CULTURA ED UNITÀ NAZIONALE - revigliasco.it · to unico non può essere che la proclamazione...

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1. Le celebrazioni di un even- to unico Per il nostro Paese l’even- to unico non può essere che la proclamazione dell’unità dell’Italia, riconosciuta indi- pendente nel 1861. Da quella storica svolta, che segnava il risveglio di un popolo, deciso ad affermarsi come realtà na- zionale, nessuno più sarebbe stato legittimato a pronun- ziare il commento attribuito da Lamartine, ai delusi visi- tatori stranieri: «L’Italia? È un paese di morti». Nell’oscuro momento politi- co che stiamo attraversando, ben vengano degne celebra- zioni dei sacrifici e del san- gue versato, in nome della fede identitaria che ci hanno insegnato a chiamare Patria. Si sta dicendo che ha senso, sì, e non certo folcloristico, testimoniare oggi l’apparte- nenza alla Nazione italiana, riconoscersi nel ricordo di quello che siamo stati e veri- ficare la volontà di continua- re a progettare un avvenire comune, con altri cittadini, uniti a noi da tradizioni di terra e di cultura. Per quante distruzioni si pos- sano arrecare ad una civiltà come la nostra, sarà difficile dissipare un patrimonio spi- rituale ricco come quello che ci ha lasciato il Risorgimen- to. Non sarà possibile torna- re ad essere, secondo il giu- dizio sprezzante di Klemens Wenzel Lothar, principe di Metternick-Winnemburg, non una nazione europea, ma nulla di più che «una espres- sione geografica». Per evitare la tentazione del- la retorica di parte, lascia- mo parlare uno straniero. Si tratta di uno studioso serio come Denis Mark Smith: «nel 1861 le cinque Grandi Poten- ze d’Europa erano divenute sei, ed in ogni paese libero l’opinione pubblica guardava con simpatia ed ammirazione alla rinascita dell’Italia. Co- me e perché ciò avvenne costi- tuisce uno dei temi più appas- sionanti della storia moder- na. L’Italia del Risorgimento era ben diversa dall’Italia del Rinascimento». Nella penisola italiana risul- tavano insediate, nel Cinque- cento, circa ottanta strutture cittadine, inserite in una de- cina di piccoli stati, parago- nabili a delle regioni. Molti eventi intermedi caratteriz- zarono i successivi tre secoli, sinché all’inizio dell’Ottocen- to, le popolazioni furono in grado di valutare il distacco tra il loro potere, affievolito dal frazionamento politico e quello cresciuto presso gli sta- ti unitari, dove il tempo aveva lavorato alla creazione della ricchezza, dell’organizzazio- ne, degli armamenti. Nelle grandi formazioni, co- me la Francia e l’Inghilterra, i cittadini non solo avevano costruito, con costanza e se- condo un disegno organico, la struttura dello Stato, ma si erano mostrati disponibili ad eliminare i regnanti indegni o inadeguati per la guida dei popoli. Gli staterelli italiani, per secoli indeboliti dalle divi- sioni, sembravano rassegnati ad una politica di sopravvi- venza. La sorpresa dell’Europa fu proprio il Risorgimento ita- liano, quando emersero i ca- ratteri, poco noti, di una po- polazione che si svegliava dal sonno ipnotico, per agire ed ottenere riconoscimenti che smentivano la triste fama del suo servilismo. La rivolta ri- sorgimentale fu lunga, fati- cosa, segnata da esiti incerti; ma, alla fine, portata a compi- mento con l’unità d’Italia. Le prove generali della rinnova- ta dignità ed energia si ebbe- ro con le sollevazioni dei pa- trioti nello Stato Pontificio. Il 14 marzo 1848 lo Statuto fu pubblicato tra l’esaltazione dei cittadini di formazione li- berale. Il 2 aprile successivo, Pio IX pronunziò l’allocuzione con cui lo ritrattava, non ac- cettando che il popolo impu- gnasse le armi contro i catto- lici austriaci. Dai tumulti po- polari che seguirono, nacque, il 9 febbraio 1849, la Repub- blica romana, mentre il Pa- pa si rifugiava a Gaeta. A Ro- ma rientrò nell’aprile 1850, schiacciando i patrioti con le armi di Francia, Austria, Spagna e Napoli, nazioni le- gate al Cattolicesimo da inte- ressi di stato. Ernesto Ragionieri, uno stori- co di valore, nella sua ricerca dal titolo Italia giudicata of- fre una vasta documentazio- ne della tormentata Questio- ne romana. L’Europa intera esprimeva il giudizio concor- de che la scelta più felice degli italiani fosse stata quella di respingere il primo progetto di Gioberti che intendeva uni- ficare l’Italia ponendo il Papa a capo della Nazione. 