Così è la vita, amore mio

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i narratori maria sardella così è la vita, amore mio

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Un romanzo che tanto successo ha riscontrato.

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... “la prima piantina di garofano Francesco l’aveva trafugata dal balcone del parroco, nella cui casa stava lavorando da ragazzo, con suo padre.L’adocchiava da giorni, senza avere il coraggio di alzare la mano.Una mattina gli sembrò che non ci fosse nessuno”...

i narratori

Questo primo romanzo di Maria Sardella, passando attraverso immagini del passato d’una famiglia agganciata all’anzianità, ai decenni trascorsi, al proprio giardino,torna a memorie di guerra e di tempi comunque stati. La narrazione del presente, con la vita tanto per cominciare dell’ormai anziano Francesco è in grado di aprire porte che conducono verso terre lontane, reali e forse immaginarie, per incontrare pezzi d’Albania epersone molto importanti. In più, con Così è la vita, amore mio, nuovamente l’esperienza del ritorno nei tempi di fascismo vissuti da un operaio e della politica vista da alcune donne.L’autrice coglie momenti essenziali con la semplicità della descrizione puntuale messa in prosa.

Maria Sardella, classe ‘49, originaria di Canosa di Puglia, ha insegnato per oltre trent’anni nei Licei di Brescia, dove risiede dal 1975. Attualmente si dedica all’attività di editor e traduttrice. Sua la prima traduzione in Italia di Tahar Djaout con L’ultima estate della ragione (2009) per Bibliofabbrica di Gussago (Bs).

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così è la vita,amore mio

ISBN 978-88-96171-02-8

€ 12,00

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1. Da grande

Francesco era seduto nell’atrio di casa sua all’ombra del fitto in-treccio dei rami di buganvillea, gelsomino, ginestre e altre piante di cui non aveva mai saputo il nome, ma che amava con tenerezza. Il cie-lo vi si indovinava appena, ridotto a striate di luce azzurrina tra il ver-de delle foglie.

“Questa volta ci siamo”, pensò. E guardò in alto.Per la famiglia quell’atrio era ‘fuori’, per gli estranei era ‘il giardi-

no’. Certo, non un vero e proprio giardino, ma dalla sottile striscia di terra, che segnava lateralmente il confine, si ergevano e si avvilup-pavano, slanciandosi verso l’alto, i rami delle piante, fino a diventa-re un’intricata foresta. Una tettoia naturale e viva. Si diradava in au-tunno per tornare a primavera fresca di vita e prodiga di ombra nella calura estiva. Per chi arrivava da lontano l’enorme macchia viola del-la buganvillea faceva pensare proprio a un grande e rigoglioso giar-dino. Sul lato opposto, nei vasi sistemati l’uno accanto all’altro sot-to i muri della casa, rosseggiavano, radicati in un pugno di terra, ge-rani e garofani.

I gerani erano affare di Vincenza, i garofani erano suoi. Vecchie piante dai rami secchi e grigiastri alla base, che miracolosamente al giusto tempo rinverdivano e si rivestivano di boccioli profumati, poi fiori tenaci.

La prima piantina di garofano Francesco l’aveva trafugata dal bal-cone del parroco, nella cui casa stava lavorando da ragazzo, con suo pa-dre. L’adocchiava da giorni, senza avere il coraggio di alzare la mano. Una mattina gli sembrò che non ci fosse nessuno. Si guardò intorno prima di strappare una cima da trapiantare. Nell’atto di farlo sentì tuonare dietro di sé: – C’è Dio che ti vede!

Sobbalzò, girandosi indietro. Fu così che vide don Biagio, il parro-co, voce del Grande Capo. Era seduto in un angolo della stanza, più o

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meno protetto da una tenda, come su uno sgabello, con la sottana tut-ta intorno che toccava terra. Un libro aperto tra le mani.

Francesco fuggì, travolto dalla vergogna, ma, passando vicino al prete, ne percepì gli odori del ventre. Il parroco stava facendo i suoi bi-sogni nel vaso. Allora non c’erano bagni nelle case, nemmeno in quel-la del prete.

