Cosa ostacola e cosa facilita la partecipaizone

4
12 MONO Cosa ostacola 1. Cultura politica del Novecento U na organizzazione con una cultura politica in cui si teorizza la sepa- razione tra fini e mezzi ostacola la partecipa- zione. Se in un gruppo anche solo alcuni e alcune pensano che il fine possa giustificare il mezzo, vi è il ri- schio che una cultura della violenza si possa diffondere. Una concezione della politica nonviolenta è quindi una condizione indispensabile 1 . 2. Antiautoritarismo ideologico Una organizzazione con una concezione ideologica del potere e dell’autorità può ostacolare la partecipazione nella misura alcu- ni membri sono convinti che, per dirla con De Andrè, “non ci sono poteri buoni”: se c’è una cultura in cui si pensa che chi prende il pote- re (coordina, dirige, ecc.) anche se è bravo diventa “il cattivo” diventa difficile costruire in positivo un potere condiviso e ci sarà sempre una frangia critica che delegitti- ma l’autorità. Per questo è utile ri- chiamare la distinzione di Hanna Arendt sull’autorità. L’autorità può essere esercitata in modo autore- vole o autoritario. L’autorità quindi non è il problema, il problema è l’autoritarismo. Inoltre nella let- tura arendtiana della modernità, la crisi dell’autorità è proprio un aspetto dei processi di individua- lizzazione della società che osta- cola la possibilità di uno spazio politico autentico 2 . Per dirla in modo semplice: è la società di merca- to che insegna che sono tutti cattivi e non possono esser- ci poteri buoni. Sul fronte etnografico e socio-antropolo- gico, Pierre Clastres ha mostrato come molte società tri- bali avessero una struttura sociale egualitaria dove i capi esercitavano il potere per la socie- tà e non contro la società. Il giovane antropologo andò oltre, ipotizzando che le culture tri- bali avessero scelto deliberatamente di non permettere uno sviluppo gerarchico della società e fossero cioè “società contro lo stato” 3 . L’ipotesi è suggestiva so- prattutto se si pensa che ancora oggi le popolazioni indigene co- stituiscono una grossa minoranza nel mondo e nel ‘700 erano ancora la grande maggioranza delle po- polazioni del pianeta Terra. Con- trariamente a chi pensa che dalla notte dei tempi il potere implica la coercizione e la violenza. 3. Tempi brevi ed emergenze La dimensione temporale gioca un ruolo fondamentale nell’eser- cizio della democrazia. I tempi brevi o la mancanza di tempo per discutere, ovvero le sirene dell’e- mergenza, portano non solo le organizzazioni a prendere deci- sioni velocemente, ma a lasciarle decidere ai soliti ig(noti); per gli indigeni insurgentes del Chiapas democrazia e burocrazia hanno in comune i tempi lunghi. Anche la condivisione dei tempi di decisio- ne, la puntualità nell’inizio e nella fine, la gestione corretta del tem- po per la discussione sono ingre- dienti essenziali della democrazia. Cosa ostacola e cosa facilita la partecipazione La crisi della democrazia occidentale passa per la demotivazione alla partecipazione. Simone Lanza (*) facendo riferimento alla democrazia partecipativa di associazioni, organizzazioni politiche e realtà lavorative del terzo settore (Ong e cooperative sociali), delinea schematicamente alcuni fattori che ostacolano e altri che facilitano la partecipazione. Se non c’è possibilità di influenzare gli altri membri del gruppo non ci può essere partecipazione: spesso si crea una separazione tra chi critica senza prendersi responsabilità e chi detiene il potere, si sporca le mani, ma non si mette davvero in gioco per promuovere la partecipazione di tutti e tutte. di SIMONE LANZA

description

Un articolo di Simone Lanza del 20 agosto 2013

Transcript of Cosa ostacola e cosa facilita la partecipaizone

Page 1: Cosa ostacola e cosa facilita la partecipaizone

12

Mono

Cosa ostacola

1. Cultura politica del Novecento

Una organizzazione con una cultura politica in cui si teorizza la sepa-razione tra fini e mezzi ostacola la partecipa-

zione. Se in un gruppo anche solo alcuni e alcune pensano che il fine possa giustificare il mezzo, vi è il ri-schio che una cultura della violenza si possa diffondere. Una concezione della politica nonviolenta è quindi una condizione indispensabile1.

