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Cremona #nuovicodici Palazzo Stanga

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Cremona#nuovicodici

Palazzo Stanga

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La verità non ha fretta e aspettasempre silenziosa sorretta dal ricordoMatteo Galbiati

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La verità non ha fretta e aspettasempre silenziosa sorretta dal ricordoMatteo Galbiati

che non condanna al tormento del silenzio enon censura le lacrime con le menzognedisonorando la memoria di uomini, donne ebambini divenuti martiri del nostro tempo.Una verità che cerca un ordine e dà sensoal dolore. Non consola, ma chiarisce i fatticonsegnandoli alla storia.Gaggia ha ascoltato i membridell’Associazione dei Parenti delle Vittimedella Strage di Ustica, ha colloquiato con laloro presidente, la signora Daria Bonfietti, hatrascritto e ripreso le loro testimonianze, iloro ricordi, le loro battaglie, i passi lunghiquasi quattro decenni, per ricomporre ipezzi di una vicenda che ha assorbito le loroenergie, ha modificato il corso delle loroesistenze, ha stravolto una vita checiascuno di loro avrebbe sognato,immaginato e voluto diversa.“Quello che doveva accadere” diventa unafrase, un motto spesso ripetuto negliincontri, quando si parla di quello che èaccaduto e che, nonostante tutto, rendeonore alla loro ragione, al loro pensiero,all’indissolubile desiderio di trovare il perchédi quanto avvenne.Il lavoro di Giovanni Gaggia, con lasensibilità che gli è propria, ci parla dellaforza e dell’energia della vita che attenderisposte. Ogni visitatore può incontrare, findai primi gradini di palazzo Stanga, la vocedi quelle testimonianze. Chi vuole può

ascoltarle, immergendosi isolato, nel fluire diun racconto diffuso da cuffie sospese (inattesa anche loro) a mezz’aria. Parole chealeggiano e fluttuano come quell’aereo chenon è mai atterrato.Gaggia sa che la verità non si urla, non la sidisperde ai quattro venti. Ci suggeriscecome ognuno di noi deve predisporsi adascoltarla: dobbiamo, infatti, accogliereintenzionalmente ciò che ci viene offerto inun tempo esclusivo, senza distrazioni. Unaconfessione che non dobbiamoabbandonare al silenzio, affinché non siannulli il desiderio del pronunciamento dellaverità che agogna. Perché la verità si cerca,non si disperde.La verità ci aspetta sempre silenziosa e,sorretta dal ricordo, rimane viva in attesa delsuo svelamento. Ascoltando non taciamo esaremo sempre pronti a sentirla, ariconoscerla appena si presenterà a noi.Allora lasceremo riposare i morti eabbracceremo sinceramente i vivi.

In un altro tempo, in momenti di altre e piùgravi tragedie che investivano l’umanità nellasua interezza, quando il silenzio e ilnascondimento costringevano come in unamorsa l’esistenza di incolpevoli brandelli diuomini e donne, una ragazzina, nei giorni disegregazione forzata in un rifugio carico disperanza e senza garanzie di salvezza,scriveva nelle pagine del suo diario unafrase destinata, nella sua disincantatasaggezza, a essere senza tempo: “La veritàè tanto più difficile da sentire quanto più alungo la si è taciuta”. L’adolescente eraAnna Frank.Senza dover approfondire in questa sedel’Olocausto della Seconda guerra mondiale,l’aforisma di Anna Frank, fanciulla innocentetravolta dall’orrore dell’odio, si estende nellasua sconcertante e autentica sincerità aogni altro piccolo olocausto che ha segnatoe sconvolto i destini degli uomini nel corsodella storia, calpestando le verità naturali e,con esse, il senso della giustizia. Le tragedienon vanno mai misurate in numero divittime, una o milioni: la morte ingiusta,cagionata dalla mano di altri uomini, restasempre una catastrofe incommensurabile,una sconfitta per l’umanità intera. In ognitempo, in ogni luogo.Il 27 giugno 1980 si consumò l’olocausto diottantuno vittime innocenti, esistenzediverse che hanno trovato l’ineluttabile loro

convergenza in un brandello di marMediterraneo non lontano da Ustica. Unaereo, un Douglas DC-9 della compagniaaerea Itavia, con il suo carico di anime estorie, era in volo da Bologna diretto aPalermo, quando interruppe,improvvisamente, il suo viaggio attorno alle9 di una sera di inizio estate. Losmarrimento, le lacrime e i singhiozzi didolore, il rumore della cronaca, lo sconfortoe, presto, come spesso accade, il postolasciato alle grida di rabbia per una veritàche sembra essersi inabissata con lo stessoaereo. Poi il ricordo, la memoria alimentata,silenziosamente, senza che fosse taciuta,perché il suo ascolto potesse non esseremai difficile.Trentacinque anni dopo si aspetta ancora lacompletezza di una verità tutta da scrivere.Con la sua opera Giovanni Gaggia riporta lanostra attenzione a quei fatti non ricordandoi morti, ma dando voce ai vivi, a coloro iquali, colpiti dalla perdita dei propri cari,hanno trovato la forza di combattere – intaluni casi per una vita intera – inseguendoquella che non deve essere una chimera,ma un bene primario per la giustizia, laverità. Non vendetta, attenzione, i vivi hannosempre voluto, e giustamente preteso, lasemplice verità. Una verità che nonrestituisce comunque chi non c’è più, ma nerispetta, quanto meno, la perdita. Una verità