– Sei il figlio di mastro Francesco? Quello della casa col giardino?I suoi cinque bambini, diventati grandi nel nuovo quartiere di Mon-

tescupolo, se lo sentivano spesso domandare, e annuivano, sentendosi fieri d’essere i figli di Francesco, quello della casa col giardino.

Si guardò le turgide vene bluastre sulle mani nodose. Diventavano sempre più grosse. “Sono diventato vecchio e non me ne sono accor-to. Bastano novant’anni per dirsi vecchio?”. Era certo che il vigore gor-gogliava nelle vie del sangue. Contrasse le dita e le strinse. Scoppiò in una risata sommessa. Era ancora molto forte. Rimase per qualche atti-mo a contemplare il palmo aperto delle mani, quasi a leggervi dentro, indietro segno dopo segno, la sua storia. Le nocche delle dita, dove si era calcificata la sua vita, parlavano da sole.

Vincenza, quando lo aveva visto la prima volta, aveva notato due cose di lui: gli occhi e le mani. Un po’ s’era spaventata vedendole. Al primo furtivo incontro, bastò una carezza fugace. L’unica. Lui le muo-veva con goffaggine, quasi avesse paura di stringere troppo. Un po’ del languore degli occhi passò nelle mani, e queste diventarono lievi, de-licate.

– Un bravo ragazzo, gran lavoratore.La madre di Vincenza sapeva che non c’era credenziale migliore.– Non uscire, sta’ dentro.– Perché?– C’è quell’altro…I giovani che offrivano la loro candidatura, a sera, soprattutto d’esta-

te, facevano il giro delle stradine lastricate di pietra bianca. Al loro ap-parire in fondo al vicolo cominciava un movimento, scomposto dalla fretta, di ragazze che le madri, sedute sulla soglia a prendere il fresco, spingevano spesso con malagrazia in casa o permettevano, facendo pe-sare la loro indulgenza, che restassero sulla soglia.

Gli sguardi erano tutto. Un’occhiata scambiata valeva una promes-sa di matrimonio. Da allora per le ragazze iniziava una vita ancora più

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riservata. Nessun altro doveva guardarle e le madri si assumevano il compito di garantire che uscite clandestine non mettessero a rischio un patto già concluso.

Vincenza era bella, di quella bellezza nordica disseminata qua e là nel Mediterraneo. I capelli biondi e gli occhi azzurri bastavano a volte a creare distanze e rivalità. Talvolta diffidenza. Gli occhi di Vincenza stupivano perché non erano ‘occhi di pecora’, come venivano chiamati con scherno gli occhi chiari. Lei con un cenno era capace d’inchiodarti al tuo destino, senza parlare. Solo qualche volta i suoi occhi erano sen-za difese, guardinghi. Nella loro azzurra profondità erano rimaste le tracce degli antichi signori del nord. Il loro giustificato timore di non essere accettati dalla popolazione.

– Sicuramente un po’ strana, ridacchiavano tra loro le amiche. – Vieni sulla porta, oggi pomeriggio?– No, devo leggere. – Le amiche si guardavano in viso e ammiccava-

no tra loro. Era davvero un po’ strana.Spesso la madre la scopriva a leggere ritagli di carta stampata, pa-

gine di vecchi giornali, arrivati chissà da dove, con i quali ogni giorno accendeva il fuoco. In casa nessun altro leggeva, e lei non aveva cuore a bruciarli senza averli letti. La sua curiosità li consumava prima del-le fiamme.

Il prete, che abitava nella stessa via, era stato messo al corrente di quella eccentricità della ragazza. La madre fu rassicurata. – Ecco, dal-le questo libro, non le farà male. Manca la copertina, ma non è neces-saria.

Il libro era un romanzo, si parlava di Provvidenza e volontà divina. Un libro di disgrazie e di brutte malattie, di preti vigliacchi e suore tra-viate, ma anche di amore. La storia di due giovani promessi sposi che un fetente non voleva far sposare.

