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DOMENICA 10 GENNAIO 2010 D omenica La di Repubblica le tendenze Gentleman, il classico fa l’uomo sexy LAURA ASNAGHI l’incontro Laetitia Casta, sposarsi ogni mattina IRENE MARIA SCALISE spettacoli Eastwood-Freeman, Oscar a colloquio SILVIA BIZIO i sapori Dopo le feste, l’ora delle minestrine LICIA GRANELLO e MASSIMO MONTANARI cultura The Venus Fixers, i soldati salva-arte ALBERTO FLORES D’ARCAIS l’attualità Se è un cieco a guidarci nelle selve oscure PINO CORRIAS del West, le vivide descrizioni delle scene violente e la prosa muscolare, quasi sprovvista di punteggiatura, di McCarthy. L’autore si è rivelato più sfuggente. Non si fa mai vedere al- le fiere del libro, alle letture e negli altri posti dove si riunisco- no i romanzieri. Preferisce vedersi con «gente brillante» estra- nea al suo settore, come giocatori di poker professionisti e pen- satori del Santa Fe Institute, una fondazione di scienze teore- tiche del Nuovo Messico dove McCarthy insegna da tempo. Negli ultimi anni il grande scrittore si è gradatamente fatto strada a Hollywood. Molti nuovi lettori lo hanno scoperto gra- zie al film del 2007 (tratto dall’omonimo romanzo di Mc- Carthy) Non è un paese per vecchi, un thriller che ruota intorno a una valigetta piena di narcodollari e a un killer spietato. Di- retto da Joel e Ethan Coen, il film si è aggiudicato quattro Aca- demy Awards. Ora è uscito The Road, adattamento per il grande schermo di un romanzo che ha segnato un’altra fase importante nella carriera di McCarthy. Intimo quanto lugubre, il libro racconta la storia del legame di un uomo con il figlio di undici anni sul- lo sfondo di una lotta per la sopravvivenza, anni dopo un cata- clisma che ha cancellato la società. Il romanzo ha vinto un pre- mio Pulitzer nel 2007. (segue nelle pagine successive) JOHN JURGENSEN Un libro-culto, da cui è tratto il film ritenuto troppo cupo per trovare mercato in Italia Ecco come ne parla lo scrittore in una delle sue rare interviste ILLUSTRAZIONE DI GIPI SAN ANTONIO (Stati Uniti) I l romanziere Cormac McCarthy rifugge le interviste, ma apprezza le conversazioni. Siamo a novembre e l’autore è seduto nel frondoso patio del Menger Hotel, costruito circa vent’anni dopo l’assedio di Alamo, di cui accanto sorgono i resti. La conversazione pomeridiana, a cui prende parte anche John Hillcoat, il regista di The Road, la versione cinematogra- fica de La strada, va avanti fino al tramonto, poi ci trasferiamo in un ristorante lì vicino per cenare. Vestito in jeans con le pie- ghe e stivali da cowboy marroni con le fossette, McCarthy co- mincia la cena con un Bombay Gibson, Up (un Martini con una cipollina al posto dell’oliva). Il primo grande successo del 76enne scrittore americano fu il romanzo Meridiano di sangue, o Rosso di sera nel West, una storia di mercenari americani che vanno a caccia di indiani al confine con il Messico. Il successo commerciale arrivò più tar- di, nel 1992, con Cavalli selvaggi, vincitore del National Book Award e prima puntata della Trilogia della frontiera. I critici hanno sviscerato approfonditamente la dettagliata visione McCarthy “Vi racconto la Strada” Repubblica Nazionale

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DOMENICA 10GENNAIO 2010

DomenicaLa

di Repubblica

le tendenze

Gentleman, il classico fa l’uomo sexyLAURA ASNAGHI

l’incontro

Laetitia Casta, sposarsi ogni mattinaIRENE MARIA SCALISE

spettacoli

Eastwood-Freeman, Oscar a colloquioSILVIA BIZIO

i sapori

Dopo le feste, l’ora delle minestrineLICIA GRANELLO e MASSIMO MONTANARI

cultura

The Venus Fixers, i soldati salva-arteALBERTO FLORES D’ARCAIS

l’attualità

Se è un cieco a guidarci nelle selve oscurePINO CORRIAS

del West, le vivide descrizioni delle scene violente e la prosamuscolare, quasi sprovvista di punteggiatura, di McCarthy.

L’autore si è rivelato più sfuggente. Non si fa mai vedere al-le fiere del libro, alle letture e negli altri posti dove si riunisco-no i romanzieri. Preferisce vedersi con «gente brillante» estra-nea al suo settore, come giocatori di poker professionisti e pen-satori del Santa Fe Institute, una fondazione di scienze teore-tiche del Nuovo Messico dove McCarthy insegna da tempo.

Negli ultimi anni il grande scrittore si è gradatamente fattostrada a Hollywood. Molti nuovi lettori lo hanno scoperto gra-zie al film del 2007 (tratto dall’omonimo romanzo di Mc-Carthy) Non è un paese per vecchi, un thriller che ruota intornoa una valigetta piena di narcodollari e a un killer spietato. Di-retto da Joel e Ethan Coen, il film si è aggiudicato quattro Aca-demy Awards.

Ora è uscito The Road, adattamento per il grande schermodi un romanzo che ha segnato un’altra fase importante nellacarriera di McCarthy. Intimo quanto lugubre, il libro raccontala storia del legame di un uomo con il figlio di undici anni sul-lo sfondo di una lotta per la sopravvivenza, anni dopo un cata-clisma che ha cancellato la società. Il romanzo ha vinto un pre-mio Pulitzer nel 2007.

(segue nelle pagine successive)

JOHN JURGENSEN

Un libro-culto, da cui è trattoil film ritenuto troppo cupoper trovare mercato in ItaliaEcco come ne parla lo scrittorein una delle sue rare interviste

ILLU

ST

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SAN ANTONIO (Stati Uniti)

Il romanziere Cormac McCarthy rifugge le interviste,ma apprezza le conversazioni. Siamo a novembre el’autore è seduto nel frondoso patio del Menger Hotel,costruito circa vent’anni dopo l’assedio di Alamo, di cui

accanto sorgono i resti.La conversazione pomeridiana, a cui prende parte anche

John Hillcoat, il regista di The Road, la versione cinematogra-fica de La strada, va avanti fino al tramonto, poi ci trasferiamoin un ristorante lì vicino per cenare. Vestito in jeans con le pie-ghe e stivali da cowboy marroni con le fossette, McCarthy co-mincia la cena con un Bombay Gibson, Up (un Martini con unacipollina al posto dell’oliva).

Il primo grande successo del 76enne scrittore americano fuil romanzo Meridiano di sangue, o Rosso di sera nel West, unastoria di mercenari americani che vanno a caccia di indiani alconfine con il Messico. Il successo commerciale arrivò più tar-di, nel 1992, con Cavalli selvaggi, vincitore del National BookAward e prima puntata della Trilogia della frontiera. I criticihanno sviscerato approfonditamente la dettagliata visione

McCarthy“Vi racconto

la Strada”

Repubblica Nazionale

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GENNAIO 2010

la copertinaConfessioni

L’amore padre-figlioal tempo dell’apocalisse

MCCARTHY(segue dalla copertina)

Il film, che ha come protagonista Viggo Mortensen nellaparte del padre e Kodi Smit-McPhee (undici anni al mo-mento delle riprese) nella parte del figlio, segue da vicino lacupa trama del libro, inclusi gli scontri con i cannibali. Hil-lcoat, il regista, è un australiano che nel 2005 ha girato Laproposta, un violento western ambientato nell’Outback

australiano. Per riprodurre gli scenari desolati del romanzo, Hill-coat ha girato gran parte del film in inverno, a Pittsburgh, dove lerovine dei tempi in cui la città era un grande centro dell’industriacarbonifera e siderurgica offrono il giusto grado di squallore.

L’antefatto del romanzo è profondamente personale, perchénasce dal rapporto fra Cormac e John, il figlio di undici anni avu-to dalla terza moglie, Jennifer. Con la morte sempre in agguato, ilprotagonista de La strada protegge ossessivamente il figlio e loprepara a proseguire da solo». [...]

McCarthy e Hillcoat mostrano grande affabilità, nonostanteuna collaborazione che avrebbe potuto rivelarsi spinosa. Hillcoatgli dice: «Mi hai tolto un peso enorme dalle spalle quando hai det-to: “Guarda, un romanzo è un romanzo e un film è un film, e sonodue cose diversissime”». Con un tono di voce basso, inframmez-zato da frequenti risatine e accompagnato dallo sguardo intensodei suoi occhi grigio-verdi, McCarthy ci parla delle differenze fralibri e film, dell’apocalisse, di padri e figli, di progetti passati e fu-turi, di come scrive; e di Dio.

Quando vende i diritti dei suoi libri, nei contratti si riserva unaqualche forma di supervisione sulla sceneggiatura o li cede perintero?

«No, li vendi, te ne torni a casa e ti metti a letto. Non ti vai a im-mischiare nel progetto di qualcun altro».

Quando si è recato per la prima volta sul set, quanta differen-za c’era con la visione che aveva nella sua testa del romanzo?

«Beh, sicuramente la mia idea di quello che succedeva nella sto-ria non includeva sessanta-ottanta persone e un mucchio di tele-camere. Una trentina d’anni fa feci un film con il regista Dick Pear-ce nella Carolina del Nord e pensai: “Ma questo è l’inferno. Comesi fa a fare una cosa del genere?”. Io invece mi alzo dal letto, mi fac-cio una tazza di caffè, cincischio un po’, leggo qualcosa, mi mettoseduto e batto qualche riga al computer e guardo fuori dalla fine-stra».

Ma non c’è qualcosa di trascinante nel processo collaborati-vo, rispetto al lavoro solitario dello scrittore?

«Sì, ti trascina a evitarlo a tutti i costi». Quando ha discusso con John dell’ipotesi di ricavare un film

dal suo romanzo, lui le ha chiesto maggiori dettagli su che cosafosse stato a provocare il disastro?

«Molti me lo chiedono. Io non ho un’opinione al riguardo. AlSanta Fe Institute ci sono scienziati di tutte le discipline, e alcunigeologi mi hanno detto che a loro sembrava un meteorite. Maavrebbe potuto essere qualsiasi cosa, l’attività vulcanica o unaguerra nucleare. Non è veramente importante. La questione es-senziale ora è: che cosa fai? L’ultima volta che la caldera di Yel-lowstone ha sbuffato tutto il continente nordamericano è finitosotto trenta centimetri di cenere. Quelli che vanno a fare le im-mersioni nel lago di Yellowstone dicono che sul fondo c’è una pro-tuberanza che adesso è alta quasi trenta metri, e sembra quasi chepulsi. Se chiedi a persone diverse ti danno risposte diverse, ma po-trebbe succedere fra tre o quattromila anni o potrebbe succederegiovedì prossimo. Nessuno lo sa».

Che tipo di cose la inquietano? «Se pensi ad alcune delle cose di cui parlano scienziati intelli-

genti e riflessivi ti rendi conto che fra cento anni la razza umanasarà diventata qualcosa di irriconoscibile. Potremmo essere inparte delle macchine, avere dei computer impiantati. Impianta-re nel cervello un chip che contenga tutte le informazioni di tuttele biblioteche del mondo è già ora qualcosa che non è possibile so-lo a livello teorico. Come dicono le persone che discutono di que-ste cose, si tratta solo di capire come fare i collegamenti. Ecco unaquestione su cui ragionare».

La stradaè una storia d’amore fra padre e figlio, ma non dico-no mai «ti voglio bene».