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Giovanni GaggiaQUELLO CHE DOVEVAACCADERE, 2015particolare del taccuinodal progetto Inventarium,Palermo e BolognaCourtesy Gallera Rossmut,Roma

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“Non chiederci la parola che squadri da ognilato l’animo nostro informe”, scriveva unpoeta all’inizio di un secolo che da pocoabbiamo lasciato alle spalle.Un secolo di grida più che sussurri, unsecolo di rivoluzioni e progetti, utopie edichiarazioni, che ancora risuona erimbomba nelle opere e nei linguaggi degliartisti della nostra generazione.Nella sua radice etimologica “clangori”contiene l’idea dell’urlo bellico, delle armiche stridono in lotta, del canto selvaggio,del silenzio prima della battaglia, dell’urlonon disperato, ma di speranza.“Clangori” ci dice che questo grido nonsoffoca in gola, è ancora da gridare, èappassionato come appassionata è lavolontà dell’artista attuale, senzacompromessi con la sua opera né con ilpubblico.Attraverso le opere di Francesco Arecco,Nadia Galbiati, Laura Renna e MicheleSpanghero – quattro artisti chediversamente ingaggiano un corpo a corpocon la materia, arma a doppio taglio del lororapporto con la storia dell’uomo – “Clangori”indaga questo strepitio persistente, riflettesulla relazione tra tradizione e modernità, tramemoria e innovazione.Usano metalli, usano legni, registrano iltempo, cuciono la perdita, imprimono lamateria, incidono lo spazio, si muovono

come funambolici guerrieri tra il vuoto e ilpieno, squadrandolo a forza di un lavoriooperoso.Rumori, echi, riverberi e silenzi di un fareprocessuale che si esprime in opere di saldaideazione, sicura manualità, consapevolepoesia. Ora è il monologo, ascoltando lavoce del teatro vuoto, che l’azione accada,nel silenzio pieno dell’attesa..Ora sono le sculture possenti e delicate diNadia Galbiati, tentativi di ingabbiare il pesodella storia urbana del XX e XXI secolo,prospettive di un linguaggio da codificareper non perdersi, a colpi di abrasioni,incisioni, lastre e spossamenti.Sono le maglie intessute e intrecciate dalgesto-mano-braccio di Laura Renna,paziente filatrice di un sapere moderno dadisperdere come un mandala di metallichegravità, tra fotografie ricucite instabili, soliimbastiti di maglie e ferrivecchi.O le machinae silentii di Francesco Arecco,intuizioni della plastica potenza del legnonelle sue infinite varianti, creature di unnuovo De rerum natura, dove i versi sono lecose costruite per l’amore del prossimo chesaprà renderle testimoni del proprio vivere.Casse armoniche silenti in omaggio allagrande liuteria cremonese.Possiamo dire che tutti questi lavori sonostati appositamente pensati per lo spazioche li accoglie: così è per Monologue di

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Michele Spanghero, realizzato al TeatroRegio di Parma, tappa di un percorso piùampio che ha visto l’artista accedere aigrandi teatri della storia italiana, custodemoderno dei loro silenzi; così è per le dueopere di Laura Renna, realizzate qualiomaggi al tempo intriso nei muri,aggrovigliato tra le sale e i percorrimenti diPalazzo Stanga; Francesco Arecco ognivolta si confronta con il potere del luogo, inun dialogo di profondo rispetto con la suacultura materiale; e Nadia Galbiati creasculture che sempre sono da ripensarenell’ambiente che le accoglie, eclettichemisurazioni di possibili equilibri tra il qui el’ora, l’altrove e il passato.“Clangori” è allora il grido del presentenell’eco della storia: un grido armonioso cherisuona negli spazi di un palazzo antico,impavido ospite di giovani energie, disperanze non assopite.Chiamati a misurare il nostro tempo e ilnostro spazio, i passi degli artisti, in forma diopere, saranno assordanti.

