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0 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA Corso di Laurea Specialistica in Medicina e Chirurgia Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia Tesi di Laurea Accrescimento prenatale/postnatale ed outcome in neonati pretermine di età gestazionale inferiore a 34 settimane: aspetti nutrizionali ed epigenetici” Relatore: Chiar.mo Prof. Antonio Boldrini Correlatore: Dott. Paolo Ghirri Candidato: Andrea Massei Anno Accademico 2014/2015

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Corso di Laurea Specialistica in Medicina e Chirurgia

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in

Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea

“Accrescimento prenatale/postnatale ed outcome in neonati

pretermine di età gestazionale inferiore a 34 settimane: aspetti

nutrizionali ed epigenetici”

Relatore:

Chiar.mo Prof. Antonio Boldrini

Correlatore:

Dott. Paolo Ghirri

Candidato:

Andrea Massei

Anno Accademico 2014/2015

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INDICE 1

RIASSUNTO 2

CAPITOLO 1. Premesse teoriche 5

1.1 Problematiche del neonato pretermine 5

1.1.1 Introduzione 5

1.1.2 Il neonato a termine: categorie e criteri classificativi 5

1.1.3 Il neonato pretermine 7

- categorie e criteri classificativi

- epidemiologia: morbidità e mortalità

- caratteristiche cliniche e complicanze

1.1.4 Il neonato piccolo per l’età gestazionale (SGA) 10

1.1.5 Il ritardo di crescita intrauterino (IUGR) 11

1.1.6 Il ritardo di crescita extrauterino (EUGR) 15

1.1.7 Nutrizione e accrescimento nel neonato pretermine 18

1.2 Epigenetica 25

1.2.1 Definizione e cenni storici 25

1.2.2 Richiami di biologia: genoma ed epigenoma 27

1.2.3 Le modificazioni epigenetiche: istoniche e metilazione 31

1.2.4 Imprinting genomico: l’esempio di 11p15 34

1.2.5 Sindromi di Beckwith-Wiedemann e Silver-Russel 40

1.2.6 Epigenetica e accrescimento 42

1.2.7 Epigenetica e nutrizione 44

CAPITOLO 2. Obiettivi 51

CAPITOLO 3. Pazienti e metodi 52

3.1.1 Popolazione di pazienti, valutazione clinica e molecolare 52

3.1.2 Analisi statistica 56

CAPITOLO 4. Risultati 58

CAPITOLO 5. Discussione 68

CAPITOLO 6. Conclusioni 74

BIBLIOGRAFIA 76

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RIASSUNTO

Premessa

I meccanismi che sottendono lo sviluppo e la crescita neonatale sono ancora in

larga parte sconosciuti. La teoria del “fetal programming” di Lucas, secondo la quale

l’azione di uno stimolo o di un insulto durante l’epoca embrio-fetale, determini

conseguenze a lungo termine sull’individuo, tramite un aggiustamento genomico adattivo

(Lucas, 1991), e l’ipotesi di Barker e Halles sul “thrifty fenotype” (fenotipo risparmiatore),

secondo cui condizioni critiche embrio-fetali e basso peso alla nascita, seguite da un

eccessivo apporto calorico durante la vita postnatale, sarebbero responsabili delle patologie

cronico-degenerative dell’adulto (Barker, Bull, Osmond, & Simmonds, 1990) (Hales et al.,

1991), rappresentano, insieme, un modello concettuale per spiegare come l’ambiente possa

influire sulla determinazione del fenotipo di un individuo. Le acquisizioni nel campo

dell’epigenetica hanno poi consentito di dare una base molecolare alla spiegazione di

questi meccanismi.

Il termine “epigenetica” fa riferimento a quei cambiamenti ereditabili

dell’espressione genica, che avvengono senza modificazioni della sequenza nucleotidica

del DNA: un cambiamento del fenotipo, senza alterazione del genotipo. Le caratteristiche

fondamentali dei processi epigenetici sono la conservazione dell’integrità

dell’informazione genetica, la reversibilità del processo, l’ereditabilità nella progenie delle

stesse modificazioni e la plasticità nei confronti dell’ambiente.

Tra le modificazione epigenetiche, quella più frequente nei mammiferi è

rappresentata dalla metilazione del DNA che, attraverso alterazioni della trascrizione,

determina cambiamenti dell’espressione genica; in virtù di questa funzione, essa diviene

responsabile di diversi processi cellulari, tra cui uno dei più importanti è l’imprinting

genomico.

L’imprinting genomico è l’espressione differenziale di materiale genetico, a

seconda che esso derivi dal genitore di sesso maschile, oppure dal genitore di sesso

femminile. Circa un centinaio di geni sono soggetti all’imprinting e la maggior parte di essi

sono organizzati in gruppi o clusters, la cui espressione è regolata in modo coordinato dalla

metilazione di regioni intergeniche specifiche, chiamate regioni di controllo

dell’imprinting (ICR) o centri di imprinting.

Una delle regioni del genoma umano di maggior interesse scientifico è

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rappresentata dalla regione 15 del braccio corto del cromosoma 11 (11p15), la quale

contiene un cluster di geni soggetti ad imprinting con un importante ruolo nella

regolazione della crescita. Questo cluster è regolato da un centro di imprinting che presenta

una struttura bipartita, caratterizzata da due indipendenti ICR (IC1 e IC2) che coordinano

l’espressione di due diversi “pacchetti” di geni: IC1 regola l’espressione di IGF2 (Insulin-

like growth factor 2) e H19, mentre IC2 coordina i geni KCNQ10T1 (KCNQ1 overlapping

transcript 1), KCNQ1 (Potassium voltage-gated channel) CDKN1C (cyclin-dependent

kinase inhibitor 1 C), PHLDA2 (Pleckstrin homology-like domain family A member 2).

Questi geni hanno un ruolo importante nei meccanismi di crescita, in particolare

IGF2 ha una funzione di stimolo sulla crescita, mentre KCNQ1, CDKN1C e PHLDA2

sono “growth inhibitors”.

Come descritto più volte in letteratura, alterazioni dei pattern di metilazione di IC1

e IC2, determinando cambiamenti dell’espressione dei singoli geni, possono portare a

cambiamenti dello sviluppo neonatale.

Obbiettivi di questo lavoro sono stati evidenziare eventuali differenze di

metilazione di IC1 e IC2 tra popolazioni di neonati a termine e pretermine con età

gestazionale < 34 settimana e valutare la presenza di modificazioni nel tempo della

metilazione in rapporto a cambiamenti nello sviluppo del neonato. Abbiamo inoltre

indagato il ruolo di fattori ambientali di varia natura (neonatali, prenatali, postnatali e

nutrizionali), allo scopo di comprendere quali di questi fattori abbiano un effetto sulle

modificazioni epigenetiche e di conseguenza sull’accrescimento.

Pazienti e metodi

Per la selezione dei soggetti, sono stati presi in considerazione pazienti nati (o

trasferiti subito dopo la nascita) nella U.O. Neonatologia dell’Azienda Ospedaliero-

Universitaria Pisana tra aprile 2014 e luglio 2015.

Abbiamo distinto la popolazione in due gruppi, uno di neonati a termine (n=8),

come gruppo di controllo, e uno di neonati pretermine (n=20) con età gestazionale <34

settimane ed età postmestruale compresa tra 36-42 settimane.

Tutti i neonati hanno effettuato in 7° giornata di vita un prelievo di sangue

periferico, su cui è stata condotta un’analisi molecolare per valutare il livello di

metilazione di IC1 e IC2. Inoltre, 10 neonati del gruppo dei pretermine hanno effettuato un

secondo prelievo al momento della dimissione.

È stata infine condotta un’analisi statistica, correlando il dato molecolare con vari

fattori (prenatali, postnatali, auxologici, nutrizionali), allo scopo di individuare correlazioni

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significative.

Risultati e discussione

Dall’analisi dei dati sono emerse diverse correlazioni inerenti soprattutto aspetti

auxologici e nutrizionali. E’ risultato importante il reperimento di correlazioni negative tra

metilazione delle ICR, sia IC1 che IC2, alla dimissione e misure dei parametri auxologici

(peso, lunghezza, circonferenza cranica) alla dimissione; in particolare il parametro che ha

presentato il maggior numero di correlazioni è stata la circonferenza cranica. [Correlazione

negativa tra z score circonferenza cranica alla dimissione e metilazione IC1 alla dimissione

(Coef -0,04 [95% CI -0,06 – -0,01] *p=0,00), correlazione negativa tra z score

circonferenza cranica alla dimissione e metilazione IC2 alla dimissione].

Per quanto riguarda i fattori nutrizionali, abbiamo riscontrato una correlazione

negativa tra apporto proteico e metilazione IC1 (Coef -0,13 [95% CI -0,22 – -0,04]

*p=0,01), che si manifesta inoltre proprio in quei soggetti che presentano riduzione di

crescita della circonferenza cranica. Queste osservazioni sembrano quindi mostrare come

uno scarso apporto proteico si associ ad ipermetilazione IC1 e quindi a restrizione della

circonferenza cranica. Tali evidenze trovano conferme in letteratura.

Tra i fattori prenatali, spiccano i ruoli reciprocamente antagonistici, della

supplementazione materna di acido folico, che ha effetto ipometilante sulle ICR, e quello

della dieta vegetariana da parte della madre, che al contrario aumenta i fenomeni di

metilazione. Si conferma così il ruolo protettivo della supplemetazione di acido folico nella

prevenzione dei disordini dello sviluppo.

Conclusioni

In accordo con la letteratura il nostro studio ha riscontrato una correlazione inversa

tra la metilazione delle ICR e lo sviluppo della circonferenza cranica, che quindi si

conferma essere marker più sensibile, rispetto al peso, del fetal programming.

L’ipermetilazione IC1 nella nostra casistica correla negativamente con l’apporto totale di

proteine con cui è stato nutrito il neonato nel primo mese. I neonati che presentavano

ipermetilazione alla dimissione sono gli stessi che hanno presentato restrizione di crescita

della circonferenza cranica e ridotto apporto proteico. L’acido folico si è dimostrato avere

un ruolo protettivo su questo meccanismo in quanto riduce la metilazione delle ICR,

contrariamente a quello della dieta vegetariana materna.

Tali risconti sono sufficienti a dimostrare l’importanza dei meccanismi epigenetici

nella determinazione dello sviluppo neonatale, anche se sono necessari ulteriori conferme

su una casistica più ampia.

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CAPITOLO 1. Premesse teoriche

1.1. Le problematiche del neonato pretermine

1.1.1 Introduzione

Nel monitoraggio dell’accrescimento corporeo del neonato, vengono utilizzate

alcune variabili antropometriche, quali il peso (espresso in g o Kg), la lunghezza e la

circonferenza cranica (espresse in cm), che devono essere valutate tramite strumenti

standardizzati (bilance elettroniche per il peso, paidometro per la lunghezza, metro

anelastico per la circonferenza cranica).

La validità di queste misure auxologiche è comunque strettamente legata ad una

corretta stima dell’età gestazionale, o GA (Gestational Age), definita dall’Organizzazione

Mondiale della Sanità (World Health Orgnization, WHO), come il tempo trascorso dal

primo giorno dell’ultima mestruazione della madre (WHO, 2006), espressa in settimane

complete o giorni completi, o aggiungendo il numero dei giorni da 1 a 6 se la settimana

non è completa (es. 37 + 3 significa 37 settimane complete più tre giorni).

1.1.2 Il neonato a termine: categorie e criteri classificativi

Il neonato può essere classificato in base all’età gestazionale o secondo le curve

antropometriche.