«No. ho pensato che non avrebbe aggiunto nulla alla storia. Mamolti dei dialoghi del libro sono conversazioni, trascritte parolaper parola, fra me e mio figlio John. È questo che intendo quandodico che lui è il coautore del libro. Molte delle cose che dice il ra-gazzino del libro sono cose che ha detto John. John diceva: “Papà,che cosa faresti se io morissi?”; e io: “Vorrei morire anch’io”; e lui:“Così potresti stare con me?”; e io: “Sì, così potrei stare con te”.Semplicemente una conversazione che potrebbero avere duepersone».

Perché non firma mai copie de La strada?«Ci sono copie autografate del libro, ma appartengono tutte a

mio figlio John, così quando avrà diciotto anni potrà venderle eandarsene a Las Vegas o quello che vuole. No, quelle sono le uni-che copie autografate del libro».

Quante ne ha? «Duecentocinquanta. Ogni tanto mi arrivano lettere da librerie

o altri che dicono: “Ho una copia autografata de La strada”, e io di-co: “No, non è vero”».

Com’è stato il suo rapporto con i fratelli Coen per Non è un pae-se per vecchi?

«Ci siamo incontrati e abbiamo chiacchierato qualche volta. Èstato piacevole. Sono intelligenti e molto dotati. Come John, nonhanno avuto bisogno di nessun aiuto da parte mia per fare il film».

Anche Cavalli selvaggi è stato trasformato in un film (uscito inItalia col titolo di Passione ribelle), con Matt Damon e PenélopeCruz come protagonisti. È rimasto soddisfatto del risultato?

«Poteva venire meglio. Se lo si tagliasse potrebbe venir fuori unfilm piuttosto buono. Il regista aveva l’idea di poter mettere suschermo tutto il libro. È impossibile. Devi scegliere la storia chevuoi raccontare e far vedere quella. Perciò ha fatto questo film diquattro ore e poi ha scoperto che se voleva farlo uscire davvero nel-le sale avrebbe dovuto tagliarlo della metà».

Questo discorso della lunghezza si applica anche ai libri? Unlibro di mille pagine è troppo?

«Per i lettori moderni, sì. La gente apparentemente è disposta atollerare la lunghezza solo per i gialli. Per i gialli e i polizieschi piùè lungo meglio è, la gente leggerà qualunque cosa. Ma quei libro-ni compiaciuti di ottocento pagine che scrivevano un centinaio dianni fa oggi non li scrivono più, la gente non ci è abituata. Se qual-cuno ha in mente di scrivere qualcosa come I fratelli Karamazovo Moby Dick, si accomodi. Nessuno lo leggerà. Non importa quan-to sia bello, non importa quanto siano acuti e intelligenti i lettori.Sono diverse le loro intenzioni, il loro cervello».

Qualcuno ha detto che Meridiano di sangue non può esseretrasformato in film perché è una storia troppo cupa e violenta.

«Sono tutte stronzate. Il fatto che sia una storia cupa e sangui-nosa non ha niente a che vedere con la possibilità o meno di rica-

varne un film. Non è questo il punto. Il punto è che sarebbe mol-to difficile da fare e richiederebbe qualcuno con un’immagina-zione sfrenata e due palle così. Ma il risultato potrebbe esserestraordinario».

L’idea dell’invecchiamento e della morte che effetti producesul suo lavoro? La spinge a lavorare più in fretta?

«Il tuo futuro si accorcia e tu te ne rendi conto. Negli ultimi an-ni non ho voglia di fare nient’altro che lavorare e stare con mio fi-glio John. Sento qualcuno che parla di andare in vacanza o cosedel genere e io penso: ma a che serve? Non ho nessun desiderio difare un viaggio. La mia giornata perfetta consiste nello starmeneseduto in una stanza con un po’ di fogli bianchi. Questo è il para-diso. È oro puro e tutto il resto è solo una perdita di tempo».

Questo orologio ticchettante come influenza il suo lavoro? Laspinge a voler scrivere storie più brevi, oppure a coronare il tut-to con un’opera grande, a tutto campo?

«Non mi interessa scrivere storie brevi. Qualunque cosa chenon ti occupi anni interi della vita e non ti spinga al suicidio misembra che sia qualcosa che non vale la pena».

Gli ultimi cinque anni sono sembrati molto produttivi per lei.Ci sono periodi di stanca nella sua scrittura?

«Non credo che ci siano periodi ricchi o periodi di stanca. È so-lo una percezione che ricavate voi basandovi su quello che vienepubblicato. Il giorno più impegnato può essere quello in cui te nestai a guardare delle formiche che trasportano briciole di pane.Qualcuno ha chiesto a Flannery O’Connor perché aveva fatto lascrittrice e lei ha detto: “Perché ero brava a farlo”. E secondo mequesta è la risposta giusta. Se sei bravo a fare qualcosa, è molto dif-ficile non farla. Se parli con persone anziane che hanno avuto unavita felice, inevitabilmente uno su due ti dirà: “La cosa più signifi-cativa della mia vita è che ho avuto una fortuna straordinaria”. Equando senti dire questo, sai che stai sentendo la verità. Non è unosminuire il loro talento o il loro impegno. Puoi averne quanto ti pa-re e non farcela lo stesso».

Può dirmi qualcosa del libro su cui sta lavorando, riguardo al-la storia, all’ambientazione?

«Non sono molto bravo a parlare di queste cose. È ambientatoper lo più a New Orleans intorno al 1980. Parla di un fratello e diuna sorella. Quando il libro comincia lei si è già suicidata e il libroparla di come lui affronta la cosa. Lei è una ragazza interessante».

Alcuni critici fanno notare che lei di solito non approfondiscemolto i personaggi femminili.

«Questo è un libro lungo e parla in gran parte di una giovanedonna. Ci sono scene interessanti inframmezzate nel libro, e han-no tutte a che fare con il passato. Lei si è suicidata sette anni pri-ma. Erano cinquant’anni che volevo scrivere su una donna. Non

“La Strada”, un libro di successo tradotto in un filmche in Italia rischiamo di non vedere perché troppo “duro”L’autore — scrittore di culto che molto raramente concedeinterviste — racconta qui il suo romanzo, le vicendepersonali che lo hanno ispirato, le immagini che ne sonoscaturite e che mostrano un’umanità al capolinea

“Molti mi chiedono cosa abbiaprovocato la catastrofe. Io non houn’opinione:un meteorite, l’attivitàvulcanica, una guerra nucleare...”

L’AUTORE

Cormac McCarthy, classe 1933,

vive in New Mexico. È autore

di capolavori come Suttree,

Meridiano di sangue, Trilogia della frontiera, Non è un paeseper vecchi e La strada, Premio

Pulitzer 2007. Gli ultimi due sono

diventati film. I suoi libri sono

pubblicati in Italia da Einaudi

JOHN JURGENSEN

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 10GENNAIO 2010

sarò mai competente abbastanza da farlo, ma a un certo punto bi-sogna provare».

Lei è nato nel Rhode Island ed è cresciuto nel Tennessee. Per-ché è finito nel Sudovest?

«Sono finito nel Sudovest perché sapevo che nessuno ne avevamai scritto. Oltre alla Coca Cola, l’altra cosa conosciuta in tutto ilmondo sono i cowboy e gli indiani. Se vai in un villaggio di mon-tagna in Mongolia scopri che tutti conoscono i cowboy. Ma nes-suno prendeva l’argomento sul serio, da due secoli a questa par-te. Ho pensato: ecco un buon soggetto. Ed era vero».

Lei è cresciuto cattolico irlandese. «Sì, un pochino. Non era granché rilevante. Andavamo in chie-

sa la domenica. Non ricordo nemmeno che si parlasse mai di re-ligione».

Il Dio con cui è cresciuto in chiesa ogni domenica è lo stessoDio che il protagonista de La strada interroga e maledice?

«Forse sì. Ho una grande simpatia per la visione spirituale del-l’esistenza e penso che sia significativa. Ma personalmente sonouna persona spirituale? Mi piacerebbe esserlo? Non nel senso chepenso a un qualche aldilà dove mi piacerebbe andare, semplice-mente nel senso di essere una persona migliore. Ho degli amici alSanta Fe Institute. Sono persone brillantissime che fanno un la-voro veramente difficile risolvendo problemi difficili, e loro dico-no: “È molto più importante essere buoni che essere intelligenti”.E io sono d’accordo, è più importante essere buoni che essere in-telligenti. È tutto quello che posso offrirvi».

La strada è un romanzo molto personale, ha avuto qualcheesitazione a lasciare che venisse trasformata in film?

«No. Avevo visto il film di John, La proposta, e lo conoscevo unpo’ di fama, e ho pensato che probabilmente avrebbe fatto unbuon lavoro rispetto al materiale. Inoltre la mia agente, AmandaUrban, è eccezionale. Non avrebbe venduto il libro a qualcuno senon avesse avuto fiducia in quello che ci avrebbe fatto. Non è so-lo una questione di soldi».

John Hillcoat: Non avevi scritto inizialmente Non è un paeseper vecchi come una sceneggiatura?

«Sì, l’avevo scritta. L’ho fatta vedere a qualcuno, ma non eranosembrati interessati. Anzi, dicevano che non avrebbe mai funzio-nato. Anni dopo l’ho ritirata fuori e l’ho trasformata in un roman-zo. Non ci è voluto molto. Ero agli Academy Awards con i Coen.Prima della fine della serata il loro tavolo si era riempito di premi,lì in fila come lattine di birra. Uno dei primi premi è stato quelloper la migliore sceneggiatura, e Ethan quando è tornato al tavolo

mi ha detto: “Beh, io non ho fatto niente, però me lo tengo”».Per romanzi come Meridiano di sangue ha fatto un’ap-

profondita ricerca storica. Che tipo di ricerche ha fatto per Lastrada?

«Non so. Ho semplicemente parlato con alcune persone di co-me potrebbero essere le cose in una serie di situazioni catastrofi-che, ma non ho fatto grandi ricerche. Ogni tanto ho questi dialo-ghi al telefono con mio fratello Dennis e spesso viene fuori qual-che scenario terribile da fine del mondo, e finiamo sempre a ri-derci su. Quando qualcuno ascolta queste conversazioni dice:“Perché non ve ne tornate a casa, vi infilate in una vasca piena d’ac-qua calda e vi tagliate le vene?”. Parlavamo di uno scenario in cuirestava viva solo una piccola percentuale della popolazione uma-na e ci chiedevamo che cosa avrebbero fatto questi sopravvissuti.Probabilmente si sarebbero divisi in piccole tribù e, quando nonc’è più niente, l’unica cosa che resta da mangiare è il prossimo.Sappiamo che è storicamente vero».

Che cosa fa suo fratello Dennis? È uno scienziato? «Sì. Ha un dottorato in biologia ed è anche un avvocato, una per-

sona riflessiva e un caro amico».Una chiacchierata tra fratelli che sfocia nel-

l’apocalisse, così, naturalmente?«Più spesso di quanto non sarebbe logico».I padri che tipo di reazioni hanno avuto a La

strada? «Ho ricevuto la stessa lettera da sei uomini

diversi. Uno dall’Australia, uno dalla Germa-nia, uno dall’Inghilterra, ma tutti dicevano lastessa cosa. Dicevano: “Ho cominciato a leg-gere il suo libro dopo cena e l’ho finito alle 3.45del mattino, poi mi sono alzato, sono salito disopra, ho svegliato i miei figli e sono rimastolì seduto sul letto a tenerli stretti”». [...]

JH: Qualcuno all’istituto ti ha dato qual-che informazione riservata? Ci puoi direuna data?

«Per cosa, per la fine del mondo? [Ride]No, non hanno la data».

JH: La tua scrittura è una forma di poe-sia, ma moltissimo di quello che leggi e stu-di è tecnico e basato sui fatti. C’è un confi-ne fra l’arte e la scienza, e dove comincianoa confondersi?

