Cultura e potere · riconosciuti: primo tra tutti quello che riguarda la ricerca scientifica, la...

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75 Cultura e potere La storia della parte del mondo che si rifà alla matrice greco- cristiana ci fornisce la dimostrazione del fatto che la cultura — nel senso alto della parola — fiorisce là dove si trova il potere e si isterilisce nei luoghi che il potere abbandona. I casi più manifesti di questa correlazio- ne sono stati l’abbandono da parte delle scienze e delle arti del territorio della Grecia antica dopo che questa, concluso il ciclo storico della città- Stato, aveva perso, con la conquista macedone prima e quella romana poi, la sua indipendenza di fatto; e la generale decadenza della civiltà in Italia dopo che questa fu esclusa dal processo della nascita e del consolidamento dello Stato moderno nell’Europa del Rinascimento. Va da sé che le vicende del potere e quelle della cultura presentano co- munque uno sfasamento temporale. Quello della nascita, della fioritura e della morte di una cultura è un processo lento, che presuppone la formazione di una società colta e di una tradizione che il potere non può decretare da un giorno all’altro e che ha un grado di inerzia che ne prolunga la durata anche dopo che la situazione di potere è mutata. Non per nulla la fioritura della cultura greca è continuata relativamente a lungo anche dopo la fine della Guerra del Peloponneso, che ha segnato la fine della potenza ateniese nel Mediterraneo; mentre il Rinascimento italiano ha dato frutti straordinari per un lungo periodo dopo la discesa di Carlo VIII e dopo che il sogno di unità di Machiavelli si era rivelato irrealizzabile; e si è prolungato, grazie al mecenatismo papale, fin nel- la Roma del ’600. Ma la correlazione esiste: e ciò è tanto vero che, malgrado la diffusione della cultura greca a Roma e nel territorio del- l’impero di Alessandro Magno, l’area geografica dell’antica Grecia, dopo le conquiste macedone e romana, è culturalmente scomparsa per due millenni dal proscenio della storia e all’Italia è toccata una sorte analoga per tre secoli. Si tratta di un fatto di rilievo incalcolabile perché la cultura è il campo nel quale lo spirito esprime le sue potenzialità più elevate e rende la vita umana degna di essere vissuta. La desertificazio-

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Cultura e potere

La storia della parte del mondo che si rifà alla matrice greco-cristiana ci fornisce la dimostrazione del fatto che la cultura — nel sensoalto della parola — fiorisce là dove si trova il potere e si isterilisce neiluoghi che il potere abbandona. I casi più manifesti di questa correlazio-ne sono stati l’abbandono da parte delle scienze e delle arti del territoriodella Grecia antica dopo che questa, concluso il ciclo storico della città-Stato, aveva perso, con la conquista macedone prima e quella romanapoi, la sua indipendenza di fatto; e la generale decadenza della civiltàin Italia dopo che questa fu esclusa dal processo della nascita e delconsolidamento dello Stato moderno nell’Europa del Rinascimento. Vada sé che le vicende del potere e quelle della cultura presentano co-munque uno sfasamento temporale. Quello della nascita, della fioriturae della morte di una cultura è un processo lento, che presuppone laformazione di una società colta e di una tradizione che il potere non puòdecretare da un giorno all’altro e che ha un grado di inerzia che neprolunga la durata anche dopo che la situazione di potere è mutata. Nonper nulla la fioritura della cultura greca è continuata relativamente alungo anche dopo la fine della Guerra del Peloponneso, che ha segnatola fine della potenza ateniese nel Mediterraneo; mentre il Rinascimentoitaliano ha dato frutti straordinari per un lungo periodo dopo la discesadi Carlo VIII e dopo che il sogno di unità di Machiavelli si era rivelatoirrealizzabile; e si è prolungato, grazie al mecenatismo papale, fin nel-la Roma del ’600. Ma la correlazione esiste: e ciò è tanto vero che,malgrado la diffusione della cultura greca a Roma e nel territorio del-l’impero di Alessandro Magno, l’area geografica dell’antica Grecia,dopo le conquiste macedone e romana, è culturalmente scomparsa perdue millenni dal proscenio della storia e all’Italia è toccata una sorteanaloga per tre secoli. Si tratta di un fatto di rilievo incalcolabile perchéla cultura è il campo nel quale lo spirito esprime le sue potenzialità piùelevate e rende la vita umana degna di essere vissuta. La desertificazio-

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ne culturale di una regione di grandi tradizioni artistiche e scientifichesignifica quindi per le generazioni che vi si succedono la disumanizzazio-ne e l’imbarbarimento della convivenza.

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Un fenomeno simile è in corso oggi in Europa nei confronti degli Stati

Uniti. Alcuni suoi aspetti sono così evidenti da essere generalmentericonosciuti: primo tra tutti quello che riguarda la ricerca scientifica, lacui condizione in Europa è deplorevole (con la parziale eccezione, chevale peraltro non solo per la ricerca scientifica, ma per la cultura ingenerale, della Gran Bretagna, grazie ai suoi legami privilegiati dinatura politica, storica e linguistica con gli Stati Uniti). E’ noto che ungiovane europeo con attitudini alla ricerca deve compiere la scelta do-lorosa tra la rinuncia alla propria vocazione e l’emigrazione verso gliStati Uniti (o, in subordine, la Gran Bretagna). E’ così che gli Statidell’Europa continentale si sobbarcano l’onere della formazione digiovani scienziati di valore per mandarli a produrre risultati scientificioltreoceano (dove peraltro la scuola secondaria si trova in uno statolamentevole e svolge in modo insufficiente il suo compito formativo).

Un altro aspetto di indiscutibile evidenza è quello della culturapopolare, che va dal modo di vestire, all’alimentazione, alla musicaleggera, al cinema, al linguaggio quotidiano. Si tratta del fenomenolargamente deplorato, ma non compreso, dell’americanizzazione dellasocietà. Si noti che in questo campo il pericolo non sta soltanto nellavolgarità della cultura popolare americana. Quando un prodotto sirivolge a un pubblico di centinaia di milioni di persone difficilmente es-so si sottrae al pericolo di essere volgare: e comunque assai spesso i suc-cedanei nostrani di certe espressioni della cultura popolare americanale superano largamente in volgarità. Il problema vero è che questo è ilsegno di una crescente incapacità dell’Europa di produrre cultura, chenon si arresta alla frontiera — peraltro assai mal definita — tra culturapopolare e cultura nel significato elevato della parola, ma sta coinvol-gendo in modo sempre più evidente il campo di quest’ultima. Del restole pretese «eccezioni culturali» rivendicate da questo o quel paeseeuropeo sono in genere eccezionali soltanto per la loro mediocrità.

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Bisogna ricordare che la grande maggioranza degli artisti viventi o

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comunque attivi di recente nel campo delle arti visive è o è stata attivanegli Stati Uniti o in Gran Bretagna, dove esistono i più grandi museid’arte moderna (oltre che molti dei più grandi musei d’arte in generale),le più grandi case d’aste, le più grandi gallerie e i più grandi collezionistiprivati. Lo stesso discorso vale per la letteratura. Gli scrittori dispongo-no, se si esprimono in inglese, di un enorme mercato potenziale e diun’editoria in grado di soddisfarne le richieste, mentre in Europa essisono scoraggiati dalle dimensioni asfittiche del mercato e dalle aleedella traduzione, spesso arbitraria nella scelta dei testi, sempre impos-sibile nel caso della poesia e imperfetta in quello della narrativa. NewYork è il più grande laboratorio mondiale dell’architettura contempora-nea (anche se Berlino ha avuto una grande — anche se effimera —capacità di attrazione in questo settore quando essa è diventata ilsimbolo della riunificazione tedesca). Americani e inglesi sono i piùgrandi teatri di prosa del mondo, in grado di proporre continuamentenuovi autori e di formare e rinnovare grandi compagnie o compagniesperimentali di giovani. Come accade per le scienze della natura, cosìper la politica, l’economia e le scienze sociali le scuole più prestigiose sitrovano negli Stati Uniti (e in parte in Gran Bretagna), e in quei paesisono pubblicate le riviste più importanti, tanto che la più grandedistinzione per uno studioso non anglosassone del settore è quella dipoter pubblicare un proprio contributo in una di esse. Non si dimentichiinfine il grande strumento di diffusione della cultura che è costituito daInternet e il grande beneficio che gli Stati Uniti traggono dal loro so-stanziale controllo della rete, dal divario tecnologico che li avvantaggianei confronti dell’Europa e dalla conseguente migliore qualità dei lorositi. Le sole parziali eccezioni a questo processo di impoverimento cul-turale dell’Europa che è forse possibile ipotizzare riguardano la musicacolta e la storiografia: la prima perché è indissociabile dalla continuareinterpretazione di grandi opere del passato; la seconda perché traestimolo e giovamento dalla circostanza che l’Europa è l’ambito territo-riale nel quale si è svolta, fino alla prima metà del XX secolo, la grandemaggioranza degli avvenimenti che hanno generato l’attuale civiltàoccidentale e nel quale esistono i maggiori depositi di documenti attra-verso i quali essi possono essere studiati.

Ma l’America (e in parte la Gran Bretagna) non è soltanto terra diimmigrazione di artisti e uomini di cultura. Essa è anche terra diimportazione di prodotti culturali. Mentre i governi e i privati europeisvendono il proprio patrimonio artistico e culturale per far quadrare iloro bilanci, Stati Uniti e Gran Bretagna lo incrementano con ingenti e

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continui acquisti. In questo modo l’immensa ricchezza artistica chel’Europa di oggi ha ereditato dal suo lungo passato viene progressiva-mente depauperata a profitto del mondo anglosassone per l’incapacitàdi conservarla e di gestirla, così come in passato i patrimoni di civiltàdecadute o scomparse, come quelle italiana, egizia, assiro-babilonese egreca, erano stati saccheggiati dalle grandi monarchie europee.

Ciò non significa che in America esistano soltanto o prevalentementeartisti e uomini di cultura di valore, mentre in Europa non ne esistereb-bero più. Il fatto che sull’America (e in parte sulla Gran Bretagna) sianopuntate le luci della ribalta attribuisce spesso una notorietà immeritataa ciarlatani e a venditori di fumo, mentre il fatto di lavorare nell’ombrae in mezzo a mille difficoltà in Europa può favorire la maturazione, anchese spesso misconosciuta, di veri talenti. Ma l’esistenza di una chiaralinea di tendenza alla trasmigrazione della cultura verso gli Stati Uniti(e in parte verso la Gran Bretagna) non può essere negata, perché l’im-pulso che il mecenatismo pubblico e privato hanno dato in quei paesi a-gli strumenti per la sua creazione e diffusione crea una comunità nellaquale ai ciarlatani si mescolano i talenti, ed entrambi contribuiscono acreare un’atmosfera nella quale questi ultimi trovano comunque inco-raggiamenti e stimoli decisivi.

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Il potere influenza la cultura sia attraverso commesse dirette di

prodotti culturali da parte dei governi nazionali o di quelli regionali elocali e delle loro agenzie, soprattutto nei settori dell’architettura e del-la scultura, che attraverso la creazione della condizioni per l’estensionee il rafforzamento del mercato della cultura. La cultura, e l’arte in par-ticolare, hanno bisogno di un vasto pubblico colto e ricco che apprezzied acquisti i suoi prodotti e di un ambiente che stimoli, offrendo modellie suggestioni e creando legami di conoscenza, la creatività di coloro chela producono, come è accaduto a Parigi, Vienna e Berlino fino all’avven-to del nazismo o all’inizio della seconda guerra mondiale. Per questo ènecessario che il potere, oltre a promuovere la diffusione della ricchez-za, incoraggi la creazione delle istituzioni (biblioteche, musei, teatri, entimusicali) che consentono lo sviluppo di una vera e propria comunità trai produttori e i fruitori di cultura e di arte, incentivi il mecenatismo eabolisca, grazie ad una legislazione uniforme, le barriere alla circola-zione dei prodotti culturali. In ogni caso è necessario che la societàinteressata produca un surplus che possa essere destinato, tramite

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l’iniziativa pubblica o il mecenatismo, che comunque persegue l’inte-resse pubblico, alla promozione della cultura. Ed è un dato di fatto cheoggi questo surplus viene prodotto dall’economia della potenza ameri-cana, e in minor misura del suo satellite britannico, mentre non vieneprodotto dalle economie asfittiche degli Stati dell’Europa continentale,condizionate dalla loro divisione ad una strutturale politica deflazionisti-ca che non lascia spazio ad iniziative intese ad incoraggiare la ricercae la creazione.

E’ evidente, è bene ripeterlo, che ciò non significa che anche oggi nonpossano esistere grandi spiriti isolati, per i quali l’elaborazione dellacultura è un fatto esclusivamente interiore. Ma si tratta di eccezioni. Nonè un caso che in genere la cultura si concentri in località che produconoe attraggono da tutto il mondo letterati e artisti. E oggi i bacini di utenzacostituiti dagli Stati del continente europeo non sono più né abbastanzavasti né abbastanza ricchi da fare delle loro capitali dei grandi centri dielaborazione e di attrazione delle scienze e delle arti.

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Un importante veicolo per la formazione di un mercato e di unambiente della cultura è indubbiamente la lingua. L’esistenza di unalingua comune costituisce un humus importante per far germogliare ediffondere nuove esperienze, anche in quelle espressioni che non siservono direttamente del veicolo del linguaggio. Ma la lingua non è unfatto neutrale rispetto al potere. Essa segue il potere e si diffonde tantopiù quando più è vasta la sfera di influenza del paese (o di uno dei paesi)nei quali essa è parlata come lingua madre. L’attuale egemonia dell’in-glese non è che il risultato dell’egemonia degli Stati Uniti nel mondo.

Ma, al di là di questi fattori, di natura in ultima istanza materiale,gioca un ruolo decisivo l’esistenza di quello slancio spirituale che èsempre presente nei popoli il cui potere è in espansione, e si affloscia neipopoli che non sanno darsi un’organizzazione statuale capace di affron-tare i problemi della loro epoca, e che il potere abbandona. Si tratta cioèdell’importanza, per un rigoglioso sviluppo della cultura, dell’esistenzadi una comunità politica legata da un forte sentimento di solidarietàfondato anche, se non soltanto, sulla consapevolezza delle proprie re-sponsabilità nei confronti del resto del mondo o, in passato, della suaparte conosciuta. Non si deve dimenticare che la musica, la danza, lapoesia, il teatro hanno avuto la loro origine nelle feste che periodicamen-te riunivano le comunità primitive per rafforzare i legami di apparte-

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nenza dei loro membri. Nelle grandi civiltà attuali non è più pensabilefar partecipare periodicamente i cittadini a grandi spettacoli collettivi,nei quali ognuno di essi diventi insieme creatore e spettatore. Ma irapporti tra cultura e senso di appartenenza non si sono per questorilasciati, pur avendo cambiato di natura. Anche se rimane vero cheesiste una cultura della decadenza, che si prolunga al di là del periododi massima fioritura di un popolo, è un dato di fatto che i periodi di piùintensa vita culturale sono quelli nei quali coloro che ne sono i protago-nisti sono consapevoli di creare per una comunità che ha un ruolo dasvolgere e una missione da compiere nel mondo. In America (e in partein Gran Bretagna) la consapevolezza di questo ruolo c’è, per quanto sene possano criticare le manifestazioni. Negli Stati in disfacimento del-l’Europa continentale la consapevolezza di questo ruolo non c’è, per ilsemplice motivo che essi non hanno più alcun ruolo.

A ciò si aggiunga un’ultima considerazione, che non è certo la menoimportante. Proprio perché la cultura ha bisogno di un pubblico, ènecessario che le sue creazioni siano esposte, rappresentate, eseguite epubblicate in luoghi sui quali si concentra l’attenzione dell’umanità. Equesti luoghi sono in primo luogo quelli nei quali si esercita il potere,quelli nei quali si prendono le decisioni dalle quali dipende il destino diciascuno.

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L’attuale fioritura culturale degli Stati Uniti non è senza ombre. Al

contrario. Essi sono un paese giovane, che della giovinezza ha la vitali-tà, ma anche, in molti aspetti della sua civiltà, la rozzezza. A ciò si ag-giunga che il prolungato esercizio da parte della potenza americana diresponsabilità mondiali sia prima che dopo la fine della Guerra freddaha avuto un pesante costo in termini sia economici che politici. L’attualepotere degli Stati Uniti è quindi insieme imponente e fragile. Esso è messoin discussione in quasi tutte le regioni del mondo nelle quali vieneesercitato, e negli Stati Uniti stessi, e si afferma quasi esclusivamentegrazie alla forza militare, anziché grazie ad una coincidenza di fondo tragli interessi della potenza egemone e quelli dei suoi alleati o satelliti. Ciònon può non avere conseguenze nell’ambito della cultura, nel quale ilpredominio americano si afferma comunque a prezzo di contestazioni; ela qualità della produzione culturale della potenza egemone soffre delfatto di essere parzialmente messa al servizio dei disegni di un poterespesso brutale, e che insieme non è all’altezza delle proprie responsabi-

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lità. Si tratta di un tipo di egemonia che non può non essere accompa-gnata da un’atmosfera nazionalista e imperialista che comporta gravicadute di obiettività e di gusto. Ciò non toglie che il predominio ame-ricano, per quanto sostenuto assai debolmente da chi lo subisce, è de-stinato a permanere fino a che non si profilerà nel mondo un equilibrioalternativo, nel quale nuovi poli si affianchino agli Stati Uniti pergarantire un ordine mondiale più pacifico e fondato sul consenso e lacollaborazione. Questo nuovo equilibrio, lungi dall’indebolire, rafforze-rebbe, insieme a quello degli altri poli, il potere degli Stati Uniti,rendendolo più solido e più stabile. Ma fino a che ciò non accadrà,l’egemonia culturale americana, per quanto basata su canoni e modelliin parte viziati da una situazione di potere fortemente squilibrata, nonsoltanto permarrà, ma si accentuerà.

Resta il fatto che il predominio culturale degli Stati Uniti, a causadelle condizioni nelle quali viene esercitato, non compensa la decadenzadella cultura europea e segna una fase di generale impoverimento dellacultura mondiale. Perché questa tendenza si inverta è necessario chenegli USA la cultura si liberi da ogni condizionamento nei confronti diun potere in difficoltà e dell’ideologia sulla quale questo fonda i rapporticon i suoi cittadini; e che essa riprenda slancio in Europa, cioè nellaregione del mondo che è stata l’alveo nel quale le arti, le scienze e lafilosofia si sono sviluppate lungo un percorso storico durato duemila-cinquecento anni, dando un enorme contributo all’attuale stadio diavanzamento civile del genere umano. La responsabilità di questo mu-tamento epocale non grava certo sugli Stati Uniti, bensì sull’Europa, chesoltanto con la propria unità politica potrebbe riacquistare il potereperduto, assumere di nuovo le responsabilità mondiali che le competonoe creare così le condizioni politiche per il proprio risveglio culturale. Sinoti che non si tratta di far rinascere nostalgie eurocentriche, né distabilire pretese gerarchie tra le culture. Il rilancio di un polo culturaleeuropeo non potrebbe che stimolare quello di altri poli (cinese, islamico,indiano) che hanno alle spalle una storia altrettanto antica e gloriosaquanto quella europea, e che l’esempio europeo stimolerebbe a creare lecondizioni politiche della propria rinascita e della propria inserzione apieno titolo nel processo di maturazione della cultura mondiale.

Il Federalista

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L’Europa nel 2002

UGO DRAETTA

1. La Convenzione ed il suo mandato.

Il 2002 sarà un anno di fondamentale importanza per l’Europa. Il 1°marzo 2002, infatti, ha iniziato i suoi lavori la Convenzione cui ilConsiglio europeo di Laeken, nel dicembre 2001, ha affidato il mandatodi preparare i lavori della prossima Conferenza intergovernativa di re-visione dei Trattati, prevista per il 2004 (o fine 2003 — se l’Italia riescea farla coincidere con il suo semestre di presidenza dell’Unione europea).

Due considerazioni preliminari si impongono al riguardo. 1) Dopo ilTrattato di Maastricht siamo entrati in un processo di revisione generalepermanente del Trattato di Roma. La prima revisione generale fu effet-tuata con l’Atto Unico europeo nel 1986, a quasi trent’anni dal Trattatodi Roma. La seconda ebbe luogo dopo sei anni, nel 1992, con il Trattatodi Maastricht. Dopo Maastricht sono stati conclusi, in un breve lasso ditempo e in rapida accelerazione, il Trattato di Amsterdam, quello di Niz-za (che potrebbe non entrare nemmeno in vigore se venisse superato daglieventi) ed ora si lavora già ad una nuova revisione. Ciò dimostra che a)lo status quo per quanto riguarda i trattati comunitari non appare essereun’opzione, b) riforme radicali sono indispensabili e c) tali riforme nonsono state realizzate in misura soddisfacente né a Maastricht, né adAmsterdam, né a Nizza. 2) E’ stato molto pubblicizzato il nuovo metodocon cui si arriverà alla prossima revisione dei Trattati, sottolineandol’importanza che della Convenzione facciano parte rappresentanti deiparlamenti (nazionali ed europeo). Al di là della retorica ufficiale, va peròricordato che il processo di revisione dei Trattati è ancora saldamentenelle mani dei governi nazionali. La Convenzione, infatti, ha una funzio-ne importante, senz’altro, ma solo propositiva. Essa non deciderà nulla;le decisioni finali spetteranno sempre ai governi riuniti nella Conferenzaintergovernativa che si terrà nel 2004 (o 2003).

Gli stessi governi nazionali, in occasione del Consiglio europeo diLaeken, hanno definito il mandato da affidare alla Convenzione. Tale

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mandato è centrato su due esigenze fondamentali, da lungo tempodibattute ed ormai improrogabili: a) assicurare una maggiore democra-ticità al processo di integrazione europea, nonché b) garantire ai cittadi-ni europei diritti costituzionali su base europea. Il Consiglio europeo diLaeken ha evitato, però, nella formulazione del suo mandato alla Con-venzione, di accennare a possibili risposte a tali esigenze e, anzi, la de-finizione del mandato stesso è caratterizzata da una notevole ambiguitàe contraddittorietà nell’affrontare i problemi attuali del processo di inte-grazione europea, come cercheremo di spiegare in prosieguo.

2. Il problema del deficit democratico.

Cominciamo con il chiarire cosa si intende generalmente per deficitdemocratico dell’Unione europea, problema individuato da tempo comeelemento suscettibile di inquinare alla radice la legittimità delle istitu-zioni comunitarie.

In linea teorica, per deficit democratico si intende a) il mancato oinsufficiente coinvolgimento dei cittadini nella elezione degli organi chedetengono il potere legislativo (in uno Stato democratico il poterelegislativo è del parlamento eletto democraticamente), nonché b) l’insuf-ficiente livello di responsabilità politica di organi che prendono decisioniesecutive che riguardano direttamente i cittadini.

Esiste un deficit democratico nell’Unione europea? La risposta nonpuò essere che affermativa, nella misura in cui: 1) il Consiglio dell’U-nione europea emette regolamenti (che sono atti legislativi) applicabilidirettamente ai cittadini, ma questi non eleggono il Consiglio, che è,invece, espressione degli esecutivi degli Stati membri. Il Parlamento eu-ropeo, che è eletto dai cittadini, ha al massimo un diritto di veto. Quindi,nell’Unione europea è l’esecutivo che gode del potere legislativo, unasituazione simile a quella prevalente in Europa prima della rivoluzionefrancese. 2) La Commissione — che dispone di alcuni poteri decisoriimportanti, per esempio in materia antitrust o di fondi strutturali — nonè sottoposta ad un effettivo controllo politico, come avviene, invece, peranaloghi organi degli Stati membri all’interno degli Stati membri stessi.La mozione di sfiducia che può votare il Parlamento europeo neiconfronti della Commissione non è assolutamente paragonabile all’ana-logo istituto con cui l’organo legislativo controlla il governo negli or-dinamenti interni. Basti pensare che né il Parlamento europeo è organolegislativo, né la Commissione è comparabile ad un governo, essendo, tral’altro, composta di individui politicamente indipendenti. Si aggiunga

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che, specie nel campo del controllo delle concentrazioni, anche il control-lo giudiziario da parte della Corte di Giustizia e del Tribunale di PrimoGrado sull’operato della Commissione è largamente carente. Si pensi allimitato effetto pratico della recente sentenza del Tribunale di PrimoGrado, nel caso Airtours (1), che ha annullato una decisione dellaCommissione del 1999, con la quale veniva vietata tale operazione: laconcentrazione fu illegittimamente vietata ma non si può certo realizzar-la ora a distanza di tanto tempo. Uguale discorso può farsi per la Bancacentrale europea, che non ha una responsabilità politica analoga a quellacui sono sottoposte le Banche centrali nazionali nei loro rispettivi paesi.

Una certa retorica comunitaria contesta l’esistenza di un deficitdemocratico riferendosi al fatto che, da una parte, i cittadini eleggono ilParlamento europeo e, dall’altra, i rappresentanti dei governi nel Consi-glio dell’Unione europea sono espressione delle maggioranze parlamen-tari nei rispettivi Stati di appartenenza.

Sotto il primo profilo, l’elezione diretta del Parlamento europeo nonvale a sanare il deficit democratico, in quanto il Parlamento europeo nonè dotato di poteri legislativi, ma solo, al massimo, di un diritto di veto. Puòparalizzare l’attività comunitaria, non determinarla. Inoltre, e proprio invirtù di tale carenza, è un dato sotto gli occhi di tutti che le elezioni delParlamento europeo, che avvengono nei singoli Stati membri e non alivello europeo, di fatto non comportano un dibattito che verta su temieuropei, ma costituiscono una verifica della tenuta delle rispettive coali-zioni nazionali, una sorta di mid-term elections all’americana. D’altraparte, una elezione ha senso nel quadro di una vera competizione per ilpotere tra opposte forze politiche. Non c’è potere effettivo al livello delParlamento europeo e non ci può essere, quindi, una vera competizionepolitica.

