Coworking ed economia collaborativa n°1

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Ciclo di incontri e seminari, ad ingresso libero, presso “Millepiani”, via Nicolò Odero 13, Roma sectio COMUNICAZIONE VISIVA COWORKING ED ECONOMIA COLLABORATIVA dalla competizione alla condivisione con il contributo La società, il business e l’economia collaborativa: modelli e scenari [venerdì 16 maggio] Fablab e le palestre dell’innovazione: le nuove frontiere delle professioni e dell’artigianato [venerdì 30 maggio] Coworking e spazi pubblici: la rigenerazione urbana [venerdì 13 giugno] [ Newsletter 1 del 28 aprile 2014 ]

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Una serie di incontri e seminari pensati per approfondire il fenomeno del lavoro condiviso e dell’economia collaborativa. La società, il business e l'economia collaborativa: modelli e scenari.

Transcript of Coworking ed economia collaborativa n°1

Ciclo di incontri e seminari, ad ingressolibero, presso “Millepiani”, via NicolòOdero 13, Roma

sectioCOMUNICAZIONE VISIVA

COWORKING ED ECONOMIA COLLABORATIVA

dalla competizione alla condivisione

con il contributo

• La società, il business e l’economia collaborativa: modellie scenari [venerdì 16 maggio]

• Fablab e le palestre dell’innovazione: le nuove frontieredelle professioni e dell’artigianato [venerdì 30 maggio]

• Coworking e spazi pubblici: la rigenerazione urbana [venerdì 13 giugno]

[ Newsletter 1 del 28 aprile 2014 ]

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con il contributo

2 I Coworking ed economia collaborativa

La società, il business e l'economia collaborativa: modelli e scenari

[Simone Cicero] OuiShare – Connecting the Collaborative Economy

Un seminario che illustra le nuove forme di scambio e cooperazione sociale, attivate sia a livello localesia internazionale. L’economia collaborativa fatta di partecipazione e di condivisione come risorsaper creare valore, per superare un modello produttivo fondato sull’individualismo, sul possesso

esclusivo dei saperi e delle risorse.

Fablab e le palestre dell’innovazione: le nuove frontiere delle professioni e dell’artigianato

[Marco Contini] Open Hub[Maria Fermanelli] CNA nazionale [Alfonso Molina] Fondazione Mondo Digitale [Fabio Mongelli] direttore Rufa - Rome Academy of Fine Arts[Tommaso Spagnoli] SPQRWork[Stephen Trueman] direttore Sapienza Innovazione[Leonardo Zaccone] Roma Makers, FabLab Garbatella

Università, scuole, artigiani tradizionali e digitali, professionisti e imprese insieme per sperimentalele nuove forme dell’apprendimento e della produzione creativa, tra innovazione tecnologica, socialee civica.

Coworking e spazi pubblici: la rigenerazione urbana

[Andrea Catarci] pres. VIII Municipio[Carlo Infante] Stati Generali dell’innovazione[Marta Leonori] assessore alle Attività Produttive Roma Capitale[Paolo Masini] assessore alle Periferie Roma Capitale[Enrico Parisio] Millepiani[Andrea Santoro] pres. IX Municipio[Tommaso Spagnoli] SPQRWork[Carmelo Ursino] commissario straordinario LazioAdisu

Il riuso degli spazi pubblici urbani inutilizzati come sfida per le pubbliche amministrazioni in tema dilavoro, di sviluppo, di coesione civile.

venerdì 16 maggio 2014

ore 17,00 Millepiani,

via Nicolò Odero 13 Roma

venerdì 30 maggio 2014

ore 17,00 Millepiani,

via Nicolò Odero 13 Roma

venerdì 13 giugno 2014

ore 17,00 Millepiani,

via Nicolò Odero 13 Roma

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dalla competizione alla condivisione I 3

