Cultura e politica del liberalismo italiano · liberalismo italiano alla caduta del fascismo erano...

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N ote e discussioni Cultura e politica del liberalismo italiano di Loretta Reggiani In Italia la cultura liberale non è mai assurta ad un ruolo egemonico, mancando, lo sottolinea- va Giovanni Sartori in un acuto intervento dodici anni or sono1 e lo hanno confermato alcune belle pagine di Raffaele Romanelli2, di radici autoctone. I liberali dell’Italia risorgi- mentale prima, ed unitaria poi, attinsero il loro bagaglio culturale e politico ai paesi d’oltral- pe, la Francia soprattutto, rimanendo però di- staccati dalla reale situazione sociale ed eco- nomica del paese3. In un recente studio Hartmut Ullrich si è soffermato assai attentamente sulla connessio- ne tra ragioni storiche e ragioni culturali che ha impedito al liberalismo italiano, tra il 1870 ed il 1914, di organizzare un partito di massa della modernizzazione e della industrializzazione; in- fatti, alla vigilia della prima guerra mondiale, il liberalismo italiano non era ancora riuscito a superare il livello di gruppi di pressione e di associazioni4. Consapevole di questi limiti si mostrò Guido De Ruggiero nella sua Storia del liberalismo europeo, scritta nel cruciale 1924, pubblicata l’anno seguente e ristampata varie volte dal 1941 in avanti5. Il filosofo riconosceva il ruolo modesto del liberalismo italiano nel pili vasto contesto europeo e ne individuava la causa nell’incapacità delle classi medie di assumere il compito di mediazione politica e sociale loro spettante6. De Ruggiero si congiungeva così al nodo centrale delle riflessioni del liberalismo italiano nella prima metà del secolo XX: l’indi- viduazione, sociologica ed operativa, di “qua- 1 Giovanni Sartori, La cultura liberale in Italia: difficoltà e prospettive, in Liberalismo 70. Roma — Reggio Emilia, Fondazione Einaudi — Energie Nuove, 1970, pp. 56-64. L’intervento di Sartori sgombra definitivamente il campo da ripetute confusioni tra cultura ed ideologia liberale. 2 Raffaele Romanelli, Italia Liberale (1860-1900). Bologna, Il Mulino, 1979. Romanelli si occupa diffusamente delle origini della cultura liberale italiana nel periodo postunitario dei governi della Destra e della Sinistra. 3 Sull’influenza della cultura francese nell’Italia risorgimentale v. Adolfo Omodeo, Studi sull’età della Restaurazione. Torino, Einaudi, 1970. Come ricorda A. Galante Garrone nella prefazione, lo stesso Omodeo rievocando nel 1945 la sua opera, affermava che “si trattava d’intender l’irrompere del moderno uomo europeo, laico e liberale, dotato del senso della storia e dei problemi della civiltà e già profondamente differenziato dal filosofo umanitario del Settecento [...]”, p. XIV. La minuziosa ricerca di Omodeo nel “mondo” francese si riallacciava così alla necessità di meglio illuminare i legami tra Risorgimento ed Europa, tra cultura italiana e cultura europea. 4 Hartmut Ullrich, L'organizzazione politica dei liberali italiani ne! Parlamento e nel Paese (1870-1914), in II liberalismo in Italia e Germania dalla Rivoluzione d el‘48 allaprima guerra mondiale, a cura di Rudolf Lili e Nicola Matteucci. Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 403-450. In questo volume si legga anche il saggio di Roberto Ruffilli, Lo Stato Liberale in Italia, pp. 485-506, in cui è affrontato il problema della debolezza dello Stato liberale italiano con particolare riguardo all’espansione dello Stato amministrativo tramite la gestione burocratica e alla ricerca di un equilibrio tra decisionismo e costituzionalismo. 5 Guido De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, con prefazione di Eugenio Garin. Milano, Feltrinelli, 1966. Ivi, capp. IV-V1I, pp. 229-374; 463-473. Secondo l’autore la crisi del liberalismo italiano iniziò con l’avvento della Sinistra storica al governo, quando alla scarsa vitalità dello spirito liberale si aggiunse l’attenuazione del sentimento giuridico e della correttezza amministrativa. La stessa Destra non era giunta al potere per la via di uno spontaneo e cosciente sviluppo delle idee liberali, ma “quasi” con un atto di conquista e durante il suo governo aveva finito per identificare la libertà con lo Stato, vedendo anzi nello Stato la meta stessa del liberalismo. “Italia contemporanea”, settembre 1982, fase. 148

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N ote e discussioni

Cultura e politica del liberalismo italianodi Loretta Reggiani

In Italia la cultura liberale non è mai assurta ad un ruolo egemonico, mancando, lo sottolinea­va Giovanni Sartori in un acuto intervento dodici anni or sono1 e lo hanno confermato alcune belle pagine di Raffaele Romanelli2, di radici autoctone. I liberali dell’Italia risorgi­mentale prima, ed unitaria poi, attinsero il loro bagaglio culturale e politico ai paesi d’oltral­pe, la Francia soprattutto, rimanendo però di­staccati dalla reale situazione sociale ed eco­nomica del paese3.

In un recente studio Hartmut Ullrich si è soffermato assai attentamente sulla connessio­ne tra ragioni storiche e ragioni culturali che ha impedito al liberalismo italiano, tra il 1870 ed il 1914, di organizzare un partito di massa della modernizzazione e della industrializzazione; in­

fatti, alla vigilia della prima guerra mondiale, il liberalismo italiano non era ancora riuscito a superare il livello di gruppi di pressione e di associazioni4.

Consapevole di questi limiti si mostrò Guido De Ruggiero nella sua Storia del liberalismo europeo, scritta nel cruciale 1924, pubblicata l’anno seguente e ristampata varie volte dal 1941 in avanti5. Il filosofo riconosceva il ruolo modesto del liberalismo italiano nel pili vasto contesto europeo e ne individuava la causa nell’incapacità delle classi medie di assumere il compito di mediazione politica e sociale loro spettante6. De Ruggiero si congiungeva così al nodo centrale delle riflessioni del liberalismo italiano nella prima metà del secolo XX: l’indi­viduazione, sociologica ed operativa, di “qua-

1 Giovanni Sartori, La cultura liberale in Italia: difficoltà e prospettive, in Liberalismo 70. Roma — Reggio Emilia, Fondazione Einaudi — Energie Nuove, 1970, pp. 56-64. L’intervento di Sartori sgombra definitivamente il campo da ripetute confusioni tra cultura ed ideologia liberale.2 Raffaele Romanelli, Italia Liberale (1860-1900). Bologna, Il Mulino, 1979. Romanelli si occupa diffusamente delle origini della cultura liberale italiana nel periodo postunitario dei governi della Destra e della Sinistra.3 Sull’influenza della cultura francese nell’Italia risorgimentale v. Adolfo Omodeo, Studi sull’età della Restaurazione. Torino, Einaudi, 1970. Come ricorda A. Galante Garrone nella prefazione, lo stesso Omodeo rievocando nel 1945 la sua opera, affermava che “si trattava d’intender l’irrompere del moderno uomo europeo, laico e liberale, dotato del senso della storia e dei problemi della civiltà e già profondamente differenziato dal filosofo umanitario del Settecento [...]”, p. XIV. La minuziosa ricerca di Omodeo nel “mondo” francese si riallacciava così alla necessità di meglio illuminare i legami tra Risorgimento ed Europa, tra cultura italiana e cultura europea.4 Hartmut Ullrich, L'organizzazione politica dei liberali italiani ne! Parlamento e nel Paese (1870-1914), in II liberalismo in Italia e Germania dalla Rivoluzione del‘48 alla prima guerra mondiale, a cura di Rudolf Lili e Nicola Matteucci. Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 403-450. In questo volume si legga anche il saggio di Roberto Ruffilli, Lo Stato Liberale in Italia, pp. 485-506, in cui è affrontato il problema della debolezza dello Stato liberale italiano con particolare riguardo all’espansione dello Stato amministrativo tramite la gestione burocratica e alla ricerca di un equilibrio tra decisionismo e costituzionalismo.5 Guido De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, con prefazione di Eugenio Garin. Milano, Feltrinelli, 1966.‘ Ivi, capp. IV-V1I, pp. 229-374; 463-473. Secondo l’autore la crisi del liberalismo italiano iniziò con l’avvento della Sinistra storica al governo, quando alla scarsa vitalità dello spirito liberale si aggiunse l’attenuazione del sentimento giuridico e della correttezza amministrativa. La stessa Destra non era giunta al potere per la via di uno spontaneo e cosciente sviluppo delle idee liberali, ma “quasi” con un atto di conquista e durante il suo governo aveva finito per identificare la libertà con lo Stato, vedendo anzi nello Stato la meta stessa del liberalismo.

“Italia contemporanea”, settembre 1982, fase. 148

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le” borghesia fosse in grado di accogliere e sviluppare il messaggio liberale. Negli anni in cui De Ruggiero scrisse la sua opera, la necessi­tà di indicare cause e rimedi alla crisi del libera­lismo si presentava urgente: le conseguenze del­la mancata fusione tra l’ideologia liberale, cul­turalmente europea, e la realtà della prassi poli­tica italiana, già evidenti nel periodo postunita­rio, non solo si erano acutizzate, ma erano addirittura giunte al punto critico di rottura. La soluzione proposta da De Ruggiero poggiava sulla formazione di un “blocco” borghese che, riassorbendo le diverse componenti, assumesse un ruolo di centralità nell’ambito del sistema politico. L’obiettivo era la realizzazione di una democrazia liberale che, pur nel rispetto delle esigenze della collettività, proprie dei nostri tempi, eliminasse, col correttivo liberale, il peri­colo della massificazione. Il partito liberale avrebbe avuto un compito di mediazione poli­tica parallelo a quello riservato alle classi me­die7.

A differenza di intellettuali come Gobetti, Dorso e Burzio che, per puntualizzare il nesso riforma morale/rinnovamento radicale della classe politica liberale, tentarono una nuova e più dinamica interpretazione della struttura delle classi sociali, l’analisi di De Ruggiero si rivela carente proprio sul terreno della ricerca delle radici storiche della borghesia, come os­serva anche Manlio Di Lalla8. Tale limite si pone, considerando l’intero percorso ideologi­co del filosofo, in logica coerenza col rifiuto assoluto della divisione della società in classi, tanto che per De Ruggiero la borghesia ha sbagliato nell’accettare il fascismo proprio per­ché con esso ha riconosciuto la propria costitu­zione in classe9.

Ciò nonostante, il libro del De Ruggiero fu considerato dalle generazioni liberali del se­condo dopoguerra un testo base, addirittura indicatore di una precisa strategia politica10. Ora, proprio perché i problemi presentatisi al liberalismo italiano alla caduta del fascismo erano gli stessi indicati dal filosofo venti anni prima, anzi si erano accentuati, le soluzioni proposte per affrontarli risentivano ancor più delle insufficienze già allora manifestatesi. In­fatti, con l’avvento dei grandi partiti di massa lo spazio di penetrazione della cultura liberale risultò ancor più ristretto, mentre il liberalismo politico si rivelò spesso incapace non solo di aderire, ma anche di comprendere le novità sociali del dopoguerra. Ciò derivava in massi­ma parte dalla frequente incomprensione di quei mutamenti economici, e quindi sociali, che, sviluppatisi nel corso della trasformazione capitalistica del paese, erano giunti a compi­mento durante il ventennio fascista; per molti liberali il fascismo era stato una parentesi di illibertà politica, tolta e dimenticata la quale tutto sarebbe tornato a funzionare come pri­ma. La debolezza del liberalismo si rivelò pie­namente nel periodo del centrismo degasperia- no: la tradizionale avversione e le critiche al sistema dei partiti si trasformarono spesso in sterile demagogismo politico, mentre l’errata analisi della struttura sociale, fissata entro schemi prefascisti, portò a sottovalutare per lungo tempo la capillarità del controllo demo- cristiano e clericale, specialmente su quei ceti medi il cui consenso venne organizzato attra­verso istituzioni sempre più inserite nella sfera di potere del partito di governo.

La ricerca storica italiana, tanto versatile nel­l’analisi politica ed economica del primo de-

7 De Ruggiero dimostrò simpatia per il gruppo di “Democrazia liberale” di G. Amendola, in cui vedeva l’unico nucleo liberale non chiuso in rigide, antiquate e snaturanti cittadelle conservatrici. V. Guido De Ruggiero, Democrazia Liberale, “Il Tempo”, 15 gennaio 1920 ed Impressioni politiche della nuova Camera, “Rivista di Milano”, 20 gennaio 1920.8 Manlio Di Lalla, Storia del liberalismo Italiano. Roma-Bologna, Fondazione L. Einaudi - ISML- Sansoni, 1976, pp. 331-339.9 Sulla formazione ideologica di De Ruggiero v. il recente libro di Clementina Gily Reda, Guido De Ruggiero: un ritratto filosofico. Napoli, Sen, 1981, che contiene una dettagliata rassegna bibliografica sul filosofo e le sue opere.10 V. l’introduzione dello stesso De Ruggiero all’edizione del 1949 in cui l’autore accenna al successo dell’opera negli anni quaranta.

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cennio repubblicano, non ha ancora affrontato in maniera sistematica il tema del ruolo del liberalismo in quel periodo, né dal punto di vista politico, né tantomeno da quello cultura­le. Gli aspetti da prendere in considerazione sono certo molteplici. Tenendo conto che i fondi archivistici ancora inesplorati potrebbero riservare notevoli sorprese, le fonti attualmente disponibili, di qualsiasi tipo, non sono molto estese: ulteriore prova, questa, dell’attenzione marginale riservata in Italia all’intera cultura liberale.

Ed è proprio dalla cultura, intesa nel senso più ampio, che converrebbe iniziare a sondare il terreno tenendo ben presente che in questo campo le possibilità di incontri ed interferenze possono essere numerose.

Nel secondo dopoguerra la cultura liberale presentava almeno due aspetti; quello dell’idea­lismo crociano, con cui si era incontrata agli inizi del secolo, e quello delle esperienze e dei cambiamenti, a volte si era trattato di vere e proprie rotture, avvenuti negli anni trenta e

quaranta, nel periodo della clandestinità e della fase più dura della lotta antifascista, attraverso la nascita del liberalsocialismo di Guido Calo­gero, del socialismo liberale di Carlo Rosselli e infine del Partito d’Azione. Per quest’ultimo il riferimento è alle formulazioni e ai programmi elaborati dal gruppo moderato, in cui milita­vano, tra gli altri, A. Omodeo, M. Paggi e L. Salvatorelli; tribuna di discussione delle idee azioniste fu la rivista “Lo stato moderno”, di cui avremo occasione di riparlare in seguito".

Benedetto Croce, in verità, era nato come “filosofo della libertà” soltanto nel 1924; e fu appunto da quell’anno che il filosofo procedet­te ad una precisa analisi dell’ideologia libera­le11 12. Ancora l’anno prima, nel 1923, in un’inter­vista al “Giornale d’Italia”, Croce aveva spiega­to la propria adesione al liberalismo come mos­sa da un intimo senso di appartenenza ad un mondo genericamente borghese13. L’identifica­zione della fede nella libertà con la fede politica dei liberali avvenne solo quando il fascismo gli si rivelò non già un regime capace di restaurare

11 Sarebbe infatti estremamente opportuna un’accurata ricostruzione delle fasi di formazione e sviluppo del liberalsocialismo, ai cui connotati ideologici — almeno in parte — si rifecero talune frange liberali degli anni ’50 spesso considerate “eretiche”. Sul liberalsocialismo v. Riccardo Bauer, Parlilo dAzione, Liberalismo e Liberismo. “Quaderni dell’Italia Libera”, Partito d’Azione, 1944, n. 39; Guido Calogero, Difesa del liberalsocialismo. Roma, Atlantica, 1945, ora ripubblicato in Difesa de! liberalsocialismo ed altri saggi. Milano, Marzorati, 1972; Giustizia e Libertà nella lotta antifascista e nella storia cf Italia. Attualità dei Fratelli Rosselli a quarantanni dal loro sacrificio. Atti del Convegno Intemazionale organizzato a Firenze il 10-12 giugno 1977. Firenze, La Nuova Italia, 1978, in particolare la parte IV, pp. 415-436, cioè le relazioni di Mario Delle Piane, Rapporti tra socialismo liberale e liberalsocialismo e di Tristano Codignola, Giustizia e Libertà e Partito dAzione. Ed anche: Elena Aga Rossi, Il movimento repubblicano. Giustizia e Libertà e il Partito dAzione. Bologna, Cappelli, 1969; Leo Valiani-Gianfranco Bianchi-Emesto Ragionieri, Azionisti cattolici e comunisti nella Resistenza. Milano, Angeli, 1971, pp. 13-148; Emilio Lussu, Sul Partito dAzione e gli altri. Milano, Mursia, 1968. È infine qui opportuno citare la recente raccolta degli atti del convegno, tenutosi a Milano il 10-11 dicembre 1979, dedicato a Socialismo liberale Liberalismo sociale. Esperienze e confronti in Europa. Bologna, Forni, 1981. È impossibile ricordare in questa sede tutti gli interventi — ben un’ottantina — ed i contributi bibliografici, otto, relativi all’intera area europea; basti dire che per quanto concerne l’Italia — e la tematica che ci interessa — la parte più notevole, e da non trascurare, è la prima, relativa a La storia e le idee (pp. 29-117) in cui, accanto ai ricordi biografici di alcuni protagonisti, come G. Calogero, A. Garosci e L. Valiani, si trovano relazioni riguardanti la lunga storia dei non sempre facili rapporti — anche sul piano dello scambio delle idee — fra socialismo e liberalismo.12 Sull’analisi del liberalismo condotta da B. Croce dal 1924 in avanti, v. l’intervista rilasciata al “Giornale d’Italia” nel luglio 1924, ora in: Pagine Sparse. Napoli, Ricciardi, 1943, voi. 2, p. 377; La protesta contro il “Manifesto" degli intellettuali fascisti, “La critica”, 1925, ora in: Pagine sparse, cit., voi. 2, pp. 380-383. Ed anche: Il presupposto filosofico della concezione liberale, in: A tti dell’Accademia di Scienze morali e politiche della Società Reale di Napoli ( 1927); ora in: Etica e Politica, Bari, Laterza, 1956 (2 ed. 1967), pp. 291-300. (La concezione liberate come concezione della vita). Nel suo già citato intervento G. Sartori si diceva d’accordo con Norberto Bobbio nel ritenere che Croce “non poteva capire né accogliere la dottrina liberale nella misura (grandissima) in cui il liberalismo è una teoria empirica sui mezzi e sui dispositivi di sicurezza della politica”. Di G. Sartori v. anche: Stato e politica nel pensiero di Benedetto Croce. Napoli, Morano, 1966. Di Norberto Bobbio v. Benedetto Croce e il liberalismo, in: Politica e cultura. Torino, Einaudi, 1955, pp. 211-268.13 Intervista al “Giornale d’Italia” del 27 ottobre 1923, ora in: Pagine sparse, cit., voi. 2, p. 371. V. anche la lettera a Vittorio Enzo Alfieri: Lettere a Vittorio Enzo Alfieri (1925-1952). Milazzo, Nuova Sicilia Editrice, 1976, p. 5.

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l’ordine prebellico, bensì una dittatura abnor­me e rozza, nemica della stessa cultura ideali­sta14.

Michele Abbate, in Lafilosofia di Benedetto Croce e la crisi della società italiana (in cui sono messi in luce i nessi tra il pensiero crociano e la realtà politica e sociale degli anni che precedo­no il fascismo) sottolinea il rifiuto da parte di Croce di ricercare le cause del fascismo nella società preesistente; il fascismo entrava così nella storiografia idealista come un fenomeno transitorio, privo di collegamenti e richiami col passato politico italiano15.

Qùesti accenni agli anni venti sono indispen­sabili per affrontare il pensiero crociano nel secondo dopoguerra, i cui addentellati col pas­sato sono continui e decisivi. Non a caso negli anni cinquanta ebbe varie riedizioni Etica e politica, apparso nel 1930; in quest’opera sono compresi Gli elementi di politica scritti nel 1924, autentica dichiarazione di principi di Croce, di cui vanno rilette in particolare le pagine dedicate ai partiti politici16; negli stessi anni il filosofo aveva tentato, in Cultura e vita morale, di identificare il ceto culturale con un non ben definito ceto medio, ed il partito libera­le sarebbe potuto divenire una specie di "super partito”, in quanto partito della cultura soste­

nuto e composto da un’astratta “intellighen­zia”17.