In base dell’età gestazionale (American Academy of Pediatrics, 2007) si

identificano 3 gruppi, le cui definizioni sono sintetizzate in tab. 1

Tipi di neonato Età gestazionale pretermine (preterm newborn) < alle 37 sett. complete (< 259 gg)

a termine (term newborn) tra 37 e 41 sett. più 6 gg (da 259 a 293 gg)

post-termine (post term newborn) ≥ alle 42 sett. complete (≥ 294 gg)

Tab. 1 – Classificazione del neonato in base all’età gestazionale

Il feto di età gestazionale compresa tra le 37 settimane complete e le 41 settimane

più 6 giorni, nel 90% dei casi viene espulso, diventando così neonato maturo, cioè

fisiologico.

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In base delle curve antropometriche neonatali indicanti, per ciascuna età gestazionale,

il percentile e la deviazione standard di una variabile antropometrica rispetto ad una

popolazione di riferimento, i neonati di differenti età gestazionali, possono essere

classificati, in base al peso, in “piccoli” (SGA), “adeguati” (AGA) o “grandi” (LGA) per

l’età gestazionale, come mostrato nella tab. 2

Tipi di neonato Percentili Piccolo per l’età gestazionale

(small for gestational age, SGA)

Peso < 10°percentile per l’età gestazionale

Adeguato per l’età gestazionale

(appropriate for gestational age, AGA)

Peso compreso tra il 10° ed il 90° percentile per

l’età gestazionale

Grande per l’età gestazionale

(large for gestational age, LGA)

Peso > 90°percentile per l’età gestazionale

Tab. 2 – Classificazione del neonato in base alle curve antropometriche

Anche se riferendoci al neonato SGA si fa generalmente riferimento al peso, le stesse

considerazioni possono riguardare anche gli altri due parametri auxologici, per cui un

neonato può essere considerato SGA per il peso e/o per la lunghezza e/o per la

circonferenza cranica.

Gli standard di riferimento italiani sono stati realizzati tramite uno studio prospettico,

svoltosi tra il 2005 e il 2007, che ha coinvolto 34 centri italiani di terapia intensiva

neonatale (TIN) ed i cui dati sono stati pubblicati nel 2010 (Bertino et al., 2010a).

La valutazione iniziale di un neonato viene fatta utilizzando il punteggio di Apgar

(Apgar Score, dall’acronimo inglese Appearance, Pulse, Grimace, Activity,

Respiration), calcolato al primo e al quinto minuto di vita e, se necessario, ripetuto

successivamente ogni 5 minuti (tab. 3), che considera 5 parametri, a ciascuno dei quali è

attribuito un punteggio da 0 a 2 e sommando i 5 punteggi genera un risultato (da 0 a10)

riassunto in: Apgar score ≥ 7, indicante un neonato in buone condizioni cliniche, ben

adattatosi alla vita extrauterina; Apgar score tra 6 e 4, indicativo di un certo grado di

impegno nell’adattamento alla vita extrauterina; Apgar Score < 3, indicante un neonato in

gravi condizioni cliniche, a rischio di danno da ipossia, insufficienza respiratoria e

cardiaca.

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Parametro 0 punti 1 punto 2 punti Battito cardiaco assente <100 bpm >100 bpm

Respirazione assente debole o irregolare vigorosa con pianto

Tono muscolare assente (atonia) flessione accennata movimenti attivi

Riflessi

(risposta al catetere

nasofaringeo)

assente

Scarsa

starnuto, pianto

vivace, tosse

Colore della pelle cianotico o pallido estremità cianotiche normale

Tab. 3 – Apgar score

E’ opportuno sottolineare che il punteggio di Apgar, se importante nella valutazione

iniziale, non lo è più nel successivo outcome neonatale, in quanto le condizioni cliniche di

un neonato con punteggio inizialmente alto, possono peggiorare per sopraggiunte difficoltà

respiratorie.

1.1.3 Il neonato pretermine: categorie e criteri classificativi

La maturità di un feto e di un neonato è determinata dalla durata della gravidanza,

mentre la severità dei problemi correlati alla nascita pretermine è in funzione della

lunghezza di questo periodo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito come

“pretermine” quel neonato con età gestazionale (GA) inferiore alle 37 settimane complete,

distinguendolo in differenti categorie (tab. 4)

Categorie di neonato

pretermine

Età

gestazionale Extremely preterm < 28 sett. complete

Very preterm Tra 28 e 31 sett. complete + 6 gg

Moderate preterm Tra 32 e 33 sett. complete + 6 gg

Late preterm Tra 34 e 36 sett. complete + 6 gg

Tab. 4 – Categorie di neonato pretermine in base all’età gestazionale

Un neonato con GA inferiore alle 32 settimane può anche essere chiamato

pretermine di alto grado o early preterm.

E’ inoltre molto importante valutare il peso di questi neonati, per suddividerli in

varie categorie (tab. 5)

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Categoria di neonato

Pretermine

Peso

nascita Neonato di basso peso (low birth weight, LBW) 1500-2500 g

Neonato di peso molto basso (very low birth weight, VLBW) 1001-1500 g

Neonato di peso estremamente basso (extremely low birth weight, ELBW) ≤ 1000 g

Tab. 5 - Categorie di neonato pretermine in base al peso

Si parla infine di neonato di peso incredibilmente basso (incredibly low birth

weight), per sottolineare l’alto tasso di mortalità di un neonato con peso inferiore a 750

grammi.

1.1.3 Il neonato pretermine: epidemiologia

La prematurità (età gestazionale <37 settimane complete) ed il basso peso alla

nascita (< 2500 grammi) sono le maggiori cause di mortalità neonatale e infantile tra i

neonati dei paesi industrializzati (WHO, 2008).

E’ interessante notare come il contributo del basso peso e della prematurità alla

mortalità neonatale sia maggiore quando il tasso di mortalità scende, e questo è

particolarmente vero per i neonati VLBW ed ELBW, che contribuiscono per più della metà

della mortalità neonatale e infantile in paesi a basso tasso di mortalità (Mathews &

MacDorman, 2008).

Grazie ad un miglioramento dell’assistenza al feto ed al neonato pretermine

attraverso la regionalizzazione di tale assistenza con un aumento dei bambini nati negli

ospedali di terzo livello con unità di TIN, il tasso di mortalità dei LBW è nettamente

diminuito nelle ultime decadi. Il problema non riguarda però soltanto la mortalità di questi

neonati, ma anche le disabilità neonatali e infantili: prematurità e LBW contribuiscono per

più della metà alla totalità delle disabilità neurologiche, cognitive, sensoriali, e di tutte le

altre disabilità nell’infanzia e nell’adolescenza, rappresentandone i principali fattori di

rischio: il cervello fetale infatti, fino alla 22a settimana di gestazione non presenta

circonvoluzioni, ma poi subisce nelle settimane e nei mesi successivi una rapida

evoluzione ed una notevole differenziazione.

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1.1.3 Il neonato pretermine: caratteristiche cliniche e complicanze

Il neonato pretermine si presenta con parametri auxologici proporzionalmente

ridotti rispetto ai valori normali, in funzione dell’età gestazionale.

Il calo ponderale è più accentuato di quello fisiologico (circa del 7-10%) potendo

raggiungere il 15-20% ed è prolungato fino al 10°-15° giorno, poiché la sovrabbondanza di

liquido extracellulare rispetto a quello intracellulare è ancora più evidente, con maggiore

tendenza alle perdite.

Prevalgono l’ipotonia muscolare e l’immobilità, a differenza del neonato a termine

che presenta ipertonia e atteggiamento degli arti in flessione.

I general movements ed i riflessi sono difficilmente evocabili per l’ immaturità del

sistema nervoso.

La cute, ricoperta da una maggiore quantità di vernice caseosa, è molto sottile e

traslucida, spesso di colorito decisamente eritrosico (che nel neonato a termine può essere

indice di policitemia).

L’ittero è più frequente, a causa della maggiore immaturità enzimatica epatica,

aumenta di frequenza ed intensità al diminuire dell’età gestazionale ed è costante in

neonati pretermine di alto grado, dove quasi sempre richiede la fototerapia.

La frequenza cardiaca è più elevata rispetto a quella del neonato a termine, essendo

compresa tra 140 e 160 battiti al minuto; a causa dell’immaturità dei centri bulbari del

respiro, questo può essere irregolare o periodico (respiro di cheyene-stokes), caratterizzato

cioè da apnee che non superano i 15 secondi e che non sono accompagnate da bradicardia

o cianosi (le vere apnee del pretermine verranno descritte in seguito). La presenza di un

respiro spasmodico (gasping) indica una grave sofferenza dei centri regolatori del respiro

(Bona & Grazia, 2001).

L’adattamento alla vita extrauterina è difficoltoso nel neonato pretermine, a causa

dell’immaturità in toto e dei singoli organi, che rende la parte finale del suo sviluppo

difficoltoso e gravato da complicanze.

Le complicanze legate alla prematurità sono la causa fondamentale del maggiore

tasso di mortalità e morbidità rispetto ai neonati a termine ed il rischio di tali complicanze

aumenta al diminuire dell’età gestazionale e del peso alla nascita.

Le complicanze del neonato pretermine possono essere a breve termine (es.

respiratorie e cardiovascolari) o a lungo termine (es. disabilità neurologiche); la tipologia e

la frequenza delle complicanze su 8515 neonati pretermine (VLBW) è ben segnalata nel

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report dell’Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human

Development (NICHD) su 8515 neonati VLBW, (Stoll et al., 2010) (tab. 6).

Tipologia di complicanze Frequenza (%) Sindrome da distress respiratorio (RDS)

Retinopatia del pretermine (ROP)

Pervietà del dotto arterioso (PDA)

Displasia broncopolmonare (BPD)

Sepsi ad insorgenza tardiva (LOS)

Enterocolite necrotizzante (NEC)

Emorragia intraventricolare di grado III (IVH-III)

Emorragia intraventricolare di grado IV (IVH-IV)

Lecomalacia periventricolare (PVL)

93

59

46

42

36

11

7

9

3

Tab. 6 – Complicanze su 8515 neonati pretermine VLBW secondo NICHD

A causa del difficoltoso adattamento alla vita extrauterina, la stabilizzazione

iniziale in sala parto ed una corretta gestione del neonato nei primi minuti di vita possono

ridurre il rischio di complicanze a breve termine: la somministrazione precoce di

surfactante o l’applicazione di CPAP (Continuous Positive Airway Pressure) nei VPI (very

preterm infants) può ad esempio ridurre l’insorgenza di sindrome da distress respiratorio.

E’ per tali motivi, che laddove prevedibile, la nascita di un neonato pretermine

dovrebbe avvenire in centri di assistenza di terzo livello, dotati di NICU e la rianimazione

dovrebbe seguire linee guida prestabilite (Niermeyer et al., 2000).

1.1.4 Il neonato piccolo per l’età gestazionale (SGA)

Abbiamo già visto come viene definito “piccolo per l’età gestazionale” (“Small for

Gestational Age) o SGA il neonato con peso e/o lunghezza alla nascita inferiori a quelli

attesi per l’età gestazionali ed il sesso. La corretta definizione di SGA richiede perciò

un’accurata conoscenza dell’età gestazionale, un’attenta misurazione alla nascita del peso,

della lunghezza e della circonferenza cranica ed un cut-off su curve neonatali di

riferimento per una determinata popolazione. E’ inoltre opportuno precisare che mentre

nella pratica neonatologica è definito SGA il neonato con peso alla nascita inferiore al 10°

percentile per l’età gestazionali ed il sesso, in endocrinologia pediatrica si considera SGA

il neonato con peso e/o lunghezza inferiori a -2DS o al 3°percentile, dato che questa

definizione consente di identificare la maggior parte dei soggetti a rischio di bassa statura

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in età adulta e che richiedono quindi un adeguato follow-up auxologico durante l’infanzia e

poi nell’adolescenza (Clayton et al., 2007b).

A differenza del passato, quando la definizione di neonato piccolo per l’età

gestazionale (SGA) era considerata sinonimo di neonato con ritardo intrauterino di crescita

(IUGR, Intrauterine Growth Retardation), attualmente i due termini sono mantenuti

distinti.