La dissoluzione delle certezze

L’economista inglese Thomas Malthus rimise mano per ben seivolte, con altrettante edizioni, al suo noto Saggio sul principio

della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società

(1798), che non poca influenza avrebbe avuto sull’evoluzione (e sull’in-voluzione) delle società moderne. Si potrebbe tentare, alla luce dell’at-tuale fase di crescita degli squilibri ormai globali, di rimetterciulteriormente mano - togliendoci un bel po’ di polvere – per compierneun’analisi critica adeguata ai tempi. Distillandone temi indubbiamenteinnovativi per l’epoca, come la questione dall’incremento demografico(il libro determinò di fatto la nascita dei censimenti), ma anche le noteaberrazioni, come le teorie sull’imposizione della denatalità o l’assurdademonizzazione della carità quale incentivo all’aumento di popolazione.Del resto queste pagine, imbevute di “difesa della conservazione”,hanno fornito a tanti poteri costituiti la migliore base scientifica per cu-stodire l’ordine stabilito, quello che Malthus definiva “l’amore di sé”,non mancando di farlo anche in modo spregiudicato, si pensi ai colo-nialismi (e ai neocoloniali-smi), allo sfruttamentodissennato delle risorse natu-rali o ai poteri finanziari. Eccoperché una rilettura risultaparticolarmente istruttiva.Ma se l’analisi dell’economi-sta britannico era limitata dauna scienza demografica an-cora embrionale – non a casoaffermava che le bocche simoltiplicano geometrica-mente e il cibo solo aritmeti-camente, non tenendo contodelle variabili relative all’intervento umano e ai naturali autoregolatoridi cui la Terra dispone – oggi è proprio la “nuova” questione demogra-fica, con i suoi squilibri crescenti tra i continenti (anche nelle proiezionifuture), a rappresentare il più impervio banco di prova per le economiemondiali. Per paradosso è proprio la globalizzazione ad accentuare i conflitti,anche numerici, tra le varie aree del mondo. Così come, in fondo, sonoproprio le propulsioni egemoniche e omologanti dell’Europa a 28, so-prattutto sul fronte economico e monetario, ad alimentare le crescentispinte contrapposte dei localismi e dei nazionalismi.Insomma, appare chiaro come – nonostante le alchimie delle manovreeconomiche (tipo, in Italia, i “travasi” di filigrana tra cartelle delle im-poste e buste paga ideati dalla coppia Renzi & Padoan) - si stia sgreto-

lando quel sistema di “difesa adoltranza” dei privilegi produttivi,sociali, occupazionali e previden-ziali costruiti soprattutto dal do-poguerra da una parteminoritaria del mondo. L’appa-rato di “verità”, edificato quasisempre in modo cinico e indivi-dualista, cioè, ad esempio, non te-nendo conto delle disuguaglianzesociali (anche tra i diversi conti-nenti), dei beni comuni, del ri-spetto ambientale o dellegenerazioni future, crolla ancheper l’inevitabile distorsione delleteorie maltusiane, che stanno ac-centuando la dissoluzione dellecertezze: l’estensione del modellocapitalista ai “mondi nuovi”, infortissima crescita demografica,dà rilievo ai problemi globali (si

pensi alle fontienergetiche oa l l ’ i n q u i n a -mento), mentrel ’ accentua tadecrescita deltasso di nata-lità – compen-sata solo inparte dai feno-meni migratori- sta accompa-gnando soprat-tutto la crisi

dell’Occidente industrializzato inuna spirale sconfinata.La strada dell’economia collabo-rativa può costituire una risposta“aggiornata” - per quanto flebilema emblematica e significativa -alle teorie malthusiane. E neo-malthusiane.

[giampiero castellotti]

[John Vanderlyn (1775–1852)“Landing of Columbus”]

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4 I Coworking ed economia collaborativa

Lo Stato dell’arte

L’economia collaborativa non nasce per caso, allorquando le forze produttive scoprono la propria propensione a collaborare piuttosto che competere, ma nel momento specifico in cui “i territori” entrano in crisi, sia a livello produttivo sia identitario.