«C’è sicuramente un’estetica nella mate-matica e nella scienza. È anche così che Paul

Durac finì nei guai. Durac era uno dei grandi fisici delVentesimo secolo, ma lui era davvero convinto, come

altri fisici, che dovendo scegliere fra qualcosa di logicoe qualcosa di bello, fosse più verosimile affidarsi all’este-

tica. Quando Richard Feynman mise insieme la sua versio-ne aggiornata dell’elettrodinamica dei quanti, Durac non la

giudicò vera perché era brutta. Era caotica. Non aveva la chia-rezza, l’eleganza che lui associava alla grande matematica o allafisica teorica. Ma si sbagliava. Non esiste una formula per questo».

C’è una differenza nel modo in cui viene rappresentata l’u-manità ne La strada e il modo in cui viene rappresentata in Me-ridiano di sangue?

«In Meridiano di sangue di personaggi buoni ce ne sono pochi,mentre La strada parla proprio di persone buone. È l’argomentoprincipe».

JH: Ricordo che mi avevi detto che Meridiano di sangue parladella malvagità dell’uomo, mentre La strada parla della bontàdell’uomo. Solo quando è nato mio figlio mi sono reso conto cheuna personalità è qualcosa di innato in una persona. La puoi ve-dere mentre si forma. Ne La strada, il ragazzo è nato in un mon-do in cui la morale e l’etica sono al di fuori, quasi come in un espe-rimento scientifico. Ma lui è il personaggio più morale. Pensi chela bontà sia innata nelle persone?

«Io non penso che la bontà sia qualcosa che impari. Se vieni la-sciato alla deriva a imparare dal mondo a essere buono, non è fa-cile. Ma ogni tanto la gente mi dice che mio figlio John è proprioun bambino d’oro. Io dico che lui è talmente superiore a me chemi sento stupido a correggerlo su certe cose, ma qualcosa devo fa-re, sono suo padre. Non puoi fare molto per cercare di trasforma-re un bambino in qualcosa che non è. Ma qualunque cosa sia, disicuro puoi distruggerla. Se sei meschino e crudele, puoi distrug-gere la persona migliore del mondo».

Che cosa fate insieme, lei e suo figlio? Dove trovate un terrenocomune?

«La mia sensazione è che la consanguineità in realtà significhipoco. Io ho una grande famiglia e c’è solo uno di loro a cui mi sen-to vicino, ed è il mio fratello minore Dennis. Lui è il mio tipo di per-sona. E anche John è il mio tipo di persona».

Siete tutti e due padri di bambini piccoli. Guardandoli, avetela sensazione che il talento artistico sia qualcosa che si trasmet-te dai genitori ai figli?

«John sta sempre a disegnare, ma devo dire che non è molto bra-vo, mentre io lo ero. Ero un artista bambino, un bambino prodi-gio. Facevo tutte quelle cose là. Grandi disegni vistosi di animali.Sono anni che non lo faccio più. Tutto svanito. Non gli ho mai da-to seguito [...] Ho fatto delle mostre a otto anni. Era solo per la glo-ria. Mostre locali. Mi ricordo alcuni di quei dipinti. Uno raffigura-va un rinoceronte alla carica. Non era male. Un grande acquerel-lo, una cosa a tecnica mista. Un altro era un rosso molto acceso,un vulcano in esplosione. Era divertente. Successivamente ho di-pinto uccelli e cose del genere. Quadri naturalistici».

Ha la sensazione, nella sua opera, di cercare di affrontare glistessi grandi interrogativi, solo in modi diversi?

«Il lavoro creativo spesso è stimolato dal dolore. Se non avessiqualcosa nel profondo del tuo cervello che ti fa diventare matto,forse non faresti niente. Non è una buona soluzione. Se fossi Dio,non avrei fatto le cose a questo modo. Certe cose di cui ho scrittoormai non rivestono più alcun interesse per me, ma certamentemi interessavano prima di scriverle. C’è qualcosa, sul fatto di scri-vere di determinate cose, che le appiattisce. Le hai consumate. Iodico alla gente che non ho mai letto nessuno dei miei libri, ed è ve-ro. Loro pensano che li stia prendendo in giro».

Prima ha accennato al ruolo che gioca la fortuna nella vita. Inche momento è intervenuta la fortuna per lei?

«Non c’è persona dai tempi di Adamo più fortunata di me. Nonmi è successo nulla che non fosse perfetto. E non lo dico per farelo spiritoso. Non c’è mai stato un momento in cui non avevo sol-di ed ero infelice, un momento in cui qualcosa non arrivava. E que-sto ogni volta, ogni volta, ogni volta. Ce n’è abbastanza di che ren-derti superstizioso».

Traduzione di Fabio Galimberti© The Wall Street Journal 2009

“La mia giornata perfetta consistenello starmene seduto in una stanzacon un po’ di fogli bianchi:oro puroe tutto il resto è tempo perso”

IL FILM

The Road diretto da John Hillcoat,

interpretato da Viggo Mortensen

e Charlize Theron, è uscito

negli Stati Uniti e da venerdì anche

nelle sale inglesi. Già acquistato

in quasi tutta Europa, il film tratto

da La strada di McCarthy non ha

ancora un distributore italiano

perché giudicato “deprimente”

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale

le storieSelve oscure

Si chiama Wolfgang Fasser, ha perso la vista a quindicianni, seduto davanti a un ghiacciaio mentre “quellalucentezza diventava sempre più opaca”. Ha viaggiato,ha fatto il fisioterapista, ha lavorato in Africa,ha trovato casa in Toscana. Ora fa la guida di notteper i sentieri di montagna che “sente” soltanto lui

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GENNAIO 2010

L’uomo cieco del boscoPINO CORRIAS

QUORLE (Arezzo)

Wolfgang Fasser, cin-quantatré anni, viag-giatore di molte avven-ture, abita ai margini

del bosco di castagni e faggi, in una picco-la valle di incanti, tra Arezzo e Poppi. Sta in

scampo, la retinite pigmentosa. «Viveva-mo in alto, tra i grandi prati. Eravamo cin-que fratelli. Sempre nella luce, davanti allemontagne. Alla sera mio padre e mia ma-dre ci riunivano e ascoltavamo Mozart. Inprimavera la malattia accelerò. Una matti-na cominciai a salire verso le grandi paretidel Todi, 3.600 metri di altezza. A ogni pas-so le cose intorno si spegnevano. Mi fermaidopo sei ore. Ero seduto davanti al ghiac-

ciaio, mi ricordo l’odoredel vento, il sole che bru-cia. E quella lucentezzache diventava opaca. Era ilsipario della mia nuova so-litudine e quel giorno l’hoaccettata».

Ma il silenzio ascoltatotra quelle rocce non è statala sua resa, bensì l’iniziodella sua ostinazione. Ciha messo dieci ore a torna-re indietro («c’erano deipunti in cui andavo a ten-toni, era la prima volta») eda allora non si è più fer-mato. Ha imparato a legge-re braille. Ha imparato asuonare il sax. Ha impara-to a memorizzare lo spa-zio, le traiettorie, a sentiregli ostacoli, a percepire ilpericolo. Ha imparato a fa-re il fisioterapista, tre annidi corso a Zurigo, il diplo-ma, le mani che sentonocon più chiarezza quelloche nel corpo dell’altronon si vede. Ha imparato achiedere aiuto, anche perstrada, alle persone. Haimparato a fidarsi. E ha im-parato a conoscere i proprilimiti. Poi un giorno è par-

tito. Ma non è andato dietro l’angolo. È vola-

to quindicimila chilometri più a sud, tra lemontagne del Lesotho, Africa meridiona-le, due milioni di abitanti, un solo ospeda-le, il Queen Elizabeth, un solo fisioterapi-sta. «Sono arrivato nell’anno 1981. Paese

una casa di pietra con il grande camino do-ve cuociono castagne. Ha un orologio par-lante e il cellulare imita il pettirosso all’al-ba. Quando scende il tramonto e la notteallaga il bosco, lui inizia la traversata. Por-ta persone dentro a un viaggio speciale.Nel cuore nero del bosco. In quel buio chemoltiplica tutti i rumori della vita — dalvento alla paura — e poi li inghiotte in unsilenzio che sprofonda e rende vane tutte

le mappe. Tranne la sua. Perché lui del buioconosce tutti i sentieri, ci cammina da mol-te vite, dal giorno in cui i suoi occhi si sonospenti per sempre. Dice: «Nel vostro mon-do io sono cieco, ma al buio divento l’uni-co vedente».

Wolfgang è una guida in molti sensi. Par-la lento, cammina lento, conosce l’invisi-bile. Cioè quella parte del mondo che più ciinquieta, che sempre ci sfiora, e che noi il-luminiamo costante-mente di suoni, relazionia occhi spalancati, colorisonori, grazie agli scher-mi accesi e al lucente ru-more di fondo che arredatutta la nostra vita, trannei misteri del sonno. Dice:«Quando entri nel buio,esci dalla vita virtuale,quella sollecitata dallavelocità, governata dallemacchine, depositata sututte le superfici che scor-rono, rendendola inaf-ferrabile».

Nel buio del bosco timetti in ascolto. Calcoliogni rumore. Respiri esenti il respiro delle coseche ti circondano. Cam-mini un passo alla volta e,a ogni passo, tasti il terre-no. Senti la terra, il sasso,la pendenza, la trappoladelle spine, il passo cheincontra l’ostacolo equello che si fa strada. Di-ce: «La lentezza diventa iltuo equilibrio, che non ènuovo, è solo ritrovato». Eil bosco di notte non è piùil luogo dove non si vede eci si perde, ma una viad’uscita dal labirinto diurno dei vedenti.

Lui l’ultimo giorno da vedente, l’ultimogiorno della sua prima vita, sulle monta-gne svizzere, cantone tedesco di Glarona,me lo racconta davanti al fuoco. Avevaquindici anni, da otto i suoi occhi si stava-no spegnendo per una malattia senza

Quando entri nel buio escidalla vita virtuale,quella sollecitata

dalla velocità, governatadalle macchine, depositata

su tutte le superficiche scorrono, rendendola

inafferrabile

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Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 10GENNAIO 2010

Studia nuove strade e ripassa quelle vec-chie. Ascolta. Talvolta gira con un microfo-no, la cuffia e il registratore. «Il microfonoè il mio cannocchiale, l’ingrandimentoche mette a fuoco tutti i suoni». Dice: «Lemie mappe sono mentali e sonore. Rico-nosco i punti in cui le pareti della valle so-no più ampie. Ogni rumore è una traccia.Un trattore o una moto che passano sul-l’altro versante lasciano una scia luminosa

dietro ai miei occhi. Poi cisono gli animali che miaiutano».

Riconosce la voce deicani di ogni casa nei din-torni. I punti in cui passa-no i caprioli quando van-no a bere. I sentieri dovesale il bestiame. Sa dovesono i nidi, quello dell’al-locco e della tortora, sentei richiami, calcola le di-stanze.

Dice che non si è maiperso davvero, nemmenoquando la neve cancella ilbosco e tutti i rumori di-ventano cotone. Dice chenon ha mai avuto pauradavvero, nemmeno quel-le volte in cui sente passa-re i lupi in branco: «Ce nesono una trentina da que-ste parti. Mi è capitato dipercepire la loro presenzaprima ancora di sentirli.Occhi che ti guardano damolto lontano, come unapiccola onda di energiache ti sfiora. Poi all’im-provviso uno starnuto, oun soffio, o un cespuglioche si muove e quella sen-sazione che sparisce: se ne

sono andati». Quasi ogni giorno qualcuno viene a tro-

varlo. Specialmente giovani. Lui li mette infila e li porta «a esplorare il bosco e ancheun po’ se stessi». Per loro ha scritto conMassimo Orlandi un libro: Invisibile agliocchi, che è poi la sua storia, le molte cose

viste da un uomo che vede in un modo spe-ciale. «Con loro — racconta — riapro vec-chi sentieri. Ce ne sono tanti abbandonatida queste parti, che magari ricordano soloi boscaioli più anziani».