Quanto al controllo cui sono sottoposti i membri del Consigliodell’Unione europea da parte dei rispettivi parlamenti nazionali, questoè troppo remoto per potersi affermare che il Consiglio rappresenti il po-polo europeo, come dovrebbe rappresentarlo un organo legislativo. Unatale affermazione offenderebbe il senso comune. In verità i governinazionali sono sottoposti collegialmente al controllo dei rispettivi parla-menti per quanto riguarda la politica nazionale, non quella europea deisingoli rappresentanti che siedono nel Consiglio dell’Unione europea:quest’ultimo, collegialmente, è sottratto a qualsiasi controllo politico daparte del popolo europeo.

Chiediamoci ora se il deficit democratico dell’Unione europea siatollerabile o vada eliminato. Occorre, al riguardo, premettere alcune

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considerazioni.1) Non vi è deficit democratico allorquando la delega di funzioni da

parte degli Stati membri nei confronti di una organizzazione interna-zionale da essi creata comporta l’emanazione da parte di quest’ultimasoltanto di provvedimenti diretti agli Stati membri stessi, da essere poiimmessi da questi ultimi nei rispettivi ordinamenti interni con provvedi-menti nazionali (come si verifica, ad esempio, per le Nazioni Unite). Viè, invece, necessariamente un deficit democratico quando l’organizza-zione è delegata ad emettere provvedimenti direttamente applicabili aicittadini, all’interno degli Stati membri. In questi casi, l’organizzazionesi sostituisce, infatti, agli Stati membri, nell’esercizio di funzioni interne.Gli esempi di tali provvedimenti direttamente applicabili ai singoli sono,per la verità, pochi in organizzazioni internazionali diverse dalle Comu-nità europee — sostanzialmente il fenomeno si verifica solo nella Or-ganizzazione per la aviazione civile internazionale (ICAO) e nellaOrganizzazione mondiale della sanità (OMS) ed è limitato ad aspettitecnici —, ma assumono una dimensione notevole in campo comunita-rio, date le vaste competenze delegate alle Comunità europee da partedegli Stati membri.

2) Finché la Comunità europea era una comunità economica (sostan-zialmente fino al Trattato di Maastricht del 1992), il deficit democraticoera tollerabile. Si trattava di instaurare un mercato comune e, poi, conl’Atto Unico europeo, un mercato interno ed il sacrificio di democraticitàappariva compensato dai vantaggi derivanti ai cittadini dall’integrazioneeconomica. Quando, invece, la delega di funzioni da parte degli Statimembri alla Comunità europea (dal Trattato di Maastricht in poi) hacominciato a toccare funzioni legislative in altri campi, per esempioquello sociale, della tutela dell’ambiente, di quella dei consumatori, dellaprivacy o della giustizia civile, l’ampiezza della delega stessa ha portatoall’acuirsi del problema del deficit democratico.

3) A seguito della mole imponente di provvedimenti adottati dalConsiglio, su proposta della Commissione, in questi campi così ampi, ilproblema del deficit democratico ha finito con il diventare intollerabileperché i cittadini hanno avvertito tutti questi provvedimenti come estra-nei, adottati senza un dibattito democratico, da organi che non avevanoricevuto un mandato dai cittadini stessi. Di qui la crescente disaffezioneda parte di questi ultimi all’idea di Europa, disaffezione che è sotto gliocchi di tutti e che è stata riconosciuta anche dal Consiglio europeo diLaeken, il quale, nelle sue conclusioni e nel mandato dato alla Conven-zione, dichiara necessario porvi rimedio.

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4) Parallelamente, certe decisioni della Commissione, specie inmateria di controllo delle concentrazioni, largamente contestate e, recen-temente, dichiarate anche tardivamente illegittime da parte della Corte diGiustizia, hanno messo sotto gli occhi di tutti la situazione di sostanzialeirresponsabilità della Commissione stessa.

Si è quindi ora giunti al punto che, se si vuole fare avanzare il proces-so di integrazione europea, la soluzione del problema del deficit demo-cratico non appare più dilazionabile. Due esempi valgano per tutti: 1)l’attuale Politica estera e di sicurezza comune (PESC) dell’Unioneeuropea è ancora largamente improntata a soluzioni intergovernative,cioè a contatti diplomatici di tipo tradizionale basati sulla regola dell’u-nanimità. Da molti si sostiene, invece, che una efficace politica estera edi difesa comune non possa che essere decisa a livello europeo e chequesto passaggio costituisca una tappa cruciale del progresso dell’inte-grazione europea. 2) Si sostiene ugualmente che la moneta unica nonpossa continuare ad essere sostenuta da politiche economiche nazionalicoordinate solo attraverso un patto di stabilità operante a livello inter-governativo, ma necessiti di una vera politica economica comune decisaa livello europeo, cioè una politica di bilancio europea che includa illivello di spesa pubblica e le entrate tributarie. Per inciso, molti economi-sti sostengono che, senza una politica di bilancio comune, la monetaunica costituisce una conquista precaria. Non dimentichiamo che perDelors la moneta unica fu come una scommessa in attesa dell’Europapolitica da realizzarsi nella fase transitoria, un ponte gettato sul futuro inattesa che l’Europa politica gli mettesse sotto i pilastri.

La Commissione appare condividere queste esigenze, del resto larga-mente riconosciute, ma la risposta che vi dà è quella di rivendicare per séstessa la gestione di una politica estera e di difesa comune, nonché di unapolitica economica e di bilancio comune. E’ questo, infatti, il senso dellaComunicazione della Commissione del 22 maggio 2002, intitolata UnProgetto per l’Unione europea (2). Ma non v’è chi non veda come questasoluzione aggraverebbe in misura insostenibile il deficit democratico.Una politica estera e di difesa comune può implicare scelte di caratteremilitare e le decisioni sulla guerra o sulla pace, in ogni Stato democratico,sono prese dall’organo parlamentare eletto democraticamente dai citta-dini e non possono essere delegate ad un organo come la Commissione,politicamente irresponsabile. Parimenti, una politica di bilancio implicascelte sul piano fiscale e l’imposizione tributaria non può che essereprerogativa di organi eletti dai cittadini. Quindi un’effettiva politicaestera e di sicurezza comune, nonché una politica economica comune,

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tappe fondamentali per il progresso dell’integrazione europea, nonpossono realizzarsi senza che venga prima risolto il problema del deficitdemocratico.

3. Il problema dei diritti costituzionali dei cittadini a livello europeo e ilprincipio del mutuo riconoscimento.

Veniamo ora al secondo dei temi oggetto del mandato dato allaConvenzione dal Consiglio europeo di Laeken, cioè quello di garantire aicittadini europei diritti costituzionali su base europea.

Il discorso sui diritti fondamentali dei cittadini europei si intrecciacon quello del deficit democratico e, da posizioni di partenza diverse,porta alle stesse conclusioni. Per chiarirne i termini, vale la pena ricordareche il processo di integrazione europea, condotto finora con la preoccu-pazione di salvaguardare la sovranità degli Stati membri, è stato realiz-zato attraverso due meccanismi: la delega di funzioni dagli Stati membriad organismi comunitari e il principio del mutuo riconoscimento.

Della delega di funzioni e dei suoi riflessi sul deficit democraticoabbiamo già parlato. Si può aggiungere, per sottolineare come la delegadi funzioni, oltre a creare problemi di legittimità democratica, impongail contemporaneo riconoscimento ai cittadini di effettivi diritti costitu-zionali sul piano europeo, che quando, ad esempio, la Commissione inmateria antitrust funge da pubblico ministero e da giudice allo stessotempo, senza un effettivo controllo da parte di un organo giurisdizionale,vengono violati i diritti costituzionali al contraddittorio, alla difesa, aldoppio grado di giudizio, ecc., come è stato riconosciuto da una recentesentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (3). La proposta dellaCommissione di estendere i suoi poteri in materia antitrust fino all’effet-tuazione di perquisizioni domiciliari, proposta che pare la Commissioneabbia di recente abbandonato, non farebbe che rendere più urgente l’e-sigenza di dare ai cittadini europei adeguate garanzie costituzionali nelcampo della difesa del diritto all’inviolabilità del domicilio.

Passando al mutuo riconoscimento, esso ha svolto un ruolo importan-te nel passaggio dal mercato comune al mercato interno, consentendo u-na armonizzazione delle regole relative alla libera circolazione di beni,persone, servizi e capitali sulla base dei requisiti del paese di origine e nondi quello di provenienza. In altri termini, invece che delegare funzioni al-le autorità comunitarie, gli Stati membri hanno a volte preferito conser-vare le proprie competenze, impegnandosi reciprocamente a riconoscerevalide come se fossero effettuate dai propri organi alcune certificazioni,

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autorizzazioni o controlli effettuati dai corrispondenti organi di ciascunodegli altri Stati membri. La soluzione è stata molto efficace in quanto haprovocato un livello di armonizzazione al massimo comune denomina-tore di liberalizzazione. Infatti, gli Stati che avessero lasciato in vigoreper i propri cittadini misure meno liberali di altri Stati avrebbero finitoper effettuare una discriminazione alla rovescia nei confronti dei cittadi-ni stessi.

Finché si trattava di riconoscere attività bancarie, assicurative, di-plomi e titoli di studio, prodotti alimentari, ecc., applicando le regole delpaese di origine, il principio del mutuo riconoscimento ha ben funzionatonel processo di integrazione europea. Anche l’estensione di tale principioalla circolazione delle sentenze in materia civile, nel quadro dellacreazione di uno spazio giudiziario unico per la giustizia civile, non hapresentato inconvenienti che non fossero compensati dai vantaggi che nerisultavano.

L’esigenza di fornire adeguate garanzie costituzionali ai cittadinieuropei sorge, invece, allorché si pensa di estendere il principio del mu-tuo riconoscimento al di là del funzionamento del mercato interno, percui era stato concepito, fino a comprendere altri campi, quali quello dellagiustizia penale. Le proposte relative al cosiddetto mandato di catturaeuropeo vanno appunto in questa direzione. Il problema è che con taliproposte il principio del mutuo riconoscimento verrebbe ad incidere sudiritti inviolabili della persona umana, quale quello alla libertà, cosa chepuò avvenire solo in un contesto di garanzie costituzionali proprie di unavera costituzione e di un vero Stato, garanzie assenti sul piano europeo.In altre parole, i diritti costituzionali non possono essere garantiti aicittadini indirettamente, cioè da accordi internazionali stipulati dai ri-spettivi Stati nel quadro della cooperazione intergovernativa tra di essiinstaurata, ma devono essere direttamente parte integrante del tessutocostituzionale in cui i cittadini stessi vivono ed operano.

In conclusione, quasi tutti coloro cui stanno a cuore le sorti dell’Eu-ropa riconoscono che il progresso dell’integrazione europea passa attra-verso la realizzazione di una effettiva politica estera e di sicurezzacomune, nonché di una politica economica comune, entrambe sottratte almetodo della cooperazione intergovernativa. La prima darebbe un sensoalle politiche frammentarie isolatamente condotte finora dagli Statimembri, come riconoscono le stesse conclusioni del Consiglio europeodi Laeken. La seconda garantirebbe la stabilità della moneta unica. Infi-ne, solo uno spazio giudiziario penale europeo unico sarebbe la giustarisposta alle vecchie e nuove sfide della criminalità organizzata, incluse

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quelle di matrice terroristica. Ma per raggiungere questi obiettivi occor-re prima risolvere il problema del deficit democratico e delle garanziecostituzionali a livello europeo dei cittadini.

4. L’Europa ad un bivio: la soluzione dei problemi del deficit democra-tico e dei diritti costituzionali dei cittadini europei.

La verità è che l’Europa è ad un bivio. Da una parte c’è l’alternativadi procedere sulla strada dell’integrazione estendendola ai campi appenaindicati, ma essa implica la soluzione dei problemi di cui sopra. L’altraalternativa è che il processo regredisca a livelli di integrazione menoaccentuati, nel cui ambito il deficit democratico appaia tollerabile e nonsi pongano problemi di diritti costituzionali dei cittadini a livello europeo.Lo status quo non pare essere una opzione.

La seconda alternativa, non nascondiamocelo, è quella preferita daalcuni degli Stati membri attuali, ed è presumibile, per i motivi chediremo subito, che sarà quella preferita dai nuovi Stati membri che siaffacciano alle porte dell’Unione europea.

Ma, assumendo che si voglia progredire e non regredire sulla stradadell’integrazione europea, come si risolve il deficit democratico e comesi assicurano ai cittadini europei diritti costituzionali adeguati per unafase più avanzata di integrazione? Le strade per raggiungere questiobiettivi sono, per la verità, chiare e semplici, pur se, invece, non vengonoevidenziate nel mandato dato alla Convenzione dal Consiglio europeo diLaeken, né nelle proposte della Commissione. Inoltre, tali strade sonoanche le uniche praticabili.

Per risolvere il problema del deficit democratico occorre, ovviamen-te, che l’organo fornito di potere legislativo sia eletto dai cittadini. Quin-di o si affidano poteri legislativi al Parlamento europeo, che è elettodemocraticamente, ma che non ha poteri legislativi, o si fa eleggeredemocraticamente il Consiglio, che, invece, tali poteri legislativi pos-siede, trasformandolo, quindi, in una sorta di Camera degli Stati o Sena-to di un sistema bicamerale di cui il Parlamento europeo sarebbe l’altraCamera.

Per quanto riguarda i diritti costituzionali dei cittadini europei occor-re, altrettanto ovviamente, una Costituzione europea, ma questa presup-pone uno Stato federale, in quanto si conoscono Stati senza costituzione,ma non costituzioni senza Stato. Tale Costituzione non deve soltantoelencare i diritti costituzionali dei cittadini, aspetto sul quale ci si è finoraesclusivamente concentrati, ma anche stabilire gli organi ed i processi

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decisionali a livello europeo nel quadro di quel principio della separazio-ne dei poteri che rappresenta per noi europei una conquista irrinunciabile.

Qui cominciano i problemi tra i quali langue il dibattito sul futurodell’Europa. Infatti, la semplice soluzione appena esposta comporta unainevitabile conseguenza, la quale costituisce un grosso problema per gliStati che attualmente gestiscono il processo di integrazione europea:qualora dovessero accettarla, essa implicherebbe la perdita della lorosovranità. Infatti, dare il potere legislativo nell’Unione europea ad unorgano eletto dai cittadini significa esautorare gli Stati nazionali e crea-re uno Stato federale sovrano, dotato di una propria Costituzione cheprevarrebbe su qualsiasi altra norma nazionale. Per evitare di affrontarequesta conseguenza nei suoi termini chiari e semplici, il dibattito sul-l’Europa si carica di equivoci, fumosità e disinformazione, di cui sonoresponsabili in molti, a partire dai governi degli Stati membri, dagliorgani comunitari e dai media.

Non si può, però, essere troppo severi nel giudizio su queste carenzedel dibattito sull’integrazione europea. Occorre, infatti, considerare chegli Stati sono accomunati agli individui dall’istinto di conservazione, eche, fintanto che saranno essi a gestire il processo di integrazione euro-pea non rinunceranno facilmente alla loro sovranità, con la conseguenzache, senza un drastico cambiamento di rotta, il deficit democratico nonverrà risolto, i cittadini europei non avranno diritti costituzionali garantitia livello europeo, l’Unione europea non avrà una vera politica estera e disicurezza comune, né una politica economica comune, né, infine, unospazio giudiziario penale unico. Né possono essere favorevoli allesoluzioni indicate istituzioni comunitarie quali la Commissione, cheverrebbero superate in un processo di integrazione federale.

5. I pericoli della disinformazione.

Assistiamo, quindi, ad un livello di disinformazione indegno di pae-si civili, che ha avuto per risultato quello di impedire lo sviluppo di unefficace dibattito sui veri problemi dell’Europa del 2000. A riprova dellecarenze di tale dibattito, valga l’osservazione che, mentre ci siamo tuttiinteressati della nomina di questo o quel rappresentante italiano allaConvenzione, tale interesse è apparso disgiunto dall’accertamento dellaposizione dei vari candidati sui temi in discussione.

Tutte le fonti ufficiali non possono negare — e di fatto non negano —che occorre risolvere il problema del deficit democratico, ma quasisempre si affrettano a ricordare che «realisticamente» occorre una certa

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«gradualità». Cinquanta anni di integrazione europea, evidentemente,non sono stati sufficienti ai fini di tale gradualità ed è difficile compren-dere perché i cittadini europei non meritino subito quel livello di demo-crazia e di diritti costituzionali cui hanno diritto. In verità, il grossoostacolo è la gelosa, quanto comprensibile, difesa da parte dei governidelle proprie prerogative sovrane.

Il dibattito, quindi, viene pilotato, anche da fonti qualificate come laCommissione, nel senso di creare ostilità verso il cosiddetto «Supersta-to», termine che, francamente, non appare di immediata comprensione.Se per «Superstato» si intende uno Stato europeo centralizzato, cioè nonfederale, nessuno lo ha mai proposto, non è un’alternativa presa mai inconsiderazione e non si vede perché continui ad inquinare il dibattitodistogliendolo dai veri termini del problema.

Per evitare di parlare chiaramente di Stato federale, si è coniato, poi,il termine «Federazione di Stati sovrani», in cui è insita una evidentecontraddizione, dato che in una federazione gli Stati federati non restanosovrani. Ciò avviene in una confederazione, ma la struttura confederalenon si adatta all’attuale realtà europea. Oppure si parla di «Federazionedi Stati nazionali»: se si vuole intendere con questa formula una federa-zione in cui gli Stati non perdono la propria identità culturale nazionale,questo è un risultato tipico di qualsiasi federazione ed è esattamentequello cui gli europei devono tendere.

La verità è che tra la situazione attuale di quindici Stati che restanosovrani (situazione in cui non c’è posto per ulteriori significative conqui-ste sulla strada dell’integrazione europea, e in cui, anzi, alcune di taliconquiste sono suscettibili di essere rimesse in discussione) ed unafederazione tra gli Stati europei che la vogliano (e che implica la perditadi sovranità di tali Stati) tertium non datur, non v’è soluzione intermedia.Cullarsi nell’illusione, come spesso si fa, di avere inventato una formulasui generis, capace di conciliare sovranità europea e sovranità nazionali,serve solo a perpetuare gli equivoci. Tale formula sui generis non esiste,né chi ne parla sa in effetti di cosa si tratti, tanto vero che i problemi, daMaastricht, ad Amsterdam, a Nizza, sono rimasti irrisolti ed una soluzio-ne non appare a portata di mano. La sovranità è un concetto di fatto e nondi diritto. Non porre il problema nei giusti termini significa equivocare.

L’equivoco si perpetua, poi, quando si parla di Costituzione europea.Una costituzione delinea l’assetto supremo di uno Stato (centrale ofederale) ed i diritti fondamentali dei suoi cittadini. Essa è spesso di-segnata da parte dei migliori tra tali cittadini, i padri costituenti, a talecompito legittimati dalla volontà popolare. Una costituzione rappresenta

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il supremo assetto di una determinata comunità e non può qualificarsi apriori con aggettivi quali solidale, competitiva, progressista (aggettivi,invece, spesso usati quando si parla di Costituzione europea): essa è ilrisultato delle forze politiche prevalenti in tale comunità.

Ora, la nota Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea a-dottata a Nizza non è né può essere una costituzione, al di là della retoricache la ha accompagnata. E ciò per il grosso difetto di legittimazione dicoloro che l’hanno redatta, nonché per l’assenza di un contesto statale incui inserirla. Si può certo parlare di principi fondamentali dell’Unioneeuropea, quali la libera circolazione delle persone, ma si tratta di cosadiversa da una costituzione, che delinea gli organi di uno Stato e laseparazione tra i loro poteri. Una costituzione deve infatti garantire, loripetiamo, un sistema di checks and balances tra i vari poteri dello Stato.Deve tutelare i diritti fondamentali dei cittadini. E ciò può solo avveni-re in un contesto statale.

6. Lo Stato federale europeo come risposta ai problemi dell’Europa.

La risposta ai problemi dell’Europa del 2002 è l’Europa della po-litica, che sola giustificherà l’Europa della moneta, è uno Stato federaleeuropeo. Non è vero che le alternative a disposizione per proseguire ilpercorso dell’integrazione europea si esauriscano nel metodo intergo-vernativo e nel metodo comunitario. Entrambi sono inadeguati ai tempiattuali. Il metodo intergovernativo non può più essere efficace, condizio-nato com’è dalla regola dell’unanimità. Il metodo comunitario, al di là diun certo limite ormai già superato, non assicura un adeguato livello di de-mocrazia e di diritti constituzionali ai cittadini europei. Una Federazioneeuropea è l’unica strada percorribile. Tale Federazione sarebbe necessa-riamente «leggera», sarebbe competente, cioè, solo per quelle materieche — per riconoscimento generale — vanno meglio gestite a livelloeuropeo: politica estera, di difesa, economica o di bilancio.

Il principio di sussidiarietà implicherà che altre materie resteranno dicompetenza nazionale o di competenza di enti locali a carattere regiona-le. La logica del principio di sussidiarietà è, infatti, che le decisioni va-dano prese ad un livello il più possibile vicino ai cittadini. Mentre, chia-ramente, certe decisioni vanno prese a livello europeo, perché i problemirelativi sono a tale livello, si verrà forse a scoprire che la dimensionenazionale, dove pure attualmente, e paradossalmente, si concentranotutti i poteri, non è quella giusta per molti altri problemi, che, invece,andranno meglio gestiti a livello regionale. Si soddisferanno, in tal

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modo, istanze regionali legittime le quali, in assenza di tale riconosci-mento, potrebbero incanalarsi in forme di lotta separatista.

Di conseguenza, non è fondato il timore che lo Stato federale implichila perdita delle identità nazionali, anzi queste, insieme a quelle regionali,ne risulteranno salvaguardate. Lo Stato federale europeo non sarà unoStato a noi estraneo, ma sarà il nostro Stato, che consentirà a tutti diconiugare la nostra identità locale, con quella nazionale e con quellaeuropea.

A questo punto, forse, appaiono più evidenti le ambiguità e le con-traddizioni insite nel mandato dato dal Consiglio europeo di Laeken allaConvenzione, nonché le carenze che caratterizzano il dibattito attuale sulfuturo dell’Europa. Valgano alcune brevi considerazioni in proposito: 1)tutti concordano sulla necessità di dare soluzione al problema del deficitdemocratico, ma appare quasi politically incorrect parlare dell’unicomodo per risolverlo, cioè dar vita ad uno Stato federale europeo. Anzi laparola «federazione», spesso usata dai Padri dell’Europa (De Gasperi,Adenauer, Spaak, Schuman) per identificare la tappa ultima dell’inte-grazione comunitaria, è scomparsa dal vocabolario comunitario. 2) Tutticoncordano sulla necessità di procedere sulla strada dell’integrazioneeuropea, ma si evita di spiegare come ciò possa avvenire senza risolvereil problema del deficit democratico e senza creare uno Stato federaleeuropeo. 3) Tutti concordano sulla necessità di garantire ai cittadini diritticostituzionali a livello europeo, adeguati all’attuale fase di integrazioneeuropea, ma si continua a pensare che ciò possa realizzarsi mantenendole sovranità a livello nazionale. 4) Ma il culmine dell’ipocrisia, ci siperdoni la crudezza del termine, lo si raggiunge allorché si pretende chesia possibile raggiungere tutti questi obiettivi e, allo stesso tempo, al-largare l’Unione europea fino a 21 e, forse, a 28 membri.

7. L’Europa a due velocità come unica strada percorribile.

Per spiegarci meglio, non occorre fare riferimento solo al dato piùovvio: la paralisi del processo decisionale comunitario che si verifiche-rà con l’ingresso dei nuovi Stati, specie dato che per le decisioni piùimportanti, per esempio nel campo fiscale e sociale, vige ancora la regoladell’unanimità. Questo dato è fin troppo evidente perché sia necessariosottolinearlo ulteriormente.

E’ necessario soprattutto riflettere sul fatto che una maggiore integra-zione europea, necessaria per evitare un processo di regresso, richiede sa-crifici estremi della sovranità nazionale, come appena detto. Non si può

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seriamente ritenere, a questo proposito, che gli Stati dell’Europa centra-le e orientale, che, appena usciti dal giogo sovietico, stanno da pocoassaporando la riacquistata sovranità siano disposti a rimetterla in giocoin nome dell’Europa. E’ un calcolo economico e non politico che spingequesti nuovi Stati all’adesione, come confermato dalla circostanza che lecomponenti nazionaliste sono molto forti in tutti questi Stati. La conse-guenza dell’adesione sarà una diluizione, non una intensificazione dellivello di integrazione.

Questo dato è confermato dal fatto che, non a caso, a spingere perl’allargamento siano proprio quegli Stati, tra i quindici attuali, cheritengono che ci sia già troppa «Europa» e che preferirebbero, in fondo,vedere l’integrazione comunitaria regredire al rango di una cooperazio-ne economica, dimenticando obiettivi più ambiziosi. Questo auspicio,spesso inconfessato, si tramuterà certo in realtà una volta effettuato ilprogettato allargamento dell’Unione europea. Sarà un errore storico dicui questa generazione dovrà rispondere alle successive.

La verità è che la soluzione federale prima prospettata non è proponibi-le nemmeno all’interno dell’attuale Europa a quindici Stati. Alcuni di taliStati sono dichiaratamente ostili a tale soluzione, così che l’unica stradapercorribile appare quella dell’Europa a due velocità, la cui versionecomunitaria è chiamata cooperazione rafforzata. Adottiamo tale ultimotermine, convenzionalmente, come sinonimo di Europa a due velocità,anche se esso, con il riferimento alla «cooperazione», non si adatta benea formule federali, le quali superano il concetto di cooperazione tra Stati,in quanto portano alla creazione di un nuovo Stato. Solo la stradadell’Europa a due velocità consentirà che la velocità di marcia dell’Eu-ropa non sia quella dei più lenti e più restii, e che chi voglia procedere piùspeditamente possa farlo in compagnia di chi condivide gli stessi ideali.

