Cosa Racconteremo Di Questi Cazzo Di Anni Zero - Vasco Brondi
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Cosa racconteremo di questi
cazzo di anni zero
Vasco Brondi
Baldini Castoldi Dalai Editori dal 1897
A C. e a C.
Hai lasciato la valigetta dei colori, delle tinte, delle seppie e delle terre, dei tramonti e delle città,
dei vrum, dei vrap!, dei ti amo e quando te ne vai, delle auto ruggenti e delle gomme per cancellare
su da me.
Andrea Pazienza
E poi ci ritroveremo come le star, nei peggiori bar a lavorare, e negli autogrill di Ferrara nord a
dormire. Ci trasferiremo a Parigi e non avremo mai più i soldi per tornare indietro. E gli sbagli
sono sempre stati nell’asfaltare i prati e non i preti, tanto poi tu parti. E io ho bevuto quaranta
bicchieri di vino annacquato per essere più disinibito sul palco. E mi sono addormentato
facendomi sciogliere una tachipirina sotto la lingua.
Mi piaceva questo fatto che finite di fumare le sigarette le spegneva per terra. E poi se le
metteva in una tasca laterale dello zaino. Che con la sua fottuta schiettezza mi faceva prendere
contro alle altre persone mentre passeggiavamo.
E all’improvviso arrivavano le mestruazioni e ci coglievano alla sprovvista ma festeggiavamo
sempre, scoppiavamo dei petardi, andavamo a comprare gli assorbenti. Oppure bussavamo alle
vicine per chiederglieli in prestito, e non li rivolevano mai indietro. Aulin e moment per attutire
i morsi dei bambini che non faremo mai. Poi ci facevamo da mangiare, con tempi biblici anche
per un semplicissimo piatto di pasta. Era incredibile, cambiavano gli ingredienti ma il sapore
delle cose che facevi era sempre lo stesso. Delicatissimo, per usare un eufemismo. Ma capivo
che non potevo permettermi di dirti niente. per il resto potevamo scherzare su tutto. Insultare
reciprocamente i parenti altrui, tirarci i capelli, scopare all’aperto, ridere degli omicidi tra vicini.
Da Parigi alle due di notte di un martedì mi dice che non volano mosche. C’è la polizia ovunque
e ieri hanno lacrimato tutti mano nella mano, magrebini e parigini. Che si sono perse le elezioni.
Che non ha ancora ascoltato le canzoni che ho appena finito di registrare. Ma dal poco che ha
sentito gli piacciono di più quelle di prima e io ci resto abbastanza male. Le forze, dice,
dell’ordine, dice, hanno le divise delle grandi occasioni e poi dice che si è procurato una batteria
elettronica. Io sono fuori dal mondo, non ho la televisione. E non sono andato in nessun bar a
leggere i giornali, neanche quelli locali. solo una rivista troppo costosa di musica con tre righe
lusinghiere di recensione della mia roba.
Guardiamo i muratori che camminano sui tetti e facciamo ancora i nostri progetti imbarazzanti.
I pianeti ci precipitano in cucina sui piatti da lavare e ci disfano i letti matrimoniali in cui
dormiamo da soli. Come i cani investiti. Come i bambini mangiati dai democristiani. E Parigi
probabilmente brucia, lontana anni luce da me. Poi penso che la cosa che hanno in comune le
nostre case e le nostre giornate è che sono da ristrutturare. Che andremo ad assaltare ancora i
cieli e a farci sconfiggere volentieri.
Mi sveglio con calma, pensando che sarebbe bello parlare al plurale. E dire che andiamo a
vedere insieme cosa c’è in frigo. E poi mangiarci piano, tutto quello che sono riuscito a mettere
nello zaino dal catering del concerto. Invece sono sostanzialmente solo e con poca fame.
Era bello svegliarsi alle sette di mattina per andare a vomitare e poi tornare a letto. Era bello.
Era bello. Tornare in macchina da Empoli ai sessanta all’ora perché la fiat uno sul falso piano
non ce la faceva più. Ascoltare le conversazioni dei ragazzi morti. E lei che dice che non è più
una bambina e che non è neanche più atomica. Come la notte che ci ha rimboccato le palpebre.
Come andare a guardare il cielo malconcio di Chernobyl, esprimere desideri guardando satelliti
giapponesi che stanno per scoppiare.
C’erano delle minuscole rivoluzioni che s’intravedevano dalla finestra. Al bar mi parlano dei
rave sull’enterprise. E io sono lì a cercare di decodificare i tuoi messaggi da Milano nord. Pieni
di consonanti. Ma che begli occhi che hai. chissà come mi vedi bene. Mi dici che lì sono
euforici per queste specie di canzoni. Non posso crederci. Che ti ci rifugi facendoti luce coi
fiammiferi, in miniere piene di fughe di gas. che uccidono i canarini appena arruolati e i
raccoglitori di pomodori rumeni. Poi sono a sudare ancora in soundcheck di tre minuti e
quarantatré secondi. Dopo soundcheck di altri molto più importanti e più lenti e più calmi. E poi
parli di guerre contro il grande freddo e contro il caldo. In questa mansarda c’è una temperatura
che ci si sveglia di soprassalto e per un attimo si pensa di essere in una tenda d’estate. (A
mezzogiorno e in Calabria). E tu che corri su chilometri di scontrini ma non mi raggiungi. Le
mie strade provinciali, sono deserte dopo le sette di sera. Percorri maratone sulle tue recensioni
e sulle incomprensibili abbreviazioni con cui mi scrivi di spaccare tutto. Le tue calze a strisce
bianche e nere. Le ciminiere che hanno sempre da fumare. Ti abbraccio e ti dico che sei
bravissimo ancora prima di salire sul palco. Però il mio letto ti fa schifo - chissà chi c’ha
dormito e con chi c’hai scopato - mi dici.
A Dublino mi dici che dormi con venti persone nella stessa stanza, affamata e relativamente in
allerta. Io ti aspetterei alla finestra, ma dà sul cortile interno del condominio, non servirebbe a
niente. E intanto il distributore di sigarette ci ha mangiato cinque euro. E non ci resta che
scoppiare a ridere a dirotto. Come back september. come quando ci svegliavamo in tre nel letto
con le braccia informicolate, in piena pianura padana ma col fuso orario del Giappone.
Finalmente è domenica, ma un portapizza non santifica niente. E io dormivo in mezzo, era
stupendo, era come avere due guardie del corpo al contrario, che sorvegliavano se ti eri
massacrato abbastanza.
Per ammazzare il tempo qualcuno è quasi morto, e comunque ci siamo sconvolti tutti, per
ammazzare il tempo. Mi svegliavo di nascosto paradossalmente allegro, e andavo in bagno a
leggere le scritte sulle pareti. Ero un cameriere vestito bene, e quella casa adesso è un cantiere.
E non ci resta che scoppiare a ridere a dirotto. E quando ci incontriamo fare finta di non vedersi
e poi spararsi alle spalle. ma con l’amore necessario a fare passare la pallottola da una parte
all’altra senza sfiorare nessun organo vitale. Continuiamo a camminare con i nostri giubbotti
antiproiettili e in tutte e due le mani quegli arnesi elettrificati che servono per scacciare i cani,
per tenere a debita distanza i nuovi rapporti umani.
Per combattere l’acne, la tua frangetta è diventata una zona militare. con un cartello con su
scritto Limite invalicabile. Ti ho promesso che abiteremo in un centro sociale affacciato sulle
discariche e sul mare, ma non credo che tra tre anni avremo ancora voglia di andare. Scaricare
gli strumenti dalla macchina e fare tre rampe di scale, settanta euro per suonare. E perdere tutti i
plettri che mi sono rimasti. Scavarsi delle miniere nelle tasche. Fare passeggiate su spiagge
deturpate, e l’anello resterà per poco sulla spiaggia. E dopo una lunga meditazione mi dici che
Preferisci andare a dormire e che magari potremmo vederci un altro giorno. Magari di giorno,
magari mentre dormo. Quella notte che ti propinavo un film di Monicelli ma tu non ridevi. Eri
appena tornata frastornata da Parigi. Eravamo seduti scomodi e non mi ero pettinato abbastanza
per vederti. Le tue sigarette mi abbassavano pericolosamente la pressione. E tu avevi scritto
qualcosa di sicuramente contorto da darmi ma poi ci hai ripensato.
Ci avrai fatto degli aerei di carta da dirottare sulla Casa Bianca, sulla Città del Vaticano o sul
Cremlino.
Vagare nei corridoi delle case dei nostri genitori. Imparati a memoria. Davvero farò rifare
l’asfalto per quando tornerai. Dopo una canzone vagamente allegra me ne viene fuori sempre
una lacrimogena. E mi vergognavo facendogliele sentire, tenevo lo sguardo sulle mie scarpe
bruciate. Farsi sostituire a lavorare per andare a suonare. Hai provato a telefonarmi stamattina
Ma stavo inequivocabilmente dormendo come quando succedono delle cose importanti. Tipo
quando abbattono le torri gemelle o si accoltellano i tunisini sotto la nostra finestra. Ti sono
passato davanti per andare a farmi derubare nel minimarket in centro, se vuoi ci rivediamo tre
volte che tanto poi parti per tremila settimane per Palermo. In macchina cantavamo andando al
lago. Ti facevo leggere i miei racconti, te li facevo buttare nella raccolta differenziata della
carta. Quando dormo guido piano, non ti preoccupare. In macchina cantavamo. Nonostante i
commercianti di reni di bambini messicani, nonostante le canzoni delle radio, nonostante te,
nonostante il confino fascista di Ventotene diretto da Marcello Guida che poi è diventato
questore di Milano negli anni della strage di piazza Fontana, nonostante me.
Perché non ci siamo mai rincorsi come nei brutti film. Prostitute in tute blu, avevi ragione tu,
non ti riassumeranno più. Bombe a grappolo dai cieli con dentro il tuo curriculum inverosimile.
Dici che poi ti richiamano loro. Ma ti sa che non ti richiamano. E mi dici a bassa voce che sei
un po’ demoralizzata. Mi immagino le tue corde vocali che fatica che fanno a fare queste
dichiarazioni da film melodrammatico statunitense. A miliardi di centimetri da qui. Uno dei tuoi
difetti migliori è che dai del tu a tutti e non te ne rendi conto. Coi poliziotti coi professori
universitari coi turisti che ti chiedono informazioni. Coi vecchi bibliotecari e coi ginecologi. Le
ho chiesto se mi presta un metro quadrato di pavimento per sabato sera, che poi sarà domenica
mattina. Andremo a bere vino sottobanco negli stand delle etichette indipendenti, indipendenti
soprattutto dalle mie canzoni tutte uguali.
Mi sa che hanno i fanali accesi per investirci. Che siamo nella merda finalmente e fino al collo.
Ci sediamo in disparte in mezzo alla gente. Dici che siamo decisamente indecisi. Davanti ai tuoi
modi di parlare, di agitare le mani, di non telefonarmi mai. Di chiedermi di farti compagnia. I
miei litri di sambuca con quintali di ghiaccio. Sabato mi sveglio relativamente presto e prendo
tutti i treni che riesco. Andiamo a farci male. Con la tachicardia quando s’incrociano posti di
blocco della polizia e butti fuori dal finestrino tutto. Non lo ritroveremo mai. mai e poi mai.
Compromettere i rapporti umani e non potere uscire la sera. Andar ancora al bar a lavorar.
Come le star. L’ultima frontiera del pronome noi. Boh. L’irreversibilità di averti a tua insaputa
intravisto il capezzolo destro. Gli interessamenti per le persone più fatiscenti che incontri.
Grazie anche degli apprezzamenti ai testi, testi che tra l’altro vorrebbero essere incitamenti a
Resistere spudoratamente e invece porcaputtana fanno venire da piangere. I cani della finanza
avevano paura di annusare i disorder, gruppo punk inglese appena atterrato all’aeroporto di
Milano. Era il 1984. Erano tutti allegri e moribondi. Però c’è stato il lieto fine, alla fine sono
Morti tutti.
