forte – e cioè non

“paracadutato dall’alto” ma animato dai dibattiti di una sfera pubblica di

formato europeo – realizzerebbe quell’anticipazione normativa capace di

promuovere di per se stessa l’integrazione necessaria allo sviluppo di una

solidarietà civica che permetta, ad esempio, a tedeschi e greci di darsi reciproca

garanzia. Garanzia di solidarietà senza la quale il progetto di un’Unione europea

sarebbe destinato a naufragare. La differenza sta dunque in questo: per i

sostenitori dell’inesistenza di un popolo europeo, fino a quando non sarà

presente un tale fondamento di solidarietà sarebbe anacronistico e pericoloso

pensare di approfondire l’integrazione. Per Habermas invece, questa base di

solidarietà può – e anzi deve – essere, se non interamente creata ex novo,

quantomeno promossa attraverso operazioni di nation-building appropriate alle

dimensioni delle piattaforme territoriali da amministrare, e cioè

sufficientemente astratte.

Se ammettiamo che questa forma artificiale di “solidarietà tra estranei” è

nata da una spinta astrattiva che – con rilevanti effetti storici – ha già

trasformato, nel passato, la coscienza locale e dinastica in una coscienza

nazionale e democratica, allora possiamo anche chiederci perché mai questo

processo di apprendimento non dovrebbe poter superare i confini della

nazione.90

La Carta dei diritti fondamentali sembra rispondere proprio a

quest’esigenza. Il giudizio di Habermas è difatti sostanzialmente positivo: egli

intravede nella Carta l’espressione esemplare dei «principi normativi che

uniscono i cittadini europei»91. Il documento rimanda cioè al di là della

prospettiva meramente economicistica relativa alle negative libertà mercantili,

89 L. Ceppa, Postfazione, in J. Habermas, La costellazione postnazionale, cit., p. 129.90 J. Habermas, Lo stato nazionale europeo sotto il peso della globalizzazione, in La costellazione

postnazionale, cit., p. 121.91 J. Habermas, Perché l’Europa ha bisogno di una Costituzione?, in Tempo di passaggi, cit., p. 76.

54

ed esibisce l’autocomprensione dei momenti comuni che sono stati eretti a

principi della convivenza. La Conferenza di Nizza sembra dunque aver

individuato quel nucleo in grado di legare assieme le eterogenee esperienze

europee.

Il preambolo del documento recita:

Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui

valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà,

dell’uguaglianza e della solidarietà; essa si basa sul principio della

democrazia e sul principio dello Stato di diritto. Pone la persona al centro

della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio

di libertà, sicurezza e giustizia.92

I contenuti della Carta quindi, con l’innovativa struttura suddivisa non più

secondo le tradizionali classificazioni di diritti civili e politici, diritti economici e

sociali, ma secondo i valori fondamentali cui sono prevalentemente ispirati –

dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia – appaiono

idonei a configurare una identità europea93. Pertanto la Carta «costituisce il

simbolo del passaggio dall’Unione economica all’Unione politica, dall’Unione

degli Stati all’Unione dei cittadini»94. Si tratta di una coraggiosa risposta

istituzionale alla classica no demos thesis che nega l’esistenza di un popolo

europeo sul quale fondare l’approfondimento politico dell’integrazione95.

Parallelamente, anche Habermas elabora la sua lettura dell’identità europea.

Si può ipotizzare che l’audace slancio rappresentato dalla Carta abbia indotto il

filosofo a rispondere agli euroscettici non più solo attraverso la classica

distinzione tra ethnos e demos, e mediante la conseguente possibilità di issare la

solidarietà astraendola oltre le frontiere. Egli infatti inizia a interrogarsi su

quale sostrato culturale comune possano condividere tutti i cittadini europei,

92 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.93 E. Paciotti, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: una novità istituzionale, in «Teoria

politica» XVII, n. 1, 2001, p. 30.94 Ivi, p. 31.95 In verità è opportuno constatare che nel Preambolo il richiamo plurale “ai popoli” e non “al popolo”

europeo rende manifesta una certa timidezza nell’affermare l’esistenza di un’unità dei cittadinieuropei, limitandosi a proclamare più cautamente un legame, semmai, tra le nazioni europee.