Aprirsi una nuova strada nel bosco (del-la vita) è un buon insegnamento per i ra-gazzi. Vuol dire non accontentarsi dellastrada vecchia e cercare la propria. È il piùantico dei viatici. Vale quanto l’ultimo se-

poverissimo, malattie, polvere, un po’ dibestiame. C’era talmente poco — dice sor-ridendo — che anche un fisioterapista cie-co era qualcosa». Ci è rimasto tre anni. Poialtri due. Camminava da un villaggio all’al-tro per andare a curare i suoi pazienti. «InAfrica non cammini mai da solo, neanchedi notte. Tutti mi conoscevano, tutti miraccontavano la loro storia in cambio del-la mia». Quando non cura, Wolfgang inse-gna. Organizza dei corsi diformazione, una catenavirtuosa che da allora a og-gi ha formato decine dinuovi fisioterapisti e chelui va a rifinire ogni annoper sei settimane.

Quando rientra nel no-stro mondo, Zurigo è di-ventata inabitabile: «Dopol’Africa volevo un luogodove poter respirare, cam-minare, vivere. Conoscevola Toscana, la comunità diRomena, questi piccolipaesi dell’Anno Mille, le lo-ro chiese e la buona gente.Sono arrivato la prima vol-ta, il profumo di questi bo-schi mi ha conquistato, esono rimasto».

Quorle ha ventotto abi-tanti. Sta nascosta dentrole spalle dell’Appennino.La valle ha canaloni e bo-schi intatti. Wolfgang li co-nosce palmo a palmo.Quando era vivo il suo ca-ne Dusty li ha attraversatitutti, «insieme facevamosettanta chilometri a setti-mana». Ora che è rimastosolo («e in lutto da un an-no») ha molto ridotto le vi-site, riceve i pazienti a casa, anche se c’èsempre qualche anziano che non si puòmuovere: «Magari sono bloccati dalla ma-lattia. E allora vado io».

Wolfgang si alza tutte la mattine all’alba.Cammina almeno tre ore. Ammirare quel-lo che non vede è il suo modo di pregare.

greto che mi svela prima del tramonto, pri-ma del bosco di notte, quando parliamodel buio: «La cosa curiosa — mi dice allegro— è che di notte, nel sonno, dentro ai sogniio ci vedo. Ci vedo benissimo. Vedo la fac-cia di mia madre. Vedo la neve, il filo d’er-ba, la mosca, vedo tutti i colori». Che è poil’elogio più bello del sogno e anche la suaforza, contro tutte le malattie della vita.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

La cosa curiosaè che di notte, nel sonno,dentro ai sogni io ci vedo

Ci vedo benissimoVedo la faccia di mia madre

Vedo la neve,vedo il filo d’erba,

la mosca, vedo tutti i colori

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SENSAZIONINell’altra pagina

in basso,

Wolfgang Fasser

e a destra

il suo tavolo di lavoro,

nelle foto

di Alberto Giuliani

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Repubblica Nazionale

Li chiamavano “the Venus Fixers”: una task force di militari-artistiche nel 1943 risalì la penisola con le truppe

alleate cercando di mettere al riparo dal conflitto monumenti,statue, dipinti. Ora i loro nomi e le loro storie riaffioranoin un libro appena uscito negli Stati Uniti

CULTURA*

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GENNAIO 2010

Nel 1943 la guerra stava devastando l’Europa.L’avanzata della possente macchina da guer-ra nazista si era infranta a Stalingrado ma i de-stini finali del conflitto mondiale erano anco-ra tutti da scrivere. Si moriva ogni giorno, suicampi di battaglia o nelle città martellate dai

bombardamenti, in un massacro senza fine che coinvolgevasoldati e popolazione civile. In questo teatro di distruzione edi morte un gruppo di ufficiali anglo-americani iniziò quel-l’anno a combattere una battaglia che nei libri di storia nonviene raccontata; una delicata missione di guerra in cui le uni-che armi con cui si poteva combattere erano quelle dell’intel-ligenza e della cultura: provare a salvare i monumenti e le ope-re d’arte in Italia.

Al comando alleato e nei dispacci ufficiali erano conosciu-ti come “Monuments Officers”, gli ufficiali dei monumenti, o“Monuments Men”. La truppa, perplessa su quei soldati chenon combattevano, li battezzò scherzosamente con un so-prannome che gli sarebbe rimasto addosso: i “Venus Fixers”,letteralmente gli “aggiusta Venere” o i “salva Venere”. Nellavita civile erano storici dell’arte, architetti, artisti, biblioteca-ri, alcuni venivano da prestigiose università (Oxford, Yale,Harvard), vestivano con eleganza l’uniforme, sapevano ap-prezzare un buon bicchiere di vino, amavano la poesia, la let-teratura, l’arte. La loro storia, gli sforzi che fecero per preser-vare il patrimonio artistico italiano è adesso raccontata in unbel libro (The Venus Fixers-The remarkable story of the alliedsoldiers who saved Italy’s art during World War II — Ferrar,Straus and Giroux) scritto da Ilaria Dagnini Brey, una giorna-lista e scrittrice italiana, padovana di nascita e americana diadozione (il marito è primo violoncellista alla New YorkPhilharmonic), che il 18 maggio verrà pubblicato in Italia daMondadori.

Fare la guerra in Italia è come combattere «in un maledet-to museo d’arte», si era sfogato il generale Mark Wayne Clark,comandante delle forze alleate nel nostro Paese. Non chel’uomo che diede l’ordine di bombardare Monte Cassino, ra-dendo al suolo la secolare abbazia, non capisse l’importanzadei monumenti, ma lui, come molti altri ufficiali, aveva comeprimo obiettivo quello di vincere le battaglie sul campo cer-cando di perdere meno uomini possibile. E nell’Europa del1943 preoccuparsi di edifici, per quanto antichi, di dipinti ostatue era l’ultima cosa che i comandanti militari avessero acuore.

Salvare quel «maledetto museo d’arte» era un problemache si pose anche Dwight “Ike” Eisenhower, comandante incapo delle forze alleate e futuro presidente degli Stati Uniti.Non di facile risoluzione, come ammise lui stesso alla vigiliadello sbarco americano in Sicilia, scrivendo al generale Geor-ge Marshall che occorreva fare il possibile «senza ostacolarele operazioni militari» per «evitare la distruzione» di opered’arte «irremovibili». In una lettera indirizzata a tutti i co-mandi il 29 dicembre 1943, “Ike” sarà ancora più esplicito:«Oggi stiamo combattendo in un Paese che ha contribuitomolto alla nostra eredità culturale, un paese ricco di monu-menti che dalla loro creazione hanno testimoniato la cresci-ta di una civiltà che è la nostra. Siamo obbligati a rispettarequesti monumenti per quanto la guerra permette. Se dobbia-mo scegliere tra distruggere un famoso edificio o sacrificare inostri soldati, la vita dei nostri uomini conta infinitamente dipiù dell’edificio. Ma la scelta non è sempre così netta. In mol-ti casi i monumenti possono essere salvati senza alcun detri-mento per le operazioni».

La chiave della missione dei “Venus Fixers” è tutta in quel-l’ultima frase. Quando entrano in azione, la distruzione dimolti monumenti, di chiese rinascimentali, di conventi me-dievali è in gran parte già avvenuta, ed altre ne seguiranno,inevitabilmente, anche durante la loro azione. Ci furono de-vastazioni irreparabili, autorizzate dalla «necessità dellaguerra» anche quando in realtà avevano un valore strategiconullo; tanti errori vennero commessi, sculture e quadri dal va-lore inestimabile andarono perduti per sempre; molti sonostati solo parzialmente ricostruiti partendo da pezzi, calci-nacci o piccoli frammenti. Il libro ci fa però capire come sen-za i “Venus Fixers” sarebbe stato tutto molto peggio e come di-versi capolavori che oggi possiamo ammirare sarebbero an-dati persi per sempre se la visionaria missione di questo pu-

soldato

ALBERTO FLORES D’ARCAIS

VenereSalvate

“Queste opere”, scrisse Eisenhower,“testimoniano la crescita di una civiltàche è la nostra. Siamo obbligatia rispettarle per quanto è possibile”

I PROTAGONISTI/1

Sopra, da sinistra: Deane Keller, nella vita civile professore

di pittura e disegno alla Yale School of Fine Arts;

Ernest De Wald, professore di arte e archeologia a Princeton

il

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 10GENNAIO 2010

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IL LIBRO

L’avventurosa storia dei “monuments

officiers” dell’esercito alleato nell’Italia

del 1943 è raccontata in The VenusFixers, scritto da Ilaria Dagnini Brey

e pubblicato da Farrar, Straus

and Giroux (310 pagine più 16 pagine

di foto, 26 dollari). Il libro è uscito

nell’edizione americana e verrà

pubblicato in Italia da Mondadori

il prossimo maggio

LE IMMAGINIIn alto da sinistra:

dipinti rubati;

la chiesa

di Acerno; soldati

con una statua-

mascotte dopo

lo sbarco di Anzio

(foto grande);

le macerie

di Monte Cassino

Sotto il titolo,

la fontana di Santa

Lucia sullo sfondo

del Vesuvio

L’arte di combatterein un paese-museo

gno di ufficiali non fosse stata portata a termine.Nell’Europa del ‘42-43 l’Italia era un caso speciale. Nel no-

stro Paese i nazisti non avevano demolito siti storici per moti-vi razziali (come accadde in Unione Sovietica), né era stato di-strutto il mercato artistico (come avvenne nella Francia deicollaborazionisti) con le migliaia di quadri saccheggiati daibeni delle famiglie ebree. Non era accaduto perché l’Italia fa-scista era alleata della Germania di Hitler, perché il governo diMussolini si era impegnato, fin dall’inizio della guerra, a pro-teggere e mettere al sicuro (dai futuri bombardamenti alleati)monumenti ed opere d’arte. Alla fine del 1943, con la cadutadi Mussolini e l’occupazione nazista, il cambiamento è radi-cale. Nella loro avanzata dalla Sicilia e da Anzio verso il Nordle armate alleate non risparmiano monumenti che in secoli diguerre erano rimasti intatti, così come nella loro ritirata letruppe naziste lasciano una scia di distruzione, saccheggi ebottini.

Il libro è fatto di personaggi e di storie, di luoghi e di memo-rie, libro di guerra e libro d’arte, un racconto dettagliato in cuisullo sfondo del più grande dramma del secolo scorso si in-trecciano azioni militari, descrizioni di capolavori, vicendeumane. Tutto ruota attorno a loro, i “Venus Fixers”: uominicome Deane Keller, in tempo di pace professore di pittura e di-segno alla Yale School of Fine Arts, spesso il primo ad entrarenelle città toscane e del Lazio distrutte dalla guerra; come Ba-sil Marriott, architetto e critico d’arte che partecipa al restau-ro della Basilica del Palladio a Vicenza; come l’archeologo estorico dell’arte Ernest De Wald; come Frederick Hartt, il fo-tointerprete che scoppia a piangere quando vede le immagi-ni dei raid aerei su Padova che hanno distrutto la CappellaOvetari e gli affreschi del Mantegna. Non sono gli unici prota-gonisti. Accanto si muovono altre figure, personaggi italianicome gli ex funzionari del regime fascista in decomposizione,preti, carpentieri, ragazzi, tutta gente che si mette a disposi-zione degli ufficiali anglo-americani per salvare il salvabile.