La “via italiana al capitalismo”, o per dirla con Aldo Bonomi al “ca-pitalismo molecolare”, è duramente segnata dalla crisi che ha col-pito le economie occidentali da un decennio a questa parte. Nel

2012 nel nostro Paese hanno chiuso i battenti mille imprese al giorno.Il “capitalismo molecolare”, che è stata una risposta tutta italiana allacrisi della grande industria fordista, si è sviluppato nel nostro Paesedagli anni Novanta, il periodo glorioso del cosiddetto “made in Italy”.L’organizzazione della forza lavoro, che vedeva nella precedente sta-gione il reclutamento in forma indifferenziata rispetto al territorio diprovenienza del cosiddetto “operaio massa” (l’esodo dei braccianti me-ridionali nelle grandi città del nord negli anni Cinquanta e Sessanta),vede invece, sulla crisi della “grande fabbrica”, la messa a valore dellerisorse territoriali, il cosiddetto “capitale sociale”.In estrema sintesi, il modello produttivo era così organizzato: media im-presa con sbocchi di mercato internazionali che esternalizza le funzioni(servizi e produzione) verso piccole o micro aziende del territorio, cre-ando i famosi “distretti industriali”. Un sistema flessibile di produzione,in grado di adattarsi alle turbolenze della domanda e a predisporre unaproduzione di nicchia ad alto contenuto immateriale.È l’Italia dei capannoni e della riscoperta dell’identità locale (la Padania,il “miracolo” del Nordest), come valore da contrapporre alle rivendica-zioni universalistiche del movimento operaio.Questo “sistema” vede interessato (sommariamente): il nord Italia orfanodella “grande fabbrica”, le “comunità operose” dell’Emilia Ro-magna, parte dell’Italia centrale (Toscana/Umbria/Marche).Il sud Italia ha visto invece dispiegarsi e declinare l’ultimaparabola del fordismo: da Melfi a Pomigliano fino a Taranto,i simboli dell’industria (automobile, acciaio, chimico e petrol-chimico) lasciano il semideserto che tutt’oggi vediamo. Le po-litiche dello “sviluppo indotto” (insediamenti industrialifavoriti dalla Cassa del Mezzogiorno) non hanno favoritoquello “sviluppo a valle” con il sistema produttivo locale.Il “capitalismo molecolare” oggi non esiste più, intendendocon questo termine quell’organizzazione produttiva che vedeil territorio di appartenenza come spazio sia produttivo sia identitario.L’economia collaborativa nasce su queste ceneri.

[Enrico Parisio]

Allorquando gli interlocutori tra-dizionali delle microimprese edei lavoratori autonomi vengonomeno (enti locali e medie im-prese), assistiamo al nascere dinuovi modelli produttivi, fondatisulla condivisione delle risorse,dei saperi, dei mezzi di produ-zione, degli spazi fisici di lavoro.Ma il fenomeno non è italiano. Ilmovimento dei makers nascenegli Stati Uniti ed è un feno-meno mondiale. Il concetto di bigsociety ha il suo centro in GranBretagna, le reti di economia col-laborativa prendono piede par-tendo dal nord Europa. L’Italiaha però nel suo dna la più altapercentuale di lavoratori auto-nomi in Europa, un movimentocooperativo forte e radicato a li-vello territoriale, un significativonumero di operatori nel terzosettore. L’Italia è quindi un ter-reno fertile per lo sviluppo diquesto tipo di innovazione cheancor prima di essere un’innova-zione produttiva, è un’innova-zione sociale.Sarà compito della politica ac-compagnare il nostro Paese versol’Europa e il mondo intero, sem-pre che sappia comprendere taleopportunità.

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Seicento milioni (e altri 3 motivi) che faranno della condivisione il futuro dell’economia

Da un pezzo si cerca di capire meglio cosa significhi“economia collaborativa” (aka sharing economy o“condivisione dei beni”). Decisamente troppe e