2. Protagonisti della rivolu- zione risorgimentale Era, dunque, un’Italia diver- sa, da quella rinascimentale a portare il peso di precarie ere- dità. Ma, erano diverse anche le risorse umane su cui poter contare. Si trattava di perso- ne dotate di sensibilità socia- le, di matura intelligenza po- litica, di coraggio combattivo. La spinta all’unificazione non era maturata come coscien- za nazionale. La penisola, co- me è noto, aveva accettato, a lungo, l’autonomia di più governi municipali. L’idea di unificare queste organizzazioni era frutto, in particolare, della speranza di risolvere vantaggiosamente squilibri economici, ammini- strativi e legislativi, incre- ivi e legislativi, incre- mentando, per di più, la capa- cità militare complessiva de- gli associati. Le vittorie napoleoniche ave- vano portato ideali umanitari in tutta l’Europa, cambiando l’atmosfera politica. La cadu- ta dell’Imperatore aveva in- franto il sogno di gloria dei francesi; ma, il vento di li- bertà della rivoluzione conti- nuava a farsi sentire. Dalla concentrazione delle energie, i popoli dell’Italia divisa si aspettavano concreti vantag- gi: l’eliminazione delle barrie- re doganali, il miglioramento delle vie di comunicazione, l’aggiunta di nuove industrie a quelle sorte per la fornitura di armi all’esercito francese. Si faceva strada la convin- zione che lo sviluppo avreb- be creato posti di lavoro per i giovani. Occorrevano, inol- tre, persone preparate per le funzioni della dirigenza.. Con tutto ciò lo stato unitario re- stava il sogno di pochi visio- nari, provenienti soprattutto dalla piccola-media borghe- sia. Tra le schiere dei patrio- ti, che andavano a farsi am- mazzare nelle rivolte, si rico- noscevano, in maggioranza, le camicie bianche degli studen- ti. Quando Radetzky rientrò a Milano dopo le cinque gior- nate di sollevazione, il popolo, temendo la rabbiosa ritorsio- ne austriaca, invocò clemen- za, chiamandosi fuori causa, col grido: «Ghe stà i sciori», sono stati i signori. L’avveramento di quella sorta di miracolo chiamato Risorgi- mento dipese da uomini come Mazzini, Garibaldi e Cavour. Mazzini è stato definito, a ra- gione, l’apostolo dell’unità d’I- talia. Di convinzioni ferma- mente laiche, anzi, anticleri- cali, pose a disposizione della causa le sue migliori energie, a volte chiedendo agli affiliati una devozione quasi religiosa alla missione che doveva riu- nire le genti italiane in una libera repubblica. I suoi me- todi di lotta non sortirono esi- ti felici. Numerosi focolai in- surrezionali si spensero quasi sempre tragicamente, senza risultati. Garibaldi eccelleva tra i gene- rali dell’epoca. La sua genero- sità non aveva limiti. L’ambi- zione era rivolta alla Patria e alla difesa dei deboli di tutto il mondo. Le gesta ne aveva- no fatto un mito. Trascinava gli uomini con il solo esempio. Non disponeva di istruzione strategica militare; ma risul- tò il migliore in campo, nella guerriglia. A Cavour si dovevano ricono- scere doti che ne facevano un politico colto, riservato, tena- ce. Quando non voleva espri- mersi, vi riusciva con signori- le disinvoltura. Godeva della piena fiducia del giovane so- vrano. Senza approfittarne, pur nel rispetto del cerimo- niale, badava a non apparire servizievole. Si può afferma- re che il disegno complessivo, che concluse la faticosa mar- cia verso l’unità nazionale, fu essenzialmente, se non unica- mente, il suo. Tra le migliori risorse personali che gli stori- ci gli hanno attribuite, spicca- va la straordinaria inventiva con cui sapeva sorprendere anche uomini di stato di con- sumata esperienza. CULTURA ED UNITÀ NAZIONALE 50, 100, 150… non stiamo dando i numeri. Sono le tappe del cammino della nostra Italia unita e Riasch Giurnal vuole ricordare con le immagini dell’epoca, gli avvenimenti che hanno fatto da contrappunto ai festeggiamenti del 1911 e del 1961. Celebrare l’Unità, al di là di ogni possibile retorica, per noi, significa fermarsi a considerare il percorso fatto sin qui, come siamo cambiati, cosa abbiamo perso e cosa abbiamo guadagnato. Si festeggia non per celebrare un marcatore identitario, ma per fare il punto su come eravamo e per elaborare un concetto nuovo di Italia, più competitiva, creativa, progettuale e aperta. Ricordarci da dove siamo partiti può esserci d’aiuto. 2011