1.1.5 Il ritardo intrauterino di crescita (IUGR)

La definizione di SGA infatti, individua un feto o un neonato, le cui variabili

antropometriche (generalmente il peso) sono inferiori rispetto ad un valore soglia, calcolato

su un campione di riferimento di neonati della stessa età gestazionale, mentre il termine

IUGR, acronimo di Intrauterine Growth Restriction, ovvero restrizione di crescita

intrauterina, si riferisce a feti che presentano una deviazione della curva di crescita

intrauterina (Bertino, Occhi, & Fabris, 2012), riconosciuta con almeno due consecutive

misurazioni ecografiche prenatali indicanti la scarsa crescita del feto. (Albertsson-Wikland

& Karlberg, 1994)

Così, una condizione IUGR può portare alla nascita di un neonato SGA o anche di

un neonato AGA con peso e lunghezza superiori al 10° percentile; tuttavia,

indipendentemente dalle dimensioni alla nascita, un neonato con IUGR necessiterà di un

attento follow-up auxologico (fig. 1).

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Fig. 1 – Curve crescita SGA/IUGR

Il gold standard nella valutazione auxologica neonatale si basa infatti su informazioni

derivate, non solo dalle carte antropometriche neonatali, ma anche da quelle di crescita

intrauterine (Bertino, Milani, Fabris, & De Curtis, 2007). Sono oggi peraltro disponibili le

nuove carte antropometriche neonatali italiane (Bertino et al., 2010b).

L’incidenza dello IUGR, pari al 3-4% nei paesi industrializzati, sale al 20-30% nei

paesi del Terzo Mondo (Africa, Asia), soprattutto a causa della grave malnutrizione

materna: questi neonati mostrano una mortalità perinatale aumentata da 5 a 20 volte

rispetto ai neonati AGA, associata a disordini neurologici da 5 a 10 volte più frequenti

(Papageorgiou, 2005).

I neonati con IUGR possono inoltre essere suddivisi in due gruppi ben distinti (Saenger,

Czernichow, Hughes, & Reiter, 2007), le cui caratteristiche sono schematizzate nella tab. 7

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Tab. 7 – Caratteristiche differenziali tra neonati IUGR

Le cause di IUGR possono essere di varia natura (P. S. Bernstein & Divon, 1997),

materne, placentari e fetali, come mostrato in tab. 8

A parte le infezioni, che possono incidere nella madre e nel feto in qualsiasi momento della

gravidanza, le cause fetali si manifestano precocemente nel corso della gravidanza,

causando generalmente una riduzione di tutti i parametri corporei (peso, lunghezza,

circonferenza cranica) del feto e del neonato (neonati proporzionati e simmetrici: IUGR

“simmetrico”) e ridotta crescita di recupero post-natale (catch-up growth), mentre le cause

placentari si manifestano generalmente nelle fasi più tardive della gravidanza,

determinando una riduzione soprattutto del peso del neonato, con lunghezza e

circonferenza cranica normali o poco ridotte ed un buon catch-up growth (neonati

sproporzionati e asimmetrici: IUGR “asimmetrico”).

Caratteristiche

differenziali

Neonati con

IUGR simmetrico

Neonato con

IUGR asimmetrico Aspetto Proporzionato Sproporzionato

Andamento peso e

lunghezza durante la

gravidanza

Simmetrica riduzione di

peso e lunghezza durante il

primo trimestre di

gravidanza (fase di

iperplasia cellulare)

Riduzione maggiore del

peso rispetto a lunghezza e

circonferenza cranica nel

terzo trimestre di

gravidanza (fase di

ipertrofia cellulare)

Cause Disordini o sindromi

genetiche, infezioni

congenite

Insufficienza utero-

placentare o malnutrizione

materna

Catch-up growth Assente Presente

Indice ponderale (PI)* PI = peso in gr x100 / lunghezza

in cm 3

Normale Ridotto

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Cause di restrizione di crescita intrauterina

Materne Età materna (< 16, > 35 anni), altezza e peso materno, condizioni

socio-economiche sfavorevoli, parità (nulliparità, grande multiparità),

malnutrizione, sostanze d’abuso (fumo, alcool, droghe), ipertensione

arteriosa, preeclampsia, patologie croniche (cardiovasculopatie,

diabete mellito, endocrinopatie, collagenopatie, nefropatie, infezioni

(gruppo TORCH), neoplasie, malformazioni, malformazioni uterine

Placentari Anomalie anatomiche, anomalie di inserzione (placenta previa,

distacco occulto), anomalie funicolari (compressione cronica,

trombosi dei vasi ombelicali, inserzione ve lamentosa), insufficiente

perfusione utero-placentare

Fetali Anomalie cromosomiche, malattie genetiche, malattie metaboliche

congenite, infezioni (in particolare complesso TORCH)

Tab. 8 – Cause di IUGR

L’identificazione dei neonati SGA e/o IUGR è importante, a causa delle loro elevate

morbilità e mortalità nel periodo neonatale (Bertino et al., 2012), con un aumentato rischio

di alterazioni metaboliche e cardiovascolari durante l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta

(tab. 9)

Le ipotesi etiopatogenetiche considerate fanno riferimento al concetto di

“programmazione intrauterina” o “programming”, vale a dire quelle modificazioni

endocrino-metaboliche a livello di organi e tessuti secondarie alla malnutrizione

intrauterina che, se prolungate, attraverso meccanismi epigenetici oggi in parte identificati,

determinerebbero complicanze a lungo termine (Barker, 1995) (Ghirri et al., 2007).

Un concetto importante quando parliamo di neonati SGA/IUGR, è quello della

crescita di recupero postnatale (catch-up growth), definita come un periodo di alta

velocità di crescita, sopra i limiti normali per l’età, per almeno un anno dopo un periodo di

inibizione della crescita stessa (Wit & Boersma, 2002); si tratta di un processo fisiologico

che si verifica nell’85-90% di questi bambini nei primi 4 anni di vita, anche se nella

maggior parte dei casi si realizza nei primi 6-12 mesi e che si completa intorno ai due anni.

Il catch up-growth porta quindi il 90% di questi neonati a raggiungere un’altezza normale

da adulti, > -2DS (Clayton et al., 2007a).

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Complicanze perinatali in neonati pretermine

SGA/IUGR Aumentata mortalità perinatale (ipossia cronica, asfissia perinatale, anomalie congenite)

Asfissia perinatale

Sindrome da aspirazione di meconio

Ipotermia

Ipertensione polmonare persistente

Emorragia polmonare

Ipoglicemia

Iperglicemia

Policitemia/iperviscosità

Enterocolite necrotizzante (NEC)

Trombocitopenia

Neutropenia

Outcome e conseguenze a lungo termine in neonati

SGA/IUGR Maggior numero di giorni di degenza alla nascita

Maggiore frequenza di re-ospedalizzazione

Ridotto catch-up growth (IUGR simmetrici)

Deficit neurologici minimi

Alterazioni minime della coordinazione

Aumentata incidenza di deficit di attenzione e iperattività

Maggior rischio di deficit neurologici gravi nel pretermine

Alterazioni endocrino-metaboliche (insulino-resistenza/iperinsulinemia, dislipidemie, diabete tipo

II, obesità) Ipertensione, malattie cardiovascolari

Tab. 9 – Complicanze precoci e a lungo termine in neonati SGA/IUGR

E’ interessante notare che i neonati pretermine SGA, impiegano generalmente 4

anni o più per raggiungere un’altezza nel range di normalità, come dimostrato da uno

studio Canadese del 2004 (Bardin, Piuze, & Papageorgiou, 2004), che ha paragonato

neonati AGA e SGA all’interno di un gruppo di età gestazionale inferiore alle 28

settimane, evidenziando che i neonati SGA avevano: ridotto catch-up growth nei primi due

anni di vita, riduzione di peso, lunghezza e circonferenza cranica a 5 anni (microcefalia

38% SGA e 16% AGA) ed aumentato rischio di deficit di sviluppo neurologico e ROP

severa, soprattutto associate a microcefalia.

1.1.6 Il ritardo di crescita extrauterino (EUGR)

Un altro importante aspetto è rappresentato dal fenomeno della restrizione di

crescita extrauterina (Extra-Uterine Growth Restriction o EUGR), legata alla crescente

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sopravvivenza di neonati di età gestazionale molto bassa. A differenza di un neonato a

termine, che dopo l’iniziale e fisiologico calo di peso nei primi giorni di vita, va incontro

ad un aumento costante, che lo porta a raddoppiare il suo peso in 5 mesi, a triplicarlo in un

anno e a quadruplicarlo in 2 (Cooke, 2012), il neonato pretermine e di basso peso alla

nascita, presenta un calo di peso maggiore, che inevitabilmente porta alla necessità di una

vertiginosa crescita di recupero. Il risultato finale è che nonostante il possibile catch-up

growth, i neonati pretermine non crescono come i loro coetanei nati a termine e sovente

sono più piccoli durante l’infanzia ed in età adulta (Cooke, 2012): questo si traduce in una

restrizione di crescita extrauterina (EUGR) che influenza negativamente sia la crescita

nelle epoche successive della vita, che le morbidità, in particolare lo sviluppo neurologico.

Per EUGR si intende quindi il riscontro di parametri di crescita (peso, lunghezza,

circonferenza cranica) ≤ 10° centile rispetto alla crescita intrauterina attesa, facendo

riferimento all’età post-mestruale al momento della dimissione del neonato dal reparto di

degenza. Tale restrizione di crescita interessa ogni parametro antropometrico, con

un’incidenza tanto maggiore, quanto minori sono l’età gestazionale ed il peso alla nascita,

mentre rappresentano fattori indirettamente associati alla EUGR, il sesso maschile ed i

parametri correlati alla durata ed all’entità dell’impegno respiratorio e clinico presentati dal

neonato durante le prime epoche della vita (Clark, Thomas, & Peabody, 2003)

(Ehrenkranz, 2010) (Martin et al., 2009).

La ridotta crescita extrauterina, oltre ad aggravare il deficit accrescitivo di un neonato

pretermine, può anche far sì che un neonato di peso adeguato alla propria età gestazionale,

presenti, ad un’età corretta circa al termine, un peso inferiore per quella determinata età

gestazionale: la EUGR di un neonato pretermine AGA, si verifica in pratica nello

stesso periodo in cui si realizza la IUGR del neonato a termine SGA/IUGR,

rappresentandone il corrispettivo post-natale.

Esiste perciò un parallelismo tra la nascita SGA a termine ed EUGR nel neonato

prematuro: i neonati SGA a termine sono esposti ad un ambiente intrauterino sfavorevole

durante l’ultimo trimestre di gravidanza, così come i neonati pretermine con EUGR sono

esposti ad un ambiente extrauterino sfavorevole in un periodo corrispondente a quello del

terzo trimestre di gravidanza. Di conseguenza, i neonati pretermine con EUGR spesso

presentano analoghe anomalie metaboliche, in particolare una precoce e costante insulino-

resistenza, indipendentemente dal fatto che alla nascita siano AGA o SGA (Hofman,

Regan, & Cutfield, 2006).

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Così, una coorte di neonati pretermine con un lento accrescimento derivante dall’uso di

formule poco arricchite, mostrava marker di insulino-resitenza inferiori, rispetto a neonati

nutriti con formule arricchite e con un accrescimento più rapido (Singhal, Fewtrell, Cole,

& Lucas, 2003), mentre in un altro gruppo di neonati pretermine (Uthaya et al., 2005) i

livelli elevati di insulino-resistenza erano per lo più correlati alla severità delle patologie

postnatali, solitamente associate ad un incremento del tessuto adiposo intraddominale,

marker di insulino resistenza. Infine è noto che i neonati con problematiche respiratorie che

ricevono spesso elevati quantità di farmaci steroidei, mostrano un incremento del tessuto

adiposo viscerale, a conferma della possibile relazione tra patologie, distribuzione del

tessuto adiposo e utilizzo di farmaci steroidei.

