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cucine del territorio

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“cucine del territorio”

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Graziano Pozzetto

Le cucine di RomagnaPrefazione di Tonino Guerra

Consulenza storica di Piero Meldini

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Le cucine di Romagnadi Graziano Pozzetto

Tutti i diritti sono riservati

Giugno 2013

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Indice

Prefazione di Tonino Guerra XVII

Un montanaro XVII

La Romagna XVIII

I romagnoli XVIII

Il dialetto XIX

L’identità XIX

Osservazioni ai romagnoli XX

Quella riga lunga e blu – Il mare di Tonino Guerra XXI

Dediche dell’autore XXIII

Introduzione 1

Storia e letteratura 5

Nota storica sulla cucina romagnola del prof. Piero Meldini 5

Nota bibliografica 13

Saggio storico-letterario del prof. Alberto Capatti 14

La scoperta e l’invenzione della Romagna 14

L’Artusi 18

Dopo il 1911 23

Cucina romagnola, cucina nazionale 25

Ricordanze e memorie di cibo 27

I mangiari della memoria del poeta Tonino Guerra 27

Le minestre della mamma di Tonino Guerra 29

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VI le cucine di romagna

Le ricordanze di Tino Babini: viaggio nella memoria della gastronomia di Russi 36

Il viaggio a casa di Giulio Ricci detto Juli 36

Lunedì 37

La sera del lunedì 39

Martedì 39

La sera del martedì 41

Mercoledì 41

La sera di mercoledì 43

Giovedì 44

Venerdì 44

La cena di venerdì 45

Sabato 45

La sera del sabato 47

Domenica 47

La sera della domenica 48

Riflessioni finali 48

La grande tradizione dei brodetti di mare nelle marinerie romagnole 49

Brodetti della costa romagnola 52

Escursus storico dei brodetti romagnoli 53

La cucina marinara (secondo lo storico Piero Meldini) 57

Riflessioni sul brodetto di Piero Meldini 59

Altre brevi riflessioni di Michele Marziani e Piero Meldini 60

Il contributo di Gino Pilandri 61

Il contributo di Alfio Troncossi 66

La testimonianza di Leo Maltoni sulla grande tradizione dei brodetti di Cesenatico 72

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indice VII

E’ brudett (il brodetto) di Giuseppe Valentini 74

Le specialità romagnole nella testimonianza della Guida Gastronomica del TCI anno 1931 83

Provincia di Forlì 85

Provincia di Ravenna 88

Riflessione finale del sottoscritto 90

Le minestre tradizionali e povere 91

Le minestre con le rane 110

Miti e passioncelle gastronomiche dei vecchi romagnoli 113

Il buon brodo della domenica 113

I paganelli (ghiozzi) 115

Gli “uomini nudi” 118

I gamberi di fiume e d’acqua dolce 120

Il grasso suino 129

L’asparagina selvatica e l’asparago dei boschi 130

Stridoli o strigoli 133

I rosolacci 136

Il raperonzolo 137

La vitalba 138

Le uova sode delle osterie 139

I lupini 139

La “forma” 141

Il Trebbiano della fiamma 145

Una grande storia romagnola 151

Gli oli eccellenti di “Brisighella” D.O.P. (denominazione di origine protetta) 151

Schede degli oli di Brisighella 154

“Brisighella” D.O.P. biologico 154

“Brisighella” D.O.P. 155

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VIII le cucine di romagna

Brisighella D.O.P. “Brisighello” 156

“Nobildrupa” 157

“Orfanello” 158

“Pieve-Tho” 159

La grande cucina con gli oli di “Brisighella” D.O.P. 159

1980 161

1981 162

Ezio Santin, Chef titolare della “Antica Osteria del Ponte” di Cassinetta di Lugagnano (MI) 162

Antonio Casadio dell’Hotel “La Meridiana” di Brisighella (RA) 162

1982 163

Silvana e Franco Colombani della “Locanda del Sole del 1464” in Maleo (Mi) 163

Tarcisio Raccagni del Ristorante “Gigiolé” in Brisighella (Ra) 164

1983 164

Dino Boscarato della “Trattoria dall’Amelia” in Mestre (Ve) 164

Gino Baruzzi del Ristorante “Tre Colli” in Brisighella (Ra) 165

1984 165

G. F. Bolognesi del Ristorante “La Frasca” in Castrocaro Terme (Fc) 165

Guerriero del Ristorante “Trattoria Bolognese” in Brisighella (Ra) 166

1987 167

Paolo Teverini del Ristorante “Paolo Teverini” in Bagno di Romagna (FC) 167

Antonio Casadio dell’Osteria con uso cucina “La Grotta” in Brisighella (Ra) 167

1988 168

Igles Corelli del Ristorante “Il Trigabolo” in Argenta (Fe) 168

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indice IX

Vincenzo Camerucci dell’Osteria “La Grotta” in Brisighella (Ra) 169

1989 169

Gino Angelini del Ristorante “Le Colonne” Grande Hotel Des Bains in Riccione (RN) 169

Tarcisio Raccagni del Ristorante “Gigiolé” in Brisighella (Ra) 170

1990 171

Marina Garramone della “Locanda della Colonna” Tossignano (BO) 171

Gualtero Marchesi del Ristorante di Via Bonvesin de la Riva, 9 Milano 172

1991 173

“Da Guido” Ristorante, Piazza Re Umberto I – Costigliole d’Asti – Asti 173

Valentino Marcattilii del Ristorante “San Domenico”, Imola (Bo) 174

1992 174

Stefano Bartolini della Trattoria “La Buca”, Cesenatico (Fo) 174

Annie Feolde dell’“Enoteca Pinchiorri”, Firenze 175

1993 176

Alfonso Iaccarino del Ristorante “Don Alfonso 1890”, Sant’Agata sui due Golfi (Na) 176

Angelo Lancellotti del Ristorante “Lancellotti”, Soliera (Mo) 177

1994 178

Francesco Ricatti del Ristorante “Bacco”, Barletta (Ba) 178

Ristorante “Fini”, Modena (Mo) 178

1995 179

Massimo Ferrari del Ristorante “Al Bersagliere”, Goito (Mn) 179

Pier Luigi Raccagni dell’Osteria “La Grotta”, Brisighella (Ra) 181

1996 181

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X le cucine di romagna

Giuseppina Beglia del Ristorante “Balzi Rossi”, Ventimiglia (Im) 181

Gianfranco Bolognesi del Ristorante “La Frasca”, Castrocaro Terme (FC) 182

1997 183

Tarcisio Raccagni dell’Albergo-Ristorante “Gigiolé”, Brisighella (Ra) 183

Piatto medioevale, per circa 4 persone. Ricetta tratta dal testo Le Viandier di Guillaume Tirel detto Taillevent (1312-1395) 183

1998 183

Tarcisio Raccagni dell’Albergo Ristorante Gigiolé, Brisighella (Ra) 183

Piatto medioevale, per circa 4 persone. Ricetta di Anonimo Toscano tratta da Arte della Cucina di E. Faccioli, ed. il Polifilo 184

1999 184

Tarcisio Raccagni dell’Albergo-Ristorante “Gigiolé”, Brisighella (RA) 184

Ricetta medioevale di Anonimo Toscano tratta da Arte della Cucina di E. Faccioli, ed. Il Polifilo 185

Rielaborazione di Tarcisio Raccagni 185

2000 185

Tarcisio Raccagni dell’Albergo-Ristorante “Gigiolé”, Brisighella (RA) 185

Ricetta medioevale tratta dal frammento di un libro di cucina del XIV secolo, citata da O. Guerrini (Stecchetti) in un suo scritto 186

2001 186

Tarcisio Raccagni dell’Albergo Ristorante “Gigiolè”, Brisighella (RA) 186

Ricetta medioevale tratta dal frammento di un libro di cucina del XIV secolo, citata da O. Guerrini (Stecchetti) in un suo scritto 187

2002 187

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indice XI

Tarcisio Raccagni dell’Albergo Ristorante “Gigiolè”, Brisighella (RA) 187

Ricetta medioevale dal Liber de Coquina di anonimo trecentesco della Corte Angioina. 188

2003 188

Tarcisio Raccagni dell’Albergo Ristorante “Gigiolè”, Brisighella (RA) 188

Ricetta medioevale da Il libro della Cocina di anonimo toscano del ’300. 189

2004 189

Tarcisio Raccagni dell’Albergo Ristorante “Gigiolè”, Brisighella (RA) 189

Ricetta medioevale di Tarcisio Raccagni 190

2005 190

Tarcisio Raccagni dell’Albergo Ristorante “Gigiolè”, Brisighella (RA) 190

Ricetta medioevale di Tarcisio Raccagni 191

2006 191

Mattia Valzania della Cantina del “Buonsignore”, Brisighella (RA) 191

2007 191

Andrea Berardi dell’Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione “Pellegrino Artusi”, Riolo Terme (RA) 191

2008 193

Cugino Nicola Pio dell’Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione “Pellegrino Artusi”, Riolo Terme (RA) 193

2009 194

Dall’Omo Riccardo dell’Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione “Pellegrino Artusi”, Riolo Terme (RA) 194

2010 195

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XII le cucine di romagna

Ancarani Sabrina dell’Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione “Pellegrino Artusi”, Riolo Terme (RA) 195

2011 196

Angelo Randi e Mirko Conti del ristorante “La Grotta”, Brisighella (RA) 196

Le grandi eccellenze di Romagna: storie artigianali di cibo 199

Premessa 199

Un grande artigiano della carne: Domenico Celli di Novafeltria (RN) 200

Lombetto colonnato 203

Mandolino del Montefeltro 203

I salumi conservati nelle cera d’api 205

Il salame conservato nella cenere 205

Zampone del Montefeltro 206

Il Cuore di Prosciutto 206

Fiocco di Prosciutto 206

Le Golette 206

Pancette 206

Altri salami 206

Altra norcineria 207

Il bue del Montefeltro 207

I formaggi selezionati, affinati e infossati di Anna e Renato Brancaleoni di Roncofreddo (FC) 208

Premessa 208

Conclusioni 212

Le eccellenze casearie dei Brancaleoni: 5 formaggi erborinati, il cerato, il merlino, alle foglie di noce, al fieno, alla cenere 216

I formaggi erborinati 216

Blu del Montefeltro 217

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indice XIII

Blu di San Giovanni 217

Blu Firenze 218

Blu notte 218

Blu di capra 218

Formaggio cerato 219

Merlino 219

Il formaggio alle foglie di noce 220

Il formaggio al fieno 220

Il formaggio nero o alla cenere 221

I formaggi caprini de “Il Pastorello” di Ciola Araldi di Roncofreddo (FC) 221

Domenico Ghetti di Marzeno di Brisighella (RA), salvatore e divulgatore dei frutti dimenticati delle Romagne 227