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Page 1: CULTURA ED UNITÀ NAZIONALE - revigliasco.it · to unico non può essere che la proclamazione dell’unità dell’Italia, riconosciuta indi- ... testimoniare oggi l’apparte-nenza

1. Le celebrazioni di un even-to unico

Per il nostro Paese l’even-to unico non può essere che la proclamazione dell’unità dell’Italia, riconosciuta indi-pendente nel 1861. Da quella storica svolta, che segnava il risveglio di un popolo, deciso ad affermarsi come realtà na-zionale, nessuno più sarebbe stato legittimato a pronun-ziare il commento attribuito da Lamartine, ai delusi visi-tatori stranieri: «L’Italia? È un paese di morti».Nell’oscuro momento politi-co che stiamo attraversando, ben vengano degne celebra-zioni dei sacrifici e del san-gue versato, in nome della fede identitaria che ci hanno insegnato a chiamare Patria. Si sta dicendo che ha senso, sì, e non certo folcloristico, testimoniare oggi l’apparte-nenza alla Nazione italiana, riconoscersi nel ricordo di quello che siamo stati e veri-ficare la volontà di continua-re a progettare un avvenire comune, con altri cittadini, uniti a noi da tradizioni di terra e di cultura.Per quante distruzioni si pos-sano arrecare ad una civiltà come la nostra, sarà difficile dissipare un patrimonio spi-rituale ricco come quello che ci ha lasciato il Risorgimen-to. Non sarà possibile torna-re ad essere, secondo il giu-dizio sprezzante di Klemens Wenzel Lothar, principe di Metternick-Winnemburg, non una nazione europea, ma nulla di più che «una espres-sione geografica».Per evitare la tentazione del-la retorica di parte, lascia-mo parlare uno straniero. Si tratta di uno studioso serio come Denis Mark Smith: «nel