Li vediamo in azione lontano dal fronte, intenti a collezio-nare e catalogare capolavori sepolti nelle rovine di Napoli odella Sicilia, distrutti dal passaggio di una macchina da guer-ra mai così potente, non importa se tedesca o alleata. Li ve-diamo intenti a ricostruire i muri delle chiese, rimettere in se-sto i tetti dei conventi distrutti, impacchettare o nascondere

(quando le operazioni di guerra sono ancora in corso) dipintie affreschi. Li seguiamo mentre danno la caccia agli uomini diGoering che si sono dati alla fuga con duecento dipinti, com-presa quella Danae, capolavoro di Tiziano, che il gerarca na-zista voleva come regalo di compleanno. Al centro del libro laToscana e i suoi capolavori, l’assedio di Firenze, che al con-trario di Roma non venne dichiarata “città aperta”. Le assicu-razioni naziste che i monumenti sarebbero stati risparmiatilasciano il tempo che trovano, il comando tedesco fa esplo-dere tutti i ponti sull’Arno con l’eccezione di Ponte Vecchio, lestrutture medievali della città vengono demolite.

«Questo libro nasce una quindicina di anni fa», spiega a Re-pubblica Ilaria Dagnini Brey, «quando avevo deciso di scrive-re un articolo sulla ricostruzione “virtuale” della cappella de-gli Ovetari nella chiesa degli Eremitani a Padova, la mia cittàdi nascita. Nel fare la ricerca per l’articolo mi sono imbattutaper la prima volta in questo strano gruppo di ufficiali alleati;ho chiesto in giro, nessuno ne aveva mai sentito parlare. Mi so-no incuriosita, ho fatto altre ricerche, ho approfondito l’argo-mento, ho cercato di capire chi fossero. Non erano uomini no-ti, ed erano tutti morti, fatta eccezione per Mason Hammond,un professore di latino ad Harvard ormai novantenne. Sonoandata a parlare con i loro familiari, e anche loro sapevano po-co o nulla di questa storia che aveva visto protagonisti i loropadri, fratelli, zii. Da queste ricerche e solo nel corso degli ul-timi anni ha preso corpo il libro: posso dire che ha avuto unagestazione molto lunga».

La caccia agli uomini di Goering,in fuga con la “Danae” di Tizianoche il gerarca nazista volevacome regalo per il suo compleanno

I PROTAGONISTI/2

Da sinistra, altri quattro “monuments officers”: Basil Marriott,

architetto nella vita civile, curò il restauro del tetto della Basilica

di Andrea Palladio a Vicenza; Cecil Pinsed, anche lui architetto,

lavorò soprattutto a Firenze; Roger Ellis, si specializzò

nella messa in salvo degli archivi di Lazio, Umbria e Toscana;

Roderick Eustace Enthoven, architetto, impegnato

in Piemonte, Liguria e Lombardia

Repubblica Nazionale

Dopo “Gli spietati” e “MillionDollar Baby”, i due gigantidello schermo si riuniscono

per “Invictus”, dedicato a Nelson Mandela, che vedremo in Italiail mese prossimo. Mentre già si prevedono nuovi premi,siamo andati a trovarli a Los Angeles. Il regista e l’attore parlanoa ruota libera di cinema, politica, diritti civili, speranze, amicizia

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

LOS ANGELES

Due grandi vecchi del cinema americano, unobianco e uno nero, felici collaboratori e amiciper la pelle. Clint Eastwood, settantanove anni,e Morgan Freeman, settantadue, uniscono di

nuovo le loro forze e realizzano Invictus, il dramma politico-sportivo in cui Freeman interpreta Nelson Mandela. È la terzavolta che lavorano insieme, dopo Gli spietati (1992) e MillionDollar Baby(2004). Un’accoppiata vincente, dato che quei duefilm hanno vinto svariati Oscar, inclusi quello per la migliorepellicola, quello per la regia di Eastwood, quello per l’interpre-tazione di Freeman come attore non protagonista. Eastwoodnon recita in Invicuts: lascia la parte del leone all’amico, che ri-sulta un perfetto Mandela, imitandone accento e portamentoin maniera impeccabile. Il film, nei cinema americani dall’11dicembre, e in arrivo sugli schermi italiani il 26 febbraio pros-

simo, è già in odore di Oscar. Invictus (latino per “imbattuto”, tito-

lo di un poema ingle-s e

cheispirò molto il leadersudafricano negli anni della prigionia)è ambientato in un momento particolare della presi-denza di Mandela, che era uscito dal carcere nel 1990 dopoventisette anni di detenzione per la sua militanza anti-apartheid. Il Sudafrica si preparava a ospitare i Mondiali dirugby nel 1995, e il presidente ebbe la saggezza psicologica,umana e politica, di sfruttare l’evento come strumento di ri-conciliazione nazionale tra la popolazione bianca e quella ne-ra. Nel film Matt Damon recita il ruolo di Francois Pienaar, ilcapitano della squadra degli Springboks, fino ad allora odiatidai neri che li vedevano come il simbolo dell’oppressione del-la minoranza bianca. Pienaar stringe un patto di alleanza conMandela e diventa una pedina fondamentale nella corsa ver-so il trionfo a sorpresa degli Springboks, che nella finale bat-tono la loro storica nemesi, i temutissimi All Blacks neozelan-desi. Per la prima volta gli stadi di rugby si riempirono di tifo-

SPETTACOLI

SILVIA BIZIO

IL FILM

Invictus (in uscita il 26 febbraio), adattato dal libro

di John Carlin Ama il tuo nemico, racconta la finale

dei Mondiali di rugby del 1995 in Sudafrica. Mandela

si adoperò perché la partita, vinta dagli afrikaanerSpringboks sugli All Blacks neozelandesi, segnasse

la riconciliazione tra sudafricani bianchi e neri

si festanti d’ogni colore. È stato Freeman a proporre il proget-to a Eastwood dopo aver acquistato i diritti del libro di JohnCarlin Ama il tuo nemico. Nelson Mandela e la partita di rugbyche ha fatto nascere una nazione(tradotto in Italia da Sperling& Kupfer).

Abbiamo incontrato Eastwood e Freeman a Los Angeles.Non potrebbero essere più alla mano. I due veterani si rac-contano quasi sussurrando. Eastwood oggi è un po’ duro diorecchio e parla più lentamente rispetto ad alcuni anni fa, manon ha perso nulla del carisma e della presenza fisica del suometro e novanta.

Eastwood, dopo Gran Torino torna al tema del razzismo. Clint Eastwood: «Quando ho girato Flags of our fathersè sta-

to interessante per me raccontare poi la stessa battaglia da unaltro punto di vista, quello giapponese, in Lettere da Iwo Ji-ma. Gran Torino parla di razzismo attraverso gli occhi di unvecchio duro che pensa di non poter cambiare e riceve in-vece una grande lezione di vita. Invictusè la storia di un uo-mo che, dopo ventisette anni di prigione, esce e fa la cosapiù insolita che possa fare una persona: quasi in terminibiblici porge l’altra guancia e perdona i carcerieri, non li-cenzia la maggior parte del personale del governo, sce-glie di tenere le stesse guardie di sicurezza».

Morgan Freeman: «Da almeno vent’anni speravodi interpretare Mandela in un

film, è il mio

MorganClint&

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Repubblica Nazionale

la mano a tutti i giocatori: “Per questo il perdono è un’armapotente”. Per Mandela la Coppa del Mondo di rugby non erasolo un torneo — e lo fece capire bene al capitano Francois Pie-naar — bensì l’epocale opportunità di unire la nazione».

Clint, cosa ci dice di Morgan Freeman?CE: «Mi è piaciuto molto come persona fin dal nostro primo

incontro, soprattutto perché mi disse che era un grande fan deIl texano dagli occhi di ghiaccio. Come attore è un piacere os-servarlo in ogni singola scena».

MF: «Lavorare con Clint è il sogno di ogni interprete chesappia qualcosa di recitazione. Molti attori pensano che oc-corra una regia forte e dominante. Io non ho bisogno di un re-gista forte. Semmai ho bisogno di un copione forte».

Clint, che tipo di regista si considera?CE: «Uno soffice e malleabile, ma che sa perfettamente co-

sa sta facendo. Mi piace lavorare in fretta e con decisione. Nonfaccio innumerevoli ciak: due, tre al massimo e via alla scenaseguente. Lavoro d’istinto. Col cinema puoi raccontare unastoria in venti modi. Il trucco è sceglierne uno e tirare dritto».

Sapreste dire cosa ci vuole per fare del buon cinema?CE: «Ci vuole leadership. E colleghi di talento e affidabili co-

me Morgan. Ci vuole occhio e fiuto per riconoscere subito labravura di un attore o di un direttore della fotografia, e so-prattutto capire se la storia è valida o meno».

In Sudafrica avete visitato molti luoghi, conosciuto per-sone. Immagino avrete riflettuto sulle radici del razzismo?

CE: «Certo. Io sono cresciuto a Oakland, in California, conuna vasta popolazione di neri. Ho frequentato il liceo multi-razziale, ma quello accanto al mio era di soli neri. Amavo la

musica, ma non capivo perché i musicisti neri non potes-sero suonare nella band dei bianchi e viceversa. Mia mo-

glie è in parte di colore, anche lei cresciuta in Califor-nia, e da piccola sentiva gente che le diceva: “Ehi tu,

non bere da quella fontana!”. Abbiamo fatto passiavanti da allora, ma c’è ancora del pregiudizio nel-la nostra società, spesso per colpa dei genitori.Quel dannato senso di superiorità che si trasmet-te per osmosi ai figli».

MF: «Ho appena girato un documentario suuna piccola città nel Mississippi dove ancora

esiste la segregazione razziale. Nei finesettimana i neri vanno da una par-

te e i bianchi dall’altra. Non èpermesso a un nero usci-

re con una bianca om e s c o l a r s i .

Q u a n d o

so-no venuto a saperloci sono rimasto. Ancora oggi? Non ècerto la nostra idea di una società aperta e democra-tica».

Credete che l’esempio promosso da Mandela in Sudafricapossa influire su altri paesi, anche sugli Usa?

CE: «Guardi, io sono diventato un po’ cinico riguardo allostato della nostra Unione. Siamo tutti divisi, ognuno ha la suaopinione, non si fa altro che scavalcare le linee di partito. Noncredo più nel partito repubblicano, ma nemmeno in quellodemocratico. Se nascesse un terzo polo più illuminato e one-sto, aderirei. È proprio per questo che mi ha attratto la storiadi Invictus, perché parla di un politico che ha saputo trascen-dere tutta questa mondezza».

MF: «Non sono pessimista come Clint. Certo, dentro dinoi, in qualche angolo recondito della psiche, c’è ancoraquell’essere primitivo che ci fa essere razzisti. Ma general-mente parlando siamo cresciuti e migliorati tantissimo. Se-condo me negli Usa la società è integrata, multirazziale emulticulturale. Guardi noi due: black and white, una misce-la perfetta!».

i d o -lo. Ho avuto l’onoredi conoscerlo quando nel 1993 girai inSudafrica Bopha, con cui debuttai alla regia. Fu allorache stringemmo amicizia. Pensavo di realizzare un film dallasua autobiografia. Poi John Carlin ha scritto Ama il tuo nemi-co e ho capito che, esaminando quell’evento sportivo, cattu-ravamo l’essenza della grandezza di Mandela. Madiba, comelo chiamano affettuosamente gli amici, ha capito e ci ha ap-poggiato».

È stato difficile recitare la parte di Mandela?MF: «Prima di iniziare le riprese non le dico nemmeno in

che stato di nervi fossi! In genere non recito con accenti diver-si. Ma dovevo sforzarmi al massimo per parlare come Man-dela. Mi sono messo a studiare, a provare e riprovare. Al mo-mento delle riprese, avevo già risolto il puzzle e mi sentivo ora-mai più che tranquillo».