Vincenza metteva da parte mozziconi di candela. Ogni sera, nel suo letto dietro il mezzanino, leggeva di nascosto un pezzo di quella storia. A lei nessuno avrebbe potuto fare quella cosa. Scuoteva le trecce bion-de, e gli occhi, durante la lettura, trascoloravano dall’azzurro del fiore della cicoria al grigio gelido dell’acciaio.

Lei non si piaceva. A lei piacevano i capelli neri e ricci di sua sorella. Ogni sera, prima di dormire, si bagnava con l’acqua i capelli e li strin-geva in due folte trecce. Le avevano detto che così sarebbero diventati più scuri. In quel paese assetato l’acqua aveva proprietà miracolose.

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Si diceva anche che facesse crescere di statura se, prima di andare a dormire, la si fosse messa nelle scarpe. Chi le aveva.

La madre di Vincenza guardava con sospetto la lettura, ma sorride-va indulgente quando alla mattina vedeva il cuscino umido.

“Questa volta ci siamo”.

Vincenza chiamò Francesco per la cena, interrompendo, senza sa-perlo, l’attrazione magnetica di quel pensiero nella mente di lui. Cer-cava di preparare qualcosa che non gli facesse male. Schiacciava le pa-tate, passava i pomodori al passaverdura. Non soffriggeva l’aglio e la cipolla. Aveva il suo ricettario personale. Un vecchio album da disegno dove incollava le ricette ritagliate qua e là e commentate a mano. Le prime pagine facevano uno spessore spropositato. La colla Vincenza, i primi tempi, la faceva in casa mescolando acqua e farina. Non smette-va mai di sperimentare, di provare le novità. – Che cos’è la curcuma, e il cardamomo? Le domande rivolte alle figlie correvano sul filo del te-lefono da un capo all’altro dell’Italia. L’ultima era stata di natura diver-sa, più difficile, anche per le figlie. – Che cos’è l’autismo? – Se a questa era stato complicato rispondere, un’altra le aveva divertite. – Come si legge co-ck-ta-il?

Aveva notato ogni tanto la faccia del marito attraversata da imper-cettibili smorfie di dolore, ma poi gli guardava le mani grandi e salde, e si diceva che stava bene.

Il ragazzo del fornaio anche quella mattina s’era sottratto alla sua stretta. – No, mastro Francesco, la mano non ve la do, devo lavorare io. Aveva preso la mancia che Francesco gli allungava di nascosto a sua moglie ed era scappato via ridendo.

– Corri, corri, ragazzo mio. Rise anche lui.Lui sapeva come si corre.

– Domani alzati presto, si va all’aia. Suo padre non gli aveva dato altre spiegazioni. Il cielo era ancora scuro

quando sua madre lo strattonò.– Sbrigati, tuo padre è già pronto!Si alzò. Si vestì in fretta, come gli era stato detto. L’odore del sigaro, il

mezzo toscano che il padre fumava a tutte le ore, gli entrò immediatamente nelle narici. Non gli dette fastidio. Era l’odore degli uomini, l’odore che vor-

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resti avere come i peli delle gambe e quelli della faccia. Suo padre gli aveva insegnato a scegliere i sigari. Il tabaccaio ne allineava sul piano del bancone tre o quattro. Bisognava prenderne uno fra il pollice e il medio e tastarlo per sentire i vuoti della rollatura. Lui era diventato esperto nel tempo. Tornan-do a casa, ne annusava l’aroma che fuoriusciva dall’incarto. La proibizione di toccarli era assoluta.

L’odore che proprio non sopportava era l’odore aspro del vino. Suo pa-dre lo mandava alla cantina a comprarne ogni santo giorno un litro di quel-lo sfuso. Ci andava recalcitrando, sapendo che avrebbe dovuto affrontare il momento del pagamento.

– Segniamo anche questa volta? – Il cantiniere sbatteva con malagrazia sul bancone il quadernetto lercio.

Francesco mormorava un sì tra i denti, si guardava attorno. Gli avven-tori, sotto le barbe ispide dei giorni lavorativi, avrebbero sghignazzato.