1861 le cinque Grandi Poten-ze d’Europa erano divenute sei, ed in ogni paese libero l’opinione pubblica guardava con simpatia ed ammirazione alla rinascita dell’Italia. Co-me e perché ciò avvenne costi-tuisce uno dei temi più appas-sionanti della storia moder-na. L’Italia del Risorgimento era ben diversa dall’Italia del Rinascimento». Nella penisola italiana risul-tavano insediate, nel Cinque-cento, circa ottanta strutture cittadine, inserite in una de-cina di piccoli stati, parago-nabili a delle regioni. Molti eventi intermedi caratteriz-zarono i successivi tre secoli, sinché all’inizio dell’Ottocen-to, le popolazioni furono in grado di valutare il distacco tra il loro potere, affievolito dal frazionamento politico e quello cresciuto presso gli sta-ti unitari, dove il tempo aveva lavorato alla creazione della ricchezza, dell’organizzazio-ne, degli armamenti.Nelle grandi formazioni, co-me la Francia e l’Inghilterra, i cittadini non solo avevano costruito, con costanza e se-condo un disegno organico, la struttura dello Stato, ma si erano mostrati disponibili ad eliminare i regnanti indegni

o inadeguati per la guida dei popoli. Gli staterelli italiani, per secoli indeboliti dalle divi-sioni, sembravano rassegnati ad una politica di sopravvi-venza.La sorpresa dell’Europa fu proprio il Risorgimento ita-liano, quando emersero i ca-ratteri, poco noti, di una po-polazione che si svegliava dal sonno ipnotico, per agire ed ottenere riconoscimenti che smentivano la triste fama del suo servilismo. La rivolta ri-sorgimentale fu lunga, fati-cosa, segnata da esiti incerti; ma, alla fine, portata a compi-mento con l’unità d’Italia. Le prove generali della rinnova-ta dignità ed energia si ebbe-ro con le sollevazioni dei pa-trioti nello Stato Pontificio.Il 14 marzo 1848 lo Statuto fu pubblicato tra l’esaltazione dei cittadini di formazione li-berale. Il 2 aprile successivo, Pio IX pronunziò l’allocuzione con cui lo ritrattava, non ac-cettando che il popolo impu-gnasse le armi contro i catto-lici austriaci. Dai tumulti po-polari che seguirono, nacque, il 9 febbraio 1849, la Repub-blica romana, mentre il Pa-pa si rifugiava a Gaeta. A Ro-ma rientrò nell’aprile 1850, schiacciando i patrioti con le armi di Francia, Austria, Spagna e Napoli, nazioni le-gate al Cattolicesimo da inte-ressi di stato.Ernesto Ragionieri, uno stori-co di valore, nella sua ricerca dal titolo Italia giudicata of-fre una vasta documentazio-ne della tormentata Questio-ne romana. L’Europa intera esprimeva il giudizio concor-de che la scelta più felice degli italiani fosse stata quella di respingere il primo progetto di Gioberti che intendeva uni-ficare l’Italia ponendo il Papa

a capo della Nazione.

2. Protagonisti della rivolu-zione risorgimentale

Era, dunque, un’Italia diver-sa, da quella rinascimentale a portare il peso di precarie ere-dità. Ma, erano diverse anche le risorse umane su cui poter contare. Si trattava di perso-ne dotate di sensibilità socia-le, di matura intelligenza po-litica, di coraggio combattivo. La spinta all’unificazione non era maturata come coscien-za nazionale. La penisola, co-me è noto, aveva accettato, a lungo, l’autonomia di più governi municipali. L’idea di unificare queste organizzazioni era frutto, in particolare, della speranza di risolvere vantaggiosamente squilibri economici, ammini- strativi e legislativi, incre-ivi e legislativi, incre-mentando, per di più, la capa-cità militare complessiva de-gli associati.Le vittorie napoleoniche ave-vano portato ideali umanitari in tutta l’Europa, cambiando l’atmosfera politica. La cadu-ta dell’Imperatore aveva in-franto il sogno di gloria dei francesi; ma, il vento di li-bertà della rivoluzione conti-nuava a farsi sentire. Dalla