Per ricostruire le fasi del pensiero crociano nel periodo postfascista si dovrebbe inoltre risa­lire agli scritti del 1942-44: Perché non possia­mo non dirci cristiani, Per la storia del comu­niSmo in quanto realtà politica, La terza via e L ’Idea liberale contro le confusioni e gli ibridi­sm i18. Occorre prestare molta attenzione a que­ste pagine, di cui Sandro Setta mette in luce aspetti del tutto inediti, osservando come per Croce il rinnovamento del liberalismo sarebbe dovuto passare attraverso l’accogliemento del principio socialista della giustizia sociale19. Il riformismo crociano degli anni 1943-44, affer­ma Setta, giungeva ad una posizione di neutra­lità “benevola nei confronti dei comunisti, em­blematica e diffidente nei confronti dei cattolici in quanto clericali”20.

Sempre Setta si è diffusamente occupato del ruolo del crocianesimo nella cultura del secon­do dopoguerra, cercando di ricostruire la rea­zione negativa di cui fu oggetto sia da parte marxista che cattolica21. In verità, un parziale abbandono del rifiuto opposto dall’area di sini­stra si ebbe, nel 1947, con l’inizio della pubbli­cazione degli scritti dal carcere di Antonio Gramsci, il quale, riconoscendo l’importanza

14 V. Affacendamemi inutili e malgraditi, in: Pagine sparse, cit., voi. 2, p. 390.15 Michele Abbate, La filosofia di Benedetto Croce e la crisi della società italiana. Torino, Einaudi, 1966, p. 100; v. anche la prefazione di B. Croce al libro di Enzo Santarelli, LI problema della libertà politica in Italia. Pesaro, 1946, p. 9.16 Etica e politica, cit., il libro raccoglie i Frammenti di politica del 1924, gli Aspetti morati della vita politica del 1928, il Contributo alla critica di me stesso del lontano 1915, ma pubblicato per la prima volta nel 1918, con un’appendice del 1945. V. in particolare La concezione liberale come concezione della vita in cui si trova la critica della “meccanicistica” costruzione dell’eguaglianza operata dal democraticismo. Interessante ai fini della ricostruzione dei connotati di una stessa storiografia “liberale” v.: Di un equivoco concetto storico: la "Borghesia", in cui Croce definisce il termine borghesia astratto, pseudoscientifico, causa di confusioni in campo economico e sociale.17 Benedetto Croce, Cultura e vita morale, Bari, Laterza, 1926, p. 285. A questo proposito v. Norberto Bobbio, Politica e cultura, cit., in particolare Benedetto Croce e il liberalismo, cit., e Intellettuali e vita politica, pp. 121-138 in cui si parla appunto del sopra ricordato tentativo crociano. Nel 1954-55 sulle pagine di “Nuovi argomenti” e di “ Rinascita” nel corso di una polemica con Bobbio sul rapporto tra liberalismo, democrazia e comuniSmo, Togliatti contestava al liberalismo il merito storico di aver fatto da argine alla dittatura, tanto meno in Italia ed affermava che “la storia e il presente non vanno giudicate sulla base di astratte considerazioni giuridiche e formali, bensì su quella delle reali trasformazioni economiche e sociali”.18 I primi due scritti, del 1943, sono ora in: Discorsi di variafilosofia. Bari, Laterza, 1959, voi. 1, pp. 11-23; 227 e sgg. Gli altri due fanno parte di una serie di opuscoli usciti a Napoli nel 1943-45; La terza via era in appendice a: Per una storia del comuniSmo in quanto realtà politica. Bari, Laterza, 1944, (estratto da: “La Critica” del 20 marzo 1943). L’idea liberale contro le confusioni e gli ibridismi. Scritti vari. Bari, Laterza, 1944.19 Sandro Setta, Croce il liberalismo e l’Italia post-fascista. Roma, Bonacci, 1979, pp. 27-40.20 Ivi, p. 37.21 Ivi, in particolare i capp. 13-14, pp. 157-195.

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del pensiero crociano nella storia della cultura italiana, giungeva a paragonarne la funzione a quella della filosofia classica tedesca22.

Il pensiero gramsciano volto all’analisi criti­ca, aU’assimilazione per superamento dialettico di ciò che di vitale vi era nel messaggio crociano ed idealista, aderiva alla politica del “partito nuovo” e della "via italiana al socialismo” por­tata allora avanti da Togliatti; per il marxismo si trattava di ricollegarsi alla grande tradizione culturale italiana, di “costruire”, partendo da essa, una nuova cultura capace di fornire al proletariato gli strumenti ideologici atti al rag­giungimento della sua egemonia culturale23. Il proletariato sarebbe stato la classe guida di tale percorso ma non isolatamente, bensì con rap­porto delle altre forze sociali ed intellettuali protagoniste della storia del paese; in tale pro­spettiva veniva a collocarsi politicamente il ri­cupero dialettico del crocianesimo24.

In generale si rimproverava, e non a torto, alla cultura crociana il preteso distacco dalla politica e soprattutto quella sorta di monopo­lio, di “assolutismo intellettuale” — come lo definì Ranuccio Bianchi Bandinelli — esercitati a lungo con piglio e decisione25; ciò che colpiva forse di più era, come ha osservato Garin, la mancata consapevolezza da parte di Croce di quanto la sua opera fosse stata “partigiana” e pratica e ciò mentre egli stesso invitava a non confondere il pratico col teoretico26. Certo è che Croce aveva indicato nuove strade a quasi

tutte le discipline umanistiche (eccetto la peda­gogia, che non lo interessò mai molto), e che la sua influenza su diverse generazioni di intellet­tuali (basti ricordare la cospicua raccolta di scritti in suo onore apparsa nel 1950 a cura di Raffaele Mattioli e Carlo Antoni e nella quale si ritrovano i nomi di Federico Chabod, Luigi Salvatorelli, Guido Calogero, Guido De Rug­giero, Ernesto Sestan, Luigi Einaudi)27 fu tale da riconoscergli un ruolo di maestro, spesso anticipatore di indirizzi metodologici poi a lun­go seguiti28.

Ma gli intellettuali “nuovi” del dopoguerra, portavoce di un radicale rinnovamento di tutte le forme ed espressioni culturali, dalla letteratu­ra al cinema, Vittorini ad esempio, intendevano diversamente il rapporto intellettuale/società. Nel disegno culturale proposto dal “Politecni­co”, l’autonomia della cultura che “tanto più arricchisce la politica, e dunque la storia, quan­to meno è politicizzata”, è sì una tesi di natura liberale, come ha puntualizzato Alberto Asor Rosa, ma non finisce col relegare l’attività cul­turale in un ruolo subalterno alla politica, per­ché è anzi nel rispetto di tale esigenza che l’intel­lettuale può e deve svolgere il proprio compito rivoluzionario col porre in primo piano necessi­tà “diverse, intime, segrete, recondite” e perciò rivoluzionarie; a ciò si aggiungano le peculiari componenti umanitarie e sociali dell’ideologia vittoriniana29.

Naturalmente il rilevato distacco culturale e

22 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere. Torino, Istituto Gramsci-Einaudi, 1975, a cura di Valentino Gerratana, voi. 2, quaderno 10, 1932-1935, pp. 1233-34.23 Sandro Setta, Croce e il liberalismo, cit., p. 163.24 A questo proposito v. anche: Paimiro Togliatti, Rileggendo ¡"‘Ordine Nuovo", “Rinascita”, 18 gennaio 1964, ricordato anche da Setta: Croce e il liberalismo, cit., pp. 163-164.25 Ranuccio Bianchi Bandinelli, A che serve la storia dell’arte antica?, “Società”, gennaio-giugno 1945, nn. 1-2, pp. II.26 Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana. 1900-1943. In appendice "Quindici anni dopo 1945/1960”. Bari, Laterza, 1960.27 Raffaele Mattioli-Carlo Antoni, 50 anni di vita intellettuale italiana 1896-1946. Napoli, ESI, 1950, 2 voli.28 Esemplare il saggio di Luigi Einaudi, La scienza economica, in cui l’autore si rifà soprattutto al primo periodo crociano.M Alberto Asor Rosa, Politica e cultura, in Storia d’Italia, Torino, Einaudi, voi. 4, tomo 2, cap. 7, pp. 1596-1608 in cui è ripresa la polemica Vittorini - Pei sull’autonomia della cultura; nel nn. 31-32 del “Politecnico” del luglio-agosto 1946 apparve, nella rubrica “Risposte ai lettori" una replica di Vittorini, appunto dal titolo Politica e cultura, alle affermazioni di Mario Alicata sul nn. 5-6 di “ Rinascita”; Vittorini ribadiva la distinzione tra la politica che agisce sul piano della cronaca e la cultura che agisce su quello della storia. Sul n. 10 della rivista comunista intervenne poi anche Togliatti al quale Vittorini rispose sul “Politecnico” n. 35 del gennaio-marzo 1947, affermando: “la politica, dunque, è storia non meno della cultura. Solo che la cultura è storia che si svolge in funzione della storia e la politica è storia che passa attraverso tutto il piano di necessità anche spicciolo della cronaca”. Ciò per ricordare l’atmosfera del dibattito culturale in cui veniva ad inserirsi lo stesso crocianesimo.

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generazionale tra Croce ed il nuovo ambiente intellettuale dei primi anni del dopoguerra, non era sentito, ed espresso, da una sola delle parti; gli scritti del filosofo sono testimoni del trava­glio di Croce di fronte ad un’Italia molto diver­sa rispetto ad un passato da lui vissuto tanto intensamente.

Dal diario del 1943-44 emerge un Croce ormai anziano, ma non per questo restio ad affrontare i disagi dell’attività politica; ma ne esce, ed è forse questo il dato più importante, il ritratto culturale di un’intera epoca, laddove, in data 27 luglio 1943, Croce scriveva: “il fascismo mi appare già un passato, un ciclo chiuso, e io non assaporo il piacere della vendetta”30.

L’interpretazione del fascismo come degene­razione in contrapposizione ad una mitica Ita­lia prefascista è generale nella cultura liberale del tempo. A questo proposito è da ricordare la polemica svoltasi su tale argomento tra Croce e Parri nel 1945: essa pose a confronto due gene­razioni di intellettuali e politici profondamente — ed irreparabilmente — diverse tra loro31.

Ciò che caratterizzava la cultura liberale era l’incapacità di comprendere fino in fondo — e quindi di farsene carico — i mutamenti che stavano avvenendo nel paese. Non a caso gli

scritti di Croce divennero gradatamente sem­pre più pessimisti: nella Considerazione sul problema morale dei nostri tempi (scritto nel dicembre 1944 e pubblicato nel 1945) comincia ad emergere l’idea di una crisi morale generata dall’irrazionalismo, dall’“attivismo”32.

Il tema sarà ripreso nel 1946 in La fine della civiltà e Anticristo, in cui l’immagine apo­calittica si identifica con l’irrazionalismo latente in ogni individuo33. La materializzazione del­l’irrazionalismo in fenomeni collettivi è per Croce il “totalitarismo”, termine che accomuna comuniSmo, fascismo e razzismo, ossia ogni ideologia che ponga se stessa “come un univer­sale senza individualizzamento”34. Dopo aver interpretato il fascismo come una temporanea “deviazione”, il filosofo abruzzese lo considera ora una vera e propria Weltanschauung irra­zionalista, di cui la massa è il pulsore; l’identifica­zione massa/irrazionalismo ricompone il di­scorso nei suoi termini esatti: il comuniSmo è movimento di massa e quindi appartiene alla stessa categoria del fascismo. Ma tale identifi­cazione rappresenta anche l’estremo tentativo crociano di esorcizzare la paura che suscita nella tradizione culturale in cui egli si riconosce, la nuova società politica di massa del dopo-

30 Scrini e discorsi politici (1943-1947). Bari, Laterza, 1963,2 voli. 11 diario fa parte di Quando l’Italia era tagliata in due. Estratto di un diario (luglio 1943-giugno 1944). Bari, Laterza, 1948. Una moltitudine di personaggi si recò in visita a Croce nella sua residenza di Capri, tra i quali Omodeo, Tarchiani, Pavone, Max Salvadori, Cianca e parecchi membri dello Stato Maggiore Americano.31 Sandro Setta, Croce-Parri, cronaca di una polemica, “Rivista di studi crociani”, gennaio-marzo 1970, n. 1, pp. 98-105; ora in: Croce il liberalismo, cit., pp. 98-114.32 In “Quaderni della critica”, marzo 1945; poi in: Pensiero politico e politica attuale. Scritti e discorsi. Bari, Laterza, 1945, pp. 139-159.33 La fine della civiltà è una conferenza tenuta a Torino il 28 ottobre 1946; insieme a L'Anticristo che è in noi si trova in Filosofia e storiografia. Bari, Laterza, 1949. Sul tema Croce e l’irrazionalismo oltre a Setta v. Nicola Matteucci, Benedetto Croce e la crisi dell’Europa, “1! Mulino", gennaio 1967, n. 1, pp. 84-104.34 Una curiosità: nello stesso anno deiTAnticristo, fu pubblicato in “Ausätze zur Zeitgeschichte” (Zurigo) Wotan di Carl Gustav Jung, scritto nel 1936, in cui lo psicanalista sosteneva che il nazismo, movimento di massa che trova esplicazione nella politica di piazza, era una materializzazione in fenomeni collettivi delle componenti dell’anima umana; per l’autore il nazismo era soltanto ad uno stadio iniziale di uno sviluppo i cui risultati erano ancora inimmaginabili. La tesi di Jung metteva però in luce solo uno fra i tanti elementi che contraddistinsero il nazismo, oltre tutto ben presto istituzionalizzato dal regime. Anche Croce prende in considerazione solo il lato “emozionale” del fascismo, tralasciando di considerare il ruolo primario svolto dalle componenti economiche e politiche. Nella sua analisi non vi sono coinvolgimenti pericolosi, la borghesia in quanto classe è completamente rimossa.

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guerra; come ogni “devianza”, la massa orga­nizzata è isolata, diremmo internata, nella sfera dell’irrazionale, nel regno della follia35.

Negli stessi anni, è opportuno ricordarlo, anche Guido De Ruggiero riconosceva, alla luce degli sconvolgimenti che avevano accom­pagnato e seguito il conflitto mondiale, l’appa­rente assurdità di un’assoluta fiducia nel trionfo della ragione e della libertà, da lui stesso espres­sa nella Storia del liberalismo europeo; tutta­via, era la stessa presenza di quei valori nel proprio spirito ad offrire al filosofo una “sicura testimonianza del loro diritto” e quindi di "quella storia ideale eterna che vive nel nostro spirito”36.

Un altro “nodo” da sciogliere sarebbe quello dei rapporti tra liberismo e liberalismo. Intorno a questo problema, nel 1957 furono raccolti in volume alcuni scritti di Croce ed Einaudi; vi si ritrovano quasi tutti gli interventi (dagli anni venti in poi) dei due “maestri”, o meglio — e ciò vale soprattutto per Croce — sull’intera ideolo­

gia liberale così come si è andata evolvendo nel corso del secolo XX37.

Ai fini della ricostruzione di una storia del liberalismo queste pagine non possono essere certamente tralasciate; il dibattito liberismo/li­beralismo fu infatti piuttosto acceso all’interno del movimento liberale per tutto il periodo del dopoguerra ed i referenti della discussione an­drebbero senza dubbio estesi ad altri protago­nisti oltre Croce ed Einaudi38. Il riproporre, proprio negli anni cinquanta scritti come quelli ora ricordati era forse indice di una specie di autoanalisi da parte dello stesso movimento liberale, teso a ricercare le origini e le risposte ad una crisi che allora travagliava sia il momento dell’elaborazione ideologica, sia quello dell’ini­ziativa politica39. Dalla lettura dei brani di Cro­ce si comprende come il liberalismo sia stato per la maggior parte dei suoi aderenti, educati dall’idealismo, un modo di vivere, una dottrina etica. Per Croce esso era infatti una forma generatrice appartenente alla sfera etica; per

35 La teoria del totalitarismo è stata poi sviluppata da studiosi liberali americani, come Hannah Arendt e J. Talmon che riunendo sotto il medesimo marchio Stalin e Hitler, e tutto ciò che non rientra nelle tradizioni liberali — parlamentari, hanno sottovalutato l’appello alla ragione da parte dei movimenti di sinistra, a cui si contrappongono nettamente le mistiche nazionali e le “emozioni” dei vari fascismi. V. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo Milano, Comunità, 1967; Jacob L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria. Bologna, Il Mulino, 1967.La teoria del totalitarismo è stata oggetto di una critica particolare da parte dei nouveaux philosophes. André Glucksmann afferma che tale teoria sbaglia non nella generalizzazione, bensì nell’esclusione, dimenticando, cioè, il totalitarismo di casa propria; il totalitarismo è ovunque, differiscono soltanto le condizioni nelle quali si può combatterlo. V. André Glucksmann, Ipadroni de!pensiero. Milano, Garzanti, 1981, in particolare La rifinitura della storia, pp. 261-282.36 Guido De Ruggiero, Il ritorno della ragione, Bari, Laterza, 1946, ed. anche nel 1960. V. anche Eugenio Garin, Cronache, cit., pp. 385-388.37 Benedetto Croce-Luigi Einaudi, Liberismo e liberalismo, Milano-Napoli, Ricciardi, 1957, pp. 207.38 Su Croce e il liberalismo v. Wilhelm Roepke, Liberismo e liberalismo, in: Omaggio a Croce, “La tribuna”, Roma, 20 dicembre 1962, n. 24, pp. 27-29; l’economista tedesco, di cui si riparlerà più avanti e le cui teorie ebbero un notevole seguito negli ambienti liberali del tempo, tenta un congiungimento con Croce rifacendosi alla propria teoria secondo la quale l’economia di mercato dovrebbe essere difesa come condizione di una società libera, anche se non fosse il sistema più efficiente sotto l’aspetto puramente economico. V. i numerosi articoli che Roepke pubblicò sul “Mondo”, soprattutto nei primi anni di vita del settimanale, ad esempio: Europa in gabbia, 19 febbraio 1949; L'economia del carnefice, 21 maggio 1949; L’arroganza degli uffici, 9 luglio 1949; L’economia incatenata, 15 ottobre 1949; Paneuropa un’utopia, 31 dicembre 1949; Verità ed errore, 10 gennaio 1953.39 Vale forse la pena di richiamare sommariamente le vicende del Pii in questi anni. Nel 1943 il Pii fu rifondato da gruppi di diversa provenienza ed impostazione ideologica. I contrasti ideologici raggiunsero l’apice nel 1947, quando, al IV Congresso nazionale, risultò maggioritaria la mozione dell’ala destra e molti esponenti della linea minoritaria centrista e della corrente della cosiddetta “sinistra” uscirono dal partito. Nel 1948 il monarchico Lucifero lasciò la segreteria al centrista Villabruna e nel 1951 rientrarono nel partito gli scissionisti del ’47; tra i più qualificanti punti programmatici annunciati in occasione della “riunificazione liberale” figurava l’alleanza con gli altri partiti laici, fondata sui tradizionali principi liberali, ma interpretati con una maggiore sensibilità per i problemi sociali dell’Italia dei nuovi anni cinquanta. La collaborazione centrista fu ricercata, anche se con scarsi risultati nelle elezioni amministrative del 1951-52. In ogni caso, in quel periodo, iniziò in tutto il “mondo” liberale una ripresa sia organizzativa che di contenuti politici. Il nuovo legame con la borghesia imprenditoriale settentrionale sarà, infatti, un elemento determinante della nuova e dinamica segreteria di Malagodi, segnando un vero e proprio “nuovo corso” nella storia del liberalismo politico italiano.

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questo, porlo in diretto rapporto di dipendenza con particolari sistemi economici, quali appun­to il liberismo, avrebbe significato identificare erroneamente due ordini diversi, materializzare la libertà “negando e corrompendo il suo carat­tere di idealità e virtù morale”40.

Gli scritti crociani forse più significativi rac­colti in Liberismo e liberalismo appartengono alla Storia d’Europa nel secolo decimonono, punto di riferimento per intere generazioni di liberali, molti dei quali, nel dopoguerra, consi­derarono un vero appello politico l’epilogo, laddove Croce si diceva convinto che il libera­lismo non avrebbe potuto tornare sic et sempli- citer al passato, ma avrebbe dovuto dare vita a nuove istituzioni, “insinuarsi attraverso classi dirigenti e politiche del tutto nuove”41.