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Dei clangoriIlaria Bignotti

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Laura RennaHELICHRYSUM, 2015lana di ottone, ferro zincato15 × 160 × 160 cmCourtesy l’artista

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Francesco AreccoOmphalos, 2012pioppo bianco e abete rossodi risonanza90 × 80 × 80 cmCourtesy l’artista

Nadia GalbiatiSpazio costruito, 2013ferro con disegni acidatia morsura, ferro verniciatodi bianco150 × 140 × 150 cmFoto di Alessandro RussottiCourtesy E3 artecontemporanea,Brescia

Michele SpangheroMonologue, 2014video, full HD a colori, 7'02''Courtesy collezione Francescoe Anna Tampieri

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Molto spesso, in occasione di mostrecollettive come quella che si presenta inquesta circostanza, soprattutto se propostein uno spazio pubblico, gli artisti hanno latendenza a esporre opere di “repertorio”che, già pronte, vengono prelevate dai lorostudi o, magari, dalle collezioni di privati egallerie che devono essere accontentatifacendo fare curriculum a un lavoro di loroproprietà, avvantaggiandosi, così, dellaesposizione e della pubblicazione in unsostanzioso catalogo.Gli artisti presentati in questa sezione hannodeciso di lavorare in direzionecompletamente opposta e, senza strategie,hanno pensato e realizzato opere createappositamente per questo luogo, ponendolein relazione con le specificità della stanza aloro assegnata. Fedeli ai loro principi, allospirito e all’anima delle loro ricerche, simettono, per l’ennesima volta, alla provacercando di far convergere e confliggere –per contrasti e analogie, per dissonanze eper corrispondenze – l’esito delle loropoetiche, tradotte in opera, con le energie ele specificità del luogo che le accoglie. Leopere site-specific, che Cesare Galluzzo,Vincenzo Marsiglia, Elena Modorati e GianniMoretti stanno realizzando (in fase di

redazione del presente testo è ancoraprematuro il confronto diretto con lavori incorso di realizzazione e definizione) –saranno un’autentica scoperta e unasorpresa totale per lo sguardo. Sia perquello che avranno proposto, sia per lesinergie e le inattese corrispondenzereciproche innescate dall’accostamento enella lettura incrociata di ciascuna lororealizzazione con le altre esposte accanto,oltre che con la grande stanza centraledell’augusto palazzo cremonese.Sono interventi nati per vivere unadimensione strettamente ambientale,evocando una materia che, secondo laprassi della loro visione, attenua le proprieconsistenze, assottiglia la propriaconcretezza, stravolge e sovverte le propriespecificità. Delicatezza, levità,impermanenza, transitorietà, dissolvenza,leggerezza e temporaneità sono solo alcunedelle caratterizzazioni che il “materiale”assume nella manipolazione che questiartisti attuano. In ciascuno di loro lasostanza prescelta – legno e metallo(Galluzzo), marmo (Marsiglia), cera(Modorati) e plexiglass (Moretti) – verifica evive un equilibrio attento tra l’apparizione ela sparizione, dove la fisicità concreta del

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La delicatezza della materiaMatteo Galbiati

materiale si fa evanescente membrana chesupera e vince la solidità ruvida dell’essere edelle cose, per favorire la delicataemergenza dell’apparizione, perincoraggiare la germinazione di un afflatolirico altrimenti inesprimibile.Nell’individualità di ciascun codiceespressivo, quindi, tutti e quattroconseguono congiuntamente una coraleemancipazione della visione che, dallacontingente prossimità della concretezza,guida lo sguardo e l’attenzione di chiosserva a un superiore livello diintrospezione e di sensibilizzazione.Tutte le opere conservano poi un’azioneagente che, a stento, si chiude e concludecon la loro locazione; ma esse paionotendere a una progressiva e divenientemodificazione che le dilata e le accresce neltempo. Non concluse, si emancipano asuperare ogni vincolo di fisicità e i limiti chequesta impone: scardinano l’immobilismodel loro apparire e, forti di visioni minime edessenziali, si fanno comparse di racconti daampliare, da estendere oltre l’attimo-istantedella contemplazione e dello svelamento.Composte da elementi aggregati ecomponibili – processo condiviso da tutti –riescono a scandire sequenzialità di dialoghi

che si attivano proprio nel rapporto con lospettatore. Avvolgendo il suo sguardo eintegrandolo nella loro fisicità, la loroessenza e il senso non vengono portati acompimento dall’artista, ma sono, in parte,consegnati all’interazione dello sguardoaltrui. L’essenzialità della loro prassi richiamala sensibile curiosità di chi osserva; ogniopera diventa strumento capace diabbreviare istintivamente la distanza, spessoincommensurabile, che sussiste tra oggettoartistico e il suo fruitore.

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Cesare GalluzzoSalire cadere, 2013acciaio, smalto e grafitesu legnoh 120, Ø 150 cmFoto di Alessio BalleriniCourtesy dell’artista

Elena ModoratiQuattro passi, 2007carta giapponese e cera200 × 60 × 2,5 cmCourtesy dell’artista

Gianni MorettiLa morte del prete, 2012stampa fotografica su plexiglas,dimensioni ambientaliCourtesy dell’artista e Km0,Innsbruck

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Vincenzo MarsigliaStar Stone, 2014ardesia incisa, 15 elementi80 x 180 cmFoto Dario Lasagni, Reggio EmiliaCourtesy Boesso Art Gallery,Bolzano e Romberg ArteContemporanea, Latina