E’ singolare, al riguardo, che nella dichiarazione successiva al Con-siglio europeo di Laeken non vi sia alcuna menzione della cooperazionerafforzata e che, anzi, la Commissione, nella sopra menzionata Comu-nicazione del 22 maggio 2002 (4), si mostri ostile a tale soluzione.Altrettanto singolare è che le regole discusse a Nizza in merito allacooperazione rafforzata siano molto restrittive: per esempio non puòaversi cooperazione rafforzata nel campo della politica estera e disicurezza comune. Quindi, non solo alcuni Stati non vogliono procedereverso soluzioni federali, cosa comprensibile, ma questi pretendono anchedi impedire agli altri che lo facciano, cosa meno comprensibile. Questaostilità si spiega sulla base del fatto, dimostrato dai pochi esempi dicooperazione rafforzata avutisi finora (Schengen, moneta unica), che ta-

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le cooperazione ha una notevole forza di attrazione così che l’area da essacoperta tende ad espandersi. E’ proprio questo effetto calamita che gliStati ostili ad una visione federale dell’Europa vogliono scongiurare. Maquesta ostinata protezione delle prerogative sovrane di alcuni Stati ènell’interesse dei cittadini degli altri Stati?

8. Una occasione storica per una iniziativa del governo italiano.

Il processo di integrazione europea, se dovesse continuare ad esseregestito dai governi nazionali con la preoccupazione di conservare leproprie sovranità, resterà paralizzato dall’evidente conflitto tra gli inte-ressi dell’integrazione europea e quelli al mantenimento di tali sovrani-tà. Occorre una salto di qualità e non vi è molto tempo per tale salto, datoche la mancata risposta alla richiesta di «Europa» che avanza la societàcivile, porta a rigurgiti di nazionalismo estremo, xenofobia, razzismo,come è sotto gli occhi di tutti.

D’altra parte, la gelosa tutela della sovranità statale a livello degliStati europei appare sempre più anacronistica, dato che, per fattori legatialla globalizzazione, tale sovranità si sta già erodendo in misura notevole.In altri termini, il sacrificio che si richiede per realizzare una Federazioneeuropea sarebbe relativo.

Mai come in questo momento, con la Convenzione al lavoro percercare nuove soluzioni, una iniziativa coraggiosa, che si ponga sul solcodel disegno di una Federazione europea, auspicata da grandi uomini, daProudhon, a Einaudi, ad Altiero Spinelli e molti altri, farebbe la differen-za ed avrebbe una rilevanza veramente storica. Una Federazione euro-pea capace di fare sentire la propria voce di civiltà sulla scena mondiale,attualmente dominata da una sola superpotenza nelle mani della qualenon abbiamo altra scelta che affidarci per crisi anche a noi vicine, comequella dei Balcani o del Golfo.

Il governo italiano potrebbe farsi promotore di tale iniziativa, richia-mandosi al precedente creato da De Gasperi, con Altiero Spinelli, nel1953, in occasione della Comunità europea di difesa, poi naufragata su-gli scogli dell’Assemblea Nazionale francese. I tempi, ora, sono infinita-mente più maturi di quelli in cui De Gasperi operò e le chances di succes-so maggiori, nell’ambito, certo, di una nozione di cooperazione rafforza-ta estesa a formule federali. Ovviamente, dovrebbero cercarsi deglialleati e questi, presumibilmente, non potrebbero, al momento attuale,che essere individuati tra i sei Stati fondatori delle Comunità europee.Tale iniziativa finirebbe senza dubbio con l’avere un effetto trainante

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come quello avuto finora da tutte le altre forme di cooperazione raffor-zata. Nel frattempo, l’Europa comunitaria, con al suo interno un nucleofederale, potrebbe allargarsi senza complessi anche ad altri Stati oltrequelli attualmente previsti, in particolare la Russia.

In un momento di carenza di idee e di visioni, in cui il processo diintegrazione europea sembra stagnare, la semplice proposizione di unainiziativa del genere da parte del governo italiano, chiara e decisa nelsenso di un nucleo federale tra gli Stati che lo accettano, come unicasoluzione del problema del deficit democratico e delle garanzie costitu-zionali dei cittadini europei, avrebbe un grosso ritorno di immagine inogni caso e sarebbe compatibile con la contemporanea proposta diun’Europa comunitaria allargata fino alla Russia. Essa spazzerebbe ognidubbio sulla fedeltà dell’Italia agli ideali europei, costringerebbe chi èveramente contrario alla crescita del processo di integrazione europea aduscire allo scoperto e sarebbe per noi vantaggiosa anche in caso di man-cato accoglimento nell’immediato. Si tratterebbe pur sempre, infatti,dell’unica proposta di portata veramente storica in un panorama abba-stanza sconsolante, un seme gettato che potrebbe germogliare in unsecondo momento. E sarebbe merito dell’Italia avere gettato tale seme.Legando il proprio nome a tale iniziativa, l’Italia, oltre a mettersi nel sol-co di nobili ideali condivisi dai Padri fondatori dell’Europa, compirebbeanche una scelta politica opportuna e vantaggiosa in questo momento,scelta sostanzialmente priva di riflessi negativi. Un’occasione che ciauguriamo vivamente non venga persa.

NOTE

(1) Sentenza del Tribunale di Primo Grado del 6 giugno 2002, Airtours c. Commissione,caso T-342/99.

(2) COM(2002)247 def.(3) Sentenza del 16 aprile 2002 nel caso Colas.(4) COM(2002)247 def., p. 19.

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Autodeterminazione o autogoverno?

ALFONSO SABATINO

Introduzione

Le speranze di pace e di costruzione di un nuovo ordine mondialeevolutivo sorte con il crollo del muro di Berlino sono andate per ilmomento deluse. L’avvio del secolo XXI si trascina dietro alcuni nodiinsoluti del secolo precedente: l’organizzazione politica dell’umanità inStati indipendenti e sovrani, l’uso tendenziale della forza nei rapporti tragli Stati e l’ineguale distribuzione del potere di appropriarsi delle risorsedel pianeta. Tali nodi sono in contraddizione crescente con la granderivoluzione scientifica e tecnologica in corso che determina un’inter-dipendenza sempre più stretta tra gli uomini a livello mondiale e poneall’ordine del giorno della storia l’interesse generale alla pace, all’ugua-glianza, alla solidarietà.

Non a caso assistiamo a due fenomeni che sono facce della stessamedaglia. Da un lato, componenti sempre più consistenti della societàcivile, sia dei paesi avanzati che del mondo in sviluppo, rivendicano ildiritto di riappropriarsi del proprio destino e contrappongono alla glo-balizzazione dell’economia la globalizzazione dei diritti e della politica.La globalizzazione, pertanto, pone il problema della democratizzazionedegli organismi internazionali che presidiano i rapporti tra gli Stati equello del superamento della divisione politica del genere umano in Statinazionali indipendenti e sovrani. Dall’altro lato, cittadini ed enti locali eregionali subiscono l’impatto sulla vita quotidiana di fenomeni senzacontrollo. I governi nazionali non sono in grado di contrastare le ricadutenegative della globalizzazione senza governo mondiale: terrorismo edelinquenza internazionale, distribuzione ineguale della ricchezza emovimenti speculativi di capitale, instabilità occupazionale e flussimigratori clandestini. Di qui l’affermazione di una domanda politica dichiusura etnico-regionale, e la rivolta contro le istituzioni centrali delloStato che si spinge fino alla rivendicazione della secessione.

Ciò è molto pericoloso. In Europa i demoni già storicamente cono-sciuti del nazismo e dei conflitti religiosi e razziali non sono stati sconfitti.

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Ai progressi realizzati con la creazione dell’Unione europea (1993) el’avvio della moneta unica (1999) si contrappongono la disgregazionedell’URSS e quella della Repubblica federativa socialista (RFS) diJugoslavia avviate nel 1991. La minaccia della balcanizzazione avanzaanche in Europa occidentale dove si diffondono formazioni politicheispirate al nazionalismo etnico e all’intolleranza per le diversità cultura-li. Queste forze, oggi attestate su posizioni ambigue di autonomismo,potrebbero abbracciare apertamente la secessione se non fosse rapida-mente portato a termine il processo di unificazione politica dell’Europa.In altre parti del mondo (Ruanda, Kurdistan, Kashmir, Sri Lanka), iconflitti etnici, nazionali, religiosi e razziali sono certamente espressionedi diffusi deficit democratici e socio-economici, di mancanza di ordinepolitico a livello internazionale e locale, ma costituiscono a loro voltamotivo di destabilizzazione della situazione di potere mondiale. Questoè anche il caso del conflitto tra israeliani e palestinesi che si trascina daoltre mezzo secolo in assenza di soluzioni politiche capaci di assicurarela convivenza civile tra tutte le popolazioni del Medio Oriente. Il mondosi trova, quindi, di fronte all’alternativa drammatica tra la rinascita delnazionalismo e l’avvio del processo di unificazione politica dell’umanità.

Le ragioni della crisi vanno discusse e approfondite, come vannodiscusse le soluzioni, ma ciò che non può essere accettato è il ricorso alprincipio di autodeterminazione per sostenere la creazione di piccoli Sta-ti etnici dotati di una propria moneta e di un proprio esercito (questo è illimite della soluzione sostenuta dall’ONU, a partire dalla Risoluzione n.181 del 29 novembre 1947, di dividere la Palestina già sotto mandatobritannico in due Stati indipendenti per superare il conflitto israelo-palestinese). La nascita di nuovi Stati attarverso la secessione, invece digarantire la diffusione della democrazia e l’affermazione dei diritti degliindividui e delle minoranze, contribuisce ad alimentare il disordine in-ternazionale, a diffondere i conflitti armati, ad aprire nuove discriminazio-ni al loro interno nei confronti dei gruppi minoritari che inevitabilmentene farebbero parte.

Data la mescolanza nel mondo dei popoli, delle razze, delle etnie,delle religioni, delle lingue, qualsiasi Stato costruito sulle basi dell’iden-tità nazionale o etnica o razziale o religiosa è portato, in ultima istanza,all’assimilazione forzata o alla persecuzione delle minoranze apparte-nenti ad altre identità nazionali, etniche o religiose che si trovano sul suoterritorio. Ciò determina facilmente reazioni da parte dei gruppi interes-sati e degli Stati confinanti che si ergono a difesa di tali minoranze, conpossibilità di conflitti per dispute di frontiera e «ingerenze umanitarie» e

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una facile involuzione autoritaria e militarista dei governi coinvolti. Tut-to questo non favorisce la diffusione della democrazia nel mondo, nonconsente lo sviluppo mondiale delle forze della produzione, non permettel’affermazione delle istituzioni internazionali che promuovono la pace.

Di fronte alla rinascita del nazionalismo e all’instabilità internaziona-le, la posta in gioco per i federalisti rimane l’affermazione della pace intermini kantiani, attraverso la graduale costruzione dello Stato federalemondiale, possibilmente come unione finale di federazioni a caratterecontinentale o sub-continentale. In tal senso, a fronte del riconoscimentodel diritto di autodeterminazione da parte dell’ONU, si pone per i fe-deralisti la necessità di affrontare anche questo tema nel dibattito sullariforma delle sue istituzioni. Si tratta di un punto decisivo: l’ONU, comela Società delle Nazioni, fin quando sosterrà il principio della sovranitànazionale assoluta e quello di autodeterminazione, non potrà disporre deimezzi per limitare lo scontro tendenzialmente violento tra gli Stati e perrealizzare la loro coesistenza pacifica.

In ogni modo, per quanto riguarda i conflitti nazionali, interetnici ereligiosi, i federalisti non possono essere indulgenti nei confronti diconcetti e iniziative politiche che determinano ineguaglianze tra le per-sone, violazioni dei diritti del cittadino e delle minoranze, discriminazio-ni culturali, economiche e sociali, diffusione degli armamenti, disputesull’assetto dei confini, conflitti armati e crescita del disordine interna-zionale.

Le istituzioni per la pace e il governo democratico del mondo

Lo Stato federale per la pace e il governo democratico sovranazionale.

Il pensiero politico dominante non ha ancora compiuto una riflessio-ne adeguata sul rapporto tra l’interdipendenza crescente del genereumano e la necessità dell’evoluzione delle strutture di governo democra-tico sul piano internazionale. A parte i federalisti — vedi soprattuttoAltiero Spinelli ed Ernesto Rossi, Per un’Europa libera e unita. Progettodi un manifesto (Manifesto di Ventotene), 1941 e Mario Albertini, LoStato nazionale, 1960 —, nessuno mette in discussione il modello di Statoindipendente e sovrano, definibile anche Stato nazionale, che si è affer-mato dopo la rivoluzione francese. Questo tipo di Stato è entrato in crisiall’inizio del secolo XX, ha provocato due guerre mondiali, è statoripristinato e sorretto dalle potenze egemoniche nel quadro dell’equili-brio bipolare. Oggi non è capace di difendere la sua indipendenza e la sua

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sovranità esclusiva di fronte alle sfide della globalizzazione.La linea di pensiero che da Immanuel Kant (Per la pace perpetua,

1795) giunge fino a Lord Lothian (Pacifism is not enough, 1935) contieneun punto fermo: l’obiettivo della pace deve e può essere conseguito conla costruzione dello Stato mondiale. Kant non conosceva con sufficienteprecisione il modello istituzionale nato con la rivoluzione americana, mail pensiero politico del Novecento ha sottolineato che tale Stato deve a-vere strutture federali. Ciò permette di conciliare il governo efficace deirapporti tra Stati a livello mondiale con il necessario decentramento a piùlivelli del governo della società, assicurando istituzioni adeguate ai pro-blemi e vicine al cittadino. Secondo la scuola federalista solo in questomodo è possibile sostituire all’imperio della forza la forza del diritto neirapporti politici tra Stati. Si deve aggiungere che lo Stato federale mettein discussione lo Stato indipendente e sovrano, cioè il modello che si èaffermato in Europa, o in altre aree del mondo influenzate dalla culturapolitica occidentale.

Lo Stato nazionale, pur esprimendo un modello di organizzazionepolitica molto avanzata, non ha garantito la pace nei rapporti internazio-nali perché vincolato dai principi dell’indipendenza e della sovranitàesclusiva. Nessuno Stato indipendente e sovrano può estendere pacifica-mente la sua capacità di governo democratico sul territorio e sui cittadi-ni di un altro Stato. Anche tra paesi sorretti da istituzioni di governodemocratico le relazioni politiche sono fondate sull’imperio della forza.Può essere ricordato che, ad esclusione dell’Impero russo, tutte le grandipotenze che accesero il primo conflitto mondiale erano sorrette da regi-mi democratici rappresentativi e il conflitto stesso determinò la fine dellaSeconda Internazionale socialista e la crisi di legittimità dello Statonazionale.

La formula che permette di organizzare il governo sulle aree conti-nentali e a livello mondiale e di superare i limiti dello Stato nazionalenelle relazioni internazionali, valorizzando allo stesso tempo importantiobiettivi interni, quali la convivenza civile e strutture di governo vicineal cittadino, è quella del patto federale tra Stato e cittadini, in sostanzal’adozione della struttura federale nelle unioni tra Stati.

Questa struttura è già presente nel mondo. Sono unioni federali gliStati Uniti d’America, la Repubblica federale di Germania, la Confede-razione svizzera, l’India, il Brasile, ecc. In Europa occidentale si èsviluppato nella seconda metà del secolo XX un reale processo, non an-cora portato a compimento, di unificazione federale tra Stati nazionali.Questo processo possiede caratteri originali e innovativi: per la prima

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volta nella storia il tentativo federale coinvolge Stati consolidati didimensione consistente, in passato antagonisti e oggi riconciliati, porta-tori di interessi economici e sociali complessi che coinvolgono circa unquinto del Pil mondiale e oltre mezzo miliardo di persone a seguito delprossimo allargamento dell’Unione europea. Come afferma la Dichiara-zione Schuman del 1950, atto fondante del processo di unificazione,l’obiettivo comune è la costruzione della pace tra Stati e popoli preceden-temente in conflitto. L’Unione europea presenta già caratteri prefederalicon l’elezione diretta del Parlamento europeo (a partire dal giugno 1979),la realizzazione della moneta unica (1 gennaio 1999) e l’entrata in vigoredel Trattato di Amsterdam sull’Unione europea (1 maggio 1999) cheestende i poteri del Parlamento europeo nella codecisione e nel voto difiducia alla Commissione. Sono però caratteri precari, che attendono diessere consolidati con la conclusione del patto federale, ovvero con unTrattato-Costituzione istitutivo di una federazione (Stato federale) diStati e di cittadini. Il problema è all’ordine del giorno dei lavori dellaConvenzione europea in corso.

Le unioni federali riuniscono in un governo comune più Stati e i lo-ro cittadini che assumono una doppia cittadinanza, quella dello Stato diappartenenza e quella della federazione. Sul piano istituzionale questadoppia fonte di legittimazione politica dello Stato federale trova riscon-tro diretto nell’articolazione del parlamento, costituito da una Camerabassa che rappresenta il popolo dell’Unione e da una Camera alta cheriunisce le rappresentanze degli Stati membri. L’esecutivo politico, ogoverno federale, ha competenze esclusive solo sulla politica estera e didifesa, sulle dogane e sulle relazioni commerciali con l’estero, sullamoneta e sulla libertà di commercio interno, sulla tenuta della coesione.Altri campi di attività politica possono essere condivisi con gli Statimembri oppure essere di esclusiva competenza di questi ultimi. La Cortecostituzionale arbitra i conflitti di competenza tra le varie funzionifederali e tra le istituzioni federali e quelle degli Stati membri. In pratica,lo Stato federale realizza la pace attraverso il disarmo degli Stati membri(centralizzazione della politica estera e di difesa e del comando sulleforze armate), l’introduzione della moneta unica (eguale distribuzionedel potere di appropriarsi delle risorse) e la tutela giurisdizionale deldiritto nei confronti degli Stati membri e dei cittadini (Corte di giustiziafederale con carattere di Corte costituzionale e di tribunale di ultimaistanza). La struttura federale permette quindi il governo coordinato diautorità politiche indipendenti tra loro (Kenneth C. Wheare, FederalGovernment, 1963), soprattutto su grandi spazi continentali o sub-

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continentali. Essa può anche essere articolata in livelli territoriali chevanno dalla comunità locale fino alla federazione mondiale, attraverso laregione federale, lo Stato nazionale federale, la federazione di grandiregioni del mondo. In tal modo, il federalismo concilia e garantisce unitàe pluralismo statale.

La creazione dello Stato federale mondiale implica un processo didiffusione degli Stati democratici e la loro partecipazione alla formazionedi federazioni regionali a carattere continentale o sub-continentale. Ladiversa origine storica, il differente livello di sviluppo socio-economicoe le esperienze culturali e religiose maturate dai singoli popoli nonpermetterebbero in alcun modo la costruzione e la tenuta di uno Statomondiale accentrato, oppure lo sviluppo di processi di unificazione ditipo imperiale o egemonico.

Lo Stato federale mondiale e la garanzia del governo locale.

Il sistema federale perfeziona il regime liberal-democratico nellaseparazione e nell’equilibrio dei poteri, nella tutela delle specificità cul-turali, nell’efficienza amministrativa e fiscale. In risposta ai timori diquanti temono l’impatto negativo della costruzione di Stati sovranazionalisulla democrazia, va sottolineato che lo Stato federale rende le istituzionipiù democratiche e visibili per il cittadino perché si fonda sul principiodi sussidiarietà. L’articolazione federale realizza, pertanto, il massimolivello di decentramento possibile e completa, allo stesso tempo, il re-gime della giustizia sociale attraverso il federalismo fiscale. La funzionedistributiva del bilancio federale (Revenue sharing o Finanzausgleich)afferma la solidarietà tra comunità territoriali a differenti livelli disviluppo accanto alla solidarietà tra classi sociali e tra classi di età giàassicurata dal Welfare state.

A livello mondiale, il progetto di trasformare l’Organizzazione delleNazioni Unite in uno Stato mondiale di natura federale potrà realizzarsicon l’attribuzione al governo federale delle attuali competenze del Con-siglio di Sicurezza e di quelle oggi attribuite ad altri organismi, come ilFondo monetario internazionale (FMI) e l’Organizzazione mondiale delcommercio (WTO). Il Segretariato dovrebbe diventare un vero esecutivopolitico, mentre il Consiglio dovrebbe riformarsi nella Camera alta dellegrandi federazioni continentali o sub-continentali e l’Assemblea do-vrebbe essere eletta direttamente dai cittadini del mondo. In pratica sitratterebbe di riunire in un’istituzione democratica mondiale solo lecompetenze esclusive relative alla tenuta dell’ordine internazionale

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(anche con il ricorso eventuale alla forza costituzionalmente legittima),al governo della moneta unica e alla tutela della libertà di commercio alivello mondiale. Tutte le altre competenze dello Stato democraticomoderno (ad esempio: sicurezza interna e affari giudiziari, ambiente esalute, telecomunicazioni e trasporti, politiche per la crescita e politichefiscali) possono avere carattere concorrente ed essere flessibilmentecoordinate tra i vari livelli di potere politico, da quello locale a quellomondiale, assicurando il massimo grado di decentramento in aderenza alprincipio di sussidiarietà.

Quanto sopra sostenuto trova riscontro nell’esperienza corrente. Ilprocesso di unificazione europea in corso e le grandi federazioni sub-continentali esistenti, come gli Stati Uniti e l’India, mettono in evidenza,nello stesso tempo, un’ampia diffusione del governo locale e una con-centrazione flessibile del potere a livello federale.

Si può aggiungere che, nel quadro di una situazione di poteremondiale transitoria — caratterizzata da rapporti di equilibrio tra grandipotenze piuttosto che da tensioni egemoniche —, in cui le condizionidella pace potranno prevalere su quelle del conflitto tra Stati, come nelcaso della fondazione di grandi federazioni regionali mondiali, tali fe-derazioni saranno caratterizzate da un forte decentramento e, probabil-mente, limiteranno le loro competenze alle relazioni esterne e alla par-tecipazione a un’ONU riformata, alla libertà di commercio e alla funzio-ne fiscale e redistributiva interna.

Il nazionalismo è contro la pace

Il superamento del principio di sovranità nazionale.

Da queste considerazioni emerge con chiarezza che lo Stato didimensione mondiale o anche di dimensione regionale continentale osub-continentale, non può sorreggersi sul principio di sovranità naziona-le e deve necessariamente essere fondato sul riconoscimento dell’artico-lazione pluralistica della popolazione, come già avviene nelle attuali fe-derazioni. Il pluralismo dovrà esprimersi sul piano culturale, linguistico,etnico, religioso, socio-economico, sul piano associativo privato e sulpiano delle istituzioni. D’altra parte, il pluralismo delle strutture socialie di governo nelle quali si manifesta la vita dei cittadini negli Stati federalipermette di affermare il senso di appartenenza a più gruppi, sia dal puntodi vista dei rapporti politici e giuridici in essere, vedi la cittadinanzamunicipale, regionale, statale, federale, sia dal punto di vista delle con-

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vinzioni religiose, degli orientamenti culturali e delle appartenenzeetniche o linguistiche.

Nello Stato federale mondiale e nelle federazioni a carattere conti-nentale, il rapporto di cittadinanza articolato a più livelli federali dovràessere legittimato — secondo la fortunata formula, il patriottismo costi-tuzionale, coniata da Jürgen Habermas — dall’adesione ai valori demo-cratici e di eguaglianza tra gli uomini garantiti dalle leggi costituzionalie dagli statuti locali, dall’adesione al perseguimento degli obiettivi dipace e di giustizia, compresa la giustizia sociale. Un tale Stato dovrànecessariamente abbandonare ogni legittimazione proveniente dall’ap-partenenza esclusiva della sua popolazione a un gruppo etnico, lingui-stico, culturale, religioso, nazionale e dovrà garantire i diritti di tutti icittadini e dei gruppi organizzati nel rispetto delle libertà costituzional-mente riconosciute. Un’anticipazione del carattere pluralistico delloStato mondiale si può riscontrare nella Carta dell’ONU (vedi anchel’articolo 7 del Trattato di Amsterdam sull’Unione europea che recepiscela Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e dellelibertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e la Carta deidiritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicem-bre 2000).

Pertanto va superato il principio invocato per legittimare l’esistenzadi uno Stato, ossia l’appartenenza esclusiva della popolazione a unanazione, a un’etnia, a un gruppo linguistico o a una confessione religiosa.Esso ha fondamentalmente un carattere totalitario, come ha dimostratol’estremismo razzistico del nazionalismo in Europa tra le due guerremondiali, con l’eliminazione fisica degli ebrei, degli zingari, dei minoratifisici e mentali realizzata dai nazisti, e successivamente l’estremismo delnazionalismo etnico nato sulle rovine dell’ex-URSS e dell’ex-RFS diJugoslavia. Oggi il principio dello Stato nazionale a sovranità esclusiva,che il sionismo ha ereditato dall’Europa, impedisce a Israele e a tutticoloro che sono alla ricerca della pace l’apertura di un dialogo costrutti-vo con i vicini Stati arabi che pure hanno manifestato una loro inizialedisponibilità con il Piano di pace saudita approvato dal Consiglio dellaLega Araba il 28 marzo 2002 a Beirut.

La funzione prima progressista e successivamente conservatrice delnazionalismo.

L’uso politico del principio della sovranità nazionale si è affermatonel corso della rivoluzione francese. La repubblica sorta dalla deposizio-

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ne del monarca di diritto divino dovette presto lottare contro la coalizio-ne restauratrice delle restanti monarchie europee. Alla fine del XVIIIsecolo, la sola legittimazione democratica non era sufficiente per chia-mare i cittadini a uno sforzo enorme di mobilitazione civile e militarecontro un nemico esterno e necessariamente si dovette ricorrere al ri-ferimento ideologico della nazione in armi. La caratteristica specificadella legittimazione nazionale in Francia è sottolineata dal fatto che, incondizioni storiche e di sicurezza esterna completamente diverse, l’af-fermazione della democrazia in Gran Bretagna non ha avuto bisogno difare perno sul principio nazionale e tutt’oggi il Regno Unito riunisceinglesi, scozzesi, gallesi e nord-irlandesi in nome della fedeltà alla co-rona. Anche la democrazia americana non ha avuto bisogno di ricorrereal nazionalismo per legittimarsi e trova il suo perno nella Dichiarazionedi indipendenza e nella Costituzione di Filadelfia, entrambe ispirate aprincipi ugualitari.