55

aggiungendo così una nuova munizione al bagaglio delle sue argomentazioni.

Tuttavia precisando che le esperienze storiche più profonde, sulle quali si

radicano le “mentalità comuni”, «si limitano a candidare a un’appropriazione

consapevole, senza la quale non acquistano la facoltà di creare identità»96.

L’Europa non può cioè prescindere dal momento volitivo rappresentato

dall’appropriazione ermeneutica del proprio patrimonio culturale. «Oggi noi

sappiamo che molte tradizioni politiche che pretendono autorità per la loro

naturalezza in realtà sono state “inventate”. Invece una identità europea che

nascesse alla luce dell’opinione pubblica avrebbe questo carattere ufficiale fin

dal principio»97. In altri termini, quel mondo di vita pre-predicativo e pre-

categoriale – in sostanza: pre-razionale – necessario come “sapere di fondo” ad

un’integrazione sociale fondata sull’intesa linguistica98, deve essere

problematizzato, tematizzato e reso riflessivo. Solo allora sarà possibile

distinguere «tra il retaggio che raccogliamo e quello che intendiamo

respingere»99.

A questo punto ci viene in aiuto il concetto repubblicano di popolo come

l’insieme dei cives di una città/patria o civitas. La civitas come comunità di

cives designa il soggetto politico della cittadinanza democratica attiva,

radicata in un luogo storico capace di forte identificazione. Le componenti

etno-culturali presenti in questa identificazione non vengono astrattamente

negate ma criticamente sottoposte ad un processo riflessivo.100

Date queste premesse Habermas individua sette elementi di possibile

convergenza nel quadro di un’approfondimento dell’integrazione politica: 1) il

reciproco riconoscimento dell’altro nella sua diversità, conseguenza di un

96 J. Habermas, Il 15 febbraio, ovvero: ciò che unisce gli Europei, in L’Occidente diviso, cit., p. 27.97 Ibidem.98 «Se l’agire comunicativo non si trovasse, di fatto, già inserito dentro contesti del mondo di vita che

provvedono ad assicurare un massiccio consenso di fondo, questi “rischi di dissenso” renderebberoassolutamente inverosimile un’integrazione sociale che si appellasse all’intesa linguistica. Findall’inizio, invece, le prestazioni d’intesa si muovono nell’orizzonte di convinzioni collettive nonproblematiche, alimentandosi con le risorse del già sempre familiare. Nella pratica quotidiana, lacontinua incertezza derivante da contraddizioni e delusioni, contingenze e critiche, s’infrange controla roccia – estesa, incrollabile, profonda – rappresentata dalle interpretazioni convenzionali, dallefedeltà tradizionali, dalle competenze acquisite». Cfr. J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 30.

99 J. Habermas, Il 15 febbraio, ovvero: ciò che unisce gli Europei, in L’Occidente diviso, cit., p. 27.100G. E. Rusconi, La questione della cittadinanza europea, in «Teoria Politica» XVI, n. 1, 2000, p. 33.

56

percorso storico che ha sollecitato un continente dilaniato da conflitti a

imparare presto ad appianare le differenze; 2) una secolarizzazione

relativamente progredita; nell’ambito della società civile la religione assume

ovunque una posizione apolitica; 3) la sensibilità dei cittadini ai paradossi del

progresso, promossa da una competizione partitica fortemente ideologizzata

che sottopone ad una costante valutazione politica le patologie sociali

conseguenti alla modernizzazione capitalistica; 4) una spiccata attitudine alla

“dialettica dell’illuminismo” ha comportato un certo scetticismo nei confronti

dei progressi tecnici; 5) la percezione delle differenze di classe e la coscienza di

potervi far fronte solamente attraverso l’azione collettiva, ha dato impulso allo

sviluppo di un’etica della lotta per una “maggiore giustizia sociale”,

solidaristica e mirante a provvidenze pari per tutti; 6) le esperienze dei regimi

totalitari e della Shoah ha acuito la sensibilità alle violazioni dell’integrità

personale e fisica; 7) sullo sfondo di un passato bellicistico, i successi

dell’Unione Europea hanno rafforzato negli europei la convinzione che

l’addomesticamento dell’uso statale della forza esige anche a livello globale una

reciproca limitazione degli spazi sovrani d’azione101.