Adesso se fossimo in un telefilm ti dicevo che ti amavo. Così, coniugando anche male i verbi. E
noi siamo meglio di un telefilm, e infatti non ci diciamo niente. Poi guardavo attraverso i tuoi
occhi che sono praticamente trasparenti. Come i tuoi polsi. Poi non ho il preservativo e tu sei
molto fiscale. E mi viene da ridere. Mentre Dente in sottofondo canta delle cose allegre e
lacrimogene.
prima di dormire siamo talmente fatti che non riusciamo a parlare, solo guardarti mentre mi
scardini con tutti gli oggetti contundenti che trovi la gabbia toracica. Poi chissà che lavoro
faremo. E vorrei traslocare. Con novecento euro al mese ti porterei a mangiare fuori ogni sera, a
mangiare anche dei fiori, nelle pizzerie cinesi dove trattano tutti bene. E sarei sempre sugli
eurostar e sulle frecce rosse a sfogliare riviste, per venirti incontro.
E Paul qui è un casino anzi un casinò. Le eclissi immense per cancellare le facce e gli
arcobaleni domestici, i cani che dormono a pancia in su. Non riesco a stare dietro ai cd da
spedire. Fammi leggere quello che hai scritto, di sfregature e di mezzi pubblici. Fammi fare
colazione con la tua bocca viola. Il modo con cui pronunci alcune parole, che sembri una
straniera trapiantata. E abbasso le saracinesche dei negozi sui miei occhi e mi nascondo e mi
asciugo tra i tuoi capelli biondi per piangere di nascosto. Ma tanto te ne accorgi e mi dici di no.
E ci siamo sdraiati vicini con i cuori arresi, con i capelli appiccicati alla fronte. Le occhiaie ti
donano moltissimo. Poi mi chiedi Vuoi scopare? E sai che è una domanda retorica. Poi i
lavavetri per i miei occhi. E i piccioni che mi si appoggiano sulle spalle e mi accompagnano in
stazione.
Gli organi cardiaci si devono ambientare come un migrante sudafricano a Milano. Vorrei tanto
rivederti e portarti con me in posti orrendi. Dove vado a fare dei concerti tipo davanti a trenta
persone di cui dieci fanno la fila per la birra, altre dieci parlano tra loro e altre dieci ascoltano
ma non si sa come pensano e cosa sentono.
Poi in qualche altro modo tecnologico ci abbracciamo appoggiando la fronte sullo schermo del
computer. Il computer che ha sempre la febbre, come i cani. E a settembre ci scambieremo le
case, troveremo altri lavori e vince chi trova quello meno pagato. Ma mi batti perché tu lavori
gratis. Dormivo con lei in macchina a Recanati dopo un concerto di De Gregori e non potevo
prendere sonno, facevo la guardia da non si sa cosa a non si sa cosa.
Lettere d’amore guardando i lampioni spenti e gli spacciatori tunisini che si rincorrono in
strada, scambiandosi opinioni concitate. E tirandosi delle bottiglie di moretti da 66 vuote, che
fanno meno male. Sto scrivendo un pezzo orribile e orecchiabile, che a volte mi piace. E mi
sembra di essermi trasferito in una cazzo di canzone di Battisti che lavora e pensa a lei che non
dorme e pensa a lei che non è stato divertente e pensa a lei. Almeno non c’è da pagare l’affitto il
sette di giugno che è già passato. Stasera i Diaframma suonano vicino a Firenze, ma la
macchina è ancora rotta. L’affitto lo pagheremo il trentasette di giugno. Le nostre diete
mediterranee demolirebbero edifici interi ed intere generazioni. Come la moderazione di questi
governi. Le tue mani da queste parti, le porte di carta di questo appartamento. Precaria era l’aria
e anche l’acqua della doccia. E le lettere di Susanna Ronconi dal carcere speciale, il diario
minimo di un altro tempo: «Voghera - Massima Sicurezza – 1983. Le divise informi di stoffa
ruvida con stampigliato sulla schiena “Trani - 1944” (ma eravamo belle lo stesso, bastardi,
Dio se eravamo belle). E quando mettevano brutta musica a tutto volume sparata dagli
altoparlanti in tutti i corridoi per impedirci di comunicare tra noi, noi cantavamo più forte, fino
a gonfiare le vene del collo. E quando, al momento dell’arrivo, ci mettevano nude in fila e ci
facevano fare sei flessioni e poi ci cacciavano a forza sotto le docce calde, per vedere se la
vagina, rilassata dal calore,lasciava cadere esplosivi, messaggi cifrati, documenti politici,
lettere d’amore clandestine, cacciavamo le lacrime in gola e cercavamo i nostri sguardi più
sprezzanti e, perfino, qualche scintillio di ironia. E quando, rivestite delle divise naziste, e calze
color militare che scendevano al polpaccio ad ogni passo e scarpe di cartone, incalzate dal
fiato sul collo dello sbirro che dava il ritmo dell’apertura dell’infinita teoria dei cancelli
blindati ripetendo “muoviti puttana”. Sì, anche allora eravamo belle, bastardi, Dio se eravamo
belle.»
Siamo l’esercito del Sert. E ci sono rimasto male. Mentre guidavo verso Bologna e mi
mangiavo la pianura e le industrie con degli sbadigli feroci. Che mi facevano perdere il
controllo della macchina. E la tua risata telefonica, quello che se ne va. - Intanto vengo lì
domani – mi dici. E il cuore è una gomma da masticare. Dopodomani non lo so - mi dici. Poi
suono alle nove e mezza mentre la gente mangia, e conto le tue parole sulle dita e le lenti a
contatto perse, e le corde di chitarra rotte o malridotte.
Stendono i panni sui fili telefonici con cui ci parliamo. Stendono i panni sulle vene ritrovate
all’improvviso, quelle benedette che si vedono bene, anche con la luce viola dei bagni del
McDonald. Le vene dei miei amici. Andiamo a sceglierci i vestiti più brutti che troviamo. E chi
ci parla di musica di cosa parla. Con la fionda dalla finestra, sassi contro i nostri cosiddetti cuori
Umani. Sezionarsi vicendevolmente. Cerco di convincermi che le distanze sono una cosa
bellissima. E lo sono, di sicuro, ma vaffanculo. Devo andare al lavoro. Devo andare al lavoro.
Devo andare al lavoro. Devo andare al lavoro. E anche se ti sentissi fredda, non ti brucerei.
Mentre mi lasciava ancora, celebrando un funerale agitando la mano. In un aeroporto a
Santiago. Pensavo che le città finiscono ai bordi degli aeroporti, sparpagliando le lacrime nei
corridoi degli aeroporti. Mentre passavo attraverso al metal detector con gli occhi lucidi come le
piastrelle del pavimento di un bagno di una qualche pubblicità di detergenti. E mi facevo
portare a Roma a mezzanotte sorvolando da solo le luci di questa Europa patetica, come un cane
lanciato nello spazio.
I nostri sistemi nervosi dirottati, abbattute le torri gemelle e tutti gli altri ecomostri sulle coste
calabresi. Ci sono i tuoi capelli dappertutto, perlustrati i miei difetti. I baci dall’Irlanda che
prendono il traghetto, attraversano la manica, arrivano a Ferrara ma alla fine sbagliano incrocio
e arrivano a un altro. Soundcheck da ubriaco con le cose che non funzionano mai, e la chitarra
scordata. Mentre mi parli e contribuisci allo scioglimento dei ghiacciai, e ti giri verso di me
chiedendomi se ho ancora sonno. E ti dico che è presto che sarà al massimo mezzogiorno,
invece poi sono le tre di pomeriggio. E devo andare a lavorare e tu te ne devi andare.
Lasciandoti dietro un profumo di fumo buono, presumibilmente di nero. Cosa ti dimentichi.
Che tanto non ti devi preoccupare, questi rapporti vanno sempre a finire male. Gli attacchi di
panico e il ciclo.
E le lenzuola sono così bianche per farsi sporcare. Le compagnie telefoniche poco concorrenti e
i tuoi occhi luccicanti che ti trasferiresti con me, che in una settimana di convivenza finiremo al
pronto soccorso, per disidratazione e spossatezza come Lemmy dei Motorhead.
Sotto la maglietta ti eri slacciata il reggiseno perchè ti sembrava di respirare male. In questa
repubblica democratica fondata sul lavoro, quindi infondata. I testa coda della polizia italiana,
come fossimo a Montecarlo. Invece le pareti poco rassicuranti di camera mia e i calci nei vetri.
Le portiere sbattute che ti rompono le dita per sempre. Sarebbe bello ricordarsi anche di chi non
ci lascia vistose cicatrici. E poi i fiori di Bach e la fiamma ossidrica sotto la carta stagnola. La
carta igienica è finita e il peggiore bagno del nordest si allaga. Per domani punto una sveglia
feroce (e lontana più di tre metri da me) alle nove, e la voce metallica della stazione di
Monselice alle 11:03 si metterà a ridere. Ti eri slacciata anche i pantaloni perché ti sembrava di
respirare male. E se fossi Battiato ti proteggerei dalla paranoia e dall’ipocondria, e dai miei
sbalzi d’umore. e dalle lune distorte e dalle lune conquistate, con le bandiere a stelle e strisce
ancora piantate. Nessuno ci costruirà la sua casa sopra.
Si è ammazzato ieri, e quando me l’hanno detto me l’hanno detto in dialetto, per ammortizzare.
In italiano gli ho detto Cazzo dici. Poi domani torno subito che alle sei c’è il soundcheck.
Prendo cinquanta euro. Nei tuoi occhi annegheremo, e la digos ci farà un servizio fotografico.
Guidava e ci guardava dallo specchietto retrovisore. Ci raccontava i sogni partoriti dal suo
subconscio corrotto dai film fantascientifici e dagli slogan pubblicitari. Per andare a suonare
passiamo per Ca’ Emo. Parlarsi a costo zero fino a cinque chilometri. Le tue omeopatie e
magari tipo scopare anche a tempo indeterminato. Mi chiamano dalla finestra che bisogna
partire e l’amplificatore pesa sempre di più, mentre precipita da quattro rampe di scale. E le
cose che ci siamo detti, scambiandoci molti milioni di microbi. Sul palco delle luci fortissime
sulle tempie che mi fanno sudare vino bianco. Dici che ogni tanto ci si sente come i ciclisti
quando al giro d’Italia gli spettatori gli tirano delle secchiate d’acqua, pensando di fargli un
favore, invece magari li fanno cadere. Guardiamo negli occhi delle mucche sui camion in
autostrada e le superiamo piano. Polmoniti batteriche per l’aria condizionata e le polveri sottili,
altri due accordi e buttarci sopra le parole. Mentre ti applaudono per convenzione sociale, mi
sali sul cuore, mi cadi dal cuore. Domenica parti, e ad alzarsi presto la rottura di cazzo è che mi
viene fame una volta in più. Con le nostre discussioni immateriali sui sentimenti ci facciamo
derubare dalla Wind dalla Vodafone e dalla Tim. Ci vediamo venerdì quattro ore tra cento
persone, poi sabato vado a Prato e domenica lavoro. Ricaricare il cellulare all’autogrill. Pisciare
all’autogrill. Mangiare all’autogrill. Sgranchirsi i pensieri più radicali all’autogrill.
Tipo che questa settimana ho visto di più Vittorio Sgarbi di te, avendolo incrociato due volte in
due città diverse. E i cardini delle porte che per qualcuno cigolano per altri canticchiano. Non ci
sono più sigarette solo vestiti che puzzano di sigarette e malatissime gelosie retroattive verso
chi c’è stato prima di me. Che mi spaccherei il setto nasale come i pugili, prima di venire a
vivere con te, così poi puoi farmi quello che vuoi che tanto non mi succede niente e posso
continuare a girarti intorno, facendo finta di colpirti e poi abbracciarti finché l’arbitro non riesce
a staccarci.
Con la brace della sigaretta come abat-jour. E le zanzare che subaffittano lo spazio aereo sopra
il mio letto che ti trovano deprecabile. Facciamo un giro in macchina con una bottiglia di vino
frizzante che a contatto con la nostra saliva fa una reazione chimica e ci si può spegnere gli
incendi estivi, e tu sputi ogni sorso. Poi guardi in internet gli orari e i prezzi dei treni per tornare
e ci escono delle vezze salmastre dagli occhi. Andiamo a vedere la pioggia dall’argine del fiume
più inquinato d’Italia e torniamo a casa con la malaria e ci ordiniamo una pizza.
C’era qualche centimetro di arcobaleno e nella mia macchina il freno a mano è un optional. Ci
svegliamo ogni tanto solo per dirci quanto siamo stanchi e sfatti, poi ci riaddormentiamo
aggrovigliati. Con squadroni di formiche che ci percorrono le braccia schiacciate sotto le
reciproche teste. Il silenzio innaturale di Ferrara di sera. Le nutrie che conquisteranno il mondo.