2. Antiautoritarismo ideologicoUna organizzazione con una

concezione ideologica del potere e dell’autorità può ostacolare la partecipazione nella misura alcu-ni membri sono convinti che, per dirla con De Andrè, “non ci sono poteri buoni”: se c’è una cultura in cui si pensa che chi prende il pote-re (coordina, dirige, ecc.) anche se è bravo diventa “il cattivo” diventa difficile costruire in positivo un potere condiviso e ci sarà sempre una frangia critica che delegitti-ma l’autorità. Per questo è utile ri-chiamare la distinzione di Hanna Arendt sull’autorità. L’autorità può essere esercitata in modo autore-vole o autoritario. L’autorità quindi non è il problema, il problema è l’autoritarismo. Inoltre nella let-tura arendtiana della modernità, la crisi dell’autorità è proprio un aspetto dei processi di individua-lizzazione della società che osta-

cola la possibilità di uno spazio politico autentico2. Per dirla in modo semplice: è la società di merca-to che insegna che sono tutti cattivi e non possono esser-ci poteri buoni. Sul fronte etnografico e socio-antropolo-gico, Pierre Clastres ha mostrato come molte società tri-bali avessero una struttura sociale egualitaria dove i capi esercitavano il potere per la socie-tà e non contro la società. Il giovane antropologo andò oltre, ipotizzando che le culture tri-bali avessero scelto deliberatamente di non permettere uno sviluppo gerarchico della società e fossero cioè “società contro lo stato”3. L’ipotesi è suggestiva so-prattutto se si pensa che ancora oggi le popolazioni indigene co-stituiscono una grossa minoranza nel mondo e nel ‘700 erano ancora la grande maggioranza delle po-polazioni del pianeta Terra. Con-trariamente a chi pensa che dalla notte dei tempi il potere implica la coercizione e la violenza.

3. Tempi brevi ed emergenzeLa dimensione temporale gioca

un ruolo fondamentale nell’eser-

cizio della democrazia. I tempi brevi o la mancanza di tempo per discutere, ovvero le sirene dell’e-mergenza, portano non solo le organizzazioni a prendere deci-sioni velocemente, ma a lasciarle decidere ai soliti ig(noti); per gli indigeni insurgentes del Chiapas democrazia e burocrazia hanno in comune i tempi lunghi. Anche la condivisione dei tempi di decisio-ne, la puntualità nell’inizio e nella fine, la gestione corretta del tem-po per la discussione sono ingre-dienti essenziali della democrazia.

Cosa ostacola e cosa facilita la partecipazione

La crisi della democrazia occidentale passa per la demotivazione alla

partecipazione. Simone Lanza (*) facendo riferimento alla democrazia

partecipativa di associazioni, organizzazioni politiche e realtà lavorative del terzo settore (Ong

e cooperative sociali), delinea schematicamente alcuni fattori che

ostacolano e altri che facilitano la partecipazione. Se non c’è

possibilità di influenzare gli altri membri del gruppo non ci può

essere partecipazione: spesso si crea una separazione tra chi critica

senza prendersi responsabilità e chi detiene il potere, si sporca le mani,

ma non si mette davveroin gioco per promuovere la

partecipazione di tutti e tutte.

di Simone lanza

Page 2: Cosa ostacola e cosa facilita la partecipaizone

13

orientamento del gruppo alla solu-zione dei problemi, minori divisioni teoriche, maggiore collaborazione, minore competitività, maggior ri-conoscimento dell’autorità, mag-giore assunzione di responsabilità, maggior ascolto e mediazione tra gli individui del gruppo. Quindi una maggioranza (non una parità!) di donne comporta (ma non è una legge biologica e sempre vera) una maggiore partecipazione4.

c. Ascolto e rispettoRispetto e riconoscimento delle

individualità sono essenziali in un gruppo che si basa sulla parteci-pazione. Non occorre essere amici (spesso questo è un problema) ma le relazioni devono essere prive di rancori e inimicizie; il singolo non viene schiacciato dal gruppo se il gruppo non viene bloccato dal singolo. Il singolo ha il potere e la responsabilità di sollevare i proble-mi. Bisogna sapere convivere con le frustrazioni e le emozioni negative (paure, irritazioni, ecc.) che nascono quando le proprie idee non vengo-no accettate dal gruppo. Il rispetto degli individui passa per i diritti di essere trattato con rispetto, di ave-re ed esprimere opinioni e senti-menti, il diritto di essere ascoltata e presa seriamente, il diritto di dire “no” senza sentirsi in colpa, il diritto di chiedere ciò di cui si ha bisogno, il diritto di cambiare opinione e non essere giudicato.