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“Due stanze” per due artisti, Pierluca Ceterae Stefania Galegati Shines. Due artisti e duecari amici che ho seguito nella loro carrierae nelle loro vicissitudini da lontano e che, intempi diversi, si sono affacciati al miomondo cinese. Stefania prima e Pierlucasuccessivamente hanno infatti esposto nellospazio magico del BizArt Art Center diShanghai. Dopo tanti anni associareStefania e Pierluca in due stanze attiguesvela la loro comunanza nella pratica dello“spoglio”, ovvero rivelare l’umano-inumanoin una ricerca assidua da parte di entrambiper la casuale profondità umana, che sirivela in Pierluca in una continua ricercapittorica e scultorea e in Stefania in unengagement costante con l’assurdo dellevite umane. Che sia attraverso il gestopittorico o l’uso della telecamera, essi ciportano in un mondo di inaspettate atrocitàe ci richiamano a una partecipazione attiva:anche noi siamo parte di questo mondo dicui ci viene rivelata allo stesso tempo lacomplessità drammatica e la poesia dellasofferenza.In questo progetto, Pierluca Cetera, nei suoidipinti su zinco dalla serie Rimozioni, spogliae decontestualizza i corpi di personaggi noti

come come Amy Winehouse, SilvioBerlusconi o Gabriele D’Annunzio. Questiultimi ci appaiono avvolti da un biancoazzerante e diventano icone innominabili,presentate al pubblico come ritratti dei qualicalamite nere di varie dimensioni necoprono alcune parti. Lo spettatore avrà ilcompito, mediante la ricollocazione dellecalamite, di decidere se svelare o negare lapresenza di questi personaggi, se dare loroun ruolo o cancellarli dalla storia (se nonpubblica almeno personale). Pierluca Ceteragioca con il concetto di rimozione – uno deicardini del pensiero psicoanalitico freudiano– offrendoci la possibilità di attuare un gestodi ricollocazione al di fuori della sferapsichica, aggiungendo un livelloperformativo all’installazione pittorico-scultorea.Il lavoro di Stefania Galegati Shines,Humans, sembra diametralmente opposto.L’artista, che ha raccolto in giro per ilmondo per quattro anni appuntivideoregistrati, non ci pone di fronte a unmonolite iconico ma ci mostra il suo vissutoper condividere uno sguardo, delle storie“too humans” per essere vere. Stefania cipresenta ricordi che ha immortalato con

prontezza in una serie di situazioniquotidiane e ci rivela l’assurdo in luoghi etempi che ci appaiono estranei ma allostesso tempo conosciuti nella loro docilefamiliarità. Matrimoni, riti collettivi, unelefante che cammina per strada… montatiin un teatrino dell’assurdo, una sorta diantologia antropologica, un campionario diumanità scomposta. Anche in questo casoè l’artista che sceglie le immagini chevengono riproposte allo spettatore comesituazioni e ricordi altrui, ma che, nella loroassurda familiarità, possono essere scelte,coccolate o rigettate, in un gioco sospesotra denuncia e accettazione pacifica. Ilgiudizio, ancora una volta, è strettamentepersonale e sarà lo spettatore a deciderne ildestino.

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stan

zeDue stanzeDavide Quadrio

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Stefania Galegati ShinesHumans, 2009videoCourtesy Galleria FrancescoPantaleone, Palermo /pinksummer contemporary art,Genova

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Pieruca CeteraIl piacere, da Rimozioni, 2014olio e calamita su zinco25 × 20 cm

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“A woman must have money and a room of her

own if she is to write fiction”, scrive in maniera

brillante e personale Virginia Woolf nel noto saggio

del 1929 A Room of One’s Own. Una stanza tutta

per sé, dunque, come possibilità di accettazione

da parte di un entourage culturale di stampo

fortemente patriarcale, come simbolo di

liberazione del pensiero femminile. L’ambiente è,

insieme alla necessità del denaro, l’unica struttura

materiale utile alla creazione. Riproporre il tema

più di ottantacinque anni dopo diventa naturale

quando ci si sofferma sul concetto di spazio e

quando si riflette su tutto ciò che negli anni è

accaduto e potrà accadere, indagando attraverso

l’arte di quattro performer donne che

interagiscono e condividono una stanza

metaforica e reale. Le quattro performance di A

Room of Her Own, intimiste e poetiche,

incontrano l’altro, accompagnandoci verso una

riflessione sulle tematiche principali della

questione femminile nella società contemporanea

e al dibattito attuale su di essa. Tra soffitti

affrescati e decorazioni ottocentesche che ci

riportano all’epoca di Virginia, le artiste trovano il

loro spazio per creare e incontrarsi con il

pubblico, senza distinzioni di sorta, nel palazzo

che, proprio nel 1929, fu donato alla società

cremonese dal marchese Ferdinando Stanga.