concentrazione delle energie, i popoli dell’Italia divisa si aspettavano concreti vantag-gi: l’eliminazione delle barrie-re doganali, il miglioramento delle vie di comunicazione, l’aggiunta di nuove industrie a quelle sorte per la fornitura di armi all’esercito francese.Si faceva strada la convin-zione che lo sviluppo avreb-be creato posti di lavoro per i giovani. Occorrevano, inol-tre, persone preparate per le funzioni della dirigenza.. Con tutto ciò lo stato unitario re-stava il sogno di pochi visio-nari, provenienti soprattutto dalla piccola-media borghe-sia. Tra le schiere dei patrio-ti, che andavano a farsi am-mazzare nelle rivolte, si rico-noscevano, in maggioranza, le camicie bianche degli studen-ti. Quando Radetzky rientrò a Milano dopo le cinque gior-nate di sollevazione, il popolo, temendo la rabbiosa ritorsio-ne austriaca, invocò clemen-za, chiamandosi fuori causa, col grido: «Ghe stà i sciori», sono stati i signori.L’avveramento di quella sorta di miracolo chiamato Risorgi-mento dipese da uomini come Mazzini, Garibaldi e Cavour. Mazzini è stato definito, a ra-gione, l’apostolo dell’unità d’I-talia. Di convinzioni ferma-mente laiche, anzi, anticleri-cali, pose a disposizione della causa le sue migliori energie, a volte chiedendo agli affiliati una devozione quasi religiosa alla missione che doveva riu-nire le genti italiane in una libera repubblica. I suoi me-todi di lotta non sortirono esi-ti felici. Numerosi focolai in-surrezionali si spensero quasi sempre tragicamente, senza risultati.Garibaldi eccelleva tra i gene-rali dell’epoca. La sua genero-

sità non aveva limiti. L’ambi-zione era rivolta alla Patria e alla difesa dei deboli di tutto il mondo. Le gesta ne aveva-no fatto un mito. Trascinava gli uomini con il solo esempio. Non disponeva di istruzione strategica militare; ma risul-tò il migliore in campo, nella guerriglia.A Cavour si dovevano ricono-scere doti che ne facevano un politico colto, riservato, tena-ce. Quando non voleva espri-mersi, vi riusciva con signori-le disinvoltura. Godeva della piena fiducia del giovane so-vrano. Senza approfittarne, pur nel rispetto del cerimo-niale, badava a non apparire servizievole. Si può afferma-re che il disegno complessivo, che concluse la faticosa mar-cia verso l’unità nazionale, fu essenzialmente, se non unica-mente, il suo. Tra le migliori risorse personali che gli stori-ci gli hanno attribuite, spicca-va la straordinaria inventiva con cui sapeva sorprendere anche uomini di stato di con-sumata esperienza.

CULTURA ED UNITÀ NAZIONALE

50, 100, 150… non stiamo dando i numeri. Sono le tappe del cammino della nostra Italia unita e Riasch Giurnal vuole ricordare con le immagini dell’epoca, gli avvenimenti che hanno fatto da contrappunto ai festeggiamenti del 1911 e del 1961. Celebrare l’Unità, al di là di ogni possibile retorica, per noi, significa fermarsi a considerare il percorso fatto sin qui, come siamo cambiati, cosa abbiamo perso e cosa abbiamo guadagnato. Si festeggia non per celebrare un marcatore identitario, ma per fare il punto su come eravamo e per elaborare un concetto nuovo di Italia, più competitiva, creativa, progettuale e aperta. Ricordarci da dove siamo partiti può esserci d’aiuto.

2011

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3. Cultura e pensiero filosofi-co. Contributi all’ideale uni-tario