L’entusiasmo legato alla proclamazione della Carta ha però breve durata. Le

speranze alimentate s’infrangono contro la realtà di un continente ricco di buoni

propositi, ma cacofonico quando si tratta di trasformare in atti vincolanti le

intenzioni enunciate. Già i dissensi nel corso dell’approvazione da parte dei

governi della bozza di Costituzione elaborata dalla Convenzione europea

alimentò in Habermas un moderato scetticismo. «La reciproca diffidenza delle

nazioni e degli Stati membri sembra segnalare che i cittadini europei non hanno

alcun sentimento di comune appartenenza politica, e che gli Stati membri sono

più che mai lontani dal perseguire un progetto comune»102.

Il progetto costituzionale sembrò intenzionato a rispondere alle sfide che la

storia poneva ai cittadini dell’Unione: l’allargamento a Oriente, le conseguenze

politiche di un’unione economica già realizzata, la frattura atlantica

101 Ivi, pp. 25-30.102 J. Habermas, La creazione di un’identità europea è necessaria e possibile?, in L’Occidente diviso,

cit., p. 53.

57

dell’Occidente. Tali difficoltà misero

all’ordine del giorno la questione irrisolta e rimossa delle “finalità” del

processo di unificazione”. Questa spinosa questione del telos dell’intera

iniziativa ha due aspetti. Il primo è il problema della struttura politica della

comunità: quale europa vogliamo? Il secondo è la questione dell’identità

geografica: dove passano i confini definitivi dell’Unione Europea? L’abbozzo

di costituzione lascia aperti i due problemi.103

Riguardo al primo problema la bozza di costituzione si dimostrò ambigua. I

concetti convenzionali del diritto pubblico e del diritto internazionale sembrano

obsoleti per la categorizzazione dell’assoluta originalità europea. La

Convenzione si mantenne, così, cauta sulla scelta dei soggetti del progetto

costituente: «Ispirata dalla volontà dei cittadini e degli Stati d’Europa di

costruire un futuro comune, la presente Costituzione istituisce l’Unione

Europea, alla quale gli Stati membri conferiscono competenze per conseguire

obiettivi comuni»104. Inoltre, a ben vedere, il titolo della bozza – “Trattato che

istituisce una Costituzione per l’Europa” – è già di per sé controverso, giacché

accorpa due concetti, quello di “trattato” (i cui soggetti contraenti sono gli Stati)

e quello di “costituzione” (che si riferisce agli individui), tra loro incongruenti –

se non addirittura contraddittori.

Il secondo aspetto, la questione dei confini, avrebbe potuto essere regolato

ma, per motivi politici relativi ai possibili allargamenti a est, essa è rimasta

aperta105.

Il sostanza nel suo tentativo di mediare tra le divergenti posizioni di

integrazionisti e intergovernativisti, la Convenzione ha cioè evitato di assumere

una posizione netta e risoluta, e non ha nemmeno provocato alcuna

controversia sugli atteggiamenti di fondo, per paura di «rompere le porcellane

europee»106.

Il seguito è storia nota. Trasmessa in eurovisione con tutti i crismi del caso, il

103 Ivi, p. 58.104 Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, art. I-1.1.105 J. J. Habermas, La creazione di un’identità europea è necessaria e possibile?, in L’Occidente diviso,

cit., p. 59.106 Ivi, p. 60.

58

29 ottobre 2004 si svolse la cerimonia di firma del Trattato che istituisce una

Costituzione per l’Europa. Tutti i capi di Stato o di governo e i ministri degli

esteri dei 25 paesi membri firmarono la Costituzione. Ma il discorso a porte

chiuse delle élites non trovò eco nell’opinione pubblica europea. L’iter di

ratifica, che avvenne per via parlamentare in alcuni stati e per via referendaria

in altri, si arenò dinanzi ai secchi “no” di Francia e Olanda, entrambi tramite

referendum.

Con tutta evidenza, gli ammonimenti di Habermas, e di altri intellettuali,

non furono accolti. Il filosofo già nel 2001 avvertiva che una Costituzione

avrebbe avuto tuttalpiù un effetto catalizzatore per lo sviluppo di quelle

condizioni funzionali necessarie affinché la formazione di un’identità europea si

potesse estendere oltre le frontiere nazionali107. Ma siffatto risultato avrebbe

potuto produrlo solo una Costituzione nel senso forte del termine: ossia un atto

del popolo europeo in quanto tale, cosciente di sé e dei propri obbiettivi.