Sul piano storico non si può negare la funzione progressista svoltainizialmente dallo Stato nazionale in quanto chiamato a sostenere gliideali di libertà, eguaglianza e fraternità espressi dalla rivoluzione fran-cese contro il vecchio ordine monarchico e feudale. Allo stesso modo,non si può negare il ruolo progressista svolto dai movimenti di unifica-zione nazionale tedesco e italiano per sostenere l’avvio della rivoluzioneindustriale e dello Stato democratico moderno oltre il Reno e a sud delleAlpi e superare un contesto di frammentazione politica di livello regio-nale. Soprattutto in Italia, le forze liberal-democratiche del tempo si ac-corsero rapidamente che le libertà economico-commerciali necessarieper avviare l’industrializzazione e la crescita di ceti sociali di supportoper lo Stato democratico moderno avrebbero potuto affermarsi soloattraverso l’unificazione politica della penisola e l’indipendenza dalpotere egemonico dell’Austria. Si può sostenere, pertanto, che il princi-pio nazionale trovò una sua necessaria affermazione storica in Italia e inaltri paesi europei per superare il conservatorismo dell’impero asburgico.

Il principio nazionale è tuttavia entrato in crisi, come fattore pro-gressista, alla fine del secolo scorso, quando le forze spontanee dellarivoluzione industriale iniziarono a varcare i confini dello Stato nazio-nale europeo per assumere dimensioni continentali ed oggi mondiali(globalizzazione). Su questa analisi convergono due autori molto distantiper formazione e pensiero politico, come il bolscevico Lev Trotskij (Ilbolscevismo di fronte alla guerra e alla pace nel mondo, 1914) e ilfederalista ed economista liberale Luigi Einaudi, divenuto il primo pre-sidente della Repubblica italiana nel 1948 (La Società delle Nazioni è un

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ideale possibile?, 1918 e Il dogma della sovranità e l’idea della Societàdelle Nazioni, 1918). Sul piano della verifica storica, non a caso la finedel XIX secolo fu caratterizzata dall’affermazione degli Stati Unitid’America come grande potenza democratica e industriale di dimensionecontinentale e dalla nascente crisi del sistema europeo di Stati alla ricer-ca del loro «spazio vitale». La crisi del sistema europeo degli Stati sfociònella prima guerra mondiale e terminò definitivamente con la secondaguerra mondiale dopo gli orrori del nazifascismo che aveva contaminatotutta l’Europa continentale. La febbre del nazionalismo, che colpì i popolieuropei nella prima metà del secolo XX, fu speculare allo stato di guerrapresente sul continente, che impose a ciascun paese una forte concentra-zione di potere e alti livelli di mobilitazione ideologica e militare. Si puòaggiungere che il centralismo nazionalistico, nella sua forma estrema delnazifascismo, ha sorretto l’agonia della sovranità negli Stati nazionalieuropei nella fase cruciale della crisi del sistema europeo di potenze.

Dal momento in cui, all’inizio del secolo XX, si è aperta la fase stori-ca dell’integrazione economica sovranazionale, il principio di naziona-lità non ha più svolto un ruolo progressista e oggi non può legittimarel’affermazione di Stati democratici moderni su spazi continentali o sub-continentali. Non a caso il processo di unificazione europea nasce dopoil 1945 proprio come superamento della divisione dell’Europa in Statinazionali e poggia sulla generale riconciliazione post-bellica, in primoluogo su quella franco-tedesca.

Le responsabilità della rinascita del nazionalismo nell’Europa orientalee balcanica.

Ciò non significa peraltro che il principio nazionale abbia fattodefinitivamente il suo tempo. Basti pensare alle conseguenze della cadu-ta dei regimi comunisti avvenuta con la fine dell’equilibrio bipolare. Sitratta di una caduta che ha privato i paesi dell’Europa centro-orientale,dell’ex Unione Sovietica e della ex Jugoslavia della loro legittimazioneideologica. Il collasso del comunismo non ha trovato prontamente di-sponibili nell’area del Patto di Varsavia una classe politica alternativa estrutture di legittimazione del potere di natura democratica. Da un puntodi vista mondialista, la fine della guerra fredda ha significato anche la fi-ne del confronto tra due visioni universali della futura organizzazione delmondo — quella della partnership tra potenze democratiche, espressadall’Alleanza atlantica, e quella dell’Internazionale comunista guidata daMosca —, ma il pensiero politico occidentale non è stato in grado di

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proporre alcun salto qualitativo per la costruzione di un nuovo ordineinternazionale, come invece accadde dopo le due guerre mondiali con lesoluzioni, certamente imperfette ma innovative, della Società delleNazioni e dell’ONU. Va tuttavia ricordato che un tentativo in tale di-rezione fu compiuto da Gorbaciov con la proposta della «casa comune»,ma la sua rapida fine politica pose termine al progetto.

Le difficoltà del passaggio alla democrazia negli Stati ex-comunistiè comprensibile. In tali paesi, in verità, non si è mai affermato lo Statodemocratico, a parte la breve esperienza della Cecoslovacchia, minataperò dal predominio della nazionalità slava sulla minoranza tedesca inBoemia e sulla minoranza ungherese in Slovacchia.

Nei paesi ex comunisti, poi, non si è sviluppata l’integrazionesovranazionale che invece è entrata nel patrimonio civico delle popola-zioni europee occidentali negli ultimi cinquant’anni. Per di più, tutte lerelazioni determinate dal Patto di Varsavia e dal Comecon erano postesotto la guida imperiale dell’URSS. L’Unione Sovietica e la RFS di Ju-goslavia, infine, erano federazioni apparenti, centralizzate di fatto dalladittatura del partito unico di governo. Nell’Unione Sovietica l’apparatodel PCUS era dominato dai russi e dagli ucraini, in Jugoslavia la Lega deicomunisti era sotto lo stretto controllo dei serbi. Con tali premesse erafatale che il collasso dei regimi comunisti ponesse il problema di unanuova legittimazione del potere. La legittimazione etnico-nazionale at-traverso la secessione ha ripreso le fila di un discorso lasciato aperto nel1918 dal crollo degli imperi austro-ungarico, tedesco e zarista.

Tuttavia, se tale legittimazione ha ignorato lo sviluppo del processodi unificazione dell’Europa, essa è stata anche favorita dai comporta-menti attivi della Germania, dell’Austria e del Vaticano a favore dellasecessione di Slovenia e Croazia, dal sostegno iniziale dato alla Serbiadalla Francia e dal Regno Unito e dall’assenza di reazioni dell’Italia. Ilcomportamento scoordinato degli Stati europei occidentali ha messo inevidenza il carattere incompiuto del processo di unificazione politica e illimite del metodo intergovernativo nelle decisioni di politica estera esicurezza comune (Pesc) dell’Unione europea. In sintesi, il prevaleredegli interessi nazionali all’interno dell’UE ha dato un contributo deter-minante alla disgregazione jugoslava.

Accanto alle responsabilità occidentali, occorre sottolineare le re-sponsabilità delle classi politiche dominanti della Slovenia, della Croa-zia, della Lituania e delle altre repubbliche baltiche nell’attivare iprocessi di secessione. In particolare, il governo sloveno ha avviato ilprocesso di disgregazione in Jugoslavia per avere una via privilegiata di

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accesso all’economia di mercato dell’Europa occidentale, invece diaffrontare il problema della democrazia nell’intera federazione e deldovere di solidarietà con le regioni più povere dell’intero paese attraver-so lo strumento del federalismo fiscale. Un discorso analogo riguarda ilcontributo del secessionismo lituano alla dissoluzione dell’URSS, piut-tosto che alla sua conversione in un’effettiva e moderna democraziafederale.

A parte i federalisti europei, nessun movimento politico o di opinioneha saputo indicare ai popoli dell’ex-Unione Sovietica o dell’ex-RFS diJugoslavia che le vie della democrazia e della partecipazione al mercatomondiale non sono quelle dell’autodeterminazione ispirata dal naziona-lismo etnico. Il sistema politico degli Stati occidentali non è stato in gradodi indicare all’URSS la via del federalismo democratico interno e allaJugoslavia la possibilità di accedere all’Unione europea salvando l’unitàdel paese. E’ sintomatico infatti che alla fine del 1991, mentre il Consiglioeuropeo di Maastricht varava l’Unione europea, l’Unione Sovietica si siasciolta quasi contemporaneamente nella labile Confederazione degliStati Indipendenti e la secessione della Slovenia abbia avviato la exJugoslavia verso il suo tragico destino.

Le conseguenze nefaste del nazionalismo etnico nei Balcani.

Il bilancio che si deve trarre dalla riscoperta del nazionalismo è as-solutamente negativo e gli ultimi anelli della catena sono stati la puliziaetnica di Slobodan Milosevic in Kosovo che ha scatenato l’interventoNATO del 1999 e gli epigoni secessionistici della minoranza albanese inMacedonia del 2001. La Serbia non è la sola da porre sul banco degliaccusati. I nuovi Stati a base etnica per prima cosa hanno cercato diopprimere le minoranze etniche comprese nei loro confini. Nella ex-URSS, i paesi baltici hanno inizialmente negato i diritti politici airesidenti russi e polacchi, e georgiani e azeri hanno perseguitato rispet-tivamente osseti e armeni. Nella ex-RFS di Jugoslavia, la soppressionedell’autonomia delle province del Kosovo e della Voivodina nel 1989 daparte della Serbia ha favorito la richiesta di secessione della Slovenia. Ilseparatismo etnico sloveno ha aperto la strada al separatismo etnicocroato e macedone, alla pulizia etnica croata contro i serbi a Zara e nelleKrajine, all’oppressione dei musulmani bosniaci da parte dei croati e deiserbi e via di seguito, in una scia di massacri che si è trascinata in Kosovoe Macedonia.

La destabilizzazione balcanica ha chiuso i serbi in un nazionalismocieco e intollerante a sostegno di un gruppo di potere corrotto di ex-

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comunisti che si è riunito intorno a Milosevic. Altrove i risultati sono sta-ti non molto diversi. I partiti di governo delle nuove repubbliche si sonoispirati inizialmente all’ex movimento fascista ustascia (Croazia) oall’islamismo (Bosnia), quando non sono stati espressione della delin-quenza locale legata al contrabbando e al traffico di droga (vedi l’UCK).La destabilizzazione della regione ha favorito la centralizzazione politi-ca e l’autoritarismo all’interno delle nuove incerte formazioni statuali e,infine, ha aperto un conflitto internazionale sul problema del Kosovo.

Va sottolineato in modo deciso che nell’Europa centro-orientale, al difuori della ex-RFS di Jugoslavia, solo la prospettiva della futura adesio-ne all’Unione europea ha condizionato i nuovi regimi bloccando sulnascere le loro operazioni interne di pulizia etnica o i conflitti con i paesiconfinanti per discutibili rivendicazioni territoriali: si pensi alle mino-ranze ungheresi in Slovacchia, Romania e in Voivodina, alle minoranzepolacche e russe in Lituania, Lettonia ed Estonia. La separazione traPraga (Repubblica ceca) e Bratislava (Repubblica slovacca) è avvenutain modo consensuale e senza spargimento di sangue, tra l’altro, perchéquesto era l’unico modo per mantenere aperta la prospettiva dell’adesio-ne all’Unione europea per entrambi i paesi.

Un chiarimento sui termini autodeterminazione e autogoverno

Il carattere reazionario dell’autodeterminazione.

Il termine autodeterminazione, nel suo significato ordinario, esprimel’azione politica diretta a conseguire la creazione di un nuovo Stato so-vrano indipendente, dotato di proprio esercito e di propria moneta, ingenere legittimato dal principio etnico, nazionale, o religioso, attraversola secessione da un’altra entità statuale. La sua origine può essereattribuita alle proposte avanzate dal Presidente americano ThomasWoodrow Wilson dopo la prima guerra mondiale per ricostruire l’ordinepolitico europeo sulla base del principio nazionale a seguito del crollodegli imperi centrali.

Il disegno di Wilson per l’autodeterminazione si completava con lacreazione della Società delle Nazioni, concepita come organismo dicoordinamento internazionale che avrebbe dovuto ricomporre la crisi dipotere in Europa, e non come organizzazione di tipo federale. Così, l’ap-plicazione del principio di autodeterminazione, in assenza di governosovranazionale, non contribuì a risolvere i problemi della pace e dellosviluppo in Europa, come ha dimostrato drammaticamente la storia del

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secolo XX, ma aumentò la frantumazione politica ed economica dell’Eu-ropa, accentuando le dispute di confine, l’oppressione delle minoranze,il centralismo e il militarismo, il protezionismo e complessivamentel’anarchia internazionale.

Il richiamo all’autodeterminazione ebbe in seguito successo comesostegno alle rivendicazioni indipendentiste connesse alla decoloniz-zazione, o a quelle sostenute da minoranze etniche o nazionali in presen-za di scarso o nullo riconoscimento dei loro diritti. A questo proposito,possono essere citate le rivendicazioni separatiste ancora attive nei PaesiBaschi, nel Quebec (un recente referendum ha rigettato l’ipotesi dellasecessione) e in altre parti del mondo, come nello Jammu e Kashmir, inTibet, nel Kurdistan. Queste tendenze alla frammentazione politica delmondo, riscontrabili anche all’interno di Stati democratici, come laSpagna, l’Italia, il Canada, oppure l’India, vanno contrastate e sconfitteperché non offrono la risposta corretta alla difesa dei diritti degli individuie delle minoranze oppresse, non promuovono l’affermazione della pacenei rapporti internazionali e nei rapporti tra individui e gruppi sociali, efavoriscono lo sgretolamento dell’ordine internazionale.

Con riferimento specifico all’applicazione del principio di autode-terminazione nella ex-RFS di Jugoslavia e nell’ex-URSS, l’avvio deiprocessi di secessione ha solo sconvolto la vita civile delle popolazioniinteressate, ha generato guerre, lutti, odi e rovine, ha compromessol’affermazione della democrazia e della pace in due aree internazional-mente sensibili. Va inoltre sottolineato che il riconoscimento da partedella comunità internazionale degli Stati monoetnici nati sulle ceneridella RFS di Jugoslavia e dell’Unione Sovietica favorisce le tendenze al-la frammentazione.

L’autodeterminazione è in definitiva un principio politico antidemo-cratico e reazionario, minaccia l’ordine mondiale e la convivenza tra ipopoli, impedisce l’affermazione del mercato mondiale e lo sviluppodelle forze produttive ed è contraria allo sviluppo del federalismo.

Il principio democratico dell’autogoverno.

Il concetto di autogoverno, contrariamente all’autodeterminazione, sicolloca nel quadro della democrazia e riguarda la protezione di interessie culture autoctone espressi da regioni e comunità locali senza che siamessa in discussione l’unità dello Stato e l’articolazione pluralistica dellasocietà. L’autogoverno poggia sul principio di sussidiarietà, sulla sovra-nità democratica degli elettori, sulla libertà di associazione tra cittadini e

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sulla libertà di unione tra istituzioni territoriali, sul dominio della leggecostituzionale. Permette di individuare dinamicamente le strutture poli-tico-istituzionali più rispondenti alla natura dei problemi che la societàdeve affrontare. L’autogoverno può essere esercitato nell’ambito degliStati decentrati o federali in applicazione del principio di sussidiarietà. Dinorma la flessibilità delle leggi costituzionali di tali Stati consentel’estensione o la riduzione orizzontale delle competenze di un centro didecisione politica (quando i cittadini danno o tolgono materie di inter-vento a comune, regione, Stato), oppure il trasferimento verticale dellecompetenze tra autorità politiche di vario livello (quando si ritiene chesia meglio affidare una certa competenza alla gestione comune diun’autorità politica di livello superiore o viceversa). Un caso concreto erecente di accesso all’autogoverno è dato dalla nascita della regione delNanavut nel Canada settentrionale, abitata dagli esquimesi Inuit, che il 1°aprile 1999 ha conquistato l’autonomia amministrativa dal governo fe-derale di Ottawa per quanto riguarda educazione, sanità, servizi sociali epolitiche abitative e della cultura. Un altro caso ancora più rilevante è laDevolution realizzata nel Regno Unito con l’autonomia concessa alGalles e alla Scozia che il 6 maggio 1999 hanno eletto rispettivamentel’assemblea e il parlamento che la sanciscono.

Va anche ricordato che proprio il processo di integrazione europea hapermesso di rafforzare gli istituti del governo democratico decentratoall’interno degli Stati nazionali europei, unitamente al superamento deiproblemi delle minoranze nazionali nelle aree di confine, come è avve-nuto nel Sud-Tirolo — già provincia austriaca a prevalente popolazionedi lingua tedesca acquisita dall’Italia dopo la prima guerra mondiale. Ciòè stato favorito dalla banalizzazione delle frontiere tra Stati appartenentiall’Unione europea e dalla nascita della comune cittadinanza europea conil Trattato di Maastricht.

Dunque, l’autogoverno è un concetto politico che si regge sui principidi sussidiarietà, solidarietà, cooperazione e coordinamento che sonotipici del federalismo, il quale consente la costruzione dell’unificazionepolitica dell’umanità, dalla comunità locale alla dimensione mondiale,nella pace e nell’osservanza della legge, attraverso l’esercizio del poteresovrano democratico del cittadino ai diversi livelli del potere politicoorganizzato.

Conclusione.

La storia dell’umanità è la storia dell’evoluzione dei rapporti di forza

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tra popoli e gruppi sociali e solo da pochi secoli è stato avviato il processodi diffusione del metodo democratico per regolare tali rapporti attraversoil ricorso al voto attribuito a ciascun cittadino. Oggi sono ancora diffusinumerosi rapporti egemonici o imperiali sul piano politico, culturale,religioso o socio-economico. Occorre però chiedersi se la via corretta persuperare tali rapporti di forza sia quella della secessione sanzionatadall’autodeterminazione, oppure quella dell’impegno prioritario per ladiffusione della democrazia e dello Stato di diritto, e quindi per l’avviodel processo di unificazione sovranazionale, ove esso non è ancorapresente. Per essere espliciti, occorre favorire l’indipendenza del Tibet edella Cecenia, oppure operare per l’affermazione piena della democra-zia e dei diritti dell’uomo in tutta la Cina e in Russia; sostenere l’auto-determinazione del Kashmir, oppure la riconciliazione tra India e Paki-stan — come è avvenuto in Europa tra Francia e Germania — e lafondazione di uno Stato federale nell’Asia meridionale esteso alBangladesh, al Nepal e via di seguito? Israele deve rimanere uno Statoassediato, impegnato continuamente a reprimere la rivolta arabo-pa-lestinese conseguente alla sua ricerca di «spazi vitali» nella Cisgiordaniae nella striscia di Gaza, oppure può diventare una componente preziosaper un processo di pace e di emancipazione civile, sociale ed economicanel quadro della realizzazione, sostenuta esternamente da Unione euro-pea e Stati Uniti d’America, di un’unione federale tra Stati del MedioOriente? Che senso ha promuovere l’autodeterminazione in Tibet, inCecenia, nel Kurdistan o in Kosovo quando, a parte ogni considerazionesulla possibilità di una gestione pacifica di tali processi, lo sbocco sarebbela formazione di ulteriori unità statali incapaci di garantire la democraziae lo sviluppo economico per le loro popolazioni? L’autodeterminazionerealizzata nella ex-URSS o nella ex-RFS di Jugoslavia ha fatto avanzareil mondo verso la pace o verso la guerra e la frammentazione politica?

Per rispondere a queste domande una strategia coerente e gradualistadovrebbe quindi puntare sull’avvio dei processi di decollo economico-sociale e sulla diffusione della democrazia nel mondo, a partire dalle re-gioni abitate da minoranze alle quali non sono riconosciuti il diritto allalibera espressione culturale e l’autogoverno. Se si vuole operare in taledirezione è necessario puntare sul completamento del processo di costru-zione federale in Europa perché tale processo avrebbe un impattodecisivo sull’avvio di altre integrazioni regionali e sull’evoluzione de-mocratica interna di regioni come la Cina o il mondo islamico oggipervaso dall’integralismo.

Certo si deve riconoscere che in passato, a causa della presenza di

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rapporti imperiali, la battaglia per l’autodeterminazione ha giocato incerte circostanze un ruolo evolutivo. Gli Stati Uniti d’America nonsarebbero nati senza la rivendicazione democratica (no taxation withoutrepresentation) contro il potere fiscale della corona inglese (1775) e laDichiarazione di indipendenza (1776) delle tredici ex-colonie, seguitadalla guerra relativa. L’indipendenza successivamente fu all’originedella Convenzione di Filadelfia e dell’affermazione di un modello diStato democratico certamente più avanzato di quello che la coronainglese avrebbe potuto assicurare nella migliore delle ipotesi ai coloninordamericani e di quello garantito successivamente agli stessi sudditiinglesi. D’altra parte, la battaglia per la democrazia e la rappresentanzapolitica dei coloni nordamericani nel parlamento di Westminster incon-trava ostacoli geografici oggettivi. A quei tempi (Obstat natura, secondoEdmond Burke), l’oceano Atlantico rappresentava una barriera difficileda superare.

Il caso americano è però un caso limite e la prova a contrario si è avutaproprio con la rivolta degli Stati schiavisti del sud che portò alla guerradi secessione. In quell’occasione il presidente Lincoln difese l’Unionefederale, ma era legittimato a farlo perché l’Unione non si reggeva su unrapporto imperiale, bensì sull’eguaglianza razziale, sul governo demo-cratico e sul mantenimento della pace. Oggi la frase pronunciata daLincoln: «L’idea centrale della secessione è l’anarchia», ha piena legit-timità politica poiché in Europa e in altre parti del mondo, a fronte deitentativi di integrazione sovranazionale, che nel caso europeo assumonoanche un esplicito obiettivo di unificazione politica, sono attive le forzedella disgregazione. Inoltre, di fronte al rischio della diffusione delle armidi distruzione di massa che incombe sull’umanità, certamente accre-sciuto dal disordine internazionale emerso dopo la fine dell’equilibriobipolare, occorre favorire i processi di unificazione politica sovranaziona-le per assicurare la pace e il governo responsabile di vaste aree del mondoed evitare la frammentazione politica del genere umano, che contrastacon le spinte spontanee alla crescita dell’interdipendenza umana genera-te dai processi di globalizzazione in atto.

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Note

FARE L’EUROPAO SCRIVERE UNA «COSTITUZIONE»?

Molti confondono il problema di fare l’Europa, che si identifica conquello di creare un potere che non c’è, con quello di scrivere una serie diregole per un potere che c’è. Questa confusione può significare due cose:per qualcuno essa è la conseguenza dell’incapacità di distinguere leparole (la redazione del testo di una «costituzione») dalle cose (creare unpotere europeo); per altri essa è l’espressione della deliberata volontà didare una sanzione solenne e definitiva all’Europa così come essa è oggi,o addirittura di rendere impossibile qualunque reale trasferimento dipotere, eliminando dai Trattati anche i piccoli embrioni di sopranazionali-tà che vi sono contenuti.

E’ importante che i federalisti non si lascino coinvolgere da questalogica e non dimentichino che il Movimento federalista europeo è natoper unire politicamente l’Europa, cioè per affrontare l’enorme problemadi creare uno Stato nuovo in un’area nella quale attualmente esiste unapluralità di Stati sovrani, e non certo per fare discussioni accademichesui piccoli miglioramenti che si possono apportare all’inefficiente e im-potente meccanismo comunitario che è quello dell’Unione attuale.

Bisogna quindi che i federalisti — tutti i federalisti — abbiano quelsoprassalto di orgoglio di cui tanto spesso parlava e scriveva Spinelli esappiano ricuperare la loro ispirazione originaria. Se ciò non accadrà, siconsoliderà inevitabilmente nelle nostre file la tendenza a rinunciare alnostro ruolo di soggetto autonomo del processo e di solo attore consape-vole della natura del suo punto d’arrivo; e a farci dettare le nostre presedi posizione e la nostra linea strategica dall’europeismo ufficiale deigoverni e delle istituzioni europee. L’autonomia del Movimento è sem-pre stata una condizione essenziale della sua sopravvivenza. Metterci alseguito dell’europeismo ufficiale oggi, cioè in una fase fortementeinvolutiva del processo, nella quale anche i politici più «europei» sistanno convincendo che l’Europa non paga in termini elettorali e tendo-

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no a rifugiarsi in formule ambigue come la «Federazione di Stati na-zionali», o a farsi scudo del principio di sussidiarietà per giustificare ilmantenimento, o addirittura il rafforzamento, del potere degli Stati, è unsegno di inammissibile dimissione.

* * *

E’ evidente che unire una pluralità di Stati in un nuovo Stato federalesignifica anche accordarsi su certe regole. Il potere è consenso, e ilconsenso deve avere come suo oggetto un nuovo modo di vivere insieme,e quindi nuove regole che lo rendano possibile e lo disciplinino. E’ quindiimpossibile separare del tutto le regole dal potere. Ma a questo propositovanno fatte due essenziali precisazioni. La prima è che queste regole nondevono essere il risultato di un’esercitazione accademica, che si esauri-sca nella scrittura di una serie di articoli, ma quello di un forte atto divolontà, che sia la manifestazione della nascita di un nuovo popolo. Laseconda è che le regole la cui entrata in vigore segna la nascita di uno Statofederale si riducono sostanzialmente ad un unico principio: l’instaurazio-ne di un rapporto diretto tra cittadini e governo, sia dal basso verso l’alto,nel senso che il governo sia l’espressione dei cittadini, quale che sia ilmeccanismo (parlamentare, presidenziale, ecc.) attraverso il quale questaespressione si realizza; sia dall’alto verso il basso, nel senso che l’esecu-tivo abbia il potere, nell’ambito delle sue competenze, di agire diretta-mente sui cittadini, e non si limiti ad indirizzare raccomandazioni agliStati membri, disponendo degli strumenti per imporre ai singoli l’osser-vanza delle leggi federali.