– A credito. Ancora una volta, eh!Seppe così di odiare il vino. E il suo odore. Quell’odore che si portava die-

tro gli sguardi spietati degli altri poveracci che, come lui, non pagavano su-bito. Non sapeva cogliere la loro rozza solidarietà. – Tutti nella stessa bar-ca. – Schioccavano la lingua per scacciare il sapore acre dalla bocca, allap-pata dal vino del fondo delle botti. – Ci freghi anche tu – dicevano all’oste. Francesco veniva ogni volta stordito dai commenti degli avvinazzati e dalle vampe sulla sua faccia, come se avesse bevuto anche lui.

Suo padre lo investì: – Preparati, mangeremo in campagna quando sa-remo arrivati.

All’angolo della strada li aspettava il carro di Nunzio, un contadino a cui suo padre aveva imbiancato da poco la casa.

Il carro gli sembrò enorme nel buio. Francesco si dispiacque per l’asinel-lo che lo trainava. Un miracolo che ce la facesse. Le zampe dell’animale, no-dose e arcuate, assomigliavano alle sue gambe, segnate dalle cicatrici, le sue dai giochi in strada, quelle della bestia dalle sferzate del padrone. La fru-sta schioccava, sibilava e feriva senza rimorsi. Anche l’asinello era picco-lo di statura, come lui. Per questo i fratelli più grandi lo avevano sopran-nominato Zanchetta, sogliola, ma lui scuoteva le spalle. Correva più di tut-ti. Da grande avrebbe fatto il corridore. Da grande avrebbe fatto il boxeur. Da grande…

Avevano tutti e due, lui e l’asinello, cinque o sei anni, ma, si sa, gli ani-mali sono più vecchi e le zampe dell’asino di strada ne avevano già macina-ta. Lui, invece, era la prima volta che s’allontanava da casa.

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Si raggomitolò, addossato a una sponda, sul fondo del carro, cercan-do di dormire per non badare al sordo brontolio della pancia. Si ricordò di avere in tasca qualche frutto di mandorla ancora fresca. Li aveva guada-gnati aiutando la vicina, la moglie di Nunzio, a pulirle e a fare la guardia ai mucchi stesi su teli di sacco al sole, sul marciapiede davanti alla casa. Tutti i ragazzi del quartiere, quando il paese si addormentava e si gode-va la controra, si aggiravano nelle vie sotto il sole accecante, nella speran-za di poterne rubare qualcuna. Almeno per poter passare il tempo o per scambiarle.

Con le mandorle i ragazzi ci giocavano, tirandole a turno sotto i muri, una specie di gioco delle bocce, o le vendevano al vecchio stagnino che, inve-ce di occuparsi solo di pentole, padelle e caldaie comprava tutto quello che i ladruncoli improvvisati riuscivano a portargli.

La vicina era una donna incattivita dalla vita e da un angioma violaceo che le riempiva il lato destro della bocca. Sporgeva come un rigurgito di frat-taglie. La sua parola suonava impastata, e non c’era buona creanza che la risparmiasse dalle ingiurie. Quelle dei grandi mormorate, chiassose quelle dei piccoli. Col suo nome da regina, si chiamava Incoronata, nel quartiere era per tutti ‘quella con la prugna in bocca’. Si sedeva con un robusto ramo di olivo in mano e faceva la guardia, sferrando colpi feroci a chiunque ten-tasse di avvicinarsi alle mandorle che si dovevano asciugare prima di esse-re riposte nei sacchi e vendute. Morì molti anni dopo. La trovarono in casa con la faccia rosicchiata dai topi che, fatto banchetto della carta moneta – le banconote rosicchiate sotto le tavole del letto risultarono fuori corso –, era-no passati a un pasto più sostanzioso.

Lui le masticò piano, a una a una. Il latte oleoso e aromatico dei frutti tenne a bada la fame. Il carro e l’asinello presero la extramurale che girava attorno al paese e portava direttamente verso la campagna.