Francesca Romana Pinzari in All of Me ascolta i

segreti di chi vuole liberarsi di ciò che tace e cela:

invitando gli spettatori ad avvicinarsi a lei, li

accoglie bendata e scrive ciò che ascolta senza

dare un volto a chi sussurra al suo orecchio

confidenze fatte in maniera anonima, senza sensi

di colpa né paure. Mi chiamo Rita, ballo, canto,

scrivo versi in notturna è il titolo della performance

di Rita Vitali Rosati che presenta se stessa

dichiarando una volontà di espressione; Rita, nei

panni del suo alter ego Lady R, scrive poesie e

invita il pubblico a leggerle ad alta voce all’unisono

a un segno convenzionale, creando così armonia

e dissonanza allo stesso tempo. Mandra Cerrone

costruisce la sua Silent Family rendendo visibile

quella complessa architettura interna costituita

dalle persone, vive e morte, che compongono la

famiglia; ci chiede di interrogarci sulla qualità dei

legami rappresentati usando l’arte come

strumento di conoscenza per indagare l’influenza

del nucleo familiare su ognuno di noi. Mona Lisa

Tina, infine, in Per la tua carne, attende, in uno

spazio intimo e poco illuminato, il pubblico con ai

piedi contenitori in vetro che accolgono oggetti

simbolici. Ogni partecipante riceverà in dono un

oggetto che l’artista sceglierà a seconda della

comunicazione empatica che si verrà a creare in

quel momento, e che andrà poi a formare una

spirale, opera collettiva del pubblico presente. I

resti e le tracce delle performance presentate,

fogli, abiti, vasetti e nastri, installati nell’ambiente

fortemente caratterizzato ed evocativo, lasceranno

l’impronta tangibile di una creazione che parte dal

microcosmo femminile per giungere a

un’universale condivisione.

#aroom

ofhe

rown

A Room of Her OwnMilena Becci e Valeria Carnevali

Mandra CerroneSilent Family – La famigliadi Stella, 2014performance nel parco SpazioTra Le Volte, Roma

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Francesca Romana PinzariAll of Me, 2015performanceFoto di Matteo Basilé

Rita Vitali RosatiLady R, 2004performance

Mona Lisa TinaPer la tua carne, 2015performanceFoto di Nedo Zanolini

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Il progetto “Beyond Boundaries” riflettesullo sconfinamento di tecniche e strumentiespressivi peculiare della nostrapostmodernità.La diversità e varietà dei supporti e deimedia utilizzati – al di là delle tradizionaliforme pittoriche, scultoree, fotografichee video – ha permesso alle poetiche degliartisti non solo di sperimentare linguagginuovi, ma anche di allargare i confini tradiscipline e tecniche diverse, le cui frontiereappaiono ormai sempre più labili impedendouna precisa definizione di genere.Il ritorno al linguaggio della pittura,auspicato alla fine del secondo millennio,è diventato il trampolino di lancio per ilribaltamento all’interno di una dimensionematerica tridimensionale (Giacomo Cossio)oppure ha attivato nuove modalità plasticheper costruire bassorilievi scultorei eoggettuali (Paolo Ceribelli); il procedimentofotografico diventa modalità per esplorareinediti processi performativi (GiulioCassanelli), le nuove tecnologie sonostrumento per la scoperta di meccanismicinetici e dinamici (Alessandro Brighetti).Lo sconfinamento dei linguaggi portainevitabilmente allo sconfinamento nellospazio espositivo: l’opera si dissemina,

si divide, si frammenta, si suddivide in piùelementi, tutti funzionali allo sviluppoconcettuale del lavoro. L’attraversamentodei confini spazio-temporali diventa modalitàoperativa per superare i confini geografici,fisici e mentali. Anche i temi indagati dalleultime generazioni di artisti spaziano neicampi più diversi: dall’analisi introspettivaed esperienziale (Giulio Cassanelli) alconfronto con la realtà esterna e il mondocircostante (Giacomo Cossio), dallarappresentazione della propria identità edi quella seriale (Paolo Ceribelli) all’analisi dimodelli relazionali in rapporto con altri campiscientifici (Alessandro Brighetti).Oltrepassare ogni limite significa nonaccontentarsi di ciò che già si possiede,si vede e si sperimenta ogni giorno,superare le proprie paure e convenzioniper intraprendere nuove sfide creativee ideare nuovi codici formali oltre quelligià definiti e catalogati.La fluidità e la labilità dei confini diventanoil tramite espressivo per raccontarel’incertezza e l’instabilità del mondo odierno.Dal materico all’effimero, dal meccanicoal virtuale, la realtà si contaminacon l’immaginazione, dando vita a mondivisionari e psichedelici.

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Beyond BoundariesChiara Canali

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Alla pagina precedenteAlessandro BrighettiDafne, 2013tecnica mista e ferro fluido,35 × 30 × 172 cm

Giulio CassanelliPink, 2015bolla di sapone su cartafotografica, 100 × 100 cmCourtesy Labs Gallery, Bologna

Giacomo CossioQuasi un quadro, 2012polimaterico su tavola,104 × 300 × 33 cmcollezione privata

Paolo CeribelliTarget (particolare), 2015soldatini di plastica su tela,145 × 145 cm