La stretta relazione tra sviluppo auxologico ed outcome neurologico è dimostrato

da un ampio numero di studi, nei quali la restrizione di crescita extrauterina si associata ad

un peggiore sviluppo neurocognitivo, nonché a minori tassi di crescita anche durante

l’infanzia: esiste quindi un legame tra nutrizione e sviluppo neurologico, come dimostrano

i neonati VLBW sottoposti ad una alimentazione “aggressiva” (come intake proteico,

lipidico, vitaminico ed energetico), che presentavano maggiori valori di circonferenza

cranica e migliore maturazione cerebrale alla RM rispetto ai controlli. (Strommen et al.,

2015). Significativa è anche la dimostrazione dell’influenza positiva della velocità di

crescita sul neurosviluppo in neonati ELBW ricoverati nelle TIN: all’aumentare del peso

durante questo periodo, diminuiva l’incidenza di esiti neurologici negativi, aumentavano i

punteggi di indici derivanti dall’esame neurologico, come l’indice di sviluppo mentale e

l’indice di sviluppo psicomotorio, diminuiva l’incidenza di paralisi cerebrale e di danno

neurologico. Inoltre un maggiore incremento di questi due paramenti auxologici durante il

periodo di degenza, influenzava positivamente i valori raggiunti dagli stessi a 18 mesi di

età corretta (Ehrenkranz et al., 2006).

La conclusione è che il fallimento della crescita è implicato tanto nello scarso

sviluppo neurologico, quanto nella morbidità a lungo termine (Prince & Groh-Wargo,

2013) e proprio per migliorare questi aspetti occorrono approcci nutrizionali più adeguati,

che necessitano di continuo miglioramento.

La restrizione di crescita perciò, oltre ad influenzare i parametri auxologici anche a

lungo termine, condiziona anche le abitudini alimentari, almeno fino all’epoca

prepuberale, come dimostrato in bambini con esperienza di EUGR che, rispetto al gruppo

di controllo, assumevano minori quantità di frutta e verdura e maggiori quantità di carne,

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snack e dolci in genere e svolgevano meno esercizio fisico (Ortiz-Espejo, Perez-Navero,

Munoz-Villanueva, & Mercedes, 2013).

Risulta evidente come il neonato definito genericamente “di basso peso” o “piccolo

per l’età gestazionale” non rappresenti un’entità unica, ma diversi fenotipi clinici derivanti

da differenti pattern di accrescimento intrauterino, tra i quali dobbiamo comprendere anche

il neonato pretermine, per le strette correlazioni esistenti tra crescita intra ed extrauterina

sugli effetti a lungo termine.

Le conseguenze metaboliche, endocrine e cardiovascolari a lungo termine dei

neonati VLBW che vanno incontro a un deficit nutrizionale nelle prime settimane di vita e

vengono in un secondo momento nutriti in eccesso, sono ancora poco conosciute, ma è

comunque necessario seguire questi bambini nel tempo, con programmi nutrizionali ed

educazionali, per cercare di prevenire o ridurre l’insorgenza non solo delle tardive

alterazioni endocrino-metaboliche ma anche di quelle auxologico-neurocognitive (Ortiz-

Espejo et al., 2013).

1.1.7 Nutrizione e accrescimento nel neonato pretermine

Da quanto premesso è chiaro come l’obiettivo della nutrizione del neonato

pretermine sia il raggiungimento di un tasso di crescita il più possibile vicino a quello di un

feto della stessa età gestazionale (Martin et al., 2009), mimando la composizione corporea

fetale, con risultati funzionali simili a quelli di un neonato a termine. Sfortunatamente,

nonostante i numerosi sforzi per migliorare la nutrizione neonatale dei LBWI, molti di

questi non ricevono un adeguato intake di nutrienti, con il risultato finale di una restrizione

di crescita.

In particolare, la crescita è negativamente influenzata dal ridotto intake proteico e

calorico, quindi dal conseguente deficit, che comincia ad accumularsi fin dalle prime

settimane dopo la nascita e che risulta difficile da recuperare durante la degenza,

specialmente per i neonati con GA <31 settimane (N. E. Embleton, Pang, & Cooke, 2001).

Le problematiche legate alla prematurità, rendono difficile adeguare gli apporti

nutrizionali alle necessità metaboliche dei neonati con peso molto basso alla nascita, con

elevato rischio di malnutrizione, scarso accrescimento e di squilibri metabolici responsabili

di gravi conseguenze sullo sviluppo fisico e psicomotorio: è quindi imperativo ottimizzare

gli apporti nutrizionali per garantire un corretto accrescimento ed un adeguato sviluppo

neuropsichico.

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Gli apporti “ottimali” in grado di assicurare al neonato di basso peso un ritmo di

crescita quantitativamente e qualitativamente paragonabile a quello di un feto normale

della medesima età post-concezionale, evitando di stressare i sistemi metabolici ed

escretori, sono stati definiti dalla Committee on Nutricion dell’American Academy of

Pediatric (AAP) ("American Academy of Pediatrics Committee on Nutrition: Nutritional

needs of low-birth-weight infants," 1985): l’obiettivo è il raggiungimento di un tasso di

crescita il più vicino possibile a quello di un feto della stessa età gestazionale (Martin et

al, 2009), mimando la composizione corporea fetale, con risultati funzionali simili a

quelli di un neonato a termine. Nonostante gli sforzi per raggiungere questo obiettivo,

molti neonati VLBW non ricevono però un adeguato intake di nutrienti e vanno incontro

ad una restrizione di crescita.

Esiste attualmente unanime accordo sul fatto che una adeguata nutrizione debba

essere precoce, cercando di mimare ciò che avviene nell’ambiente intrauterino, il quale

sappiamo che mostra alcune peculiarità:

- gli aminoacidi vengono attivamente trasportati al feto attraverso la placenta,

dove sono utilizzati in parte per la sintesi proteica ed in parte come fonte

energetica (Adamkin, 2005) (Vlaardingerbroek, van Goudoever, & van den

Akker, 2009)

- il glucosio è assunto proporzionalmente all’utilizzo fetale (Adamkin, 2005)

- l’assorbimento dei lipidi avviene in modo proporzionale alle necessità dello

sviluppo neuronale e del sistema nervoso centrale, con utilizzazione per la

produzione energetica soltanto dopo il terzo trimestre di gravidanza (Hay, 2006)

Contrariamente a tutto ciò, nell’ambiente extrauterino invece, si osservano alcune

differenze sostanziali:

- l’apporto di aminoacidi è limitato dalla paura delle intolleranze (N. D.

Embleton, 2007)

- il glucosio rappresenta spesso l’unica fonte energetica e viene perciò

somministrato a tassi elevati, con il rischio di iperglicemia (Hay, 2006)

- l’apporto lipidico è spesso limitato dall’iperglicemia e nel timore del danno

polmonare o del kernittero (Clark, Wagner, et al., 2003)

Così, questo drastico cambiamento da un ambiente, come quello uterino, ricco di

nutrienti, ad uno che ne è scarso, come quello extrauterino, porta il prematuro, già di per sé

vulnerabile (Vlaardingerbroek et al., 2009), ad un ulteriore stress, causandone un deficit di

crescita persistente, responsabile anche di un peggiore outcome neurologico (Hay, 2006)

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(Ehrenkranz et al., 2006); gli ostacoli maggiori sono rappresentati dall’immaturità del

sistema gastrointestinale, dalle condizioni cliniche spesso critiche di questi neonati e dal

fatto che gli apporti nutrizionali, pur assicurando i fabbisogni, non considerano le necessità

di recupero degli inevitabili deficit nutrizionali proteici e calorici delle prime settimane di

vita. E’ difficile infatti che durante la degenza, neonati con GA < 31 settimane possano

recuperare un importante deficit proteico e calorico, stimato in più di 12 g/kg ed oltre 300

kcal/kg rispettivamente (N. E. Embleton et al., 2001), senza sviluppare un inevitabile

EUGR (Adamkin, 2005) (Vlaardingerbroek et al., 2009) (Hay, 2006) (Clark, Wagner, et

al., 2003).

Tutte queste premesse hanno suggerito un approccio nutrizionale “aggressivo” per

il neonato pretermine, in cui l’apporto nutrizionale viene fornito più rapidamente rispetto a

quanto suggerito (Ziegler, Thureen, & Carlson, 2002), per prevenire uno stato catabolico

nei primi giorni dopo la nascita e, successivamente, assicurare una crescita appropriata.

Numerosi reports (Berry, Abrahamowicz, & Usher, 1997) hanno descritto i

benefici di apporti nutrizionali enterali e parenterali combinati e precoci, dimostrando che

un regime nutrizionale “aggressivo” potrebbe essere adatto nei neonati VLBW,

migliorandone la crescita, senza peraltro aumentare il rischio di esiti clinici negativi

(Ehrenkranz, 2010).

La nutrizione precoce “aggressiva” prevede:

- somministrazione di una nutrizione parenterale totale (TPN) a poche ore dalla

nascita, con un apporto di aminoacidi pari a 3-4 g/kg/die

- precoce (entro le prime 24 ore) introduzione di lipidi (solitamente 0,5-1

g/kg/die, fino a 3 g/kg/die)

- inizio, entro i primi 3 giorni di vita, della “minimal enteral feeding” a 10-20

mL/kg/die

Nonostante siano stati pochi gli studi randomizzati e controllati (Wilson et al.,

1997) (Ibrahim, Jeroudi, Baier, Dhanireddy, & Krouskop, 2004) (C. Morgan, McGowan,

Herwitker, Hart, & Turner, 2014) (Moyses, Johnson, Leaf, & Cornelius, 2013) (Maggio et

al., 2007) condotti per evidenziare gli effetti della nutrizione precoce “aggressiva” nei

neonati prematuri, i risultati sono stati positivi, suggerendo in modo deciso, che una

nutrizione “aggressiva” è sicura e si traduce in una maggiore assunzione energetica e

proteica che determina un bilancio azotato positivo, promuovendo la crescita post-natale

precoce e tardiva, senza effetti nocivi. Soltanto uno studio (Moltu et al., 2014) ha

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evidenziato l’insorgenza di un maggior numero di sepsi nel gruppo alimentato con un

introito calorico e proteico superiore.

Così, sulla base di queste nuove acquisizioni, l’ESPGHAN (European Society of

Paediatric Gastroenterology, Hepatology and Nutrition) ha modificato recentemente le

raccomandazioni nutrizionali per il neonato pretermine (Agostoni et al., 2010) (tab. 10):

l’attuale alimentazione del neonato pretermine prevede quindi una combinazione di

nutrizione parenterale ed enterale precoci, con apporti specifici per entrambe le modalità.

Tab. 10 - Apporti raccomandati di macro e micronutrienti nei pretermine

La nutrizione parenterale è attualmente indicata nel neonato pretermine VLBW, in cui

l’ipomobilità intestinale, limita la possibilità di una adeguata alimentazione enterale

almeno nelle prime 2 settimane.

Le attuali linee guida suggeriscono di iniziare la nutrizione parenterale totale il

primo giorno di vita, con un intake proteico elevato ( > 2 g di aminoacidi/kg/die), in modo

da ridurre l’iperglicemia, inducendo la secrezione endogena di insulina e stimolare la

crescita, grazie all’incremento contemporaneo dei fattori di crescita insulino-simili, senza

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creare un sovraccarico aminoacidico, con acidosi, iperammoniemia, elevati livelli di BUN

o iperaminoacidemia (De Curtis & Rigo, 2012).

L’intake proteico deve iniziare sin dal primo giorno, con valori di 1,5-3,0 g/kg/die e

procedere con un incremento giornaliero di 0,5-1 g/kg/die fino a raggiungere 2,5-4 g/kg/die

(Martin et al., 2009).