troppo diverse sono le interpretazioni possibili, troppa è lastoria che c’è dietro a questo modo di vedere le cose, attra-verso la lente della collaborazione e della condivisione.Se ci soffermiamo a pensare alla storia recente, l’approcciocollaborativo e cooperativo, in contrapposizione con quelloprivatistico, è una tendenza consolidata nella società sia mo-derna che storica. Pur tralasciando la abbastanza conosciutastoria del movimento cooperativo (molto lunga e forte in Ita-lia) e soffermandoci a guardare come questi concetti hanno preso formanel mondo digitale, possiamo dire che l’idea di costruire infrastrutturecondivise di conoscenza (come Wikipedia), o piattaforme abilitanti con-divise (come il software libero) non è affatto nuova.Gli antenati “digitali” del modello, sono nati alla fine degli anni Settanta,prima che internet pervadesse ogni cosa, proprio quando essa in effetti,muoveva i primi passi. Fu allora che Richard Stallman propose per la prima volta un approcciocooperativo e aperto alla produzione del software. Dopo decenni, il dibattito sul software libero infuria ancora, alimentatodalle recenti notizie riguardanti lo spionaggio e il controllo statale negliUsa.Dobbiamo dire che anche una riflessione generale sui beni comuni e sulloro ruolo nella società è da considerarsi piuttosto matura se si valuta ilcontributo e il lavoro di persone come il premio Nobel Elinor Ostrom,che ha dedicato la sua vita a dimostrare che la cosiddetta “tragedia deibeni comuni” – il principio per cui i beni comuni soccombono agli inte-ressi privatistici dei singoli – non è sempre vera e che le comunità pos-sono rispettare e curare i loro beni comuni. E come non citare il lavorodi Yochai Benkler sui beni comuni digitali e il loro ruolo abilitante allaproduzione collaborativa sulla rete, o l’incredibile apporto del fondatoredella P2P Foundation e sostenitore di lungo termine dei Commons, Mi-

chel Bauwens nel comprendere e studiare queste dinamiche.Proprio Michel, e questo può essere posto a testimonianza di quanto po-tenzialmente importante possa diventare la visione cooperativa e colla-borativa nella società, è oggi direttore di ricerca di Flok society. Si trattadi un progetto strategico lanciato dal governo ecuadoriano con il dichia-

[Simone CIcero]

BIO/CICERO

Simone Cicero, formazioneall’università di Tor Ver-gata a Roma e al Politec-

nico di Milano, è un designer estrategist di prodotto e servizio,interessato a co-design, designthinking, ecosistemi digitali e in-

novazione.E’ tra i mas-simi e spertiitaliani die c o n o m i acol labora-tiva, opensource, mar-k e t p l a c e sP2P digitali,e open inno-

vation.Esperienze professionali in Al-tran e Innovia Tech spa, prati-cante Lean e Agile con esperienzedi adattamento di Scrum e altremetodologie in contesti non-soft-ware centric, è chiamato spesso agestire workshops per la crea-zione di strategie, per la progetta-zione di prodotti e servizi e peraltri obiettivi. E' co-fondatore dello think tankHopen (hopen.it), che fa parte diOuiShare.Blogger e speaker, ha pubblicatotesti su Repubblica, Domus, LesEchos, Ouishare media, Sharea-ble, The Alpine Review.

rato obiettivo di “cambiare la ma-trice produttiva verso la creazionedi una società basata sulla cono-scenza comune, libera e aperta” inlinea con il suo piano nazionaleper il buon vivere.

Solo roba da startupper?Così è importante oggi per noicomprendere che dietro il terminesharing economy non c’è solo l’en-nesimo mercato per venture capital

e startup. Certamente i VC di SanFrancisco e New York oggi sonopadroni della scena e per spiegarequanto questa componente sia im-portante nel movimento basta pen-sare che qualche mese fa, ha creatola sua stessa struttura di lobby,Peers.org.Per chi non la conoscesse ancora,Peers.org si dichiara “un’organiz-zazione guidata dai membri chesupporta il movimento della sha-

ring economy”, ma la scarsa traspa-renza e la scarsa disponibilità achiarire quali motivazioni e attorispingano l’iniziativa si è presto tra-sformata in un’ondata di poco ve-late critiche, a testimoniare lefrizioni crescenti tra queste due vi-sioni dell’economia collaborativa(quella privatistica, dei ventures equella dei movimenti cooperativi).Commentando la presentazione diPeers fatta da Douglas Atkin diAirbnb a Le Web nel 2013, Tom