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“Introspezioni” è una mostra che,coinvolgendo quattro artisti italiani,approfondisce il legame tra l’uomo e i suoipensieri più reconditi. Partendo dalpresupposto che da sempre l’arte ha avutoil compito di registrare i cambiamenti sociali,geografici e politici, con questo progettos’intende guardare meno all’universale e piùal particolare, scegliendo di fatto di indagarequali siano gli stimoli che scatenano il gestocreativo a partire da un’analisi più profondadi sé, per guardare al mondo esterno conmaggiore coscienza.Aron Demetz è presente con l’opera Testapiccola, una delle sue tipiche sculturericavate scavando un tronco, in questo casodi noce, dal quale emerge la fisionomia diun volto certamente umano. Le rotonditàche vengono a delinearsi sono irrorate daun sottile strato di resina – sempre di originenaturale – che crea un confine visivo con lasuperficie del basamento, ma soprattuttomette in evidenza un vissuto emozionaleche porta necessariamente l’osservatore ainterrogarsi sull’intimità dell’atto creativo,sulla profondità dell’animo umano, andandooltre l’aspetto esteriore e riflettendo sullapropria condizione esistenziale.Massimiliano Pelletti è artista amante dellepotenzialità della dialettica, minuziosoricercatore di assemblaggi eterogenei,ironico compositore. Broken Youth è unaclassica scultura di un putto sulla qualel’artista è intervenuto con ossidazioni in ferroche le donano un aspetto antiquato. Unosquarcio sul volto distrugge quelladimensione di purezza e bellezza che siaddice tipicamente ai putti; ciò che interessal’artista è andare oltre il dato estetico,

invitando di fatto a squarciare il velo di Mayache limita la comprensione e che bloccaogni attenta considerazione su se stessi.Corre in direzione opposta la ricerca diMichelangelo Galliani, artista che predilige ilmarmo, le linee delicate, l’armoniacompositiva. L’opera Io e te si compone didue metà dello stesso intero (Yin e Yang) einduce a meditare sul concetto di mascheratramite il quale l’artista evidenzia la crisi diidentità dell’uomo e la sua conseguentecostante ricerca di questa e di un senso perla sua esistenza. Galliani pone all’attenzionedello spettatore le due facce della stessamedaglia: da una parte un volto in marmonero che, icona della maschera, presentaun’identità mutevole e di fatto polisemica;dall’altra il calco indorato del volto stesso,metafora della grandezza del nostro Io piùremoto.Unico artista a indagare il mezzo pittorico,Luca Moscariello è un narratore di storiefantastiche, accumulatore seriale di figure eoggetti; invade la tavola con composizionistravaganti che dichiaratamente mettono inscena ricordi personali, passati attraverso ilfiltro di un’immaginazione senza confini. Uncontinuo flusso di coscienza spronaMoscariello a riversare sul supporto unasmisurata quantità di pensieri che ècertamente frutto di un’incontrollata volontàdi sintesi, e per tale ragione avverte lanecessità di attingere dalle esperienzepuerili, laddove risiedono le fondamentadella nostra essenza.

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ezioni

IntrospezioniNiccolò Bonechi

Luca MoscarielloAprès, 2015tecnica mista su tavola,200 × 150 cmCourtesy Bonioni Arte,Reggio Emila

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Aron DemetzTesta piccola, 2010legno di noce e resina di pino,altezza 30 cmCourtesy Alessandro CasciaroArt Gallery, Bolzano

Michelangelo GallianiIo e te, 2014marmo nero Marquinia,foglia d’oro e teca in cristallo,160 × 45 × 45 cmcon basamentoCourtesy Galleria GiovanniBonelli, Milano

Massimiliano PellettiBroken Youth (particolare), 2015terracotta nera patinata conossidi di ferro, 60 × 40 × 30 cmCourtesy Galleria Poggialie Forconi, Firenze

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invasivi costringevano gli abitanti di LaHavana a sospendere ogni attività e lasciaretemporaneamente le proprie abitazioni, chevenivano invase dal fumo insetticida,creando scenari surreali. Hernàndez hacolto questi momenti di abbandono eassenza e, ironizzando su chi fosserealmente il “nemico”, ha messo in mostraquelli che sembrano effettivamente teatri dibattaglia, con un risultato estremamenteraffinato, intensamente poetico.Altrettanto intenso il lavoro di Andrea Botto,e stratificato. Il suo libro racconta il viaggiodi ritorno del nonno nel 1945 dai campi diprigionia tedeschi in Toscana attraversoriproduzioni di documenti personali e dicentinaia di fotografie relative al periodo e ailuoghi del viaggio raccolte da internet. Conun’operazione al contempo intima euniversale, Botto ricostruisce non solo unastoria individuale, ma un contesto, unamemoria collettiva, proponendo un nuovoimmaginario del conflitto su un doppioregistro, reale e virtuale.