Sin da epoca antecedente all’Ottocento le risorse cul-turali, vive nella penisola italiana, godevano di buona reputazione presso gli stati europei. Erano viste con inte-resse, e con una certa curiosi-tà, le proposte d’arte e di pen-siero provenienti da genti, pressoché prive di basi etni-che comuni, non amalgama-te in un’unica realtà politica; ma, proprio per questo origi-nali e libere creativamente. Popolazioni legate al suolo, che aveva generato la civiltà latina, beneficiaria dei lasci-ti della cultura greca, aveva-no cercato e saputo trovare la consapevolezza, almeno umanistica, di un sentire co-mune. Erano il grande respi-ro degli scritti di Manzoni e di Verga, le vibranti musi-che verdiane, l’eccelsa poesia di Leopardi a confermare la consistenza di un grande pa-trimonio lirico.E la filosofia? È possibile at-tribuirle un contributo al progetto risorgimentale? Il panorama filosofico italia-no rifletteva i due principali orientamenti dell’epoca: un

pensiero illuministico, per qualche verso incline al po-sitivismo (Romagnosi, Catta-neo, Ferrari) ed una posizio-ne teorica vicino alla metafi-sica tradizionale (Galluppi, Rosmini, Gioberti).Antonio Rosmini, sacerdo-te di Rovereto, pensatore di grande tempra, sosteneva che la conoscenza umana si fonda su idee innate di origi-ne divina. Diffidava, per con-tro, delle nozioni acquisite tramite l’esperienza, perché basate sulle sensazioni fal-libili dell’uomo. Quanto alla politica, affermava il prima-to della persona (che è il fi-ne della creazione) sulla or-ganizzazione dello stato (che è solo un mezzo). Sostene-va il diritto dei cittadini al-la proprietà privata ed alle più importanti libertà civi-li: di opinione, di stampa, di religione, di insegnamento. Nell’opera famosa Le cinque piaghe della Chiesa, pronun-ziava severi giudizi sui mali che minavano l’edificio della Chiesa di Roma: la distanza tra il clero ed i fedeli, la man-canza di unità tra i vescovi, l’interferenza del potere se-colare negli affari della Chie-sa; ma, al tempo stesso, la mancanza dell’obbligo di uf-ficializzare il rendiconto dei beni ecclesiastici. Quando il Papa Pio IX fuggì a Gaeta, Rosmini che lo accompagna-va, gli suggerì, invano, di ri-entrare a Roma e tener fede al patto costituzionaleAnche all’ecclesiastico tori-nese Vincenzo Gioberti do-veva toccare una incerta for-tuna politica. Di fede mazzi-niana, partecipava ad atti-vità patriottiche. Scoperto, veniva arrestato. Emigrava a Parigi. Nel 1842 rientrava in Patria e pubblicava Del pri-mato morale e civile degli Ita-

liani sollevando un’ondata di sentimenti patriottici. Veni-va eletto deputato. Poi nomi-nato ministro ed, infine, Pre-sidente del Consiglio. Ma la sua politica risultò impopola-re ed egli scelse di riprendere la via dell’esilio.La sua visione filosofica della realtà avversava l’idealismo, in quanto pensiero che riferi-sce solo a se stesso il processo della conoscenza. Allo stesso modo era nemico del critici-smo e dello scetticismo, che negavano la realtà totaliz-zante di Dio. Gioberti fonda-va la conoscenza umana sul sapere, assolutamente certo della divinità. Assegnava al Risorgimento italiano il com-pito della ricostruzione mo-rale e materiale d’Italia, me-diante unificazione, sotto l’e-gida di Roma, della resisten-za dei cattolici alla minaccio-sa avanzata dei non credenti. Ammetteva che la guida poli-tica e militare della Penisola potesse essere affidata al Re piemontese, purché nell’os-servanza dell’autorità del Pontefice.Il milanese Carlo Cattaneo sosteneva che la saggezza della filosofia dovesse mo-strarsi nella vita di ogni gior-

no. Accusava di astrattezza il pensiero di Rosmini, consi-derandolo inidoneo a miglio-rare le condizioni dei citta-dini: suggeriva, anche nella gestione della vita pubblica, l’adozione di metodi positivi, prossimi a quelli sperimen-tati dalla ricerca scientifica. Considerava il federalismo la sola forma di unità che sia compatibile con la liber-tà, con la spontaneità con la natura. Spronava i cittadini all’attiva partecipazione alla vita politica mediante la co-stituzione di federazioni na-zionali, organizzate in un’u-nica Federazione degli Stati Uniti d’Europa.