I capelli sugli occhi. I cani con la cintura di sicurezza si affacciano dai finestrini delle macchine
e anche loro insultano i ciclisti. E ancora i capelli sugli occhi. Eterosessuali e uccisori d’insetti
che non siamo altro. A settembre comunque bisogna cambiare casa e registrare. Venerdì arrivo
Alle sei chiedendo informazioni ai passanti e dicendogli grazie e arrivederci anche se dovrei
dirgli addio, ma sarebbe un po’ melodrammatico. Ti faccio sentire il pezzo nuovo con le mani
che non potrei mai vincere a Shangai, se non dopo due coca e rum. Arizona dream e i venditori
di tutto. Suono davanti a nessuno a Bologna suono davanti a nessuno a Prato. Suono davanti a
nessuno a Vicenza. Sempre alle nove di sera che c’è il coprifuoco dappertutto. Con i vecchi alle
finestre come vedette che non pisciate sulle loro porte. E confusamente le nostre personalità
procedono in file sparse.
I viaggi solitari i percorsi arroganti sono finiti male senza proclami senza giubilei nelle piccole
storie, nelle vite spezzate ricucite alla cazzo. Si prendevano le birre al supermercato e le
bevevano calde. Oppure le mettevano nel banco frigo e facevano un giro a guardare le tette finte
dei manichini e poi tornavano per berle. Le pizze surgelate non erano ancora state inventate.
Stupri nei parchi e frontali contro macchine di albanesi ubriachi. Avere vent'anni tra milioni di
persone. Claudio Lolli sindaco di Bologna. Per futili motivi smettere di avere vent'anni. Raciti
investito da una camionetta della polizia. Gli occhi da cane che si arrangia dei sopravvissuti al
punk all’eroina alla lotta armata ai santoni indiani al farsi preti ai suicidi di massa nei bagni
delle piccole e medie imprese degli anni ottanta. Alla guerra civile che c’è stata in Italia e
nessuno che ce l’ha raccontata.
Quando vorresti essere un portapizza per conoscere la città a memoria e per diventare un
martire. Distributori di metano in strade improbabili, per raggiungerti. Mi parli dei tuoi
licenziamenti senza giusta causa. E finalmente posso dormire con te che mi dai delle gomitate e
mi rompi le vetrine. Come mai, ma chi cazzo sarai.
Tipo la distanza che c’è da qui a Milano. I tuoi giorni liberi. I tuoi giorni prigionieri. Tipo
protette da infami barriere architettoniche, le nostre aspirazioni. Deportati i nostri sogni in
Siberia mentre eravamo in fase rem. E andiam andiam a lavorar. A vivere in una città
circondata da montagne, dalla punta arrotondata delle tue forbici.
A Prato a prendere a calci le sedie di plastica. Ti ricordi quando sono arrivato in Spagna e
pioveva e ti dispiaceva che ero cambiato. La tua casa era gelata senza gatti e senza altri
elettrodomestici. E tu distribuivi volantini che tutti buttavano subito per terra.
Non ho vestiti puliti con cui abbracciarti. E la polizia ci canta la ninnananna alla scuola Diaz.
La tua voce al telefono e i padroni che non verranno a prenderci. Federico Fiumani mi ha
scritto. In casa non c’è niente da mangiare, nessuno ha tempo di stare dietro a queste cose.
Stendiamo le magliette fuori dalle finestre, sperando che l’odore della città superi l’odore del
sudore. La lavatrice non funziona proprio più. E la candeggina sulla maglietta ha disegnato il
tuo profilo.
I viaggi psichedelici in chiesa da piccoli, a contraddire interiormente i preti, poi la domenica
mattina è stata estinta e i padri s’innamoravano di Mina. Sono stati deportati in Siberia anche i
sogni degli elettrodomestici fabbricati nell’est. Le tue cose. Le mie cose. Sergio Endrigo che
s’inventa mille canzoni nuove per i tuoi occhi.
Appoggiata di schiena alla parete sei una specie di intonaco che nasconde le crepe e le
interferenze. Ti presento i miei difetti, i miei problemi psicotecnici ai concerti. i loro sguardi, i
miei cachet ridicoli, la mia mancanza di vacanza. Mi nascondo nell’armadio con le tarme e
davanti alle stazioni con la macchine in folle, ti sei dimenticata le sigarette.
I Sonic Youth suonano mentre io sono sempre al bar a lavorare come le star, tra un trionfo e
l’altro. Gli anni bisestili non arrivano mai. Le mie permalose registrazioni.
A me mi. A me mi. Ti vendono le sigarette le polacche, in Irlanda. Io e tuo zio siamo lo
zimbello di Cork. Ti metti un assorbente in tasca e poi possiamo uscire. Organizzano una caccia
al tesoro nel callcenter. e mi va via la voce. Il mio fascino del falso modesto, le mie paure
personali, il mio microcosmo. Concentrato solo su di me. A me mi. A me mi. A me mi. I vicini
che mi bussano dal piano di sotto quando attacco il distorsore. Il loro soffitto che sarebbe poi il
mio pavimento.
La densità dell’aria sopra i campi di concentramento. Sacco e Vanzetti che si rigirano sulle
sedie elettriche. Con i ventilatori addosso ti scrivo. Hai pensato a me quando hai visto uno
zuccherificio a Santo Domingo. E ci sono i cormorani che girano sulle vostre teste e i cocoriti
nei negozi. E ti sembra che crescano scarpe e vestiti sugli alberi. Col navigatore satellitare
scopro dove sei a mangiare. Hanno tantissimi dipendenti perché ognuno fa volentieri la metà di
quanto potrebbe. E mi dici che un motoscafo ha fatto a pezzi un tizio e che finalmente abbiamo
perso il conto delle volte che ci siamo visti. Ti sei ferita ma hai ancora 99 cerotti, non c’è da
preoccuparsi. Per le corde vocali infiammate. E confondere i nomi propri delle vite precedenti.
Negli inceneritori le schede elettorali. un libro di ricette a base di olio di ricino. Le classi
differenziali. I bambini e noi di Luigi Comencini. I documentari di Silvano Agosti. I comizi
d’amore. La chitarra in bianco e nero di Neil Young in Dead Man. Le lettere dei condannati a
morte della resistenza italiana. La maggioranza silenzio sa. Che poi comunque il trasformismo è
sempre stato parte integrante della politica fascista. Delinquenti nelle foto sui giornali scappano
quando vengono inseguiti, poi perdono le ruote. Ti saluto quando ti vedo passare ma abbiamo i
vetri oscurati e non mi riconosci.
Grida tu qualcosa, come quando dai tuoi occhi traboccava il cielo. E cosa vuol dire questa cosa
di darsi, di prestarsi a qualcun altro a tempo indeciso e impreciso. Per poi vedere insieme le
macerie del paesaggio. Scambiarsi i modi di dire. farsi soffrire, non darlo a vedere. Rimanerci
male, che non mi vieni a vedere. Per i giorni di ferie, trovare dei posti sperduti, ma tu ci sei già
stata. Telefonami di notte ti prego svegliami. Relativamente vicini e poco costosi ma, tipo due
anni fa, c’eri già stata. Degli alberghi infami che però mettono Paolo Conte appena ti svegli.
prenotare per piantare le bandiere su marte, sulla tua bocca chiusa. Ma era proprietà privata.
Fammi guarire. Fammi passare. Ma fermami. Ho perso un figlio. Ho perso un foglio su cui
avevo scritto delle cose che non mi ricordo. Solo che tutto sia sopportabile e rivoluzionabile. E
che la solitudine sia solo un animale domestico. invece di complicarci lo stomaco e di
disidratarci in litri di pianti. Siamo troppo occidentali e tu non mi dici mai niente, anche perché
adesso dormi.
Le nostre vite precedenti, cosa stavamo facendo contemporaneamente. Amare è tutto un tornare
che cazzo vuol dire. i compleanni i supplementi sui biglietti dei treni interregionali i telefoni
fissi i compiti per le vacanze i nostri fratelli. I nostri laghi interni. Scambiarsi la saliva e le
illusioni. In cosa consiste questa notte.
Tu mi dici che alla fine è colpa dei platani, e di tutte le nostre distrazioni. E il diaframma si
sente quando piangi.
Nella notte inutile che ci ha divaricato le gambe. Siamo pronti per l’etilometro, per portare a
camminare i vostri cani, per pisciare nelle provette sterili. Coi segni sul collo. A studioaperto.
La prossima stagione la maschera antigas. Andare a lavorare con delle fitte non ben identificate
e con foglietti ovunque e penne che pubblicizzano farmaci. Nati da madri sotto anestesia.
Quando ti hanno portato a braccia a casa mia. Sorvoleremo ancora i camion sulla periferia.
Quando entrando in un bar dicevi - Vado a farmi in bagno e poi prendo qualcosa. – E le
domeniche le strade del centro piene di bianchi caucasici di merda. La notte narcotizzata che ci
ha ristretto
Le pupille. I tuoi capelli che sono fili scoperti, che sono nastro isolante, che sono fili scoperti.
Che alla fine in generale non può essere più di tanto colpa dei platani.
Con l’orgoglio dell’insoddisfazione, ci avvelenano i cani.
Dici che siamo bravi a contenere e a tenere divisi gli scompartimenti. A guardare i fuoristrada
che s’incastrano nei vicoli. E il treno dei desideri è deragliato l’altro ieri. Broken bicycles di
Tom Waits e i coprisedili sono irreversibilmente sporchi. E io credevo che morivano. E ancora
delle fitte. L’ebbrezza di suonare praticamente da sobrio. Nel carcere di Volterra. Per problemi
finanziari non riesco a prendere il treno per Roma, parleremo al telefono, sulle ipotesi di fare i
disadattati per professione. I malesseri di questa gente che ha bisogno di pubblico. Ti lascerai
dietro le catastrofi, ma ci sarà sopra il copyright. E io che credevo che morivano.
Se questa è la miseria. Le nostre frontiere interiori. tre corsie delle autostrade, nelle iridi ferme
immobili. I camion che faticosamente si sorpassano. Chiudi lo scrigno dei tumori e dei tuoi
quaranta cuori circondati di marciapiedi di barriere architettoniche di complessi di appartamenti
appena inaugurati e dai titoli urlati e approssimativi di Libero.
Passando per Brescia entriamo nei bar razzisti. Coi finestrini abbassati per settecento chilometri
in tre giorni.
Ferrara è sotto il livello del mare di qualche metro, e ad ottobre me ne voglio andare. Quando ti
eri messa a ridere che in retro ero finito in un fosso e a me non faceva ridere per niente.
Soprattutto mi terrorizzano le cose che si avverano. E io rimango intrappolato nei miei tre anni
precedenti, che se non fossero passati adesso sarebbero sorpresi.
Come la Sara. Uno mi parla di quattro centrali nucleari che servono solo per far funzionare i
condizionatori. Smettiamo prima di mezzanotte, la notte l’hanno inequivocabilmente vinta loro.
La comodità come ideologia. Se non stai bene qui possiamo anche andare via. Le ambulanze
della fiat. Le mine anticarro della fiat. Gli stipendi immaginari. I lavori ipotetici. Gli affitti
estremamente arretrati. E la tua pelle che era chiara. Le tue interviste. E quando gli è caduta di
tasca una spada, ed eravate in casa d’altri. Le barbe da santi, le fattezze da santi e gli occhi
chiari e celesti dei pastori settantenni descritti in Casa d’altri. E i calci in culo di Muccioli.
Quando eravamo stati prescelti. Quando senza neanche salutarci. E nelle docce fredde,
nell’aiuto della croce rossa nel campeggio gratuito di Arezzo. Stavamo stretti.
chiuderti in camera con dei lucchetti con combinazioni irrisolvibili. E cianfrusaglie di discorsi.
Comunità o cliniche private. Queste cose case persone. L’odore di fumo dolce che lasciate in
bagno. Che vi trascinate dietro. Per diventare mare. Per andare di traverso.
Neanche se mi pagano, ma tanto non mi pagano. Il vento che ti spegne l’accendino. Misuro coi
pensieri i chilometri, i metri quadrati della stanza immaginaria che non ci divideremo. e le
strisce pedonali con il traffico intenso. E dopo il concerto. Prima era meglio. Guerre giornaliere
Nel parcheggio dietro il petrolchimico. I miei poster non parlavano, non mi sgolavo neanche.
Neanche se ti pagano, ma tanto non ti pagano. Le parole si capivano meglio, senza il distorto.