l rispetto e il riconoscimento possono costituire una cultura di gruppo se ogni persona sviluppa soprattutto l’arte di ascoltare e comprendere. Purtroppo la nostra società non educa soggetti capaci di relazionarsi e collaborare ma esa-spera l’antagonismo (pensiamo al-la scuola, al tempo libero sottratto sempre più all’autogestione diret-ta da parte di bambini e bambine con attività strutturate da adulti, ai media come nuovo agente disedu-cativo, ecc.). Penso che la capacità di ascolto sia la virtù più in crisi (all’origine anche dei processi di

Cosa facilita

a. Principi chiari ed espliciti

I principi non sono sempre me-re dichiarazioni di intenti ma punti fissi su cui richiamare l’identità del gruppo e la coerenza tra teoria e pratica. Senza chiari principi fon-dativi non vi può essere gruppo e quindi partecipazione. Solo pren-dendosi la responsabilità di chia-rire quali sono i principi includenti (e quindi escludenti) del gruppo si può avere un gruppo che agisce coerentemente: qui possono vin-cere le idee e non le persone che le

propongono. Se i principi sono con-divisi non esiste una proprietà (pa-ternità!) dell’idea,

l’idea è autonoma, è liberamente modificabile da tutti e tutte perché è fedele interpretazione e applica-zione dei principi. Le dinamiche tra le persone lasciano lo spazio alla lotta tra le idee. Gli ideali sono im-portanti perché creano una cultura in cui si può contraddire il potere e i capi. Se non si può contraddire il capo pubblicamente l’organizza-zione non ha né grandi margini di partecipazione né grandi ideali.

b. Squilibrio di genereL’equilibrio di genere o meglio

uno sbilanciamento verso una maggioranza di donne è oggi ine-vitabile: il linguaggio e le modali-tà relazionali non sono neutre. La femminilizzazione dei consigli di amministrazione è strategia azien-dale (in Norvegia), perché produt-tiva. Può essere quindi considerata più efficace in termini di aggre-gazione del gruppo, perché dimi-nuisce la competitività all’interno dell’azienda. Nella mia esperienza nelle organizzazioni di base italia-ne laddove c’erano più donne di uomini nella gestione del potere c’era anche maggiore coerenza tra principi e pratiche, maggiore aderenza alle relazioni, maggiore

4. La regia nascosta dei soliti ignoti

Spesso in molte organizzazioni i soliti (ig)noti riescono a gover-nare perché esercitano il potere fuori dagli ambiti decisionali pre-posti. Quanto più in una organiz-zazione il potere è esercitato in modo informale tanto più questo rischio è alto. Il caso estremo e più diffuso è quello dove (per es. nei centri sociali), dietro all’ideologia dell’assemblearismo (tutto deve essere deciso in assemblea, anche a costo di fare assemblee fiume pesantissime in cui tutti hanno il

mal di testa) si pratica il potere di pochi. Nelle organizzazioni lavora-tive spesso viene additato il mo-dello organizzativo come l’origine di tutti i mali: in tal modo tutte le energie vanno nella modifica con-tinua dell’organizzazione, modifi-ca permanente che è funzionale al potere informale: cambiare modello organizzativo ogni paio d’anni serve a lasciare che i soliti ig(noti) possano esercitare il pote-re informalmente. In questo senso occorre precisare che l’esistenza di una leadership non è il problema. La leadership è la relazione tra i le-aders e il gruppo. Ponendo al cen-tro della riflessione il gruppo come soggetto di vita activa, potremmo anche vedere i leaders come co-loro che più si fanno influenzare e sanno sintetizzare umori e desi-deri del gruppo: i leaders comuni-cano, ascoltano, condividono ed esprimono i concetti in ideali e hanno un po’ le qualità descritte da Clastres a proposito dei capi tribù indigeni: capacità di media-zione e pacificazione, capacità di parlare, capacità di donare. Ma la leadership è una funzione del gruppo, e quindi non una qualità del leader: può ruotare.

la leadership è una funzionedel gruppo, più che una qualitàdel leader

Page 3: Cosa ostacola e cosa facilita la partecipaizone

14

mandante Marcos, che comanda obbedendo al consiglio dei coman-danti, che, a loro volta obbediscono alle comunità insurgentes6.