L’andatura dell’animale lo fece scivolare in un sonno leggero. Francesco però si svegliava agli scossoni. Ogni sguardo gli rivelava un paesaggio mano a mano diverso, nuovo. Scomparse le case conosciute, appiattite le collinette di argilla attorno al paese, dove i suoi amici prelevavano manciate di tene-ra creta che diventava nelle loro mani un trastullo a buon mercato. Scorse di lontano, isolata tra le cave di tufo, la chiesa della Madonna di Costanti-nopoli dove il lunedì di Pasqua si andava in pellegrinaggio, ma ancor più per mangiare in compagnia ‘il benedetto’, cioè salame e uova sode, sotto i rami fioriti dei mandorli. Le ragazze tornavano a casa con rami rosa, annuncia-te dal loro profumo.

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Campi di grano a perdita d’occhio. Il primo sole, che ancora non si mo-strava all’orizzonte, faceva brillare gli steli curvi sotto le spighe, rendendo-li preziosi. Nella luce tinta di rosa del mattino veniva voglia di tuffarsi in quel mare di spighe setose che sussurravano. La strada Francesco se la se-gnò in mente.

– Ishhhh – l’asino si fermò di botto. Dovevano scendere dal carro. Fran-cesco non aspettò l’aiuto di suo padre, saltò giù e atterrò bruscamente, sbuc-ciandosi un gomito per parare la caduta. Non si aspettava che il carro fos-se così alto.

– Vieni qui! – Uno che sembrava il capo gli fece cenno con la mano. Fran-cesco si girò per guardare suo padre, ma non lo vide più. Capì e abbassò gli occhi. Non s’era accorto nemmeno che il carro era già ripartito.

Al tramonto, dopo la prima interminabile giornata di lavoro, si sdra-iò stanco morto sopra il saccone di paglia di mais, che faceva da materas-so, a ridosso del muro dello stanzone dei maschi, dove tra sacchi di grano e attrezzi si dormiva. Tutto il giorno a legare, a trascinare fasci di spighe in-torno alla mietitrebbia, porgere attrezzi, portare l’acqua. Ai bambini e alle donne toccava, per fortuna, il lavoro più leggero. Finito il grano c’erano le fave da battere. Baccelli disseccati che nascondevano un tesoro. Bisognava tirarlo fuori a colpi di bastone. Separare e raccogliere. Chini dall’alba al tra-monto. Tutto il giorno a strofinarsi il naso col dorso della mano: la polvere era irritante, la paglia pungeva, secca e calda per il sole che trafiggeva uo-mini e cose. Su quelle basse colline gialle, a tratti già macchiate di nero per le stoppie bruciate, a sera, finalmente un alito di vento.

Durante il giorno, nella pausa per mangiare, s’era fatto un cappello con un foglio di carta, una bustina, piegata alla maniera sapiente dei murato-ri, fissata con un chiodo arrugginito trovato sul carro e infilato in una tasca perché nulla andasse sprecato. L’intenzione era quella di venderlo con altri ferrivecchi all’anziano stagnino che comprava dai ragazzini anche ogni pez-zo di metallo che questi riuscivano a trovare. I più grandi s’erano ingegna-ti a trovare il modo di ricavare dalla vendita qualcosa in più. Lavoravano il pezzo di metallo, in genere un vecchio mestolo, spesso sottratto dalla cu-cina di casa, inserendoci una pietra per aumentarne il peso. Battevano ben bene fino a farlo diventare un grumo indistinto dall’anima di sasso. Lui ave-va paura che lo stagnino scoprisse l’inganno e si defilava. Ai suoi compagni era andata bene per un paio di volte. Poi il calderaio li aveva scoperti, e un treppiede di caldaia arrugginito e pesante aveva tagliato l’aria tra lui e quei mascalzoni. – Grandi figli di z...