L’intake dei lipidi, componente importante della nutrizione parenterale per i neonati

VLBW, per l’apporto di energia e di acidi grassi essenziali, inizia il primo o il secondo

giorno di vita, con 0,5-2 g/kg/die ed aumenta nei giorni seguenti, fino a raggiungere valori

di 3,0-3,5 g/kg/die (Martin et al., 2009).

Il glucosio rimane il carboidrato più utilizzato, essendo la maggior fonte energetica

rapidamente utilizzabile dal sistema nervoso: dato l’elevato rischio di iperglicemia (>150-

180 mg/dL) nei primi giorni di vita per i neonati VLBW, a causa di un’insensibilità dei

tessuti all’insulina prodotta dal fegato, è opportuno iniziare con 8,6 g/kg/die, raggiungendo

un intake di 14 g/kg/die il 7° giorno (Martin et al., 2009), monitorando strettamente la

glicemia (De Curtis & Rigo, 2012).

Per quanto riguarda il sodio, il cui fabbisogno è di 3-5 mmol/kg/die, dato che nella

prima settimana di vita i neonati con GA < 28 settimane ricevono spesso dosi addizionali

di sodio extra nutrizione parenterale (trasfusioni ematiche, bicarbonato, farmaci, perdita

idrica superiore a quella di sodio), si raccomanda di monitorarne strettamente l’intake di

sodio ed i suoi livelli ematici nella prima settimana di vita (De Curtis & Rigo, 2012).

Per il potassio, il cui fabbisogno nel neonato pretermine è di 1-2 mmol/kg/die,

l’intake iniziale dovrebbe essere posticipato al terzo giorno di vita negli ELBW, per il

rischio di sviluppare un’iperkaliemia non oligurica, a causa dell’immaturità della funzione

tubulare distale (De Curtis & Rigo, 2012).

L’intake di cloro raccomandato è di 2-3 mmol/kg/die (De Curtis & Rigo, 2012).

Poiché la nutrizione parenterale totale nei pretermine non garantisce adeguati livelli

di calcio e fosforo, favorendo una ridotta mineralizzazione ossea, è opportuno garantire

intake adeguati di calcio (75-90 mg/kg/die), fosforo (60-67 mg/kg/die) e magnesio (7,5-

10,5 mg/kg/die). (De Curtis & Rigo, 2012).

Il quoziente energetico raccomandato, considerando sia la quota enterale, che quella

parenterale, dovrebbe essere pari a 115-130 kcal/kg/die. (Martin et al., 2009)

Nella pratica non è semplice però rispettare gli apporti nutritivi raccomandati:

spesso questi sono raggiunti solo tardivamente, al prezzo di un inevitabile deficit proteico

ed energetico cumulativo, con importante ritardo di crescita extrauterino.

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La nutrizione parenterale esclusiva, fondamentale nel mantenimento dello stato

nutrizionale del pretermine, specie se prolungata, non è esente da effetti avversi: l’assenza

di alimenti all’interno del tratto gastrointestinale causa infatti atrofia dei villi e riduzione

degli enzimi deputati all’assorbimento dei nutrienti, dal momento che il timing delle tappe

di sviluppo delle funzioni gastrointestinali, è fortemente condizionato dalla precoce

introduzione dell’alimentazione enterale.

Per questo motivo, nella maggior parte dei neonati pretermine, le più recenti

raccomandazioni, suggeriscono di iniziare precocemente la nutrizione enterale secondo la

modalità, detta “minimal enteral feeding” (MEF) o “trophic feeding”, che prevede la

somministrazione di piccoli volumi (10-20 mL/kg/die) di latte, preferibilmente materno,

entro i primi giorni di vita, compatibilmente con le condizioni cliniche del neonato. La

nutrizione con piccoli apporti favorisce lo sviluppo gastrointestinale, promuovendo e

accelerando la maturazione delle funzioni intestinali, attraverso la stimolazione della

secrezione di ormoni fondamentali per il trofismo e per la motilità intestinale. Studi clinici

confermano l’efficacia della MEF (J. Morgan, Bombell, & McGuire, 2013) con benefici

clinici, come il raggiungimento di una nutrizione enterale totale in tempi più brevi e la

riduzione del tempo di ospedalizzazione, senza incrementare il rischio di NEC (De Curtis

& Rigo, 2012).

Un aspetto controverso riguardo al possibile rischio di NEC, è stato per lungo

tempo la velocità di progressione dell’alimentazione enterale nei neonati prematuri: dopo

studi iniziali (Berseth, Bisquera, & Paje, 2003), i cui risultati hanno impedito per molti

anni l’uso di una alimentazione enterale precoce o una rapida progressione della

nutrizione, siamo arrivati alla conclusione (J. Morgan et al., 2013) che l’aumento

dell’alimentazione enterale ad un ritmo più veloce (30-35 mL/kg/die) nei bambini VLBW,

migliora la crescita post-natale, consentendo di raggiungere più precocemente la “full

enteral feeding”, senza aumentare il rischio di NEC; nei neonati ELBW è comunque

preferibile una più lenta progressione (15-20 mL/kg/die) dell’alimentazione enterale.

L’alimento di prima scelta per l’inizio dell’alimentazione enterale, anche nel

neonato prematuro, è rappresentato dal latte materno (o da banca), come sottolinea l’AAP,

che lo definisce l’alimento migliore per tutti i neonati (e bambini), inclusi quelli pretermine

(Pediatrics, 2005), a causa dei suoi innumerevoli vantaggi (maggior contenuto di

aminoacidi essenziali, ricchezza di nucleotidi e fattori di crescita, presenza di lipasi che

favorisce l’assorbimento di acidi grassi polinsaturi, contenuto di oligoelementi ad elevata

biodisponibilità) ed effetti benefici (miglioramento delle difese immunitarie con riduzione

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del rischio di infezioni del tratto gastrointestinale, migliore assorbimento dei nutrienti,

migliore funzione gastrointestinale, migliore sviluppo neurologico e benessere psicologico

materno). Il latte materno è perciò la migliore strategia nutrizionale nel neonato

pretermine, non solo perché riduce il rischio di NEC (Sisk, Lovelady, Dillard, Gruber, &

O'Shea, 2007) (Patole, 2007) (Sullivan et al., 2010), ma anche perchè determina una

diminuzione del deficit di crescita, una durata significativamente inferiore della nutrizione

parenterale (Cristofalo et al., 2013) ed un miglioramento dell’outcome neurologico (Hintz

et al., 2005) (Shah et al., 2008).

Quando però il latte umano (o da banca) non è disponibile, si utilizzano formule

“speciali” per i neonati pretermine, che prevedono un quoziente energetico di circa 80

kcal/100 mL, un contenuto proteico di 3,3-3,6 g/100 kcal, una quota glucidica

rappresentata da polimeri del glucosio, una quota lipidica costituita per il 30-40% da acidi

grassi a media catena, un contenuto di calcio e di fosforo pari a 100-120 mg/100 mL e di

55-65 mg/100 mL rispettivamente (De Curtis & Rigo, 2012).

Pur rappresentando il latte umano il “gold standard per l’alimentazione enterale del

neonato prematuro, tuttavia i suoi nutrienti (in particolare le proteine, il sodio, il calcio ed

il fosforo) non sono sufficienti ad assicurare le maggiori esigenze nutrizionali del neonato

pretermine.

Si rende per tale motivo necessaria una fortificazione del latte umano per

incrementarne il valore nutrizionale, con l’aggiunta di proteine idrolizzate, carboidrati (per

lo più polimeri di glucosio e maltodestrine) e macroelementi (sodio, calcio, fosforo,

magnesio, oligoelementi e vitamine); queste modifiche si associano ad un significativo

miglioramento della crescita, in termini di peso, lunghezza e circonferenza cranica, in

assenza di effetti avversi significativi, come la NEC (Kuschel & Harding, 2004).

Nei neonati più piccoli e immaturi si raccomanda l’aggiunta di 1,3 g di proteine/100

ml di latte umano, a partire dal momento in cui sono in grado di tollerare 50-70 ml/kg/die

di latte e ricevono quindi apporti parenterali inferiori rispetto ai primi giorni di vita (De

Curtis & Rigo, 2012). Si aumenta così progressivamente il quantitativo di latte,

diminuendo di pari passo la nutrizione parenterale, fino ad arrivare all’alimentazione

enterale completa (full enteral feeding) con 150 ml/kg/die di latte, corrispondente

all’assunzione di 120 kcal/kg/die.

La necessità di assicurare apporti nutrizionali adeguati ai fabbisogni al neonato

prematuro, specie a quelli ELBW, serve non soltanto a garantirne un corretto

accrescimento, ma anche ad evitare un’eccessiva crescita, con il rischio di sviluppare nel

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tempo obesità, ipertensione e problematiche cardiovascolari (Casey, 2008): appare così

sempre più evidente l’importanza di una fortificazione individualizzata e personalizzata,

specialmente nelle situazioni a maggior rischio, come nei neonati ELBW (Arslanoglu,

Moro, & Ziegler, 2006) (Kanmaz et al., 2013).

Alla luce di quanto detto risulta evidente la necessità di una nutrizione il più vicino

possibile alle esigenze del singolo, tenendo conto dei suoi bisogni e dei rischi a lungo

termine. Le attuali ricerche nel campo dell’epigenetica sembrano aprire nuove prospettive

in tal senso.

1.2 Epigenetica

1.2.1 Definizione e cenni storici

Il termine di “epigenetica” (dal greco επί, epì = "sopra" e γεννετικός, gennetikòs =

"relativo all'eredità familiare") indica quei cambiamenti ereditabili dell’espressione

genica, che avvengono senza modificazioni della sequenza nucleotidica del DNA: un

cambiamento del fenotipo, senza alterazione del genotipo.

Il merito di aver coniato il termine va al biologo inglese Conrad Waddington

(1905–1975), il quale definì l’epigenetica come “la branca della biologia che studia le

interazioni causali fra i geni e il loro prodotto cellulare e pone in essere il fenotipo”

(Waddington, 2012) (Goldberg, Allis, & Bernstein, 2007).

Nel corso degli anni, numerosi fenomeni biologici, prima considerati insoliti ed

inspiegabili, sono stati raggruppati sotto la denominazione di fenomeni epigenetici. Tra

questi processi, apparentemente non correlati, possiamo portare ad esempio la

paramutazione osservata nel mais (una interazione tra due alleli in cui un allele provoca

cambiamenti ereditari sull’ altro allele), l’effetto di posizione variegato osservato sui

moscerini Drosophila (in cui la vicinanza o meno di un gene ad un grande blocco di

eterocromatina può modificarne l’ espressione) e l’imprinting di specifici loci parentali nei

cromosomi dei mammiferi (Goldberg et al., 2007).

Grazie ad una serie di esperimenti condotti sui moscerini del genere Drosophila,

Waddington riuscì con successo a dimostrare che è possibile ottenere l’ereditarietà di

caratteristiche acquisite, in risposta a particolari stimoli ambientali, in assenza di

alterazioni delle basi nucleotidiche (Waddington, 2006) (Noble, 2015).

Waddington immaginò l’epigenetica come un modello concettuale per spiegare la

sua teoria, secondo la quale, differenti interazioni fra i geni e ambiente, possono produrre

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fenotipi differenti a partire dallo stesso materiale genetico, applicandola alla

differenziazione cellulare.

In effetti, sebbene la stragrande maggioranza delle cellule in un organismo

multicellulare condividano un genotipo identico, lo sviluppo organico genera una grande

varietà di tipi cellulari che hanno profili di espressione genica differenti, se pur stabili, e

diverse funzioni cellulari.

In questi termini, possiamo considerare la differenziazione cellulare come un

fenomeno epigenetico, che risente soprattutto delle modificazioni dell’”epigenetic

landscape” (paesaggio epigenetico) di Waddington, piuttosto che del patrimonio genetico

(Goldberg et al., 2007).