Pesche 228

Mele 229

Pere 229

Albicocche 230

Susine 230

Ciliegie 230

Uve 230

Cachi 231

Sorbe 231

Nespole 231

Azzeruolo 232

Corniola 232

Giuggiola 232

Melagrane 232

Cocomero 232

La frutta secca 232

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XIV le cucine di romagna

Conclusioni 233

Il miele 235

La grande tradizione del miele in Romagna 235

I grandi maestri storici dell’apicoltura romagnola 238

L’apicoltura razionale in Romagna: i fratelli Silvio e Pietro Gardini 240

La Famiglia Rondinini di Pieve Cesato 242

Tiziano Rondinini 246

Da Albino a Cesare Brusi, una storia che continua 247

Classificazione, tipologie e caratteristiche dei mieli romagnoli 251

Le caratteristiche dei principali mieli di Romagna 252

Il miele in cucina 256

Introduzione 256

Conservazione 257

Gli abbinamenti gastronomici del miele 257

Il miele in cucina nei secoli 258

Il miele nella Ristorazione professionale e nella cucina italiana 259

Altre istruzioni per l’uso 261

Le ricette al miele dell’antica cucina della Valmarecchia e del Montefeltro 264

Antipasti 265

Minestre 266

Secondi 268

Dolci 270

Le ricette al miele della cucina medioevale dello chef Tarcisio Raccagni (“Gigiolè”) di Brisighella 271

Le ricette degli studiosi ricercatori riminesi coordinati da Antonella Chiadini 274

Ricette romagnole al miele 285

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indice XV

Ricette al miele dei grandi chef professionali romagnoli 291

Le ricette di Igles Corelli 293

Ricette al miele varie 312

Il miele nella tradizione romagnola secondo Maurizio Matteini Palmerini 317

Miele e bellezza 339

Bibliografia sul miele 340

I vini di Romagna 345

Zone vitivinicole 348

Areale di Castel San Pietro, Toscanella, Dozza e Imola 350

Areale Castel Bolognese-Serra-Riolo Terme 350

Areale Faenza Tebano 350

Areale Brisighella e Fognano 350

Areale Marzeno-Modigliana-Sarna 351

Areale Oriolo dei Fichi-Petrignone-Castrocaro-Vecchiazzano 351

Areale Predappio-Meldola 351

Areale Colinello-Bertinoro-Fratta 351

Areale Cesena-Mondaino-Longiano Borghi-Santarcangelo 351

Areale Covignano-Rimini-Verucchio-Coriano 352

Areale San Clemente-Morciano-San Giovanni in Marignano 352

I vini di Romagna 352

I vitigni autoctoni 357

Le D.O.C in Romagna 358

Romagna Albana D.O.C.G. 358

Romagna D.O.C. 358

Colli d’Imola D.O.C. 361

Colli di Faenza D.O.C. 361

Colli Romagna centrale D.O.C. 362

Colli di Rimini D.O.C. 363

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XVI le cucine di romagna

Bosco Eliceo D.O.C. 364

Vini I.G.T. 364

Postfazione: La settima Romagna 367

Bibliografia 373

Premessa 373

Ringraziamenti 395

Indice dei nomi citati 397

Indice dei ristoranti citati 405

Indice analitico delle ricette 407

Indice alfabetico delle ricette 415

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Prefazione di Tonino Guerra

Dedico queste storie ai contadini, che non hanno abbandonato la terra, per riempire i nostri occhi di fiori a primavera.

Un montanaro*

Un montanaro quando si è accortoche stava per morireha cominciato a salutare la sua roba.Agli alberi da legnache erano sotto la montagnagli ha detto che dovevano perdonarese gli aveva rotto le braccia per venderle ai fornai.Agli alberi da frutto ha cominciato ad accarezzarele pere, le mele e le susineche erano cariche di sole.A tutte le foglie dell’orto: l’insalatala cipolla e i cavoli,gli ha dato un’occhiata lunga.Poi, prima di mettersi a lettoche si sentiva molto stanco, è arrivato a salutare un filo d’acqua,buona da bere, che sgocciolava da una rocciacome fosse un respiro bagnatoe le ha detto: “Acqua che vai giùfino a marina saluta il mareche ho visto una volta soltantoe mi ha fatto grande impressioneperché da quassù è soltantouna riga lunga e blu”.

* Traduzione in italiano di una poesia, da Piove sul diluvio, a cura di Ennio Gras-si, Pietroneno Capitani Editore, Rimini, 1997.

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XVIII le cucine di romagna

La Romagna

La Romagna non è altro che una parte della regione Emilia e questa regione è tra le più importanti d’Italia con le sue grandi città ed è piena di industrie, di attività, di intelligenze.La Romagna ha un suo carattere particolare. La Romagna ha avuto una grande generosità e ha sempre avuto un occhio felice e bello per gli altri, ha saputo difendere gli altri, fare qualche cosa per gli altri.La Romagna non è una cosa unica: c’è la Romagna bagnata dal mare e c’è la Romagna a maggio fiorita, stupenda, attorno a Cesena e quindi le colline…E ha quelle montagne grandi che da lontano diventano trasparenti.Respiri un’aria ancora molto salubre e da lassù puoi vedere il mare che è una riga lunga e blu.Quindi la Romagna è un posto dove ti senti bene.L’ha descritta bene anche Carlo Levi nel finale del suo libro sul Sud dell’Italia, Cristo si è fermato a Eboli.La Romagna è una terra lavorata dai contadini, è una terra che se la vedi dall’alto è piena di rettangoli, di zone fiorite, è piena della mano dell’uomo. Non c’è paesaggio che non senta l’influenza dell’uomo: questa è la Romagna!

I romagnoli

Il romagnolo mi piace perché, essendo molto sentimentale, lui non lo vuole dimostrare, e questo lo fa in modo inverso. Ecco, una cosa che mi piace moltissimo è quando incontri un amico dopo dieci anni e ti arriva addosso una battuta veramente romagnola, commovente: “Ma come, sei ancora vivo?”. Questo può far piangere un romagnolo.Poi ha questi bagliori di vanità grossa, abbiamo questa mania di van-tarci di tante cose. Sì, questa quantità di cose il romagnolo ce le ha ma sono parole, poi nella sostanza ha una sua tenerezza.Per esempio, se i turisti vengono in Romagna, non vengono certo per le spiagge indimenticabili romagnole, vengono qui perché c’è un’at-

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prefazione XIX

mosfera familiare giusta, perché il romagnolo ti dice buon giorno anche se ti vede di traverso. E questo è molto bello!Parlo spesso di qualità del romagnolo ma anche dei difetti e dico: il romagnolo legge poco, non ha gusto, anche le donne, anzi soprat-tutto le donne. Invece devono capire che il viso si può abbellire se tu ti nutri di più, con la poesia, la lettura, gli occhi diventano più profondi, questo è il vero maquillage che le donne dovrebbero fare.

Il dialetto

I romagnoli hanno sempre parlato in dialetto.C’è un sudore dentro le parole in dialetto, c’è una potenza.Perdendo il dialetto è venuto meno un grande strumento all’umanità e succederà ancora peggio quando tutti parleranno inglese e l’italiano sarà un dialetto.

L’identità

La cosa che è più vicina a noi e non ci conosciamo.Il mio problema non è tanto di conoscere ma di riconoscere e non è una questione di memoria. Non riconosco più l’uomo: è diventato un meccanico senza le caratteristiche di una volta. Un tempo le per-sone avevano addosso dei continenti, quello era inglese, quest’altro tedesco, quella mia moglie, questa la donna di servizio. Quello era contadino con un mondo di magia dentro.Vivevamo addosso ad altri. Adesso siamo delle piantine senza radici in un terreno deserto.

[La voce di Tonino Guerra è tratta dal video “Via Emilia. Due o tre cose che so di lei – Tonino Guerra e la Romagna”. A cura di Francesco

Conversano e Nenè Grignaffini. Produzione Movie Movie. Regione Emilia-Romagna, Provincia di Bologna,

Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, Rai Educational.]

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XX le cucine di romagna

Osservazioni ai romagnoli

Da spettatore un po’ distaccato e dopo tanti viaggi per il mondo, trovo che la nostra cucina di oggi si è arroccata attorno a pochi piatti, che spesso vengono serviti in modo sbrigativo e senza rito.I locali e in genere i luoghi dell’ospitalità rispecchiano sovente la testarda cocciutaggine dei romagnoli, efficienti finché si vuole, ma senza cultura.Ci si siede, con i piedi sotto la stessa tavola, avendo davanti agli oc-chi magari delle pareti lucide e plastificate, ma nient’altro che aiuti a calarti in un’atmosfera di felice intimità.Come sarebbe bello se i proprietari dei ristoranti viaggiassero per capire che il loro mestiere è un’arte che va continuamente approfon-dita.La cucina romagnola che troviamo in giro non ha i “secondi” (o ne ha pochissimi) di radice tradizionale.Quasi quasi consiglierei di mangiare, uno dopo l’altro, alcuni primi piatti nella speranza di trovarvi, sotto gli occhi, una scodella di pasta e fagioli e qualcuno dei piatti prediletti di una vita.Ho voluto parlare di cattive abitudini perché il nostro cuore, ma anche quello di altri romagnoli, merita di meglio.Ci sono cose che gridano vendetta alla memoria e alla cultura dei nostri padri.Qualche valle romagnola è ancora una terra felice, ove tanti ottan-tenni e anche novantenni sono nati, qui hanno goduto – pur con qualche parentesi legata alla Grande guerra – della casa, del paese natale, del territorio, dei mangiari e dei prodotti della terra roma-gnola; qui con emozione ripetuta ogni volta – dopo tanta acqua e aceto – hanno bevuto Sangiovese dal profumo di viola.Essersi nutriti per decenni, dall’infanzia alla vecchiaia, di pochi piat-ti, materni, sempre riconoscibili, stagione dopo stagione, ha consen-tito a tanti di loro di arrivare agli ottanta e novanta anni e oltre.Più invecchio e più vado cercando – in piccola quantità, per carità – i cibi e i mangiari poveri di una volta, quando la fame era più fame e col pane si mangiava anche la fantasia.

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prefazione XXI

Devo ricordare che mio padre e mio fratello più grande erano cultori del mangiare e io li seguivo a una certa distanza, ero meno coinvolto dal cibo, tuttavia la natura e la buona fattura di certi piatti preparati dalla mamma riuscivano a catturarmi più di oggi, ricordandoli e tal-volta ritrovandoli, che un tempo.