Ero troppo stonato. Ad ottobre decidere quale città quanta tristezza, quale cancello di quale
palazzo. Venderemo le nostre giornate. Ti aiuto a smantellare i sogni, a disinnescare le ansie.
Baciandoti sulle guance sulle lacrime sulle giostre. Le costellazioni di sperma sui tuoi vestiti
neri e le nostre estati strane. Alla radio ancora. Quando saremo dei terremotati, dei reduci di
questi sentimenti. Vomitiamo in sincrono e ti amo in un letto qualsiasi. Ti porto a bere nei bar
chiusi per ferie.
Sarebbe un passo importante per il nostro rapporto prenderci un deltaplano insieme. Smetterò
poi questa operazione commerciale di guardarmi dentro e di guardarmi attorno. Andiamo avanti
classificando l’intensità dei terremoti e degli antidolorifici. Avresti voluto più internazionalità
Nella tua esistenza. La qualità della danza.
La qualità della vita. La qualità della bamba. Quando strattonavamo il mare. Quando mi parli
dell’Olanda e di Berlino. Dei deserti rossi. Dei funerali di Antonioni a Ferrara. Che sarà
comunque il più vivace della città, anche in una scatola di legno con su scritto PERDEREMO.
Perderemo poi anche i capelli. e questi migliori anni della nostra vita. Mi dici che hai letto che
Bergman in un’intervista ha detto che sperava di non invecchiare mai così tanto da diventare
religioso.
Quando andavamo a mangiare fuori per celebrare il funerale laico del nostro amore. Sei nei
miei cuori dislocati altrove, dove costa meno la manodopera. Le stelle comete come te giù per
la gola, con i discorsi su Ferrara.
Abbiamo la stessa paura immotivata, la stessa agitazione e gli stessi padri che parlano con i
cani. Abbiamo perso molti amici. E De André come farà a dire a sua madre che ha paura.
Smettere di fare canzoni. Avrei voluto essere un taxista per farmi chiedere da te di portarti per
favore a Roma. Che siamo da soli sui palchi, sotto le luci, sciolti in sudori, imbranati e illusi. Ci
svestiamo delle lenti a contatto. Ci guardiamo un quarto di film. e tutto per allontanarsi il più
possibile da casa. C. e i cruciverba coi sentimenti. E nella solitudine generale ma non condivisa
nell’Antartide generazionale. Mi fa abbastanza male. Ma non è niente. niente di che.
Tra le marmitte dei nostri cieli bassi e le nuvole ipocaloriche che disegnavi tu. i rapporti umani
con i capelli biondi metterli in frigo e metterli sul fuoco. Nel congelatore e farli sciogliere sotto
la lingua. mettersi l’antigelo nel serbatoio dei brutti ricordi. Dimenticarmi di me. rispettare le
distanze di sicurezza e scoparti alla finestra. darti la buonanotte alle sette di mattina e decapitare
i segnali stradali con i paraurti e con la fronte. Un nubifragio tra le tue ciglia e il guardrail, come
vorrei.
Sentiamo il rubinetto che si dispera tutta la notte. Nelle discoteche fuori città cosa sta
succedendo. Ho smesso di vomitare allegramente due minuti prima di salire sul palco, mi
manchi che mi mancano praticamente tutti i pavimenti.
Che mi telefoni mentre aspetti il tram a Milano e si fermano tutti per darti un passaggio. I posti
di merda dove vado a suonare gratis o praticamente gratis e ti mettono in mano un buono per
due consumazioni e un pasto composto o da un panino o da un panino. Il tuo scetticismo nei
confronti della mia giovane età, gli stipendi milionari ai parlamentari ottuagenari e ai senatori
Ultrasettantenni. E tu che entri col piccone e col casco da minatore nel mio cuore. E sempre
della gente che mi suona attorno, le colonne sonore della cronaca nera, le speculazioni edilizie e
la fine delle nostre amicizie.
La prima volta che ho acceso una candela per accompagnarti nel mio bagno senza impianto
elettrico, che mi vergognavo per l’Enel e pensavo agli inquilini precedenti. siamo fedeli come
se fossimo dei pappagalli ma di quelli nei negozi. Tu che perdi la pazienza e la fai suonare con
il cellulare per ritrovarla. Io che cerco delle agenzie di copywriting per riuscire a venderti il mio
carattere di merda, per leggerti chilometri di righe confusionarie d’amore. Che non mi scrivi
più. Cucinare frettolosamente e male, mangio in piedi e non ti penso per un po’. portarsi al
guinzaglio per i reciproci apparati digerenti.
e i merli accidentalmente stritolati nelle trappole per i ratti. Che sono talmente abituato a
lavorare nei ristoranti e nei bar che anche quando vado a bere o mangiare da qualche parte, e
qualcuno dice a voce alta SCUSA per attirare l’attenzione del cameriere, io mi giro sempre
apprensivo come se ce l’avessero con me. Penso a De André che le conta i capelli con le mani
sudate. Abbiamo dei campi nomadi nel petto. E a te sembra sempre di perderti tutto. La fauna
feroce dei miei pensieri che non sei riuscita a decifrare, le fototessere delle nostre brutte
giornate, delle nostre camere separate, delle nostre scuole disoccupate. Ti comprano tutte le ore
a sei euro. I lupi ustionati negli incendi estivi. Le strategie dell’apnea. Quando erano ancora
spensierati i corsi d’acqua e le loro arterie. E guarda gli sciami assetati di elicotteri della
forestale. Ma adesso guardami. De Gregori con occhiaie profonde e un principio
d’intossicazione. Per risarcirti i giorni e i giorni grigi. per ricucirti i polsi e riaggiustarti le dita.
per pagare le multe dei miei divieti di fermata e di sosta nella tua testa.
Catturiamo le farfalle interurbane. Andiamo a fare la doccia, con un tostapane sottobraccio. Il
farmacista mi ha consigliato a tre euro e novanta delle caramelle per la gola con succo di ribes e
glicerina dicendomi che le usa anche Pavarotti. Pavarotti deve essere decollato tipo ieri. Cosa ne
sarà delle nostre gastriti, dei vopos in corso como, di quelli che fanno bungee jumping dalle gru.
delle canzoni sul computer e in sala operatoria.
Quando ti risvegliano dal coma irreversibile. Poi mi scrivi in fondo. in alto i cuori. Come Paolo
Nori. Vorrei mettere degli asterischi ai margini delle nostre conversazioni, per cercare di capirti.
Nudi come i soffitti, con le costole fragili come certi balconi meridionali che fanno vedere nei
telegiornali. Quanti affitti arretrati puoi accumulare ancora. Quando non ti abbiamo
accontentato
E ti abbiamo fatto vedere i mulini a vento soltanto dai finestrini della macchina ai centotrenta.
Lasciarti i segni. Disperdere i manifestanti dagli schermi televisivi, dai nostri organi interni, da
tutte le trasmissioni. E dal terzo piano a Rotterdam mi scrivi che il cielo ti entra tutto in casa.
Ho visto le migliori menti della nostra generazione, andare a lavorare in agenzie pubblicitarie.
portatori sani di disperazione, di carezze chirurgiche. Il contrario di un urlo.
Un pomeriggio con te che non c’è. Sempre circondati di assenze, di persone che prendono aerei
a basso costo per andarsene. In fila al bancomat, come se avessimo un pozzo di petrolio da
qualche parte. Che mi metti delle tristezze oceaniche e telefilmiche, mi struggi. E cosa pensava
De André mentre concimava la terra. E Piero Ciampi mentre pisciava nei bagni dei bar di Roma
in preda all’allegria e alla spensieratezza. Amori in miseria. O solo ipoglicemia collettiva. In
perfetta solitudine nel millenovecentonovantuno. Che mi fai banalmente passare la fame, che
andiamo a vedere un’alba meravigliosa da un terrazzo pieno zeppo di cose da asciugare. E
settembre che fa diventare piccole le ombre. Gli estintori sulle paranoie incendiarie. Tu e i tuoi
treni e tutti gli occhi strabici dei treni. Che partono piano per farmi memorizzare un altro tuo
profilo. Ti mormoro qualcosa, mentre fumi alla finestra per non ostruire le mie coronarie.
Ti suono una cosa che mi accorgo che suona male. Il tempo impreciso di una sigaretta. Con
fretta e con calma, come si lascia una persona addormentata. E i miei capelli meteoropatici che
tutti mi chiedono se me li sono tagliati. Invece l’estate sta facendo finta di niente. E i miei
pantaloni rossi che improvvisamente si sono rotti anche quelli. I migranti che camminano sotto i
grattacieli. Schivare la meglio gioventù che vola giù. E se gli angeli sopra Berlino ascoltassero i
miei pensieri quando cammino da solo. Stammi a duecentotrentasei chilometri di distanza e
corrimi addosso. a tre ore di macchina o trenta euro di treno. L’autopsia ai numeri di telefono e
alla mia scortesia. Ti permetto di ferirmi di disinfettarmi con un’Averna in un bar orrendo alle
sei di pomeriggio. Scriverti sulla fronte torno subito, e poi non tornare mai.
Guardi solo film di guerra e le farfalle farfugliano quando spegni la sveglia. Hai i pettirossi nel
petto. Sono emozionato come Nanni Moretti in aprile, prima di diventare padre. sbarco nella tua
vita come una nave fatiscente gremita di immigrati clandestini, a Lampedusa tra i turisti. Voglio
che prendi le mie bandiere e le bruci. E l’abbandono sarà solo il titolo di un libro di Tondelli.
Chissà se sono solo un bisogno fisiologico gli abbracci. È tornato un sole strano che fa
resuscitare le zanzare e ricominciare le allergie. in una città, tra lo stomaco e la trachea. I
radicali liberi. La tua apparente spensieratezza, la mia calma apparente, i fiumi sotterranei, le
metropolitane che ci attraversano. La morte apparente di Syd Barrett. consacrate le fogne.
Davvero brucia pure le mie bandiere, falle diventare grigio fumo come quelle della pace appese
fuori dalle finestre su corso Buenos Aires. vorrei non vorrei. La polvere che si deposita su di
noi. Ma se vuoi. E poi ti dicono che le domeniche piove sempre. Ladri di biciclette di
trentaseiesima mano e il mare agitato dagli aliscafi, dai tuffi carpiati degli scafisti. Verrei
volentieri ancora a sfasciarmi a Rotterdam, ma adesso non ho né tempo né soldi.
Mi dici che non è uno strazio anche se i palchi sono troppo alti, sono edifici antisismici in una
bufera. E se ti ricordi di me perché ti fa male la bocca. Gli ombrelli sfasciati attiravano la nostra
attenzione ma erano invendibili.
un detergente intimo per dimenticarti di tutto. Che anche se sei diventata una donna bionica ti si
arrugginiscono le guance. I rosari appesi agli specchietti retrovisori non so se funzionano. In
poche parole volgari, mi capita raramente di pensarti. Chi sarà di noi la memoria dei viaggi in
macchina ascoltando Vinicio Capossela. Sarai un monumento nelle mie viscere, darò il tuo
nome a migliaia di piazze e a milioni di vie. La materia grigia nelle betoniere e misurare col
sismografo il rumore di frizione che sfrega o i nostri cuori che tossiscono, come per attirare
l’attenzione. La melodia che hai composto andando via. Sorvoleremo ancora i falchi e i camion
nella periferia di Siena, non andremo ad abitare a Berlino.
Però forse nuoteremo a rana nei canali di scolo di Venezia e poi ci faremo ricoverare nella
stessa stanza. non moriremo tra le braccia di questa città. Mi hai scritto una cosa stanotte che
l’ho letta quando mi sono svegliato. Ogni tanto ti piace spedirmi contro i tuoi aerei
strappalacrime di carta riciclata. A volte pensi che siamo come quegli animali dei documentari
che non si capisce mai se si stanno massacrando o se stanno facendo l’amore.
E per farti contenta ti sei concessa delle Marlboro rosse.
i detriti del settantasette, i fuochi supplementari. Ieri sera eri contenta da sola ti sei presa la
fortuna. Purtroppo era ed è tuttora ottobre. Non si sentono gli slogan, gli slogan sono chiusi
negli stadi. Le macchine sbuffano fuori dalla finestra. Le passeggiate dei cani, gli ultimi discorsi
incendiari. I pitbull scappati dalle scuole medie. i nostri anni migliori sperando in questo
domani. C’era qualcosa di più triste in agguato del morire democristiani. Eravamo brutti come
nelle fototessere, ti ricordi le nostre felpe ereditate. La disperanza nelle canzoni registrate male.