La parte einaudiana dell’antologia esprime tutt’altro intendimento, rivolta com’è ad indi­care modi e mezzi di una libertà quotidiana, da honnêtes gens, ma allo stesso tempo più imme­diatamente aderente all’esigenza del movimen­to liberale di formulare concreti ed efficaci pro­grammi politici. Einaudi non contestava affat­to la tesi crociana della superiorità del libera­lismo rispetto al liberismo, ma considerava questo non un principio economico, bensì una “soluzione concreta”, un mezzo atto a creare una società di uomini liberi e creativi. Il contra­sto con Croce si accentuava quando l’economi­sta, ritenendo impensabile operare distinzioni e scissioni tra le singole “libertà”, affermava che ‘’l’idea di libertà vive sì indipendente dal libe­

rismo economico, ma non si attua se non quando gli uomini non creano un’organizza­zione economica adatta alla vita libera”42.

Anche per Einaudi, come già per Croce, i brani riportati nel volume ricordato conduco­no il lettore ben al di là della questione liberismo-liberalismo, finendo per introdurlo nel più complesso edificio teorico costruito dal­l’economista nel corso della sua lunga carriera scientifica e politica. Il termine liberismo ben poco spiega, in verità, dell’insieme delle teorie einaudiane: il Ubero mercato a cui fa riferimen­to Einaudi è, infatti, il risultato deU’incontro e deU’incastro dei piani elaborati da ogni sogget­to economico in quanto tale43. Per poter poi realmente attuare la Ubera e piena concorrenza occorre accettare certi vincoli giuridici che essa comporta; negU anni del dopoguerra Einaudi arricchirà il suo neoUberismo di anaUtiche pre­cisazioni riguardo modi, tipi e Umiti di interven­to deUo Stato, intesi ad eUminare monopoli artificiali, e perciò iUiberaU, e a garantirne, in­vece, altri naturaU44.

Il Uberismo è uno dei passaggi obbUgati per ripercorrere il flusso, spesso agitato e confuso, del liberaUsmo italiano, ed Einaudi ne rimane il maggior esponente — ideologo e aUo stesso tempo “propagandista”; per una meno fram­mentaria conoscenza del Uberismo einaudiano, oltre al citato volume Liberismo e liberalismo, è necessario risalire direttamente aUe pagine sag­gistiche e giomaUstiche scritte daU’economista negU anni venti e trenta45. Inoltre, su questo

40 Benedetto Croce-Luigi Einaudi, Liberismo e liberalismo, cit., Forze ideali e forze morali. Economia, politica ed etica, pp. 82-87; è il paragrafo 24 dei Paralipomeni del libro sulla storia, incluso in: Il carattere della filosofia moderna. Bari, Laterza, 1941.41 Benedetto Croce, Storia dItalia nel secolo decimonono. Bari, Laterza, 1932; ristampati anche in: Filosofia, poesia e storia. Milano-Napoli, Ricciardi, 1951; riguardo all’influenza della Storia crociana sul pensiero liberale contemporaneo v. anche: Valerio Zanone, Intervento, in: Benedetto Croce una verifica, Roma, Edizioni l’Opinione, 1978, pp. 14-17; Vittorio Enzo Alfieri, La lezione della “Storia", “Il Settimanale", 27 marzo 1978.42 Luigi Einaudi, Dell’anacoretismo economico, “Rivista di storia economica”, giugno 1957, n. 2, ora in Uberismo e liberalismo, cit., pp. 134-150.43 Sul complesso delle teorie einaudiane v. Luigi Einaudi, Il Buongoverno. Saggi di economia e di politica (1897-1954), a cura di Ernesto Rossi, Bari, Laterza, 1955. Nel libro compaiono anche gran parte degli scritti di Uberismo e liberalismo.44 Ivi.45 Luigi Einaudi, Saggi. Torino, La Riforma Sociale, 1933; Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925). Torino, Einaudi, 1959-1965,8 voli.; Scritti economici, storici e civili, a cura di R. Romano, Milano, Mondadori, 1973; v. anche Enrico Deeleva, Uberismo efascismo nelle “Cronache"di Luigi Einaudi (1919-1925), “Il movimento di liberazione in Italia", ottobre-dicembre 1965, n. 81, pp. 75-87.

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argomento verte un recente saggio di Roberto Vivarelli il quale ripercorre la formazione cul­turale e politica di Einaudi dagli inizi del secolo agli anni trenta46.

Le tesi einaudiane, contrapposte da Vivarelli a quelle sostenute da Croce nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, sono contenute in La guerra e il sistema tributario italiano del 192747 e in La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana del 193348. Per Einaudi il falli­mento della classe dirigente liberale e l’avvento del fascismo sono l’atto finale di un lungo pro­cesso degenerativo dello Stato italiano; la poli­tica economica attuata dal 1876 ad esclusiva tutela di minoranze industriali e poi, nell’età giolittiana, anche operaie, ha minato le basi economiche e sociali del paese. Il protezioni­smo è, per Einaudi, responsabile dell’inefficien­za del sistema produttivo italiano e della debo­lezza istituzionale generatrice di corruzione. Le classi medie, e cioè la maggioranza dei cittadini, incapaci di porre fine a tale forma di mercato artificiale e monopolistico, si sono estraniate dalla vita pubblica. La crisi, già giunta a matu­razione al tempo dell’impresa di Libia, è esa­sperata dagli effetti del primo conflitto mondia­le; nell’arroventato e dilaniante clima del primo dopoguerra, la borghesia industriale ha visto nel fascismo lo strumento per instaurare un proprio falso ideale di “pace sociale”. Fino al 1924, è lo stesso Einaudi ad illudersi che il fascismo possa restaurare la “dignità” dello Stato e realizzare, tramite l’attività di De Stefa­ni, un programma economico liberista, rove­sciando in tal modo le decennali e rovinose tendenze parassitane dell’economia e della so­cietà italiana49. Ben presto le speranze dei libe­risti cedono il passo alla delusione ed è proprio

nella mancanza di un’effettiva libertà economi­ca, nel negativo ed ipocrita “paternalismo” del­lo Stato e nel monopolio del potere, ormai divenuto “principale fonte di ogni ricchezza”, che Einaudi individua il carattere autoritario del regime fascista. L’interpretazione einaudia- na dell’intrinseco rapporto di implicazione tra liberismo e liberalismo è già compiutamente formata e la polemica con Croce trova una prima nota d’avvio nell’allora prioritaria neces­sità di ricercare le origini e le cause del fascismo.

Soffermarsi sull’Einaudi degli anni prece­denti la seconda guerra mondiale è senza dub­bio indispensabile per poter poi seguire con maggior chiarezza questo protagonista della storia italiana del nostro secolo che, al pari di Benedetto Croce, svolse un ruolo di alto magi­stero morale nei confronti della cultura liberale. Prova ne sono, fra le altre, le sue collaborazioni alla stampa liberale del secondo dopoguerra: da “Risorgimento liberale” all’“Italia e il secon­do Risorgimento”, dalla “Città libera” alla “Li­bertà”, per non dimenticare “La democrazia liberale” di Cremona, “Il progresso liberale” di Brescia e lo stesso “Bollettino d’informazione del PLI”.

Strumento preliminare per chi voglia rivol­gere la propria attenzione ad Einaudi rimane senza dubbio l’ottima bibliografia dei suoi scrit­ti curata da Luigi Firpo nel 197150. L’opera, minuziosa e corretta, è un’inesauribile fonte di riferimenti biobibliografici; per il periodo che ci interessa due sono le principali indicazioni di lettura che se ne possono trarre: la prima ri­guarda l’origine degli scritti economici di Einaudi pubblicati dal 1947 in poi; la seconda, invece, la possibile acquisizione di quella non ancor sfruttata fonte storica rappresentata dal-

46 Roberto Vivarelli, Liberismo, protezionismo, fascismo. Per la storia e il significato di un trascurato giudizio di Luigi Einaudi sulle origini de! fascismo, in: lì fallimento del liberalismo, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 163-344.47 Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1928. Luigi Einaudi, La guerra e il sistema tributario italiano. Bari, Laterza, 1927.48 Luigi Einaudi, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana. Bari, Laterza, 1933.49 Einaudi espresse un giudizio complessivo su Eie Stefani in La guerra e il sistema tributario italiano, cit., soprattutto a p. 407 e sgg.50 Luigi Firpo, Bibliografia degli scritti di Luigi Einaudi (dal 1893 al 1970), Torino, Fondazione L. Einaudi, 1971, pp. 909.

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le relazioni alla Banca d’Italia scritte dallo stes­so Einaudi negli anni del suo governatorato o quelle dei suoi successori da lui commentate51.

Per quanto concerne la prima questione, quella degli scritti economici, essi rivelano non solo un’origine risalente al periodo 1942-44, ma anche una compiutezza ed un progetto teorico non più sostanzialmente mutati a partire da quegli anni. Base della politica economica di Einaudi governatore della Banca d’Italia e poi ministro del Tesoro rimangono, a ben vedere, quei Lineamenti per una politica economica liberale apparsi nel 1943 nella collana degli opuscoli del Movimento liberale52.

La svolta del 1947 è già in quelle pagine. “Lo Stato liberale” scriveva Einaudi “non avrà da far altro che risabre alle sue tradizioni, quando gb eredi di Cavour avevano costruito un siste­ma tributario duro e sempbce, che per lunghi anni portò il vanto di essere uno dei mighori del mondo”. Altro vanto debo stato prefascista — continua Einaudi — “fu l’aver dato, per la prima ed unica volta neba storia di un lungo periodo di tempo, e per la maggior parte dei paesi civib, stabibtà aba moneta”53 54.

Anche le famose Lezioni di politica sociale, pubbbcate nel 1949, erano state scritte quasi per intero nel periodo bebico; precisamente, la prima parte era apparsa a Locamo nel 1944 con il titolo Che cosa è un mercato, mentre la seconda è costituita dabe lezioni tenute a Lo­sanna, sempre in quell’anno, e pubbbcate come

dispense universitarie del campus itabano col titolo Lezioni di politica economicaM.

Solo la terza ed ultima parte era inedita, ma in realtà si trattava debe lezioni che Einaudi avrebbe dovuto tenere ab’Università di Ginevra neb’inverno 1944-45. Le Lezioni di politica so­ciale rappresentano forse b più completo tratta­to del bberabsmo economico itabano del do­poguerra; tra gb argomenti affrontati merita attenzione l’ampio capitolo dedicato aba critica anabtica del Piano Beveridge, tema di dibattito tra i preferiti dai liberisti deb’immediato dopo­guerra, spesso abievi più o meno eretici di Einaudi, come è b caso di Ernesto Rossi55.

Al di là deb’elaborazione teorica di stampo manuabstico in origine l’intento era didattico, Einaudi diede nebe Lezioni una debe più chiare definizioni deb’economia bberale, quando af­fermava che “a tutti gb uomini viventi in una società civile deve essere data la possibbità di elevarsi da un minimo tenor di vita verso l’alto. Possibibtà non equivale a diritto”56.

Secondo l’economista bberale, in Itaba non esisteva la garanzia di tale diritto in quanto non si era ancora completamente realizzata un’eco­nomia di mercato, e ciò a causa di persistenti vincob protezionistici e debe ambiguità intorno ab’intervento debo Stato neba sfera economi­ca57. Einaudi si ricobegava così abe polemiche e abe critiche dei bberisti itabani del dopoguerra nei confronti di un interventismo statale che finiva per tutelare interessi monopobstici,

51 Antonio D’Aroma, litigi Einaudi banchiere, in: Luigi Einaudi nel centenario dalla nascila. Bologna, ISML, 1977, quaderno n. I,pp. 34-41; v. dello stesso autore: Luigi Einaudi economista, scrittore e bibliofilo nel secondo dopoguerra, “L’industria”, 1964, fase. 3. Ci si riferisce alle annotazioni a margine dei fascicoli, ancora in bozze, distribuiti in occasione delle adunanze.52 Luigi Einaudi, Lineamenti di una politica economica liberale. Roma, Movimento liberale italiano, 1943, n. 3, pp. 8; l’opuscolo fu pubblicato anche nella collana dei Quaderni del Partito liberale, Milano, n. 9. Sempre del periodo clandestino v. La società liberale. Quaderni del Risorgimento Liberale, Milano, 1944, n. 5 e Per una federazione economica europea. Quaderni del partito liberale, Milano, 1944, n. 13.53 Luigi Einaudi, Lineamenti di una politica economica liberale, cit., pp. 6-7-8.54 Luigi Einaudi, Lezioni dipolitica sociale, Torino, Einaudi, 1949, pp. XVIII-252; Che cosa è un mercato. Locamo, Molè, 1944, pp. 44-4 nn.; Lezioni di politica economica. Losanna, Campo Universitario Italiano, Ufficio Dispense, 1944, pp. 15-84, 3 nn.55 Ernesto Rossi, Abolire la miseria, introduzione di Paolo Sylos Labini. Bari, Laterza, 1977; in particolare il cap. Esposizione critica delpiano Beveridge sull’assistenza sociale, pp. 198-232; il libro fu scritto in carcere nel 1942 e poi stampato nel 1946. Rossi fu allievo ed amico di Einaudi, i suoi lavori sulla finanza pubblica e sul mercato del lavoro apparvero dal 1926 al 1930 sulla “Riforma Sociale” diretta da L. Einaudi.56 Luigi Einaudi, Lezioni di politica sociale, cit., pp. 57.57 Luigi Einaudi, Il Buongoverno, cit.

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quindi dannosi ed illiberali; si leggano a questo proposito le dichiarazioni di Guido Carli sui limiti del capitalismo italiano degli anni cin­quanta, aggressivo a livello interno ma assai poco inserito nell’ottica dell’economia di mer­cato presente negli altri paesi europei58.

Ovviamente la cultura crociana ed il liberi­smo einaudiano non sono che due aspetti del liberalismo italiano nel periodo della ricostru­zione. Non trascurabili riflessioni della cultura liberale si ebbero, ad esempio, sui progetti co­stituzionali, di cui si occupa Lorenzo Omaghi nel suo saggio Iprogetti di Stato (1945-1946), riferentesi all’intera area liberal-democratica; dopo aver linearmente evidenziato le differenze e le affinità degli schieramenti politici e culturali appartenenti a tale spazio ideologico, l’autore si sofferma in particolare sulle due direzioni as­sunte dal liberalismo: in particolare la riaffer­mazione da parte del crocianesimo dei fonda- mentali principi liberali ed il confronto, serrato ed a tratti dirompente, con il socialismo59. Ne nasce un giusto interesse per le problematiche influenti poi nel lavoro in sede Costituente, dei neoliberali, impegnati nella ridefinizione delle principali categorie del liberalismo (libera con­correnza, proprietà ed iniziativa privata, filoso­fia liberale) e quindi nella rielaborazione sia di una nuova funzione dello Stato, sia di una nuova classe politica dai connotati rispondenti alle caratteristiche ed alle esigenze del dopo­guerra; detto ciò, non va sottovalutato che gli interventi dei costituenti liberali trovarono il loro limite nell’estrema formalizzazione, legata

alla logica garantista a cui si ispiravano, degli strumenti e dei meccanismi di funzionamento del potere60.

Infine, un ulteriore importante filone rimane quello giornalistico, anche perché attraverso la rilettura di riviste e quotidiani di orientamento liberale sarebbe possibile riallacciare i fili dei più significativi dibattiti culturali e politici che investirono l’area laica: il liberalismo come ideologia e come partito politico, la difesa del laicismo, i rapporti con le altre ideologie pre­senti nel paese.

Oltre ai quotidiani del Pii, “Risorgimento liberale”, “La libertà” e “L’opinione”, occorre­rebbe riandare a riviste come “La città libera”, “La nuova Europa”, “Critica liberale” e “Lo stato moderno”61.

Purtroppo solo “Lo stato moderno” è stato oggetto di attenzione attraverso la ristampa anastatica a cura di Ercole Camurani e l’anto­logia di Mario Boneschi; quest’ultima selezione è articolata per argomenti e riesce a far emerge­re aspetti a tutt’oggi non completamente valo­rizzati del laicismo postbellico62.

In verità, la rivista, diretta da Mario Paggi e che ebbe tra i suoi numerosi collaboratori Ric­cardo Bauer, Ernesto Rossi e Leo Valiani, ap­partenne solo in parte all’area liberale, espri­mendo, in particolare, l’orientamento dell’ala destra del Partito d’Azione.

Quotidiani e riviste offrirebbero inóltre l’op­portunità, per il genere e l’impostazione degli argomenti affrontati, di accostarsi ai problemi del passaggio dal liberalismo come ideologia al

58 Guido Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di Eugenio Scalfari, Bari, Latenza, 1977.59 Lorenzo Omaghi, Iprogetti di stato (1945-1948), in Cultura politica e partiti nell’età della Costituente, a cura di Roberto Ruffilli, Bologna, Il Mulino, 1979, parte prima L'area liberal-democratica, pp. 39-102.“ Nel citato volume Cultura politica e partiti nell'età della Costituente si leggano anche rIntroduzione di Nicola Matteucci, pp. 33-38 e Fra Terza via e conservatorismo di Manuela Fantechi, pp. 103-144, attenta quest’ultima a porre in evidenza il fatto che il liberalismo affrontò i problemi costituzionali privilegiando l’aspetto politico piuttosto che le caratteristiche tecnico-giuridiche.61 Della “Città libera” erano direttori B. Croce, L. Einaudi e Giuseppe Paratore; “Critica liberale" uscì dal novembre 1953 al dicembre 1954; mensile della Gioventù liberale italiana fu diretto prima da Gian Piero Orsello, poi da Giovanni Ferrara. Non si è accennato a “Democrazia liberale” perché appartiene a! periodo successivo, 1957-1963. “Risorgimento liberale” uscì, invece, dal 1944 al 1948 con una lunga serie di direttori: Mario Pannunzio, Ferruccio Disnan, Ugo Pantieri, Manlio Lupinacci, Vittorio Zincone, Giovanni Mantica ed Anna Maria Pellecani. “La libertà” fu pubblicata clandestinamente a Milano dalla fine del 1944 e divenne quotidiano agli inizi del 1945; la “Nuova Europa” fu pubblicata a partire dal 10 dicembre 1944, diretta da Luigi Salvatorelli.62 Mario Boneschi, Lo Stato Moderno. Antologia di una rivista. Milano, Comunità, 1967; Ercole Camurani, Lo Stalo Moderno. Roma. Pii. 1970.

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liberalismo come partito politico. Affrontare tale passaggio implica non solo la necessità di chiarire innanzitutto su quali basi programma­tiche fu rifondato il partito liberale, ma anche quella di individuare a quali forze sociali inten­desse appellarsi e raccogliere: ancora l’indiffe­renziato “blocco” borghese vagheggiato da De Ruggiero venti anni prima, o piuttosto deter­minati ceti borghesi culturalmente di matrice idea­lista, ed è qui che soccorrono riviste e quotidia­ni, ed economicamente situati nelle fascie medio-alte?

Quel ceto medio che, come scriveva Einaudi “è stato e sarà di nuovo domani, grandemente aumentato di numero e quasi universalizzato, il fondamento più sicuro di una salda struttura sociale63. In realtà il Pii, risentì fortemente dei già ricordati limiti dell’ideologia liberale ri­guardo all’analisi socio-politica e non andò mai più in là di un generico appello ad ancor più “generiche” classi medie, in ciò non differen­ziandosi dagli altri partiti laici di cui nel 1950 Francesco Compagna, in un libro “a caldo” sulle lotte politiche del secondo dopoguerra, sottolineava appunto l’incapacità “a mobilitare i ceti medi in senso democratico”64.

Ne conseguirono discrepanze e strozzature non solo all’interno degli stessi partiti, ma a livello dell’intera vita politica del paese.

Purtroppo, limitatamente al Pii, la storio­grafia disponibile non offre chiarificazioni e approfondimenti a tali problematiche; infatti, la storia del Pii è stata finora riproposta da appartenenti allo stesso partito e risente di un’interpretazione di parte che impedisce, in

genere, di risalire ai più decisivi rapporti all’in- temo del partito e fuori di esso. Molti ed impor­tanti problemi non sono stati neppure imposta­ti; ad esempio, nessuno ha compiuto un’analisi della composizione politica e sociale dei vari gruppi che nel 1943 diedero vita al Pii.