Quella riga lunga e blu – Il mare di Tonino Guerra

[Dal discorso tenuto da Tonino Guerra in occasione del suo ottanta-duesimo compleanno, nel Teatro Vittoria di Pennabilli, il 16 marzo

2002.]

Bisogna rispettare il misteroquando si ha la fortuna d’incontrarlo

Ho sempre voglia di andar lontano, ovunque ci sia un profilo di fa-vola, un sapore di magia, la dimensione della immensità.Oggi è bello un viaggio in Russia. Un Paese straordinario che ti rega-la una incredibile vastità agli occhi e all’anima.Quella che un tempo poteva dare, a noi qui, solo l’incontro col mare, quand’io e gli amici Tito Balestra e Federico Moroni andavamo in bicicletta fino alla riva dell’Adriatico.In questi anni abbiamo avuto il difetto di togliere l’orizzonte, di can-cellare l’infinito dei nostri occhi: non è solo che abbiamo perso un momento di bellezza, è qualcosa di più, qualcosa forse che non si comprende neppure fino in fondo. È probabile infatti che ci siano nella memoria ancora i segni del no-stro passato primitivo, e l’incontro col mare è qualcosa di misterioso, una esperienza ancestrale. Così per noi, quando da bambini, su carri da bestiame partivamo da Santarcangelo e, arrivati a Igea, alla vista del mare gridavamo emo-zionati: “E’ mèr!”, Mentre ci arrivava addosso questo respiro, che si andava a raccogliere la giù in fondo, scalzi, camminando sulle grandi foglie verdi d’insalata degli ortolani, che per noi si piegavano dolce-mente. E si giungeva vicino all’acqua con un po’ di paura, come se

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dovesse attenderci qualcosa che fa male, o arrivasse qualcuno a por-tarci via, da un altro mondo… perché di là non si sa cosa c’è.Poteva capire meglio le avventure di Ulisse il ragazzo di allora, quan-do vedeva la grandiosità del mare che non riusciva a contenere negli occhi, e che lo invitava a scoprire il mistero di quello che c’era al di là, dove si poteva intuire una maestosità così potente da far pensare a entità diverse, che stanno oltre la natura, all’origine del mondo. Era il nostro percorso, la nostra esperienza mistica.Adesso, oltre il cemento, ci sono solo frammenti di quella immensità così necessaria per costruire favole.

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Dediche dell’autore

Con intensa gratitudine a mio padre Pietro, contadino e bovaro tutta la vita, uomo mite, laborioso, di poche parole. Mandandomi a scuo-la, in tempi peraltro difficili, con i tanti libri, quotidiani e riviste, di parole me ne ha fatte incontrare tante. E, senza prediche e coercizio-ne alcuna, mi ha insegnato da che parte stare nella vita.

Ricordo, assieme ad Elisabetta Fagiuoli, con affetto e riconoscenza, Sergio Muratori di Montenidoli: sì Monte dei nidi, a qualche chilo-metro da San Gimignano.Gli sono grato perché, prima di tutti, ma poco prima anche dell’A-mico e Maestro Gino Veronelli, mi invitò a indagare e scrivere di cultura e antropologia gastronomica della mia terra, intuendo forse in me una certa vocazione e spirito anarchico.Sergio è stato poeta tutta la vita, partigiano durante la Liberazione, guida di montagna nel dopoguerra, maestro per anni di ragazzi con problemi, in una parola patriarca biblico in terra.A Montenidoli, appena sotto il grande bosco, con in basso il laghet-to ove non sono mai mancate le rane (quale segno di purezza am-bientale), con Elisabetta è stato protagonista della rinascita di antichi campi, dedicati alla vite e agli ulivi (erano sepolti dai rovi), creando superbi ed identitari vini e oli d’oliva di San Gimignano, legati a una terra classica e rinascimentale, portandoli in giro per il mondo ai tanti gastronomi innamorati della Toscana senese, che lui ha rap-presentato con sapienzialità, lievità dell’anima, eleganza e coerenza, nonostante i forti e civilissimi sentimenti.

Ricordo con affetto e riconoscenza Tino Babini, di Russi, uno dei padri della cultura popolare romagnola, altresì memoria storica del suo territorio, a metà strada tra Ravenna e Faenza.Lo ricordo con le parole di Claudia Liverani, quale uomo generoso, di grande impegno sociale e civile, attento studioso delle tradizioni: da quella musicale orale, con le cante popolari, sacre e non; al dia-letto con i proverbi, le filastrocche, gli indovinelli, i modi di dire, le

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evocazioni; alla cultura gastronomica familiare e territoriale, con pa-gine di buona letteratura, come quelle riportate nel capitolo dedicato alle ricordanze e memorie di cibo, che avevo prescelte prima della sua scomparsa.Lo nutrì una straordinaria passione e cultura per le campane, delle quali fu collezionista ed esperto cultore, altresì virtuoso campanaro, organizzatore di concerti molto partecipati, sia per fini sacri che pro-fani, festosi, come in occasione della Fiera russiana.Fu fondatore e sostenitore generoso, a partire dall’immediato dopo-guerra, di organismi culturali, sociali, sindacali, civili, per la crescita della sua gente e della Civis.Aderì giovanissimo all’Idea Socialista, cui restò fedele in assoluta onestà, disinteresse, coerenza, tutta la vita: tra i fondatori storici della Camera del Lavoro, organizzatore del collettivo dei braccianti agricoli, consulente sindacale, e in seguito Consigliere e Assessore comunale. Fu cittadino a 360 gradi, tollerante e sempre impegnato a persuadere più che a imporre, più attento a proporre che a criticare, con estremo rigore e competenza, con una partecipazione personale fattiva e concreta verso i più deboli, nelle loro gioie e nei loro dolori.Ai tanti che l’hanno stimato e che hanno usufruito della sua instan-cabile operosità, lo ricordo assieme al figlio Stefano (che ne continua l’attività professionale di Consulente del lavoro e Commercialista).Proprio gli amici di Tino sono grati a Stefano per l’enorme impegno che ha profuso a favore del padre, rendendogli lievi, proficui (sovente aperti agli incontri con la sua gente), sereni gli ultimi e lunghi anni di vita.Sul piano strettamente personale, Tino (come Tonino Guerra) ha rappresentato uno dei grandi regali della mia vita, quale prezioso punto di riferimento culturale. Con Tino ho vissuto tanti orgogliosi momenti di condivisione, per la sua autorevolezza e per la sapienzia-lità, che lo hanno caratterizzato.Per la mia lunga attività di ricercatore e codificatore di cultura gastro-nomica ed antropologica delle Romagne, Tino ha rappresentato una discriminante avversa a tante sciatterie, omologazioni, banalizzazio-ni, mistificazioni, che ancora oggi riescono così facilmente a sedurre tanta gente e gran parte di una imperante nomenclatura, che poco ama e apprezza la cultura del suo territorio.

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Introduzione

Dopo una decina d’anni (sono già tanti!), riedito con Franco Muzzio, nella sua rinverdita collana, dedicata alle cucine del territorio, con un certo orgoglio, in quanto la reputo ancora la più bella, un’isola felice in un mare di editoria, sovente mediocre e superficiale, inoffensiva e neutrale o addirittura menefreghista o complice nei confronti delle omologazioni in genere.Riedito, dunque, ampiamente rinnovato il volume dedicato alle Cucine e Prodotti delle Romagne, rigorosamente al plurale. Questa edizione resta comunque identitaria, ma è diversamente caratterizza-ta in quanto impostata secondo criteri meno enciclopedici, ma più selettivi e di approfondimento di certi temi centrali, in parte inedi-ti, maggiormente rappresentativi (anche dell�odierna) della migliore cultura gastronomica e antropologica della mia terra.Si tratta di tessere eccellenti e “dorate” di un Mosaico identitario, legato alla memoria e alla saggezza contadina, altresì artigianale (dei giorni nostri, legata comunque alla migliore tradizione), della Ro-magna.Un patrimonio sempre più vittima di omologazioni devastanti, inef-fabili: avverto come insultanti le celebrazioni autoreferenziali di una certa nomenclatura; le mistificazioni culturali praticate da disinvolti colleghi; gli sciagurati ed invasivi disciplinari che dovrebbero tutelare certi prodotti cosiddetti tipici, che continuano ad imperversare ed a distruggere un’identità che appartiene a tutti i romagnoli; un merca-to globale che viene rincorso con le cose peggiori, legittime per carità ma peggiori, in relazione alla migliore tradizione e alla cultura di questa terra, strumentalizzando e svilendo ai soli fini di marketing e di un preteso business (che spesso si realizza alla grande) una cultura identitaria comune, che non può diventare merce corrente, priva o carente della nostra cultura.Se tutte le strade sono legittime e percorribili sul piano commerciale e mercantile, chiamiamo ogni cosa con il suo nome. Le autentiche ed eccellenti tipicità, unicità culturali e produttive di questa terra sono poche e quando sono vere, coerenti e ben tutelate, suscitano

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orgogliosa condivisione. Per le altre non resta che l’imbarazzo della vergogna. L’ultima in ordine di tempo è l’IGP concessa alla piadina nella versione precotta e confezionata, industrialmente, a mio parere clamorosomamente priva di tipicità e legami con la migliore tradi-zione, anche se protagonista di un grande business.L’esercito degli “omologatori” aumenta anno dopo anno, sul carro dei “vincitori” continuano a salire in tanti: produttori, industriali, nomenclatura, associazioni, lobbies, consorzi, funzionari incompe-tenti, pubblicisti di sostegno… È una questione di autorevolezza e di credibilità, per cui ogni volta che firmo un lavoro di codifica-zione culturale ed antropologica, ne rivendico il rigore dell’indagine culturale, storica e letteraria, la fedeltà alle fonti e ai documenti, la coerenza con la migliore tradizione. Allo scopo mi affido alla consu-lenza e ai contributi scientifici dei pochi e più autorevoli studiosi, e verifico maniacalmente l’autenticità dei racconti e delle testimonian-ze di cibo, il valore esemplare delle storie artigianali che onorano la Romagna.In questi dieci anni ho concluso, o quasi, il lavoro di ricerca e di codi-ficazione editoriale, raggiungendo le due dozzine di volumi, equiva-lenti ad oltre 10000 pagine, complessivamente divenute letteratura gastronomica di questa terra.Nel contempo ho proseguito l’enorme e gratuito (o quasi) lavoro di carattere divulgativo, attraverso la costante media di una cinquantina di incontri annuali (privilegiando negli ultimi anni Corsi organici sulla Romagna) condivisi con migliaia e migliaia di cittadini-consu-matori-lettori-appassionati della Romagna.Dopo circa quarant’anni di attività il mio archivio personale conta, tra l’altro, oltre 2300 incontri culturali e divulgativi. Mai di marke-ting per carità (che pure reputo importante se proposto come tale), in quanto mi occupo di cultura e non occupandomi di marketing, sia privato che para pubblico, mi sono economicamente impoveri-to. Non mi sento né un incompreso né una vittima, in quanto in cambio ho realizzato il grande progetto della mia vita. Mi hanno ripagato non solo la felicità di ogni giorno, i riconoscimenti perse-guiti a livello locale e nazionale, la condivisione di tanti romagnoli, di amici, colleghi studiosi italiani tra i più prestigiosi, ai quali sono stati regolarmente inviati, di volta in volta, i volumi appena editati.Nel contempo i “nemici” sono aumentati pur restando una mino-ranza, non soltanto nel campo degli “omologatori” ma soprattutto