CE: «Morgan è così modesto da non raccontarle un fatto es-senziale: Mandela gli confessò che avrebbe desiderato moltoche fosse lui un giorno a interpretarlo in un film. Vero Mor-gan?».

MF: «È vero. Dissi a Mandela che se avessimo davvero fattoun film in cui io recitavo lui, avrebbe dovuto garantirmi pienoaccesso alla sua vita, lasciarmi prenderlo per mano e scoprirela sua essenza. “Così faremo, te lo prometto”, mi rispose. L’at-tuale governo sudafricano, grazie anche alle raccomandazio-ni di Mandela, ci ha dato pieno accesso alle location: abbiamogirato perfino nel palazzo presidenziale, che da venticinqueanni era off-limits per il cinema».

CE: «Morgan dà l’impressione di aver aspettato questo mo-mento per tutta la vita. Quando incontri il vero Mandela ti vie-ne da pensare: “Sta imitando Freeman!”. Morgan ha perfe-

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 10GENNAIO 2010

‘‘EastwoodMi piace lavorare in frettaNon giro innumerevoliciak: due, tre al massimoe via alla scena seguentePuoi raccontare una storiain venti modi. Il truccoè sceglierne uno soloe tirare dritto

‘‘FreemanMolti interpreti pensanoche per ottenere un buonrisultato occorra una regiadominante. Io non hobisogno di un uomo fortedietro la macchinada presa. Semmaidi un buon copione

zio-nato ogni suo gesto,ogni dettaglio fisico e minuzie comequel suo schiarirsi spesso la gola. Ci rivela l’uomo, coisuoi difetti, dietro la facciata scolpita del martire. Non ero maistato in Sudafrica prima di girare questo film, e mi sembra unpaese che ha fatto grandi progressi verso la democrazia. All’e-poca di cui parla Invictus, da quanto sento, sembra che fossedavvero sull’orlo della guerra civile e, se Mandela avesse vo-luto, probabilmente avrebbe potuto scatenare molto facil-mente un conflitto. Ma lui è un uomo che è andato contro isuoi stessi consiglieri. Tutti gli dicevano che perdeva tempocon il rugby, c’era chi voleva sciogliere quella squadra e tuttoquello che fosse afrikaans, ma lui è stato più lungimirante dichiunque altro. Eppure ancora non so, e forse nemmeno lui losa, come abbia potuto scommettere su quella squadra all’e-poca perdente e farla funzionare. A volte la verità è più stranadella finzione».

Invictus dunque non è un film “sportivo”?CE: «Lo è anche: abbiamo girato numerose scene di partite

di rugby, molto intense e realistiche. Mio figlio Scott, che haventitré anni, appare nel film come uno dei giocatori, e si è pre-so un sacco di botte. “Ok”, mi dicevo, “gli farà bene!”. Ma ilrugby e il Mondiale del 1995 sono soprattutto il mezzo con cuimostriamo l’intelligenza di Mandela, che convinse i neri a nonboicottare il torneo e gli Springboks. “Il perdono libera l’ani-ma”, Mandela disse alla folla dello stadio, dopo essere scesoin campo indossando la maglietta della squadra e aver stretto

SUL SETSotto,

da sinistra,

Gli spietati,Million DollarBabye Invictus

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La coppiada Oscar faccia a faccia

Repubblica Nazionale

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GENNAIO 2010

i saporiCoccole in tavola

Corroborante, aromatico, salutare, leggero e idratanteÈ il momento del cibo invernale per eccellenza, perfettoper ripararsi dal freddo e mettersi in riga dopo gli eccessinatalizi. Semplici e naturali, anche i brodi hanno però le lororegole. Prima fra tutte, la dimensione slow in cui vannoconsumati. Senza dimenticare l’attenzione al biologico

Il calendario non dà scampo: le feste di fine anno sono finite. Da Sant’Am-brogio a Santa Lucia, da Natale a Capodanno, dall’Epifania a quest’ulti-mo weekend, estrema scia festaiola di gennaio, l’avvio del 2010 chiedeconto delle ultime tre settimane vissute pericolosamente, tra cene son-tuose e brindisi augurali, surplus di dolci e salumi in libertà, liquori sfizio-si e frutta secca a go-go. Risultato: profili arrotondati, fegati sotto stress,

bilance in rivolta. Il tutto nel mese più freddo dell’anno, quando il corpo avreb-be bisogno di tenere ossa e stomaco al caldo e la macchina digestiva al minimodei giri per meglio affrontare febbri influenzali e tossi squassanti.

Per questo tornano in auge le minestrine, per riconciliarci con ritmi e attitu-dini della natura, seguendo il flusso dei bisogni e non quello della gola. Gli ag-gettivi, messi in fila, sono da primato del comfort food: calde, corroboranti, aro-matiche, salutari, leggere, idratanti. La declinazione è soprattutto serale. Perchétutto sommato le minestrine, pur semplici e facili da preparare, richiedono in-vece attenzione nel consumo: a nessuno verrebbe in mente di ingoiare quattro

cucchiaiate di brodo come fosse mordere un panino o masticare qualche boc-cone di bistecca.

Più della sostanza vale la gestualità: occorre predisporre un minimo di appa-recchiatura, avere gli indispensabili “correttivi” (extravergine e sale) a portata dimano. E, dopo essersi seduti, controllare con un rapido sfiorar di labbra se la tem-peratura permette di trasformare l’assaggio in pasto pieno. Così, oltre a confor-tare, le minestrine obbligano alla dimensione slow. Che non coincide con la con-divisione. “Mettersi comodi” — tendenzialmente tuta e pantofole — e prepararsiuna minestrina, anche la più (apparentemente) banale, acqua-capelli d’angelo-olio-parmigiano, è un desiderio molto invernale, di piccolo cabotaggio e rilas-sante godimento. Se è vero che la minestrina è quasi sempre donna (i maschi so-no più spesso di tradizione pastaiola e da zuppe forti), femminile è anche la cu-ra nel prepararla: sostanziosi brodi di carne cui attingere nei giorni successivi altrionfo dei bolliti, leggiadri brodi vegetali in cui generazioni di mamme hannosciolto le prime pappe dei loro piccoli, semolini al latte e rosso d’uovo per ridareforza ai convalescenti.

Le variabili sono infinite, a patto di rispettare il diminutivo che le battezza, apartire dalle paste dedicate: tempestine, bombonini, ditalini. Al massimo, si ar-riva ai vezzeggiativi (quadrucci, lancette). Nomi, dimensioni, calorie: tutto mi-niaturizzato. Un passo oltre, e si entra nel mondo delle minestre a tutto tondo,più robustamente appetitose, senza limiti di ingredienti e condimenti. Ma perovviare ai segni lasciati dal cotechino di Capodanno, invece che cappelletti e su-per-minestroni, meglio un pentolino, un’idea di brodo — se di dado, che sia bio-logico! — una manciata di pastina, una spolverata di formaggio, un piccolo girod’olio: rimise-en-forme necessaria, prima che arrivi Carnevale.

Minestrine

Quel caldo confortoche ci riporta all’infanzia

SemolinoÈ mutuata

dal cibo

per i bimbi

la minestrina

con il semolino

versato

nel brodo

e cotto per

dieci minuti

A fuoco spento,

parmigiano

e burro

PastinaLa regina

delle minestrine

risponde

a criteri di gusto

personalissimi:

acqua, brodo

più o meno

leggero, e infiniti

formati di pasta,

dalle stelline

ai capelli

d’angelo

MisoÈ la minestra

giapponese

per eccellenza

Ingrediente

principe

il salutare miso,

ottenuto

dalla soia

fermentata,

abbinato

ad alghe

e verdure

RisoL’altra faccia

del risotto:

il brodo

si utilizza

al posto

dell’acqua

per la bollitura

A fine cottura,

aggiunta

di parmigiano,

un giro d’olio

o poco burro

Pasta RealeSono i micro-

bignet

per il brodo

di carne: pastella

(farina, acqua,

burro e uova)

passata

nella tasca

a formare

palline

che gonfiano

in forno

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LICIA GRANELLO

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 10GENNAIO 2010

itinerariFabrizio Ferrari,chef stellatodel “RoofGarden”, ristorante dell’hotelSan Marco

di Bergamo, il 21 gennaioproporrà una seratadedicata al gran bollito– biancostato, stinco,gallina, lingua, cotechino –e al trionfo del brodo

In un antico borgo

di pescatori in Camargue,

il rimedio antinfluenzale

in versione gastronomica,

una minestra d’aglio

bollito, ha battezzato

uno dei ristoranti

più golosi e particolari

della zona

DOVE DORMIRESPLENDID HOTEL

21 Boulevard du Maréchal Alphonse Juin

Tel. (+33) 04-66514129

camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREAIGO BOULIDO À LA PLAGE

Boulevard Doctor Jean Bastide

Tel. (+33) 04-66776921

Sempre aperto, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREFRUITS&LÉGUMES RIBERA ET FILS

77 Avenue de Camargue

Tel. (+33) 04-66516006

Arezzo

A pochi chilometri

da Udine, la tradizione

dei piatti poveri

della Carnia resiste

intatta, a partire

dal brodo bruciato, brûtbrûsat, a base di burro

e farina in acqua e latte

e servita con patate lesse

DOVE DORMIREIL TEMPO DEL GIARDINO

Via Umberto I

Tel. 327-7470194

Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREDAL DIAUL

Via Garibaldi 20

Tel. 0432-776674

Chiuso giovedì, menù da 35 euro

DOVE COMPRARELATTICINI TONELLI

Via Cavour 49

Tel. 0432-775157

Rivignano (Ud)Le Grau du Roi (Francia)Costruita in epoca pre-

etrusca alla confluenza

di tre vallate simbolo

della ricchezza

agroalimentare toscana,

Casentino, Valdarno

e Val di Chiana, vanta

una versione fungaiola

dell’acquacotta maremmana

DOVE DORMIREPALAZZO SPADARI

Corso Italia 144

Tel. 0575-294023

Camera doppia da 95 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELA TORRE DI GNICCHE

Piaggia San Martino 8

Tel. 0575-352035

Chiuso mercoledì, menù da 25 euro

DOVE COMPRARENATURBOSCO

Via G. Acuto 15/B

Tel. 0575-295812

La miniaturizzazionedei formati di pasta è un fenomeno ti-pico del Medioevo. Dalla sfoglia-madre, la larga lasagnaconosciuta già dai romani, nei secoli medievali si comin-

ciarono a ritagliare lunghe fettucce o sghembi riquadri. Tenen-do grosso l’impasto e manipolandolo opportunamente, si tras-sero “spaghi” e cilindri forati, antesignani dei moderni spaghet-ti e maccheroni. Questi formati si essiccava-no bene e si conservavano a lungo: su di es-si si fondò l’industria della pasta, probabil-mente di derivazione araba, attestata inSicilia fin dal Dodicesimo secolo. Ma anchela pasta fresca, fabbricata nelle famiglie onelle comunità per un consumo immedia-to, nel Medioevo conobbe questa diversifi-cazione, che moltiplicò le possibilità d’im-piego e diversificò il gusto: come ben sappiamo, infatti, la varietàdelle misure e delle forme non è uno sfizio gratuito, ma rispon-de a usi ed esigenze specifiche. Pasta in brodo, zuppe rinforza-te, pasta asciutta, pasticci al forno… ogni preparazione ha il suosapore e il formato contribuisce in maniera decisiva a realizzar-lo, anche se la “materia” non cambia.