L’epigenetic landscape (fig. 2) è infatti il modello ideato da Waddington per

descrivere il meccanismo epigenetico della differenziazione cellulare: le cellula può essere

immaginata come una roccia che rotola giù da una montagna ed il crescere della variabilità

fenotipica è rappresentato dai crinali, lungo i fianchi del pendio, su cui la roccia rotola, che

determinano il suo indirizzamento in valli differenti.

Fig. 2 – Epigenetic landscape (Goldberg et al., 2007)

Questa semplice metafora serve a spiegare che il fenotipo cui può giungere durante

il proprio sviluppo una cellula, non deriva tanto dalle proprie caratteristiche intrinseche

(date dalle sequenze nucleotidiche), quanto piuttosto dalle diverse traiettorie e direzioni

che può assumere in base alle modificazioni dell’ambiente esterno.

Il DNA, in effetti, è una macromolecola del tutto inattiva, se non viene attivata da

proteine apposite che ne inducono la trascrizione in RNA e successivamente la traduzione

in proteine dall’RNA stesso; tutti questi processi sono a loro volta indotti da segnali

molecolari attivati da imput intra o extracellulari.

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Waddington prendeva le distanze dal modello di DNA, proposto da Jaques Monod,

concepito come “invariante fondamentale” e portatore del programma di costituzione di un

organismo, attribuendogli piuttosto il ruolo di portatore di informazioni e strumenti, che

sarebbero state poi rielaborate, una volta che la cellula fosse stata inserita in una specifica

situazione ambientale (Buiatti, 2009).

Oggi la ricerca epigenetica si occupa principalmente dello studio dei cambiamenti

dell’espressione genica ereditabili attraverso la mitosi e/o la meiosi senza che si verifichino

cambiamenti della sequenza del DNA. Questo spostamento del campo della ricerca risale

alla scoperta, da parte di Barbara McClintock (1902 -1992), degli elementi trasponibili nel

mais, nel corso degli anni quaranta e cinquanta dello scorso secolo (McClintock, 2008).

Questi elementi, oggi noti come trasposoni, sono porzioni di DNA in grado di

spostarsi da un cromosoma ad un altro e, a seconda della posizione in cui si trasferiscono,

possono reversibilmente alterare l'espressione di altri geni.

Lo studio dei fenomeni epigenetici nei mammiferi si è in seguito sviluppato con

l’interpretazione genetica dell’inattivazione del cromosoma X da parte di Mary Lyon

(1925 -2014) nel 1961.

Le scoperte di questi e di molti altri scienziati, hanno permesso di costruire un

modello capace di spiegare, almeno in parte, i meccanismi molecolari alla base delle

modificazione epigenetiche. Oggi la ricerca è sempre più improntata, oltre che a cercare di

migliorare le conoscenze su questi meccanismi, anche di scoprire il modo su come

modificarli, al fine di ottenere uno specifico cambiamento dell’espressione genica e di

conseguenza un vantaggio nel fenotipo dell’individuo.

1.2.2 Richiami di biologia: genoma ed epigenoma

Risulta necessario distinguere due identità: genoma ed epigenoma. Il genoma

rappresenta la totalità dell’informazione genetica di una cellula o organismo, che è

contenuta in specifiche molecole di acido nucleico (DNA o per alcuni virus di RNA)

(Becker MW, 2006) (Jimenez-Chillaron et al., 2012); rappresenta, cioè, tutta

l’informazione trasmissibile di un individuo, scritta sottoforma di acidi nucleici.

Il genoma umano è costituito da una sequenza di circa 3 miliardi di

desossiribonucleotidi (le unità base del DNA), organizzati in 23 coppie di cromosomi

lineari, più una piccola molecola di DNA mitocondriale circolare (Bahe & Chiurazzi,

2010).

Gli acidi nucleici sono molecole polimeriche composte da unità dette nucleotidi;

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nel caso del DNA, ogni nucleotide è formato da un base azotata variabile (adenina,

citosina, guanina, timina, abbreviate in A, C, G, T), unita al carbonio 1’ del 2’-

desossiribosio (uno zucchero a 5 atomi di carbonio o pentoso) a sua volta esterificato con

una molecola di acido fosforico al carbonio 5’. Ogni nucleotide è unito al precedente

mediante il gruppo fosforico che viene esterificato anche al carbonio 3’ del desossiribosio

appartenente al nucleotide precedente.

Il DNA è quasi sempre costituito da due filamenti che si avvolgono uno attorno

all’altro, come in una doppia elica, e sono uniti da deboli legami elettrostatici (legami

idrogeno) fra le basi azotate, dovuti all’appaiamento preciso e complementare dell’adenina

con la timina e della guanina con la citosina, secondo il modello proposto da Watson e

Crick nel 1953.

La lunghezza di una molecola di DNA è espressa in termini di paia di basi azotate o

base pair (bp); se un frammento di DNA è dunque lungo 1000 o 1000000 bp, si parlerà

rispettivamente di una kilobase (kb) o di una megabase (Mb) (Bahe & Chiurazzi, 2010).

Il DNA all’interno del nucleo cellulare è estremamente compattato. Il processo di

impacchettamento del DNA è caratterizzato da cinque livelli di compattamento o

superavvolgimento:

1. il DNA si avvolge attorno a proteine basiche, gli istoni, organizzate in ottameri:

un filamento di DNA avvolto intorno a un ottamero di istoni costituisce un

nucleosoma, formato da 200 pb. Le fibre avvolte attorno a diversi ottameri di istoni

presentano una caratteristica conformazione a collana di perle e hanno un diametro

di 10-11 nm;

2. dalla compattazione di più nucleosomi deriva la costituzione di una fibra di

cromatina di 30 nm di diametro, in cui la sovrapposizione dei nucleosomi

determina una caratteristica struttura detta solenoide;

3. la fibra da 30 nm si ripiega su se stessa formando dei domini ad ansa, accorciandosi

10 volte, e si mantiene in questa conformazione grazie all’ancoraggio con

un’impalcatura (“scaffold”) di proteine non istoniche. Questo livello di

condensazione è chiamato cromatina distesa o eucromatina ed è il grado di

condensazione che caratterizza il DNA sotto trascrizione attiva, poiché il materiale

genetico essendo meno impacchettato risulta più disponibile alle proteine coinvolte

nei processi di trascrizione;

4. cromatina che presenta un grado di compattazione e condensazione maggiore, tanto

da poter essere visibile al microscopio elettronico come macchie scure, viene

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definita eterocromatina. L’eterocromatina rappresenta il grado di condensazione

dei geni trascrizionalmente inattivi e che quindi rimangono inespressi, ma

rappresenta inoltre la conformazione che assume la cromatina quando la cellula si

prepara alla divisione;

5. la cromatina di una cellula in divisione arriva ad assumere un grado di

condensazione così elevato da poter essere visibile al microscopio ottico durante la

metafase della mitosi: i cromosomi (Becker, 2006)

I cromosomi sono l’espressione dell’ordine più elevato di organizzazione della

cromatina (Zollino, 2010).

Ciascun cromosoma contiene una singola molecola di DNA, cioè una doppia elica

di DNA. Un tipico cromosoma umano contiene circa 100 Mb di DNA (Allison, 2008).

Depositari del DNA genomico totale, contengono sia regioni a DNA ripetitivo

trascrizionalmente silenti, sia le unità funzionali trascritte, ovvero i geni. Ogni cromosoma

contiene specifici geni in specifiche regioni, denominate loci.

I cromosomi hanno numero e morfologia diversi in ogni specie vivente e, nel loro

insieme, caratterizzano il cariotipo di ciascuna specie e dei singoli individui che la

compongono (Zollino, 2010).

Le cellule somatiche umane hanno un corredo cromosomico di 46 cromosomi,

definito corredo diploide (2n); di questi, 44 cromosomi, detti autosomi, sono 22 coppie di

omologhi, identici nei due sessi. Quindi i geni contenuti in ogni autosoma sono in duplice

copia, una per omologo. Gli altri due cromosomi sono quelli sessuali, rappresentati da 2

cromosomi X nella femmina e da 1 cromosoma X e 1 cromosoma Y nel maschio (Zollino,

2010).

Al contrario, nei gameti maturi il numero dei cromosomi è aploide (n); ogni

omologo è presente dunque in un’unica copia.

I cromosomi diventano visibili al microscopio ottico come corpiccioli distinti nella

fase M del ciclo cellulare, e in particolare al momento della metafase. Poiché in questa fase

la cellula ha già duplicato il proprio DNA, ogni cromosoma appare costituito da due

cromatidi fratelli, tenuti insieme da una costrizione centrale detta centromero (Zollino,

2010).

La morfologia del cromosoma viene definita dalla posizione del centromero, che per

convenzione divide il cromosoma in una braccio corto denominato p e in un braccio lungo,

denominato q. Il cromosoma presenta due strutture fondamentali: il centromero e il

telomero.

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Il centromero lega i microtubuli del fuso durante la divisione cellulare ed è

responsabile della corretta segregazione mitotica e meiotica dei cromosomi.

Il telomero protegge le estremità dei cromosomi dalla degradazione e dalla fusione

coda-coda, e assicura un ancoraggio alla DNA polimerasi per la duplicazione delle

sequenze di DNA più terminali. I telomeri sono costituiti da code ripetute di 6 paia di basi

TTAGGG.

Quando i cromosomi sono sottoposti a specifici trattamenti, come il bandeggio G o

il bandeggio R, avviene una denaturazione lungo il loro asse, che determina, dopo

colorazione con Giemsa, un’alternanza di bande chiare e scure. Il pattern di alternanza di

tali bande è ricorrente in ogni individuo ed è specifico di ogni cromosoma, in quanto

riflette la concentrazione relativa che è regione-specifica, di AT o CG (Zollino, 2010).

Essendo l’arrangiamento in bande tipico per ogni cromosoma, è possibile

identificare una regione cromosomica corrispondente a una singola banda in modo

univoco. Ogni regione cromosomica viene identificata utilizzando un numero o una lettera

corrispondente al cromosoma stesso (per es., 5, X o Y) seguito dal simbolo del braccio

corto (p) o di quello lungo (q). Le bande citogenetiche sono poi numerate dal centromero al

telomero. Il cromosoma 22q11.2, per es., identifica il braccio lungo del cromosoma 22,

banda 1, sottobanda 1, sotto-sottobanda 2.

L’epigenoma consiste, invece, nell’insieme delle modificazioni chimiche che

vengono apportate o al DNA o alle proteine istoniche di una cellula o organismo che

contribuiscono a regolare l’espressione genica in maniera indipendente dalla sequenza

nucleotidica (Jimenez-Chillaron et al., 2012); cambiamenti nella struttura dell’ epigenoma

possono risultare in cambiamenti della struttura della cromatina e di conseguenza in

cambiamenti funzionali del genoma (B. E. Bernstein, Meissner, & Lander, 2007).

Possiamo quindi affermare che tutte le cellule di un organismo hanno lo stesso

genoma, ma differiscono l’uno dall’altra perché hanno un diverso epigenoma.

Thomas Jenuwein, un biologo tedesco, ha paragonato la differenza tra genoma ed

epigenoma a quella tra un libro stampato o letto. Il testo scritto, il DNA, è sempre identico,

ma la sua lettura può generare interpretazioni diverse.

Le caratteristiche fondamentali dell’epigenoma sono:

- conservazione dell’informazione genetica

- reversibilità

- ereditabilità (memoria epigenetica)

- plasticità ambientale

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Particolarmente suggestivi per comprendere l’importanza dei meccanismi epigenetici, e

la loro relazione con l’ambiente, sono alcuni studi che sono stati condotti sui gemelli

omozigoti, che cioè condividono lo stesso genoma, ma che col passare del tempo, essendo

naturalmente esposti a stimoli ambientali diversi, giungono invariabilmente ad assumere

un profilo fenotipico più o meno differente. In una vasta coorte di gemelli omozigoti sono

state analizzate le differenze della metilazione del DNA e nell’acetilazione degli istoni, ed

è emerso che i gemelli sebbene epigeneticamente uguali alla nascita, mostravano

alterazioni dei profili epigenetici a distanza di anni, e che spesso queste alterazioni erano

accompagnate da cambiamenti nel fenotipo: sviluppo di particolari neoplasie, malattie

psichiatriche, obesità etc (Fraga et al., 2005).