Non per nulla era questa la preoccupazione fondamentale degli auto-ri del Federalist, e in particolare di Hamilton. E’ essenziale tener presen-te che gli Articles of Confederation, dalla cui manifesta insufficienzanacque la consapevolezza della necessità di rifondare su di una nuovabase la convivenza tra le ex-colonie americane e i loro cittadini, avevanodisegnato sotto molti profili una struttura istituzionale più avanzata diquella attuale dell’Unione europea (anche se è doveroso tener semprepresente la diversità dei contesti storici). Per riferirsi soltanto ai dueaspetti più importanti, il Congresso degli Stati Uniti aveva, da un lato, lacompetenza della politica estera e della difesa e, dall’altro, decideva amaggioranza su tutte le questioni (tranne che sulla riforma degli Articlesof Confederation stessi), anche se sulle materie più importanti eranecessario il voto favorevole di nove Stati su tredici. Ciò che paralizzavala Confederazione quindi non era né un problema di competenze né il

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meccanismo della presa delle decisioni, bensì il fatto che la Confedera-zione era l’espressione di un accordo tra Stati sovrani; e la sua incapacitàdi attuare le proprie decisioni imponendone l’osservanza ai cittadini.

Ciò accadeva perché le decisioni del Congresso si risolvevano in unaserie di raccomandazioni agli Stati membri perché dessero loro esecuzio-ne. E queste decisioni, quando rischiavano di compromettere gli interessidi uno o più Stati membri, non venivano attuate. Gli Stati membri sirifiutavano spesso di fornire al Congresso i contingenti militari di lorospettanza e le somme di danaro a loro carico. E ciò perché il Congressonon disponeva del potere di reclutare direttamente soldati né di quello diimporre tributi, che rimanevano una prerogativa esclusiva degli Statimembri.

* * *

Il rovesciamento di questa situazione, cioè la creazione di un legamediretto, in alcuni settori essenziali, tra cittadini e governo, è stato ilrisultato rivoluzionario della Convenzione di Filadelfia. A Filadelfia econ le successive ratifiche è stato creato un potere nuovo. Ed è statoquesto potere che ha reso possibile, da un lato, l’introduzione di nuoveregole e, dall’altro, il funzionamento di regole che già esistevano, ma chenel precedente quadro di potere non potevano essere applicate, o eranofonte di stallo.

Questi insegnamenti dovrebbero essere applicati all’Europa. Si pren-da il caso dell’estensione del voto a maggioranza e dell’abolizione deldiritto di veto. Spesso il voto a maggioranza viene visto come il deus exmachina che realizzerebbe il salto federale. Niente di più falso. Di fattonon è abolendo il veto che si fa lo Stato federale, ma è facendo lo Statofederale che si abolisce il veto. Nelle confederazioni, nelle quali un certogrado di unità è garantito soltanto dalla tacita persistenza di un accordotra Stati sovrani, e i cittadini di questi ultimi percepiscono gli organidell’Unione come mostri burocratici, insieme lontani e invadenti, il votoall’unanimità sulle materie essenziali è uno strumento decisivo per im-pedire sopraffazioni della maggioranza nei confronti della minoranza,che porterebbero inevitabilmente, a medio termine, alla dissoluzionedella confederazione. Per questo, nelle materie essenziali, di norma il vo-to a maggioranza non è introdotto; quando è introdotto, non è applicato,perché gli Stati decidono all’unanimità anche quando potrebbero deci-dere a maggioranza; e, quando è applicato, le decisioni prese a maggio-ranza non vengono eseguite dagli Stati che restano in minoranza. Oppo-

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sto è il caso delle federazioni, nelle quali la sovranità viene trasferitaall’Unione in quanto tale, e nelle quali l’indissolubilità del vincolo fe-derale è garantita da una forte lealtà del popolo nei confronti dell’Unione.In esse i cittadini si sentono partecipi del processo di presa delle decisio-ni e sono consapevoli che questo ha come obiettivo il perseguimentodell’interesse generale. E il governo federale possiede comunque gli stru-menti per imporre direttamente ai cittadini le proprie decisioni. Tra leunioni di Stati quindi solo in una federazione la democrazia, fondata sulladialettica tra maggioranza e minoranza, può realmente funzionare.

* * *

Il nodo del problema sta quindi nel trasferimento all’Unione dellasovranità, e questo si attua applicando un’unica regola (anche se, eviden-temente, l’assetto complessivo dell’Unione dovrà essere regolato da unacostituzione, la cui approvazione potrà essere contemporanea, prece-dente o successiva all’atto con il quale viene trasferito il potere). E’l’esatto opposto di quanto il Consiglio europeo di Laeken ha incaricatola Convenzione di fare, ponendole più di cinquanta quesiti. Non esisteinfatti un modo più sicuro per svuotare un problema di contenuto chequello di suddividerlo in numerosi problemi parziali, in modo che anchecoloro che vorrebbero veramente risolverlo si perdano nel dettaglio e nonvedano la natura reale dell’obiettivo da raggiungere.

Si considerino a titolo di esempio alcuni dei problemi che vengonopiù spesso affrontati nei dibattiti sulla «costituzione» europea, comequelli della composizione della Commissione, del sistema elettorale peril Parlamento europeo o del modo di nomina dei membri della SecondaCamera. E’ chiaro che ognuno di questi problemi acquisisce un rilievodiverso a seconda che lo si ponga nel contesto della situazione di potereattuale o in quello della creazione di un potere federale. Nel primo casol’adozione dell’una o dell’altra soluzione determina le procedure attra-verso le quali si raggiungono compromessi tra Stati sovrani, definisce ilpotere dei piccoli Stati nei confronti dei grandi e, in qualche caso, puòprolungare o accorciare la vita dell’Unione. Quei problemi quindi acqui-siscono, da un lato, un’importanza essenziale e, dall’altro, sono diffici-lissimi da risolvere. Nel secondo, al contrario, essendo la permanenzadell’Unione assicurata dal forte consenso dei cittadini nei confronti del-le istituzioni e dal potere del governo di imporre direttamente ai cittadinil’osservanza della legge, gli stessi problemi assumono un’importanzasecondaria. In un vero Stato federale infatti, pur dando per scontato che

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comunque in esso si manifestano interessi locali anche marcatamentediversi che non possono non esprimersi nella lotta politica, l’esistenza diun unico popolo, anche se pluralistico, e la conseguente consapevolezzadella prevalenza dell’interesse generale sugli interessi particolari fannosì che il numero e la provenienza dei ministri e il modo in cui vengonoeletti i membri sia della Prima che della Seconda Camera, nonché moltidegli altri problemi di cui si discute oggi a proposito della futura «co-stituzione» dell’Unione europea, perdano di importanza e diventinoalternative prive di drammaticità.

E’ quindi giusto che si rifletta sulle caratteristiche che dovrebbe ave-re la costituzione ideale della Unione europea del futuro. Ma è assai piùimportante che ci si chiariscano le idee su che cosa significhi fondare unoStato federale e su questa base si cerchi di definire una strategia coerentedei federalisti.

Francesco Rossolillo

CONTRO L’EUROSCETTICISMO

E’ fenomeno significativo — e si è manifestato, negli ultimi tempi,soprattutto in Italia, ma ha riflessi importanti anche in altri paesi del-l’Unione europea — quello per cui fino ad alcuni anni addietro ladiffidenza, o addirittura l’ostilità dichiarata verso l’integrazione europea(verso tutta l’integrazione europea, comunque concepita, e non soloverso l’attuale struttura comunitaria) era prerogativa della sinistra ingenere, e dell’estrema sinistra in specie; mentre assai più favorevole eral’atteggiamento delle destre moderate: irriducibilmente anti-europeaessendo solo la destra più nazionalista, dalla Signora Thatcher in GranBretagna a quelli che oggi in Francia si definiscono souverainistes. Oggiinvece non è raro il caso di sinistre moderate relativamente favorevoli, ein ogni caso assai meno sospettose di un tempo, di fronte al problemadell’unità europea. Così ad esempio in Italia, dove i comunisti fanno ditutto per far dimenticare i loro trascorsi violentemente anti-europei; cosìin Germania, dove il nome di Schumacher ormai ricorda solo un pilotaautomobilistico, e in parte anche in Gran Bretagna. La destra, invece,assume non di rado toni fortemente euro-scettici, come è accaduto per

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esempio in Italia col primo governo Berlusconi e con quello attuale(atteggiamento che tuttora caratterizza molta della stampa di destraitaliana).

Resta ad ogni modo che le caratteristiche essenziali di questo euro-scetticismo — quelle che a nostro avviso ne qualificano la sterilità edinconsistenza — sono in larga proporzione simili, quale che ne sia ilcolore politico. Nelle pagine che seguono esamineremo tale scetticismo,e gli argomenti che esso avanza (a nostro avviso quasi tutti pretestuosi),di proposito non distinguendo la provenienza di chi li formula, in genereappartenente tanto all’uno come all’altro schieramento, con non com-mendevole concordanza d’intenti.

* * *

L’atteggiamento di coloro che criticano, in Europa, il federalismo,tanto nel suo aspetto sovranazionale (le molto parziali realizzazionidell’UE, che essi vorrebbero non migliorare e completare, ma eliminare,insieme a tutta l’organizzazione), quanto nel suo aspetto interno (e cioèil federalismo infranazionale che, al limite, propone la creazione di gran-di regioni membri diretti dell’istituenda Federazione europea), taleatteggiamento, dicevo, presenta, quasi senza eccezioni né variazioni,questi tratti salienti, che si ritrovano, più o meno, in tutti gli scritti di chiafferma di dubitare dei vantaggi dell’unità europea, e si oppone, in modopiù o meno esplicito, ad essa.

1) Il disprezzo — testimoniato dalla volontaria, sistematica ignoran-za — del pensiero di grandi studiosi liberali in tema di unificazioneeuropea (ricordiamo solo, per brevità, Luigi Einaudi, Lionel Robbins,Benedetto Croce) che non si sente il bisogno di confutare, cancellandoneanche il ricordo. Un anti-liberalismo che confina con l’irrazionalismo.

Disprezzo che va congiunto, in tali «euro-scettici» — continuiamo,per eufemismo, a definirli così —, con la consonanza delle loro tesi(consonanza che per essere, se è, casuale non è per questo menosignificativa) con le critiche che all’integrazione europea da un latovenivano rivolte dai comunisti dei primi decenni post-bellici (e dai su-perstiti comunisti d.o.c. vengono ancora rivolte), e dall’altro venivano evengono rivolte, in termini paradossalmente non molto diversi, dal-l’estrema destra più accesa e illiberale (si vogliono svuotare e annienta-re le nazioni, le loro tradizioni, tutta la nostra storia, a beneficio diun’americanizzazione subdolamente promossa dagli odiati yankees, conla colpevole collaborazione di molti lacchè europei).

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2) Colpisce particolarmente la piena coincidenza con tutto l’arma-mentario della propaganda comunista del buon tempo antico. L’interaresponsabilità del sipario di ferro e del «sequestro» dei paesi dell’Europacentrale e orientale, secondo alcuni di questi critici, sarebbe imputabilealla Comunità europea, concepita appunto a tal fine (anche qui agli ordi-ni degli americani guerrafondai e nemici della pace e dell’Europa).L’Unione Sovietica, Stalin, la «sovranità limitata» non c’entrano.

3) All’UE, e ai governi e forze politiche che la sostengono, sarebberoanalogamente da attribuire le difficoltà e i ritardi dell’allargamento ad estdell’Europa comunitaria, dopo il crollo dell’Unione Sovietica: difficoltàche hanno indubbiamente la loro origine anche nell’egoismo conserva-tore degli Stati che fanno parte dell’UE, ma sono altresì causate, e inproporzione sicuramente maggiore, dalle disastrate condizioni economi-che, sociali e politiche in cui i regimi imposti per quasi mezzo secolodall’Unione Sovietica hanno ridotto quei disgraziati paesi, condizioniche complicano non poco la loro adesione all’Unione europea (comeconfermano le perduranti difficoltà che conosce anche la riunificazionetedesca).

Certo, questi critici hanno ragione quando lamentano l’indifferenza ela lentezza con cui l’Europa comunitaria si è aperta, o piuttosto non si èaperta ai paesi dell’area ex-sovietica (e, più in generale, non è stata ingrado di elaborare una sua Ostpolitik degna di questo nome), con graviconseguenze per i popoli che, liberatisi dal giogo sovietico, speravano diesser accolti più generosamente e rapidamente in seno alla comunità deipiù fortunati fratelli occidentali. Ma la causa prima e più importante ditale carenza sta nella debolezza e insufficienza delle strutture istituzionalicomunitarie: e sono proprio quelle che i nostri euro-scettici vorrebberoinvece vedere non rafforzate attraverso l’unità federale, ma invece eli-minate e soppresse in radice, come realtà del tutto anacronistiche e lega-te alla guerra fredda, o almeno fortemente ridimensionate e depurate diogni elemento di sovranazionalità.

4) Comune a questi anti-federalisti (ma io li chiamerei sic et simplici-ter anti-europei) è anche un’accusa quasi altrettanto assurda, rivoltaall’UE: quella di non risolvere tutti i problemi del vecchio continente (edel mondo), e di lasciar fuori dall’ambito comunitario un largo spazio didisordine e di sottosviluppo, quasi che tale disordine e sottosviluppo —s’insinua — fossero funzionali e indispensabili allo sviluppo e all’ordinecomunitario. E’ in sostanza l’accusa, all’Unione europea, di non essereunione planetaria: accusa che ignora il principio che «il meglio è nemicodel bene» e disconosce l’esigenza di gradualità, la necessità di un tempo

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adeguato perché processi storici di grande portata possano compiersi.5) Ma il difetto più grave di tali concezioni ostili all’unità europea è

ancora un altro. E’ l’assenza di ogni piano, di ogni progetto alternativo aquello che esse condannano e rifiutano. Che cosa si sarebbe dovuto farecinquant’anni addietro, quando in Italia Luigi Einaudi constatava che gliStati nazionali sono ormai «polvere senza sostanza» e Robert Schumanproponeva il suo piano, suggeritogli da Jean Monnet? E cos’altro sidovrebbe fare oggi se non approfondire e democratizzare l’Unione,dandole competenze politiche e militari e creando così le condizioniistituzionali indispensabili per estenderla ad est con maggior coraggio ealtruismo di quanto le attuali strutture dell’UE non consentano?

Ed essendo hic et nunc impossibile che tale Unione, per quanto la sivoglia e possa estendere, giunga ad abbracciare l’intero pianeta, qualealtra forma è auspicabile che assuma se non quella statale? Lo Statocostituisce un fondamentale e insostituibile strumento di ordine, digiustizia e di libertà: a condizione però — è questo il punto — che essoabbia ormai dimensioni continentali, e cioè tali da prevenire i rischi giàindividuati da Einaudi, e oggi rappresentati, tra l’altro, dalla cosiddetta«globalizzazione», che non va certo combattuta frontalmente, ma con-trollata. E questo può farlo validamente solo uno Stato di quelle dimen-sioni.

Chi non riconosce questo viene a trovarsi in scomoda compagnia conl’ex premier italiano Giuliano Amato: che — dopo aver definito, anniaddietro, il federalismo interno «un virus come l’AIDS» (1)— ha più direcente completato il suo davvero singolare pensiero pronunciando ungiudizio più sfumato nella forma, ma sostanzialmente non diverso sulfederalismo europeo, che egli ritiene ormai totalmente superato. A suodire infatti non ci sarebbe affatto bisogno, in Europa, di uno Statosovranazionale: meglio tornare al Medioevo (sic), alla pluralità dei centridi potere, accettando senza riserva l’anomia crescente prodotta dallaglobalizzazione (2).

6) In sintesi: per trovare un qualche spunto positivo in questa let-teratura intransigentemente anti-europeistica (3), occorre interpretare —spesso con molta buona volontà — le tesi da essa svolte come manifesta-zione d’insoddisfazione — questa, sì, giustificata — per le carenze, leinsufficienze, le inadeguatezze del processo integrativo in atto.

Come agli scritti che condannano senz’appello, facendo d’ogni erbaun fascio, il federalismo interno, vedendo in ogni movimento che lo pro-muove, nessuno escluso, l’espressione più bieca e retrograda di micro-nazionalismo, tribalismo, razzismo e chi più ne ha più ne metta, può

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almeno riconoscersi il merito di mettere in guardia contro una fram-mentazione dell’Europa, e degli Stati nazionali, non corretta da un mo-mento unitario, da una salda aggregazione sovranazionale; così all’euro-scetticismo che oggi va di moda può attribuirsi il merito di richiamarel’attenzione sulle molte — troppe — imperfezioni che ancora caratteriz-zano l’Unione europea (e che il pensiero federalista — intenzionalmenteignorato da questi autori — non manca di porre in luce), così come sullealtre carenze che talora anche i federalisti europei trascurano (ad es.l’esigenza sopra accennata di una profonda federalizzazione interna deinostri Stati).

Ma anche qui rimane da dire in che senso deve avvenire la correzionedi quei difetti. Cercando di compiere il salto dall’ibrida formula comuni-taria, mezzo topo e mezzo uccello, a un genuino Stato federale europeo?O facendo tabula rasa di tutto, per tornare al vecchio concerto europeodi Stati sovrani (ma in realtà ormai sempre meno sovrani, e, quanto piùdivisi, tanto più succubi di influenze straniere, ad opera di grandi potenzedi dimensioni continentali, esistenti o in fieri)?

I federalisti, almeno, danno una risposta univoca, gli euro-scettici no.Ed è questa la carenza più grave. Anche De Gasperi ebbe a dire una volta— e fu una battuta particolarmente felice — che per fare l’Europa occorreassai più distruggere che costruire. Ma questo non significa che ci sidebba limitare alla pars destruens — nel qual caso si fa solo del«luddismo».

7) Un caso particolare è quello delle critiche che da questo versantesi rivolgono all’euro, che auspicano non il suo rafforzamento grazie alpassaggio ad un’Europa anche politica, e non solo monetaria, ma il suoaffossamento. Se un neonato nasce prematuro, si può porlo in un’incuba-trice, oppure, come facevano gli spartani, esporlo sul monte Taigeto. Inostri euro-scettici non hanno dubbi sulla scelta da compiere.

Voglio qui, eccezionalmente, personalizzare l’avversario, indivi-duandolo in un personaggio al tempo stesso fra i più informati e fra i piùcorretti, il quale riassume l’essenziale delle critiche svolte da tutti gli altri.Si tratta dell’economista tedesco, naturalizzato americano, Hans F.Sennoholz, e di un suo scritto ospitato in una rivista italiana (4). IlSennholz non si pronunzia, neppure implicitamente, contro l’integrazio-ne europea o contro l’euro, e si limita a osservare che la debolezza dellamoneta europea dipende, tra l’altro, dalle mancate riforme dello Statosociale nei vari paesi, come pure dalla forte attrazione che esercitasugl’investitori europei la new economy statunitense ad alto contenutotecnologico. Questa è però solo una parte della verità. Ciò che qui manca

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è il rilievo che, almeno nei più lungimiranti fra gli autori del progetto eu-ro, vi era la piena consapevolezza che, come dicono gli inglesi, moneydoes’nt manage itself e che pertanto, a medio-lungo termine, una mone-ta europea ha senso e può «tenere» solo se è affiancata da un governoeuropeo dell’economia. Nell’assenza di questo sta la vera debolezzadell’euro.

Valga qui l’opinione di un alto tecnocrate americano, Lawrence B.Lindsey (5), che fa parlare la sua competenza personale, oltre che il suoacume politico, e non certo il pregiudizio ideologico e il partito preso,europeista a tutti i costi, che potrebbero essere rimproverati a noifederalisti. Egli, dopo aver rilevato che l’Europa manca, a differenzadegli Stati Uniti, di un adeguato sistema di mobilità del mercato dellavoro e di un federalismo fiscale degno di questo nome, e più in generaledi «istituzioni fiscali impegnate nella correzione dei cicli economici»,aggiunge (ed è il punto decisivo): «Perché l’euro possa aver successo,l’Europa dovrebbe avere un meccanismo decisionale centralizzato capa-ce di prendere decisioni nel campo della politica economica e fiscale.Sono, in ultima istanza, istituzioni forti e affidabili che fanno la forza ela stabilità di una moneta: e cioè un vero e proprio Stato federale, comein America».

In questa prospettiva vi è da chiedersi se, nell’ambito di una lottapolitica trasferita, in ordine ai massimi problemi, a livello europeo ledifficoltà che oggi ostacolano le riforme strutturali con ragione auspicateda Lindsey non potrebbero essere superate meno faticosamente; e, inparticolare, se la ricerca scientifica e tecnologica indispensabile a di-namizzare l’economia europea e a ridurre il suo divario, evidenziatoanche dal Sennholz, da quella statunitense non sarebbe possibile solograzie a un programma coordinato a livello continentale, promosso eassecondato da un governo europeo. Altro tema che i federalisti hannosviluppato da lungo tempo (ricordiamo solo, fra questi, l’economistaAlberto Majocchi, dell’Università di Pavia).

8) Un giudizio ancora più severo deve essere formulato sugli autoriche svolgono, e spesso con la più piena convinzione, il sofisma cheUnione europea = Europa socialista = chiusura commerciale. Da qui ilcorollario che per cambiare politica occorre distruggere le istituzionicomuni — e non, come noi sosteniamo, svilupparle e perfezionarle,dando loro struttura democratica e respiro politico, con trasformarle inuno Stato federale, entro cui sarà del tutto fisiologica, come in ognisistema democratico, l’alternanza fra destra e sinistra, tra forze più omeno statalistiche.

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Anche qui quella conclusione iconoclastica appare non ispirata a unavalutazione obiettiva, fondata su un ragionamento logico e su dimostra-zioni argomentate, ma dettata da un cieco pregiudizio ideologico (che iofaccio derivare dalla grave lacuna storica della cultura europea, priva —salvo eccezioni che confermano la regola — di ogni tradizione federalista,e quindi di un’approfondita conoscenza della natura, del funzionamento,delle possibilità di uno Stato federale), lacuna connessa con il timorepreconcetto del nuovo, tipico di ogni gretto conservatorismo. Un pregiu-dizio e una chiusura ideologica, dicevo, che portano non al superamento— la hegeliana Aufhebung — delle attuali strutture politiche dell’Unioneeuropea, ma alla loro sterile e frustrante «negazione semplice».

Da ciò la critica di questo euro-scetticismo, che deve essere dinecessità severa e senza mezzi termini, dato il suo carattere meramentedistruttivo e l’assenza di ogni progetto europeo alternativo, rispetto aquello criticato. Difetto intellettuale — la mancanza di ogni capacitàpropositiva — a cui si accoppia il difetto morale: l’assenza di ognisincerità.

* * *

Tuttavia, per essere fino in fondo equanimi e unicuique suum tribue-re, bisogna domandarsi se i primi responsabili di questo euro-scetticismo,e quelli che ne forniscono una qualche giustificazione, non siano propriogli europeisti ufficiali e d’appellation contrôlée, che, con il loro fatuoottimismo di dilettanti, esaltano l’UE qual è, giacché «dopo tutto essa hadato risultati straordinari». E danno per scontato, per fare solo un e-sempio, che l’Europa resti spettatrice inerte (e come, allo stato attuale,potrebbe essere diversamente?), di fronte alle continue stragi in MedioOriente.

Tutto ciò ci induce a chiederci se l’Unione europea, nei limiti e nelleforme in cui si è venuta consolidando in mezzo secolo di vita (che è unlongum aevi spatium anche per delle istituzioni) non sia andata progres-sivamente acquistando caratteristiche qualitativamente diverse — sem-pre più diverse — dal progetto originario dei federalisti, e che alcunifederalisti — voces clamantes in deserto — continuano a difendere:caratteristiche che sembrano ormai irreversibili.

La mia personale risposta a questa domanda tende ad essere positiva(dico tende, perché non mi sento un profeta). L’Europa sognata daifederalisti era ed è — per dirla con Spinelli — un’Europa «imperativo diciviltà». Quella esistente è una semplice impresa economica, fondata so-

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lo sull’interesse (e non di rado sull’egoismo). E le giovani generazioni —e anche, ormai, quelle di mezza età — non conoscono se non questa;mentre gli Stati nazionali, sia pur declassati e ridotti al rango di medie epiccole potenze, escluse dalle grandi scelte internazionali, si sono inqualche modo adattati a questa loro decadenza e sopravvivono: stanca-mente e poco gloriosamente, ma sopravvivono.

E’ allora da chiedersi, se il proposito di ridare un’anima a una Unioneeuropea che l’ha da gran tempo, e definitivamente, perduta non sia il vanotentativo di far rivivere un cadavere. Se cioè l’Unione europea — l’interaUnione europea — non debba esser lasciata sopravvivere stancamentenella sua attuale esistenza «incerta fra la vita e il nulla» (per dirla con unpoeta italiano, Giovanni Pascoli), e se l’ideale federalista non debbaessere rilanciato — se pur sarà possibile — con un progetto (una forzapolitica che lo propugni) interamente nuovo. O se invece l’occasionepresentatasi negli anni immediatamente successivi alla fine del secondoconflitto mondiale non sia andata perduta per sempre, e gli europei nonsi siano definitivamente adattati ad essere, avrebbero detto i nazisti,geschichtspensionierte Völker, popoli in pensione dalla storia.

Certo, diceva Benedetto Croce, la storia è un processo sempre apertoe, aggiungeva Orazio, multa renascentur quae jam caecidere. Ma, pro-segue Max Scheler, il lungo intervallo che precede tale incerta rinascitaè caratterizzato da una sittliche Stagnation, da un immobilismo morale incui importanti conquiste vanno, per intere generazioni, interamenteperdute.