Slee, un frequente analista del fe-nomeno – la mette giù così, senzafronzoli: “Crunchbase mi dice cheil finanziamento totale per i 40 par-tner [di peers] è già oltre i 600 mi-lioni di dollari. AirBnB ha ricevuto120 milioni, tra cui i finanziamentiAndreessen Horowitz, Jeff Bezos,Ashton Kucher [...] quasi tutti i fi-nanziamenti vanno a finire nellaBay Area o a New York. I non-pro-

fit che sono entrati in questa orga-nizzazione sono stati presi in girodal linguaggio anti-establishmentaccattivante della Silicon Valley”.Dal nostro punto di vista, non cre-diamo sia salutare per la discus-sione criminalizzare la culturastartup che, va detto, oggi incassai maggiori benefici dall’affermarsidi queste prospettive collabora-tive.Questa cultura incarna principisemplici e non potrebbe essere di-verso: la crescita esponenziale, lamassimizzazione della redditivitàa breve termine, la moltiplicazionedel valore del capitale (sul temaraccomandiamo il post di Bertram

Niessen su “Doppiozero”: http://doppiozero.com/materiali/che-fare/la-cultura-delle-start).D’altronde quelle che oggi sono legrandi e redditizie aziende, purnate come startup, che basano illoro modello di business sulla coo-perazione con il pubblico degliutenti – da AirBnB a Elance, daLyft a Uber a oDesk e Task Rabbit– crescono vertiginosamente, espo-nenzialmente agendo da piattafor -me e inglobando il co involgimentodegli utenti nel loro business model.

Questo legame con le loro comu-nità di utenti le sottoporrà prestoad interrogarsi sul ruolo che que-ste, così importanti per il businessdell’azienda, dovranno avere nellagovernance della stessa. Da piùparti si parla, infatti, della possibi-lità di dare voce a “sindacati” diutenti (pensate agli host di Airbnbo ai driver di Uber o Lyft) nel board

di queste aziende, e anche a rispec-chiare i loro valori nella produ-zione.Sulla scia di queste rampanti e di-

sruptive startup, interessate a questinuovi modelli di crescita e al ruolo

che la co-produzione e coopera-zione con gli utenti può avere nelridurre i costi, nell’alimentare l’in-novazione e nel generare prospet-tive di lungo periodo, sono oggisempre di più i grandi brand e i gi-ganti dell’economia produttiva asembrare interessati alle prospet-tive dell’economia collaborativa.Proprio il lancio di Crowd Compa-nies, il brand council fondato dalguru del social business Jeremiah

Owyang – e che conta tra le suefila aziende quali Ford, GeneralElectric, Visa, Nestlè, Intel, Wal-mart e molti altri – ha fatto capireal mondo che l’economia collabo-rativa è oggi un tema centrale, tal-mente ampio da riguardare ilfuturo delle corporations. Non acaso questi player cercano una pro-spettiva di resilienza, la capacità distare sul mercato efficacemente nellungo periodo e resistere aglishock. Attraverso l’adozione dimodelli collaborativi.

Attenti alle classificazioni Nei giorni in cui il movimento antievictionista della Silicon Valleymanifestava bloccando i bus chetrasportano gli impiegati dellegrandi aziende digitali, Alice Mar-

wick su Wired US, parlava così dielitarismo digitale: “L’Elitarismodigitale non riconfigura il potere,ma lo consolida. Giustificazioneper enormi divari tra ricchi e po-veri, con grandi differenze tra lapersone media e i ricercati inge-gneri. Si idealizza una “classe mi-gliore di gente ricca” cheevangelizza la filantropia e l’im-prenditorialità sociale. Ma pro-muove anche l’idea chel’imprenditorialità è una soluzionewinner-takes-it-all e che la culturastartup è il modo migliore per risol-

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vere qualsiasi problema”.Ma ecco, è proprio questo approc-cio alla “classificazione”, al defi-nire cosa sta dentro e cosa sta fuorida un movimento o un contestoche genererà, se non siamo attenti,il conflitto. Vedere contrappostol’approccio tradizionalmente capi-talista dei venture capital che inve-stono in aziende votate allacrescita, alle iniziative comunitarieinteressate alla generazione di va-lore le relega nel no-profit.Proprio questo conflitto può esserefatale dunque alla penetrazione dielementi collaborativi nella societàproduttiva.Così, piuttosto che tentare di iden-tificare ogni tratto dell’economiache esprime una tendenza a incor-porare oggi aspetti di collabora-zione, condivisione e co-creazione(produttiva), crediamo che sarebbepiù maturo da parte nostra, comin-ciare a lavorare per far compren-dere ad aziende, operatori,am ministrazioni, professionisti eattivisti di tutto il mondo che èl’economia nella sua interezza adavere davanti a sé oggi, la grandeopportunità della cooperazione.