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introduzione 3

nell’ambito di una certa nomenclatura, che mi considera un’insidia e mi liquida come “talebano” o “picconatore”. Per loro provo pena! E provo comunque un dispiacere dell’anima.Tornando più propriamente al presente volume, provo orgogliosa condivisione per la consulenza ed i contributi scientifici di studiosi del calibro di Alberto Capatti e Piero Meldini; ma anche del leader dei sommelier romagnoli, il Maestro di tanti campioni, Giancarlo Mondini.Mi regala felicità assoluta il consueto, gioioso, poetico contributo di Tonino Guerra, pur postumo, in quanto le sue riflessioni sulla Ro-magna e la memoria dei piatti della mamma continuano a restare un patrimonio poetico ed emozionante per tanti.Altresì le ricordanze di cibo del grande vecchio Tino Babini.Mi hanno emozionato il viaggio e la ricerca sulla grande tradizio-ne dei brodetti di mare delle Marinerie romagnole; il recupero delle specialità romagnole in auge ai primi decenni del Novecento, se-condo la Guida Gastronomica dell’epoca del Touring Club Italiano, non senza le preziose considerazioni dei Proff. Massimo Montanari e Alberto Capatti (rieccolo!). Come mi ha reso felice recuperare la memoria delle nostre minestre povere di un tempo e quella dei miti e delle passioncelle gastronomiche dei vecchi romagnoli, che avendo superato i 71 anni, mi onoro di rappresentare.In relazione alle eccellenze, leggi “tessere dorate” del Mosaico, ho dedicato un capitolo alle esperienze sui grandi Oli di oliva di “Brisi-ghella” DOP, corredato da una superba selezione di ricette a tema dei grandi Chef romagnoli ed italiani.Ho dedicato altresì un capitolone ad un’altra straordinaria eccellenza di Romagna, sulla quale manca tanta consapevolezza culturale da parte di tanti, il miele, sviluppando la cultura gastronomica specifica attraverso tante informazioni e ricette a tema, e particolarmente il contributo e la sapienza di due Apicoltori Leaders in assoluto della Romagna (e quindi dell’Italia) Cesare Brusi e Tiziano Rondinini.E veniamo alle belle storie artigianali, per le quali provo da tempo consolidata ed orgogliosa condivisione, unita a piacere gastrono-mico, corredato dall’armonia del palato, del cuore e della mente, e dall’amore e dalla passione per l’appartenenza alla nostra terra!Le storie raccontate ed argomentate sono quattro: la norcineria dei Celli della Bottega delle Carni di Novafeltria, nella media Valmarec-chia. I formaggi selezionati, affinati, infossati, sublimati, dai Branca-

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leoni di Roncofreddo, nell’entroterra collinare cesenate. I caprini e gli altri prodotti dell’Azienda Agricola “Il Pastorello” di Ciola Araldi di Roncofreddo (idem). Infine la testimonianza di una vita dedicata al salvataggio e al rinascimento dei frutti dimenticati di Domenico Ghetti di Marzeno di Brisighella.Sempre a proposito di eccellenze, in questo caso letteraria, ho affi-dato la postfazione a Gian Ruggero Manzoni, scrittore, artista, intel-lettuale, uomo libero e anarchico, per l’analisi strepitosa che ha fatto della Romagna.Infine ringrazio in particolare Luciano Minghetti, il cui aiuto profes-sionale, al solito, è stato fondamentale nella delicata fase di editazio-ne computerizzata, ancor più preziosa considerando che, dopo quasi mezzo secolo di giornalismo e scrittura, continuo a scrivere a mano ed in bella calligrafia.Ringrazio tutti dell’attenzione e arrivederci a uno dei tanti incontri che farò su questo libro.

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Storia e letteratura

Nota storica sulla cucina romagnola del prof. Piero Meldini

È convinzione largamente diffusa che le cucine regionali e locali quali oggi le conosciamo esistano da sempre – dalla famosa “notte dei tempi”, come si usa dire – e che i piatti della tradizione di cui i romagnoli sono i gelosi e un po’ fanatici custodi siano quelli che gustavano i loro più remoti antenati. Le cose non stanno così.Anche se troviamo piatti “a denominazione d’origine” già nei ricetta-ri trecenteschi e quattrocenteschi (per esempio torte parmigiane, bo-lognesi e romagnole), non si riesce assolutamente a capire in che cosa consista, di fatto, la loro connotazione locale. Lo stesso si dica delle preparazioni alla milanese, alla genovese, alla romana, alla napoleta-na, alla “ciciliana” e così via che rinveniamo nei ricettari cinquecen-teschi di Messisbugo, del Panunto e di Scappi, e in quelli seicenteschi di Stefani e di Latini.Il fatto è che la cucina signorile medievale, rinascimentale e barocca che ci tramandano le raccolte di ricette e le cronache dei banchetti (di quella plebea sappiamo ben poco, e altrettanto poco, forse, c’è da sapere) è una cucina ‘globalizzata’ che si fa un punto d’onore di mascherare i sapori naturali e che non conosce frontiere regionali e nazionali. La lettura degli antichi ricettari provoca un�invincibile sensazione di sazietà e di noia. Tutti i piatti si assomigliano. Tutti sono ricondotti, con le buone o con le cattive, a un modello unico, e sarebbe fatica sprecata cercare inflessioni dialettali nell’esperanto gastronomico dell’antico regime.I primi inequivocabili indizi delle cucine regionali compaiono solo nel XVIII secolo, dopo la “rivoluzione gastronomica” che tra il 1715 e il 1750, a partire dalla Francia, aveva mutato radicalmente le basi tecniche, la tavolozza dei sapori e la nozione stessa di gusto. La cu-cina delle cotture multiple, delle speziature furibonde, dell’ibrido

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dolce-salato, dell’azzeramento programmatico dei sapori naturali è progressivamente soppiantata da una cucina che scopre gli alimenti freschi, le verdure, le erbe aromatiche, le salse delicate.Alla formazione del nuovo modello gastronomico europeo i cuochi italiani partecipano, se non da protagonisti, da dignitosi comprima-ri, e non senza originalità: sia proponendo una cucina più sempli-ce, fresca e garbata (anche se più artigianale) di quella francese, sia soprattutto ponendosi per la prima volta il problema dell’identità gastronomica, cioè dei rapporti con le tradizioni locali. Francesco Leonardi, che nell’introduzione al suo monumentale Apicio moderno (1790) abbozza il primo profilo storico della cucina italiana, presenta – accanto a piatti francesi, tedeschi, inglesi, russi, polacchi e turchi – svariati piatti regionali italiani – lombardi, veneziani, romani, napo-letani, siciliani –, inclusi piatti relativamente poveri come la “Zuppa di ogni sorte d’erbe alla napolitana”, la “Trippa di manzo alla roma-na” e il “Cappone di galera alla siciliana”. Anche Vincenzo Agnoletti (La nuovissima cucina economica, 1814), attinge alle cucine locali, né disdegna di registrare piatti umili come le “Panizze alla genovese”.La mappa dei “cuochi” e dei “cucinieri” perlopiù anonimi stampati e ristampati per oltre un secolo – dal Cuoco piemontese al Cuoco ma-ceratese, dal Nuovo cuoco milanese economico alla Cuciniera genovese, dalla Cuciniera delle Alpi alla Cucina casarinola co la lengua napolita-na – copre in lungo e in largo buona parte dello Stivale. E tuttavia chi sfoglia uno a caso di questi ricettari, alla ricerca delle radici del-la propria cucina materna, rimane sconcertato e deluso, perché dei piatti che avrebbe detto più caratteristici della sua terra troverà scarse tracce. Prendiamo La cuciniera bolognese (1874), un manualetto per famiglie che è la ristampa pedissequa, salvo il titolo, del Cuoco bo-lognese (1857): non vi compaiono le ricette del ragù alla bolognese, delle tagliatelle, delle lasagne verdi al forno, dei tortelloni di vigilia e delle cotolette alla bolognese. Manca perfino la ricetta dei tortellini, attestati altrove da quasi un secolo.Se questa è la regola nei ricettari a stampa, a conclusioni non mol-to diverse portano i ricettari manoscritti d’uso privato che si vanno pubblicando da alcuni anni a questa parte. Il ricettario degli Albini, proprietari terrieri di Saludecio, databile intorno al 1880, contiene pochissimi piatti tipici romagnoli: i cappelletti (in doppia versione: di grasso e di vigilia), la “torta” di sangue di maiale, le castagnole. Si aggiungano un paio di apporti marchigiani: la “crescia” pasquale e il

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storia e letteratura 7

“cirimbolo”, il più umile dei salumi, chiamato nella Romagna meri-dionale andrùghle o bartulàz.Ciò non significa, naturalmente, che i piatti trascurati dai succitati ricettari fossero ancora tutti di là da venire. Le cucine regionali italia-ne sono, nel loro complesso, il risultato dello sposalizio fra le cucine popolari e la nuova gastronomia francese e francesizzante, ma i piatti che le compongono sono di varia estrazione – contadina, marinara, urbano-borghese, aristocratica – e di più o meno lontana origine. Né mancano relitti delle più disparate “invasioni” e contaminazioni culinarie: araba, ebrea, spagnola, mitteleuropea.Perché si contraddistinguano compiutamente, alle cucine locali oc-corrono oltre cent’anni. Iniziato nel secolo precedente, il processo di diversificazione occupa l’intero secolo XIX e, paradossalmente, viene favorito e accelerato dall’unificazione del Paese. Solo al termine di questo processo, ossia nel primo decennio del Novecento, agli occhi degli studiosi della cucina e delle tradizioni popolari apparirà infine nitido il quadro delle cucine regionali italiane.Bisognerà attendere il 1905 perché lo storico e geografo della cu-cina Alberto Cougnet, a conclusione del suo viaggio gastronomico nei cinque continenti (Il ventre dei popoli. Saggi di cucine etniche e nazionali), stenda un corposo capitolo su “La cucina e la cantina italiana”: capitolo che fornisce un quadro completo e particolareg-giato del patrimonio gastronomico regionale e municipale. Non c’è piatto canonico che non venga menzionato, corredato da una più o meno sintetica descrizione della pietanza e dalla sua denominazione dialettale. La costituzione delle cucine locali italiane è, insomma, un fatto compiuto.Di lì a poco, nel 1909, verrà data alle stampe La nuova cucina delle specialità regionali, “appositamente compilata dal Dott. V. Agnetti”, che è la prima raccolta organica di ricette di tutte (o quasi) le regioni d’Italia, dal Piemonte alle tre Venezie, dal Lazio alla Sardegna. La trascrizione delle ricette, da fonti in gran parte orali, è esemplare. Se non è il primo a pubblicare ricette di piatti regionali, Agnetti è tut-tavia il primo a progettare e a compilare una raccolta comprendente, con poche e non gravi eccezioni, tutte le regioni italiane. Il suo libro è davvero, in tal senso, “un’autentica novità nel campo gastronomico”, ed è perfettamente legittimo che l’autore tenga a sottolinearlo.