E ci saranno altri muri, altri souvenir, altra polvere di luna. Lei coi capelli corti e il sole che
tramonta in ufficio. Tutti i tuoi impegni, le fucilate delle sveglie. I bambini prodigio. E chissà se
Ci facevano davvero i nidi coi miei capelli tagliati, che li lasciavamo sul davanzale della
finestra del nostro bagno.
Oseremo perdere. E a Tokyo perlomeno non arriveremo in ritardo. Stai stanca. Fuori dai
finestrini le nature morte le macchine fracassate, le braccia e le portiere e le lamiere
abbracciarsi, e tu ti giri per dirmi guarda come siamo friabili. Dai guarda quanto siamo friabili.
E i cieli coperti dai copertoni. Mentre mi spiegava la strada guardavo solo il riquadro 9/P, il
mattatoio del bestiame accanto al mercato dei fiori. Mi è sempre dispiaciuto per il fumo passivo
dei miei monologhi che ti faceva puzzare i capelli e i vestiti. Provano a venderci una rosa in
Centrale. Ci costruiremo un appartamento senza fondamenta che crollerà ogni volta che
litigheremo.
In stage da tre mesi. In strage. Ricostruiremo tutto, come se fossimo negli anni cinquanta e
avessimo delle braccia decenti. Ti tolgo i vestiti e intanto corro su per le scale. Puoi accendere
pure la luce per rivestirti più in fretta, puoi amarmi come una madre, come vuoi tu, puoi
ammalarti di me. Come dei genitori e dei luoghi che abbiamo lasciato. Come le città che ci
telefonano di sera, anche stasera. Come ci siamo persi un concerto perché eravamo troppo
impegnati ad insultarci. Perché litigando risparmiamo sul riscaldamento. Come le mie canzoni,
massacrate. Poi provano a venderci delle Rose a Brera. Davvero vorrei circumnavigare i tuoi
occhi. Sugli autobus sfiniti, che dormono in piedi come i cavalli di Ferretti. nei dormitori in
fondo al mare per i profughi. Quando ridevi. Quando sei suscettibile e andiamo a vedere
l’autunno e le nuvole morte che crollano per terra nei parchi. E noi ci camminiamo sopra, ci
riflettiamo sopra. In abiti di pvc. mi è toccato in treno il racconto più lacrimogeno della grande
fame di John Fante.
Aspetto le gallerie per specchiarmi, per fare evaporare i pianti gli alberghi. Le coinquiline che
hanno il ciclo contemporaneamente. Poi mi pregano di comprarti una rosa in Ticinese.
Hai lavato il cielo con la candeggina perché fa buio troppo presto. Hai chiamato i numeri verdi
per sentirti meno sola. Sara stride. Gli venderemo il nostro oro usato. E i laghi nei polmoni si
sono asciugati da soli. In tram e in autobus si siedono tutti nei posti riservati ai mutilati del
lavoro, mi sembra significativo. Mi lascio andare e mi lascio colare sulle sedie. Chissà se
finiremo a consumare i clacson. E senza la laurea adesso che viene buio presto. E quanto
costano le cose che ci diciamo, le nostre camere separate, le tue paranoie che ti alitano i
bambini sugli occhi e ci vedi male. I ratti di Notre Dame. Le altalene sabotate. L’umidità di
questo garage a Milano nord ci trasformerà le ossa in biscotti. Addobberemo il cielo al neon, lo
spegneremo poi. Senza le finestre. Pensi ai ragni che deliberatamente abitano nel braccio della
morte. I telegiornali non fanno più parte delle nostre vite disinformate. Diamo spazio ai nostri
Problemi rendiamoli insormontabili diamogli da mangiare e da bere. Poi guardiamoli col
telescopio mentre dormiamo sulla luna che era solo la tua schiena. Se non vuoi sentirmi cerco di
assordarti. Quando vedevi l’oceano aprendo l’armadio e io mi ci tuffavo. Quando stavamo
perdendo i capelli e ci mettevamo seduti su delle panchine per dare ai gatti più brutti i nostri
panini, accarezzandoli con i gomiti perché erano indubbiamente prossimi al decollo. E poi
smantellavano le panchine. E a Trieste non c’era niente per tenersi stretti contro il vento. Ero
solo stanco morto e non mi ricordavo dove avevo parcheggiato la macchina e le cose che ci
siamo detti che sono sopravvissute agli ultimi raid aerei delle nostre bocche. Vattene calpesterò
tutto quello che ami come se calpestandolo potessi farci del vino. Quando per sfogarti quando
per amore, mi hai comprato una spilla per farmi una tracheotomia. Quando ci nuotavano
controcorrente delle trote e dei pesci siluro negli sguardi per andare a riprodursi.
Parlavamo delle nostre interiorità come se fossero delle metropoli. Quando dopo gli scontri ogni
sigaretta sapeva di lacrimogeno. E tafferugli contro le nostre solitudini, o tu o io. E ascoltiamo
le paranoie con lo stetoscopio, le lasciamo blaterare in un auditorium. Ci sono crollati dentro
degli edifici. Poi mi hai scritto Spero che le tue canzoni ti portino lontano. E invece io volevo
starti vicino. Staremo a guardare i gabbiani che si mangiano i pesci nelle fontane, che fanno i
nidi nelle macchine e nelle cabine telefoniche. A casa sua c’è una guerra civile, è un campo di
battaglia disertato dalla Nato. Gli ultimi oggetti che ho lasciato nell’appartamento perché non
ho avuto il coraggio di lasciarlo vuoto. Che siamo anche divisi in quartieri e lacerati dagli
abbandoni. Da piccoli eravamo canarini nelle miniere di carbone nelle scuole elementari. Il
resto è stato bruciato, nelle tabaccherie chiuse per sempre. Nei fogli di via distribuiti dai
carabinieri. Che io ti voglio bene a fondo perduto. Gli inutili attentati agli organi cardiaci. Le
ombre cinesi che hanno lasciato sugli schermi le tue parole, le parole che sono residui bellici.
Gas nervino negli abitacoli delle automobili. Che da piccola parlavi con il mare per farlo
agitare. E ci viene l’alta marea negli sguardi. Starai dentro di me in ergastolo. Che avevamo
l’inesperienza necessaria.
Eravamo dei fiori insperati. Ci siamo molto probabilmente rovinati e migliorati. Nelle città
adatte alle nostre scenate, queste città in raccoglimento, queste città in silenzio stampa. Questa
città che dicevi che ti sembrava un congelatore. Con la campagna circostante con i vecchi che
non muoiono mai e i diciottenni che decollano sulla superstrada per il mare. E si riposano gli
occhi sugli airbag in attesa dei soccorsi. Arriveranno i nostri, con gli avvoltoi che ci
sorvolavano tra i pusher e i computer. Le preghiere a un dio incompetente. E tu che parli da
sola. Tu che parti. Per la tua sesta guerra mondiale.
I discotecari chissà cosa pensano dei lunedì. Mi urli che il tuo cuore non è un bilocale da
trecento euro al mese. Andremo a Roma a salvare le balene. a mettere delle fondamenta ai
nostri voli ai nostri aerei. Con l’amplificatore, la chitarra e una valigetta con i distorsori ci
siamo incrociati in stazione che tornavo dalla rivoluzione. Un letto dell’IKEA da quarantanove
euro, dove non arriverà l’inverno. Tornando racconto delle barzellette pornografiche ai palazzi
tristi e pensierosi e allo stadio. Mi dicono che siamo architetti ingegneri geometri e muratori
delle nostre decisioni. Tra altre orchestre di clacson.
Tirocinanti, stagisti, precari vari e scrittori di brutti racconti, su un regionale con i finestrini
bloccati e l’aria condizionata rotta.
Quando mi ero coraggiosamente messo una camicia azzurra e in stazione mi scambiavano per
un ferroviere. E quando mi trovo a mezzogiorno a letto a trascrivere i tuoi silenzi. Con queste
case piene di gente, queste case condivise come se fossimo in Unione Sovietica. I tuoi pensieri
sono spesso dello stesso materiale del cielo di Milano. Dici che tutti gli strumenti che mi sono
comprato finirò a rivenderli su e-bay quando, tra massimo un anno, dovrò trovarmi un vero
lavoro. Prendo un treno in fretta per questioni condominiali e sentimentali. E le giornate
trascorrono. La gioia è una fermata della metropolitana, neanche troppo richiesta.
Sui cartelloni pubblicitari dipingeremo le sagome dei nostri genitori. Ma non sappiamo più
disegnare. E le stereo è da rottamare, ha dei problemi esistenziali. Cercavano i proiettili nei
dizionari. E in tre in bicicletta doloranti e contenti. Come le statue dei santi che accolgono a
braccia aperte i piccioni e i loro escrementi decoloranti. E chi fa le recensioni dei concerti
ascoltandosi due pezzi.
Morire per la mancanza di idee, ma di morte lenta. E se tiro le tende contorci la tua bocca con la
vernice fresca perché c’è troppa luce. E con le finestre aperte ai coinquilini viene voglia di
buttarsi. I coiti interrotti le lettere tristi che si sono decomposte. E quintali di foglie morte. Ti
avrei portato a nuotare dove affondano le petroliere, dove annegano le petroliere. Dove bevono
birre tiepide i rumeni e birre analcoliche i pakistani, e in macchina sull’argine stavamo
volentieri scomodi a scopare.
Magari ti porto anche in Tibet e ci facciamo sopprimere e sottomettere dal governo cinese. Tra
di noi potrebbe finire con una constatazione amichevole, con una constatazione del nostro
niente. Sciolte nell’acido le nostre resistenze. E per favore stai attenta che non ti stuprino.
Fraintendersi. Fraintendersi. Fiammiferi per i funerali di quei quintali di foglie morte. Dio dei
cieli nebbiosi e dei terreni letamati. Dicevi - Da questo posto ce ne dobbiamo andare tutti e due
e soprattutto io. – Rovinosamente realizzavo i miei sogni più incredibili. E adesso siamo nei
treni e nelle macchine che scappano dalle nostre ex città. Che per rivederci siamo
involontariamente
Diventati tra i maggiori azionisti di Trenitalia. E viviamo come degli alluvionati, nelle nostre
scelte esasperate, nel crollare delle mensole attaccate di notte, nelle poche confidenze, nei posti
dove non ti aspettavano. Dove lavorerai, se mai lavorerai. E gli occhi sono delle specie di
vetrine ma senza i manichini dietro. Ti auguro un patetico Natale. Moriremo per folgorazione
Appesi ai cavi dell’alta tensione per distrazione e abiteremo per qualche anno nel nylon, come
la frutta ammaccata della Standa. E le tue mani in frigorifero e il nostro amore lancinante. Credi
di piangere ma era che pioveva un po’ per tutti. Mi scrivi che linciavate gli alberi a novembre
perché vi restituissero i palloni da calcio. Mi scrivi delle cose allegre e struggenti. Conviviamo
come gli animali, io e te e i nostri scudi di plexiglas. Io te e il tuo cellulare. Poi ti dico anche
che non è detto che ho ragione anche se parlo convinto. Respiriamo profondamente come i
monaci buddhisti, per non farsi andare di traverso l’universo. Ti regalo le lune che non sono
ancora piene. Il ponte vecchio di Firenze. Anche se Firenze dici che non ti piace più di tanto.
Mi sono bagnato un dito con la saliva per capire da che parte tossiva il vento, ma non c’era
vento. Dai tombini ci guardano alcuni bambini. Piove nelle cabine elettorali.
E ci schieriamo contro le nuvole contro i contribuenti. Ti ricordi quando volavamo sulle ortiche,
quando atterravamo sulle ortiche. Ti tratterò male e tu mi affogherai. Delle nuvole cariche di
piogge ci inseguono.
Avevo una cosa da scrivere che mi sono dimenticato, e le assi rotte del palco mi facevano un
po’ di paura. Ho scritto col catrame sulle strade di Milano che mi mancherai.
E per metterti allegria ho costruito una casa in camera nostra coi libri di Pasolini. Ti sei accorta
che è sempre settembre, che adesso dobbiamo trovare qualche altra America e una camera
meno rumorosa con una finestra che dà sull’interno. Le altalene sono appese ai fili spinati, ai
tuoi dubbi. Tu e i tuoi piatti rotti. Tu e i tuoi letti rotti. E le nostre fughe solitarie.