Storia ed evoluzione

della cooperazioneNon solo, però, la cooperazionerappresenta un’opportunità: pre-sto potrebbe rappresentare l’unicascelta. Se ci focalizziamo troppo suquesti elementi di discussione e suquanto è giusto che siano fondi ecapitali privati a generare i mag-giori profitti da un trend culturalee sociale che ha radici più generali,rischiamo infatti di perdere di vistache oggi c’è una prospettiva fonda-mentale da tenere a mente: quellaevolutiva.Per spiegare questo punto di vista

faremo un parallelo. QuandoAdam Bowyer, fondatore del pro-getto Rep Rap (una famiglia distampanti 3D completamente open

source capaci di auto replicarsi,stampando gran parte dei propripezzi) fu interrogato a propositodella scelta di Makerbot di chiu-dere l’accesso ai sorgenti, e abban-donare il mondo “collaborativo” eopen source da dove Makerbot eranata, per concentrarsi sulla reddi-tività e sulla protezione degli avan-zamenti tecnologici, Bowyer nonfece una piega e concluse un lungocommento con questa frase: “Ifyou are taking part in the RepRapproject, then I hope that you be-lieve Open Source to be a morallyand politically good thing, as I do.But if you don’t believe that, youare still welcome to take part, byme at least. When it comes to thesuccess or failure of RepRap,moral beliefs, legal constraints andthe flow of money are almost com-pletely irrelevant. It is the evolutio-nary game theory that matters”.Bowyer fece notare a tutti come lacooperazione e la collaborazione,espressione della scelta di creareun progetto open source, siano davedere come strumenti per alimen-tare la penetrazione nella società.Allo stesso modo in cui la diversitàdella famiglia di stampanti open

source Rep Rap permea il mercatodelle stampanti 3D (secondo 3DHubs, Rep Rep e i suoi derivati piùdiretti coprono sicuramente più diun quarto del mercato oggi www.3dhubs.com/trends) la diversitàdelle incarnazioni dei paradigmidell’apertura, della collaborazionee della condivisione entreranno nelmercato del business di domani.Già oggi la sperimentazione ègrande: il recente libro di Marjorie

Kelly The emerging ownership revo-

lution racconta molte storie a pro-posito di come le comunitàstanno strutturandosi per pro-durre sul mercato in competi-zione con il business tradizionalema seguendo logiche differentidal mercato, logiche di sostenibi-lità, resilienza e impatto.Emergono i primi esperimenti digestione aziendale completa-mente liquida e destrutturata:niente più manager e board, solouna missione condivisa, metodichiari e trasparenti, cose da fare epersone che le fanno. Si parla molto di Holocracy, marealtà più vicine a noi come Sen-sorica, il gruppo OuiShare e l’ita-liana Cocoon Projects sono giàmolto avanti nello sperimentareveri e propri “protocolli” di ge-stione del lavoro per il raggiungi-mento di obiettivi.Cosa succederà quando questistrumenti saranno maturi e acces-sibili? Quando protocolli stan-dard aiuteranno questi player acollaborare e orientarsi al serviziodi una visione comune? Non losappiamo ancora, certamentecome disse Taiichi Ohno: “Thereis No Standard. No Kaizen (mi-glioramento)” e dunque do-vremmo forse auspicarel’adozione di una pratica di ge-stione delle aziende e degli attoriproduttivi che sia più aperta, tra-sparente, standardizzata e acces-sibile.

Il presente articolo è stato originariamente pubblicato su “CheFuturo”

www.chefuturo.it

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LA SOCIETÀ, IL BUSINESS E L'ECONOMIA COLLABORATIVA: MODELLI E SCENARI

COWORKING E SPAZI PUBBLICI: LA RIGENERAZIONE URBANA

FABLAB E LE PALESTRE DELL’INNOVAZIONE:LE NUOVE FRONTIERE DELLE PROFESSIONI

E DELL’ARTIGIANATO

16/5/2014

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30/5/2014

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