All’inizio del nuovo processo si dovrebbe collocare un referendum

costituzionale, il quale metterebbe in moto un grande dibattito dalle

dimensioni europee. Il processo costituente [e non il solo documento

costituzionale] è infatti, in se stesso, uno strumento assai efficace per una

comunicazione oltrepassante le frontiere nazionali. Esso ha in sé il potenziale

di una self-fulfilling prophecy.108

L’unico modo per sollecitare una forza centripeta che compatti l’Europa è

quello di promuovere la nascita di una sfera pubblica europea in cui si radichi il

processo democratico, ovvero una «connessione comunicativa specializzata

nelle questioni rilevanti e oltrepassante i confini nazionali»109. Le arene di

formazione dell’opinione e delle volontà pubbliche esistono anche ora

solamente a livello dei singoli Stati nazionali. Ma, sostiene Habermas, «non

dobbiamo immaginarci la sfera pubblica europea, ora mancante, come una

semplice proiezione ingrandita della sfera pubblica interstatale. Essa può infatti

107 J. Habermas, Perché l’Europa ha bisogno di una Costituzione?, in Tempo di passaggi, cit., p. 71.108 Ibidem.109 J. Habermas, La politica europea in un vicolo cieco. Arringa per una politica di integrazione

graduale, in Il ruolo dell'intellettuale e la causa dell'Europa. Saggi, cit., p. 30.

59

originarsi solo a partire dall’apertura reciproca e spontanea dei circoli

comunicativi delle arene nazionali»110. La sfera europea non deve quindi

sovrapporsi alle sfere nazionali in un processo di stratificazione. Ma le

comunicazioni nazionali dovrebbero tradursi l’una nell’altra e intrecciarsi

reciprocamente di modo che i contributi rilevanti possano essere

osmoticamente assorbiti e importati dalle arene altrui111. Così che i temi europei

potrebbero facilmente esse discussi nelle arene nazionali e non più solo nei

ristretti circoli elitari di intellettuali poliglotti.

Solo allora andrebbe a colmarsi il famigerato deficit democratico,

riducendosi così la distanza tra i cittadini e la fredda burocrazia di Bruxelles. E

cosa più di un dibattito costituzionale svolgentesi direttamente tra i cittadini

europei, e non più solo tra i loro governi, avrebbe potuto ottenere risultati in tal

senso? Sfortunatamente la strada perseguita non fu questa, ed il risultato è

notorio. L’attaccamento dei cittadini alle istituzioni europee si dimostrò esser

marginale, proprio in virtù dell’assenza dei requisiti funzionali indispensabili ad

una maggiore integrazione.

Il Trattato di Lisbona

Il nuovo Trattato di riforma venne firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007.

Esso fu redatto con la speranza che la “sostanza” del naufragato progetto di

Costituzione potesse almeno essere trasferita in un semplice diritto europeo112.

L’accordo recepisce infatti gran parte delle innovazioni contenute nella

Costituzione europea mai entrata in vigore. Dal punto di vista simbolico il nuovo

documento sembra sancire l’avvenuto fallimento di qualsivoglia progetto

costituzionale, almeno in una prospettiva di breve o medio termine.

Disposizioni quali la grottesca rinuncia a simboli comunitari già accettati (come

la bandiera e l’inno)»113, il ritorno alla vecchia denominazione per gli atti

110 J. Habermas, Perché l’Europa ha bisogno di una Costituzione?, in Tempo di passaggi, cit., p. 72.111 Ibidem.112 J. Habermas, La politica europea in un vicolo cieco. Arringa per una politica di integrazione

graduale, in Il ruolo dell'intellettuale e la causa dell'Europa. Saggi, cit., p. 22.113 Ivi, p. 23.

60

dell’Unione (risorgono i “regolamenti” e le “direttive” al posto delle “leggi

europee” e delle “leggi quadro europee”), la modalità della trattativa scelta per la

realizzazione, la rinuncia a consultazioni referendarie anche laddove erano

effettivamente necessarie, e i regolamenti nazionali d’eccezione, ratificano la

concezione di una struttura istituzionale intergovernativa, pattizia, priva di una

solida base di legittimità. Il giudizio di Habermas è impietoso.