Tutti i nostri occhi pieni di disordini, di chiavi duplicate di nascosto e poi perse. Cara catastrofe
in quei corridoi bianchi interminabili. Cara catastrofe e i tuoi aerei dispersi. Ancora tu e i nostri
piatti rotti. I nostri inutili patti atlantici, notturni. Tra il bianco delle lenzuola e tutti gli altri
continenti che volevamo andare a volare assieme.
Mi hai detto che all’inizio non ero così, che ti ho fregata. E appena sei ripartita è come se avessi
sentito sulle gambe il caldo dell’aria che usciva dal tubo di scappamento. Anche nei prossimi
anni circoleranno ancora veicoli a benzina. E poi mi ritrovo che cammino come non so chi tra le
fabbriche lunghe come l’orizzonte, e non capisco quasi niente. E certe pagine di certi libri che è
come se ti cambiano le impronte digitali mentre li leggi. È notte non brillano i capelli per
quanto decolorati, per quanto sporchi. Fondi di birra speed al detersivo e angeli froci. Torbide
stelle impigliate nei capelli. È notte, nei cieli colorati con i pennarelli scarichi.
È tardi adesso dormi.
Chiediamoci cosa diventeremo, cosa saremmo diventati. Coniughiamo ancora male i verbi. La
tua intelligenza è in un cantiere credo. Tra i trifogli che ci crescevano attorno, solo i trifogli.
Lasciamoci trasportare dalle macchine, trascinare a Roma dagli eurostar. Con le calamite sul
cuore, gli occhi gli acquari che perdono ai bordi. Invadiamo la Polonia a piedi. Torniamo a
piedi dalla Russia. È tutto così tranquillo la sera da spaccare il cuore, poi vado a suonare là. Sui
letti sgualciti, come le lacrime cadiamo negli angoli. Lascio le mie parole in giro, sui muri, sugli
scaffali, nelle teste di cazzo, tra i tuoi capelli tagliati a mano da te. Si arrampicavano sulle
altalene arrugginite per farci le prediche le bambine.
Ma poi, poi cosa faremo. Chi fabbrica i piani b. i piani c. Ci tagliavamo per prometterci, adesso
non mi ricordo cosa, con i vetri delle vetrine. E poi ancora le lacrime che fanno i fiumi, gli
appartamenti diroccati e vomitare allegramente per le scale. E poi le tue lacrime che fanno
tracimare i fiumi. Ma lasciateci sciogliere in questa pioggia, con le stelle inchiodate ai soffitti.
Lasciati decifrare lasciami bruciare i giornali. schivare all’ultimo momento i gatti, i ricci, i
cattolici, i gabbiani, i ciclisti pensionati.
Sconsacreremo i corridoi della casa dei tuoi genitori. Ci prenderemo per mano ai quaranta
all’ora sui dossi artificiali nelle vie dove abitano le famiglie degli assessori. Chiedimi quanto
manca, chiedimi quanto manca ad arrivare da qualche parte. Il nostro scambio d’organi ha
imbrattato le pareti dobbiamo ridipingerle. Ti ho detto che non volevo scalfirti e tu mi hai
chiesto se parlavo sempre così. Io ti ho detto di no, che stavo biecamente cercando di stupirti. a
forza di cambiare colori alle pareti ci siamo intossicati e biascichi delle nostre fragilità ma tanto
non diventeremo mai di cemento armato. E aspettando gli aiuti umanitari guardiamo un po’ rai
tre. Le torture dimenticate dei soldati americani ai soldati iracheni. Quando per razionalizzare ci
siamo scardinati il torace e le mitragliatrici ci svegliano alle dieci in hotel.
Per andarcene senza pagare perché sono nervoso. Descrivimi le tue mani e sfilati le scarpe per
andare a dormire e sfilati i pensieri neri metallizzati. Altri minatori sottopagati lavorano diciotto
ore nei nostri cuori.
Quando sono entrato nella tua vita, quando abbiamo preso l’uscita d’emergenza. Si chiude la
bici per poi tuffarsi dal grattacielo. Quando i pneumatici scoppiano e letteralmente non sai più
dove corri, dove corri. E nella casa con pochi mobili, tra le frasi che tanto tu non le leggi, e se
hai bisogno di soldi non vuoi chiederli.
Tra il teatro, e i canali di Venezia, e i caselli autostradali. per sparare dei forse da tutte le
finestre. Quando per paura di disturbare, non ci sei mai. E il nostro senno è in una bottiglia di
moretti accatastata sulla luna, l’anello resterà per poco sulla spiaggia. Quando a forza di ferirci,
siamo diventati consanguinei. E tu risparmi sul riscaldamento e sulle arance. E mi distraggo
mentre mi parli delle tue giornate perché non compaio più tra i titoli di coda. E mettevamo i
capelli tagliati male sul davanzale perché alle rondini potevano tornare utili. Rassicurare le
madri, che se ne fregano che se ne fregano. Mi sa che troveremo una strada mi sa Sara, come
quando davanti al muro del pianto siamo caduti per terra dal ridere sommesso.
Come quando dentro piove e alla stazione di Mestre sembra sempre di essere in un film che
devono ancora fare.
Che hai fotografato la mia chitarra che adesso è morta rotta. E sorridevi dappertutto coi tuoi
capelli corti. Pensavo fossi riservata e per lavarti le mani andavi su un’altra galassia. E le stelle
cadono negli occhi con rumore di vetri rotti e delle petroliere che sprofondano nel mare, di
vestiti sepolti in appartamenti abbandonati da noi, al primo e penultimo anno di università. La
notte era blu metallizzata e ci correvamo dietro facendo finta di non vederci. sotterrando tra
colpi di tosse e conversazioni la nostalgia, il nostro reparto di artiglieria, il nostro reparto di
cardiologia. E i nostri ricordi si mettevano a dormire su tutti i centimetri liberi di pavimento
della casa dei miei genitori. E tu che sei nei cieli, che sei lo spartitraffico dei desideri. E che sei
stata a Milano per un colloquio lunghissimo e ti ha fatto schifo e il duomo è ancora coperto
dalle impalcature. E hai presente gli incubi che diventano così ingestibili che ti svegli. Il
problema dici, è che guardiamo troppo pochi film neorealisti. E che le macchine corrono, e i
fiumi in piena di ghiaia e di lattine si fermano. Costruiamo delle discariche per quegli articoli su
di me per non pensarci e per le domande del cazzo. E al telefono la tua voce, all’inizio non ti
riconosco mai.
Non ti ricordi neanche in che città siamo. Cercheremo due camere separate, faremo provviste di
affetto. Per ballare e per pestarci tutto l’inverno. Per farti fare degli straordinari straordinari.
Non ho fatto in tempo a salutarti, a parlarti, a rovinarti tutti i pensieri su di me. e nelle poche
scuole pubbliche a riverniciare il futuro. Stiamo senza fiato a fissarci. Critiche da tutte le parti,
pareri sulle canzoni, paragoni paragoni paragoni. La tua vita non è una carriera lavorativa. È
venuto giorno fuori da questa stanza. Un nome che ti trema dentro. E ci metteremo a tremare
come la California. Ad urlare alla finestra.
E cosa mi esce dalle mani, quante persone hai partorito. Come è diventata la tua vita, quanto ti
costo, come ti mantieni. Facevate l’amore da stravolti. Dove sono quei file di ricordi. Il tuo
periodo delle tre quattro pere al giorno che era praticamente come dover pregare alla Mecca. E
con un colpo di reni ti allontani prima tu, per istinto di sopravvivenza o per andare a morire
sulla riva. e altre lettere d’amore e di guerra scritte a computer, di frasi con il porto d’armi.
Sono bastati tre scatoloni di cartone neanche troppo grandi per abbandonare la nave arenata in
viale Romagna. Non scende più la sera, nella tua stanza delle preoccupazioni. E mi scrivevi che
ti eri fermata a tirare pezzi di strada sulla strada. E io volevo tornare a casa. Sarà il sole negli
occhi sarà a dormire negli alberghi per sempre e l’avambraccio sinistro abbronzato. I camion
che si sorpassano un centimetro al minuto. I camionisti che si addormentano. I giganti che
hanno le cartilagini delle ginocchia molto fragili. Ci stanno costruendo addosso delle armature
dolorosissime. E ti costruisco una corona di filo spinato per non entrare nella tua testa. Abbiamo
dimenticato in frigo le nostre mani amore, hanno fatto detonare gli arcobaleni perché tanto sono
tutti daltonici. Chiederemo alle fontane di decidersi da parte nostra, di fare qualcosa. La prima
volta che abbiamo suonato assieme non me la ricordo più di tanto, mi aveva detto dei titoli di
canzoni da provare che non mi piacevano più di tanto ma facevo finta di sì. Mi aveva trascritto
anche gli accordi, erano facilissime, me ne rendevo conto ma non le capivo, non avevo neanche
capito che il basso si suonava una corda alla volta.
Dici che hanno bonificato tutti i campi nomadi, che adesso devono solo trovare dei sinonimi. È
sempre bastato trovare dei sinonimi. O dei transatlantici o delle astronavi. Hai visto il cielo di
Algeri, l’hai fotografato.
Dici che i francesi hanno sterminato una generazione come in Vietnam gli americani. Qui le
pattuglie rincorrono gli insetti notturni. Dove saremo relegati. Quando scongeleremo tutti i
silenzi. Dici che anch’io, dove sono passato, ho sempre distrutto tutto e tutti. Che finirà a
spargimenti di sale sul tuo cuore. E distrattamente rimetto a te tutti i miei cazzo di debiti e le
mie medaglie olimpiche. E tutte le frasi i giudizi i pareri gli autografi i consigli le indiscrezioni i
chiarimenti su di me, sulle canzoni che non me ne frega un cazzo. Che camminando da solo per
Parigi pensavo alle mie prospettive e ai venditori di libri e di cianfrusaglie sul lungosenna. E ho
Smesso subito di pensarci, mi sono messo solo a guardare le passanti poi mi sono perso e ho
preso una metropolitana a caso. E mi chiedevo per quale motivo Battisti se n’è andato e Mogol
è ancora qui. I meteorologi ci hanno consigliato di restare a casa stasera, e il sindaco di Roma ci
ha detto che se andiamo fuori Roma lo facciamo a nostro rischio e pericolo, che dopo
mezzanotte sei tutelato solo se stai disegnando delle croci celtiche in centro.
E poi addormentandosi con il condizionatore che sembrava di essere degli alpinisti dispersi,
invece eravamo dietro un palco in un camerino. E se ci telefoniamo non ci telefoniamo. E se
non ci presentiamo ufficialmente è perché hai le mani occupate dai bicchieri di vino e poi per
piacere ripetimi il tuo nome. Ripetimi quello che hai detto che c’è la musica alta che non sento.
Che è tutta l’estate che non capisco praticamente un cazzo di quello che mi dicono. Era per
capire se ti toglievi gli occhiali quando mi vedevi. Se naufragheremo veramente nelle nostre
scelte esagerate, se le stelle comete come te. Se è la luna o una lampadina appesa storta al
soffitto che sputa fuori una luce che la camera sembra ancora più in disordine e noi con le facce
verdi gialle bianche grigie e blu, anche d’estate. E nei telegiornali ci sono dei pianoforti
melodrammatici e spargimenti di soldati. La nostra repubblica democratica fondata sui
telespettatori. I telespettatori. I telespettatori. I telespettatori. I telespettatori. I telespettatori. E le
manifestazioni in camera mia, i cortei nei corridoi della casa dei tuoi genitori.
Hai scritto sulla sabbia che mi pensi raramente. Su una spiaggia africana sproporzionata alla Bic
nera che ti eri portata dietro. E i bambini che cuocevano dei pesci piccolissimi sulla riva,
secondo le statistiche sulle prospettive di vita ora dovrebbero essere diventati fiumi oppure terre
un po’ meno aride oppure oceani. Quando gli ecomostri calabresi non sono riusciti a
spaventarci anzi erano accoglienti per i tossici e per la nostra sottospecie di amore. E si zittirono
le chitarre in tutte le spiagge del Montenegro, arrivavano da Bari i traghetti a basso costo.