Oltre alle identità, andrebbero rilevate e spiegate anche le differenze: infatti, se è vero che tutti i liberali indistintamente avevano a modello politico una restaurazione dello stato prefascista e che uguale per tutti risultava la formazione culturale di tipo idealista, questa base comune conviveva con dissidi interni ed eterogeneità d’intenti che fin da allora minaro­no la credibilità del partito. I risultati delle elezioni del 2 giugno 1946, a cui il Pii si presentò nelle raffazzonate liste dell’Uniohe democratica nazionale, confermarono parecchi timori in questo senso.

Innanzitutto l’analisi dovrebbe soffermarsi sui numerosi opuscoli usciti nel periodo clande­stino per iniziativa delle varie “centrali” liberali: i quaderni del “Risorgimento liberale” pubbli­cati a Milano tra il 1944 ed il 1945; sempre a Milano i "Quaderni” del partito liberale; a Roma, tra il 1 maggio 1943 ed il 14 maggio 1944 la collana, diretta da Giovan Battista Riz­zo, di dieci fascicoli anonimi del “Movimento liberale”: accanto ai fascicoli furono pubblicati anche due quaderni a firma di Carlo Antoni. Nel sud uscì una serie di opuscoli ad opera principalmente di Benedetto Croce; altri scritti sono rintracciabili tra i supplementi dell’“ Opi­nione” piemontese del periodo clandestino, tra la fine del 1944 ed il gennaio 194565. Gli anni

63 Luigi Einaudi, Lineamenti di una politica economica liberale, cit., p. 8; sulla struttura del Pii, cosi come la vedeva ed auspicava Einaudi a quei tempi, v. anche: 15 partiti in Italia, scritto nel 1943 e pubblicato nel 1944 in “Basler Nachrichten".64 Francesco Compagna, La lotta politica italiana nel secondo dopoguerra e il mezzogiorno. Bari, Laterza, 1950; in particolare il paragrafo Lo sbandamento dei ceti medi, pp. 18-25. Delle vicende del Pii Compagna si occupa nella seconda parte, cap. 2, pp. 150-181, asserendo che dal 1947 prevalsero nel partito prassi e mentalità di tipo “salandrino”.65 V. di B. Croce: Per la nuova vita dell’Italia. Scritti e discorsi 1943-44. Napoli, Ricciardi, 1944, La libertà italiana nella libertà del mondo, discorso al primo congresso dei partiti tenuto a Bari il 20 gennaio 1944. Bari, s.e., 1944; L'Europa e l’Italia, discorso aI primo congresso de! Partito Liberale Italiano in Napoli 2 giugno 1944. Bari, Laterza, 1944: Saluto a Roma (5 giugno 1944). Bari, Laterza, 1944; L’Italia nella vita intemazionale. Discorso pronunciato in Roma il 21 settembre 1944. Bari, Laterza, 1944, Il problema dei giovani. Conversazione tenuta in Roma il23 settembre 1944. Bari, Laterza, 1944, (pubblicata in “ Risorgimento liberale" del 28 settembre 1944); nei “Quaderni del Partito Liberale” usciti a Milano vi è poi Che cosa è il liberalismo. Premessa per la ricostruzione del Partito Liberale Italiano, quaderno n. 14.

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1943-45 possono avvalersi anche della raccolta della stampa clandestina e delle memorie di personaggi di rilievo quali Bonomi, Croce, Giovannini, Soleri66.

Vi sono, poi, i documenti conservati presso gli archivi: quelli relativi alla sezione fiorentina, ad esempio, sono descritti nell’inventario, già pubblicato a cura di Rosalia Manno, del fondo di Aldobrando Medici Tomaquinci67.

Per gli anni successivi, invece, si tratta di compiere un lavoro ex novo; esistono infatti solo tre testi che affrontano la storia del Pii, dopo il 1945: Il PLI dal I al X III Congresso Nazionale (1922-1972) di Ercole Camurani; il P LI di Alberto Giovannini ed il Partito Libera­le Italiano da Croce a Malagodi di A. Ciani68. Ai tre si può forse aggiungere, soprattutto per l’impostazione ideologica, I Partiti Italiani dal 1848 al 1955 di Mario Vinciguerra69. Giorgio Galli, infine, ne II difficile governo affronta le vicende del Pii unitamente a quelle degli altri

partiti laici, Pri e Psdi, a partire, appunto, dalla prima legislatura repubblicana70.

Il materiale storiografico consultabile è ri­stretto anche dal punto di vista qualitativo: i libri di Galli e Camurani, quest’ultimo è il più ampio per tematiche e cronologia, sono senz’al­tro gli unici utilizzabili; quello del Ciani è infatti privo di qualsiasi valore storiografico, mentre per Giovannini più che di ricostruzione storica sarebbe il caso di parlare di memorialistica71.

Nessuno, purtroppo, ha ancora provveduto ad utilizzare oltre agli Atti congressuali del partito, i discorsi ed i progetti di legge dei par­lamentari liberali che pubblicati a cura del Pii sono di facile reperibilità. Di particolare impor­tanza quelli di Eugenio Artom, Francesco Cocco-Ortu, Giovanni Cassandra, Guido Cor­tese e Giuseppe Alpino72.

Del tutto in second’ordine è poi passata la presenza liberale alla Costituente: in quella sede i rappresentanti liberali si espressero, è vero, a

66 Ercole Camurani, La stampa clandestina liberale 1943-45. Reggio Emilia, Poligrafici, 2 voli., 1968; dello stesso autore v. La delegazione Alta Italia del P.LI. Bologna, Forni, 1970. Vi sono poi ristampe anastatiche curate dalla Casa Editrice Forni nella collana “Atti e Documenti del Partito Liberale Italiano”; di qualche interesse possono risultare: “L’Italia e il secondo Risorgimento”, “La Penna”, “La Nuova Penna” e “Le Libertà — Organo del Partito Liberale” (Napoli, marzo-agosto 1944). Ivanoe Bonomi, Diario di un anno (2 giugno 1943 - IO giugno 1944). Milano, Garzanti, 1947; Alberto Giovannini, Travaglio per la libertà 1943-47. Bologna, Cappelli, 1962; Marcello Soleri, Memorie, con prefazione di Luigi Einaudi. Torino, Einaudi, 1949.67 Rosalia Manno, L’archivio di Aldobrando Medici Tomaquinci conservato presso l’Istituto Storico della Resistenza in Toscana. Roma. Ministero dell’Interno, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Istituto Grafico Tiberino di Stefano De Luca, 1973. Per le vicende della sezione liberale fiorentina andrebbero rivedute ed indagate anche due figure come quelle di Eugenio Artom e Vittorio Fossombroni.68 Ercole Camurani, Il P.LI. dal la i X III Congresso Nazionale (1922-1972). Roma, Pii, 1973; Alberto Giovannini, I! P.LI. Milano, Nuova Accademia, 1958; Arnaldo Ciani, Il Partito Liberale Italiano da Croce a Malagodi, Napoli, ESI, 1968.69 Mario Vinciguerra, Ipartiti italiani dal 1848 al 1955. Roma, Edizioni dell’Osservatore, 1955.70 Giorgio Galli, Il difficile governo. Bologna, II Mulino, 1972; dello stesso autore v. anche il più generale Ipartiti politici. Torino, Utet, 1974. Interessante è anche il saggio di Gabriele De Rosa, Il Partito Liberale e il blocco nazionale nell’ormai “storico" Dieci anni dopo 1945-1955. Bari, Laterza, 1955, pp. 162-190; v. anche il saggio di Fernando Bevilacqua, L’organizzazione del Partito Liberale Italiano (1949-1958) in L’arcipelago democratico. Organizzazione e struttura dei partiti italiani negli anni del centrismo (1949-1958), a cura e con introduzione di Carlo Vallauri. Roma, Bulzoni, 1981, voi. 1, pp. 327-395. Si tratta di una breve cronaca delle vicende interne del partito a cui si accompagna un’appendice di documenti di vario genere: statuti, mozioni congressuali, tabelle relative al numero degli iscritti al partito ed alla Gli.71 Utili per iniziare una ricerca sui liberalismo italiano sono due saggi bibliografici di Camurani: Contributo alla bibliografia del liberalismo nel mondo. Reggio Emilia, Pii, 1969 e Bibliografie de! P.LI. Reggio Emilia, Pii, 1968.72 V. i discorsi di Giuseppe Alpino sulle finanze e la politica tributaria e quelli di Francesco Cocco-Ortu sulle regioni (in particolare quello del 15 dicembre 1949). Nel 1950 si possono trovare vari interventi di G. Perrone Capano su svariati argomenti, dalle ferrovie all’agricoltura. Gli interventi forse più significativi sono raccolti in 21 fascicoli della collana dei “Quaderni del Pii”, nuova serie, usciti nel 1950-52; vi si trovano, fra gli altri, i nomi di G. Alpino, P. Gentile, A. Conigliaro, E. Storoni, V. Fossombroni, G. Malagodi e F. Compagna. Su Guido Cortese v. Amelia Cortese Ardias, Un liberale moderno: Guido Cortese, Milano, 1967 e Raffaello Franchini, Guido Cortese e il ‘‘Giornale" (1944-1957) in II dissenso liberale. Firenze, Sansoni, 1975, pp. 217-228.

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livello personale, ma senza dubbio ebbero una non sottovalutabile influenza politica, special- mente nel settore economico. La figura di Epi- carmo Corbino è emblematica in questo senso, come si può desumere dalla lettura dei suoi interventi e discorsi dal 1944 al 1958 e dal suo saggio sulla politica economica nel periodo del­la ricostruzione, apparso nel volume miscella­neo Dieci anni dopo. 1945-195573.

Resta poi in gran parte da indagare il ruolo svolto da Croce nelle vicende politiche e nella formazione ideologica del Pii, di cui tenne la presidenza fino al IV congresso nazionale del 1947. Manlio Brosio, in un volume a più mani, Benedetto Croce una verifica, ricordava un Croce attivissimo presidente del Pii, ad esem­pio durante la formazione del secondo governo Bonomi74. Tutti gli scritti e discorsi politici di Croce dal 1943 al 1947 si trovano in un volume dal titolo omonimo; è in queste pagine l’ormai famoso M ovimento liberale e partiti politici, in cui Croce rivendicava al partito liberale la fun­zione di prepartito volto “a fondare la libertà di tutti i partiti”75.

Il ruolo assunto dal Pii all’interno dello schieramento dei partiti antifascisti, si dimostrò ben presto assai diverso da quello rivendicato da Croce; come osservò A. Omodeo, le cui

perplessità e critiche sul ricostituito partito libe­rale si possono ritrovare nel volume Libertà e storia. Scritti e discorsi politici “un partito libe­rale come prepartito avrebbe dovuto realizzarsi non in un partito chiuso fra gli altri, ma in una leale intesa fra i partiti del Comitato Nazionale di Liberazione per dare la precedenza su ogni altro problema al consolidamento e alla difesa della libertà”76.

Motivi di riflessione sarebbero offerti anche da due avvenimenti cruciali nella storia del Pii: l’entrata nel partito del gruppo monarchico che riuscì ad imporre nel 1946 la propria leader­ship, con la susseguente scissione, nel dicembre 1947, della cosiddetta sinistra, e la successiva riunificazione portata avanti dalla segreteria Villabruna nel 1951.

Soprattutto mancano studi sul partito negli anni del centrismo degasperiano (ma questo vale anche per gli altri partiti laici, Pri e Psdi)77.

Ed è, invece, proprio allora che vennero alla luce intenzioni, pregi e limiti del liberalismo italiano. All’interno del Pii il problema princi­pale rimase a lungo quello del programma, in quanto la sua elaborazione si rivelava il mo­mento di verifica della capacità del partito di aderire alle nuove istanze politiche e sociali presenti nel paese; sul piano dell’attività politi-

73 Epicarmo Corbino, Discorsi elettorale e interventi parlamentari dal 1944 al 1958. Roma-Torino-Napoli, Istituto Editorale del Mezzogiorno, 1965; gli interventi relativi al 1953 contengono non trascurabili riferimenti alla storia dell’intera area laica. Di Corbino v. anche: L'economia, in Dieci anni dopo, cit., Ricostruzione scritti e discorsi di un liberale. Milano, Giuffrè, 1945; Studi in onore di Epicarmo Corbino, Milano, 1961 e Cronache economiche e politiche 1946-1980. Roma, lem, 5 voli., 1981.Riguardo alla presenza liberale alla Costituente va ricordato che per l’art. 44 svolse un ruolo decisivo Luigi Einaudi, mentre Francesco Colitto rimase in posizione isolata sostenendo il latifondo come dimensione “economica dell’impresa agraria” nel sud.74 Manlio Brosio, Intervento, in Benedetto Croce una verifica, cit., pp. 7-15.75 Benedetto Croce, Scritti e discorsi politici, cit. Sono scritti già pubblicati qua e là, v.: Per la nuova vita dell’Italia, cit.; Il dissidio spirituale della Germania con IEuropa. Bari, Laterza, 1944; Pagine politiche. Bari, Laterza, 1945; Pensiero politico e politica attuale. Scritti e discorsi. Bari, Laterza, 1945; Due anni di vita politica italiana (1946-47). Bari, Laterza, 1948; Quando l’Italia era tagliata in due, cit.; lo scritto Movimento Liberale e partiti politici è a p. 85.76 Adolfo Omodeo, Libertà e storia. Scritti e discorsi politici. Introduzione di Alessandro Galante Garrone, Torino, Einaudi, 1960, in particolare II così detto partito liberale e la crisi del novembre 1945, pp. 357-371 e I miei dubbi difronte al partito liberale, pp. 203-209. Omodeo in questi scritti critica i legami tra alta finanza e Pii, ormai divenuto “una porta di scampo" per tutti gli interessi fascisti. Sul rapporto Croce-Omodeo torneremo in seguito, per ora basti ricordare che Omodeo intendeva la libertà come espansiva, “liberatrice, generatrice di giustizia”, ma nello stesso tempo rifiutava il liberalsocialismo in cui ravvisava un’astratta costruzione teorica. Altro testo da leggere è quello di Filippo Burzio, Essenza e attualità del liberalismo. Torino, Unione Tipografica, edizione torinese, 1945.77 Qualcosa è rintracciabile tra l’abbondantissima produzione storiografica, saggistica e giornalistica di Giovanni Spadolini, di cui è stata presentata abbastanza recentemente a Firenze una completa bibliografia, curata da allievi e studenti dell’Istituto C. Alfieri, dal titolo Spadolini storico. Firenze, Le Monnier, 1980.

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ca, invece, il Pii, insieme agli altri partiti laici, veniva relegato dalla De ad un ruolo subalter­no e strumentale78.

Una verifica dell’attività parlamentare del Pii permetterebbe forse di individuare fino a che punto è valida una simile interpretazione. Ad esempio, sarebbe da rivedere la posizione libe­rale nel campo economico, luogo di frequenti confusioni per la troppo scontata e rigida iden­tificazione tra liberali e liberisti, o in quello scolastico, tradizionale roccaforte del laici­smo79.

Sarebbe, però, oltremodo limitativo circo­scrivere la fisionomia del liberalismo italiano entro connotati nazionali; i legami con il libera­lismo occidentale ed europeo discendono da una duplice comunanza di origini e di intenti. L’indebolimento liberale in Italia dopo il 1914 si inserisce in una generale crisi del liberalismo europeo; naturalmente il “crollo” si fece sentire più acutamente, e drammaticamente nei paesi in cui il liberalismo non era riuscito a compene­trare e ad imprimere di sé istituzioni, mentalità e culture preesistenti: l’Italia, la Germania, la Spagna e il Portogallo.

Delle interferenze tra i vari “liberalismi” europei si è occupato Max Salvadori néXÌEre­sia liberale; giustamente l’autore indica come principale riflessione del liberalismo contem­poraneo il problema della giustizia sociale e

dell’uguaglianza80.Il che significò nel secondo dopoguerra una

riproposizione, ed una nuova valutazione, del ruolo dello Stato e dei governi nel settore della politica economica.

Una rilettura delle deliberazioni dell’Intema­zionale liberale, raccolte in Liberal Internatio­nal Resolutions, contribuirebbe a collocare il ruolo del liberalismo italiano nel contesto in­temazionale; non solo, ma potrebbero essere valutati gli impulsi positivi, soprattutto ideolo­gici, che il liberalismo italiano (e si ricordi che il Pii aderì all’Intemazionale fin dall’anno della sua fondazione, il 1947) ricevette dalla sua atti­va partecipazione al dibattito teorico e politico svoltosi in quella sede81.

Certo è che al Pii e al liberalismo italiano in genere non mancarono esponenti di calibro internazionale, quali B. Croce, L. Einaudi e Gaetano Martino, ministro degli Esteri dal 1954 al 1957. Purtroppo, nulla è stato ancora scritto e documentato sull’intensa attività di Martino, personalità che per il molo avuto nell’ambito della politica estera dell’Italia, in particolare di quella europea, meriterebbe sen­za dubbio ben maggiore attenzione; nei due volumi che raccolgono i suoi discorsi dal 1946 al 1966, si leggano anche quelli sull’istruzione di cui, nel 1954, fu ministro per un solo trime­stre82. Sulle pagine stesse della storiografia re-

78 Giorgio Galli, tl difficile governo, cit.; anche Carlo Pinzani, L’Italia repubblicana. Storia d’Italia, cit., voi. IV, tomo 3, pp. 2484-2511.79 I maggiori economisti liberali furono senza dubbio Luigi Einaudi, Epicarmo Corbino e Bresciani Turroni, di cui si potrebbe rileggere XIntroduzione alla politica economica, prefazione di Luigi Einaudi. Torino, Einaudi, 1942. Notevole influenza sull’area liberale ebbe Wilhem Roépke, esponente della scuola di Friburgo e dal 1950 consulente economico del governo tedesco. A livello teorico vicino a Einaudi, non ne ebbe però, la dimensione culturale e politica. Le sue opere più importanti del periodo sono: La crisi sociale del nostro tempo (1942); Civitas Humana (1944); L’Organizzazione intemazionale e l’integrazione economica (1945) e La crisi del collettivismo (1951). V. Armando Frumento, La vita e l’insegnamento liberale di Wilhelm Roépke, Roma, Fondazione Einaudi, 1968, pp. 45; ed anche: Wilhelm Roepke, Scritti liberali. Bologna-Roma, ISML-Fondazione Einaudi, Sansoni, 1974.Sempre sull’economia v. Pasquale Janaccone, Scritti e discorsi opportuni e importuni (1947-1955). Torino, Einaudi, 1956. Non va poi dimenticata una figura come quella di Donato Menichella (soprattutto per il primo periodo del centrismo), per quanto concerne, ad esempio, l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno.80 Max Salvadori, L'eresia liberale. Bologna, Forni, 1980, 2 voli.; sul problema dell’eguaglianza riproposto da Salvadori e sul pessimismo di fondo dell’autore v.: Sandro Rogari, Dissenso ed eresia: rassegna della stampa sul "Liberalismo di Max Salvadori”, "Libro Aperto”, luglio-agosto 1980, n. 2, pp. 29-30.81 Liberal Internationa! Resolutions, a cura di Ercole Camurani e Barbara Vono. Firenze, Sansoni, 1975.82 Discorsi Parlamentari di Gaetano Martino. Pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati. Roma, Grafica Editrice Romana, 1977,2voll. Di Gaetano Martino v. anche: Cultura e scuola nella società democratica. Discorso pronunciato al Senato delta Repubblica nella seduta del 7 aprile 1954. Roma, Tip. Bardi, 1954 (altra ed.: Roma, PLI, 1956); La scuola nella vita nazionale. Firenze, Le Monnier, 1956; Per la libertà e per la pace. Firenze, Le Monnier, 1957.

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sta, ad immagine fissa, il prestigio che derivò al Pii dall’elezione di Luigi Einaudi alla Presiden­za della Repubblica. Ad Einaudi è stato rivolto un notevole interesse anche perché in lui si è cercato non solo l’uomo o il presidente, ma il ritratto stesso di un’epoca, spesso idealizzata.

Già si è parlato della bibliografia dei suoi scritti curata da L. Firpo; restano da ricordare le opere appartenenti al periodo propriamente presidenziale, cioè le Prediche inutili e Lo scrit­toio del Presidente (1948-1955)*3.