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La lunga premessa era necessaria, perché questa nota storica sulla cucina romagnola non partirà da Adamo ed Eva, ma dalla fine del Settecento. È solo in questo periodo, infatti, che si ritrovano le pri-me tracce di un’identità gastronomica della Romagna. Trascureremo, quindi, gli spettacolari banchetti rinascimentali (come quello dato a Rimini il 25 giugno del 1475 in occasione delle nozze fra Roberto Malatesta e Isabetta da Montefeltro); o i pretenziosi e costosissimi pranzi offerti nel Seicento dalle autorità municipali per accogliere degnamente i “vip” di passaggio; o quanto venne servito nel Monte-feltro romagnolo, nel giugno del 1705, a Giovan Maria Lancisi, ar-chiatra di Clemente XI, all’abate Albani, nipote del papa, al cardinale Tanara, e ai prelati e gentiluomini al loro seguito. Non c’è un solo piatto di questa cucina signorile e aristocratica che presenti tratti lo-cali. Le stesse materie prime impiegate – carni, pesci, verdure, dolci, vini – erano importate da tutt’Italia e anche dall’estero.Non qui bisognerà ricercare le radici della cucina romagnola, dun-que, ma negli scritti sulla cultura contadina sette-ottocenteschi e nei materiali prodotti dalle grandi inchieste sociali e “demologiche” del XIX secolo, a partire da quella napoleonica. Un isolato incunabolo è l’“operetta ridicolosa” Il villano smascherato (1694) del sacerdote Gi-rolamo Cirelli, una satira sulle “malizie” dei contadini romagnoli che ci tramanda qualche scarna notizia intorno al pranzo di nozze degli stessi, dove conta “la quantità, e non la qualità della roba”. I cibi che vi si servono – aggiunge don Cirelli – sono grossolani: carne di bue, vitello e pollami, ma il tutto poco cotto e poco stagionato”, ossia non sottoposto alle lunghe frollature e alle ripetute cotture caratteristiche della cucina delle classi alte: ciò che per Cirelli è una prova schiac-ciante della barbarie culinaria dei contadini. Così com’è indizio di inaudita rozzezza di costumi bere il brodo dal piatto, “come fanno i porci”, e appoggiarsi con i gomiti sulla tavola, “come gli animali alla mangiatoia”.L’altra occasione di pranzo collettivo a cui Cirelli fa cenno sono le cosiddette “nozze del porco”, celebrate nel giorno dell’uccisione del maiale: carne di cui i contadini “sono più che d’ogn’altro ingordi”. Nella circostanza si usa cucinare, oltre alla carne suina, “carne di manzo” e “fare i tagliavolini per menestra”.Quasi altrettanto parco di informazioni è Giovanni Antonio Battarra nel famoso “Dialogo XXX e ultimo” della Pratica agraria (1782). Del pranzo di nozze Battarra si limita a citare i “ciambellotti” e la

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“crema, che qui dicono casadello”, offerti dai parenti degli sposi. Un paniere di “ciambelloni” viene donato anche alle puerpere il giorno del battesimo del neonato. Canonica della cena che segue le esequie è invece la “minestra di ceci”.Dell’inchiesta promossa nel 1811 per aver lumi “sulle diverse co-stumanze, ad anche pregiudizi e superstizioni che si mantengono in campagna” e nota come “napoleonica”, si conservano alcune schede su paesi e frazioni del forlivese, quasi tutte di mano di sacerdoti, e il rapporto finale del prefetto di Forlì, il milanese Leopoldo Stauren-ghi, redatto sulla scorta delle informazioni fornite da insegnanti e podestà.Sia le schede che il rapporto ci regalano qualche sparsa notizia sui pranzi imbanditi per le feste solenni del ciclo dell’anno e di quello della vita: sul “pranzo del puerperio”, che – riferisce il parroco Romi-ti – è “piuttosto mediocre [e] si chiama impajulata”: vi si servono “un pajo di capponi, pane goloso, ova, formaggio” e, regalato dalla madre della puerpera, “un grosso panniere di bracciatelli fatti col zucchero, ova, e ben lavorati”; sul pranzo di battesimo, otto giorni dopo il parto, in cui, “se fu partorito un maschio, mangiano i macchero-ni, se una femmina, le lasagne”, con trasparente simbologia sessuale; sul pranzo di nozze, “splendido e squisito”, per il quale i contadini – moraleggia l’arciprete Vanni – “han Cuore di spendere una gran parte della Rendita del Loro coltivato Podere”; sulla cena funebre, consistente “in minestra ed un lesso che ordinariamente è di carne grossa; la minestra indispensabilmente dev’essere di munfrigoli”; infi-ne sul pranzo di Natale, giorno in cui “presso ogni famiglia si fa una minestra di pasta col ripieno di ricotta, che chiamasi di cappelletti”. “L’avidità di tale minestra è così generale”, scrive il malizioso prefetto di Forlì, “che da tutti, e massime dai preti, si fanno delle scommesse di chi ne mangia una maggior quantità, e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500; questo costume produce ogni anno la morte di qualche individuo per forti indigestioni”.Il forlivese Michele Placucci, che nel 1818 (attingendo a man salva, e senza mai citare la fonte, dall’inchiesta napoleonica) dà alle stampe una memoria sugli Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, ci tramanda scheletrici sunti delle ricette. La minestra del “pranzo del puerperio” (chiamata “Impajolata, o Zuppa, ovvero Tardura”) è fatta con “uova, formaggio e pane grattato”. Dei “così detti Manfrigoli” della “cena mortuaria” (“specie di pasta casalinga, per lo più di uova

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e di farina ridotta in minuti granellini” spiega Antonio Mattioli nel suo Vocabolario romagnolo-italiano, 1879) è fatto solo il nome. Rela-tivamente dettagliata è invece la ricetta dei cappelletti natalizi, “mi-nestra composta di ricotta, formaggio, uova, aromi; il tutto avvolto in pasta, detta spoglia da lasagne”. Nel compenso è as sente la carne, all’uso prevalente nel cesenate e nel ravennate.Sia l’inchiesta napoleonica che il trattatello di Placucci si limitano a censire questi e pochi altri cibi della festa (gnocchi, maccheroni, lasagne; salsiccia, salame, prosciutto, coppa; carne lessa, carne fritta, galletti in umido, pollo arrosto; ciambelle). Quel poco che cono-sciamo, insomma, della cucina in uso nelle campagne romagnole si restringe ai piatti festivi. Del cibo di tutti i giorni, invece, niente sappiamo, o quasi, e non tanto per reticenza della fonti, quanto per insussistenza dell’oggetto. Alla fine del Seicento Cirelli asseriva, con brutale franchezza, che, “toltone il tempo di nozze, mangiano i villa-ni come porci” (e non alludeva certo alla quantità, bensì alla qualità del vitto). Come definire altrimenti, del resto, un regime alimentare dove “il primo e principale rifugio di tutto il popolo della campagna” è il pane di “tritello”, cioè di crusca rimacinata? Lo testimonia nel 1801 il medico Michele Rosa.Le grandi inchieste sociali dell’Ottocento riconfermeranno l’ingrata e precarissima alimentazione delle campagne. Condotta negli anni 1876-1881 sotto la direzione del conte Stefano Jacini, l’“Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola” denuda da qualunque addobbo pittoresco la dieta quotidiana dei con tadini, di cui tratta il ventesimo quesito (“Condizioni fisiche e sociali”) dei ventiquattro posti a sindaci e funzionari comunali.La relazione riassuntiva sulla 6a circoscrizione (Emilia-Romagna), stesa dall’agronomo bolognese Luigi Tanari, disegna una sintetica ma precisa geografia alimentare della regione. Premesso che “i tipi di vit-to cambiano colla diversità dei luoghi [...] e colla diversità delle clas-si”, Tanari divide il territorio emiliano-romagnolo in quattro fasce: quella montana (“niente vino o pochissimo [...]; pane pochissimo e per lo più di mistura; qualche minestra di frumento condita al lardo; molta castagna in polenta; molto granturco”; “pochissima carne ovi-na e più di rado porcina; poche ortaglie, uova, latte e formaggio”); quella collinare (“pane di frumento più abbondante, ma non sempre puro; più minestre, più ortaglie”; “meno le castagne e la carne ovina, sostituita piuttosto colla suina e col pollame; il vinello ed il vino in

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mediocre quantità”); quella di pianura (“pane di frumento [...] in maggior copia; più minestra, ma sempre moltissimo granturco in polenta; la carne [...] almeno le solennità; più vino”); quella della bassa pianura palustre (“eccesso del granturco e scarsità del vino e della carne; anche l’acqua diventa molte volte poco potabile”).Nei questionari e nelle memorie locali la situazione è presentata con minor diplomazia. “Dire che l’operaio ravennate raramente mangia cibo caldo e che durante i più penosi lavori non ha che pane duro, pesante, indigesto da sbocconcellare e mandare giù insieme ad un pezzo d’aglio o di cipolla o qualche altro erbaggio premuto contro un po’ di sale [...], è esporre lo stato vero e generale”: sono parole di Gu-glielmo Barbieri, autore della monografia di Ravenna. Più caute ma non meno eloquenti sono le considerazioni dell’anonimo estensore della monografia riminese: “Il contadino si alimenta ordinariamente di polenta [...]. I più agiati riserbano un po’ di grano per la minestra specialmente nei dì di festa. Gli erbaggi e qualche po’ di pesce sono ordinariamente il loro companatico”. Il compilatore del questionario di base di Rimini aggiunge che “in quanto alle bevande, [i conta-dini] usano principalmente il vinello, l’acqua con l’aceto, e il vino in giorni eccezionali”. “La bevanda è d’aceto inacquato, o di acqua pura”rincara quello di Santarcangelo.Nell’Ottocento, tuttavia, a seguito di un mutamento climatico fa-vorevole e grazie a quelli che Braudel ha chiamato “gli intrusi del Nuovo Mondo”, mais e patate innanzi tutto, si diradano e infine hanno termine le terribili carestie che, a partire dal Cinquecento, si erano susseguite con la tragica, impassibile regolarità dei fenomeni naturali. Non a torto si è parlato di “rivoluzione alimentare” e la si è messa in rapporto con l’esplosione demografica del XIX secolo, arco di tempo in cui la popolazione italiana quasi raddoppia, passando da 18 a oltre 32 milioni di abitanti.Dalla metà dell’Ottocento in poi i contadini romagnoli non muo-iono più di fame (semmai di pellagra), e questo è già un progresso. Sulla quantità e qualità del vitto feriale le inchieste sociali fanno giu-stizia del mito retrivo e consolatorio di una cucina “semplice e sana” trasmessa di madre in figlia e giunta intatta, o quasi, fino ad anni recenti. Propriamente parlando, non si tratta neppure di cucina, ma di un’ingrata, precarissima arte di arrangiarsi.E tuttavia una cucina romagnola già esiste, o è in via di formazione. Si compone di un numero limitato di piatti: quelli contadini dei