La Costituzione doveva promuovere, trasversalmente ai confini nazionali,

una partecipazione più profonda dei cittadini a decisioni politiche prese a

Strasburgo e a Bruxelles in maniera più trasparente. E invece lo striminzito

Trattato di riforma suggella solo il carattere elitario di un evento politico

tolto di mano alle popolazioni.114

Il primo dei presupposti che la Costituzione avrebbe dovuto creare, la

saturazione del deficit democratico, non fu affatto perseguito. L’integrazione

europea ha continuato a muoversi sui binari dell’incremento produttivo di

un’area economica comune, senza quella partecipazione dei cittadini che

avrebbe conferito un profilo autenticamente politico alle sue istituzioni.

«L’unione politica si è attuata sopra le teste delle popolazioni come un progetto

elitario»115. Sebbene siano state estese le competenze del Parlamento, tale

acquisizione da parte dei cittadini non potrà essere percepita sino a che entro le

sfere pubbliche nazionali l’usuale spettro delle opinioni non verrà allargato ai

relativi temi, e dunque finché dette sfere pubbliche non si apriranno

osmoticamente l’una all’altra116.

L’altra questione irrisolta rimane quella circa le finalità dell’Unione Europea.

Ciò dimostrò formalmente lo stato di profonda paralisi in cui si trova ancora

oggi l’Europa. Il conflitto tra euroscettici e integrazionisti appare insanabile. In

questo contesto, a smuovere la situazione devono essere, secondo Habermas,

proprio gli integrazionisti, giacché i primi traggono vantaggio proprio dalla

situazione di stallo in cui versa il continente. Essi dovrebbero perseguire

114 Ibidem.115 Ibidem.116 Ivi, p. 24.

61

l’obiettivo non tanto di uno Stato federale – ormai storicamente anacronistico –

ma di un perfezionamento di istituzioni e procedure che renda possibile una

comune politica estera e di sicurezza internazionale su fondamenta

democratiche, oltre alla graduale armonizzazione delle politiche fiscali ed

economiche e un allineamento delle politiche sociali117.

Il crollo

Nel 2008 il mondo precipitò nella più imponente crisi economica dai tempi

del ‘29. La bolla speculativa dei mutui sub-prime deflagrò a cavallo tra

settembre e ottobre. L’indice Standard & Poor 500, termometro dello stato di

salute della finanza mondiale, in poco più di due settimane segnò una flessione

del 25 percento, con ondate di vere e proprie vendite da panico in alcuni giorni

che rievocarono crolli storici del mercato come quello del martedì nero del 29

ottobre 1929. La crisi finanziaria si trasmise rapidamente all’economia reale.

Nel 2009 si assistette ad una pesante recessione, cui seguì, a partire dal 2010,

una parziale ripresa.

In Europa la crisi produsse un aumento vertiginoso dei debiti sovrani che

spaventò gli investitori. I paesi bisognosi di rifinanziare i propri bilanci non

ottennero più i prestiti necessari ad interessi ragionevoli. Grecia, Irlanda,

Portogallo, Spagna e Italia si dimostrarono i paesi più in difficoltà. In verità, la

situazione era – se non altro da un punto di vista generale – ampiamente

prevedibile, se persino uno studioso distante dalla teoria economica come

Habermas nel 1999 scriveva:

L’Unione europea rappresenta oggi un ampio spazio continentale che,

densamente strutturato dal mercato sul piano orizzontale, dispone tuttavia

in verticale di una relativamente debole regolazione politica da parte di

autorità solo indirettamente legittimate. Dal momento che gli stati membri

hanno ceduto la loro sovranità monetaria alla Banca centrale, e dunque si

sono privati della possibilità fiscale di modificare i cambi, noi vedremo porsi

117 Ivi, p. 25.

62

problemi di tipo nuovo nel prevedibile inasprirsi della concorrenza entro

l’area monetaria unificata.