La pasta di formato piccolo o piccolissimo, preferibilmente

destinata ai brodi e alle zuppe, siamo soliti chiamarla “mine-strina”, ed è forse l’unico caso in cui “minestra” equivale senz’al-tro a “pasta” (l’uso emiliano e romagnolo, che tende a confon-dere i due termini, qui è universalmente condiviso). Di tali mi-nestrine abbiamo notizie millenarie, come quella riportata dalLibro della regola eremitica, compilato a Camaldoli sull’Appen-

nino tosco-romagnolo: esso stabilisce che nei giorni di domeni-ca il menu dei monaci deve comprendere un piatto di verdure euna pasta granellorum confezionata con farina di frumento.Possiamo immaginare questa “pasta di granelli” come una sor-ta di “malfattini” o “manfrigoli”, come oggi si chiamano in Ro-magna i piccoli frammenti di pasta tagliati al coltello e serviti inbrodo, o in umido coi piselli. A meno che non si tratti di una va-

riante autoctona del cous-cous, nascosta sotto l’etimologia di“manfrigoli” che potrebbe rimandare all’idea di “sfregare con lemani”. Anche il termine manfrigo è medievale. Compare nel ri-cettario di Maestro Martino a indicare una vivanda fatta conmollica di pane, farina e uova: l’impasto, una volta ridotto in pic-coli frammenti («come semi d’anice confettati», precisa Marti-

no), si cuocerà «con brodo di carne, o di bonpollo». Il pane può dunque sostituire la pa-sta come componente primaria della mine-strina.

Passano i secoli e arriviamo al dettagliatoelenco delle «minestre di pasta» stilato daPaolo Zacchia, archiatra di papa InnocenzoX, come cibi per il «vitto quaresimale»(1636): fra le «mille guise» di formati grandi e

piccoli, grossi e sottili, lunghi e corti, non dimentica le pastine«picciole e tonde, come quelle che chiamano millefanti».

I cataloghi delle industrie pastarie, dall’Ottocento in poi, at-testano una straordinaria fantasia nell’inventare forme e nomisempre nuovi, per sollecitare l’immaginazione e dar corpo alleminestre.

Granellorum, manfrigoli e millefantila lunga marcia della pasta in miniatura

Fregola Di tradizione

sarda

la minestra

con bombonini

di semola

di grano duro

tostati in forno,

da cucinare

nel brodo

di pecora

profumato

al timo

FrittatineLa ricetta base

è solo con uova

sbattute,

ma infinite

sono le varianti:

dalle crêpes

all’aggiunta

di formaggio

e verdure

Arrotolate

e tagliate

a striscioline

PassatelliÈ la minestra

di pangrattato,

parmigiano,

uova, buccia

di limone e noce

moscata

I vermicelli

ottenuti

passando

l’impasto

nel ferro vanno

cotti nel brodo

PaveseCosì il re

Francesco I

di Francia, fatto

prigioniero

nel 1525,

fu rifocillato:

pane raffermo,

formaggio

e un uovo crudo

Sopra,

un mestolo

di brodo

StracciatellaUova

e parmigiano

amalgamati

con brodo

freddo e versati

nel brodo

bollente,

sbattendo

con la forchetta

In due minuti

di bollore

ecco i fiocchi

MASSIMO MONTANARI

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Repubblica Nazionale

D’AVENZASembra una tela d’artista

la giacca di D’Avenza con stampe

geometriche colorate

le tendenzeModa maschile

Imprevedibili nel casual, gli uomini risultano conservatoriquando si tratta di mettere mano al guardaroba eleganteL’unico modo per sfuggire alla ripetitività è arricchiredi piccoli dettagli l’abbigliamento formale. Lo sanno benegli stilisti che questa settimana inaugurano Pitti Immaginecerti che, con la crisi, il sartoriale avanza sull’usa e getta

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GENNAIO 2010

Gentleman

LAURA ASNAGHI

L’eterna stagione del classico

lo stile di chi la indossa». Questo per-ché i maschi, quando commissionanoi loro abiti su misura, adorano “custo-merizzarli”. Ovvero, dotarli di piccolidettagli che li rendono in qualche mo-do unici e quindi speciali. La confermadi questo “lato debole” dell’uomo infatto di moda viene dai grandi marchiitaliani, da Brioni a Canali, passandoper Corneliani, Incotex, Inghirami,Lardini, Pal Zileri, Kiton, Hugo Boss,Isaia, Paoloni e Luigi Bianchi, specia-lizzati nelle confezioni sartoriali, ingrado di elaborare infinite versioni digiacche, pantaloni, panciotti, gilet, ca-micie, cappotti e smoking.

Il “su misura” si sta rafforzando e aingrossare le fila dei suoi aficionadoscisono molti giovani manager, capaci diportare con disinvoltura giacche di ta-glio sartoriale. La summa maschile diqueste forme di dandismo ha il suotempio, di massimo culto, nella bouti-que milanese di Tom Ford, l’ex stilistadi Gucci, oggi anche regista del film Asingle man, in uscita sugli schermi. Lì,tra marmi preziosi, tappeti di pelliccia,specchi e legni pregiati, trionfanoscarpe cucite a mano, blazer gessati egiacche in velluto di seta, pantofolecon stemmi e ricami, cappotti in ca-chemire per i magnati della finanza esmoking da gran sera.

Nella boutique di Tom Ford come inquelle dei grandi marchi del made inItaly c’è sempre un archivio-clienti,protetto con grande cura. Ogni schedariporta le misure del cliente in modo ta-le che chi, durante la stagione, decidedi farsi fare un nuovo pezzo non devefar altro che ordinarlo, scegliendo iltessuto preferito, senza più passare dalsarto per misurare il giro manica o lalunghezza del pantalone. In tempi dicrisi, il sartoriale avanza e si conquistanuovi spazi, diventando così una alter-nativa alla moda “usa e getta”. E il salo-ne di Pitti Immagine che, a Firenze,apre i battenti la prossima settimana èlo specchio fedele di questo fenomeno,dove il classico sfida lo sportswear.

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Sembrano snobbare la mo-da ma in realtà la conosco-no a fondo, sono molto esi-genti e quando vanno acaccia di un abito fannoscelte oculate e precise. I

maschi amano la moda ma in manieradiversa dalle donne. Guardano condiffidenza ai trend più estremi e le in-novazioni nei loro guardaroba entra-no solo con il contagocce. I maschi, infatto di moda, sono “ossi duri”. E gli sti-listi lo sanno bene. Infatti, per loro, èmolto più facile creare una collezionedonna che rinnovare lo stile maschile.«Ci sono voluti anni — ricorda spessoGiorgio Armani — per far capire a unuomo che può essere elegante e auto-revole con una t-shirt scura, al postodella camicia bianca, sotto la giaccaformale».

Se si esclude l’abbigliamento ca-sual, dove i maschi si concedono mol-ta più fantasia nella scelta di pantalonie maglie per il tempo libero, per tuttoquello che ricade nell’altra parte delguardaroba, ovvero quella riservata aicapi classici, l’impronta è inevitabil-mente più “conservatrice”. Ma, comesottolinea Beppe Modenese, grandeesteta e patron della sfilate made inItaly, «dietro una giacca formale c’èsempre un tocco personale che svela

CANALIC’è tutta

la sapienza

sartoriale

nei completi

di Canali

Tra i “must have”

l’abito gessato,

in prezioso

tessuto

di cachemire

INCOTEXGiovani manager

crescono

e a loro pensa

Incotex

con proposte

formali

ma non troppo:

tessuti dai colori

innovativi

e forme asciutte

CORNELIANILa classica

“divisa” maschile

nella versione

Corneliani

La giacca

ha tre tasche

e gli interni

sono pensati

per cellulare

e mini agenda

ZEGNATessuti high

performance

per gli abiti Zegna

pensati

per gli uomini

che viaggiano

e hanno bisogno

di guardaroba

perfetti per tutte

le occasioni

LARDINIÈ una giacca che fa risaltare

il fisico maschile

quella disegnata da Lardini

LUIGI BIANCHIIl fazzoletto nel taschino è il tocco

dandy della giacca di Luigi Bianchi,

da portare con un pull in cachemire

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 10GENNAIO 2010

BRIONIGiacca, gilet

e pantalone

per il completo

firmato Brioni

La silhouette

è asciutta,

aderente

al corpo,

una linea amata

dai giovani

LAGERFELDPer la sera elegante la giacca

di Lagerfeld da indossare

anche con una camicia sportiva

TAGLIATOREOriginale ed eccentrica. È la giacca

di Tagliatore dedicata ai maschi

che hanno un forte senso estetico

PAOLONIIl cappotto doppiopetto di Paoloni

è uno dei pezzi classici

del guardaroba uomo

KITONFodere di seta rosso

passione per il completo

Kiton, con giacca

e pantalone nei classici

tessuti dai colori neutri

INGHIRAMISono confortevoli

come maglie

le giacche

di Inghirami,

da indossare

con la camicia

bianca. Meglio

se abbinata

a cravatte

dai toni delicati

SEVENTYIl classico

interpretato

dai giovani

Da Seventy l’abito

formale è abbinato

a un caldo giaccone

in nylon studiato

per chi deve

muoversi soprattutto

in moto

Anna Zegna, lei che è il direttoredell’immagine dell’azienda di fa-miglia, fondata cento anni fa, ci

spiega come si fa a “sedurre” un uomo con un bel-l’abito?

«Non è una impresa facile perché i maschi, a differen-za delle donne, non amano le grandi innovazioni. L’a-

bito da uomo è pur sempre una divisa che si può mo-dificare, ma solo a piccole dosi. L’uomo apprezza itessuti preziosi, le lavorazioni sartoriali e i dettagliche mettono in risalto la sua personalità. Ma, in ge-nerale, boccia gli eccessi perché lo imbarazzano e lomettono in difficoltà. E noi teniamo conto di tuttoquesto quando creiamo le collezioni maschili».

A quando risale la prima giacca Zegna?«La data è molto importante, il ‘68, l’anno della conte-

stazione studentesca e dei grandi rivolgimenti sociali.L’azienda che fino ad allora si era occupata della pro-

duzione di tessuti di alta qualità aveva capito che eradi fronte a una svolta epocale. Gli stili di vita cam-biavano, tutto diventava più veloce, più rapido. Lagente non aveva più tempo di andare dal sarto easpettare sei mesi per avere l’abito ben tagliato».

E quindi cos’è successo?«Come si dice, abbiamo “colto l’attimo” studian-

do il modo di avere il “su misura” in una nuova di-mensione industriale, in sintonia con la nuova realtà

dell’uomo. E, nel ‘71, Zegna ha dato il via all’abito sarto-riale, realizzato come sempre con i migliori tessuti al mondo».

Uno dei capisaldi del guardaroba maschile è il power suit, l’a-bito del potere. Ma come deve essere esattamente?

«È l’abito maschile per eccellenza. Deve essere elegante, so-brio, impeccabile. Il power suitè quello che, per esempio, indos-sava l’avvocato Agnelli. Una divisa comune ai grandi uomini del-la finanza e della politica, ai banchieri, agli avvocati. E l’abito delpotere ha dei codici precisi che vanno rispettati. Ma a fare la dif-ferenza, a renderlo speciale, è la personalità di chi lo indossa».

Nella moda maschile non sono ammesse le rivoluzioni masolo «calibrate evoluzioni». Qual è quella più clamorosa degliultimi anni?

«Sicuramente è il friday wear che consente un abbigliamentocasual per il fine settimana. Gli italiani ne sono i migliori inter-preti, perché riescono a essere eleganti anche nel tempo libero,quando indossano un jeans con una bella giacca e una magliabuttata sulle spalle con apparente nonchalance. In realtà è tuttopiù che studiato davanti allo specchio, perché i maschi, anche senon lo dichiarano apertamente, sono dei grandi esteti».