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giorni di festa e i meno poveri tra quelli dei giorni feriali; pochi piatti marinari; alcuni vecchi piatti di ascendenza aristocratica in versione semplificata; preparazioni i cui ingredienti e il cui stile culinario mo-strano un’origine recente e recentissima. A praticare questa cucina e a fornirle progressivamente un’identità è un ceto variegato che mescola borghesia terriera, agricoltori benestanti, commercianti, artigiani e parte del proletariato urbano. La cucina romagnola, così come quella di altre regioni italiane, è il prodotto di apporti diversi e scambi vi-cendevoli in un’epoca di forte mobilità sociale.Ho già accennato ai pochissimi piatti romagnoli che sono presenti nel ricettario privato degli Albini di Saludecio, dell’ultimo quarto dell’Ottocento. Un po’ più numerosi – una ventina in tutto – sono quelli registrati nella Scienza in cucina di Pellegrino Artusi (1892). Ma su Artusi e la Romagna vedi il contributo di Alberto Capatti in questo volume.Libro pionieristico e di eccezionale interesse per quanto riguarda al-tre cucine regionali (e in particolare la piemontese, la ligure, la sici-liana e la sarda), La nuova cucina delle specialità regionali di V. Agnetti (1909) è invece deludente quando affronta la cucina emiliano-roma-gnola. Delle ventisette ricette di quest’area, infatti, venti sono copie pedisseque di quelle di Artusi. I piatti romagnoli sono nove in tutto e solo tre non derivano dalla Scienza in cucina: i “tartufi all’uso di Romagna”, le “polpette alla Catalana” (“piatto esclusivamente roma-gnolo e gustosissimo” garantisce l’autore) e i “sugoli”. Dei cappelletti è fornita una ricetta che diverge da quella artusiana, ma di dubbia attendibilità.Nell’ultimo capitolo del Ventre dei popoli (1905), intitolato “La cu-cina e la cantina italiana”, Cougnet dedica un paragrafo alla cucina emiliano-romagnola. L’accorpamento amministrativo penalizza “le Romagne” in favore di “Bologna la grassa” e dell’Emilia dei ducati. I soli piatti romagnoli menzionati sono i “cappelletti in brod de capôn” (sic), il “pasticcio di cappelletti, dove la pasta è alquanto zuccherata e con un po’ di raschiatura di scorza di limone”, le “tajadèle assôtte”, le “canocchie della costa marittima”, le “anguille fresche e marinate di Comacchio” e i “zalètt o pinocchiata di Ravenna”. Sono citate, inol-tre, alcune “specialità”: la “salsiccia stagionata” di Castelbolognese, i “caci pecorini degli Appennini”, il “sapore” di Cesena (“conserva di mosto con frutta, cotogne particolarmente, e pere dette moscar-dine”), le olive di Rimini, gli asparagi di Ravenna e i finocchi di

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Faenza. Tra i vini, sono ricordati “il sangiovese della Romagna, ma specialmente di Bertinoro”, definito “vino fino da pasto, squisito”, il “vino santo” di Imola, il “vino d’uva canina” di Ravenna e “quello d’albola” di Imola. Sono giudicati eccellenti, infine, “i vini faentini e quelli di San Marino”.Nel 1913, in una nota su Come mangiano i Romagnoli pubblicata sul periodico “Il Plaustro”, Antonio Sassi si ripropone di investigare “non la cucina dei ricchi, la quale per le numerose leccornie importa-te da altri luoghi ha perduto quasi tutta la sua originalità, ma quella del popolo, che conserva buona parte delle vecchie costumanze”. Se-gue il catalogo generale della cucina autoctona romagnola che, oltre ai cappelletti e alla tardura già menzionati da Placucci un secolo pri-ma, censisce i passatelli, le “pappardelle asciutte condite in perfetta regola” (che però non sono peculiari della Romagna), il pollo arrosto (diffuso ovunque) e la piada: un patrimonio gastronomico tutt’altro che esemplare e sterminato, insomma. La sua modestia, con la quale bisogna pure fare i conti, è spiegata non già con la recente formazio-ne, ma, al contrario, con la dispersione e il dissanguamento di un plurisecolare, se non millenario, capitale.Né Sassi né, a maggior ragione, quanti verranno dopo di lui riusci-ranno a concepire la fresca origine delle cucine regionali, ma ten-deranno a proiettarla in un passato altrettanto remoto che fiabesco: un’Età dell’Oro della cosiddetta “cucina popolare”, situata per l’ap-punto nella “notte dei tempi”, di cui le odierne cucine locali sareb-bero le legittime, ancorché immiserite discendenti. Ma questo Eden alimentare e culinario è un caso patente – per dirla con Hobsbawm – di “invenzione della tradizione”.

Nota bibliografica

Le fonti, in ordine di citazione nel testo, sono le seguenti: sugli an-tichi ricettari v. l’ampia antologia L’arte della cucina in Italia, a c. di E. Faccioli, Torino, Einaudi, 1987; La cuciniera bolognese, Bologna, Tiocchi, 1874 (riediz.: Bologna, Forni, 1990); Il codice di cucina, a c. di L. Bartolotti, Rimini, Panozzo, 1993; A. Cougnet, Il ventre dei popoli. Saggi di cucine etniche e nazionali, Torino, Bocca, 1905; V. Agnetti, La nuova cucina delle specialità regionali, Milano, Socie-tà Editrice Milanese, 1909 (rist. anast. a c. di P. Meldini: Firenze, Guaraldi, 1977); G. Cirelli, Il villano smascherato, “Rivista di storia

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dell’agricoltura”, 1967, 1 (cfr., ivi, G.L. Masetti Zannini, Un tratta-to inedito e sconosciuto sulle tradizioni dei contadini romagnoli); G.A. Battarra, Pratica agraria distribuita in vari dialoghi, Cesena, Biasini, 17822 (rist. anast. a c. di L. Faenza: Rimini, Ghigi, 1975); M. Pla-cucci, Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, Forlì, Bordandini, 1818 (rist. anast.: Bologna, Forni, 1974); M. Rosa, Della ghianda e della quercia e di altre cose utili a cibo e coltura, Rimini, Marsoner, 1801; A. Sassi, Come mangiano i Romagnoli, “Il Plaustro”, 1913, 30.

Saggio storico-letterario del prof. Alberto Capatti

La scoperta e l’invenzione della Romagna

La descrizione della cucina di un territorio, e in particolare la ricerca delle origini di quella romagnola, risale con estrema difficoltà ad un periodo anteriore al XIX secolo. È anzi un luogo comune ripetere che la sua prima codificazione è del 1891, con la pubblicazione de La scienza in cucina. A differenza della città di Napoli che offre, nella seconda metà del Settecento, una letteratura gastronomica ricca, e di stati come la Toscana con un ricettario livornese, Il cuciniere italiano moderno, di respiro nazionale1, questa terra fra l’Appennino, il mare e le “valli”, appartenente al Papato e da esso male amministrata, ave-va ben poco da vantare che fosse già noto ai visitatori di passaggio. Lo stesso Artusi di cui tratteremo ampiamente, non si curava di ap-profondire la questione, non consultando i ricettari italiani che dal cinque al settecento avevano fatto conoscere l’Italia, e quando pub-blicava una pietanza del 1694, le polpette di trippa, ne aveva ricevuto notizia e dettagli dall’amico bibliotecario Olindo Guerrini2. Per lui la storia della cucina era cominciata con il suo anno di nascita, il 1820. Ma è vero che non esistevano tracce dell’esistenza di una cucina ro-magnola ante litteram? la creazione delle cucine regionali è dunque il risultato dell’unità d’Italia? Se frugare fra le pietanze ottocente-sche, fra le decine di ricettari che grandi e piccole città stampavano a propria illustrazione, includendovi piatti francesi, e ancor più fra

1 Il cuciniere italiano moderno, Livorno, Vignozzi, 1832 (ristampato sino al 1885)2 Pellegrino Artusi, La scienza in cucina, Milano, Rizzoli, 2011, p. 350

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i libri di casa manoscritti e pubblicati negli ultimi trent’anni, porta una quantità di informazioni su confini, economia, cuochi e piatti di un territorio, è necessario arretrare ancora per cogliere la formazione dell’idea geografica e storica di cucina. Paradossalmente questo ser-virà a comprendere l’inerzia dei notabili e il tardivo emergere nella lingua italiana e non nel solo dialetto delle pietanze locali, quindi il compito di coloro che per primi hanno contribuito a descriverle e stamparle.