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Andrea Botto, Claudia Gambadoro, RicardoMiguel Hernàndez e Piero Roi sono “nuovitopografi” contemporanei che traccianonuove (inedite) geografie del conflittualerapporto tra l’uomo e il territorio. L’elementodominante nelle quattro opere esposte èuna “terra desolata” (e anche sprecata,devastata, abbandonata, volendo coglieretutte le sfumature del termine waste),risultato di un agire umano che assumeconnotati politici ed economici dagli effettidrammatici e spesso irreversibili. Tali azioni ele loro conseguenze sono in queste opere lospunto per quattro racconti personali.Piero Roi, che ha eletto il paesaggio scarnoe ruvido ad ambientazione ideale dei suoinotturni onirici, nella serie Control insinua unnuovo livello di lettura. L’impatto visivo diquesto paesaggio quasi alieno èulteriormente perturbato dall’idea che l’areapossa essere stata rasa al suolo per scopiedilizi e poi abbandonata, in un attodeliberatamente predatorio e distruttivo.L’artista, durante la lunghissima esposizione,si muove nel deserto con una fonteluminosa, unica ed effimera traccia di vitapossibile.Un senso di abbandono pervade anche

Finis terrae #1 di Claudia Gambadoro, cheritrae la costa di un’isola dell’arcipelago diChiloé, a largo del Cile. L’artista ha indagatoe documentato il rapporto degli indigeni conil loro territorio. Un luogo talmente isolatoche nemmeno i conquistadores o lemissioni cristiane vi sostavano a lungo:questo da una parte ha consentito losviluppo di un autonomo, arcaicosincretismo, dall’altra ha generato unperenne isolamento, turbato talvolta datentativi di sfruttamento economico. Unterritorio in cui la natura ha ancora ilsopravvento, dove la marea si alza di sette-otto metri, dove si trovano solo casette,chiese e cimiteri, e governato da credenze eleggende e da un senso di appartenenzafortissimo. “Nunca he sabido, nunca heconocido” è la testimonianza della signoraMaria, novant’anni, mai andata sullaterraferma e felice di ogni giorno vissuto,nonostante tutto.Il racconto di Ricardo Miguel Hernàndez è lasua personale visione di un fatto di cronacadel 2006, quando il governo cubano lanciòuna campagna di fumigazioni per prevenireepidemie di influenza dengue battezzata“battaglia contro il nemico”. Questi interventi

#the

was

teland

The Waste LandGiovanna Giannini Guazzugli

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Andrea Botto19.06_26.08.1945Libro d’artista, Danilo MontanariEditore, Ravenna 2014

Claudia GambadoroFinis Terrae #1 (Nunca hesabido, nunca he conocido),2010stampa cotone su dibond,misure?

Ricardo Miguel HernàndezVivendo con il nemico, 2006stampa da pellicola montatasu alluminio, 60 × 100 cmCourtesy Gallera Rossmut,Roma

Alle pagine seguentiPiero RoiControl, 2015stampa giclée (edizione 1/3)misure?

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simulacro del pixel. La crasi intelligibilecombina il dato esistente (il lego) con quelloche invece nella realtà non esiste (il pixel)avvicinando in questo modo il dipoloattraverso il principio della somiglianza (diforma e colore) e della relazione.Gianluca Rossitto lavora esplicitamente sulladecodifica del quadro come metaforadiegetica della dissoluzione dellaconoscenza. L’escamotage è quello dellasfocatura di “icone” della storia dell’arte che,pur perdendo la definizione ontologica,restano ben riconoscibili in quanto(potenzialmente) già fissate nell’immaginariocollettivo. La perdita della compattezzaiconografica viene tonicizzata daun’integrazione quasi ideogrammatica dimacropixel che assorbono particolaridell’immagine in una sorta di incoercibileesploso.Salvo Ligama, pleonastico nella pixelcraziadi una superficie completamentedefocalizzata, dalla totalità di un sinolopittorico concentra l’attenzione su dettaglidipinti nella più prossima intenzione icasticacompiendo un delicatissimo equilibrio tra gliopposti di macro-micro che coabitanol’opera.

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Il “codice” è per definizione un sistema diinformazioni, sia esso una miniaturamedievale o un binario su cui far scorreredati informatici da una parte all’altra delpianeta. Il codice, come insieme di segni, èun veicolo di espressione e contenuti chemuta se stesso nel contesto e nel tempo.Quali allora i #nuovicodici?L’indagine, che vede protagonisti gli artistiSalvo Ligama, Gianluca Rossitto e Zino,parte da un approccio tecnomorfico dianalisi del presente e mette in luce gli effettidel paradigma digitale sulla percezione esulla produzione artistica contemporaneache si appropria del pixel facendone l’unitàdi misura. Senza focalizzare l’assuntopoietico sul mezzo elettronico, èinteressante notare da un punto di vistacritico, e con le relative correlazioniepistemologiche, la fenomenologia di unfare creativo che fa leva consapevolmentesulla tecnica digitale, imitandola, con unprocesso cognitivo-creativo che rilancia ilprincipio di finzione attraverso la convivenzacon il principio di realtà.Essere propriamente (ma soloapparentemente) nell’ambito informatico –dato che il pixel si riferisce al PICtureELement di matrice elettronica – non deve