Le prime sono scritti di vario argomento; forse i più interessanti sono quelli sul modo di vivere dell’“uomo liberale”, sull’applicazione delle sue idee ai quotidiani casi economici e culturali. Le opinioni einaudiane sulla scuola e la didattica, ad esempio, riflettono ed aiutano a capire la battaglia condotta dai laici dal 1949 al 1962 in difesa della scuola di Stato. Lo scrittoio del Presidente, invece, è un’ampia raccolta di note, articoli e lettere degli anni della presiden­za. Tra gli altri vi si trova il Messaggio dopo il giuramento del 12 maggio 1948, in cui Einaudi dopo aver ricordato di aver a suo tempo votato per la monarchia, fa atto di fede costituzionale e repubblicana; tutto il messaggio poggia sui massimi principi liberali, “contro l’onnipotenza dello Stato e la prepotenza dei privati”83 84.

Gli altri quattro messaggi furono appuntati da Ferdinando Carbone, segretario generale

alla Presidenza della Repubblica, ma sono egualmente importanti perché indicatori del­l’attività presidenziale di Einaudi, sempre con­scio del proprio ruolo e delle proprie responsa­bilità; riguardano, infatti, tutti e quattro, il rin­vio alle Camere di leggi che pur prevedendo nuove spese, non indicavano, però, i mezzi con cui farvi fronte85.

Venendo alle, pagine più strettamente eco­nomiche, Einaudi applica a nuove situazioni ed a nuovi problemi le sue ormai consolidate teo­rie liberiste. Così avviene per le critiche rivolte ai sindacati e per la difesa della politica econo­mica italiana del dopoguerra; in quest’ultimo saggio Einaudi confuta le teorie keynesiane ri­cordando, ancora una volta, che compito dello Stato è innanzitutto non creare disoccupazio­ne, principio già espresso in una lettera a La Pira del 30 luglio 195086.

Questo per quanto riguarda i testi editi. Permane tuttavia ancora un ampissimo vuoto. Già si è detto che merito della bibliografia di Firpo è offrire l’indicazione della ricchezza di materiale ancora inesplorato: è il caso delle sopra ricordate relazioni alla Banca d’Italia. Si aggiunga, infine, che sarebbe estremamente in­teressante la pubblicazione dell’epistolario einau- diano, per ora, come lamentava anche Ruffini, in massima parte inedito87. Antonio d’Aroma che in quegli anni fu molto vicino ad Einaudi

83 Luigi Einaudi, Prediche mutili. Torino, Einaudi, 1956; Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Torino, Einaudi, 1956.84 Luigi Einaudi, Lo scrittoio de! presidente, cit., p. 375.85 Ivi, pp. 208-229; i messaggi recano le date del 9 aprile 1949, dell’ 11 gennaio 1950 e del 21 novembre 1953. Nella stessa direzione di lettura va la lettera al ministro del Tesoro, Giuseppe Pella, del 13 dicembre 1948 Sull’interpretazione dell’art. 81 della Costituzione, pp. 207-208; la lettera fu pubblicata su “Mondo Economico”, 10 settembre 1955, n. 37, pp. 13-14.86 Ivi, La Pira in difesa della povera gente, pp. 386-390; riguardo ai sindacati v.: Monopolisindacali e divieto di serrata, pp. 374-378; la critica delle teorie keynesiane e la difesa della politica economica del dopoguerra sono invece in: Risparmio ed investimenti, pp. 277-318; il saggio riunisce tre pezzi del 1950 e costituisce, forse, il paragrafo migliore dell’intero libro.87 Renzo Ruffini, Luigi Einaudi nella ricostruzione dello Stato democratico, in: Luigi Einaudi nel centenario, cit., pp. 79-172; Ruffini in questo ampio saggio si sofferma sugli anni 1943-1945 cercando di offrire l’immagine di un Einaudi le cui idee economiche e politiche si adattavano via via “alla realtà delle situazioni in cui operava”; ne risulta un Einaudi progressista e conservatore allo stesso tempo, rivisitatore continuo del proprio pensiero.

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ha parlato di “lettere a chiose” ai reggitori della Banca d’Italia88. Sarebbe inoltre utilissimo po­ter sondare, oltre al rapporto con Donato Me- nichella, anche in altre direzioni: De Gasperi, Pella, ecc., una buona opportunità, forse, per rivolgersi con nuove disponibilità, per fonti e documentazione, al problema dell’alleanza tra laici e De durante gli anni del centrismo. Non a caso Mario Vinciguerra, il cui carteggio con Einaudi è stato pubblicato di recente a seguito di quello altrettanto interessante, anche se per altri motivi, con Mario Pannunzio, individua­va la vitalità del quadripartito “in un duplice rapporto politico tra De Gasperi ed Einaudi — che significò il riassetto finanziario e la stabilità della lira”89.

Anche per Benedetto Croce c’è da lamenta­re, e lo rilevava anche Mario Corsi, la mancan­za di una pubblicazione completa dei carteg­gi90. Ancora vivo il filosofo, furono pubblicate le lettere scambiate con Vossler in un’edizione curata dall’allievo Vittorio De Caprariis; vi so­no poi una selezione preparata da Croce stesso, dal 1914 al 1935 ed il carteggio con Alessandro Casati91. Alcuni anni fa sono stati poi raccolti quelli con Carlo Sforza e Vittorio Enzo Alfieri;

di recente, infine, ha visto la luce la corrispon­denza con Adolfo Omodeo, interessante per il giudizio di Croce, che fu poi quello della mag­gior parte dei liberali, sul Partito d’Azione92.

Si può infine concludere che l’attenzione ge­nerale è stata prevalentemente attratta dal Cro­ce “grande filosofo” ed in questo senso si può far riferimento ad un’estesa produzione saggi­stica di toni e livelli dissimili: si va da rievoca­zioni più o meno personali come quella del Benedetto Croce di Fausto Nicolini (in cui si trovano alla rinfusa ricordi, discorsi del filoso­fo, note biobibliografiche), al preciso e puntua­le già citato libro di Michele Abbate La filoso­fia di Benedetto Croce e la crisi della società italiana; si distacca dagli altri il solo, documen­tatissimo, Benedetto Croce e la politica italiana di Raffaele Colapietra93.

Una ricerca sul liberalismo italiano non sa­rebbe a questo punto completa se non si ricor­dassero le vicende di quei dissidenti, da molti frettolosamente definiti di sinistra, che usciti dal partito nel 1947 vi rientrarono nel 1951, per abbandonarlo definitivamente quattro anni più tardi.

La dissidenza liberale, unitasi a quella d’ori-

88 Antonio D’Aroma, Luigi Einaudi banchiere, in: Luigi Einaudi nel centenario, cit., ed anche: Luigi Einaudi, memorie di famiglia e dilavoro, Torino, Ente per gli Studi monetari, bancari e finanziari Luigi Einaudi, 1975 e Luigi Einaudi economista, lettore e bibliofilo, cit., Mario Vinciguerra, I partiti politici, cit., p. 249; Vinciguerra afferma che per De Gasperi “fu una fortuna essersi conquistata la stima e l’amicizia di Luigi Einaudi; che persuase non facilmente ad assumersi il grave ed impopolare compito di risanare e disciplinare tutta la materia (finanziaria)”, p. 180. 11 carteggio Einaudi-Vinciguerra è stato curato da E. Camurani ed è apparso negli “Annali” della 1 ondazione Einaudi di Torino, voi. 12, 1978, pp. 519-553 col titolo La Repubblica Presidenziale nelle lettere di Einaudi e Vinciguerra (Contributo alla bibliografia di Vinciguerra); lo stesso per il carteggio Einaudi-Pannunzio, sempre a cura di Camurani, voi. 11,1977, pp. 237-281, col titolo Luigi Einaudi lettore e giornalista. La collaborazione con "Risorgimento Liberale", il" Mondo" e M. Pannunzio. Sempre a proposito di carteggi v. G. Busino, L’esilio svizzero in un carteggio inedito con W. F. Rappard e W. Roepke, “Il Ponte”, gennaio 1963, n. 441.90 Mario Corsi, Lettere inedite: c’è ancora molto da leggere, in: Benedetto Croce. Una verifica cit., pp. 104-107.91 Carteggio Croce-Vossler 1899-1949. Bari, Laterza, 1951; Epistolario II, Lettere ad Alessandro Casati (¡907-1952). Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, l’Arte Tipografica, 1969.92 Livio Zeno, Ritratto di Carlo Sforza col carteggio Croce-Sforza e altri documenti inediti. Firenze, Le Monnier, 1975. Lettere a Vittorio Enzo Alfieri..., cit.; Carteggio Croce-Omodeo. A cura di Marcello Gigante. Napoli, Istituto Italiano per gli studi storici, 1978 (vi è contenuta la risposta di Croce del 26 marzo 1944 alla lettera di Omodeo del 22 marzo, in cui il filosofo ribadiva il carattere “puro e radicale” del Pii e le critiche rivolte al Partito d’Azione).93 Fausto Nicolini, Benedetto Croce. Torino, Utet, 1962; Raffaele Colapietra, Benedetto Croce e la politica italian, Bari, Santo Spirito, Edizioni del Centro Librario, 1969-70,2 voli. Già si è parlato dell’importante saggio di Michele Abbate Benedetto Croce e la crisi della società italiana. A Croce fa riferimento anche il monarchico Agostino Degli Espinosa, Il Regno del Sud. 8 settembre 1943-4 giugno 1944. Prefazione di Manlio Lupinacci. Roma, Migliaresi, 1946. V. anche: Silvano Borsari, L'opera di Benedetto Croce. Napoli, Istituto Italiano per gli studi Storici, 1964; Benedetto Croce. A cura di Francesco Flora! Milano, Malfasi, 1953; Alfredo Parente, Croce per lumi sparsi. Problemi e ricordi. Firenze, La Nuova Italia, 1975. Alfredo Parente insieme a Raffaello Franchini e M. Leotta fondò nel 1964 la “Rivista di studi crociani” (Napoli), a cui hanno collaborato tutti gli “esperti" crociani; una rilettura degli indici della rivista potrebbe risultare utile per un’analisi ed una valutazione del livello degli studi e degli interessi sul crocianesimo in questi ultimi anni.

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78 Loretta Reggiani

gine socialista delT“Italia socialista” di Aldo Garosci, si raccolse per la maggior parte intor­no al “Mondo”, settimanale diretto dal 1949 al 1966 da Mario Pannunzio. Ancora una volta il settore giornalistico entra per incisività politica e culturale nella storia del liberalismo italiano. “Il Mondo” ebbe il merito di portare avanti un programma a suo modo sempre coerente e soprattutto innovativo rispetto a quello presen­tato dal liberalismo alla fine della guerra. Il più arduo tentativo operato dal settimanale fu la mediazione del pensiero crociano con quello salveminiano. La tesi crociana del liberalismo come prepartito costituì la base dell’idea dell’u­nità dei partiti laici, naufragata per la mancan­za di reali presupposti politici.

La lezione salveminiana, invece, si esercitò prevalentemente sul metodo politico, a volte indulgente ad un certo libertarismo velleitario.

La linea politica — antifascista, anticomuni­sta ed europeista — fu comunque sempre so­stenuta da un preciso rigore giornalistico (fatto anche di minuziose e serie indagini conoscitive) e dall’individuazione delle resistenze e delle strozzature conservatrici presenti nel paese. La battaglia per la nascita di una sinistra liberal- democratica finiva però col peccare di un ecces­sivo illuminismo pedagogico ancorato ai vecchi modelli della lotta politica prefascista.

La bibliografia sul “Mondo” offre alcune

possibilità di lettura. Il saggio più recente è / radicali ed II M ondo di Manlio Del Bosco; a parte l’azzeccata formula antologica, in attesa della pubblicazione completa degli indici del settimanale, il libro, trattando dei rapporti tra il Partito radicale ed “Il Mondo” (e perciò di una storia di grandi battaglie civili per i valori del laicismo ma anche di travagli politici ed intellet­tuali) esula un poco dai nostri intenti94. È però opportuno soffermarsi sull’introduzione di Ro­sario Romeo, in cui si tende a sottovalutare il ruolo avuto dal pensiero crociano, dimenti­cando, invece, l’influenza esercitata da Einaudi, non solo a livello personale, come prova il carteggio con M. Pannunzio, ma proprio l’a­dozione da parte del “Mondo” di un modello sociale già idealizzato dal Presidente, quello di un’Italia onesta e senza furberie, di un’Italia delle “pere indivise”, insomma95.

Un limite di questo tipo si riscontra anche in “// M ondo 1949/66. Ragione ed illusione bor­ghese” di Mario Bonetti, la cui pretesa di voler dare una visione complessiva, per temi e tempi della vita del settimanale ha finito per impedire una riflessione meditata al di là di formule interpretative ormai scontate e ripetitive96 97.

All’ambiente del “Mondo” — e alla sua par­ticolare atmosfera si rifà sulla scia di ricordi personali, anche Giovanni Spadolini nell’Italia della ragione91.

94 Manlio Del Bosco, / Radicali e il Mondo, Torino, ERI, 1979; il libro copre gli anni 1955-1962 quando ebbe fine l’appoggio del “Mondo" al Partito radicale, sorto come espressione di un liberalismo capace di imprimere un radicale rinnovamento alla vita politica del paese, soprattutto in prospettiva di un fronte laico non marxista. Per quanto riguarda gli indici della rivista, ricordiamo che quelli relativi agli anni 1949-1958 sono stati pubblicati a cura di Aldo Marcovecchio nel 1962 presso lTstituto Romano Arti Grafiche Tuminelli.95 Ercole Camurani, Luigi Einaudi, cit.96 Mario Bonetti, “Il Mondo” 1949/66. Ragione ed illusione borghese. Bari, Laterza, 1975.97 Giovanni Spadolini, L’Italia della ragione. Lotta politica e cultura del Novecento. Firenze, Le Monnier, 1978; di Spadolini v. anche: Tre maestri: Croce, Einaudi, De Gasperi. Roma, Unione Italiana per il progresso della Cultura. Sul “Mondo” sono stati pubblicati molti articoli su riviste e quotidiani, tra cui si vedano: Valerio Castronovo, Quei lucidissimi pazzi melanconici, “La Repubblica”, 25 gennaio 1978; Cosimo Ceccuti, Quello sì che era un bel Mondo, “Il Resto del Carlino”, 19 febbraio 1979; Francesco Compagna, Tra liberali in rivolta e socialisti fuggiaschi, “La Repubblica”, 25 gennaio 1978; Nicola Matteucci, Libertà che passione!, “Il Resto del Carlino”, 10 febbraio 1978; Eugenio Scalfari, Pannunzio il giornalismo come eresia. Un viaggiatore laico alla ricerca dei suoi errori, “La Repubblica", 25 gennaio 1978. Nicola Tranfaglia, Ragione ed illusione borghese dal Mondo all'Espresso, “Rinascita”, n. 28, 20 luglio 1979; Valerio Zanone, / 18 anni del Mondo, “Biblioteca della Libertà”, 1966, n. 2, pp. 69-85.Sull’evoluzione della linea direttrice del giornale v. la lettera di M. Pannunzio del 16 marzo 1966 in: Antonio D’Aroma, Luigi Einaudi, memorie, cit.

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Cultura e politica del liberalismo 79

L’esatta dimensione dell’attività politica svolta dai collaboratori del settimanale laico — i suoi concreti limiti, ma anche il suo inconfu­tabile esempio di coraggio — può essere infine desunta dalla lettura degli Atti dei convegni che gli “Amici del Mondo” organizzarono negli anni cinquanta sui principali temi economici e politici del momento: i monopoli (1953), l’ener­gia nucleare e l’elettricità (1955), il petrolio (1955), la scuola (1956), i rapporti Stato-Chiesa (1957), la stampa (1958) e le condizioni delle libertà civili e politiche in Italia (I960)98. La lacuna maggiore è invece data dalla scarsità di più precisi profili biografici sui singoli redattori e collaboratori, la cui eterogenea provenienza politica risultò spesso sfavorevole ai fini del risultato complessivo delle iniziative del “Mon­

do”; ciò vale soprattutto per il direttore, Mario Pannunzio99.

L’attenzione qui dedicata al “Mondo” può forse apparire eccessiva, ma il liberalismo ita­liano non può assolutamente essere visto come un rigido blocco monolitico: al contrario deve essere scomposto in diversi percorsi storici, fra loro comunicanti più di quanto non appaia ad una prima occhiata. La difficoltà è proprio in una ricomposizione interpretativa che tenga conto di tutte le rotture dalla comune linea ideologica, e contemporaneamente dei naturali processi di sintesi che tendono a realizzarsi nei momenti di maggior corrispondenza tra la cul­tura, l’ideologia e l’evoluzione politica liberale.

Loretta Reggiani

98 La lotta contro i monopoli, a cura di Ernesto Rossi, Bari, Laterza, 1953; Atomo ed elettricità, a cura di Eugenio Scalfari, Bari, Laterza, 1955; Petrolio in gabbia, a cura di Eugenio Scalfari, Bari, Laterza 1955, Dibattito sulla scuola, a cura di Achille Battaglia, Bari, Laterza, 1956; Stato e Chiesa a cura di Vittorio Gorresio, Bari, Laterza, 1957; (sui liberali del tempo ebbe indubbia influenza il pensiero di Arturo Carlo Jemolo, di cui v. Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni. Torino, Einaudi, 1948, nuova ed. riveduta ed ampliata nel 1963); Stampa in allarme, a cura di Achille Battaglia. Bari, Laterza, 1958; Verso il regime, a cura di Sergio Bocca, Bari, Laterza, 1960.99 Pochissime sono le notizie su Mario Pannunzio. Sulla vastissima produzione giornalistica e politica di Ernesto Rossi (il cui sodalizio con Pannunzio fu per anni una colonna della rivista) v. Gian Paolo Nitri, Appunti bio-bibliografici su Ernesto Rossi, “Il movimento di liberazione in Italia”, nn. 86-87, gennaio-giugno 1967; Michele Salvati, Ernesto Rossi e l'abolizione delta miseria, “Mondoperaio”, 1977, n. 9, Giuseppe Armarti, Ernesto Rossi. Un democratico ribelle. Parma, Guanda, 1975; Ernesto Rossi a dieci anni dalla scomparsa. Firenze, La Nuova Italia, Quaderni del Salvemini, 1977, n. 25; Valerio Castronovo, Sorprendeva i potenti con le mani nel sacco, “La Repubblica”, 10 marzo 1977.

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IL PONTEa. 38. n. 6

E. Enriques Agnoletti, N o n è com incia to con B egin; S. Bertocci, / "frati n e ri” d i R oberto Calvi; M. Boato, il p rocesso ‘7 aprile" tra cronaca e storia; A. Pirella, R ipartono i carrozzon i della logica m anicom iale; L. Ambrosoli, Offensiva cattolica: p iù quattrini e insegnanti a scelta.

Marcello Dell’Omodarme, L ’Italia e L ’Europa: una non-po litica (I); Elio Veltri, U om in i senza casa, case senza uom ini.

Roberto Di Marco, Le crisi della transizione.

Anna Barsotti, P er uno studio de i “m ag g i" d ram m atic i toscani; Arturo Madrid, P roblem atica d e ll’esperienza e della letteratura chicana;

Rassegne

Benedetto Marzullo, Sicilia m adre d i teatro; N ico le M aro g er R agghianti, M itterand: pagine d i d iario fra politica e letteratura; Andrea Orsucci, Lettere d i C roce a G io ­vanni Gentile. Roberto M azzucco, L ’autogestione della cultura.

Ritrovo

A. Tempestini, Visto da un g iurato popolare; L. Grande, Il p rim o m aestro del laicism o: M arsilio da Padova; F. Berlini, Lezion i fiorentine; G. Favati, / poeti sp iegati a l popolo liceale; P. Brizzi, D od ic i p e r la sem iotica; A. Guidi, D ario & Bario, c low ns livornesi.

STUDI ECONOMICI E SOCIALI

Rivista di vita economica - Centri Studi “G. Toniolo”Comitato Scientufico: prof. Guido Menegazzi, prof. Gino Barbieri, prof. Giuseppe Mira, prof. Vitaliano Rovigatti.Direttore responsabile: prof. Romano Molesti.

fascicolo 1 -1982

Vincenzo Scotti, Sviluppo econom ico e tutela de i ben i culturali;Guido Menegazzi, La "terza via" superatrice de l m ateria lism o storico;M. Raffaella Coroselli, La ricchezza pubblica e privata in Italia in età rom ana; Giuseppe Conti, La politica aziendale di un istituto di credito im m obiliare.