Finora costituite in senso nazionale, le economie si collocano a livelli diversi

di sviluppo e si modellano secondo stili economici diversi. Finché da questa

mescolanza eterogenea non sarà nata una economia integrata, l’interagire dei

singoli spazi economici – ancora incastonati in sistemi politici diversi – darà

sempre origine a frizioni.118

La devastante crisi finanziaria portò semplicemente alla luce l’antico difetto

di costruzione dell’Unione: l’asimmetria tra la compiuta unificazione economica

e l’incompiuta unificazione politica.

L’8 maggio 2010, a Bruxelles, venne resa nota la decisione dei capi di

governo dell’Unione europea di istituire un fondo comune di salvataggio

dell’euro sotto attacco: il Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF). D’ora in

avanti i contribuenti dell’eurozona avrebbero risposto congiuntamente dei rischi

di bilancio degli altri Stati membri. L’iniziativa ha un forte valore simbolico, in

quanto ricorda che «in un area economica di estensione continentale e con un

enorme numero di abitanti è sorto un mercato comune con una moneta (in

parte) comune, ma senza istituire su un piano europeo competenze sulla cui

base coordinare efficacemente le politiche economiche degli Stati membri

[corsivo mio] »119. È chiaro, però, che a un incremento delle competenze

dovrebbe accompagnarsi un incremento della partecipazione popolare. Non si

può permettere, ad esempio, che la Commissione controlli preventivamente i

bilanci nazionali – cioè prima ancora che siano presentanti ai parlamenti

nazionali – senza che una simile ingerenza non costituisca una violazione dei

Trattati e non intensifichi, in misura inaudita, le carenze da tempo sussistenti in

fatto di democrazia120. «Un efficace coordinamento delle politiche economiche

deve avere come conseguenza di rafforzare le competenze del Parlamento di

Strasburgo e finirà col far valere anche in altri settori della politica il bisogno di

118 J. Habermas, Lo stato nazionale europeo sotto il peso della globalizzazione; in La costellazione postnazionale, cit., p. 117.

119 J. Habermas, Abbiamo bisogno dell’Europa! La nuova intransigenza: siamo ormai indifferenti al destino comune?, in Il ruolo dell'intellettuale e la causa dell'Europa. Saggi, cit., p. 49.

120 Ivi, p. 50.

63

un coordinamento migliore»121. Anche e soprattutto in un momento di grave

crisi finanziaria, la soluzione habermasiana ripiega su di un incremento di

democrazia.

L’Unione Europea potrà stabilizzarsi a lungo termine soltanto se sotto la

coazione degli imperativi economici farà i passi ormai indispensabili per

coordinare le politiche essenziali, non nello stile burocratico-gabinettistico

sinora consueto, ma percorrendo la via di una sufficiente ratificazione

giuridica democratica.122

Ma precisamente, a vent’anni di distanza dal Trattato di Maastricht che

istituisce l’Unione europea, come è possibile definire questa entità politica

radicalmente nuova? E come è possibile colmare la distanza tra la fatticità e la

norma nella maniera più conforme alla natura della “cosa” stessa? Habermas,

nel suo ultimo lavoro sulla questione, individua due innovazioni costituzionali

che fanno dell’Unione Europea un qualcosa di totalmente inedito.

1) Nell’Ue «il porre in essere il diritto e l’imporlo si attuano su piani

diversi»123. Ciò significa che, mentre negli stati federali la competenza di

modificare la Costituzione (Kompetenz-Kompetenz) resta in mano agli

organismi federali, nel sistema europeo il diritto dell’Unione ha la preminenza

su quello degli stati membri, benché gli organi dell’Unione non dispongano della

competenza sulle competenze. La comunità sovranazionale si costituisce come

una comunità giuridica e tutela l’obbligatorietà del diritto dell’Unione senza

però avere la copertura del monopolio del potere e la facoltà della decisione

ultima124. L’Unione non dispone dunque dei potenziali sanzionatori necessari a

rendere cogenti le proprie deliberazioni, i quali rimangono nelle mani degli Stati

membri. «E i monopolisti del potere statale consentono a farsi ingaggiare per

l’attuazione di un diritto europeo che deve essere “convertito” in termini

nazionali»125. Ciò dimostra che i Trattati hanno effettivamente istituito un piano

121 Ibidem.122 J. Habermas, Questa Europa è in crisi, cit., p. 51.123 Ivi, p. 54.124 Ivi, p. 55.125 Ibidem.

64

giuridico (parzialmente) autonomo, non più dipendente dal diritto degli Stati

membri, e hanno così instaurato un rapporto giuridico diretto tra organi

dell’Unione e cittadini europei. Ricapitolando: gli Stati membri monopolizzanti

il potere si assoggettano al diritto di una comunità che nei loro confronti non

può rivendicare alcuna competenza per cambiarne la Costituzione126. Questo

fatto apparentemente incomprensibile, si spiega, a detta di Habermas, a partire

dalla seconda, e più importante, innovazione.