f. Formalizzare cariche e decisioniUn altro meccanismo che facilita

la partecipazione è la formalizzazio-ne delle cariche e delle decisioni. L’assunzione di responsabilità con-formemente agli statuti o a quanto previsto dal piano formale è impor-tantissima. Dove non c’è coinciden-za tra piano formale e informale, dove le comunicazioni viaggiano prima nei corridoi che nei giusti ca-nali formali, la democrazia sta sof-frendo: la formalizzazione di tutte le decisioni e il tenere traccia delle obiezioni è essenziale. In molte pic-cole organizzazioni si pensa spes-so di non dovere formalizzare le decisioni se non si è costretti dalla legge. Si considera erroneamente una burocratizzazione e spesso ci si ritrova all’incontro successivo in cui ognuno pensa di avere deciso una cosa diversa dall’altro. La rota-zione delle cariche è un corollario della formalizzazione: è sano che le cariche direttive siano a termine per evitare concentrazione di pote-re personale.

g. La gestione economica è politicaLe competenze economiche

diffuse e la trasparenza delle ge-stione dei fondi sono un altro mec-canismo che permette di oliare la democrazia. La conoscenza degli aspetti microeconomici deve es-sere competenza non delegabile dal gruppo. Non deve esserci se-parazione tra politica ed economia e deve esserci totale trasparenza nella gestione dei fondi. Occorre ricordare come il movimento dei movimenti prese le mosse dai bi-lanci partecipati di Porto Alegre.

tà al mutamento, perché solo gli imbecilli non cambiano mai le pro-prie idee. Estremizzando potrem-mo dire che il gruppo può crescere sul conflitto nella misura in cui le persone sono consapevoli di non essere degli individui ma dei sog-getti attraversati da (sane) contrad-dizioni5.

e. Separazione di poteri

La separazioni di poteri è da sempre indicata co-me l’essenza delle forme di gover-no democratiche. La separazione tra chi decide e chi promuove la partecipazione (tra facilitatore e co-ordinatore o direzione) e la separa-zione tra organi decisionali e organi esecutivi facilita la partecipazione. Per esempio la presenza di volon-tari in organi decisionali è faticosa ma di grande valore. In particolare la presenza di una direzione esecu-tiva diversa da un luogo collegiale decisionale è un meccanismo sano. In ambito strettamente politico è stata portata alla ribalta dal subco-

disgregazione delle coppie di oggi) in una società sempre più malata di immagine e spettacolo. Il gruppo deve fare attenzione non solo ai contenuti, ma anche ai sentimenti espressi dai singoli, deve promuo-vere la distinzione tra le persone e le questioni sollevate, evitare che vengano attribuite intenzioni agli altri, concentrarsi non sulle teorie e sulle analisi ma sulle soluzioni.

d. Il conflitto fa crescere il gruppoSe esistono i presupposti sopra

richiamati, il conflitto tra le indivi-dualità assume un ruolo positivo. Come insegna la pedagogia non-violenta il miglior modo per non essere violenti è sviluppare una pedagogia del conflitto: imparare a stare nel conflitto per evitare che degeneri in violenza. Il conflitto è un fenomeno umano e svolge sem-pre un ruolo positivo; spostando i contrasti sulle idee anziché sugli individui ci accorgiamo persino che le persone non sono individui, ma soggetti ricchi di contraddizioni interne, di diversità, di disponibili-

la separazione tra chi decidee chi promuove la partecipazione

è salutare

Page 4: Cosa ostacola e cosa facilita la partecipaizone

15

è una qualità naturale dell’essere umano, che fin da neonato è in gra-do di cooperare. Non è una capacità scontata, che possa svilupparsi da sé, senza essere attivata. Come ogni abilità sociale, necessita di un’edu-cazione collettiva: richiede la capa-cità di ascoltare e di dialogare per realizzare opere che singolarmente non si potrebbero conseguire8. È necessaria un›educazione alla liber-tà, libertà che inizia (e non finisce) dove inizia la libertà degli altri.

(*) Simone Lanza, [email protected], maestro elementare a Milano, ex vicedirettore di Agape, ha lavora-to in ong e cooperative.

Note1 Marco Revelli, Oltre il Novecento. La

politica, le ideologie e le insidie del la-voro, Einaudi, Torino, 2001.