E’ questa la sorte che attende gli europei? O è ancora possibile, comedicono i francesi, un sursant d’orgoglio e di resipiscenza?

E’ quello in cui, nonostante tutto, continuiamo a confidare.

Andrea Chiti-Batelli

NOTE

(1) Intervista a Gad Lerner nella Stampa del 14 ottobre 1996.(2) Articolo nella Repubblica del 21 maggio 2000; intervista a Franco Venturini nel

Corriere della Sera del 4 luglio; conversazione con Barbara Spinelli nella Stampa del 13luglio.

(3) Ne ho svolto un esame critico particolareggiato nel mio vol. Letteratura pro e controMaastricht, Roma, Ed. Dimensione Europea, 1995, pp. XLIX, 270.

(4) La rivista è Federalismo e Libertà (fino a qualche anno fa Federalismo e Società),

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Bologna, e l’articolo è apparso col titolo «Euro incerto e deboluccio» nel n. 3-4/2000.(5) Mi riferisco alla relazione del Lindsey — che fino alla metà del 1997 è stato membro

del Consiglio della Riserva degli Stati Uniti — nel volume del Philip Morris Institute, Qualeruolo globale per l’U.E.?, Bruxelles, 1997 (apparso in più lingue). Le preoccupazioni e-conomiche e politiche del Lindsey e di altri sono ampiamente ed efficacemente argomentate— anche se da un punto di vista solo molto tiepidamente europeista — nei contributi alnumero del 14 novembre 1997 di Aus Politik und Zeitgeschichte, allegato al settimanale diBonn Das Parlament: numero interamente dedicato ai problemi e alle difficoltà dell’Unio-ne europea all’indomani dell’accordo di Amsterdam e alla vigilia dell’entrata in vigore dellamoneta europea; e ripetute, in termini ancor più critici, da Milton Friedman (in DossierEuropa, Roma, n. 21, dicembre 1997, edito dalla Commissione dell’UE) e da vari altri autoriamericani (riassunti da Richard Lambert nel Financial Times del 19 novembre 1997). Unadiscussione più approfondita di tutto l’argomento, e un esame particolareggiato delle tesifavorevoli e contrarie alla moneta europea, può trovarsi nel mio volume Letteratura pro econtro Maastricht, cit. alla nota 3.

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Interventi *

Alexandre Marc. Il personalismoal servizio dell’Europa **

BERTRAND VAYSSIERE

Alexandre Marc rappresenta un caso singolare tra i sostenitori diprogetti europei: certo, questo progetto esiste ed ha il nome di «federali-smo integrale», ma il percorso intellettuale di Marc è stato tanto partico-lare che è opportuno chiederci se l’etichetta di «non conformista» che locollega a questa corrente di pensiero degli anni Trenta non sia all’originedella scarsa conoscenza della sua azione. Quest’uomo, individualista edal carattere caparbio, ha suscitato numerose inimicizie (1) persino nelsuo campo, quello dei federalisti, tra i quali rappresenta una delle figuredi punta. Inoltre la sua eccezionale longevità lo differenzia dalla maggiorparte dei grandi sostenitori di progetti europei: Alexandre Marc è mortoil 22 febbraio 2000, all’età di 96 anni, mentre stava scrivendo un nuovolibro sul progetto di federalismo integrale, che egli non disperava di vedertrionfare un giorno a livello europeo.

Al di là di questa tenacia, che dimostra la vitalità di un uomo che haconsacrato tutte le sue energie alla difesa di un ideale, ci si può domanda-re quanto pesi un’azione condotta al di fuori del tradizionale quadropolitico-istituzionale: Alexandre Marc sognava un’Europa che nascessedalla mobilitazione della società nel suo insieme e diffidava, per la suaformazione intellettuale e personale, del mondo politico, che ha sempreavvicinato con reticenza. Occorre anche chiedersi quale sia stato il pesodelle circostanze nell’azione di Marc, azione che, nel corso della sua vita,assume la forma di una successione di tappe, che hanno precisato il suoprogetto e determinato il modo in cui egli lo ha difeso.

Pertanto affronteremo la questione suddividendola in tre parti, che

* In questa rubrica vengono ospitati interventi che la redazione ritiene interessanti peril lettore, ma che non riflettono necessariamente l’orientamento della rivista.

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rappresentano i tre momenti forti del concepimento, da parte di AlexandreMarc, del suo progetto. Innanzitutto ci occuperemo della sua formazio-ne, non separabile dal suo percorso umano, che fa di Marc il modellodell’uomo «senza patria» (come Richard Coudenhove-Kalergi) (2),minacciato più volte di espulsione dalla Francia all’inizio degli anniTrenta, a causa delle sue origini russe, e che fu naturalizzato definitivamen-te soltanto nel 1946. Questo percorso movimentato, che si situa nel pe-riodo fra le due guerre mondiali, dimostra che il quadro europeo nonrappresenta necessariamente una premessa alla elaborazione di un pro-getto politico e sociale e che esso può essere incontrato anche alla fine diun lungo cammino; infatti Alexandre Marc concepisce questo quadro aquarant’anni. Dopo il pensiero, l’azione: agli occhi di Marc, come dimolti altri federalisti, la seconda guerra mondiale sembra possedere lecondizioni rivoluzionarie necessarie per far trionfare un progetto sino adallora ignorato dalle élites e dall’opinione pubblica. Questo passaggioall’azione avviene all’interno dell’Unione europea dei federalisti (UEF),organizzazione immaginata durante la guerra, che Marc ha contribuito acreare (dicembre 1946), nel cui seno egli si impegna totalmente in unaepoca-cerniera: il presentatore del progetto europeo si dedica allora aquestioni tattiche, coinvolto nei grandi problemi di riorganizzazionepolitica, economica e sociale posti dalla fine della guerra. Tuttavia que-sto momento privilegiato sembra concludersi con l’inizio della Guerrafredda, quando allo stesso Marc il progetto non sembra più corrispondereal contesto politico: rassegnato sul piano dell’azione, si trasforma in uneducatore che scommette sul potere delle sue idee nel lungo termine.

Un senza patria non conformista

Una formazione cosmopolita.

Alexandr Markovitch Lipiansky è nato a Odessa il 1° febbraio 1904(19 gennaio del calendario giuliano), da una famiglia ebrea senza grandepratica religiosa: suo padre è procacciatore di affari mentre sua madre,fatto rarissimo all’epoca e in quel paese, esercita una professione quali-ficata (stomato-dentista). Dalla più giovane età Alexandr, circondato daprecettori, dimostra una curiosità intellettuale senza limiti e già eclettica:il giovane russo è ben presto attirato dalla scuola filosofica tedesca, inparticolar modo attraverso l’opera di Nietzsche (afferma di aver lettoCosì parlò Zarathustra all’età di 10 anni) (3) e di Immanuel Kant che,ambedue, sostengono il rifiuto di ogni determinismo e la superiorità dei

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valori spirituali dell’individuo su ogni considerazione materialistica edutilitaristica. Anche i pensatori socialisti russi del XIX secolo hannocompletato la formazione precoce del giovane, particolarmente tramite illoro ideale di sobornos’t (comunità di persone autogestita, il cui modellosono il mir, l’ artel’, o l’obschina), che occuperà ben presto un postodeterminante nel futuro progetto di Alexandre Marc. Parallelamente aquesta formazione teorica, Alexandre Marc si rivela ben presto un uomoimpegnato e milita nel Partito socialista rivoluzionario, in particolaredopo lo scioglimento dell’Assemblea costituente da parte dei bolscevi-chi il 6 gennaio 1918 (19 del calendario gregoriano) (4).

In questo contesto agitato lascia la Russia per la Francia, via Germa-nia, nel 1919. Si iscrive al Liceo Saint-Louis di Parigi, dove si rivelamolto brillante nello studio e, prima di raggiungere i suoi genitori aBerlino tra il 1922 e il 1923, scopre la filosofia «intuitivista» di Bergson.Perfeziona la sua formazione frequentando le università tedesche di Ienae Friburgo, probabilmente ispirato dalle sue prime letture e desideroso diincontrare alcuni maestri come Heidegger e Husserl. Questa esperienzaben presto delude il giovane Marc, che rifiuta la mancanza di impegnopolitico della filosofia dell’epoca, in un momento di crisi generalizzata.Ritorna quindi in Francia, dove si iscrive alla libera Scuola di Scienzepolitiche (1923-1927), prima di iniziare a lavorare presso le edizioniHachette, dà vita ad un primo gruppo di riflessione denominato Club delMulino Verde (la cui prima riunione ha luogo il 27 ottobre 1930), ed in-contra regolarmente uomini come Nicolas Berdiaeff, Jacques Maritain eGabriel Marcel. A partire da questi incontri si forgia la dottrina per-sonalistica del gruppo Ordre Nouveau.

La dottrina di Ordre Nouveau.

Il gruppo Ordre Nouveau, che adotta questo nome definitivamente altermine del 1930, costituito inizialmente con l’obiettivo di discutere igrandi fondamenti spirituali dell’uomo, si sposta gradualmente versol’esame più generale dei problemi suscitati da un contesto di crisi.Tormentato dalla «decadenza della nazione francese» (5), il regimeproposto dagli uomini di Ordre Nouveau non si definisce per la sua formagiuridica ma è caratterizzato soprattutto da un principio generale di or-ganizzazione sociale rispettoso delle diversità di ogni genere, a differen-za del federalismo anglosassone, più rivolto ai problemi istituzionali.

Bernard Voyenne, militante federalista ed amico molto vicino aMarc, sottolinea nel suo libro Storia dell’idea federalista, che i federali-

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sti sono rapidamente arrivati a maturità politica grazie alle riflessioni diOrdre Nouveau (6).Tuttavia, anche se i legami tra personalismo efederalismo sembrano evidenti, essi non sono stati stabiliti in manieraautomatica e sin dall’inizio dai fondatori di Ordre Nouveau. Voyennescrive che Alexandre Marc «ed i suoi amici non sembravano [...] au-spicare [il federalismo] che come una dimensione necessaria ma in uncerto senso complementare rispetto alla dottrina rivoluzionaria persona-lista che stavano allora elaborando» (7). Nelle risoluzioni dei federalistidurante la Resistenza ed al momento della Liberazione si trovano cer-tamente dei punti in comune con il personalismo di prima della guerra. Ilprimo è quello della «terza via» tra capitalismo e comunismo: Denis deRougemont, in Politica della Persona, definisce i personalisti come degli«anticapitalisti dichiarati che tuttavia non adottavano la collettivizzazio-ne astratta preconizzata dai sovietici; antinazionalisti e ciononostantepatrioti; federalisti sul piano politico europeo e personalisti sul pianomorale» (8). Il secondo punto in comune tra personalismo e federalismodel dopoguerra riguarda l’apoliticità rivendicata dai federalisti che, co-me i personalisti, ritengono che le regole del gioco politico classico sianotruccate dal «fatalismo» della destra e dal «volontarismo» della sinistra,entrambe compromesse all’interno di una Repubblica invecchiata e noncollegata alle realtà sociali; di qui deriva l’anticonformismo politico deidue movimenti, che accettano nelle loro file uomini provenienti da tuttigli orizzonti politici che abbiano come punto comune il rifiuto di unsistema in cui non credono più. Questo anticonformismo giustifica laformazione di una corrente particolare, divisa fra l’influenza della si-nistra libertaria e sindacalista (diffidenza nei confronti dell’imposturaparlamentare e del laissez-faire economico) e quella della destramaurrassiana, contraria alla centralizzazione giacobina e tendente alrispetto delle comunità «viventi», come la famiglia, la regione, il mestie-re o la nazione. Si può rilevare una certa ambiguità in questi uomini chenon vogliono «né destra né sinistra» (9) ed accusano il parlamentarismodi tutti i mali.

Il movimento Ordre Nouveau, creato nel dicembre 1930, sfocia nelpersonalismo (10), che costituisce un impegno basato sull’idea di perso-na e su di una riflessione spirituale (Marc si convertì al cattolicesimo il29 settembre 1933 nel convento del Buon Pastore a Pau) in opposizionealle filosofie totalizzanti (Hegel, Marx) e creatrici di falsi dei (nazionali-smi) (11). Le parole d’ordine del personalismo sono «prima di tutto lospirituale, quindi l’economico, e la politica al loro servizio». I grandi assidi questo pensiero, che si sviluppa per tutti gli anni Trenta, propongono

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una organizzazione economica non statalizzata e liberatrice dell’uomo,contro il monismo statale, per il pluralismo in materia economica esociale, pensata ancora per un quadro ristretto, quello della sola Francia.Si tratta prima di tutto di «federare le forze francesi per costruire un ordi-ne nuovo». Marc difende questa visione nel corso di molte collaborazionicon giornali francesi (La vie intellectuelle, Sept, Temps Présent, Plans)e più raramente stranieri (New Britain).

Contemporaneamente Marc difende l’idea di un «Fronte unico dellagioventù europea» (12). A 29 anni fa pubblicare, in collaborazione conRené Dupuis, il libro Giovane Europa (13), nel quale gli autori insistonosul valore «interculturale» di una nuova generazione segnata dalledelusioni della Grande guerra. Questa generazione, desiderosa di noncedere più all’inquadramento partitico, si è «radicalizzata»; essa è a-pertamente «rivoluzionaria», ha rotto con il sistema liberale e parlamen-tare e con l’individualismo «astratto» (14). I contatti con tedeschi checondividono questo pensiero sono numerosi. Marc li incontra durante lesue peregrinazioni universitarie, come ad esempio Otto Strasser o, so-prattutto, Harro Schulze-Boysen del gruppo Gegner (Avversari), cheMarc già immagina come il futuro leader di un movimento rivoluziona-rio europeo federalista (15), Walter Dirks e Paul Ludwig Landsberg.Questi incontri, essenziali per Marc, che vi vede l’occasione di allacciareun dialogo tra giovani che non hanno più ragione di entrare in conflittofra loro in nome dell’inevitabile rivalità tra Stati-nazione, erano iniziatimolto presto ma non avevano generato nulla di concreto. Un tentativo diconciliazione fra queste diverse correnti non-conformiste, che tendeva-no ad abbracciare orientamenti ideologici differenti partendo da una ba-se comune di rifiuto della società liberale, ha luogo nel febbraio 1932 aFrancoforte, ma si chiude con un bilancio deludente. Marc, constatandoche una cappa di piombo si è chiusa sugli intellettuali tedeschi (il gruppoGegner fu proibito nel 1933), rivolge un appello per la creazione di unaGiovane Europa limitata all’Occidente.

La guerra lo sorprende in una sorta di ritiro nel sud della Francia(l’ultimo numero di Ordre Nouveau è stato pubblicato nel settembre1938). Si arruola nel 141° reparto di fanteria alpina a Orange, forse spin-to dal desiderio di dimostrare il suo attaccamento ad una Francia cheostinatamente gli rifiuta la naturalizzazione; vi esperimenta la «stranaguerra», durante la quale viene trasferito al 5° ufficio dello Stato mag-giore della XV Regione. Congedato nel corso dell’estate 1940, risiede adAix-en-Provence senza sapere chiaramente quale corso dare alla suaazione. Dopo aver vanamente tentato di raggiungere Londra e poi la

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Spagna, valica la frontiera svizzera con la sua famiglia all’inizio del1943, ed in questo paese resta bloccato sino alla Liberazione (16).

Un uomo d’azione desideroso di agire (1941-1948)

La definizione di «federalismo integrale».

La seconda guerra mondiale ha avuto un ruolo importante nell’orien-tare il pensiero di Marc verso l’azione europea, come è avvenuto per altrifederalisti fra i quali, ad esempio, Altiero Spinelli. Per Marc la scopertadel federalismo europeo avviene inizialmente sul piano intellettuale, conla lettura di Proudhon, del quale conosceva l’opera poco e male. AlexandreMarc stesso confessa che Proudhon non era molto considerato all’inter-no della redazione di Ordre Nouveau (17): le teorie proudhoniane eranoinfatti in discredito per la loro astrazione ed il loro «arcaismo» e numerosinon-conformisti erano poco attirati dalle sue soluzioni anarchiche.Marc, sedotto da questa lettura, riesce a far pubblicare una selezione ditesti proudhoniani (18), vera prodezza in tempo di guerra.

Attraverso Proudhon Marc arriva a pensare che il federalismo potreb-be essere il compimento politico del personalismo, con l’apporto di unavera dottrina e di una struttura militante che mancherebbero, invece, adun movimento rigorosamente intellettuale. Elabora, quindi, un progettonettamente di sinistra, unendo al federalismo le tradizioni libertarie delmovimento operaio, e lo espone in Avvento della Francia operaia (scrit-to nel 1944 e pubblicato nel 1945), il cui ultimo capitolo si intitola«Federalismo integrale» (19). Le ultime parole del suo libro spiegano imotivi della scelta: «Un vocabolo, ed uno solo, sembra sfuggire allamaggior parte degli inconvenienti che pesano sui suoi rivali e concorren-ti: socialismo, collettivismo, anarchia, ecc. Un vocabolo, ed uno solo, puòessere comodamente utilizzato per esprimere, per quanto possibile, lecaratteristiche essenziali della Rivoluzione nell’ordine, secondo le aspi-razioni del proletariato francese: Federalismo» (20). Il federalismo diOrdre Nouveau era essenzialmente uno stato dello spirito (21): l’Europaera ancora poco considerata nella sua riflessione. E’ soprattutto il lavorodiretto di una parte della Resistenza che ha portato ad un cambiamento dipriorità negli obiettivi politici e sociali del personalismo.

In tal modo il progetto di Marc si inserisce in un quadro europeo, conl’idea di «federare le Forze federaliste» (novembre 1943) all’internodella Resistenza. Però le sue idee, anche se affermate con rinnovato vi-gore, sembrano al momento applicabili alla sola Francia moribonda, che

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deve superare le debolezze che Marc espone in maniera assai brutale (22).La lotta che Alexandre Marc intende ingaggiare tende, quindi, a preser-vare l’integrità della Francia (in particolare, per usare i suoi termini,contro «l’ingerenza anglosassone») e ad assicurare la sua salvezza mo-rale. La lotta per l’Europa verrà in un secondo tempo, non potendosirealizzare che ad opera di una Francia rigenerata: «Nell’opera necessariaper la costruzione dell’Europa, un ruolo particolarmente importante e,per così dire, decisivo, sarà quello della Francia. Questa affermazione èestranea ad ogni ‘chauvinismo’, ad ogni esaltazione sconsiderata dell’or-goglio nazionale: si esamini soltanto la situazione probabile dell’Europadi domani e non si potrà non riconoscere che la Francia, con tutti i suoidifetti e le sue debolezze, appare come il solo paese in grado di assumereun simile compito» (23).

Come Spinelli in Italia, Marc pensa che il federalismo sia un progettoche può trionfare con l’impegno e non con il sentimento, e ciò lo spingea rifiutare l’ideale europeista affermatosi fra le due guerre, che all’epocaegli ha largamente ignorato. Marc e Spinelli, tuttavia, sono in disaccordosu numerosi punti, tra cui quello concernente il modo in cui giungere aduna società federale; i loro approcci derivano da storie e culture che lirendono particolari, legati a riferimenti e rappresentazioni molto diffe-renti; inoltre, sono fortemente segnati dalla personalità dei loro «creato-ri», essendo ognuno dei due intimamente persuaso che, alla Liberazione,sarà sufficiente incontrare le altre persone che, necessariamente, pensanoal federalismo nel loro stesso modo. Tuttavia, tra le loro due visioni esi-stono senza dubbio dei punti comuni, prima di tutto l’approccio alfenomeno della militanza. Ambedue constatano lo scacco delle ideefederaliste dell’ante guerra e per le stesse ragioni: eccessivo ottimismo,dilettantismo, élitismo dell’Idea (24). Su quest’ultimo punto l’accordo èperfetto: ognuno precisa il suo punto di vista in manifesti e rapportiaccesi; sono coscienti che il federalismo, senza punti di appoggionell’opinione pubblica, sarebbe una causa vana. E la conclusione siimpone da sola: il Federalismo (si usa ancora il singolare) ha bisogno diuna vera piattaforma di lotta, che permetta il coordinamento di energieisolate e indisciplinate. Al momento della Liberazione lo spirito dellaResistenza sembra offrire la possibilità di una unità d’azione a tutti colo-ro che vogliono l’unità europea.

Marc e l’Unione europea dei federalisti.

Il progetto di Marc sembra avverarsi con la creazione dell’UEF, nel

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dicembre 1946, alla nascita della quale egli è particolarmente attivo: nediventa il primo segretario generale, ma è alla testa di una organizzazionedispersa in tutta Europa e disomogenea nel modo stesso di concepire laformula federalista. Per Alexandre Marc l’UEF deve, per questo motivo,rimanere un organo di «collegamento, coordinamento, congiunzione disforzi autonomi» (marzo 1947) (25). La posizione strategica da lui oc-cupata in questa organizzazione può spiegarsi con i numerosi contattiristabiliti od instaurati con organizzazioni federaliste di ogni tendenzacome La Fédération (André Voisin) ,vicina agli ambienti padronali, o iCercles fédéralistes et socialistes (Claude-Marcel Hytte), più indirizzativerso l’azione sindacale. Inizialmente Marc si preoccupa di proteggerel’UEF dall’influenza di alcuni uomini politici che sembrano voler «ricu-perare» l’idea europea a loro profitto, tentativo molto evidente in occa-sione della prima grande riunione federalista di Hertenstein (15-22settembre 1946), il cui messaggio è stato completamente occultato dalcelebre discorso di Churchill a Zurigo sulla necessità degli «Stati Unitid’Europa». Marc, a questo riguardo, ha un risentimento di cui ha dif-ficoltà a discolparsi: «Contrariamente a quanto si scrive abitualmente,questo discorso non ha ‘scatenato’ l’azione europea, che esisteva già: maha fortemente contribuito ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblicae dei governi sull’importanza di questa azione» (26).

Il primo Congresso, a Montreux (27-31 agosto 1947) è sicuramenteil vertice federalista più noto e più diffuso dai media: si trattava di forma-re un corpo dottrinale adatto alla lotta federalista e di far conoscere alnumero più grande possibile di persone l’azione svolta dopo la Libera-zione. A questo fine il Congresso ha privilegiato l’intervento di oratoriconosciuti (Maurice Allais, Léon Jouhaux, Edouard Herriot), con ilrischio di urtare diversi militanti della prima ora: l’UEF si è assicuratacosì più pubblicità andando a cercare un de Rougemont, sollecitatodirettamente da Marc (27), che non lasciando agire federalisti meno«mediatici». L’accusa di idealismo, troppo spesso avanzata contro ilpensiero federalista, ha spinto certi membri dell’UEF a cercare unacopertura intellettuale e una certa influenza presso i governi. AlexandreMarc difende questa linea in un numero di L’Action Fédéraliste Euro-péenne, alcuni mesi dopo il Congresso di Montreux (28). Parallelamentea questa ricerca di sostegni di prestigio, viene condotta un’azione inprofondità per far conoscere al grande pubblico l’azione dei federalisti:così, prima del Congresso, Alexandre Marc tiene una serie di conferenzedove a volte riunisce anche 800 persone, come a Nancy od a Reims (29),e moltiplica i contatti con la stampa (30), denunciando nel contempo il

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«complotto del silenzio» che si trama contro i federalisti (31).Nei principali discorsi pronunciati a Montreux è dato largo spazio al-

le idee di personalismo e di federalismo integrale sostenute da Marc eriguardanti i rapporti fra l’individuo, le comunità intermedie (comune,regione, ecc.) e lo Stato, così come la circolazione e la distribuzione dellaricchezza, senza dimenticare la «partecipazione» all’interno delle impre-se. L’idea di una Assemblea costituente europea composta dai rappresen-tanti del popolo dei diversi paesi è largamente minoritaria. L’antipar-lamentarismo di certi federalisti si esprime nella loro opposizione allaforma centralizzata che, secondo loro, avrebbe automaticamente unoStato europeo, considerato una semplice trasposizione su scala più ampiadello Stato-nazione, ossia una specie di Europa giacobina. I dibattiti diMontreux si concentrano soprattutto sull’azione da condurre alla base,ossia al livello delle forze vive della società più che a quello delle isti-tuzioni.

Una delle priorità del Congresso consiste nell’identificare un modelloeconomico adatto a regolare i diversi problemi di ogni paese. Gli accordiparziali, a quell’epoca in gestazione, non sono apprezzati dai federalisti:la cartellizzazione dell’economia europea e l’attuazione di unioni doga-nali sono condannate (come, ad esempio, quella che la Francia avevatentato di costituire con i paesi del Benelux creando, il 20 marzo 1945, unConsiglio tripartito di cooperazione economica, a carattere discriminato-rio nei confronti della Germania). Questa posizione federalista, contrariaad accordi parziali, è riassunta nella mozione di politica economica, re-datta da Marc ed Allais ed adottata dal Congresso. Essa afferma che«sarebbe assolutamente utopistico pensare che dei tentativi di accordieconomici reciproci fra Stati sovrani potrebbero, da soli, portare ad unavera unione federale europea» (32). Ricercando soluzioni nuove e piùrispettose dello spirito europeo, i federalisti propongono la messa in co-mune delle risorse tanto ambite della Saar (che Marc sperava potesse es-sere trasformata in «distretto europeo») e della Ruhr, a beneficio di tutti.

Il Congresso di Montreux consacra le tesi del federalismo integrale,come logico se si considera che queste tesi si sono imposte da quando ilmovimento federalista ha cercato di unificarsi. Tuttavia il discorso diSpinelli, presente a Montreux, rappresenta una rottura nei confronti deisostenitori del federalismo integrale. Vi si possono trovare le tracce di unfederalismo «opportunista», che si compiace meno della teoria (si cono-sce il rifiuto delle astrazioni da parte di Spinelli) ma che tiene in conto inmaniera più netta il contesto politico. Si può dire che, con Spinelli, laGuerra fredda entra in maniera significativa in un dibattito che, sino a

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quel punto, l’aveva ignorata (33): occorre approfittare del pianoMarshall, da poco proposto, per lanciare l’unità europea. L’idea diun’Europa Terza-Forza, cara a Marc, si allontana impercettibilmente.