Ma i giovani amano o no l’abito classico?«Lo apprezzano, eccome. Oggi i ragazzi sono più alti di un tem-

po, hanno un fisico asciutto e su di loro i completi classici sonopersino sexy. Ma il bello dei giovani è che sanno portare i capiclassici in modo nuovo. Scelgono le sneakers al posto delle scar-pe stringate e, se il lavoro che fanno lo permette, al posto della ca-micia portano tranquillamente la polo. Questo è il new look del-le generazioni che avanzano. Sono giovani globalizzati, inter-nettiani, con mentalità aperte, capaci però di scegliere l’abitogiusto per le varie occasioni di lavoro. Compreso lo smoking».

(l. a.)

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Anna Zegna. Il power suitpuò anche essere sexy

Repubblica Nazionale

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GENNAIO 2010

l’incontro

con un altro spirito. Io per fortuna nonho aspettato le difficoltà per sentirmipiù libera dalla schiavitù del lusso per-ché, sin da quando facevo la modella,ho dovuto proteggermi. La verità è chesiamo allenati a cercare sempre la per-fezione del paradiso ma, a sorpresa, ilparadiso arriva proprio quando non locerchi più. Bisognerebbe pensare cheogni essere umano perde tutto nel mo-mento esatto in cui si viene al mondo e,quel che capita dopo quell’istante, è unregalo inaspettato».

Ama profondamente il suo mestiereLaetitia Casta. «La vita mi ha donatoquesto lavoro di cui sono pazza. In unprimo tempo ho faticato perché dove-vo capire me stessa e sentire la mia vo-ce interiore: respirare le emozioni sere-namente e senza filtri. Riuscire a lavo-rare su me stessa è stato il primo passoper una vita migliore e, solo a quel pun-to, ho capito che i difetti della mia per-sonalità posso metterli dentro ogni co-sa, anche sul set».

La Casta è stata paragonata alle attri-ci più fascinose del cinema francese.Lei, come tutti, ha i suoi modelli: AnnaMagnani, Nastassja Kinski e Romy Sch-neider. «Mi piacciono queste figure ge-nerose, non troppo cerebrali». Quandoera incinta del secondo bimbo si è vistatogliere improvvisamente una parte.Ora, circa la condizione delle donne, hale idee molto chiare: «Il mondo non èpensato per essere “femminile”, che èuna cosa molto bella e diversa dall’es-sere femminista». Sulla politica france-se, invece, si chiude in un ostinato riser-bo: «Ho le mie idee come tutti ma neparlo in casa, non certo nelle interviste,io faccio un lavoro per far sognare lagente e non credo che il mio pensieropolitico possa aggiungere qualche co-sa. Non amo le donne dello spettacoloche devono per forza mostrarsi intelli-genti».

po stanca, la sola cosa che mi terrorizzaè il voler controllare la morte, una sen-sazione atroce che ho visto in moltepersone e che spero non mi capiti mai».

Il rapporto con il corpo lo vive sere-namente anche grazie allo judo che hasempre praticato, sin da piccolissima.«Mi è servito perché è uno sport che tiaiuta a trovare un rapporto confortevo-le con il tuo fisico, ma non c’è stato nien-te di eccezionale in questa mia scelta»,racconta ridendo, «semplicemente imiei genitori mi hanno portato nellastessa palestra dove andava mio fratel-lo perché per loro era più comodo. Ioero terrorizzata dalla competizione,ogni domenica vedevo la faccia aggres-siva dei genitori e degli altri bambini enon riuscivo a capire come si potesseessere così violenti. La verità è che nonamo la rivalità perché la trovo un istin-to animale, come la gelosia».

È difficile immaginare che una cop-pia come quella di Stefano Accorsi eLaetitia Casta non soffra di qualche ro-vello. E lei chiarisce con candore: «Cer-to, sono gelosa perché è naturale esser-

lo e credo sia uno stronzo chiunque di-chiari di non esserlo affatto. Quandonon c’è senso del possesso, non c’è nep-pure desiderio ma la cosa più impor-tante è il rispetto per la libertà dell’altroe, soprattutto, non fare al proprio com-pagno ciò che non vorresti lui facesse ate». Sembra avere una singolare “graziadi ferro” Laetitia, lei però sostiene di es-sere semplicemente fragile. E rivendicale sue paure: «Le persone ti pensano for-te perché sei famosa, ma la fragilità faparte di me e io mi sono liberata soloquando mia madre mi ha detto che an-che lei è sempre stata una donna insi-cura. Sapere che un genitore ha le tuestesse ansie ti aiuta».

Come attrice, invece, è una studiosa.Di testa più che d’istinto. Con tanta di-sciplina e voglia di migliorarsi. Per in-terpretare la prostituta di Rue des plai-sirs, o la ragazza amica dei lupi in La jeu-ne fille et les loups, ha lavorato intensa-mente. Letto e riletto il copione. «Tuttigli attori studiano», afferma perentoria,«chi racconta che il suo è solo istintomente. Nel nostro mestiere il dono na-turale è necessario ma la disciplina nonpuò mancare e il momento dell’ap-prendimento di un nuovo personaggioè il più bello». Un modo di lavorare cosìfebbrile la stravolge, le entra sotto la pel-le e la costringe a purificarsi ogni sera.«Quando torno a casa dal set faccio treo quattro giri dell’isolato per liberarmidal personaggio che sto interpretando,non è giusto che i miei figli abbiano unamadre diversa per ogni film. Credo chetutti noi attori abbiamo una sorta di sa-na schizofrenia che ci rimbalza conti-nuamente dal set alla vita reale».

Quando ha recitato sul set in compa-gnia di Accorsi è stato così. Anzi, forseancora di più: «Eravamo entrambi unpersonaggio che parlava a un altro per-sonaggio, ma nel quotidiano tornava-mo semplicemente noi stessi». E anchecome mamma Laetitia è tre persone.«Sono una madre diversa per ciascun fi-glio, sempre per la schizofrenia dell’at-trice. La cosa buona è che i figli ti radi-cano alla realtà ed è come se, con cia-scuno, fossi legata da un copione chenon finirà mai. I bambini sono selettivie prendono quello che gli interessa dipiù dai genitori».

Il lusso è sempre stato la cornice del-l’esistenza della Casta. Soprattuttoquello del dorato mondo della moda.Oggi, con la crisi economica che attra-versa ogni settore, le cose sono cambia-te anche nel cinema. Ma non è stato unmale. Anzi. «Ora c’è più attenzione e ri-spetto per il lavoro, si scelgono i provini‘‘

Splendide

Faccio un lavoroper far sognarela gente e non credoche il mio pensieropolitico aggiungaqualche cosa. Non amole donne di spettacoloche devono per forzamostrarsi intelligenti

Bellezza imbronciata, occhi trasparenti,Marianna di Francia. Un inizioda modella, un passaggio in Italiadove ha trovato l’uomo della sua vitache non ha sposato perché, racconta,

“Io e Stefano ci sposiamoogni mattina”E finalmente attrice,il sogno di una vitaE i figli, per i quali,dice, “faccio treo quattro giri dell’isolatoprima di tornare a casa

per liberarmi del personaggioche sto interpretando”

PARIGI

Èil ritratto della bellezza fran-cese, Laetitia Casta. Pelle diporcellana, broncio anchequando sorride e occhi blu

trasparenti. In più quella luce, unica especiale, di una mamma che ha appenaavuto un bambino. Sarà per questo chela Francia la ama. E sempre per questoche, quando entra in un piccolo cafépa-rigino, nella sala scende il silenzio. Leipiù che camminare sembra sfiorare ilpavimento. I capelli lunghi ondeggia-no, le gambe magre nei pantaloni ade-renti e, ai piedi, le classiche ballerinenazionali. Semplice ma anche raffina-ta. In una parola “francese”. Ma, appe-na si muove tra i tavolini, si scopre la ve-ra Laetitia. Determinata cerca il suo an-golo preferito, ordina una tisana e spe-gne il telefono. Sembra brusca ma è so-prattutto una donna pratica. Niente ca-pricci da star o vezzi inutili. Non amaperdere tempo ed è consapevole di es-sere lontana dalla normalità. Del restoTime l’ha menzionata come una tra ledieci persone più influenti del mondo.Ha posato per più di cento copertine equalche tempo fa il governo francesel’ha scelta come modella per il bustodella Marianne, simbolo della Repub-blica, e messo la sua faccia imbronciatasulle monete del Paese.

«Non ho mai voluto essere consueta,altrimenti avrei fatto altre scelte, men-tre sin da piccola ho sentito che avreivissuto in modo eccezionale». Sanguemisto, tra Normandia e Corsica, Laeti-tia Marie Laura Casta è però anche ita-liana. Il bisnonno materno è toscano diMaresca. «Io mi sento tantissimo italia-na, nel mio modo di essere e di rappor-tarmi con le persone, è come se quelsangue mi esplodesse nella mentalità enel carattere». Sarà per questo che, nel-

l’amore, ha deciso di fermarsi proprioaccanto a un uomo italiano. L’attoreStefano Accorsi. Non si sono ancorasposati perché lei, più volte, ha dichia-rato: «Con Stefano ci sposiamo ognimattina». Hanno fatto molto di più: duefigli e messo su una casa, piena di luce edi gioia, nel cuore di Parigi.

La vita professionale di Laetitia co-mincia quasi per caso. Giovanissimavince un concorso di bellezza, è adoc-chiata da un talent scout per modelle edè subito un luna park. Non più la vita dastudentessa ma copertine di giornali e ilprimo ciak sul set di Asterix e Obelix con-tro Cesare. In più la partecipazione, inun italiano stentato, al Festival di San-remo al fianco di Fabio Fazio. Lei, però,non si stupisce: «È quello che volevo.Ogni mio momento è fatto d’incontri, dicose memorabili e soprattutto mi sentocentrata». Un termine analitico che ladice lunga sul suo percorso: «Ho fattopsicoterapia e non ho problemi ad am-metterlo, credo mi sia stato molto utileper conoscere me stessa e mi aiuta, ognigiorno, a creare una comunicazione di-retta con quelli che hanno fatto lo stes-so lavoro». Dopo il primo film ne sonoarrivati molti altri e anche il teatro. «Perun attore è indispensabile alternare ilcinema al palcoscenico. Nel set c’è unasorta di jet lag perché quando esce il filmnelle sale tu stai già lavorando su unanuova storia, il teatro è più generoso enel contempo più intenso e rischioso».

Ma, tra una commedia e unatournée, non ha mai trascurato la vitaprivata. Anzi. Giovanissima ha avuto ilprimo figlio con il fotografo franceseStéphane Sednaoui, poi il fidanzamen-to con Accorsi e altri due bambini. «Cre-do di essere arrivata al mondo con unpiccolo tra le braccia, non avrebbe po-tuto essere diverso, ma non è una ne-cessità per tutte le donne. Conoscoamiche molto interessanti senza esseremadri e non è sufficiente avere un figlioper essere realizzata». Un raro raggio disole parigino le illumina il viso. Losguardo appare più blu. Laetitia sem-bra non farci troppo caso e, soprattutto,non preoccuparsi di quando un giornoarriveranno le rughe. «Per me la giovi-nezza è quella degli occhi e non mi fapaura la vecchiaia. Cerco qualcosa divero perché ho capito che la vita ti offrealcune cose e poi se le riprende ma, incambio, ti dona qualcosa di nuovo. Pri-ma c’è la bellezza, poi l’emozione e infi-ne la vecchiaia per godersi la tranquil-lità». Della vecchiaia non la impensieri-sce neppure la morte: «La vedo comeuna liberazione per quando sarò trop-

‘‘

IRENE MARIA SCALISE

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Laetitia Casta

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Repubblica Nazionale