1.2.3 Classificazione delle modificazioni epigenetiche

Alcune fra le modificazioni epigenetiche finora scoperte sono le modificazioni

istoniche, la metilazione del DNA, l’idrossimetilazione del DNA, la poliadenilazione del

DNA ed i miRNA; i meccanismi principali sono rappresentati però dalle modificazioni

istoniche e dalla metilazione del DNA (B. E. Bernstein et al., 2007).

Gli istoni sono piccoli proteine basiche con carica positiva (poiché sono costituiti in

ampia parte da amminoacidi con catena laterale basica, nella fattispecie lisina e arginina) e

sono la componente proteica più rappresentata nella cromatina, andandone a formare l’80-

90% circa (Youngson RM (2006).

Ad oggi sono conosciute 5 famiglie di istoni: H1, H2A, H2B, H3, H4.

Gli istoni tendono ad aggregarsi tra di loro in gruppi di otto formando ottameri che,

interagendo con il DNA, di carica sostanzialmente negativa a causa dell’abbondanza di

gruppi fosfato, vanno a costituire i nucleosomi, partecipando in questo modo ai

meccanismi di impacchettamento del DNA all’intero del nucleo cellulare.

Se prima degli anni ’90 agli istoni veniva riconosciuto un ruolo esclusivamente

strutturale all’interno del genoma, oggi sappiamo che, in virtù della loro capacità di

modificare la conformazione del DNA, svolgono un importante ruolo in diversi

meccanismi genetici: regolazione dell’espressione genica, riparazione di danni al DNA,

replicazione, ricombinazione e regolazione epigenetica (Lennartsson & Ekwall, 2009).

L’importanza che oggi viene attribuita agli istoni nelle funzioni cellulari è tale che

si parla di un vero e proprio“codice istonico” (Turner, 2002) (Nightingale, O'Neill, &

Turner, 2006), in grado di andare a regolare l’espressione genica in maniera epigenetica.

Le alterazioni del codice istonico avvengono grazie a delle modificazioni post-

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traduzionali epigenetiche che consistono nell’aggiunta di un particolare gruppo funzionale

a livello di specifiche basi azotate localizzate all’estremità N-terminale delle proteine

istoniche, catalizzate da enzimi specifici (Nightingale et al., 2006).

Le modificazioni saranno differenti tra di loro a seconda del gruppo funzionale e

del residuo amminoacidico su cui viene aggiunto il gruppo (Nightingale et al., 2006).

Fra le modificazioni istoniche maggiormente osservate abbiamo l’acetilazione, la

fosforilazione, la metilazione, l’ubiquitinazione, la biotinilazione, la citrullinazione, la

propionilazione e la butirrilazione (Bannister & Kouzarides, 2011).

Quale sia la modificazione implicata, il risultato sarà comunque quello di andare a

determinare un’alterazione della struttura terziaria del DNA che renderà più o meno

accessibili alcune regioni del genoma ai meccanismi implicati nella trascrizione e nella

traduzione, producendo quindi modificazioni dell’espressione genica, senza alterazione

degli acidi nucleici.

La metilazione del DNA è una modificazione epigenetica che consiste nel legame di un

gruppo metile (-CH3) ad una base azotata e rappresenta un meccanismo diffuso nei

procarioti e negli eucarioti, che può determinare la modificazione di basi differenti a

seconda dell’organismo interessato. Nel procariote Escherichia coli, ad esempio, ad essere

metilata a livello del DNA è l’adenina, con lo scopo di proteggere il genoma della cellula

dall'attacco delle endonucleasi di restrizione prodotte dal batterio stesso, come mezzo di

resistenza all'attacco dei fagi (J. R. Horton, Zhang, Blumenthal, & Cheng, 2015).

La metilazione rappresenta la più frequente fra le modificazione epigenetiche nel

DNA negli eucarioti (Auclair & Weber, 2012) e la base maggiormente interessata da

questo processo è la citosina; la reazione chimica consiste in una modificazione covalente

del DNA, catalizzata da un enzima della famiglia delle DNA-metiltransferasi (DNMT), in

cui viene trasferito un gruppo metilico da S-adenosilmetionina (SAM) ad un carbonio (nei

mammiferi tipicamente in posizione 5) della citosina, con conseguente formazione di una

base di metilcitosina (nei mammiferi 5-metilcitosina).

Nei mammiferi la metilazione avviene quasi esclusivamente nel contesto dei dinucleotidi

CG (citosina, guanina), indicati come siti CpG (dove p indica il legame fosfodiesterico tra

la citosina e la guanina). La notazione "CpG" viene usata per distinguere questa sequenza

lineare dall'appaiamento di basi complementari CG su due diversi filamenti.

Diversi studi hanno dimostrato nei genomi dei mammiferi, a differenza di quanto

avviene negli invertebrati, una correlazione inversa fra la l’entità della metilazione delle

citosine e la densità delle CpG nel genoma, e questa generale mancanza di CpG può essere

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spiegata come risultato evoluzionistico della metilazione delle stesse regioni. Dato che le

citosine metilate nelle CpG sono altamente vulnerabili nei confronti di mutazioni

spontanee verso le timine, la metilazione del DNA riduce effettivamente i contenuti di

dinucleotidi CpG, allo scopo di ottenerne una vantaggio evolutivo (Deaton & Bird, 2011)

(Coulondre, Miller, Farabaugh, & Gilbert, 1978) (A. P. Bird, 1980).

In effetti nel genoma umano i dinucleotidi CpG sono relativamente infrequenti

(Auclair & Weber, 2012) ed in condizioni normali il 70-80% circa è metilato (Allison

fondamenti di biologia molecolare cap 12 pag 376), mentre il resto è organizzato in piccole

regioni (tipicamente lunghe 1-2 kb) di DNA localizzate all’estremità 5’ dei geni, chiamate

“isole CpG”.

Le isole CpG, al contrario dei siti CpG, sono protette dalla metilazione del DNA e

di conseguenza preservano i loro dinucleotidi CG (Antequera & Bird, 1993). Nel genoma

umano sono presenti approssimativamente 50000 isole CpG, associate a promotori e

regioni regolatrici del 40-50% circa dei geni housekeeping, geni che vengono regolarmente

attivati e trascritti, in quanto codificano per proteine ed enzimi fondamentali per la vita

cellulare (Allison, 2008)

La metilazione è generalmente un segnale di repressione genica, che blocca la

trascrizione, impedendo il legame di fattori trascrizionali con i nucleotidi, oppure

attraverso l’azione di particolari proteine in grado di legarsi ai residui metilati (methyl-

binding proteins, MBP). Queste modificazioni del DNA possono essere trasmesse alle

cellule figlie durante la divisione cellulare, in linea con il modello dei meccanismi

epigenetici, e possono quindi mediare cambiamenti duraturi nell’espressione genica, anche

quando il segnale iniziale di attivazione è ormai scomparso (Esteller, 2007) (Lujambio et

al., 2010).

Studi condotti sui mammiferi hanno inoltre dimostrato che la maggior parte della 5-

metilcitosina presente nel genoma, si trova all’interno di retrotrasposoni o di altre sequenze

ripetitive. In seguito a questa osservazione i ricercatori hanno proposto che la metilazione

si sia evoluta come un meccanismo di difesa dell’ospite, per impedire la mobilizzazione di

questi elementi e per ridurre i riarrangiamenti cromosomici (Allison, 2008).

La reazione di metilazione dei residui di citosina è catalizzata da enzimi della

famiglia delle DNA metiltransferasi (DNMT), che nei mammiferi è composta

principalmente da quattro membri attivi nei meccanismi di imprinting: DNMT1,

DNMT3A, DNMT3B e DNMT3L.

DNMT1 è responsabile del mantenimento del metilazione durante la replicazione

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del DNA e anche della conservazione dell’imprinting stabilito nella linea cellulare

somatica dallo zigote fino al mammifero adulto (Allison, 2008); DNMT3A e DNMT3B

sono gli enzimi che attendono, assieme al loro cofattore DNMT3L, alla metilazione del

DNA ex novo durante lo sviluppo (Okano, Bell, Haber, & Li, 1999) ed in particolare

DNMT3A si occupa del settaggio del pattern di metilazione durante la maturazione dei

gameti (Kato et al., 2007) (Kaneda et al., 2004) (Smallwood et al., 2011), mentre

DNMT3B è il maggior responsabile dell’acquisizione della metilazione al momento

dell’impianto dello zigote (Borgel et al., 2010).

La metilazione nei mammiferi è implicata in moltissime funzioni, fra le quali l’espressione

genica tessuto-specifica, la differenziazione cellulare, l’imprinting genomico,

l’inattivazione del cromosoma x, la regolazione della struttura della cromatina, la

carcinogenesi, l’invecchiamento, lo sviluppo ed il setting metabolico (A. Bird, 2002).

1.2.4 Imprinting genomico: l’esempio 11p15

Con il termine “imprinting genomico” si intende l’espressione differenziale di

materiale genetico, a seconda che esso derivi dal genitore di sesso maschile, oppure dal

genitore di sesso femminile (Brannan & Bartolomei, 1999). L’espressione genica selettiva

avviene attraverso un meccanismo epigenetico di regolazione trascrizionale con il quale i

geni vengono espressi o meno (Gurrieri, 2010).

Ad oggi sono stati scoperti nell’uomo e nel topo circa 100 geni soggetti ad

imprinting, ma si stima che globalmente ne esistano circa 1000 (Henckel & Arnaud, 2010)

(Proudhon & Bourc'his, 2010). Questi geni tendono ad avere ruoli importanti nello

sviluppo e la perdita di imprinting è coinvolta in un certo numero di malattie genetiche,

disordini del sistema nervoso e tipi diversi di cancro (Allison, 2008).

L’imprinting rappresenta un’eccezione a quanto previsto dalle leggi mendeliane, in base

alle quali la derivazione parentale di un determinato allele è indifferente ai fini della sua

espressione. L’esistenza dell’imprinting genomico suggerisce invece che il genoma

materno e quello paterno non sono funzionalmente equivalenti, ma hanno un ruolo

complementare e non sostituibile nel determinare un corretto sviluppo embrionale.

(Gurrieri, 2010).

Il fenomeno è dovuto a istruzioni epigenetiche depositate nelle cellule germinali dei

genitori: queste istruzioni sono sotto forma di una metilazione differenziale dei due alleli

parentali del gene sottoposto ad imprinting (Allison, 2008). Il processo implica che uno dei

due alleli di un gene sia escluso dall'attivazione in base al genitore (madre o padre) da cui è

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stato ricevuto il cromosoma recante l'allele stesso. L'imprinting può essere quindi di

origine materna, se viene silenziato l’allele materno ed espresso l’allele paterno, di origine

paterna, se viene invece silenziato l’allele paterno ed espresso quello materno.

La metilazione del DNA rappresenta un marker per la distinzione delle due copie

del gene altrimenti identiche; questo “marchio” determina l’attivazione di una copia genica

e la repressione dell’altra e dunque, a seconda del tipo di gene imprinted, solo l’allele di

origine materna o solo quello di origine paterna, sarà attivato nella progenie (Corsello,

2013).

Il meccanismo di imprinting viene stabilito al momento della gametogenesi:

durante la spermatogenesi i geni a espressione esclusivamente materna vengono metilati,

mentre quelli ad espressione esclusivamente paterna vengono demetilati; analogamente,

durante l’ovogenesi, gli alleli a espressione esclusivamente paterna sono metilati, mentre

quelli a espressione esclusivamente materna sono demetilati. (Gurrieri, 2010).