E inciampavamo sulla sabbia finta per le tequila a un euro. Ci cadono in testa le stelle
inchiodate male, chissà quando tornerà l’estate di tre anni fa. Raccogliendo con il metal detector
le catenine e i desideri, sulle spiagge dei lidi ferraresi. E le macchine degli ex operai della fiat,
in coda per andare in Liguria al mare, aprivano un buco nell’ozono. Su quella strada costruita
apposta per loro. Quando negli anni sessanta si sono inventati le spiagge con dei decreti. E i
tedeschi sul lago di Garda sono stati i primi a fare il bagno, quelli del posto ci andavano solo a
pescare, a lavare i cani e i vestiti. C’erano camion in giro che trasportavano quintali di sabbia
E li depositavano sulle paludi facendo finta di niente.
Quintali di sabbia che ti entrerà nelle scarpe. Quando ci siamo annegati per riuscire a non
vederci più. Quando anche le stelle sono state trasportate coi tir e appiccicate al cielo col timer
per farle cadere con le granate di san Lorenzo. Precipitare sulle nostre due settimane lorde di
vacanze. Quando strattonavamo il mare dove andavamo a farci male. Quando gli attori e i
calciatori si compreranno tutte le isole del mediterraneo e del pacifico. Quando ti ho portata al
mare d’inverno e sembrava di essere sulla luna ma mancava la bandiera americana.
Buonanotte fiorellino e l’anello non resterà per molto sulla spiaggia.
Quando pensavo di riuscire ad intravedere la Jugoslavia sull’altra riva, e invece non si vedeva, e
invece non c’era già più. Tu che hai fissato i soli, camminato sulle conchiglie sui chiodi e sui
preservativi usati. Arrivavano a riva delle bottigliette con dentro arrotolati dei fogli di carta che
credevi fossero delle poesie ma erano delle multe e delle bollette da pagare. E sei diventata
pallida.
C’era un vento incredibile quella sera, ci siamo portati lo stereo a pile in spiaggia perché la
scoperta del punk è ingestibile in una stanza. Ho chiuso ermeticamente il vento in un sacchetto
di plastica e te l’ho regalato. E se gli alberghi appena costruiti coprono i tramonti tu non
preoccuparti. Siamo rimasti incastrati nella malta delle nostre spiagge improvvisate sull’argine
del Po, con la corrente forte e l’acqua limpida che a noi sembrava proprio pulitissima. E
abbiamo fatto il bagno vestiti, ubriachi fradici a quindici anni, gridando a squarciagola canzoni
Che sapevamo a memoria solo noi due. Inni nazionali per pochissimi. E abbiamo vomitato in
sincrono nel mare adriatico.
E durante i temporali stavamo in mezzo alla spiaggia, arrampicandoci l’uno sull’altro sperando
che un fulmine illuminasse qualcuno di noi. Invece ci ha solo divisi. Ci hanno divisi tutti. E le
canzoni non servono a niente. I gabbiani s’inseguono e bevono dalle nuvole per non far piovere
ma poi piove lo stesso. La spiaggia di Ostia, l’uccisione dei poeti e dei magistrati. Caro diario
questo è il monumento in ricordo di Pier Paolo Pasolini e un pianoforte sotto, che toglie le
parole. Fuori dalle discoteche ti cercano il fumo addosso. E passa qualcuno a raccogliere le
siringhe sulla spiaggia con speciali attrezzature, sui tre metri di spiaggia libera in cui ci siamo
trasferiti da tre anni. Distribuendo giudizi universali sui turisti sulle riviste coi pettegolezzi sui
discorsi da bar sulla realtà. Sulle vite virtuali dei nostri coetanei. Il cortocircuito tra i turisti e i
naufraghi sulla stessa spiaggia a Lampedusa. I cadaveri verso ovest, la respirazione artificiale
dei finanzieri e i carabinieri e gli aiuti umanitari distribuiti con le mitragliatrici e i medicinali
scaduti. E cazzo si è insabbiata la macchina, facciamo il bagno nudi per festeggiare una notte di
sbattimenti. In una spiaggia stupenda. Ma era proprietà privata. E la mafia e la mafia e la mafia.
Le giornate che si accorciano. Milano marittima e i mutui per gli happy hour. E in India i bagni
sacri nel fiume lasciano addosso l’odore di benzina. E non ho mai avuto il coraggio di suonarti
niente, figurati.
I falò si spengono uno dopo l’altro dopo l’altro. Ci siamo nascosti per scopare male tra i
fazzoletti di carta e le resine dei pini, e siamo tornati che gli altri erano già andati via.
D’altronde era mattina inoltrata. C’era un pesce morto sulla riva e mi ha fatto ridere una cosa
che hai detto inerente alla nostra colazione. Una riga nera lunga venti chilometri coincideva con
la fine del nostro mare. Del mare che avevamo a disposizione. Le colonne d’Ercole scomparse
dalle cartine geografiche sono rimaste alte nelle nostre teste, per delimitare le nostre aspirazioni
e arginare le nostre delusioni. La realizzazione del nostro potenziale vitale, come lo chiamava
Mao sparando a vista nelle campagne cinesi alle donne che si tagliavano i capelli. Avevo perso
le scarpe cinque o sei ore prima, eravamo ancora brutti come nelle fototessere e il mare era
troppo salato da affrontare e noi troppo graffiati. Poi cominciarono ad arrivare i bagnanti
mattinieri del quindici agosto. E siamo scappati e non siamo mai più tornati.
E gli ultimi soli dell’anno tramontano che sei in ufficio. Tramontano sotto le scrivanie della
gente per cui lavori e per telefono, per la prima volta, ci riconosciamo subito. Quando si fanno
firmare i cidì i poster le foto i fogli i figli le foglie non lo dici ma pensi che sono un impiegato
anch’io. E il duomo di Modena è bellissimo completamente coperto dalle impalcature. E per le
nostre trasfusioni vuoi la vernice rossa perché è più coreografica.
Non ci sentiamo da tre giorni, mi battezzi con i caffè americani, con i vini rossi. Con i piercing
attaccati ovunque. E il bagno della tua nuova casa sta felicemente crollando su se stesso.
Guardavo per ore dalla tua finestra che dava sulla strada come quando guardavo dentro l’oblò
della lavatrice della casa di mia nonna che chissà adesso chi ci abita. Che avevo tre quattro anni
ma ci sono cose che mi ricordo benissimo. Se non fosse per questi stravolgimenti climatici
cardiaci e personali sarei più normale. E il razzismo dilagante viscerale che abbiamo intorno
amore non ci farebbe incazzare a morte. E ti porterei in un parco o su un’isola di traffico o su
una rotonda a piantare i semi di frutti tropicali. È inutile dire che è un periodo difficile, sono
tutti così. Quando siamo distanti quattro piastrelle del pavimento ma sembrano continenti e fusi
orari. E ho la chitarra in macchina da tre giorni spero che ci sia ancora.
Schiariamoci le idee, allontaniamole dalle nuvole. E dall’aria fredda. Dai cieli indecifrabili che
ci sorvolano come degli aerei turistici. Falliscono le compagnie aeree le banche le case
discografiche e chissenefrega come le città che ancora ci telefonano di sera, che hanno la voce
tremolante di tua madre. E i nostri disagi economici.
Nei nostri bunker antiatomici sotto le coperte esploriamo i continenti e i nostri sentimenti,
parlando dei nostri lavori e di Gianni Celati che male che vada ce ne andremo anche noi in
Inghilterra. Quando ci è venuta la broncopolmonite perché scopavamo sempre in macchina,
anche in pieno inverno. E disegnavamo con le dita sui vetri gli elettrocardiogrammi piatti di
tutti. Le nostre incomprensioni e il brutto tempo. A Milano si lamentano della neve che ruba i
parcheggi. Ti ricordi quando venivo a trovarti e facevi la cameriera e avevi dei corvi negli
occhi. Mi parlavi delle migrazioni delle rondini nelle cisterne e ti diventavano le guance rosse,
come in quella canzone del cazzo che sappiamo a memoria senza volerlo.
Entrando in treno, nelle nostre periferie lunari. Le cicatrici sui volti di maghrebini distrutti,
come dei paracarri. Come i nostri sentimenti computerizzati. Per incontrarti su internet dopo
tredici ore che lavori. E dici che quando torno dobbiamo farci gli esami del sangue. Le nostre
anime inaccessibili le abbiamo intossicate. Le nostre scenografie non sono ancora crollate. La
visita te l’hanno fissata tra tre mesi, intanto è meglio se non scopiamo o se scopiamo il meno
possibile. Mentre dormiamo le esalazioni di monossido di carbonio del nostro amore ci fanno
finire al pronto soccorso o direttamente sul telegiornale.
Ti chiamo e mi rispondi pianissimo – Vasco, ci sentiamo più tardi, tipo tra mezz’ora – Stavi
lavorando.
Tra le tue ansie portatili e i risultati elettorali di qualche paese straniero. La macelleria che c’è
in camera tua quando mi guardi e fuori comincia a diluviare.
Poi mi richiami e volevo dirti una cosa che poi non mi ricordavo più.
I passanti sono dei vulcani spenti, e alcuni manichini escono dai negozi. I telegiornali cercano
degli altri sinonimi per non dirti che in Europa fanno piovere bombe su un popolo di dodicenni.
E sugli edifici blu. Costruiamo con le nostre mani le torri di controllo per i tuoi cambi d’umore.
Mi hai scritto che hai cambiato ancora la disposizione dei mobili nella tua stanza, poi mi dici
che non sai neanche se si può parlare di mobili.
A colpi di lanciafiamme e di La minore. Di distorsioni su violoncelli, mitragliate di sguardi. E i
palchi che sembrano delle astronavi, che quando arrivi d’inverno fai le nuvole con le parole
mentre canti. E le luci bianche, gli sbadigli che ti divorano e degli applausi come le ali delle
anatre quando da piccoli con i miei fratelli gli tiravamo i petardi.
Non c’è un cazzo da piangere. E dai vicoli e dai ventricoli del tuo cuore, arriva un silenzio
strano, tipo certe chitarre affondate nei riverberi da Hugo Race nei primi dischi di Nick Cave. E
la neve nera che cade a Milano, la tieni in frigo per me per quando torno. – sempre se torni. –
mi dici come ultima cosa prima di chiamare l’ascensore.
Abbiamo nascosto le nostre armi di distruzione di massa sotto il letto, e male che vada ci
trasferiremo in Svizzera come Mina. Non riuscirete ad arrestarci tutti, c’era scritto in una foto in
bianco e nero sul tuo armadio.
Stavi collassando, quando mi hai scoperto che parlo al plurale per sbaglio. In treno ti ho
telefonato per parlarti di questo periodo. – Dopo questa lavanda gastrica di ottimismo a cosa
vuoi sottopormi – mi hai detto.
E sono cadute le risate sulle rotaie che spaccavano i campi. Poi mi parli dei marocchini che si
tuffano nella neve e dei cinesi che si rincorrono. Mi dici che posso risparmiarmi le mie inutili
lettere d’amore e di lamentele da dalle camere di alberghi senza stelle.
Piovono delle monete da due euro, altri martiri e altri martedì magri. Mischio gli impegni, le
ulcere in bocca e i film di Dino Risi. Le agenzie di viaggio devono continuamente riallestire le
vetrine, aggiornandosi con la geografia dei paesi che entrano in guerra. A Napoli un cielo
azzurro chiaro esce dalle finestre e dalle grondaie dei palazzi ammassati.
Mentre me ne vado, mi rendo conto che ti ho lanciato una specie di bacio soffiandotelo contro.
Non so se i serbatoi di vino bianco serviranno davvero a qualcosa. E tu hai fatto praticamente
finta di niente. Le nostre carte nautiche ci dispiace ma non si assomigliano. E lo spiazzo grande
come un pugno chiuso che hai sul cuore non è ancora edificabile. Poi risalgono in superficie
davanti alle coste calabresi delle sirene tunisine, ma tanto addestreranno delle squadre di squali.
E l’anticiclone non ci cambierà i lineamenti.
In televisione i fondamentalisti cattolici e il dovere alle cure e il diritto alla tortura. E altre
nevicate di fosforo bianco sulle nostre teste e su queste schiene, altre nevi perenni in lontananza
e camion di provviste, fermi da tre mesi, che non possono entrare a Gaza.
Patiboli e succursali di ipotetici paradisi terrestri. E i nostri corpi celesti. I nostri arrivederci.
Abbiamo ereditato solo queste macerie di sogni, sul lungomare di Rimini.