Nei ricettari italiani anteriori al Settecento, editi a Roma e a Venezia, la Romagna è presente con i suoi prodotti. Ne diamo un sommario elenco che permette di valutarne il numero e le relative fonti

Anici3

Caci4

Cipolle5

Marzolino6 Oche7

Ortolani8

Ulive9

I formaggi sono altresì designati come cascetti e casetti e casotti, a prova della loro abbondanza. Si noterà come la prossimità della fon-te renda disponibile il ragguaglio: a Ferrara, a Mantova e persino a Roma, i prodotti che vengono dalla Romagna sono noti, e Bartolo-meo Stefani, cuoco bolognese presso i Gonzaga, precisa che “Ben-

3 “Conserva di Anisi freschi … Di questi se ne raccoglie gran quantità nella Romagna, & ha semente distinta in chiocche a guisa di finocchio, benchè assai più picciola” Stefani, L’Arte di ben cucinare, Mantova, Osanna, 1662, p. 91

4 “cascio di Romagna” Scappi, Opera, Venezia, Tramezzino, 1570, p. 2155 “Cipolle … Si fanno ancora grossissime & eccellentissime in Romagna in un luogo

detto la Mossa de’ Lombardi” Pisanelli Trattato della natura de’ cibi et del bere, Venezia, Imberti, 1611, p. 58 ; Stefani, L’Arte di ben cucinare, Mantova, Osanna, 1662, p. 85

6 “marzolini di Romagna “ Rossetti, Dello scalco, Ferrara, Mammarello, p. 70 2 seg.7 “le ocche di Romagna” Garzoni, La piazza universale, Venezia, Polo, 1610, p. 297 v.8 “ortolani .. liquali uccelletti nella Marca, & nella Romagna si conservano molto con

il miglio, & con il panico” Scappi, Opera, Venezia, Tramezzino, 1570, p. 56 v.9 “Ulive di Romagna” Frugoli, Pratica e scalcaria, Roma, Cavalli, 1638, p. 28

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chè ogni paese sia fertile di Cipolle, nulla di meno la Romagna ne produce gran quantità di grossezza, e bontà straordinaria, bianche di colore, e di sapore che assai inchina al dolce; talche questa provincia non la cede ad altre nella produzione delle cipolle”. Stesso giudizio, prima di lui, del bolognese Pisanelli.Altra cosa è la cucina. Gli ortolani in Romagna si usava cuocerli con lo strutto e questo era noto persino nella città di Bergamo10. Venivano considerate appartenenti a quelle terre la “torta d’herbe alla Ferrarese, o romagnola”, con biete, latte, burro, ricotta e formaggio, e la “lattarola alla romagnola”, citate, a Ferrara, da Messisbugo e da Rossetti11. Anche se i caci viaggiano sino a Roma, e sono conosciuti per la loro forma “di limoncelli”12, questo non basta per consacrare “romagnole” tutte le torte che li prevedono. I prodotti dunque non qualificano, fuori da una regione, la sua cucina, almeno sino al 1782 quando comincia a nascere una nuova economia rurale e a Cesena si stampa la Pratica agraria di Antonio Batarra.Va notato che, nel corso dell’ottocento, le menzioni di piatti roma-gnoli si mantengono scarse sia che si preferiscano denominazioni generiche comprensive di più stati o provincie, come la minestra di passatelli di Francesco Leonardi, sia che si alluda a delle preparazioni estremamente localizzate, come il Polmone di maiale alla riminese 13. La Romagna non aveva una identità forte nemmeno per i viaggiatori che la attraversavano con diletto e si siedevano a tavola; la testimo-nianza de L’Italie confortable di Valéry sulle sue eccellenze, è chiara:

Imola buon vinoFaenza “Vini eccellenti e ben fatti, già vantati da Varrone e Colu-mella”Ravenna pinoli, buon vinoCesena Vino bianco reputato

10 Il cocho bergamasco alla casalenga, Lodi Zazzera 2001, p. 3211 Messisbugo, Libro novo, Venezia,Padovano, 1557, p.61 ; Rossetti, Dello scalco,cit., p.

285 e seg.12 Scappi, Opera, cit., p. 20013 Agnoletti, Manuale del cuoco e del pasticcere di raffinato gusto moderno, Pesaro,

Nobili, 1834. I. p.144

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Rimini pesce squisito, “buon vino della repubblica di San Marino già lodato da Addisson”14.

Al di fuori del vino, ci sono i pinoli della pineta e il pesce a Rimini. A Bologna vengono consigliati “tortellini o cappelletti”, “mortadella e cotichini”, quanto più ci si allontana da essa, tanto più bisognerà accontentarsi di qualche risorsa locale e di una cucina anonima. A queste ragioni, sempre contestabili con la scoperta di nuove guide o di testimonianze di viaggio, se ne aggiungono altre, interne alla nomenclatura gastronomica. Laddove una provincia o una regione non si è costituita una identità forte al suo esterno, penetrando nella borghesia di grandi città e passando di bocca in bocca e contagiando preparazioni già recepite, costituendone varianti, in questo caso “ro-magnole”, essa resta affidata a riscontri casuali, non sistematici. Così, nella Toscana del Regno d’Italia, in un pregevole ricettario come Il cuoco sapiente, si ritrovano i Castroni alla romagnola – “le castagne così lessate chiamansi in Romagna castroni”15 e le Lenticchie alla ro-magnola. Queste ultime cotte con olio, cipolla, sale e pepe si direb-bero alla fiorentina, non fosse l’aggiunta di “un poco di conserva o sugo di pomidoro mezz’ora prima di ritirarle dal fuoco”16. È ab-bastanza, per chiamarle, “alla romagnola”? Ragionando con l’Artusi forse sì, anche se questi due piatti facevano pensare alla miseria.Questo è il quadro sommario da cui parte la presente descrizione resa possibile all’inizio da osservazioni domestiche ed esperienze di viag-gio, arricchita in seguito dalla lettura di qualche ricettario, per lo più inutile e pieno di termini francesi storpiati, quindi dalla corrispon-denza e dall’interesse manifestato dalla buona società campagnola e cittadina per le usanze conviviali. La cucina, nel regno d’Italia, diven-ta un vezzo di buone maniere e buona compagnia e diventa un vizio intellettuale, concretizzato da tavole imbandite ed armadi pieni di liquori fatti in casa e conserve.

14 Valéry, L’Italie confortable. Leipzig-Paris, 1840. pp. 121-12215 “castron castagna castrata, e cotta nell’acqua con alloro, sale e vino” Morri,

Vocabolario romagnolo-italiano, Faenza, Pietro Conti, p. 18016 Il cuoco sapiente, Firenze, Moro, 1871, pp.122, 141

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L’Artusi

Pellegrino Artusi nasce l’anno che segue la pubblicazione de Le arti del Credenziere Confetturiere e Liquorista di Vincenzo Agnoletti, una figura di spicco di un mestiere esercitato presso le famiglie patrizie romane e destinato a sopravvivere nelle botteghe, e un cuoco ere-de del grande Francesco Leonardi. Nulla di tutto questo nella sua famiglia, con un padre commerciante a Forlimpopoli, di estrazio-ne contadina. La cucina di mamma Teresa Giunchi e delle sorelle maggiori è rimasta ignota e non una parola su di essa trapela nella Scienza in cucina. Nella autobiografia compaiono qua e là animali da allevamento e da caccia: tacchini, allodole, maiali, e una tazza di cioccolata solo nel primo viaggio, a Venezia. La cucina di casa non rappresentava, all’origine, un patrimonio, tanto meno quella di una modesta famiglia di Forlimpopoli dove era nato nel 1820.Artusi passa infanzia e fanciullezza in Romagna, poi comincia a viag-giare, da buon commerciante, e a vivere fra la ricca Toscana e Forlim-popoli, e infine a trentun anni si stabilisce a Firenze con i suoi genito-ri. Le radici gastronomiche romagnole si approfondiscono in questa nuova vita, tanto più che gli Artusi si arricchiscono importando i bachi da seta, oltre ai prodotti d’uso domestico, anici, mostarda e quanto, di frutta, fagioli e polli, fornivano i due poderi forlivesi. Sino all’età di novantanni continuerà a ricevere la spettanza mezzadrile, consistente in un ampio paniere di derrate, dalle ciliegie primaticce ai capponi e alle faraone natalizie, per non parlare dei doni “gentili” dei suoi pari, principalmente i tartufi. Tutto arrivava per ferrovia, compreso il pollame vivo, col suo becchime appresso. Niente vino, perché tutta l’uva era venduta a carri, o meglio il vino bisognava comprarselo: “O’ ricercato l’albana – gli scrive il 12 giugno 1907 il fattore Bonavita – ma le partite assaggiate peccano tutte di dolce. Se mi riescirà di trovarne asciutta e con corpo la informerò”17. Niente torte dette latteruoli che figurano nella Scienza in cucina come dono dei fittavoli alla ricorrenza del Corpus Domini. A Bonavita e al con-tabile Bandini, inviava invece, a natale, da Firenze, con gli auguri un dolce fatto in casa.Eppure Artusi è il primo codificatore della cucina romagnola. Da dove gli nasceva cotanta passione? La scienza in cucina a sprazzi, o

17 Archivio Forlimpopoli, 403 a.

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meglio ad aneddoti, ci dice della memoria che s’appesantisce, a mi-sura che la sua vita gravita nello studio, fra i libri, e nella cucina. È lontano e vicino alla sua terra, controlla tutti conti, intesse una corri-spondenza con i nipoti di Lugo e di Bertinoro. Quali sono le prepa-razioni che gli evocano la Romagna? Elenchiamo i titoli delle ricette in cui menziona la sua terra d’origine, piatti, conserve e rosolio, i primi sedici dell’edizione prima, del 1891, i restanti delle successive:

Sugo di carne detto brodo scuroCappelletti all’uso di RomagnaPanataMinestra di PassatelliTrippa di vitella vedi zuppa di ranocchiTagliatelle all’uso di RomagnaSalsa di pomodoroCastagnoleAgnello coi piselli all’uso di RomagnaPasticcio di maccheroniSpinaci di magro all’uso di RomagnaOffelle di marmellataTorta di ricottaLatteruoloMigliaccio di RomagnaRosolio d’AnaciRaviuoli all’uso di Romagna (1895)Fritto ripieno di mostarda (1895)Anguilla (1895)Olive in salamoia (1900)Cefali in gratella (1900)Spaghetti da quaresima (1900)Cavolfiore all’uso di Romagna (1906)

Più che ad un sistema, siamo di fronte a dei ricordi che rinverdiva nell’estate in occasione della mietitura, quando ritornava, alloggian-do all’Hotel Central di Forlì18, rendendo visita a parenti e conoscen-ti. Questi ricordi, lontani-vicini, venivano ricollocati in un ricetta-