N ote e rassegne

La funzione delle Casse di R isparm io;Silvio Trucco, N ote a ll’epistolario d i G iuseppe Toniolo

R elazioni e b ilanci delle aziende d i credito econom ia e am bien te-no te aziendali-recinzioni

Direzione e Amministrazione: Pisa, Piazza Giuseppe Toniolo, 2Telef. 571181-571198C/c postale 13420567 intestato a“Studi economici e sociali”, Piazza G. Toniolo, 2, PisaAbbonamento ordinario L. 20.000; Estero L. 25.000; abbonamento sostenitoreL. 80.000; abbonamento benemerito L. 140.000. Prezzo di un fascicolo singoloL. 5.000, arretrato il doppio

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Donne nella politica e nella stonadi P aola Pirzio

Negli anni sessanta, quando il nuovo femmi­nismo scosse nel profondo la vita e la coscienza delle donne in gran parte chiuse nelle loro case o presenti nella politica come “angeli del ciclo­stile”, la memoria del proprio passato era com­pletamente assente: anche la prima produzione ebbe carattere teorico o letterario o poetico, ma non storico.

Paola Di Cori nel saggio Storia, sentimenti, solidarietà1 sottolinea nella storia del femmi­nismo ottocentesco il sorgere e raffermarsi di “una coscienza storica sull’oppressione femmi­nile che in Italia comincia a diffondersi all’in­domani dell’unità”.

Le donne nella seconda metà dell’Ottocento emancipazioniste o impegnate in giornali o in leghe operaie, si richiamano spesso al proprio passato per rievocare le figure più rappresenta­tive e per trovare origini e cause della condizio­ne della servitù femminile, vista sempre come un prodotto storico-sociale, mai come un dato originario e naturale. Intorno agli anni venti di questo secolo ha inizio un “blocco di memoria storica” destinato a perpetuarsi nell’evolversi del femminismo italiano, che ancora negli anni settanta distingueva vecchio e nuovo femmi­nismo solo sulla base di termini quali emanci­pazione e rivoluzione. La cause di tale perdita della memoria della propria storia sono indub­biamente molto complesse e di difficile indivi­

duazione. Paola Di Cori propone una sua in­terpretazione, indubbiamente e a suo stesso giudizio parziale, ma che tuttavia offre uno spunto interessante. Il sorgere e poi il dilagare delle organizzazioni femminili cattoliche, ope­ranti essenzialmente a livello psicologico di formazione di mentalità, avrebbe diffuso una interpretazione restrittiva della liberazione femminile, attuata in modo totale dal cristiane­simo, e una visione della naturalità del ruolo familiare della donna.

La sovrapposizione di un modello interpre­tativo di tipo trascendente della natura e del ruolo della donna avrebbe cancellato la memo­ria della storicità della propria oppressione e alla fine avrebbe portato alla negazione di qual­siasi antecedente tentativo di liberazione.

Difficile mettere in discussione tale esplica­zione, decisamente documentata, in nome di altre motivazioni di ordine storico. Forse può essere chiarificante far riferimento ad altri spunti, di carattere più generale. Lidia Mena- pace nel considerare nel suo complesso il mo­vimento femminista italiano ne mette in luce l’andamento carsico: “Il movimento delle don­ne direi che emerge in modo carsico, spuntando ogni tanto qua e là e lasciando a chi lo osserva di ricomporre i vari momenti. Questi non sono ancora una memoria definita, ma frammenti di un colloquio, di un rapporto, di una sollecita-

1 Paola Di Cori, Storia, sentimenti, solidarietà nelle organizzazioni femminili cattoliche dall’età giolittiana al fascismo, “Nuova DWF”, 1979, n. 10-11.

“Italia contemporanea”, settembre 1982, fase. 148

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zione che non mancano tuttavia di una loro continuità, magari sotterranea”2 Emerge quin­di la difficoltà di ricomporre e ricostruire in una storia unitaria momenti che tra loro hanno una continuità non data e definita, ma da ricom­porre.

Fra l’emancipazione della seconda metà dell’800 e i primi del 900, le istanze libertarie manifestatesi durante la Resistenza nei Gruppi di difesa della donna, le organizzazioni femmi­nili deirudi e delle Adi dopo il 1945 e il nuovo femminismo esiste una linea di continuità, qua­si sempre negata, in quanto ogni momento della storia delle donne nell’affermazione della sua peculiarità ha rinnegato il precedente come suo modello e archetipo, anche per la varietà dei motivi via via emergenti. Solo a partire dalla seconda metà degli anni settanta, ad una riflessione teorica sul femminismo si è affianca­ta una ricerca della identità femminile condotta attraverso la ricostruzione della storia delle donne in una serie di studi che muovono nella direzione di una presa di coscienza critica del proprio passato. Sulle tracce di questi saggi è possibile ripercorrere le tappe della “lunga marcia” cogliendo gli elementi di continuità e di frattura tra quei momenti, anche lontani nel tempo, che tuttavia appaiono legati da un dop­pio filo di somiglianza e di disparità e uniti da una rete di collegamenti latenti nelle lunghe durate, e poi improvvisamente emergenti nel­l’affermazione di problematiche che non pos­sono essere rinviate.

Nella storia delle donne affiorano temi che pur assunti e affrontati in modo difforme, sono termini ricorrenti di dibattito critico: il confron­to, che può essere accettazione o conflitto, con la società esistente e l’istituzione statale che con il suo complesso apparato di leggi, mantiene nella categoria della permanenza l’organizza­

zione sociale e politica, è costitutivo di ogni teoria emancipazionista e femminista. Nella storia del femminismo, in questo dispiegarsi “carsico” di un movimento composito e multi­forme, vorrei inseguire questa tematica, in ge­nere emergente in modo deciso sia pure nel suo consueto aspetto di continuità-discontinuità con i momenti precedenti e successivi. È una direzione di ricerca, largamente praticata dalla storia della questione femminile e che oggi si va sviluppando nel senso di una estensione del campo di indagine alla presenza complessiva della donna nella storia, “al carattere comples­sivo della condizione femminile e della storia delle donne”3.

Il periodo che va dalla fine deH’800 alla prima guerra mondiale vede una vasta fioritura di organizzazioni di donne, in parte indipendenti e in parte legate al partito socialista o al movi­mento cattolico, e una diffusa attenzione cultu­rale e politica alla questione femminile. Sul tema delle leggi di tutela del lavoro femminile e sulla problematica del diritto di voto le orga­nizzazioni socialiste e indipendenti elaborano un dibattito estremamente vario e ricco in cui si intrecciano motivazioni ideologiche diverse, componendo un quadro molto vivo e parteci­pato della presenza delle donne nella società e nella politica. La letteratura storica su tali te­matiche tende ad evidenziare le tracce della presenza femminile, anche se spesso limitata ad una élite di intellettuali, nella politica e in parti­colare le istanze di partecipazione espresse so­prattutto dai primi movimenti emancipazioni- sti. Indubbiamente tali studi hanno portato ad una notevole accumulazione di dati e di infor­mazioni: esili risultano però le riflessioni sulla identità femminile, reale o progettuale, e sulle griglie di lettura e gli schemi interpretativi che

2 Lidia Menapace, I tempi delle donne e i tempi della politica, "Rinascita", 2 dicembre 1977.3 Maria Casalini, Dalla storia della questione femminile alta storia delle donne, “Quale storia”, febbraio 1982, n. 1, pp. 89.

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Donne nella politica e nella storia 83

possano costituire il tessuto di una metodologia della ricerca in generale: “l’aspetto cognitivo progettuale”4.

Anna Maria Mozzoni ha svolto un ruolo di primo piano nella storia dell’emancipazione portando il proprio contributo di riflessione critica ad ogni dibattito culturale e partecipan­do attivamente alle più importanti battaglie politiche del suo tempo: la sua figura è stata oggetto di ampie e minuziose analisi. Le sue opere sono state pubblicate da F. Pieroni Bor- tolotti col titolo La liberazione della donna5, mentre la sua attività viene minutamente ana­lizzata dalla stessa Bortolotti nel volume Alle origini del movimento fem m inile in Italia (1848-1892)6. La lettura di queste due opere, apparentemente complementari, non risulta agevole per la difficoltà di reperire un’ipotesi interpretativa di fondo e per il frequente spo­stamento di livelli e di piani di discorso che si intrecciano in un andamento poco omogeneo, soprattutto nel secondo.

Mentre risulta chiara la varietà delle dimen­sioni culturali e politiche che compongono la ricca personalità della Mozzoni, complesso e non ben risolto appare il legame tra emancipa- zionismo ottocentesco e nuovo femminismo soprattutto in relazione alla partecipazione po­litica.

Nell’introduzione, contraddistinta da giudizi critici e valutativi, la Bortolotti si pronuncia decisamente per una ripresa di motivi emanci- pazionisti nella Resistenza: “Fu allora che l’e­mancipazione della donna proprio nella sua formulazione di un tempo, arricchita di nuovi significati per il tramite leninista, tornò ad indi­care un’istanza solo semplicemente espressa nel corso del primo Risorgimento”7.

Non appare invece univoco il giudizio sulle

posizioni della Mozzoni rispetto al femmini­smo in quanto il movimento ottocentesco per i diritti, di cui è l’esponente più consapevole, ponendosi come aspetto dell’opposizione re­pubblicana e radicale e poi operaista e socialista è per la Bortolotti lontano da una ispirazione femminista “estranea per sua natura alle for­mazioni politiche”. Giudizio questo sostenibile e sostenuto con argomentazioni precise, ma forse poco assimilabile con l’affermazione di poco precedente sulla posizione politica della Mozzoni, definita marginale rispetto sia al mazzinianesimo sia al radicalismo sia al socia­lismo. Indubbiamente più problematica appa­re la prospettiva in cui viene configurato il rapporto tra la donna e la società: in una visio­ne dialettica della realtà sociale, la donna lavo­ratrice, e soprattutto l’operaia, è individuata come la contraddizione di base rispetto alle donne delle altre classi sociali e ai lavoratori in generale, contraddizione capace di risolvere la questione femminile e in generale la questione sociale nella direzione di una trasformazione radicale: “l’idea romantica che la donna sia il termine sempre negativo del contrasto sociale, quello che spinge a rompere l’equilibrio rag­giunto”8.

La formazione cultural-politica della Moz­zoni è vista in particolare in connessione con l’interesse per il socialismo utopistico: la lettura di Fourier e delle sue considerazioni sulla que­stione femminile riveste un ruolo di guida, de­stinata a non tramontare. Particolarmente consapevole appare la contrapposizione tra il socialismo di Proudhon, che insistendo sulla asocialità delle donne ne vuole impedire ogni possibile influenza nella vita politica, e la filoso­fia del Settecento, che aveva richiamato “ogni essere umano alla piena coscienza di sé”9.

4 Annarita Buttafuoco, Di "madri" e di "sorelle". Frammenti su donne /femminismo/storiografia, “Nuova DWF”, 1981, n. 15, p. 89.5 Anna Maria Mozzoni, La liberazione della donna, a cura di Franca Pieroni Bortolotti, Milano, Mazzotta, 1975.6 Franca Pieroni Bortolotti, Alle origini de! movimento femminile in Italia (¡848-1892), Torino, Einaudi, 1963.7 Ivi, p. 15.8 Ivi, p. 16.9 Ivi, p. 58.

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Complesso e non risolto è il rapporto con le organizzazioni femminili del tempo (il Circolo delle sorelle Caraccciolo a Napoli e il gruppo legato al giornale “La donna” di Gualberta Beccali) e successivamente con il partito ope­raio e il partito socialista.

Quasi costantemente la ricostruzione della riflessione politica della Mozzoni sull’operai­smo e sul socialismo, implica una valutazione dell’attività del partito socialista tra la fine del­l’Ottocento e i primi del Novecento. Il contra­sto “tra le due Anne”, un po’ enfatizzato in una sorta di duello personale, è visto dalla Bortolot- ti in termini decisamente negativi rispetto al successivo sviluppo del movimento femminile, nell’introduzione alla liberazione della donna. L’intransigente contrapposizione politica che portò Anna Kuliscioff a chiedere alla Mozzoni di abbandonare ogni azione autonoma femmi­nista all’atto di una sua eventuale iscrizione al partito socialista, spinge l’una nell’ambito della democrazia borghese e l’altra su posizioni ri­formistiche: quindi in definitiva “seppellì il pa­trimonio delle lotte passate”10. La successiva svolta conservatrice delle organizzazioni fem­minili, portate ad arroccarsi in attività filantro­piche, scaturisce da questo sterile contrasto, in modo che quando riemerge, la tematica del suffragio, si ritrovano entrambe sole a rinfac­ciarsi antichi torti, “l’una i limiti dell’imposta­zione dell’altra”11.

I complessi rapporti tra emancipazionismo e socialismo vengono analizzati dalla Bortolotti con la consueta minuzia e scrupolo descrittivo ne Socialismo e questione fem m inile (1892- 1922f 2. Le prime battute del libro presentano una osservazione di fondo che prelude a tutto il giudizio essenzialmente svalutativo sul partito socialista, che vede la questione femminile es­

senzialmente in termini economistici, in con­trapposizione al futuro partito comunista: “La fondazione del partito socialista, con la chiari­ficazione del rapporto tra socialismo, demo­crazia e anarchismo, e quindi lo sviluppo su basi moderne dell’industria settentrionale e la svolta giolittiana concorrono a creare una si­tuazione ove non c’è posto per un motivo così legato al ribellismo egualitario o liberitario”13 14. Secondo la Bortolotti i socialisti rinnegano il femminismo passato in quanto astratto e in­sieme borghese, cadendo in un errore di valuta­zione storica nel dimenticare che la Mozzoni aveva legato l’emancipazione femminile all’e­mancipazione operaia. Al contrario è lo stesso socialismo che incorpora nella propria dottrina una larga parte della cultura borghese del tem­po, favorevole ad un ritorno della donna al lavoro domestico.

Un’analisi molto documentata e attenta alle motivazioni economiche, sociologiche e ideo­logiche presenti nell’atteggiamento del partito socialista sulla questione femminile è condotta da M. Casalini nel saggio Femminismo e socia­lismo di A. Kuliscioff. 1890-1907''“'. La parte più viva riguarda il vario intrecciarsi di temati­che filosofico-scientifiche nella teorica sociali­sta che assimila motivi positivistici e lombro- siani sulle dimensioni dei cervelli e la tipologia femminile per sostenere l’inferiorità e infanti­lismo delle donne. Sul piano sociologico viene messa in rilievo la centralità dei valori familiari tradizionali nella mentalità della classe operaia, che porta il partito socialista a vedere con favo­re un ritorno della donna al lavoro domestico funzionale al mantenimento della famiglia e alla riduzione della disoccupazione maschile. All’interno di tali tematiche si colloca la rifles­sione sulla questione femminile di A. Kuli-

10 A. M. Mozzoni, Za liberazione delia donna, cit„ p. 23.» Ivi, p. 23.12 Franca Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile (1892-1922), Milano, Mazzotta, 1974.13 Ivi, p. 23.14 M. Casalini, Femminismo e socialismo in Anna Kuliscioff 1890-1907, “Italia contemporanea”, 1981, n. 143. p. 11.

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scioff, che elabora una tematica autonoma tra le ambiguità vetero-positivistiche del suo parti­to e remancipazionismo della Mozzoni, consi­derando la condizione di inferiorità fisica e mentale della donna come derivante da una antica condizione di subordinazione e non da una costituzionale infermità. Volendosi con­trapporre al femminismo borghese sulla base di una posizione materialistica, afferma che solo attraverso la lotta di classe si potrà arrivare all’emancipazione femminile, che è solo un aspetto della più generale questione sociale.

Anche sulle leggi di tutela del lavoro, il di­scorso di Casalini tende a collocare la posizione della Kuliscioff all’interno del dibattito politico del partito in cui militava e della cultura del tempo. Mentre il partito socialista tendeva a sottrarre il proletariato femminile ad una con­dizione di sfruttamento esasperato anche a prezzo di vederne il ritorno al lavoro domesti­co, la giovane socialista rinuncia ad istanze paritarie ed emancipazioniste pur di ottenere una mobilitazione del partito sui problemi delle donne lavoratrici, convinta, anche sulla base di statistiche relative alle situazioni di altri paesi, che le leggi di tutela non diminuiranno il volu­me della manodopera femminile.

La battaglia per la conquista del diritto di voto femminile in Italia nel giudizio storico è considerata poco rilevante per il carattere strumentale ad essa attribuito prima dalla Mozzoni e poi dal partito socialista. Questa strumentalità, a giudizio della Bortolotti, si giu­stifica sulla base di motivazioni molto diverse: per la Mozzoni15 (Alle origini, cit.), che pure aveva cercato di formare attraverso una densa attività di propaganda una diffusa sensibilità suffragista, l’emancipazione è sempre l’obietti­vo prioritario e la proposta del voto politico del 1877 ha essenzialmente la funzione di richia­mare l’attenzione dell’opinione pubblica sui li­

miti dell’opera del governo e degli ordinamenti che con l’unità hanno tolto alle donne il voto amministrativo in vigore in molti stati preuni­tari; per il partito socialista nel 1904 si tratta di introdurre nella legislazione un potente mezzo di educazione politica funzionale agli obiettivi socialisti e non come tappa per l’emancipazione della donna. Quindi l’incertezza dei socialisti e la loro sostanziale acquiescenza alle direttive giolittiane, appaiono la causa della tardiva ap­provazione del voto femminile: solo nel 1919 la Camera approva la legge sul voto alle donne, con la riserva che tale diritto sarebbe stato esercitato dalla successiva legislatura. Effica­cemente la Bortolotti nell’attribuime la respon­sabilità al partito socialista afferma che “aven­do il Senato respinto il progetto di legge eletto­rale ed essendo mutate le condizioni politiche, quella prima conquista restò l’ultima trincea"16. Le battaglie per l’emancipazione e per il voto sono condotte da avanguardie e da donne intel­lettuali legate alle organizzazioni del partito socialista e a giornali come “La donna”. Il saggio di Enzo Santarelli Donne e lotte di mas­sa in Italia17 dal punto di vista storiografico riveste un particolare interesse in quanto allar­ga la prospettiva di analisi dalle avanguardie intellettuali alle lotte di massa delle donne e documenta sulla base di una ricca e accurata ricerca una vasta partecipazione femminile alle battaglie salariali degli ultimi anni dell’Ottocen­to e dell’inizio del Novecento. Se le lotte per il miglioramento delle condizioni di lavoro e del­la retribuzione conoscono una notevole mobili­tazione, la più generale battaglia per l’emanci­pazione rimane pressocché ignota alle grandi masse del proletariato femminile. A livello poli­tico raramente la maggioranza acquisisce una consapevolezza di sé come donna oltreché co­me lavoratrice; difficilmente riesce ad entrare nella dirigenza socialista. Tuttavia queste lotte

15 cfr. F. Pieroni Bortolotti, Alle origini, cit., p. 168.16 F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., p. 140.17 Enzo Santarelli, Donne e lotte di massa in Italia 1890-1915, “Critica marxista”, 1978, n. 5.

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di massa contribuiscono ad una presa di co­scienza dei propri diritti nella società, nella fa­miglia e nel lavoro.

Le organizzazioni femminili cattoliche (Fa­scio femminile democratico-cristiano del 1901, Unione donne cattoliche del 1909 e Gioventù femminile del 1919) rifuggono in genere da una partecipazione politica diretta, per orientarsi verso una presenza cattolica nella società, ispi­rata ad una interpretazione in senso lato della funzione familiare, precipua della donna. In una prospettiva essenzialmente morale e socia­le, si colloca il “femminismo cristiano”, spesso messo tra parentesi o addirittura negato come fenomeno storico. A giudizio di Ida Magli18, il termine è fortemente equivoco, in quanto tale movimento tende a organizzare e a indirizzare le donne verso finalità di ordine morale e reli­gioso accantonando qualsiasi progetto di emancipazione.

Le considerazioni della Magli sono troppo rapide e non chiariscono certo le complesse modalità di intervento delle organizzazioni femminili cattoliche che dall’età giolittiana al secondo dopoguerra, pur senza partecipare in modo diretto alla vita politica, elaborano e trasmettono un modello di identità femminile dominante nella società italiana. Il volume di F. Crescini II fem m inism o cristiano19 che racco­glie testimonianze e interventi non facilmente reperibili di intellettuali cattolici tra il 1898 e il 1912, analizza il porsi e i primi sviluppi della questione femminile nel mondo cattolico.