Conduttori televisivi con troppo gambe, e pochi proiettili. Miserere amore mio e la nostra
mancanza di sintonia. Le nostre antenne arrugginite. E deleghiamo ai piccioni la soddisfazione
di cagare sorvolando lo stato pontificio. Feroci vicende mediatiche, che producono bava alla
bocca dei talebani cattolici, nuovi pozzi artesiani e altri bacini di voti. Parliamo per un po’
prima di addormentarci, prima di dimetterci da questa giornata poco pagata. E i nostri oroscopi
e le nostre previsioni del tempo sbagliano quasi sempre. - spegni la luce. – Arrivano navi da
crociera arancione nei quartieri dormitorio. Il blu oltremare delle nostre anime assiderate.
Quando avevamo quattordici anni e come nei film di Rossellini. Altre eclissi e lontananze
oceaniche da te. Ci daranno trenta euro e ci metteranno in fila tra le teste chinate e i cuori magri,
su scale mobili e su tappeti volanti. E su divani molto comodi. Vedrai che scopriremo delle altre
americhe io e te. e il ronzio del lavoro di tutti, come il rumore del mare. Il mestiere di vivere,
ogni tre frasi alzi gli occhi e guardi il muro bianco sporco davanti a te. I tuoi piccoli principi
tutti appesi.
Sull’adriatica con gli angoli della bocca all’ingiù. Siamo molto diplomatici e di carta vetrata.
Quando l’amore è un intralcio. Le nostre frasi non possono dissanguarci molto. Mi dici che non
trovano volontari. Organizzano delle ronde. Nei regni dei cieli. Non mi succede niente di che.
Sono solo un po’ stanco e stanco di parlare male di me. Di dire come sto, e di sapere cosa ne
penso e cosa non ne penso. In studio di registrazione cammino anche sulle pareti, le chitarre mi
si sono intrigate nella schiena. Tu mi dici che neanche De André voleva passare la vita ad
avvitare delle canzoni. Intanto il nostro amore diciamo che si è trasformato, gli abbiamo messo
una maschera d’ossigeno. Ma non crediamo che ce la farà. anche per i nostri orari diversi, sì
certo anche per i nostri orari diversi. L’Adriatica l’abbiamo percorsa tutta, e le puttane questa
volta non ci hanno chiesto passaggi per tornare a casa, e le portiere sbattute da lontano
sembravano degli applausi.
Mi riesce più difficile continuare questa sotterranea guerra. Il cielo underground. Mi viene più
spesso da pensare al mare, a quando da piccoli i nostri genitori ci facevano entrare in fretta in
casa, uno dopo l’altro, per non fare entrare con noi troppe zanzare che poi passavano la notte
attorno alle nostre orecchie. Quando mia nonna, nel bel mezzo degli anni novanta, ci stupiva
ringraziando dio in dialetto, guardando il soffitto, per aver mangiato. un omogeneizzato o un
po’ di minestra in brodo. Ho strappato delle foto per appenderle al tuo armadio.
E tanto poi tu spedirai tutto a Buenos Aires e tanto sarò già ripartito anch’io. E mi raccomandi
di non prendere troppo sole se no mi scambiano per maghrebino ma di non essere troppo pallido
se no mi scambiano per rumeno.
E adesso gli strascichi delle nostre ombre lunghe come tutta via venti settembre. La tua
punteggiatura e le canzoni che magari mi affondano. Delle officine nel nostro intestino, nel
nostro destino e nel mare salmastro della stanza in cui ti sei trasferita. Lì vicino dicono di avere
Trovato sessanta cinesi che entravano da un tombino. E il problema resta la loro presenza,
dicono i cuori, i colesteroli, i ministri leghisti. Mi hai telefonato che stavo scrivendo che nostra
madre ci diceva di camminare in fila indiana sui marciapiedi stretti, con le macchine che ci
sfrecciavano vicino alle guance perché eravamo ancora alti un metro e dieci. Si sbracciano dei
bambini con il casco davanti alle telecamere e ci guardano. Qualche scontro di lamiere e di
astri. E ascoltiamo al contrario le canzoni ma non ci dicono niente neanche così. Ci fanno a
malapena arrivare a sera. Nel 1943 dalla prigione di via piangipane Bassani scriveva ai parenti
lettere precise e tranquille. In Italia in carcere in quel periodo c’era della bellissima gente,
scriveva.
A volte si sente male quando mi chiami perché la capsula microfonica del tuo telefono è piena
di lacrime. Lo so, lo so. I rami degli alberi la mattina sono ancora coperti di strani rimpianti e le
tua ciglia di brina. E me ne accorgerò solo quando ti avrò persa. E avrò imparato a registrarmi
con pro tools. Il colore inchiostro dei nostri sguardi migliori proiettati al futuro del nostro
futuro, e le ruspe dietro di noi. Volavano via le volontà dei pazienti su dirigibili sponsorizzati
Bayer. Mi trascrivi il testamento biologico dei tuoi sogni cadenti. La fiducia in te stessa che non
hai mai, suonano dei pianoforti finti, delle tracce midi che se vuoi diventano archi oppure
organi oppure violoncelli finti. Il colore bluastro del bianco dei tuoi occhi, che ci sconfinano
dentro le navi arrugginite che arrivano di notte e che ogni tanto spariscono oppure le
rispediscono indietro. Le infrastrutture del nostro rapporto. Le tue canzoni ballabili, tra me e me
e tra le macerie dei cieli azzurri. Come una specie di talismano tengo i tuoi occhi nella tasca
interna del giubbotto. Attraversavamo di continuo, su un treno regionale, la campagna tra
Ferrara e Bologna, che tra un po’ sarà piena di appartamenti. Con il sole che collassavo sui
campi arati. Guardavi dal finestrino - Che posto di merda. – mi dicevi.
Qualche anno, e solo gli orizzonti immediati, quelli che raggiungiamo sputando davanti a noi.
Gli incassi diminuirono, e chiusero il teatro. Stavamo davanti all’ingresso di un bar, cercando di
ripararci dalla pioggia, ma senza i soldi per una consumazione non ce la sentivamo di entrare.
Tra le vie sterrate in salita appena fuori da Sarajevo, e i pneumatici lisci che fischiavano alle
ragazze con i jeans attillati le scarpe da ballerina e il velo. Tu fumavi così tante sigarette che ci
portavamo sempre dietro delle nuvole, appena sopra i capelli. Adesso non ti dico niente perché
sei pensierosa. Mi sento anche un po’ in colpa perché con un calcio ho fatto partire l’airbag
della tua macchina. Via Ripagrande è ancora così storta, perché una volta ci scorreva dentro il
fiume. Pietre, impermeabili, e tu che hai ancora le tue nausee. Il ministro degli interni dichiara
che il nostro sarà un paese multietnico ma non multiculturale, la cultura rimane quella cattolica
apostolica e postfascista. Ci sembriamo due estranei, nel giardino degli sbadigli di Catania,
quando le colate laviche, le guerre e i terremoti le cambiavano di continuo i connotati. Ti bucavi
ma non ti usciva il sangue, ti si gonfiavano solo a volte le mani, ma per una questione
circolatoria. E posso darti degli altri nomi stupidi per non prenderti sul serio.
I prodotti importati, i libri sfasciati, leggi che le prostitute spulciavano i loro bambini sulla
soglia delle camere aperte ai passanti. Che Simone De Beauvior è la persona migliore che hai
conosciuto ultimamente. Che la notte pioveva e la mattina poi camminava nei pantani sotto un
cielo di un azzurro dolcissimo a Città del Messico.
Lo scompartimento della tua piccola gabbia toracica che perde, che sgocciola come un
frigorifero sbrinato. Dici che tanto lo sapevamo che l’eternità era un nostro modo di dire.
Quando ti vengo incontro che torni da lavorare e le camice bianche che ti devi mettere sono
sempre un po’ troppo larghe per te. per i nostri voli rasoterra per la storia, per questa operazione
commerciale di diventare degli adulti. E quella chirurgica di separarci.
Tanto ti uscivano le lacrime anche al ristorante, e ancora questo silenzio e queste strade
immacolate. E la tua pelle rovinata. L’acqua, le canzoni e le altre risorse limitate. I nostri
laceranti arrivederci. Come in quella canzone di De Gregori che dice Bene, se mi dici che ci
trovi anche dei fiori in questa storia sono tuoi.
Tra le articolazioni delle nostre braccia, una lotta senza fine alla tristezza comprando dei
soprammobili colorati. Scrivi che ti ritrovi ancora tra gli scatoloni. Tanto prima o poi moriremo
ci dicevamo ridendo. Sventolano dei fazzoletti bianchi dalle finestre quando passiamo, per
salutarci o perché si arrendono. Che quando ti guardi intorno dici spesso Oh partigiano portami
via. Che quando guardi il telegiornale dici spesso Oh extraterrestre portami via. Avvolgiamo nel
cellophane il nostro amore e lo carichiamo in macchina. Spediscono dei reporter di guerra nel
tuo cuore. Spariscono dei reporter di guerra. Delle ronde di merda. Qualcuno ha scritto sul muro
che era un sognatore eppure spesso gli insetti non lo lasciavano dormire. Gli stranieri
diventeranno degli estranei e poi degli alieni. Con un collutorio cancelliamo le parole che ci
siamo detti in certi pomeriggi corti e freddi. La moderazione dei governi. Ogni tanto gli aerei
cadono ma quasi non ci si fa caso. E al telefono non sapevo più cosa dirti. Allora abbiamo
parlato di domani luminosi e di ragazze madri. Degli eterni ritorni, di fiamme tricolori e di
trasformisti. E di queste quattro strade da cui non siamo mai riusciti a separarci, come
Bianciardi.
Nei nostri sogni ricorrenti. Ci sono dei black out perché ci sono troppi condizionatori accesi. La
nostra guerra d’indipendenza non serviva. Un campo di girasoli sulla nostra destra, mentre ti
riaccompagno a casa. Tra uragani e bagagli smarriti. Volevi sempre che leggessi ad alta voce.
Tra ore d’aria e libertà condizionata. Con i capelli e i pensieri diradati, e i programmi
ministeriali che non coincidevano con i nostri. Ti accompagno al mercato coperto ma la frutta
costa troppo e prendiamo solo una ricarica per il telefono. Poi finirà la musica e chissà. La mia
solitudine adesso è alta tre metri. Come le donne che lavavano le tute dei reparti dove si
lavorava l’amianto che poi sono morte di cancro. D’inverno alle cinque di pomeriggio è già
notte. I cieli dell’argentina non assomigliano ai miei occhi. I passaporti le caserme e l’eternità in
cui noi non ci saremo. Capisco la disposizione dei mobili e intanto tu studi francese. I nostri
corpi estranei e dei silenzi. Quando ho pensato che sei come l’edera. Quando hai pensato che
sono come l’edera. E comunque non ci hanno neanche mai promesso niente.
Ho scritto in cielo alcune frasi perché tu le vedessi, ma c’era un vento feroce e troppi elicotteri.
Sei un po’ triste perché non abbiamo scopato. E le nostre parole erano anidride carbonica.
Questo cielo fosforescente e i doppi vetri che non bastano per dimenticarci, i tuoi passi in
corridoio tornando dal bagno. Alle porte chiuse dell’Europa. I consumatori e se piangevi era per
un calo di zuccheri. Quando finalmente usciranno le farfalle che abbiamo nello stomaco. Per
ritrovare delle parole.
Via, via, prima che si ricordino di noi. Ho incrociato PJ Harvey in aeroporto a Madrid, era
molto magra. Le nostre discussioni sull’origine dell’universo e sulla resina che non va più via
dal parabrezza, la macchina parcheggiata per una settimana sotto un albero che sta fiorendo.
Delle agenzie spaziali. I danni collaterali non saranno mai i primi a essere presi in
considerazione. Ci fischiavano ancora le orecchie perché i gruppi che hanno suonato avevano i
volumi troppi alti o perché qualcuno ci stava pensando. C’erano dei bagliori in fondo alla
strada, ma non riuscivamo a capire se era un temporale o una discoteca. C’erano dei bagliori in
fondo alla strada, ma non riuscivamo a capire se era un temporale o una discoteca. C’erano dei
bagliori in fondo alla strada, ma non riuscivamo a capire se era un temporale o una discoteca.
Grazie
A Sara e a tutte le distanze, ai miei amici, ai miei fratelli e ai miei genitori, ad Andrea, Beppe e
Fabio della libreria Modo Infoshop di Bologna, al Korova Milk Bar di Ferrara, a Luca e a
Locusta, a Enrico e alla Tempesta, alle lettere a nessuno, agli anni zero e ai torrenti nella
stagione del disgelo.