trarre nell’inganno di pensare che il “nuovocodice” sia inteso come l’adoperarsi nellaproduzione artistica con nuovi mezzi, ovveroi dispositivi digitali; infatti non si tratta divalutare la virtualità di una realtà primaimmaginata e poi trasposta nell’opera enemmeno di godere di unarappresentazione simulata offerta alfenomenico oggetto della conoscenzasensibile. Si tratta di comprendere che ilpixel come entità minima, indivisibile eautonoma regge tutt’ora e benissimo laderivazione strutturalista con unaconsapevolezza ulteriore rispetto a unapproccio relazionale del noumeno.Costruzione, decostruzione, frantumazionee distribuzione, dispersione e contrazionenell’immagine stessa degli elementi (allostesso tempo) essenziali e differenziali checostituiscono il tutto unitario permettono,nella determinazione reciproca deglielementi, lo sviluppo di un’entropia dalsapore solubile.La poetica di Zino, per esempio, si allontanadella dimensione supplementare della realtàin un gioco di anabasi poietica che penetral’immagine in profondità per far emergereporzioni della stessa ingrandite attraversol’uso del mattoncino lego che diventa

#pixelag

ePixelAgeAlice Zannoni

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Gianluca RossittoChromatic Algorithms.Madonna, 2015stampa a pigmenti su carta70 × 50 cm

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Salvo LigamaLa resa dei conti, 2015acrilico e tempera su cartone72 × 140 cm

ZinoModern symphony, 2015carta, legno, cuffie e lego50 × 60 × 40 cm

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sviluppa da una profonda riflessione sulconcetto e sul valore della comunicazione.Lo strumento video, in particolare, con lasua capacità di essere sospeso tra realtà efinzione, tra presa diretta e costruzionescenica, tra girato puro e semplice eimmagine trattata, diventa il campo d’azionedi una poetica che mira a destrutturare illinguaggio per comprenderneprofondamente i significati. Lo stessoSguardo in camera, video della collana/Spectrum/, parte dall’errore tecnicodell’attore che guarda in macchina durantela ripresa per dare vita a una serie diconnessioni tra diversi elementi narrativisolitamente estranei tra loro. L’opera diAlessandro Fonte And Then They Leftindaga invece la dimensione domestica nellaquotidianità, le dinamiche di rapporti chestanno alla base delle nostre relazioni. Lasedia, il bastone, il fuoco diventano elementiminimi di un universo simbolico fatto dinessi e analogie che non raccontano maevocano un “accaduto” sconosciuto.

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L’opera d’arte rappresenta uno straordinariospecchio della realtà che ci circonda, unafinestra sul mondo attraverso cui l’artistafiltra le dinamiche sociali, storiche epsicologiche dell’ambiente in cui vive. Inun’epoca come la nostra, in cui qualsiasicosa invecchia alla velocità della luce,l’opera di un artista “impegnato” sitrasforma in un dispositivo di lettura dellacontemporaneità che non appartiene più almondo lontano delle idee ma interseca larealtà delle cose, in cui in un tempo e unospazio accuratamente definiti l’artistapropone – o impone a seconda dei casi –una rigorosa riflessione. Con EcumeneRocco Dubbini attualizza l’antica tradizionecartografica. Una serie di sfere con diverserappresentazioni della terra in differentiepoche storiche racconta i diversi stadi diconsapevolezza dell’uomo rispetto alleforme del nostro pianeta, partendo daimostri del mito fino ad arrivare allacartografia come la intendiamo oggi. Unmondo in evoluzione grazie alla sete diconoscenza e allo spirito pionieristico che

l’artista rappresenta su due elmetti militaricontrapposti a formare una sfera.Qui l’elmetto, icona della sete di potere manel contempo simbolo di protezione, mettein atto un cortocircuito che sottendel’evoluzione stessa del sapere rappresentatoin questo caso da Ecumene 03 che riportauna carta di Gerardo Mercatore. Lariflessione storica di Dubbini si trasforma inThe Last Train di Damir Nikšic in un discorsosociale in cui globalizzazione e potereinvestono l’ambito economico e i concetti diingiustizia e disuguaglianza. L’artista stessodirige il rumore ossessivo di un trenolanciato in una corsa folle. Il fischio datodallo sfiato del vapore e il clangore ritmicodelle ruote di metallo sulle rotaie riportanoalla mente gli elementi fondanti dellarivoluzione industriale. “L’ultimo treno” ècondotto dalla dittatura di un Occidentetotalitarista – nell’interpretazione dell’artista –che affama il mondo con la falsa promessadi un progresso che sempre e comunque ègoduto soltanto da pochi.L’indagine sociale di canecapovolto si

#artisso

cial

Art is SocialStefano Verri

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Damir NikšicThe Last Train, 2015QuickTime movie, 8' 34'',1280 × 720

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Rocco DubbiniEcumene 03”, 2013-2014smalto acrilico su acciaiobalisticoØ 35 cmCollezione dell’artista

Alessandro FonteIl midollo del fuoco conserva laforma del nostro avanzare, 2015installazione, combustione su legno(bozzetto)

canecapovoltoLo sguardo in camera, 2015video HD, 10' 17''