Mentre si afferma l’esigenza di un partito di cattolici, ma non ‘’cattolico” (sarà la prima Democrazia cristiana di R. Murri), diretto al superamento dell’interclassismo religioso della Chiesa e attento ad una problematica sociale, i problemi della condizione della donna vengo­no affrontati in un’ottica di tipo sociologico che

muove dalla crisi della funzione educativa ed economica della famiglia e si svolge in una dimensione teorica di polemica con la società e lo stato moderno che impone alla donna di lavorare fuori casa. Nella letteratura democrati­co-cristiana è affermata costantemente la supe­riorità del Vangelo su qualsiasi tematica di emancipazione della donna, che è stata liberata definitivamente ad opera del cristianesimo dal­la condizione di schiavitù in cui il paganesimo l’aveva confinata. Nella prima fase (intorno al 1897 - Congresso di Zurigo) il movimento femminile appare assorbito prevalentemente da un dibattito teorico sui valori e il ruolo della famiglia, destinato a dimostrare la naturalità delle funzioni domestiche della donna, vero centro della vita familiare, in contrapposizione alle tesi socialiste sull’evoluzione della famiglia e il ruolo femminile. Gradualmente però il “femminismo teorico” (come lo definisce il Crescini) tende a porsi come “femminismo di fatto”20 più attento ai risultati della trasforma­zione del ruolo femminile che alle posizioni di principio: vengon poste in primo piano le situa­zioni concrete in cui si esplica la presenza attiva delle donne e le modalità di un possibile miglio­ramento delle condizioni di lavoro. Quindi ad un primo momento di riflessione teorica, espressione di una situazione di disorientamen­to, segue una fase in cui la crescente attenzione alla realtà della donna che lavora e le analisi sulla crisi della famiglia operaia approdano ad un deciso superamento del paternalismo cleri­cale e ad un progetto di intervento nella dire­zione di una legislazione sociale di protezione del lavoro femminile.

Tutto il discorso di Crescini è centrato sullo sviluppo del movimento femminista cristiano nell’ambito della prima Democrazia cristiana. Al Congresso femminile indetto dal Consiglio

18 Ida Magli, Le mouvement féministe dans l'Eglise catholique italienne, “Concilium”, 1976, p. 121.19 F.M. Crescini, //femminismo cristiano. La questione femminile nella prima democrazia cristiana 1898-1912, Roma, Editori Riuniti, 1979; il termine “femminismo cristiano” viene riferito in genere a tale movimento legato alla prima democrazia cristiana.2» Ivi.

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nazionale delle donne italiane nell’aprile del 1908, dopo l’approvazione a maggioranza di una deliberazione contraria all’insegnamento religioso nelle scuole elementari, le donne catto­liche si dissociano. La frattura ha conseguenze di rilievo in quanto determina sia la crisi del femminismo cristiano che la costituzione del­l’Unione donne cattoliche italiane, patrocinata da Pio X.

Cecilia Dau Novelli nel saggio Origini dell’e­sperienza cattolica fem minile: rapporti con la Chiesa e altri movimenti fem m inili (1908-12)2Ì analizza sulla base di una documentazione as­sai ricca e originale il ruolo svolto dalla Chiesa e dall’Unione popolare di G. Tomolo nella costi­tuzione dell’Unione donne, organizzata da Cri­stina Giustiniani Bandini nel 1909. Lo svolgi­mento del congresso aveva portato le donne cattoliche a prender coscienza della rilevanza assunta dal movimento laico e della propria interpretazione sulla questione femminile. La Chiesa stessa con Pio X si rende conto della necessità di guidare la formazione di una orga­nizzazione femminile che affermi la presenza delle donne cattoliche nella società sulla base di una estensione del ruolo familiare e contrap­ponga questa nuova immagine a quella eman- cipazionista della cultura laica. Negli ideali del­l’Unione, primaria è la cristianità nel suo com­plesso rispetto alla quale l’azione femminile ha un ruolo strumentale: “l’Unione non nasce per difendere e migliorare la condizione femminile, ma per difendere e migliorare la condizione della cristianità”21 22. La questione femminile è marginale anche nei programmi di G. Tomolo, che tenta di subordinare la nascente organizza­zione femminile all’Unione popolare nella dire­zione di un impegno nel sociale della Chiesa. Il contrasto tra le finalità dell’Unione popolare e

dell’Unione donne è totale in quanto la Giusti­niani Bandini, seguendo le direttive di Pio X, si propone essenzialmente di contrastare la diffu­sione delle organizzazioni laiche estendendo la funzione familiare della donna senza alcun progetto di intervento nella realtà sociale. L’af­fermarsi della linea della Giustiniani Bandini determina l’apoliticità dell’Unione e il prevalere della dimensione religiosa in un’ottica di astori­cità. I temi elaborati nella Settimana sociale di Torino nel 1913 sembrano tuttavia preludere ad un’apertura: si parla infatti di legislazione sociale, di organizzazione operaia, di lavoro a domicilio e di emigrazione. La Giustiniani in­terviene però prontamente a chiudere la strada a tentativi di intervento su tematiche economi- co-sociali e mette in guardia le aderenti da tentazioni socialiste. La Dau Novelli tuttavia sottolinea l’importanza dell’Unione, che pur affermando il ruolo esclusivamente familiare della donna, penetra nelle zone di maggiore arretratezza attuando un’azione di risveglio e svecchiamento del mondo cattolico: “facendo così acquisire a questa fascia sub-emarginata di donne una maggiore dignità di se stessa e la possibilità di Tare storia’”23 24.

Una problematica più vasta viene affrontata da Paola Di Cori nel saggio Storia, sentimenti, solidarietà nelle organizzazioni fem m inili catto­liche dell’età giolittiana al fascism o2*, ove il complesso intrecciarsi di paradigmi interpreta­tivi, dal sociologico all’antropologico al lettera­rio, offre una immagine della realtà femminile cattolica viva anche dopo il 1945. L’analisi sto­rica e critica prende le mosse dalla letteratura femminile del tempo e si svolge elaborando tematiche ricavate da riviste femminili e da romanzi. Rivelatrice è l’ideologia della rivista “Azione muliebre” fondata nel 1901, lontana

21 Cecilia Dau Novelli, Alle origini deliesperienza cattolica femminile: rapporti con la Chiesa e gli altri movimenti femminili (1908-1912), "Storia contemporanea”, 1981, n. 4-5.22 Ivi, p. 693.23 Ivi, p. 711.24 P. Di Cori, cfr. Storia, sentimenti, solidarietà, cit., cfr. anche P. Di Cori-M. De Giorgio, Politica e sentimenti: te organizzazioni femminili cattoliche dall’età giolittiana al fascismo, “Rivista di storia contemporanea”, 1980, n. 14.

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dalla realtà di vita della donna italiana lavora­trice sia borghese che operaia: il ruolo femmini­le viene definito all’interno della famiglia e in rapporto al compimento di una missione so­prannaturale. Nelle iniziative proposte alle let­trici il periodico si rivelerà incapace di un’azio­ne diversa dal femminismo caritativo soprat­tutto per la mancata comprensione delle muta­te condizioni di vita della società del tempo. Più aperto verso le nuove esigenze e problematiche appare il romanzo del gesuita Antonio Pavis- sich, pubblicato nel 1906 su “Civiltà Cattoli­ca”, Donna vecchia e donna nuova, ove, nono­stante l’acritica e continua polemica nei con­fronti dell’emancipazionismo, la figura di don­na centrale risulta “vera” e rappresentativa di un modello di vita diffuso e al Circolo femmini­le viene attribuito il ruolo di soddisfare in modo primario o semplicemente compensatorio esi­genze di socializzazione e affettive, spesso non realizzate in situazioni familiari difficili.

La Di Cori sottolinea come l’Unione trovi la sua affermazione più piena durante la prima guerra mondiale ove, per l’assistenza psicologi­ca e morale prestata ai soldati, risulta rafforzata sul piano numerico e organizzativo; a livello teorico però si allontana dalle organizzazioni femminili dell’Ottocento, in genere pacifiste, per la giustificazione della guerra vista come un evento naturale e purificatore di società guaste e corrotte. Centro propulsore del movimento femminile cattolico è anche la Gioventù fem­minile fondata nel 1918, che pur proseguendo in parallelo l’attività dell’Unione donne, ne per­feziona l’ideologia e l’azione nella direzione di una “conquista degli spazi fisici e psicologici

della vita privata e quotidiana delle donne”25. La Di Cori evidenzia la conoscenza profonda della situazione di sbandamento e di solitudine in cui vengono a trovarsi le donne italiane dopo la guerra e come l’organizzazione Gioventù femminile offra uno spazio di vita associata “organizzata quasi militarmente”26 allo scopo di colmare i vuoti di una condizione femminile, a cui l’emancipazionismo non ha saputo pro­spettare soluzioni esistenziali. Alle associate es­sa offre la prospettiva di una "emancipazione”, non come obiettivo autonomo e autogiustifi- cantesi, ma finalizzato al ritorno della donna al lavoro domestico e alla famiglia e solo entro le rigide direttive della gerarchia ecclesiastica.

Nel periodo fascista le organizzazioni femmi­nili legate ai partiti si dissolvono, mentre l’insi­nuarsi della immagine della donna come “spo­sa e madre esemplare” nelle organizzazioni in­dipendenti determina il prevalere di tematiche patriarcali focalizzate sulla centralità della donna nella famiglia27. Il regime con la sua legislazione sul lavoro femminile e la martellan­te propaganda ideologica conferma la comple­ta estromissione della donna da ogni dimen­sione di partecipazione politica imponendole un ruolo precostituito e cancellando così ogni memoria storica delle battaglie emancipazioni- ste. Se in questi anni la passività appare la dimensione fondamentale dell’atteggiarsi delle donne nei confronti della politica, durante la Resistenza esse si pongono come partecipi di un ampio processo di trasformazione che va dall’abbattimento del fascismo alla costruzione di uno stato democratico.

25 P. Di Cori, Storia, sentimenti, solidarietà, cit., p. 123.26 Ivi, p. 19.22 In questa rassegna è stata messa tra parentesi la letteratura storica sulle ideologie antifemministe del fascismo in quanto l’indagine che ho condotto, analizzando i due soggetti che si intrecciano e che costituiscono il rapporto donne-potere, tende ad evidenziare la dimensione della partecipazione politica: durante il regime fascista invece le donne vengono costrette ad una posizione di passività sia nella prassi quotidiana sia, a livello teorico, nell’elaborazione dell’immagine femminile. Fondamentali sono a questo proposito: Maria Antonietta Macciocchi, La donna nera. “ Consenso" femminile e fascismo, Milano, Feltrinelli, 1976; Piero Meldini, Sposa e madre esemplare. Ideologia e politica della donna durante il fascismo, Firenze, Guaraldi, 1975; Enzo Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemministe in La questione femminile in Italia dal '900 ad oggi, Milano, Angeli, 1977.

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In un clima culturale (metà degli anni set­tanta) attento alla questione femminile e inte­ressato al ricupero della memoria storica delle donne, la tematica “donne e Resistenza” è stata forse la più analizzata. La vasta lettera­tura prodotta risente delle esigenze di colmare i vuoti di una storia, sinora scritta solo al ma­schile, e presenta tutti i caratteri della risco­perta di un tema spesso rimosso e ignorato. Numerose sono infatti le monografie che illu­strano la varia e vasta partecipazione femmi­nile, spesso rivolte all’esame di una singola area geografica sulla base di una documenta­zione ancora sconosciuta, e quindi minuziosa e talvolta aneddottica28. Più significative sono le opere che raccolgono testimonianze di donne, come La Resistenza taciuta29 e Com­pagne30, che esprimono una varietà di temati­che difficilmente riconducibili a posizioni po­litiche rigide e ad omogeneità. Pochi sono i saggi, forse solo i più recenti, che hanno ela­borato una riflessione critica sulla specificità degli obiettivi perseguiti e sulle modalità della partecipazione femminile.

M. Alloisio e G. Beltrami in Volontarie della libertà31 mirano a costruire un quadro geografico complessivo della presenza delle donne nella Resistenza e nello stesso tempo ad analizzarne motivazioni e modalità

Il regime fascista, oltre ad elaborare ed im­porre alla donna un ruolo esclusivamente do­mestico e familiare, l’aveva definitivamente emarginata dal mondo del lavoro intellettuale aumentando le tasse universitarie ed escluden­dole dai concorsi a preside e insegnante di

liceo32, ne aveva ridotto il tenore di vita dimi­nuendo a tutte i salari. D rifiuto delle donne verso il fascismo diviene più deciso con l’entrata in guerra, quando la vastità delle perdite umane e il diffondersi della miseria colpiscono dura­mente ogni dimensione del vivere quotidiano.

Il rifiuto si trasforma in ribellione aperta dopo l’8 settembre, quando le donne si pro­digano ad assistere i soldati dell’esercito ita­liano minacciati dalla deportazione in Ger­mania. Questa attività ha tutti i caratteri del più netto volontariato in quanto nessuna autorità civile e neppure morale imponeva di esporsi a tali gravissimi pericoli. Inoltre se in alcuni casi il coinvolgimento politico può es­ser stato determinato da un legame affettivo, in generale si è posto come “una scelta di rot­tura”, una vera e propria “rivoluzione” rispet­to all’ambiente familiare e a tutto un mondo di consuetudini interiorizzate, che confinava­no la donna nella casa. La partecipazione di massa, superiore in Italia rispetto ad altri paesi europei, appare determinante a livello psicologico in una società patriarcale che da una parte opprime in modo più pesante e quindi sviluppa maggiori esigenze libertarie, e dall’altra, con l’imposizione della separatezza, sviluppa qualità come “l’intuito, sentimenti materni e protettivi insieme alla tendenza alla complicità, particolarmente necessarie alla lot­ta clandestina”33.

Quasi tutte le analisi storiche e le testimo­nianze dirette concordano sulla mancata rea­lizzazione delle istanze delle donne e sulla lo­ro persistente emarginazione dalla vita politi-

28 Le donne nella Resistenza in Liguria, a cura del Consiglio regionale della Liguria, Firenze, La Nuova Italia, 1979; Donne e resistenza in Emilia Romagna, Milano, Vangelista, 1978.29 La Resistenza taciuta, a cura di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, Milano, La Pietra, 1976.30 Compagne, a cura di Bianca Guidetti Serra, Torino, Einaudi, 1977.31 Mirella Alloisio-Giuliana Beltrami, Volontarie della libertà, Milano, Mazzotta, 1981.32 L’incremento della scolarizzazione femminile di massa durante il regime fascista, documentato da M. Barbagli. Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna, Il Mulino, 1976 non contrasta con tali disposizioni destinate a colpire il livello più alto dell’occupazione femminile.33 M. Alloisio-G.Beltrami, Volontarie della libertà, cit., p. 31.

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ca. Isotta Gaeta in un intervento nel volume L’altra metà della R e s is te n z a analizzando l’immagine della donna nell’ideologia resi­stenziale, intende risalire alle cause di questo ‘’tradimento” e della conseguente apoliticità femminile. La questione femminile nella Re­pubblica rimane irrisolta in quanto già all’in­terno del movimento partigiano non erano state affrontate le contraddizioni di classe e di sesso presenti ancora nella società italiana. Innanzi tutto non era stato facile costruire durante la Resistenza una organizzazione di massa femminile, ostacolata agli inizi e poi riconosciuta con difficoltà. Quando i Cln ri­conoscono i Gruppi di difesa della donna, con ritardo e non ovunque, l’intento fonda- mentale è quello di meglio sorvegliarli e gui­darli in quanto l’ideale prevalente sta nel ri­pristinare nell’Italia liberata il vecchio ordine prefascista della società, ispirato a forme pa­ternalistiche. In questa direzione i Gdd (Grup­pi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà) rivelano pienamente l’ambiguità presente anche nella loro deno­minazione accettando un ruolo subalterno e ponendo in secondo piano la questione fem­minile e l’analisi delle radici di classe della su­bordinazione delle donne. A livello politico la Gaeta sottolinea la contraddizione tra le ri­vendicazioni femminili (parità salariale, servi­zi sociali ecc.) e l’interclassismo dei Cln: ma l’alleanza tra Cln e Gdd stabilisce un accordo di vertice destinato a mettere tra parentesi tali rivendicazioni non solo per il periodo clande­stino, ma a preparare il terreno per il dopo­guerra, quando si sarebbe chiesto alle donne di tornare alla famiglia e al ruolo domestico. Vi erano indubbiamente difficoltà gravissime da superare sul piano pratico, militare in par­ticolare, e in tale situazione la questione della donna non poteva né trovare spazio né porsi

come prioritaria: ma agivano sui dirigenti del movimento operaio anche le posizioni della Terza Internazionale, orientate verso una vi­sione economicistica dei problemi della don­na che solo nel socialismo avrebbero cono­sciuto la piena soluzione. In questa direzione, l’Udi costituita nel settembre del 1944, si im­pegnerà in un ruolo di supporto al Pei su li­nee politiche generali.

Anche S. Soglia, nel saggio Donne e resi­stenza: i problem i dell’emancipazione fem m i­nile nella stampa clandestina35, vede le istanze emancipazioniste elaborate non in una di­mensione autonoma, ma nell’ambito di un complesso di valori generali di libertà e di democrazia. Nell’edizione emiliana romagno­la di “Noi donne” nel maggio del 1944 si leg­ge: “Contribuendo alla liberazione dellTtalia noi donne ci guadagniamo il diritto di parte­cipare domani alla ricostruzione della Patria, combattendo per l’indipendenza dell’Italia noi combattiamo anche per la nostra libertà di donne e lavoratrici”36. La questione femmini­le potrà esser risolta solo cacciando i tedeschi e i fascisti, quindi solo risolvendo prima le difficoltà generali e abbattendo uno stato an­tidemocratico. Se la questione femminile vie­ne vista come un momento della più com­plessa questione sociale e quindi da affrontar­si all’interno di questa, la partecipazione atti­va alle lotte su obiettivi generali viene vista come momento primario ed essenziale per una futura realizzazione di mete specifiche: quasi che la passività fosse sentita come causa della propria sconfitta ed oppressione. La partecipazione attiva delle donne d’altra parte anche nel giudizio di S. Soglia sembra esclu­dere una subalternità di ruolo, che è invece ampiamente documentata da molte testimo­nianze. In genere, quindi, la specificità della problematica femminile e degli obiettivi di li-

-14 L’altra metà della Resistenza, Milano, Mazzotta, 1978, p. 33.35 Sergio Soglia, Donne e Resistenza: i problemi dell’emancipazione femminile nella stampa clandestina, in Donne e resistenza in Emilia Romagna, voi. II, cit., p. 293.36 Ivi, p. 300.

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berazione ad essa legati appare estranea alla partecipazione attiva delle donne al movi­mento di liberazione.

Nel periodo che va dal 1945 agli anni set­tanta le organizzazioni femminili si muovono in una dimensione di continuità e di perma­nenza, quasi di una riproposizione della pro­pria identità costruita negli anni venti e du­rante il movimento di liberazione. Il prevalere di tematiche politiche generali e la rimozione dei problemi della crisi della famiglia e della sessualità appaiono riscontrabili sia nell’Udi che nelle organizzazioni cattoliche. Le valuta­zioni storiche sul movimento femminile, pur prendendo le mosse da considerazioni molto diverse, sono in genere concordi nell’attri- buirgli una scarsa incidenza sulla realtà socio­politica e un discontinuo impegno nella tema­tica dell’emancipazione. Paola Gaiotti in Que­stione fem m inile e fem m inism o nel trentennio repubblicano in Italia2,1, pur segnalando uno sviluppo significativo della riflessione cultura­le sulla questione femminile, ne sottolinea i limiti presenti nell’eccessiva astrattezza delle formule in cui vengono espressi i problemi di fondo. Pur riferendosi alla storia e alla pro­blematica delTUdi, focalizza il discorso sul movimento femminile cattolico più su di un piano valutativo che storico descrittivo.