2) La sovranità nell’Unione Europea, è suddivisa fra cittadini e Stati127. In

seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, infatti, la procedura di

codecisione è divenuta la procedura legislativa ordinaria dell’Unione128. Con essa

il Parlamento interviene attivamente nel processo legislativo comunitario, non

limitandosi a fornire pareri, ma potendo modificare il testo sottoposto dalla

Commissione agli organi legislativi dell’Unione. Ciò significa che «i cittadini

partecipano in modo duplice al costituirsi della comunità politica di livello

superiore, nel loro ruolo di futuri cittadini dell’Unione e come appartenenti a

uno dei popoli dei rispettivi Stati. Perciò anche la Costituzione dell’Unione

Europea […] conserva come tutti gli ordinamenti giuridici moderni un carattere

rigorosamente individualistico: si basa in ultima analisi sui diritti soggettivi dei

cittadini. È dunque più coerente riconoscere come l’altro soggetto della

Costituente non gli Stati membri ma i loro popoli»129. Gli individui, dunque,

sono al contempo cittadini dello Stato e dell’Unione. È certo evidente che, come

in uno stato federale, una tale molteplicità di lealtà130 potrebbe generare

conflitti in seno alle prospettive di giustizia, dinanzi a problematiche di volta in

volta differenti131. Ma la differenza decisiva risiede nel fatto che «la divisione del

126 Ivi, p. 57.127 Ivi, p. 64.128 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, art. 294.129 J. Habermas, Questa Europa è in crisi, cit., p. 65.130 «Del cittadino verso il suo governo e verso le istituzioni europee; di ogni governo verso i propri

elettori e verso gli altri governi; delle istituzioni europee verso tutti i cittadini europei e verso i governida cui esse in sostanza sono composte». Cfr. L. Bonanate, L’ interesse nazionale dell’Unione europea:il problema politologico della politica estera europea, cit., p. 122.

131 «Ciò che conta all’interno di uno Stato nazionale come orientamento al bene comune si trasforma sulpiano europeo in una generalizzazione di interessi particolare, circoscritta al proprio popolo, che puòentrare in conflitto con quella generalizzazione di interessi estesa all’Europa intera e attesa nel lororuolo di cittadini dell’Unione». Cfr. J. Habermas, Questa Europa è in crisi, cit., p. 66.

65

potere costituente divide la sovranità all’origine della comunità da costituire e

non solo alla fonte della comunità costituita»132. Vale a dire che mentre uno

stato federale è costituito unicamente dalla totalità dei suoi cittadini nazionali,

l’Unione deve invece essere pensata come se la sua fondazione fosse stata posta

in essere da cittadini che si sono suddivisi sin dall’inizio di due personae133.

Ma da queste osservazioni cosa è possibile dedurre? Innanzitutto che non è

più sufficiente la concezione negativa per la quale l’Unione non sarebbe né una

confederazione di Stati né uno Stato federale. Pertanto, se i Trattati hanno

permesso la trasformazione di una comunità sovrastatale in un’Unione politica

di durata indeterminata, l’espressione più idonea per definire la natura della

carta fondamentale dell’Ue – attualmente il Trattato di Lisbona – è “Trattato

costituzionale”. Tale ossimoro sembra poter «segnalare, rispetto alla

Costituzione democratica di uno Stato federale nazionale, la particolarità in

forza della quale l’Unione Europea vuole essere intesa come una comunità

sovrastatale, anche se democraticamente costituita»134.