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Sdraiato sul saccone, con un pezzo di pane tra le mani, Francesco pen-sava che da grande avrebbe fatto il muratore, non il contadino. Troppo su-dore. Troppa fatica. E tutti che ti dicevano cosa fare. A lui sarebbe piaciu-to vedere crescere sotto i suoi occhi quello che le mani fanno. Non avrebbe aspettato le stagioni per vedere il frutto del suo lavoro. Sognò quella not-te di costruire un arco, come quello che si trovava sulla strada a sud est del paese, l’arco di Traiano. Così lo aveva chiamato il dottore, parlando di costruzioni con suo padre. Anche la casa del dottore, suo padre aveva im-biancato.

Nessuno aveva mai dato troppa importanza a quella specie di muro alto di mattoni rossi, fatto ad arco. I contadini al mattino presto ci passavano sotto con i loro carri e istintivamente spronavano l’asino. Sulla sommità dell’arco l’erba vi cresceva rigogliosa. Uno sguardo ozioso avrebbe intravi-sto le tracce di un motivo decorativo giustiziato dal tempo. Ma i contadini non hanno tempo da perdere.

Sepolto sotto l’arco si diceva ci fosse un tesoro. Una pentola piena di mo-nete d’oro, ma a mezzanotte bisognava portarci un bambino appena nato in cambio. Il diavolo aspettava da sempre. Sua madre, nominandolo, si face-va il segno della croce e zittiva chi osava alludere a quella storia. I contadini ridevano tra loro, ma passarci sotto all’alba, quando il cielo non era ancora chiaro, era un’altra storia, e incitavano l’animale con grida stridule.

Sull’aia gli operai, durante il giorno, guardavano increduli quel ragazzi-no, ‘ghiumeridd’, gomitolino, che si dava da fare come un grande, che non si faceva ripetere gli ordini, anzi li preveniva.

– Piano, piano, il raccolto non scappa.– Bevi un sorso d’acqua.Una donna pietosa ogni tanto lo mandava all’interno della masseria con

una scusa qualsiasi perché si riposasse un poco (e forse non desse cattivo esempio con la sua solerzia).

– Andiamo, vi fate mettere sotto da una creatura, avanti! – sbraitava il caposquadra all’ombra del grande fico sul bordo dell’aia. S’attaccava persi-no agli sforzi di un ragazzino perché il padrone fosse contento di lui. Il capo-squadra, più che con le braccia, lavorava col fiato e il padrone era rassicura-to dalle sue urla, quando veniva sull’aia.

Prima che spuntasse il giorno, il terzo della trebbiatura, Francesco si alzò. Aprì la porta che dava nel cortile, guardò attorno che non ci fosse nes-suno. La masseria sembrava disabitata se non fosse per il belare delle capre nella stalla e l’abbaiare dei cani alla catena. Scappò. Da grande avrebbe fat-

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to il corridore. Continuò per tutta la corsa a dirsi che nessuno l’avrebbe pre-so. Corse seguendo al contrario le tracce delle ruote del carro impresse sul fondo del tratturo. Tracce scolpite nella terra dura e compatta, rispettate persino dalla invadenza dell’erba che tornava a crescere, ma più rada.

Tutto d’un fiato.Non seppe per quanto tempo aveva corso, ma quando ormai i talloni non

toccavano più le spalle e le sue gambe si erano fatte pesanti, prese a cammi-nare come inebetito. Si buttò per terra all’ombra sottile di un muro che non riconobbe. Gli occhi incrostati di polvere e di sudore gli si chiusero.

– Aiutami figlio mio, dammi una mano.Francesco aprì gli occhi e vide solo la testa di una donna, coperta da un

fazzoletto nero, sporgersi un poco sopra il muro.– Aiutami, fallo per le anime del purgatorio!Si accorse di trovarsi sotto il muro del cimitero del suo paese. Fu un lam-

po: si ricordò dei racconti della madre sulle anime del Purgatorio, riudì le preghiere biascicate da lei con reverenza per placare i morti nelle sere d’in-verno attorno al fuoco. Allora corse, corse, e di nuovo miracolosamente i tal-loni sfiorarono la nuca, e guadagnò le prime case del paese che il buio non aveva ancora avvolto. La cima del ‘Castello’, in alto sulla collina, era ancora fiocamente illuminato da una strisciata di luce.