18 Lettera di Giovanni Bandini a Pellegrino Artusi del 12 luglio 1901 (Archivio Artusi di Forlimpopoli, 187 a).

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rio, ricevendo un numero d’inventario e figurando come elementi descrittivi, destinati servir di modello. A tarda età, ottantasei anni, si ricordava ancora del modo che i romagnoli avevano di condire i cavolfiori, con un battuto di aglio e prezzemolo, e con un poco di conserva di pomodoro. Ma non tutto restava nitido ed evocando una pasta fritta, la sua lontananza dalla terra natale pesava: “Questo fritto si può fare in Romagna ove d’inverno è messa in commercio la mostarda di Savignano o fatta all’uso di quel paese, che una volta era molto apprezzata; ma non saprei dirvi se siasi mantenuta a credito”19.Il credito delle ricette romagnole dipendeva molto dalla semplicità d’esecuzione e dal successo con cui erano ripetute. Ne nasceva una cucina di casa, lontana dalle case in cui era nata, eppur familiare, diversa e piacevole, alleggerita e aggiustata nei sapori. Riconoscibile da un romagnolo, quando erano presenti gli anaci e la mostarda, un po’ troppo fine altrimenti, e soprattutto accostata a minestre toscane che sapevano d’olio, e a riso e risotti che erano sicuramente d’altrove. Anche se corretti nelle dosi e nei gusti, erano tutti piatti di sostanza, ed era la loro principale caratteristica. Una assenza di vaglia, la piada, la piè, che era inutile tradurla con focaccia, pizza o schiacciata, per-chè, per un borghese ricco, era troppo poca cosa. Proviamo a vedere quali ricette fossero recepite dai suoi corrispon-denti, e vedremo ancor meglio il pensiero d’Artusi. Rileggiamo il Manuale di cucina di Giulia Turco Lazzari, stampato a Venezia ano-nimo dalla Tipografia Emiliana nel 1904 (quando La scienza in cu-cina curata dall’autore non aveva esaurito le sue novità). La signora Turco Turcati sposa Lazzari, nata nel 1848, apparteneva alla aristo-crazia trentina (non ancora italiana) ed era una figura intellettuale di spicco, con salotto e tavola, ed aveva intrattenuto con Artusi una corrispondenza vivace. Ecco i piatti della sua Romagna, terra remota sia da Trento che da Venezia dove dimorava ed era stato stampato il manuale:

Coppa di majale alla romagnola Costolette di vitello alla forliveseCrostini di ragoût alla romagnola Crostini in agro-dolce alla romagnolaFritto sfogliato alla romagnola con ripieno di crema

19 “Fritto ripieno di mostarda”, in La scienza in cucina, Firenze, Landi, 1895.

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Minestra di fagiuoli di magro alla romagnolaMinestra di strichetti alla romagnolaPassatelliPasticcio di cappelletti alla romagnola colla pasta frollaPolenta colla salsiccia alla romagnolaSformato di piselli alla romagnola Stracotto alla romagnola fatto con manzo lessoRisotto colla salsiccia alla romagnola Spaghetti coi piselli alla romagnolaTagliatelle alla romagnolaTritura20

In questa lista sono ovviamente riconoscibili i piatti artusiani così come nuovi titoli. Le Costolette di vitello alla forlivese sono un ritocco delle cotolette di vitella di latte in salsa d’uovo del 1895; il Pasticcio di cappelletti alla romagnola è invece una riformulazione di quello artusiano con i maccheroni, con la precisa intenzione di dar mag-gior rilievo ad un piatto già “complicatissimo e costoso”. Ripetuta a Trento e a Venezia e in chissà quante città italiane, la cucina roma-gnola cresce d’importanza, cattura gastrotoponimi nuovi – Artusi non aveva mai usato il termine “forlivese” – va oltre le abitudini del maestro che non si avventurava nella norcineria, con una Coppa di majale che cominciava con un solenne: “Spaccate a metà la testa di majale, estraetene gli occhi e il cervello e asportatene le guance”. Quanto al risotto colla salsiccia alla romagnola è, al solito, l’impasto contenuto nel budello, rinvenuto nel burro, colorato di pomodoro e insaporito con una cucchiaiata di formaggio, il che sa di formula più che di Romagna. In quello stesso anno 1904, l’Almanacco Italiano di Roberto Bempo-rad che fra i primi aveva contribuito a lanciare La Scienza in cucina21,

20 Lazzari Turco, Manuale di cucina, Venezia, Emiliana, 1904, pp. 824 (coppa di majale), 285 (costolette di vitello), 54 (crostini in agro), 54 (crostini di ragoût), 169 (fritto), 103 (minestra di fagioli), 69 (strichetti), 67 (passatelli), 246 (pasticcio), 138 (polenta), 216 (sformato), 252 (stracotto), 125 (risotto), 121 (spaghetti coi piselli), 116, (tagliatelle) 59 (tritura).

21 Alberto Capatti, “Noterella alla prima edizione”, in : Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, ristampa anastatica prima edizione 1891, Firenze, Giunti, 2011, p. 38.

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22 le cucine di romagna

pubblicava una Geografia gastronomica e potatoria d’Italia22. Nell’E-milia si potevano cogliere i seguenti toponimi romagnoli con relative specialità. Bertinoro SangioveseCastel Bolognese Salsiccia stagionata (si mangia cruda)Cesena Sapore (conserva di mosto e frutta) – mi-

gliaccioCivitella di Romagna Sangiovese (questa di Civitella è la qualità più stimata di tutta la Romagna)Comacchio Anguille – Anguille marinateFaenza CappellettiImola Vin SantoPorto Corsini Brodetto (zuppa di pesce)Ravenna Salsiccia – Asparagi (celebri sin dall’anti-

chità) – Pignoli del Pineto – Zalett (pinoc-chiato) – Canina

Rimini OliveSavignano di Romagna Mostarda

La settima edizione de La scienza in cucina era reclamizzata a tut-ta pagina in quello stesso Almanacco, e provava che la codificazione della cucina romagnola andava di pari passo con la sua contestualiz-zazione geografica e la messa a fuoco, in una parte dell’Emilia detta Romagna, di cibi e territori, analogamente a quelli che erano or-mai abbinamenti comuni e noti ovunque: Bologna e la mortadella, Milano e il risotto giallo. Di rilievo, è la localizzazione faentina dei cappelletti che cominciano ad uscire dal grembo artusiano per ri-prendere una identità non genericamente romagnola.La lista dei nomi dei piatti, con l’epiteto all’uso di romagna o alla romagnola, era ovviamente destinata ad allungarsi, con ripetizioni e conferme: basti citare Adolfo Giacquinto, e le sue Costolette alla romagnola23 e Alberto Cougnet con la Panata alla romagnola e la Zuppa crogiuolata con sugo di carne alla romagnola24 che ne provano

22 G.F., Geografia gastronomica e potatoria d’Italia, Almanacco Italiano Piccola enciclopedia popolare della vita pratica, Firenze, Bemporad, 1904, pp. 371 e 372.

23 Adolfo Giaquinto, La cucina di famiglia, Nuova raccolta, Bracciano, T. Romana, 1904, p.168.

24 Alberto Cougnet, L’arte cucinaria in Italia, Milano, Wilmant, 1910, t.I, pp.

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storia e letteratura 23

l’estensione e il favore nell’area romana e milanese. Più lenta era la commercializzazione di prodotti o artefatti, perché alcuni di essi, come la mostarda di Savignano restavano di consumo locale, men-tre altri, le salsicce, avevano in Italia una diffusione così capillare, e quindi si presentavano, spostandosi da un paese all’altro, in tali varie-tà da essere apprezzabili sono nella loro singolarità. Quando Artusi richiedeva una palla di “coteghino” al suo fattore forlivese Bonavita si sentiva rispondere: “Lunedì istesso le spedirò anche i cotegini; non so poi se ne sarà contento perché i salumai un tempo rinomati non vi sono piu e i nuovi non so quanto valghino”25. Per anni si era servito della ditta Lasagni di Reggio Emilia poi, in seguito ad una delusione, l’aveva cancellata da La scienza in cucina e aveva dovuto chiedere a persone di fiducia, a Lugo, a Forlì, con questo risultato.

Dopo il 1911

Dopo la morte di Artusi, avvenuta nel 1911, le ristampe del suo ricettario si stabilizzano intorno alle 10.000 copie all’anno, e conti-nuano ad essere la fonte più autorevole della cucina romagnola. Si moltiplicano tuttavia i plagi e le varianti delle sue ricette, cui se ne accostano di “nuove”. A contribuire al successo dei piatti, giocano fattori quali il turismo, il favore del modello bolognese che fa da trai-no a quello antagonista romagnolo, e, con l’avvento del fascismo, le origini del Duce. Ritroviamo i Cappelleti alla romagnola, nei ricettari d’ordinanza come Il cuciniere militare di Dario Fornari, affiancato da un Risotto alla Predappio26 ispirato da altre cucine. Il soffritto con olio e burro, la carne di maiale o la salsiccia, la mantecatura con burro e formaggio ne collocano l’origine più che nell’Appennino tosco-romagnolo, nelle piane risicole e nel milanese. False e vere ricette si alternano con piatti di nuovo conio, anche nei centri de-putati, ma due fattori contribuiscono alla stabilizzazione dei modelli regionali, l’uno è il successo continuo del precitato Artusi, l’altro La guida gastronomica d’Italia del Touring Club Italiano, del 1931. Quest’ultima individuava la Romagna nelle due provincie di Forlì e Ravenna, ampliando i ragguagli su prodotti, piatti e vini rispetto al

111 e 112.25 Antonio Bonavita, lettera del 13/12/1907 (Archivio Forlimpopoli 429 a).26 Dario Fornari, Il cuciniere militare, Novara, Cattaneo, (1930), pp. 131 e 136.

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24 le cucine di romagna

1904, e mettendo a fuoco un quadro sistematico che resterà a lungo valido. Quando nel 1969, Vincenzo Cunsolo procederà a rifondere, per il Touring Club Italiano, la vecchia edizione in una nuova, ecco il raffronto delle principali specialità

1931 1969Piè, piada, piadina Piadapapardèl Pappardellemaridècaplètt Cappelletti OrecchioniFurmai squaquaròn Squaquaron Cavoli romagnoliCaplètt in timballo Pasticcio alla romagnolaTritùra, tardùra TarduraPassatelli PassatelliAl pal ad curghèn Palle di cotechino Salame gentile Salsiccia mattaMiaz MigliaccioSapaZuppa inglese Zuppa ingleseSfrappole SfrappoleCastagnole CastagnoleSapori

Il bilancio è presto fatto: sono scomparsi i maridè (minestra di qua-drettini di pasta all’uovo con fagioli), la sapa (mosto cotto) e i sapori (dolci di mosto e farina); di nuovo compaiono: gli orecchioni (cap-pelletti giganti), i cavoli romagnoli, il salame gentile e la salsiccia matta. Pur tenendo conto di un metodo di rilevazione diverso, e di un maggior peso dato alla ristorazione, il quadro è stabile. A collo-care al primo posto la piada era stata la guida del 1931 citando, in mancanza di Artusi che non l’aveva menzionata, Giovanni Pascoli.

I ricettari regionali italiani, destinati alla cucina di casa che in buona parte ignorano la piada, cresceranno sul copus artusiano, arricchen-dolo di piatti destinati alla cucina borghese quindi a menù modulati dalla varietà dei prodotti e dalla eleganza delle preparazioni. Nella