Ma la conclusione più decisiva è inerente al fatto che «la sovranità divisa

fornisce il metro delle esigenze di legittimazione di una comunità

sovranazionale destatalizzata»135. Se gli Stati di diritto democratici sono infatti

conquiste permanenti e figure viventi di una giustizia esistente, i cittadini

dell’Unione possono

avere un fondato interesse a che il rispettivo Stato nazionale continui a

svolgere, anche nel ruolo di uno Stato membro, lo sperimentato ruolo di

garante del diritto e della libertà. Gli Stati nazionali sono qualcosa di più di

una mera incarnazione di culture nazionali degne d’essere conservate; essi

garantiscono un livello di giustizia e di libertà che i cittadini vogliono veder

conservato.136

Dal punto di vista procedurale ciò significa che la medesima parità giuridica

attribuita a popoli e cittadini europei come soggetti costituenti, occorrerebbe

132 Ivi, p. 67.133 Ibidem.134 Ivi, p. 60.135 Ivi, p. 71.136 Ivi, p. 70.

66

applicarla anche per ciò che riguarda competenze e funzioni legislative. «In tutti

i campi della politica si dovrebbe dar vita a un equilibrio delle competenze fra

Consiglio Europeo e Parlamento di Strasburgo»137.

Ora, è impossibile non notare un mutamento profondo del giudizio di

Habermas rispetto al fatto europeo. Mentre in precedenza la sua critica

s’innestava sul disegno di un’Europa federale, oggi le sue pretese normative

sembrano smorzarsi. L’ambizioso progetto di Altiero Spinelli, annichilito dai

continui fallimenti di un continente prudente al limite della pavidità, lascia il

passo ad un programma più sobrio. Il filosofo muove da una posizione più

spiccatamente federalista, sostenuta ottimisticamente dalla fine degli anni '80,

per finire con il cedere, con le pubblicazioni degli ultimi anni, al disincanto. Pur

non attestandosi mai su posizioni integralmente funzionalistiche, è però

innegabile un avvicinamento di Habermas alla galassia pragmatica di quello che

potremmo definire un “federal-funzionalismo” europeo138. Un disegno

dell'Europa gradualistico – quindi in accordo ai funzionalismi “puri” – con forti

tonalità normative, che guardano con sospetto alle lacune dell'Unione Europea.

Continuando a non smentire il suo carattere più ricorrente, Habermas si pone in

mezzo alle polarizzazioni, mediando tra gli estremi una posizione che integra il

realismo in una visione di lungo respiro.

137 Ivi, p. 72.138 A dimostrazione di ciò sta la diversa valutazione che Habermas dà delle norme costituzionali

europee. Mentre nel 2003 egli sembra criticare l’associazione dei termini “trattato” e “costituzione”,nel 2011 già saluta tale ossimoro come il neologismo più adatto a definirne la natura. Se in precedenzatale accostamento connotava indeterminatezza, ora denota novità, innovazione, specificità.Dal punto di vista dell’individuo, se mi è concesso di trattarne in questi termini, la “quantità” diimpegno normativo appare sì accentuata, giacché estesa oltre le frontiere fin nella dimensione globaledella pace e della tutela dei diritti umani. Ma dal punto di vista strettamente europeo, rispetto allaconcezione di un’Europa federale, l’idea di un’Europa comunitaria sgrava la stessa da doveri chevengono riservati al livello inferiore agli Stati nazionali, a quello superiore all’Onu. Se gli Stati Unitid’Europa sembrano oggi un orizzonte obsoleto è proprio perché la concezione di essi è carica di unbagaglio normativo troppo gravoso, non realizzabile allo stato attuale.

67

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IndicePrefazione..........................................................................................3

Un progetto ambizioso: il diritto cosmopolitico................................6

Una sfida globale................................................................................................. 8

Fondamenti........................................................................................................ 11

Costituzionalizzazione del diritto internazionale.............................................23

Sfera pubblica e Costituzione europea.............................................28

Verso Maastricht................................................................................................31

Il Trattato sull’Unione europea.........................................................................38

L’Europa verso il nuovo millennio....................................................................44

Dopo l’11 settembre: il ruolo dell’Europa nello scacchiere internazionale.....48

Fallimento di una costituzione per l’Europa.................................................... 53

Il Trattato di Lisbona........................................................................................ 60

Il crollo...............................................................................................................62

Bibliografia......................................................................................68

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