Sua madre gli aprì la porta, si fece da parte, gli fece cenno di entrare. Non una parola sui vestiti malridotti. Non una parola sulla polvere che, come una lieve coltre grigia, ricopriva i capelli del figlio.

– Parlerò io con tuo padre. Tra poco comincerai la scuola. Speriamo che di lì non scapperai. Il lavoro proprio non fa per te.

La mattina dopo, tutte le donne della via, sulla porta, si raccontavano, falsamente preoccupate, con un pizzico di sfottò, la storia di zia Rosetta che si era attardata nel cimitero e, avendo trovato il cancello chiuso, s’era do-vuta arrampicare sul muro di cinta per chiamare aiuto. Il vagabondo figlio di cane che sonnecchiava lì sotto, invece di aiutarla, era schizzato via come una saetta.

La risata sommessa continuò a scuotergli il petto. A distanza di tut-to quel tempo, un po’ gli dispiacque per quella disgraziata. Ma allora si era divertito. Da giovani si ride per niente.

– Poggia la zappa, mettila giù. È pesante!– Dai, coraggio, mettila a terra!

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I ragazzi della G.I.L. sghignazzavano e urlavano. Sullo schermo Il Gran-de Trebbiatore, corpulento e sudato, brandiva una falce per dare l’esempio. Per combattere l’epica battaglia, la Battaglia del grano.

Giovanotti di paese che ridevano sguaiatamente, si chiamavano l’un l’altro e si dimenavano sui sedili del vecchio cinema-teatro finché non ar-rivava la maschera a minacciare di cacciarli. L’avvertimento cadeva nel vuoto, coperto dallo sghignazzo. Francesco frequentava la G.I.L. senza tessera.

– Qui non si viene senza tessera!– Va bene – rispondeva. E prendeva tempo. Allungava al custode in ca-

micia nera, di tanto in tanto una sigaretta, una di quelle forti senza filtro. Quello la intascava ammiccando, come a dire: – Fosse per me!

Francesco resisteva. Non gli piacevano tutte quelle smancerie, quelle pa-rate, quelle canzoni urlate in coro, però lì c’erano i suoi amici. Lui era il più forte e c’era bisogno dei suoi muscoli nelle risse periodiche. Bastava che com-parisse per provocare la resa degli avversari, un po’ per la paura che incute-vano le sue mani, un po’ perché lui, in fondo, aveva buoni rapporti con tutti. “Primo comandamento: farsi voler bene” pensava. E si faceva voler bene. Le risse scoppiavano facilmente, per motivi che nessuno alla fine avrebbe ricor-dato con esattezza. Ci si affrontava per mettersi alla prova. Per poter dire d’essere uomini. Francesco non si tirava indietro. Non beveva vino come fa-cevano invece gli amici. Provare la sua forza era l’unico modo per dire che c’era anche lui, c’era anche lui anche se non l’avrebbero trovato alla cantina.

Il conto in sospeso con quelli del Fascio ce l’aveva suo padre. Lo aveva vi-sto tornare a casa una sera, ansante, tutto sudato. Era stato più o meno al tempo dell’aia o poco dopo.

La milizia girava per le strade del paese di sera per mantenere l’ordine, dicevano. La verità è che andavano al bordello tutti insieme. L’unica signo-ra che operava nel paese, a una certa ora, chiudeva i battenti. – Ho diritto anch’io a un po’ di riposo! gorgheggiava con accento manierato.

Quelli cominciavano a bussare coi pugni alla porta, a fare fracasso fino a quando la signora li faceva entrare. Una volta avevano scardinato la porta e, intonando una delle loro canzoni, erano entrati trionfalmente, carican-dosela sulle spalle come un feretro.

– Il conto lo mando al federale! – aveva sbraitato quella tutta scompo-sta, sollevando già la veste per sostenere l’assalto e ritirandosi dietro la ten-da a fiori che divideva la sala d’aspetto dall’alcova. I fiori della tenda erano

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sbiaditi, i petali macchie indistinte dai colori improbabili, solo pallide tracce della originaria fantasia. – Che, ci hanno pisciato sopra i conigli? La signora tirava dritto. Non era quella l’umiliazione peggiore.