Le delusioni della Guerra fredda

Un progetto superato dagli avvenimenti politici.

Curiosamente, nel momento in cui Marc riesce ad imporre il suopensiero ad un Movimento sempre più importante (circa 100.000 mili-tanti nel 1947) la sua influenza declina perché le condizioni politicheimmaginate stanno cambiando con la Guerra fredda, che costringe adadottare punti di vista radicali ed a privilegiare l’ordine anziché la ri-voluzione. In realtà Marc è stato attivo per il tempo necessario a metterein campo una struttura militante molto eterogenea. Le sue numeroseconferenze hanno contribuito a rendere popolari le basi del federalismointegrale, le lettere circolari che invia ai diversi gruppi membri dell’UEFhanno certamente permesso di rafforzare una struttura assai complessa(34). Alexandre Marc richiama all’ordine tutti quelli che sembrano ac-contentarsi di una battaglia soltanto ideologica, rischiando di dimentica-re che il denaro è il nerbo della guerra (35).

Quest’ultimo punto ricorda la concorrenza tra i movimenti europeistinella corsa ai contributi finanziari e consente di capire meglio le preoc-cupazioni provocate dall’esistenza di un movimento (United EuropeMovement) diretto da una personalità come Churchill, che pesa in modoparticolare nel dibattito europeista ed anche negli affari di denaro. Loricorda l’olandese Henri Brugmans, primo presidente dell’UEF, quandodescrive la raccolta di fondi, dalla quale doveva essere escluso AlexandreMarc, troppo rivoluzionario nei suoi discorsi e di carattere impetuoso,essendo gli interlocutori quasi sempre uomini di affari più interessati aitemi classici delle tariffe doganali e della difesa contro il comunismo.Questo primo apprendistato avviene a scapito dei federalisti: Brugmansevoca, ad esempio, un incontro importante (probabilmente nel febbraiodel 1947) tra Marc, Raymond Silva (vice-segretario generale) e lui stessocon i rappresentanti di grandi gruppi economici svizzeri, allo scopo diottenere fondi per l’organizzazione federalista. I tre hanno la crudeledelusione di vedere i loro argomenti smontati da uno dei presenti in sala,il banchiere Edward Beddington Behrens, parente di Churchill, chesottolinea come l’UEF non sia rappresentata da nessun «grande nome»e come sia mossa da dubbie concezioni sociali (36).

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Questi primi mesi di riavvicinamento tra europeisti danno quindil’occasione di constatare che le differenze ideologiche tra i gruppi sonomolto importanti e che la concezione militante del federalismo cozzacontro un sistema in cui prevalgono le forti individualità, che si impe-gnano nel dibattito sperando di orientarlo. La cooperazione tra questidisparati movimenti europei diventa però inevitabile con la creazione delComité international de coordination des Mouvements pour l’unitéeuropéenne, Comitato costituito a Parigi l’11 novembre 1947. L’accordodell’11 novembre viene ratificato dal Comitato centrale dell’UEF il 15novembre, malgrado numerose reticenze (37), perché la destra è megliorappresentata in seno alla corrente europeista. L’influenza degli «u-nionisti», che neppure immaginano un’Europa integrata, si fa dunquesentire in modo molto netto e dimostra l’ingenuità di certi federalisti,facilmente sfruttata dai tenori della politica. Così Alexandre Marc, cheha proposto e sostenuto la storica riunione dell’Aia, ritiene di essere statospossessato di quest’idea da qualcuno più scaltro di lui, nell’occasioneDuncan Sandys, che ben presto controllerà il destino del MovimentoEuropeo: «Come un fanciullo in politica, avevo affidato, con una in-genuità di cui ancora arrossisco, ad un certo Duncan Sandys, incontratoal Congresso di Montreux, il compito di tenere i collegamenti tra noi el’Aia, per prepararvi la riunione degli Stati generali dell’Europa» (38). Daqui un «processo di paternità» (39) a proposito di questo vertice, che benne sottolinea l’ambiguità agli occhi dei militanti federalisti.

Il Congresso dell’Aia e le sue conseguenze.

Ciononostante all’UEF si prepara questo avvenimento, presentatocome un vertice di importanza capitale per la costruzione europea. Essosembra essere la meta sognata dai federalisti, che parlano di «veri Statigenerali dell’Europa» (40) in un opuscolo del dicembre 1947 realizzatoda Alexandre Marc, per il quale occorre soprattutto riunire le «forze vi-ve» dell’Europa, piuttosto che alcune grandi personalità politiche, il cuiimpegno europeo vede con diffidenza (41). Secondo lui questa riunionedeve avere una legittimazione popolare, ossia esprimere la volontà deglieuropei di realizzare la loro unità e di conferire al Congresso dell’Aia u-na autorità politica. Si ritrova in questo appello il segno dei federalistiintegrali, che sino a questo momento sono in maggioranza, come al Con-gresso di Montreaux, e fanno appello a tutti gli attori sociali, chiamati apartecipare alla definizione del loro destino politico (42).Tuttavia nontutti sono d’accordo in seno all’UEF, soprattutto gli italiani, circa la

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definizione da dare alla manifestazione. In una lettera del 18 febbraio1948, Alexandre Marc dichiara che occorre realizzare, nella prospettivadell’Aia, un fronte «anti Spinorossi» (43), poiché teme la conquistadell’UEF da parte degli italiani ( Spinelli e Rossi, redattori del celebreManifesto di Ventotene e fondatori del Movimento federalista europeo).In una lettera a Bernard Voyenne del 28 gennaio 1948 egli infatti scrive:«Si deve con obiettività riconoscere che la linea politica dell’UEF è statadeterminata sino ad ora, in maniera preponderante, dalla «mia» tenden-za. Se io mi allontano — come alcuni si augurano — si avrà presto unadeviazione. Ai miei occhi sarebbe un tradimento nei confronti dell’im-presa che, più di chiunque, ho contribuito a iniziare e sviluppare» (44).

Ma questa linea politica è sempre più combattuta all’interno del-l’UEF: Altiero Spinelli, in un memorandum presentato a Roma il 22gennaio 1948 (45), critica aspramente il termine «Stati generali». Egli, alcontrario, fissa all’azione federalista obiettivi politici che mirano tutti altrasferimento della sovranità, come la convocazione di una Costituenteeuropea, ed esamina la natura dei legami federali fra ciascun membro edei poteri da trasferire all’«autorità europea», la posizione dei federalistisui grandi problemi internazionali, ecc. Le tesi del federalismo «costitu-zionale» acquistano ascendente in seno all’UEF, man mano che esse siapplicano all’attualità politica: il 19 marzo 1948 l’Assemblea franceseapprova a maggioranza (169 deputati) una mozione «sulla convocazionedi una Assemblea costituente europea», presentata da alcuni membri delGruppo Parlamentare Federalista francese, Edouard Bonnefous (UDSR),Paul Rivet (SFIO), François de Menthon e André Noël (MRP). Approfit-tando di questo contesto politico favorevole — anche i parlamentaribritannici (18 marzo 1948) ed olandesi prendono la medesima iniziativanello stesso momento — l’UEF incarica alcuni dei suoi membri diapprofondire il concetto di trasferimento di sovranità, con l’obiettivo diaffrontarlo nel corso del Congresso dell’Aia (46).

Questo cambiamento tattico viene imposto a tutti i membri del Mo-vimento federalista, ed in particolare ad Alexandre Marc, nel corso di unariunione preparatoria del 30 gennaio 1948, in cui viene raccomandata ladisciplina (47), e questo significa, per lui, l’abbandono definitivo deltermine «Stati generali»: nessuna dichiarazione sull’Aia può essere fattasenza riferirne al Segretariato generale (impersonato allora da RaymondSilva ), mentre a tutti viene imposto il termine «Congresso dell’Europa».I federalisti cercano di ottenere la presenza all’Aia di personalità «pro-gressiste», tra le quali spicca Léon Blum. Dopo avergli fatto pervenire unpro-memoria che esprime l’interesse dei federalisti per la sua opera (48),

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Marc cerca di sensibilizzare Blum circa le idee che vuole difendereall’Aia. Tuttavia l’incontro tanto atteso con questo grande personaggiogli lascia un gusto amaro. Ecco che cosa scrive Alexandre Marc di LéonBlum, con il quale è entrato infine in contatto nel dicembre 1947:«Incontro con Léon Blum. Aveva un aspetto molto stanco ed ero moltocolpito per la sua totale mancanza di fuoco rivoluzionario. Ha comincia-to paragonando il Movimento federalista ad un ‘cesto di granchi’ [...]Confesso di aver sentito il gelo lungo la schiena [...]. In breve, Blum haacconsentito a concedermi la risorsa di cui avevo bisogno [la sua pre-senza all’Aia], ma l’ho trovato molto stanco e condizionato dall’aspetto‘mondano’ (i ‘grandi nomi’)» (49).

La risorsa sognata da Marc consisteva in una garanzia per le ideefederaliste al più alto livello politico, in contrapposizione agli unionisti,ben rappresentati intorno alla personalità centrale di Churchill. Lapresenza di quest’ultimo spiega in parte la decisione dei laburisti bri-tannici, del gennaio 1948, di non partecipare al Congresso dell’Aia. Ifederalisti, ed in modo particolare Marc, hanno a lungo tentato diconvincere il Labour a tornare sulla decisione (50), ma inutilmente, equesto ha accentuato l’isolamento politico dell’UEF all’interno delCongresso.Tutto ciò la dice lunga sull’opposizione tra unionisti, che siaccontentavano di una classica cooperazione tra Stati, e federalisti, chesono usciti da questo Congresso con la netta impressione che la «loro»Europa non era stata valorizzata secondo le loro attese, perché nel di-battito l’unità europea non era stata la «questione pregiudiziale». (Marcera stato relatore sulla protezione dei diritti e l’istituzione di una CorteSuprema). Alla fine del Congresso alcuni membri dell’UEF, intorno aMarc, redigono un comunicato stampa in cui si evidenziano le sueinsufficienze: l’UEF lamenta che «in materia politica il Congresso nonha portato a definire gli strumenti pratici che permetterebbero la convo-cazione rapida di una Assemblea europea, rappresentativa di tutte le for-ze vive della società» (51). Alexandre Marc, andando controcorrente ri-spetto alla politica moderata affermatasi all’Aia, fustiga quelli che eglichiama «europeisti conservatori» (52). Contro questo conservatorismo,Marc propone la costituzione di un «cartello progressista» (53), cheincluda uomini come de Rougemont (54). Questa linea «frontista»preoccupa i federalisti più moderati, come Brugmans, che si sentonocriticati senza tante spiegazioni per il loro «opportunismo» (55). Marcallora si dimette dal Comitato internazionale di coordinamento, nel giu-gno 1948, scoraggiato dalle «conversazioni di corridoio, [dalle] pratiche‘diplomatiche’ e in generale [dalle] manovre che hanno reso per me

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soffocante l’atmosfera in cui noi eravamo chiamati a cooperare» (56).Lo scacco dell’Aia provoca i primi dubbi in Marc. Tuttavia, si ha so-

prattutto l’impressione che gli sfugga il quadro generale: la sua dottrinae l’azione di tipo rivoluzionario che egli sostiene sono diventati impos-sibili in un contesto di costante improvvisazione e di buona volontàapparente da parte degli Stati. Marc, troppo segnato dal suo rifiuto di o-gni sistema, comunista o capitalista, sembra superato dagli avvenimenti.Ripetiamo: ufficialmente l’UEF sostiene ancora l’idea di una EuropaTerza Forza, diversa dal capitalismo americano e dal collettivismosovietico, autonoma dall’uno e dall’altro. Ma anche Marc non puòignorare il ruolo positivo delle dichiarazioni politiche che mettono inprima linea il bisogno di unità europea e quindi la sua politicizzazione:«L’offerta sensazionale del Segretario di Stato americano, il generaleMarshall; il significativo discorso di Bevin; l’incontro Bevin-Bidault; ipassi avanti di Clayton; questi sono soltanto alcuni indici dell’ascesa delproblema federalista al primo piano dell’attualità politica» (57). Maquesta «ascesa» torna a vantaggio dell’uomo che sostiene la «via ameri-cana»: Spinelli diventa l’attore più influente dell’UEF, che trasforma inquel «gruppo di pressione» non apprezzato da Marc perché ritenutorivolto soltanto agli uomini politici. Dopo il secondo Congresso federali-sta di Roma (novembre 1948) Marc constata che «nel suo insieme ilfederalismo volge le spalle alla problematica spirituale, culturale esociale e si consacra ad una forma di azione che può essere definitapolitica» (58) e sottolinea le contraddizioni insite nel fare «lobbyng» suitemi federalisti nei confronti degli Stati (59).

Questo «opportunismo», tanto denigrato da Marc, è invece giustifi-cato dalla lotta per la «sopranazionalità» che i federalisti conducono or-mai apertamente con gli Stati che sembrano voler cooperare. Così Marcè poco presente nei dibattiti sul piano Schuman, nel quale vede soltantouna fuga in avanti: è fra quelli che denunciano più apertamente l’ingenui-tà dei federalisti, vittime di una «accelerazione della Storia », nella qualeessi hanno tutto da perdere (60). Per le stesse ragioni Marc si tiene indisparte rispetto ai lavori del comitato ad hoc, al contrario di Spinelli, piùa suo agio nella politica di consigliere. L’inserimento del famoso artico-lo 38 nel trattato CED giustifica del resto la «svolta costituzionale»attuata dall’UEF. Alexandre Marc, diffidente verso questo «passo deci-sivo», a partire dal quale «l’idea del federalismo europeo passa al livellogovernativo» (61), si dedica allora alla formazione, promovendo lacreazione di un dipartimento di studi federalisti (62). Da allora impegnatutte le sue energie in questa lotta «di retroguardia», partecipando ai

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campi per i giovani della Lorelei (luglio-settembre 1951), o creando deicentri di formazione europea, come il Centro di documentazione diSaarbruecken, il Centro internazionale di formazione europea a Nizza(1954) o il Collegio universitario di studi federalisti ad Aosta (1961), chesi propongono come strumento di formazione dei militanti federalistieuropei. Lo scacco della CED, nell’agosto 1954, consentirà un inattesoriavvicinamento a Spinelli, sotto la bandiera dei «massimalisti», nel-l’ambito del Congresso del Popolo Europeo (1955-1961), che implica ilrifiuto del progetto di «rilancio europeo» e provoca la scissione dell’UEF(novembre 1956).

Il destino del progetto di Alexandre Marc ci riporta al contesto par-ticolare del dopoguerra e all’indebita semplificazione consistente nelprendere in considerazione solo l’azione dei Padri dell’Europa. Perché seè vero che la costruzione europea prende corpo con i Trattati di Roma del1957, è pur vero che essa è stata immaginata e preparata durante l’epocacaotica della Guerra fredda. Studiare Marc è anche un modo di assistereal concepimento laborioso e difficile di un progetto coltivato nel dolore,nel dubbio, nella scoperta che può esistere uno iato profondo fra l’utopiasognata e la realtà politica. Quell’epoca è stata ricca per il dibattitoeuropeo, e Marc ne è stato un esempio ed una vittima: è stata certamenteun’epoca prolifica, ma ha infine generato una formula europea difensivae politica, che si è ben poco occupata delle finezze del personalismo. Lavisione di Marc è criticabile: soprattutto gli aspetti corporativistici delfederalismo integrale, che sono preoccupanti dopo il periodo di Vichy edhanno spinto Alexandre Marc ad accettare alleanze che hanno screditatoil suo progetto agli occhi di numerosi osservatori, federalisti compresi,anche se personalmente egli non ha mai avuto alcuna simpatia perle idee della Rivoluzione nazionale. Inoltre, il progetto di Marc è ol-tremodo meccanicistico: non si trovano fondamenti storici nella suaformulazione del federalismo e si notano troppe contraddizioni in que-sto pensiero che mescola l’ordine e le libertà, la pluri-appartenenza e ilcorporativismo, ecc. Il progetto di Marc, segnato dall’approccio filoso-fico del suo autore, privilegia troppo spesso l’idea rispetto all’azione(63), il lungo termine rispetto al breve termine, e questo lo rende pocoadatto a raccogliere un largo consenso soprattutto da parte della classepolitica e dell’opinione pubblica.

Si può perciò semplicemente considerare Marc uno dei «sognatori»che, nel corso dei secoli, hanno costellato la storia dell’idea europea? Larisposta è no, poiché alcune delle sue tesi sono ancora vive nel contestoattuale, in particolare quella dell’obsolescenza della nostre strutture

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politiche, economiche, sociali e culturali, non più adatte al mondo d’oggi,o la denuncia di una società dominata dalle organizzazioni di massa, dovel’uomo è ridotto al rango di oggetto, o quella della penetrazione semprepiù invadente della tecnocrazia nella nostra vita quotidiana. In generalesi può dire che le posizioni di Marc sono meno influenzate dalla di-sillusione derivante dalle strategie che riposano sull’idea dello Stato-nazione di tipo assistenziale. Certe soluzioni basate sul personalismopossono essere discusse nel dibattito attuale sulla costruzione dell’Euro-pa: la sussidiarietà contro l’ipertrofia di qualsiasi potere sembra giàcomunemente accettata, mentre il principio della cooperazione, il solo ingrado di affrontare le esigenze reali della società, è reclamato da tutte leforze sindacali.

Tuttavia, sembra che il progetto di Marc non vada nel senso dellacostruzione europea, così come la si intende oggi: per lui l’approfondi-mento precede l’allargamento, e la riflessione è preferibile all’urgenza.Questa meditazione necessaria e costruttiva, anche se frequentementeinvocata nel dibattito attuale, sembra invece cedere il passo alle accele-razioni della storia, che modellano la costruzione dell’Europa in funzio-ne di circostanze che nessuno sembra controllare. La riflessione appro-fondita e il dibattito sereno sono così esclusi, e ciò ci allontana ancora esempre da questa «problematica spirituale» che Marc voleva porre comepreludio ad ogni progetto europeo e ad un avvenire migliore che restalontano.

NOTE

** Nel ringraziare il professor Gérard Bossuat per l’autorizzazione a diffonderel’articolo, pubblichiamo una breve presentazione, scritta dall’autore, del Colloquio per ilquale è stato elaborato.

Questo articolo è tratto dall’intervento dell’autore nel corso di un Colloquio, organiz-zato dal professor Gérard Bossuat, presso l’università di Cergy-Pontoise l’8, 9 e 10novembre 2001, sugli ambienti, gli intrecci e le personalità che si sono fatti portatori diprogetti di unità europea. Gli storici che vi hanno partecipato hanno voluto presentarericerche nuove sulla storia dell’unità europea, andando al di là della storia tradizionale, ossiaufficiale, delle grandi tappe dell’unità, da Briand a Schuman. Questi eroi, o fondatori, nonerano soli. Il Colloquio è nato dall’idea che i progetti di unità europea non sono nati per casonella mente di geniali ideatori, ma sono il risultato della cultura di chi ha pensato al progetto,del loro orientamento ideologico, di interessi di gruppi o anche di particolari circostanze.Per questo l’attenzione è stata focalizzata sulle personalità e sugli ambienti che hannopresentato a chi aveva il potere politico di decidere dei progetti realistici di costruzione

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(1) Occorre anche domandarsi se Alexandre Marc non soffrisse di un certo grado diparanoia, che rinforzava in lui il sentimento di essere un incompreso; questo spiegherebbeperché il suo progetto (in realtà multiforme) sia stato messo in disparte dai circoli europeisticlassici: «Senza dubbio, nel Movimento europeo prevalgono i politici che vituperano in meil non-conformista, i liberi pensatori e i protestanti intolleranti che non amano in me ilcattolico, i reazionari che hanno paura delle mie idee sociali» («Lettera di Alexandre Marca Padre Antoine Verleye», citata in Isabelle Le Moulec-Deschamps, Alexandre Marc, uncombat pour l’Europe, Università di Nizza-Sophia Antipolis,1992, p. 400.

(2) Marc ha incontrato Coudenhove-Kalergi molto presto, e con lui ha scambiatoalcune lettere durante gli anni Trenta, rimproverandogli una visione troppo conservatricee «mondana» dell’Europa.Torneremo su questo tema più avanti.

(3) Christian Roy, Alexandre Marc et la Jeune Europe (1904-1934), Nizza, Pressesd’Europe, 1998, p. 54.

(4) Ibidem, p. 58.(5) Dall’opera di Robert Aron e Arnaud Dandieu, pubblicata nel maggio 1931 dalle

Edizioni Riéder.(6) Bernard Voyenne, Histoire de l’idée fédéraliste, Parigi-Nizza, Presses d’Europe,

t. III, 1981, p. 164.(7) Ibidem, p. 202.(8) Denis De Rougemont, Politique de la Personne, Parigi, Je Sers, 1934, p. 240.(9) Titolo di un articolo redatto da Jean Jardin, Thierry Maulnier, Robert Loustau,

Denis De Rougemont e Robert Aron nel n. 4 della rivista L’Ordre Nouveau, ottobre 1933,pp.1-6, ripreso nell’opera di Zeev Sternhell, Bruxelles, ed.Complexe, 2000, che vede inquesto rifiuto di fare delle scelte la radice del fascismo alla francese. Si segnala la rispostadei federalisti a questo attacco, in Pascal Sigoda,«Qu’est-ce qui fait courir Z. Sternhell?»,seguito da una «Note complémentaire» di Alexandre Marc in L’Europe en formation, estate1987, n. 268, pp. 39-46 e pp. 47-50.

(10) I principi su cui si basa, esposti in Germania negli anni Dieci da William Stern eMax Scheler, erano allora sconosciuti in Francia.

(11) Alexandre Marc, Claude Chevalley, «Patrie, Nation, Révolution», in Avant-Poste,gennaio-febbraio 1934.

(12) Alexandre Marc, René Dupuis, Manifeste du Front unique de la jeunesseeuropéenne, 1933.

(13) Alexandre Marc, René Dupuis, Jeune Europe, Parigi, Librairie Plon, 1933.(14) Ibidem, p. XII.(15) Christian Roy, op.cit., p. 288.(16) «Viviamo in un vero deserto: nessuna notizia dei miei genitori; nessuna notizia

della famiglia di mia moglie; nessuna notizia dei miei amici lionesi; nessuna notizia delgruppo di Temps Présent, nessuna notizia di nessuno», in Lettera di Alexandre Marc aBernard Voyenne, Estavayer, 24 novembre 1944, p. 1, Nizza, Centre International deFormation européenne (CIFE).

europea. Lo scopo è stato anche di valutare la disponibilità delle società contemporanee adaccettare l’unità, un processo lento e deludente agli occhi dei più entusiasti, ma che haportato dei frutti, dato che oggi esiste l’Unione europea. E’ difficile dare una risposta nettaa un interrogativo importante: questi ambienti, questi attori della costruzione europea qualiAlexandre Marc, ma anche Joseph Retinger, Altiero Spinelli o François Mitterrand, hannoveramente determinato il corso della storia? Oppure tutto è avvenuto per un gioco deldestino? Comunque, la loro volontà, il loro impegno appassionato, mostrano che essi hannocreduto nella possibilità di influenzare il senso della storia dell’Europa.

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(17) Ordre Nouveau, n. 41, p. 62.(18) Alexandre Marc, Proudhon, Libreria dell’Università di Friburgo, 1945.(19) Dottrina che presenta nell’articolo «Le Fédéralisme intégral», in L’Action fédéraliste

européenne, n. 2, 1946.(20) Alexandre Marc, Avènement de la France ouvrière. Traditions et aspirations des

travailleurs français, Porrentruy, ed. Portes de France, 1945, p. 226.(21) «Premiers principes: Du Fédéralisme», in Ordre Nouveau, n. 2, maggio 1933.(22) Note du 4 octobre 1943, pp. 1-2, Scritti personali di Alexandre Marc,Vence.(23) Quelques réflexions sur l’avenir de l’Europe, 20 marzo 1944, p. 2-3, Scritti

personali di Alexandre Marc,Vence. Marc aggiunge in una versione leggermente modifi-cata dello stesso testo, redatta il 16 maggio 1944, che «è forse bene osservare che la tesi[dell’iniziativa francese] non porta danno al ruolo europeo dell’Inghilterra: ma il pesodell’impero britannico è tale che l’Inghilterra propriamente detta sarà in grado di adempierealle sue funzioni europee soltanto quando l’unità del nostra continente si sarà affermata»,pp. 2-3, Scritti personali di Alexandre Marc, Vence.

(24) Alexandre Marc, «Histoire des idées et des mouvements fédéralistes depuis laPremière Guerre mondiale», in Gaston Berger (a cura di), Le Fédéralisme, Parigi, PUF,1956, pp. 129-148.

(25) Alexandre Marc, «Pour l’action fédéraliste», in Cahiers du Monde Nouveau,marzo 1947, n. 3, pp. 104-10; Alexandre Marc, Henri Koch, Lettre circulaire n.8, p. 3, 25aprile 1947, WL-177, Firenze, Archivi storici delle Comunità europee (ASCE).

(26) Alexandre Marc, «Histoire des idées et des mouvements fédéralistes depuis laPremière Guerre mondiale», in Gaston Berger, op. cit., p. 143.

(27) Denis De Rougemont, «The Campaign of the European Congresses», in GhitaIonescu (a cura di), The New Politics of European Integration, Londra, MacMillan, SaintMartin’s Press, 1972, p. 12.

(28) Alexandre Marc, Lettre circulaire n. 9, 29 aprile 1947, WL-124, Firenze, ASCE.(29) Isabelle Le Moulec-Deschamps, «Alexandre Marc et l’action européenne d’après-

guerre», in L’Europe en Formation, estate 1998, n. 309, p. 56.(30) I federalisti hanno potuto contare su di alcuni aiuti per fare conoscere il Congresso

di Montreux, per esempio su quello di Bernard Voyenne, giornalista di Combat e membrodell’UEF, al quale Marc inviava regolarmente dei comunicati che venivano pubblicati inanteprima sul giornale (cfr. Lettera di Alexandre Marc a Bernard Voyenne, Ginevra, 14agosto 1947, Nizza, CIFE).