4. Oltre l’ufficialità. I proble-mi del 1861

Realizzato il sogno risorgi-mentale della riunione delle genti d’Italia nello stesso ter-ritorio, in un’unica formazio-ne politica, sotto la guida del monarca sabaudo che poteva vantare onorate tradizioni, i cittadini che avevano cre-duto nella causa nazionale, potevano manifestare il loro compiacimento.Lo Statuto albertino del 1848 costituì la legge fondamenta-

le del Regno per i cento an-ni successivi. L’art. 65, stabi-lendo: «Il Re nomina e revo-ca i suoi ministri» conferiva a Vittorio Emanuele II, po-teri sovrani superiori a quel-li spettanti al Re di Prussia. Ma questi poteri non poteva-no bastare senza la radica-le evoluzione della coscienza del popolo. L’unità naziona-le richiedeva un’educazione civica che prendesse il posto del puro individualismo. I se-mi del nazionalismo liberale portati dall’esercito di Napo-leone non potevano bastare. Occorreva conquistare, con il sentimento e con la ragione, l’identificazione dello Stato con i suoi cittadini. È quasi impossibile compila-re l’elenco dei problemi pra-tici che il nuovo Regno si tro-vò ad affrontare: Tra questi figurano sicuramente: i rap-porti economici tra lo Stato e la Chiesa, l’annessione di Venezia e Roma, la storica arretratezza del Meridione, l’estensione della rete ferro-viaria e l’unificazione dello scartamento del materiale rotabile, il banditismo, le or-ganizzazioni malavitose, ad iniziare dalla mafia, l’analfa-betismo. Ma fra tante spine, la più dolorosa, era la que-stione romana, il vulnus ac-cusato dalla Chiesa, la crisi spirituale di cui soffrivano i cattolici. Nelle lotte risorgimentali, gli intellettuali avevano fat-to la loro parte e molti di loro avevano pagato di persona l’impegno politico che aveva disturbato non solo gli inte-ressi dell’Austria e dei suoi alleati, ma anche quelli del Papa, unico capo spiritua-le del Cattolicesimo ed, allo stesso tempo, unico monarca assoluto ancora regnante.

Certo, la filosofia non ha qua-si mai fornito ricette pronte per la politica. I filosofi han-no osservato costantemente la buona abitudine di litigare tra loro, dando la sensazione di non essere affidabili. Ma, il lavoro compiuto sugli idea-li ha prodotto apprezzabili ri-sultati. Rosmini, innanzitut-to, e lo stesso Gioberti ave-vano invogliato i cattolici ad aprirsi alla laicità dello Sta-to. A distinguere, quanto me-no, tra potere spirituale e po-tere temporale. A non teme-re che le rivolte, che infiam-mavano l’Europa, avrebbero portato la fine del mondo. A non attribuire alle rivendica-zioni dei popoli il fine di con-trastare l’Autorità divina. I cittadini cercavano semplice-mente di ottenere garanzie di libertà civile e miglioramenti economico-sociali per le clas-si più povere.Cattaneo va ricordato non so-lo per l’acutezza e la lungimi-ranza del suo federalismo, di cui sarebbe opportuno, pro-prio oggi, una rivalutazione, ma per la generosità del tem-peramento, per il senso di profonda solidarietà umana, per l’intuizione di un sistema federale che accresce le na-zioni, non le divide. Non ri-sulta se tra i suoi progetti vi fosse quello di adottare un’u-nica lingua per la Federazio-ne Europea che sognava. Se Cattaneo vivesse oggi, pro-babilmente non inviterebbe i giovani a studiare, accanto all’italiano, i dialetti locali. Forse, alla lingua nazionale ne affiancherebbe un’altra, diffusa al punto da poter ser-vire come passaporto, per il mondo.

Armando Zopolo

CULTURA E PENSIERO FILOSOFICO

2011