– Guarda qui, i vecchi socialisti! La fifa li fa pecorelle!– Chi si fa pecora, compare, il lupo se lo mangia.– Coraggio, fatti avanti.– Tu, vieni qui! Ché è l’ora di bere!Suo padre era stato immobilizzato da due di quelli e non fiatava. Per lui

rispondevano i suoi occhi. Nonostante la fioca luce del lampione, l’unico nel-la strada, si potevano vedere i lampi delle pupille nere. Aveva una rivoltella nella tasca interna della giacca, ma era meglio che non la scoprissero. Un po’ a fingere aveva imparato anche lui lì sul Carso. Qualcosa la guerra gli ave-va insegnato. Era stato mandato dal fronte in ospedale. Non si capiva cosa avesse. Era diventato tutto giallo e aveva la febbre alta. I medici sulle pri-me non avevano sospettato nulla. Le diagnosi si facevano a vista e l’unica terapia era quella che serviva a rimettere in piedi i soldati per riconsegnarli alla trincea. Il padre, su consiglio di un veterano, aveva mangiato più volte un pugno di neve imbottita di polvere da sparo. Voleva tornare a casa. Che aveva da spartire con quella guerra? Dopo sei mesi di ricovero e di tentati-vi di cura, la suora - quella p... - aveva scoperto che la febbre lui non l’aveva più. E sotto il letto aveva scovato un fiasco di vino e un’aringa salata. Allora una mattina gli aveva dato due termometri, uno sotto ciascuna ascella. Suo padre aveva strofinato accuratamente i termometri otto volte per ciascuno, ma il trucco non era servito.

– Ma tu non sei quello che lavora a casa del dottore? – chiese a un trat-to quello che reggeva il bottiglione dell’olio di ricino. Don Augusto, il dotto-re, alto e allampanato, indossava i gambali e la camicia nera anche duran-te le visite ai suoi pazienti. Questi spesso si spaventavano, soprattutto le ragazze, alla vista di quel gigante scuro. Lo spavento, a volte, era di per sé una cura.

– Mandiamolo a casa, è padre di sette figli. E poi la porta, quella porta, si chiude da un momento all’altro!

Questa motivazione, accettata con uno sghignazzo, convinse i camera-ti a desistere.

Il padre, rientrando, era pallido a onta del bicchiere di vino nero bevuto con gli amici in cantina.

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Francesco continuò a sorridere. A emettere allegri suoni a bocca chiusa, come a congratularsi con se stesso, come a rispondere a qual-cuno che gli stava facendo domande e lo spingeva a frugare nei suoi ri-cordi, a ricordare fatti e persone di un passato che credeva disperso, sepolto.

Lui la battaglia del grano, e anche quella delle fave, a cui nessun ci-negiornale aveva dedicato una parola, l’aveva combattuta e vinta sulla Murgia, molto prima dell’inutile richiamo alla Nazione. Chi lavora co-nosce il peso della zappa, e non per finta.

– Cos’hai da ridere? – gli chiese Vincenza che lo guardava dalla fi-nestra della cucina, affacciata direttamente sul giardino. La domanda non aspettava risposta. Arrivava semplicemente per il gusto di rim-brottarlo. E di essere presente nella sua vita. In ogni momento. Vin-cenza odiava sentirsi esclusa.

Il giardino, nelle sere di fine estate, sembrava respirare. Si poteva sentire il suo alito sussultare nel profumo dei fiori notturni, che arri-vava a ondate, seguendo il leggero soffio del vento serale. I Gelsomini e le Belle di notte, timidi di giorno, già nella prima oscurità spandeva-no l’opulenza delle loro fragranze, un profumo smisurato che proveni-va dalle minuscole corolle.

Francesco si lasciò sommergere dalla gratitudine. Entrò e si sedet-te a tavola.