(31) Lettera a Claude Bourdet, Vaucresson, 18 settembre 1947, Scritti personali diAlexandre Marc, Vence.

(32) Rapport du Congrès de Montreux, 27-31 agosto 1947, Ginevra, p. 130.(33) Discours d’Altiero Spinelli au Congrès de Montreux, 27 agosto 1947, AS-10,

Firenze, ASCE.(34) Ad esempio, Alexandre Marc, Lettre circulaire n. 5, 20 febbraio 1947, WL-124,

Firenze, ASCE, in cui chiede che ogni documento stampato a cura di un membro dell’UEFsia inviato in 200 copie al Segretariato per essere distribuito agli altri membri.

(35) Alexandre Marc, Lettre circulaire n. 15, 10 giugno 1947,WL-177, Firenze, ASCE.(36) Henri Brugmans, A travers le siècle, Bruxelles, Presses interuniversitaires

européennes, 1993, p. 240.(37) Lettre de Henri Brugmans, Alexandre Marc et Raymond Silva aux membres de

l’UEF, 21 novembre 1947, UEF-210, Firenze, ASCE.(38) Citato in Isabelle Le Moulec-Deschamps, op.cit., p. 316.(39) Titolo di un articolo apparso su L’Europe en Formation, primavera 1944, n. 292,

pp. 46-47.

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(40) Alexandre Marc, Brochure de l’UEF, 20 pagine, dicembre 1948, UEF-128,Firenze, ASCE.

(41) Alexandre Marc, «L’Europe assume son destin», in Cahiers du monde nouveau,n. 5, maggio 1948, p. 4.

(42) Alexandre Marc, Projet concernant la délégation française pour les Etats-Généraux de l’Europe de La Haye, 17 novembre 1947, AS-10, Firenze, ASCE.

(43) Lettera a André Voisin, Ginevra, 18 febbraio 1948, p. 1, Scritti personali diAlexandre Marc, Vence.

(44) Lettera di Alexandre Marc a Bernard Voyenne, Ginevra, 28 gennaio 1948, p.1,Nizza, CIFE. Questa impressione appare ancora più netta in una lettera scritta alla stessapersona un mese più tardi: «Prova politica: l’orientamento dell’UEF mi inquieta, temo diperdere il controllo di questa ‘macchina’ che io ho costruito e di essere ridotto a svolgereil ruolo di apprendista stregone», Lettera di Alexandre Marc a Bernard Voyenne, 6 febbraio1948, p. 2, Nizza, CIFE.

(45) Altiero Spinelli, Memorandum sulla preparazione del Congresso dell’Aia, 22gennaio 1948, AS-11, Firenze, ASCE.

(46) Michel Mouskhely, Gaston Stefani, Avant-projet de Constitution fédéraleuropéenne, 5 marzo 1948, ME-404, Firenze, ASCE.

(47) Questo richiamo all’ordine causa un primo conflitto tra Alexandre Marc eBrugmans, al quale allude in due Lettere a Bernard Voyenne, Ginevra, 23 gennaio 1948, p.1 e 3 , e 24 gennaio 1948, p. 1, Nizza, CIFE.

(48) Aide-mémoire pour le président Léon Blum, 3 novembre 1947, WL-99, Firenze,ASCE.

(49) Alexandre Marc, Lettre aux membres du Comité Central, 21 dicembre 1947, p. 1,WL-84, Firenze, ASCE.

(50) Lettera di Alexandre Marc a Harry Hynd, Ginevra, 26 gennaio 1948, UEF-3,Firenze, ASCE; Lettera di Alexandre Marc a M. Mitrinovitch, New Europe Group,Ginevra, 7 febbraio 1948, UEF-3, Firenze, ASCE. Lettera di Alexandre Marc a RichardAcland, Chambre des Communes, 24 febbraio 1948, UEF-2, Firenze, ASCE.

(51) Communiqué de presse de l’UEF, L’Aia, 11 maggio 1948, UEF-210, Firenze,ASCE.

(52) Alexandre Marc, «De l’unionisme au Fédéralisme», in Fédération, n. 40, maggio1948, pp. 9-11.

(53) Lettera a Henri Frenay, Ginevra, 16 novembre 1948, Nizza, CIFE; Lettera aClaude-Marcel Hytte, Ginevra, 17 novembre 1948; Lettera a Raymond Rifflet, Ginevra, 19novembre 1948, Scritti personali di Alexandre Marc, Vence.

(54) Lettera a Alexandre Marc, 1 novembre 1948, Scritti personali di Alexandre Marc,Vence.

(55) Lettera di Alexandre Marc a J. Schroeder, Ginevra, 18 luglio 1948, Scrittipersonali di Alexandre Marc,Vence.

(56) Lettera di Alexandre Marc a Raymond Silva, Ginevra, 25 maggio 1944, UEF-4,Firenze, ASCE; Lettera a Suzanne Marc, 11 maggio 1948, Lettera a V., 11 maggio 1948,Lettera a Anne-Marie Trinquier, 22 maggio 1948, Scritti personali di Alexandre Marc,Vence.

(57) Alexandre Marc, Lettre circulaire n. 11, 18 giugno 1947, WL-177, Firenze,ASCE.

(58) Citato in Isabelle Le Moulec-Deschamps, op. cit., p. 435.(59) Ibidem, p. 440.(60) Lettera di Alexandre Marc a Guglielmo Usellini, Versailles, 27 luglio 1950, UEF-

12, Firenze, ASCE.

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(61) Titolo dell’editoriale del Bulletin de l’UEF, n. 3 bis, 25 agosto 1948, UEF-245,Firenze, ASCE.

(62) Alexandre Marc, Rapport sur la création d’un Département Institutionnel, 19dicembre 1948, UEF-128, Firenze, ASCE.

(63) Cfr. il testo di Lucio Levi, in Lucio Levi, Guido Montani, Francesco Rossolillo,Troisintroductions au Fédéralisme, Lione-Ventotene, I Quaderni di Ventotene, Istituto di StudiFederalisti Altiero Spinelli, 1989, p. 53.

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Il federalismo nella storia del pensiero

ALEXANDER HAMILTON

Quale dovrebbe essere lo scopo ultimo di una Convenzione costituen-te? Una risposta chiara a questa domanda fu data da Hamilton nel 1780,ben prima che venisse convocata la Convenzione di Filadelfia, nella suaesposizione dei difetti della confederazione in una lunga lettera a JamesDuane, allora membro del Congresso per lo Stato di New York, di cuivengono qui riportati i passi più significativi (1). La Convenzione, cheHamilton auspicava venisse convocata nell’autunno di quello stessoanno, doveva servire per attribuire al Congresso continentale il poteredi decidere in ultima istanza su tutte le questioni vitali per l’Unione, cioèper trasferire la sovranità dalle ex-colonie agli Stati Uniti. A partire daquel momento la creazione di un potere sovrano continentale costituì lastella polare dell’azione politica di Hamilton. Qualche anno dopo, nelsuo intervento alla Convenzione, preoccupato dalla prospettiva di unariforma che mantenesse un debole potere esecutivo a livello continentale,egli non esitò a proporre un monarca elettivo a capo della federazione,al fine di garantire l’unicità e l’efficacia della forma di governo. Il suolealismo nei confronti dell’Unione, prevalente rispetto a quello verso ilsuo stesso Stato di provenienza, New York, spiega perché Hamilton nonfu, come non è tuttora, considerato negli USA il vero interprete delleaspirazioni federaliste del popolo americano, e come questo ruolo vengaattribuito solitamente più a Jefferson o a Madison. Fu però quel lealismoa portarlo a giocare un ruolo fondamentale nel fondare uno Statofederale sovrano su di un’area, quella delle tredici colonie, occupata dapiù soggetti che pretendevano di essere sovrani.

L’esperienza della guerra d’indipendenza delle colonie dalla coronabritannica aveva insegnato ad Hamilton che senza uno Stato continen-tale prima o poi «qualcuno dei singoli Stati diventerà così potenterispetto agli altri (e noi siamo così lontani dagli altri popoli), che avremotutto il tempo e le opportunità di tagliarci la gola a vicenda» (2). Perquesto approvò e difese la nuova Costituzione quando si rese conto che

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essa rappresentava il mezzo per imporre alle ex colonie un nuovoprincipio di governo, basato sull’«allargamento dell’orbita di governosia rispetto alle dimensioni di un singolo Stato, sia rispetto alla unionedi più Stati in una confederazione… La costituzione proposta, lungi dalprevedere l’abolizione dei governi degli Stati, li rende parti costituentidella nuova sovranità statuale, consentendo loro di essere rappresentatidirettamente nel Senato, e lasciando loro importanti ed esclusive porzio-ni di sovranità. Questo corrisponde pienamente, sul piano del significatodei termini, all’idea di un governo federale» (3). Teoricamente nullaavrebbe impedito ad altri continenti, in primis all’Europa, di seguirel’esempio americano. Questo aveva chiesto, all’indomani della chiusuradella Convenzione di Filadelfia, Benjamin Franklin con una lettera adalcuni amici europei: «Vi invio la nuova proposta di Costituzione fe-derale. Sono stato impegnato personalmente per quattro mesi dellascorsa estate nella Convenzione che l’ha elaborata… Se avrà successo,non vedo perché voi non potreste portare a termine in Europa il progettodel buon Enrico IV, formando una unione federale ed una grande re-pubblica di tutti i vostri Stati e Regni, grazie ad una Convenzione similea quella che abbiamo eletto noi per riconciliare i nostri diversi interessi»(4). Ma il fortunato esito della battaglia federalista in America non eradestinato a ripetersi presto altrove.

Come sappiamo, non solo gli europei non seguirono l’esempioamericano, ma ci vollero oltre un secolo e mezzo e due guerre mondialiprima che alcuni paesi, pacificati dall’intervento americano, avviasse-ro un processo di unificazione del continente europeo. Un processo chetuttavia si è sviluppato così lentamente ed in modo tanto incerto da nonessere ancora giunto, dopo oltre mezzo secolo, all’approdo della Fede-razione europea.

I difetti della confederazione americana denunciati da Hamiltonsono i difetti dell’attuale Unione europea. L’impotenza del Congressoamericano trova riscontro in quella delle istituzioni dell’Unione euro-pea. Senza il trasferimento di sovranità dagli Stati all’Unione, nonsarebbe stato possibile fondare in America un sistema di governoefficace e potente. Senza il trasferimento di sovranità dagli Stati alla Fe-derazione europea, non sarà possibile rimuovere il principale ostacolosulla strada dell’unificazione politica degli europei. Letta in questaottica la lettera di Hamilton rappresenta non solo un’ulteriore testi-monianza della lungimiranza politica del principale autore degli arti-coli del Federalist, ma anche un monito a quegli europei, Capi di Statoe di governo o semplici cittadini, che pur continuando a lamentare la

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debolezza dell’Europa, non sono ancora disposti a rinunciare allasovranità nazionale.

La lettera a James Duane contiene diverse anticipazioni delle ar-gomentazioni che Hamilton avrebbe in seguito utilizzato per sostenere laratifica della Costituzione di Filadelfia e per rafforzare il governo fe-derale. Essa conferma la preoccupazione principale di Hamilton: quel-la di far seguire sempre all’analisi dei fatti dei possibili rimedi. Non acaso questa lettera si apre con un perentorio «il difetto fondamentale»,per lasciare spazio nella seconda parte ai «rimedi».

Hamilton conosceva l’influenza ed il prestigio di Duane, uno deiprimi sostenitori della guerra di indipendenza contro la corona britan-nica. Spesso ne avrebbe chiesto l’aiuto anche negli anni successivi.Duane, come la maggior parte dei suoi compatrioti e colleghi nelCongresso, era consapevole dei limiti e dei difetti dell’Unione, ma nonsapeva come superarli. Hamilton non esitò a metterlo di fronte al pro-blema fondamentale, con rispetto, ma anche con decisione, rivolgendosiall’amico che occupava una posizione adeguata per «porre rimedio aldisordine» e proponendogli una procedura per mettere gli Stati di fronteal problema della cessione della sovranità. Una procedura che avrebbeavuto successo solo dopo altri otto anni di lotte politiche. E’ appena ilcaso di aggiungere che l’uso della parola confederazione da parte diHamilton per descrivere sia il sistema istituzionale da cambiare chequello nuovo non lascia adito a dubbi circa la natura pienamentefederale dello Stato che egli ha in mente quando elenca i poteri sovranida attribuire al Congresso. Poteri che, grazie alla battaglia di Hamilton,oggi sono pienamente esercitati dal sistema di governo federale degliStati Uniti d’America.

NOTE

(1) «Alexander Hamilton to James Duan», 3 settembre 1780, in Hamilton Writings,New York, The Library of America, 2001, p. 70.

(2) Ibidem, pp. 72-3.(3) Alexander Hamilton, The Federalist N. 9.(4) Catherine Drinker Bowen, Miracle at Philadelphia, Boston, Back Bay Books,

1986, p. 281.

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I DIFETTI DELL’ATTUALE SISTEMA

Signore,conformemente alla vostra richiesta ed alla mia promessa, vi espon-

go le mie idee circa i difetti del nostro attuale sistema, e i cambiamentinecessari per salvarci dalla rovina. Forse esse sono solo le fantasticheriedi un visionario e non l’assennato punto di vista di un politico. Giudiche-rete voi e ne farete l’uso che vorrete.

Il difetto fondamentale è la mancanza di potere del Congresso. E’appena il caso di mostrare in che cosa ciò consista, poiché sembra uni-versalmente ammesso. Né vale la pena sottolineare come ciò si siaverificato. La sola questione da porci è come porvi rimedio. Si puòtuttavia osservare come questa mancanza ha almeno tre cause.

In primo luogo si è manifestato un eccesso di indipendenza da partedei singoli Stati, gelosi di qualsiasi potere che non sia sotto il lorocontrollo. Questa gelosia li ha condotti ad esercitare il diritto di giudicarein ultima istanza la validità o meno di tutte le misure raccomandate dalCongresso, e ad agire sulla base di ciò che ritengono i loro interessi e leloro necessità. In secondo luogo il Congresso si è mostrato diffidente neiconfronti dei suoi stessi poteri, comportandosi pavidamente e con inde-cisione, facendo continue concessioni agli Stati, accontentandosi di man-tenere solo la parvenza del potere. In terzo luogo non sono stati forniti alCongresso sufficienti mezzi per rispondere alle esigenze del popolo, néabbastanza risorse per procurarseli. Tutto ciò ha reso il Congressodipendente dai singoli Stati, e non dagli Stati nel loro insieme, nel farfronte alle esigenze militari, screditandolo nei confronti dell’esercito.

Si potrebbe argomentare che al Congresso non sono mai stati attribui-ti dei poteri definitivi e che quindi esso non ne può esercitare alcuno, mapuò al massimo rivolgere delle raccomandazioni. A questo proposito sipuò però osservare che il modo in cui il Congresso venne istituito avrebbedovuto garantire, ai fini del bene pubblico, che i suoi membri si conside-rassero già investiti dei pieni poteri necessari per preservare la repubblicadal male. Questi hanno in effetti compiuto molti atti sovrani che eranoloro stati richiesti — la dichiarazione di indipendenza, la dichiarazione diguerra, la creazione di un esercito e di una marina, battere moneta, farealleanze con potenze straniere, nominare un generale in capo, ecc. Tuttiquesti atti sovrani non sono mai stati contestati, e avrebbero dovuto essereconsiderati come il comportamento normale del governo. In fondo ipoteri indefiniti sono poteri discrezionali, limitati solo dallo scopo per ilquale sono attribuiti, nel nostro caso l’indipendenza e la libertà dell’Ame-

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rica. Lo stesso si può dire della confederazione che, dal momento che nonè stata ancora accettata da tutti, non può agire. Invece il Congresso èvenuto meno all’autorità che gli derivava dallo spirito dell’atto che lo haistituito, mentre i singoli Stati non si sono mai riconosciuti in questo attopiù di quanto non sia loro convenuto. Ci vorrebbe troppo tempo perentrare in particolari che, se presi singolarmente, potrebbero addiritturaapparire inconsistenti. Ma nel complesso essi sono molto significativi.Con questo non voglio esprimere un biasimo, ma semplicemente attirarel’attenzione su di un nodo cruciale.

E’ la stessa confederazione che non funziona e che deve esserecorretta: essa non serve né per fare la guerra, né per mantenere la pace.L’esercizio della sovranità assoluta da parte di ogni singolo Stato sullapropria milizia, renderà inutili tutti gli eventuali poteri attribuiti alCongresso, e debole e precaria la nostra unione. In innumerevoli casisono necessari provvedimenti a tutela del bene comune che ricadonosotto la competenza del Congresso, che interferiscono con il potere degliStati, e ci sono casi in cui gli Stati, grazie ai loro poteri sulle rispettivemilizie, possono efficacemente, anche se indirettamente, contrastare ledisposizioni congressuali. Esempi di ciò si sono già manifestati, e credoche li ricorderete senza che mi ci soffermi.

La confederazione lascia dunque ai singoli Stati troppo potere sullapolitica militare, mentre essi non dovrebbero avere niente a che fare conessa. Sia la formazione che il collocamento delle forze militari dovrebbe-ro infatti essere prerogativa del Congresso. Ciò è un fattore essenziale dicoesione dell’unione, e pertanto il Congresso dovrebbe promuovere ognipolitica tesa a contrastare nell’esercito il sentimento di lealtà verso isingoli Stati e a rivendicarlo per sé. Per questo motivo tutte le nomine, lepromozioni e tutti i provvedimenti militari dovrebbero dipendere dalCongresso.

Si potrebbe obiettare che un simile stato di cose sarebbe pericolosoper la libertà. Ma nulla mi appare più evidente del fatto che si corrono giàpiù rischi con un governo federale disunito e debole, che non con uno chein futuro potrebbe usurpare i diritti del popolo: oggi assistiamo al fat-to che i reparti militari obbedirebbero più volentieri agli ordini dei lororispettivi Stati che non a quelli del Congresso, nonostante tutti gli sforziche abbiamo compiuto per preservare l’unità dell’esercito (solo l’in-fluenza personale del Generale ha impedito che ciò avvenisse, e ciò è discarsa consolazione).

Per chi teme per le libertà si può osservare che le costituzioni deisingoli Stati sapranno garantire sempre l’influenza di questi nell’Unione

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e renderanno sempre difficile a qualunque governo generale piegarlicompletamente all’interesse comune. In definitiva, per i nostri Stati saràsempre abbastanza facile opporsi a provvedimenti che non approvano eformare coalizioni contro l’interesse comune. Esiste infatti una grandedifferenza tra la nostra situazione e quella di un impero controllato da ununico centro di governo, articolato sì in contee, province e distretti, masenza organi legislativi autonomi e con organi di controllo e di esecuzio-ne delle leggi che dipendono in ultima istanza da un unico sovrano. Inquesto caso il pericolo risiede proprio nel fatto che il sovrano detiene unpotere sufficiente per opprimere tutte le parti dell’impero. Ma nel caso diun impero composto da Stati confederati, ciascuno con un governocompletamente organizzato e con tutti i poteri necessari per governare suisuoi sudditi, il pericolo è esattamente l’opposto: qui il comune sovranorischia in ogni momento di non avere poteri sufficienti per tenere insie-me l’unione e per mettere le forze comuni al servizio dell’interesse e dellafelicità di tutti.

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L’esperienza fatta dovrebbe essere sufficiente per farci capire a chepunto siamo arrivati. Abbiamo sperimentato la difficoltà di reperire lerisorse necessarie cercando di indurre gli Stati a ripartire equamente fraloro gli oneri per sostenere la causa comune. L’insuccesso del nostroultimo tentativo è illuminante: alcuni Stati hanno fornito un grosso con-tributo, altri un piccolo o addirittura nessun contributo. Inoltre le disputefra gli Stati sui confini esistenti testimoniano delle scarse prospettive dipace che abbiamo se non diamo vita in fretta ad una confederazionecapace di risolvere i conflitti e di imporre l’obbedienza ai propri membri.

L’attuale confederazione continua a lasciare il potere della borsainteramente nelle mani degli Stati, mentre dovrebbe garantire l’autono-mia finanziaria del Congresso attraverso l’imposizione di una impostafondiaria e di una tassa pro capite o quant’altro necessario. Tutte leimposte sul commercio dovrebbero essere stabilite dal Congresso e daquesto stanziate per gli usi che desidera. Senza entrate certe, nessungoverno ha alcun potere effettivo: è chi ha il potere di stringere i cordonidella borsa che deve governare. Se non conquista questo potere, il Con-gresso non potrà avere alcuna autorità.

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Questi sono dunque i principali difetti dell’attuale sistema che mivengono in mente. Sicuramente ce ne sono molti altri, ma minori,

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nell’organizzazione di particolari dipartimenti e nell’amministrazioneche potrebbero ancora essere ricordati. Ma sarebbe un esercizio fastidio-so e noioso elencarli. Se riuscissimo a porre rimedio ai principali difettiche ho segnalato, gli altri verrebbero facilmente corretti.

Vorrei quindi incominciare a proporre quei rimedi che mi sembranonecessari per uscire dalla situazione deplorevole in cui ci troviamo,partendo dalla constatazione che il primo passo da compiere dovrebbeconsistere nell’attribuzione al Congresso dei poteri adeguati per affron-tare la crisi. Questo potrebbe essere fatto in due modi: o il Congresso siriappropria ed esercita i poteri discrezionali di cui è stato originariamenteinvestito per la salvezza degli Stati, facendo appello ai cittadini ed allostato di necessità; oppure si convoca immediatamente una Convenzionegenerale investita dell’autorità necessaria per decidere del destino dellaconfederazione. In quest’ultimo caso gli Stati dovrebbero essere pre-ventivamente messi di fronte alle conseguenze derivanti dall’impotenzadel Congresso e dall’impossibilità di far fronte alla situazione mante-nendo le cose così come sono, in modo che i delegati si facciano un’ideaprecisa del compito loro assegnato e dell’autorità conferita alla Conven-zione. Il mandato dovrebbe includere il potere di attribuire al Congressola proprietà totale o parziale delle terre ancora non occupate, al fine diconsentirgli di dotarsi di un patrimonio autonomo, pur riservando agliStati ai quali appartenevano l’amministrazione.

Il primo progetto penso che sarebbe considerato dal Congresso trop-po ardito perché in verità finora la sua condotta ha dimostrato che esso èlungi dal rivendicare potere per sé, e quindi difficilmente si può sperarenel successo di un simile esperimento.

Non vedo invece alcuna controindicazione nell’attuare il secondoprogetto, che ha un’importanza pari almeno alle ragioni per realizzarlo.La Convenzione dovrebbe riunirsi il prossimo 1° novembre: prima sarà,meglio sarà. I disordini interni sono ormai troppo violenti per essereaffrontati con provvedimenti ordinari o indugiando ulteriormente. Leragioni per cui ritengo necessario che i membri della Convenzione sianoinvestiti di pieni poteri, risiedono essenzialmente nel fatto che non cipossiamo permettere ritardi e che abbiamo bisogno di decisioni immedia-te. Una Convenzione può accordarsi sulla natura della confederazione,cosa che difficilmente gli Stati separatamente sarebbero disposti a fare.Abbiamo inoltre bisogno di un evento decisivo e forte se vogliamo averesuccesso ora e garantirci la futura felicità.

Come ho già detto, per convincere gli Stati che questa è la strada daseguire, il Congresso dovrebbe confessare subito apertamente e con una

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sola voce che non abbiamo gli strumenti per governare e che è necessariaun’Unione solida e capace di imporre le proprie decisioni. Chiedo che laConvenzione abbia il potere di attribuire al Congresso la proprietàparziale o totale delle terre non ancora occupate, proprio perché ènecessario che esso disponga subito di un patrimonio da cui trarre leproprie risorse finanziarie e non vedo al momento altra via per fornir-gliele.

La confederazione dovrebbe in definitiva attribuire al Congresso unasovranità completa, escludendo le funzioni di sicurezza interna che sonoin relazione con i diritti di proprietà ed individuali e il potere di imporretasse locali: questi aspetti possono continuare ad essere regolati attraver-so le legislazioni statali. Il Congresso dovrebbe invece essere completa-mente sovrano in materia di guerra e di pace, di commercio, di gestionedelle finanze, di politica estera e per quanto riguarda l’allestimentodell’esercito e la nomina dei suoi ufficiali, la loro paga e la loroassegnazione. Il Congresso dovrebbe inoltre avere il potere: di allestireflotte, di ordinare la costruzione di fortificazioni, arsenali, magazziniecc., di stipulare trattati di pace alle condizioni che ritiene più opportune,di stabilire con quali paesi è opportuno mantenere relazioni commercialioppure no, di imporre e revocare proroghe sui diritti di importazione edesportazione, di imporre dazi per favorire le esportazioni e di disporrecome meglio crede di queste entrate, di far credito agli Stati nei confrontidei quali questi dazi sono imposti in relazione alle disponibilità di bi-lancio, di istituire un tribunale militare della marina, di battere moneta edistituire una banca che possa costituire riserve proprie e agire autonoma-mente sul mercato internazionale ecc. ecc.

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Come potete vedere, Signore, questa lettera è scritta un po’ frettolo-samente e in modo confidenziale, non come converrebbe rivolgersi ad unmembro del Congresso già afflitto dai crescenti clamori, ma come ci sirivolge ad un amico che può porre rimedio al disordine, che non desideraaltro che la verità e che accetta di essere informato anche da chi è forsemeno in grado di lui stesso di giudicare. Non ho neppure il tempo dicorreggere e ricopiare questo mio scritto. Posso solo aggiungere che re-sto sinceramente e affettuosamente Vostro obbedientissimo servitoreAlexander Hamilton.

(a cura di Franco Spoltore)