Le organizzazioni cattoliche, dalle Acli al Cif e Gfci si propongono un piano di conqui­sta globale della società, anche se a livello po­litico si impegnano su tematiche generali in modo subalterno alla Chiesa e alla Democra­zia cristiana. Ad un periodo di grande diffu­sione, segue negli anni cinquanta una crisi, solo parzialmente legata a motivazioni di ca­rattere generale presenti anche nell’Udi. La Gaiotti tratteggia una crescente diminuzione di capacità di influenza, determinata essen­zialmente dalla ambiguità della Gfci, organiz­zazione che da una parte opera nella società

civile insieme o in contrapposizione ad altre organizzazioni, ma che è nella sua più vera natura organizzazione confessionale, legata a direttive precise della gerarchia ecclesiastica e quindi per definizione avulsa dal “vario, in­certo, fluttuante mondo delle donne”37 38. An­che quando l’Udi alla metà degli anni cin­quanta tenterà di impostare una politica auto­noma di emancipazione e di intervento nel sociale, le organizzazioni cattoliche rimarran­no isolate e chiuse alla collaborazione. A tali difficoltà la Gaiotti oppone il proprio proget­to di una organizzazione laica, caratterizzata da una linea di intervento concreto, credibile per tutte le donne non solo per quelle appar­tenenti ai ceti subalterni. Il complesso lavoro culturale di Gfci a livello di "educazione sen­timentale” e il ruolo svolto dalle organizza­zioni femminili cattoliche nel periodo che at­traverso il fascismo arriva agli anni cinquan­ta, viene analizzato con sottili e attente cate­gorie storiche e psicologiche da M. De Gior­gio nel saggio M etodi e tempi di una educa­zione sentimentale39. Nel settembre 1948 le centomila donne di Azione cattolica che af­fluiscono a Roma per celebrare il trentennio della loro organizzazione, sono una prova dell’azione in profondità svolta da Gioventù femminile attraverso una intensa attività di elaborazione teorica e di propaganda condot­ta anche tramite riviste come “Fiamma viva” e “Squilli di resurrezione”. L’obiettivo prima­rio delle dirigenti cattoliche appare lo svuo­tamento del movimento emancipazionista di fine secolo, operato assorbendone alcune di­mensioni e sublimandone altre, in un modello di comportamento che cancella le inquietudi­ni e le risolve enfaticamente in un’azione rigo­rosamente programmata e ordinata. Si tratta, secondo la De Giorgio, di una attenta analisi psicologica che fa leva su sentimenti e incer­tezze della donna in un difficile periodo stori­

37 Paola Gaiotti De Biase, Questionefemminile efemminismo nel trentennio repubblicano in /fa/ia “Humanitas”, 1977, n. 8-9, p. 583.38 Ivi, p. 602.39 cfr. n. nota 23 e M. De Giorgio, Metodi e tempi di una educazione sentimentale, “Nuova D W P, 1979, n. 10-11.

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co e che su questa base prevede i possibili meccanismi che permettono di superare le contraddizioni in uno “stare insieme rigoro­samente militare”40, regolato da norme preci­se di ubbidienza. L’atteggiamento che pareva alla Gaiotti di ambiguità tra un’associazione civile e una associazione subordinata alla ge­rarchia ecclesiastica, e in definitiva causa della crisi delle organizzazioni cattoliche, appare al­la De Giorgio garanzia di successo e di una ampia diffusione. I termini della partecipa­zione politica del movimento cattolico secon­do la De Giorgio vanno ridefiniti in termini peculiari e intesi in un significato più ampio di quanto l’emancipazione avesse fatto ai primi del Novecento. Formalmente Gioventù femminile si definisce apolitica e grazie a que­sta sua conclamata neutralità riesce a mante­nere integra la sua organizzazione durante il fascismo. Ma è proprio in questo periodo che viene elaborata la teoria per cui ogni cattolico deve occuparsi di politica per affermare gli insegnamenti cristiani in ogni luogo, dalla famiglia al posto di lavoro. Questo nuovo modo di fare politica praticato soprattutto nel secondo dopoguerra, anche se formulato a livello teorico in precedenza, è riconducibile solo parzialmente alla concessione del diritto di voto, obiettivo primario delle organizza­zioni femministe del primo Novecento: più che altro è legato alle modalità di azione delle organizzazioni cattoliche che agiscono a livel­lo capillare di diffusione di mentalità, più che di presenza attiva in battaglie politiche e sociali.

Anche il tipo di contenuti e obiettivi gioca un ruolo essenziale nelle modalità di partecipazio­ne politica: Margherita Repetto in M ovimento di emancipazione e organizzazione fem m inili cattoliche. Spunti per un’analisi41 ne fornisce uno studio sintetico, ma chiarificante. Innanzi

tutto, esordisce con una precisazione di fondo: la costituzione dell’Udi da una parte e di Gfci dall’altra non avviene su di un terreno teorico di emancipazione, ma in un quadro di riferimento politico generale. Solo quando si rallentano le tensioni intemazionali provocate dalla guerra fredda e le motivazioni politiche complessive vengono collocate in secondo piano, è possibile individuare gli obiettivi specifici delle organiz­zazioni femminili del secondo dopoguerra. L’Udi ha come “retroterra delle sue scelte poli­tiche una idea di emancipazione”42, quindi la consapevolezza di una generica oppressione: anche se la società maschile non ne è indicata come fattore causale. Per molto tempo d’altra parte essa non ha introdotto tematiche tipiche del nuovo femminismo e talvolta del femmi­nismo ottocentesco, come la famiglia e la ses­sualità: la causa è individuabile secondo la Re­petto soprattutto a livello pratico, nella volontà di non rompere in modo definitivo con la mas­sa delle donne italiane — cattoliche in generale — sulla tematica dell’unità familiare. Nelle or­ganizzazioni cattoliche invece il termine eman­cipazione è del tutto assente e la rivendicazione primaria consiste nella parità di diritti vista non come valore autonomo, ma funzionale alla piena realizzazione del ruolo familiare e mater­no, peculiari della donna.

G. Ascoli nel saggio L ’Udi tra emancipazio­ne e rivoluzione43, ne documenta le origini a livello teorico facendole derivare da un testo destinato alla formazione dei quadri femminili comunisti, Breve corso Zetkin del 1953. Il ma­nuale, che appartiene alla peggiore scolastica del marxismo, sostiene in linea con le posizioni della Terza Intemazionale che l’emancipazione della donna potrà realizzarsi solo con la fine dello sfruttamento capitalistico.

Per i primi anni di vita deH’Udi, la Ascoli, che ad un lavoro di ricostruzione storica affian-

« M. p. 131.41 Margherita Repetto, Movimento di emancipazione e organizzazioni femminili cattoliche, “Nuova D W P, 1981, n. 16.42 Ivi, p. 42.43 G. Ascoli, L’Udi tra emancipazione e liberazione (1943-1964), in La questione femminile in Italia dal '900 ad oggi, cit.

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ca valutazioni politiche, si pone in un’ottica di giustificazione approvando l’atteggiamento di solidarietà e non di rottura verso la società italiana: d’altra parte ricorda che l’Italia dopo il 1945 aveva compiuto una rivoluzione demo­cratica e non socialista. Risulta però indubita­bile dall’analisi di questi anni la scarsa capacità di mobilitazione, dovuta in gran parte all’aver privilegiato tematiche politiche complessive, in accordo con la linea del Pei e la resistenza di molte donne anche comuniste a lavorare in organizzazioni femminili considerate, ed effet­tivamente, subalterne al partito.

Tra il 1956 e il 1959 si afferma nell’Udi una tendenza verso l’autonomia dai partiti e la pro­posizione della parità giuridica e salariale come obiettivo primario e specifico. Le considerazio­ni che portano alla mobilitazione sulla parità prendono le mosse dalla condizione di inferio­rità in cui si trova la donna italiana, ancora lontana dall’effettiva eguaglianza, e dalla con­vinzione che tale mobilitazione avrebbe orien­tato verso finalità più specifiche e radicali. Ma l’illusione gradualistica viene smentita negli an­ni sessanta quando, una volta sancita la parità salariale nel 1960 e raggiunto un diffuso benes­sere, è messa in discussione la stessa ragion d’essere di una associazione femminile auto­noma in nome di una mobilitazione più genera­le, in sincronia con il movimento operaio. Pro­prio in relazione a tale dibattito estremamente complesso, la Ascoli evidenzia la limitatezza degli obiettivi dell’Udi, troppo cauta nel pro­porre tematiche come la crisi della famiglia e la sessualità, in nome di un movimento femminile unitario, mai realizzato, e di una ipotetica men­talità retriva del movimento operaio. Nono­stante che le tesi precongressuali del 1964 rive­lino la consapevolezza della propria inadegua­tezza e affermino la priorità delle esigenze di

liberazione della donna, l’Udi sembra rimanere ferma ad una tematica che parte dal “pubbli­co” anziché dal “privato” e di conseguenza non recepisce le istanze che provengono dalle don­ne, sulle quali continua a calare le proprie paro­le d’ordine44. Il modo di fare politica è ancora modellato sullo schema dei partiti e ha scarso seguito tra le donne che preferiscono aderire alle organizzazioni cattoliche promotrici anche di modelli di comportamento e scelte esistenzia­li, pur sempre ricavate dal vissuto femminile.

La distanza dell’Udi da una problematica di liberazione della donna, diviene una vera e propria lontananza soprattutto negli anni set­tanta, quando si sviluppa e si diffonde in modo dirompente il nuovo femminismo. Una conno­tazione politica di fondo, o meglio una nuova dimensione del politico, caratterizza questo movimento composito e non facilmente ricon­ducibile ad una definizione univoca. La pecu­liarità del nuovo femminismo, derivante in gran parte dalla proposta di un modo alterna­tivo di fare politica a partire dal proprio vissu­to, determina nei primi anni settanta difficoltà a comunicare la varietà delle esperienze senza annullarne la specificità in una sintesi fittizia.La prima letteratura ha un carattere antologi­co45 che ben si adatta alla esigenza di esprimere le molte voci delle donne: “necessità di comuni­care significa rintracciare il filo rosso che lega tutte le diversità tra le donne ad un progetto politico comune che faccia “vivere” e non ap­piattisca le differenze”46.1 saggi critici vengono elaborati in un periodo successivo quando al momento dell’espressione succede la riflessione critica sulle pos°ibili categorie interpretative con cui elaborare e comprendere l’originalità del patrimonio teorico della nuova esperienza. L’elaborazione e la discussione di una teoria in

44 Ivi, p. 159.45 I movimenti femministi in Italia, a cura di R. Spagnoletti, Roma, Savelli, 1971; Femminismo e lotta di classe (1970-1973), a cura di B.M. Frabotta, Roma, Savelli, 1973; La politica delfemminismo a cura di B.M. Frabotta, Roma, Savelli, 1976.46 Manuela Fraire, La politica del femminismo, “Quaderni piacentini”, 1977, n. 62-63.

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senso forte del rapporto uomo-donna e di una immagine progettuale della realtà femminile, appare fondamentale in quanto il movimento femminista si propone di agire a livello di tra­sformazione di mentalità nella direzione di una reimpostazione del modo di rapportarsi della donna alla società nel suo complesso, e non semplicemente nel senso di una conquista di spazi politici e giuridici paritari.

Lidia Menapace nel saggio Le cause struttu­rali del fem minism o47 ne tenta un’analisi su basi strutturali destinata a fornire una spiegazione in termini storico-materialistici. Nell’ambito di un’analisi “strutturale” della collocazióne della donna nel processo produttivo, il dato materia­le è costituito dal corpo che produce forza lavoro e nell’ambito della famiglia conserva la forza lavoro. Mentre i lavoratori hanno nella fabbrica capitalistica il luogo di aggregazione e di acquisizione di una identità di classe, le don­ne raramente hanno luoghi di incontro in quanto la casa in cui svolgono il primo e secon­do lavoro è più che altro luogo di isolamento: di qui la difficoltà di acquisire una identità e organizzare un movimento di lotta senza poter far riferimento ad un luogo fisico di incontro. Ne deriva l’importanza dei piccoli gruppi, costi­tuiti spesso in sedi domestiche, in cui viene avviato un processo di autocoscienza attraver­so l’analisi del proprio vissuto e l’identificazione dei meccanismi di esclusione dalla società. Il piccolo gruppo rappresenta quindi a livello “strutturale” la possibilità di raggiungere una dimensione politica autentica, in quanto le esperienze di vita individuale vengono ricon­dotte a categorie generali, a modalità di oppres­sione di una società organizzata sulla base del predominio dell’uomo sulla donna.

Per la Menapace, nella nascita del nuovo femminismo una importanza non trascurabile ha rivestito l’Udi, che muovendosi in un’ottica

riformistica ha privilegiato obiettivi economi- co-giuridici nella direzione della emancipazio­ne e ha proceduto sulla base non di una mobili­tazione autonoma, ma di forme di lotta delega­te ai partiti. La crisi dello sviluppo capitalistico ha vanificato gli obiettivi emancipazionisti e ha riproposto la problematicità della condizione femminile a cui una politica “delegata” non ha saputo dare sufficienti risposte.

Sempre nella direzione della individuazione dei riferimenti politici e culturali più consoni a definire la specificità del nuovo femminismo, M. Gramaglia nel saggio 1968: Il venir dopo e l’andar oltre del movimento fem m inista47 48, foca- lizza le tematiche di fondo del ’68 per poi ana­lizzarne la presenza e insieme lo sviluppo e il superamento nel movimento femminista. Il tema della famiglia nel movimento degli stu­denti era stato oggetto di una analisi tanto rapida quanto netta: l’unica azione politica possibile pareva quella di liberarsene rapida­mente o di accettarla avvertendone tutti i limiti. Ma, sottolinea la Gramaglia, per le donne il rapporto con la famiglia passata o che si forme­rà, è impossibile da cancellare sia a livello socia­le che psicologico: le tracce di un rapporto di subordinazione sono destinate a segnare la vita di ogni donna, in ogni forma di rapporto socia­le. La specificità del femminismo sta proprio nell’aver abbozzato sulla base di tale consape­volezza una teoria materialistica della famiglia che porta all’individuazione di un soggetto uni­tario, la donna, sia essa lavoratrice che casalin­ga, dalla cui realtà è possibile far emergere una dimensione politica autentica. Il progetto poli­tico che ne deriva appare come una “rivoluzio­ne più lunga di quella socialista” destinata ad abbattere la diseguaglianza di fondo, quella tra uomo e donna49.

La difficoltà di realizzare una trasformazio­ne così ampia determina momenti di arretra­

47 Lidia Menapace, Le cause strutturali del nuovo femminismo, La questione femminile in Italia dal 1900 ad oggi,, cit., pp. 170 sgg.* Mirella Gramaglia, 1968: il venir dopo e /'andar oltre del movimento femminista, in La questione femminile in Italia dal 1900 ad oggi, cit.49 Ivi, p. 190.

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mento e di incertezza: M. Fraire nel saggio II movimento femminista: due passi avanti e uno indietro50, ne spiega l’andamento alterno met­tendo in luce la non commensurabilità dei va­lori del femminismo, spesso propri di un uni­verso di discorso psicanalitico, rispetto alla pra­tica politica concreta. Proprio l’estraneità di tali tematiche al mondo della politica, provoca dif­ficoltà di realizzazioni effettive e induce le don­ne che ne sono portatrici alla passività, all’e­marginazione e infine all’accettazione dell’e­sclusione, a posizioni definite dalla Fraire di “irrazionalismo mistico”. Parimenti nota e dif­fusa è la posizione di “presenzialismo” tendente a ridurre ogni progetto delle donne a lotte pratiche. Per la Fraire questa è la dimensione in cui si muovono le donne impegnate in battaglie di stampo emancipazionistico per i diritti civili, spesso riduttive rispetto ad obiettivi di libera­zione e progettate dai partiti “secondo un pro­gramma fatto sulle donne e non dalle donne”51.

I saggi di L. Menapace, di M. Gramaglia e di M. Fraire, pur presentando il femminismo da angolature diverse, ne condividono l’imposta­zione teorica e le linee essenziali. In una posi­zione di critica e talvolta di incomprensione, si collocano gli studi di Adriana Seroni, dirigente del Pei e dell’Udi e fondatrice del settimanale “Donne e politica”. Nell’articolo Ragioni e torti del neofemminismo, come già in M om enti del­la questione fem m inile in Italia51, l’influenza culturale straniera risulta determinante in tutta la storia della questione femminile in Italia, ma in particolare nel neofemminismo, che sembra non aver compiuto alcun tentativo di sintetiz­zare l’esperienza americana con l’analisi della concreta condizione della donna nella società italiana. L’ipotesi di fondo, ossia la liberazione vista come autocoscienza e revisione critica del proprio vissuto, viene considerata dalla Seroni

come esclusivamente culturale e non politica, sostanzialmente nell’ambito di “una cultura femminile”. Anzi l’elaborazione di un nuovo modo di fare politica a partire dalla propria esperienza, si colloca nell’ambito di “una rivo­luzione culturale” e di “presa di coscienza”, in quanto la formulazione di un’ipotesi liberatoria risulta “poco evidente”53. Un’ottica concentrata sul privato, causa una carenza di analisi e, di conseguenza, di obiettivi economico-sociali e favorisce una focalizzazione sulla rivendicazio­ne di una sessualità liberata da condizionamen­ti. Secondo la Seroni una linea di tendenza orientata su tali tematiche può anche porsi come rivolta radicale, ma è indubbiamente il segno di una sconfitta, di una inconsapevole limitazione delle possibilità di intervento alla sfera del privato: in totale, una accettazione della divisione dei ruoli, che vede la donna chiusa nel suo ambito familiare e l’uomo pro­tagonista nel mondo del lavoro e della politica.

Estraneo alla prospettiva e alla problematica femminista, più che in aperta polemica, è la posizione della Gaiotti nei saggi Questione femminile e fem m inism o nella storia della Re­pubblica54.

L’analisi delle condizioni economico-sociali emergenti negli anni sessanta, assai precisa e attenta, è diretta a cogliere le motivazioni del- l’acuirsi delle contraddizioni che portano al prepotente imporsi della questione femminile negli anni settanta. La Gaiotti sottolinea che, mentre le organizzazioni cattoliche femminili, dalle Adi al Cif alla Gfci elaborano complesse a- nalisi della situazione e teorie esplicative, il di- saddattamento femminile di massa si concentra in una focalizzazione sui temi della moralità ses­suale, rifuggendo da ogni ricerca di un proget­to di partecipazione responsabile alla politica e alla storia. La tematica della liberazione è vista

* Manuela Fraire, Il movimento delle donne: due passi avanti, uno indietro, “Quaderni piacentini”, 1976, n. 60-61, p. 76.51 Ivi, p . 81.52 Saggi raccolti nel volume: A. Seroni, La questione femminile in Italia (1970-1977), Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 51 e 215.53 A. Seroni, Donna, problema globale in La questione femminile in Italia dal 1900 ad oggi, cit., p. 215.

P. Gaiotti De Biase, Questione femminile e femminismo nella storia della repubblica, Brescia, Morcelliana, 1979, p. 66 e 238.

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in una prospettiva moralistica come una nuova forma di “consumismo sessuale”: anzi ad un “femminismo dei desideri” viene contrapposto un “femminismo delle responsabilità”, che i movimenti femminili storici hanno il compito di progettare.

A livello storiografico l’interpretazione del movimento femminista nel suo rapporto con la politica appare quindi assai controversa e og­getto di interventi critici non conciliati né conci­liabili in quanto riflettono l’attuale configurarsi e contrapporsi delle interpretazioni della con­dizione della donna e della sua immagine pro­gettuale proprie del patrimonio teorico delle maggiori organizzazioni femminili.

Negli ultimi anni la letteratura storica relati­va alla partecipazione politica femminile va gradualmente esaurendosi anche per la limita­

tezza di una indagine ridotta di fatto all’analisi delle ideologie e della pratica di una élite di donne politicizzate o in genere militanti in par­titi o movimenti: “né pensiamo che la presenza femminile si risolva nel gioco alternato delle variabili fortune dei movimenti delle donne”55. Attualmente gli studi si vanno estendendo nella direzione di una indagine sociologica dei com­portamenti e dei ruolo femminili emergenti nel­la vita quotidiana: “En effet, l’image de la fem­me dans la vie publique reflète les attitudes, les activités et les roles réservés aux hommes et aux femmes dans la sphère privée. Pourquoi ne pas étudier alors, les roles féminins, pour eux mê­mes, d’autant qu’ils n’interessent pas la seule histoire du féminisme, ni les seules femmes, mais la société toute entière?”56.

P aola Pirzio

55 “Memoria", n. 1, 1981, Premessa.56 A. M. Sohn, Les rôles féminins dans la vie privée: approche méthodologique et bilan des recherches, “Revue d’histoire moderne et contemporaine", octobre-decembre 1981, p. 598.