2 Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze 1970, (ed. or. ing. 1961)

3 Pierre Clastres, La società contro lo stato, Ricerche di antropologia politi-ca, Feltrinelli, Milano, 1977 (ed. or. fr. 1974); cfr. anche la raccolta di alcuni contributi, id. L’anarchia selvaggia, le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re, Eleuthera, Milano 2013.

4 Centro culturale Virginia Woolf, L’auto-rità femminile, incontro con Lia Cigarini, ed. Centro Culturale Virginia Woolf-Gruppo B, Roma 1991e Diotima: Il cielo stellato dentro di noi. L’ordine simbolico della madre, La Tartaruga, Milano 1992.

5 Miguel Benasayag - Angélique Del Rey, Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano 2008 (ed. or. fr. 2007).

6 J. Holloway, La rivolta della dignità, in Camminare domandando, la rivoluzione zapatista, Deriveeapprodi, Roma 1999.

7 Si vedano gli interventi di P. Branca in, Il lavoro di comunità. La mobilitazione del-le risorse nella comunità locale, Quader-ni di animazione e formazione, Edizioni gruppo Abele, Torino 1996 e Territorio e lavoro di comunità, Corso di perfeziona-mento a distanza in pedagogia per il ter-ritorio, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Scienze dell’educazio-ne, CLEUP, Padova 2000

8 Richard Sennett, Insieme, rituali, piace-ri, politiche della collaborazione, Milano, Feltrinelli, 2012 (ed. or. Ing. 2012)

l’ideologia del consenso. Potremmo invece a buon diritto ricordare l’ap-provazione della costituzione italia-na come una lunga e ben riuscita decisione sulla base del consenso, tanto più apprezzabile quanto più diversi e opposti erano gli schiera-menti in campo. Ne è uscita una delle migliori carte costituzionali del mondo.

Il metodo del consenso è una metodologia decisionale di gruppo, che integra nella decisione anche

le considerazioni della minoranza. Con il metodo del consenso l’obiet-tivo è arrivare a

esplicitare gli elementi che acco-munano tutti i membri del gruppo anche a rischio di ridurre le poste decisionali. Si decide meno ma tut-ti insieme. Sebbene non sia di uso comune rispetto a quello per mag-gioranza il metodo del consenso è utilizzato da una grande varietà di gruppi nel mondo e le modali-tà variano considerevolmente. Si possono però evidenziare alcuni elementi che, specialmente grazie ai movimenti sociali recenti, con-traddistinguono questo metodo: la distinzione di ruoli (facilitatore/i, timekeeper, coordinatore, osserva-tore esterno o empatico, segreta-rio); la presenza del linguaggio non verbale (che serve a segnalare l’o-rientamento del gruppo, richieste di singoli e singole di chiarimento, a esprimere accordo o disaccordo mentre uno parla senza interrom-pere, ecc.); la possibilità di bloccare una decisione se non c’è convinzio-ne Tutti questi accorgimenti posso-no comunque essere predisposti in gruppi che scelgono di procedere per maggioranza ascoltando e tu-telando le minoranze.

La partecipazione alle decisioni di gruppo è difficile, ma non im-possibile. Ci sono meccanismi da cui difendersi e altri da utilizzare. Comporta una educazione indivi-duale ma deve potersi esercitare in luoghi comuni. La collaborazione

h. Il metodo decisionaleLa condivisione del metodo

usato nel processo decisionale è importante. Finora si è fatto riferi-mento indistintamente a organiz-zazioni di base ma la dimensione del gruppo gioca un ruolo fon-damentale7. Tecnicamente non si può parlare di gruppo quando ci sono più di ca. 15 persone. Nelle organizzazioni di base con più di 15 persone è quindi utile parlare di interazione di gruppi. Inoltre se

parliamo di metodo decisionale dobbiamo scegliere tra il metodo a maggioranza e quello del consen-so. Inoltre deve essere chiaro cosa si decide tutti insieme e cosa si de-lega. Nel caso della delega occorre predisporre l’ambito che verifica la delega. A me piace vedere l’in-sieme dei gruppi di potere di una organizzazione come una piramide rovesciata.

Generalmente si ritiene che i par-lamenti decidano per maggioranza mentre solo nei piccoli gruppi sia possibile il metodo del consenso. Spesso però nei piccoli gruppi vige

importante partire dallacondivisione del metodo usatonel processo decisionale