Naturalmente a ogni passaggio attraverso la gametogenesi l’imprinting deve essere

resettato: durante la spermatogenesi gli alleli di origine materna saranno riprogrammati

come alleli di tipo maschile, mentre durante l’ovogenesi gli alleli di origine paterna

dovranno essere trasformati in alleli di tipo femminile.

Dopo la formazione dello zigote si verifica solitamente una demetilazione generale,

indice probabilmente della notevole attività trascrizionale nelle prime fasi dello sviluppo

embrionale: tale demetilazione è inizialmente attiva e successivamente passiva,

risparmiando però i geni imprinted, che mantengono la loro metilazione e quindi la loro

informazione trascrizionale, in modo costante per tutta la durata dello sviluppo embrionale

e della vita postnatale. (Gurrieri, 2010).

Nei mammiferi, alcuni geni soggetti ad imprinting risiedono singolarmente nel

genoma, la maggior parte invece risiede in specifiche regioni genomiche (si parla anche di

“domini” o “clusters”) della lunghezza di 1Mb circa. Questi domini sono presenti sia nel

genoma ereditato dalla madre, sia nel genoma ereditato dal padre; contengono,

ovviamente, i geni sottoposti ad imprinting con l'aggiunta, spesso, di almeno un lungo

tratto di RNA non codificante (ncRNA) di circa 100 kb di lunghezza, che regola

l'imprinting dei geni adiacenti.

I clusters di geni sottoposti ad imprinting sono regolati in modo coordinato dalla

metilazione del DNA di grandi (fino a 100 kb) regioni intergeniche specifiche, chiamate

regioni di controllo dell’imprinting (ICR), dette anche “regioni metilate differentemente”

(Differentially methylated regions, DMR) o “centri di imprinting”.

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Queste regioni sono ricche di dinucleotidi CG e molte corrispondono a isole CpG (Allison,

2008).

Le ICR sono responsabili dell’instaurazione dell’imprinting differenziale e del

mantenimento dell’imprinting durante lo sviluppo. Prova della loro importanza è

l’osservazione che la delezione delle ICR causa la mancanza di imprinting dei geni

adiacenti. Le ICR stesse sono sottoposte alla metilazione del DNA a livello di un solo

allele.

Il meccanismo dell’imprinting è fondamentale per un corretto sviluppo embrionale

e, quando è alterato, può essere responsabile di sindromi da anomalie congenite multiple e

ritardo mentale o di alcuni tumori. In queste condizioni l’espressione del fenotipo

patologico dipende dalla provenienza parentale della mutazione. (Gurrieri, 2010).

Nel caso in cui siano presenti, in un locus regolato attraverso l'imprinting, un allele

normale soggetto ad imprinting e un allele mutato, ad esempio per una delezione, non

soggetto ad imprinting, si osserverà nell’individuo che possiede questi alleli un fenotipo

patologico. Viceversa, una mutazione in un gene che non sarà espresso perché sottoposto a

imprinting, potrebbe passare inosservata.

Le sindromi associate a difetti dell’imprinting sono molte (tab. 11) ed i meccanismi che

possono produrre questi fenotipi patologici sono (Gurrieri, 2010):

- mutazione dell’allele parentale normalmente espresso

- delezione delle regione genomica contenente l’allele espresso

- duplicazione della regione genomica contenente l’allele espresso, che quindi

diventa iperfunzionante

- disomia uniparentale del cromosoma o della regione contenente l’allele non

espresso, con conseguante perdita di funzione del medesimo

- disomia uniparentale del cromosoma o della regione contenente l’allele espresso

con conseguente eccesso di funzione

- delezione del centro regolatore dell’imprinting con conseguente alterazione della

metilazione dei geni imprinted

- mutazione puntiforme della sequenza del centro dell’imprinting con conseguente

alterazione della metilazione dei geni imprinted

- alterazioni non genetiche della metilazione, spesso a mosaico, derivanti da processi

stocastici come lo stato nutrizionale, l’umore, il comportamento o altre variabili

ambientali

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Condizioni associate a difetti dell’imprinting Sindrome di Prader-Willi

Sindrome di Angelman

Sindrome di Beckwith-Weidmann

Diabete mellito neonatale transitorio

Sindrome di Silver-Russell

Disomia uniparentale del cromosoma 14

Osteodistrofia ereditaria di Albright/ Pseudoipoparatiroidismo 1B/ Ossificazione eterotopica progressiva

Sindrome di McCune-Albright

Tab. 11 – Condizioni associate a difetti dell’imprinting (Gurrieri F, 2010)

Una delle regioni del genoma umano di maggior interesse scientifico è

rappresentata dalla regione 15 del braccio corto del cromosoma 11 (11p15), la quale

contiene un cluster di geni soggetti ad imprinting che hanno un ruolo importante nella

regolazione della crescita (Cordeiro, Neto, Carvalho, Ramalho, & Doria, 2014).

Tale cluster è regolato da un centro di imprinting che presenta una struttura

bipartita, caratterizzata da due indipendenti ICR: IC1 (chiamata anche H19 DMR o

DMR1) e IC2 (chiamata anche KvDMR1 o DMR2) .

IC1 è responsabile del controllo di imprinting dei geni IGF2 (Insulin-like growth

factor 2) e H19.

IC2 invece coordina l’espressione di KCNQ10T1 (KCNQ1 overlapping transcript

1), KCNQ1 (Potassium voltage-gated channel) CDKN1C (cyclin-dependent kinase

inhibitor 1 C), PHLDA2 (Pleckstrin homology-like domain family A member 2).

IGF2 risente di un imprinting materno e pertanto è metilato solo sull’allele materno,

mentre H19 risente di imprinting paterno, che ne determina la metilazione sull’allele

paterno (fig. 3)

Fig. 3 – Meccanismo espressione genica su cromosoma 11p15 (Cordeiro et al., 2014)

(modificata)

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Sull'allele materno IC1 non viene metilata permettendo il legame con la proteina

CTCF (CCCTC binding factor) che inibisce l'interazione degli enanchers con il promotore

di IGF2, determinando la repressione del gene IGF2 e l'espressione del gene H19.

Sull'allele paterno, l'impronta di metilazione presente sulla IC1 non permette il legame con

la proteina CTCF, consentendo di fatto il legame degli enanchers al promotore e perciò

l'espressione di IGF2, ma non di H19, in quanto la metilazione stessa blocca la trascrizione

va valle della IC1 (fig. 4).

Fig. 4 – Meccanismo della trascrizione dei geni di IC1 (Pidsley, Dempster,

Troakes, Al-Sarraj, & Mill, 2012)

Quindi in definitiva, per quanto riguarda IC1 alla fine avremo IGF2 espresso

dall’allele paterno e H19 espresso dall’allele materno.

La situazione di IC2 sarà opposta alla precedente: in quanto IC2 sarà demetilato

sull’allele paterno, portando così all’espressione di KCNQ10T1 e al silenziamento dei geni

KCNQ1, CDKN1C e PHLDA2; mentre sull’allele materno avremo KCNQ10T1 espresso,

mentre KCNQ1, CDKN1C e PHLDA2 silenziati (fig. 5)

Fig. 5 – Meccanismo della trascrizione dei geni di IC2 (Goldman et al., 2002)

(modificata)

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Nella tab. 12 è riportato il normale pattern di metilazione presente sul cromosoma

11p15.

Cromosoma Stato di

metilazione ICR

Stato di metilazione dei

singoli geni

Geni espressi

Allele paterno IC1 metilato Igf2 non metilato Igf2

H19 metilato

IC2 non metilato KCNQ10T1 non metilato KCNQ10T1

(long non-coding

RNA genes) KCNQ1 metilato

CDKN1C metilato

PHLDA2 metilato

Allele materno IC1 non metilato Igf2 metilato H19

(long non-coding

RNA genes)

H19 non metilato

IC2 metilato KCNQ10T1 metilato KCNQ1

CDKN1C

PHLDA2

KCNQ1 non metilato

CDKN1C non metilato

PHLDA2 non metilato

Tab. 12 – Normale pattern di metilazione sul cromosoma 11p15

Fatta eccezione per H19 e KCNQ10T1, che sono “long non-coding RNA genes”

che trascrivono per mRNA di 2.3 kb non codificante ma non vengono tradotti in nessuna

proteina, tutti gli altri geni una volta espressi codificano per proteine che hanno importanti

effetti sulla crescita dell’individuo.

Nella fattispecie IGF2 rappresenta un importante fattore stimolante la crescita,

mentre KCNQ1, CDKN1C e PHLDA2 sono “growth inhibitors”(Cordeiro et al., 2014).

Anomalie dell’espressione di questi geni, e delle rispettive ICR, possono essere, in

effetti, alla base di due diversi quadri sindromici: la sindrome di Beckwith-Weidmann e la

sindrome di Silver-Russell, caratterizzate rispettivamente, da iperaccrescimento e

restrizione di crescita (fig. 6)

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Fig. 6 – Meccanismi di metilazione implicati nella genesi delle sindromi di

Beckwith-Weidmann e di Silver-Russell (Eggermann, Eggermann, & Schonherr, 2008)

1.2.5. Le sindromi di Beckwith-Wiedemann e Silver-Russel

La sindrome di Beckwith-Weidmann (BWS), che ha una prevalenza nei nati vivi di

1:10500 (Mussa et al., 2013), è la sindrome da iperaccrescimento più frequente e di

conseguenza rappresenta il modello delle sindromi con iperaccrescimento neonatale. Sono

stati definiti criteri diagnostici “maggiori” e “minori” (tab. 13) (Weksberg, Shuman, &

Beckwith, 2010) (Rump, Zeegers, & van Essen, 2005) e comunemente la diagnosi viene

posta con 3 criteri maggiori o 2 maggiori più 2 minori.

Le basi molecolari della sindrome sono complesse ed eterogenee. La sindrome

rappresenta un modello di patologia da difetto dell’imprintig genomico, con molteplici

difetti molecolari delle due zone sottoposte a imprinting della regione cromosomica del

cromosoma 11p.15.5. Anomalie di questa regione si riscontrano nell’85% dei soggetti

affetti.

Alla base della sindrome vi sono alterazioni dei meccanismi dell’imprinting di due

regioni differenzialmente metilate (DMR) indipendenti nella regione 11p.15.5: anomalie

nella metilazione di queste due regioni DMR sono dovute a vari meccanismi e comportano

alterazioni quantitative nell’espressione dei geni da esse controllati, responsabili del

quadro clinico (Choufani, Shuman, & Weksberg, 2010).

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Sindrome di Beckwith-Wiedemann Criteri maggiori

- Difetti addominali maggiori (esonfalo o ernia ombelicale)

- Macroglossia

- Macrosomia (peso >97°percentile)

- Solchi e pieghe del lobo auricolare o pits all’elice

- Visceromegalia

- Sviluppo di tumori embrionari nella prima infanzia

- Emiperplasia corporea

- Citomegalia della corteccia surrenalica

- Anomalie nefroureterali

- Storia familiare di sindrome di Beckwith-Wiedemann

- Palatoschisi

Criteri minori - Ipoglicemia neonatale

- Nevo flammeo alla gabella

- Facies caratteristica

- Cardiomegalia

- Diastasi dei muscoli retti

- Età ossea avanzata

- Prematuranza

- Polidramnios

- Cordone ombelicale ipertrofico

Tab. 13 – Criteri diagnostici della sindrome di Beckwith-Wiedenamm

I principali meccanismi molecolari della sindrome sono rappresentati da (Mussa et

al., 2013): perdita di metilazione in IC2 (>50%), guadagno di metilazione all’IC1 (5-10%),

disomia uniparentale paterna del cromosoma 11, tutti e tre responsabili della maggior parte

dei casi sporadici della sindrome, mutazione inattivante del gene CDKN 1C (5-10%)

responsabile della metà dei casi ereditabili della sindrome, riarrangiamenti genomici

ereditabili come delezioni, inversioni, duplicazioni, traslocazioni coinvolgenti le regioni

dei due centri di imprinting (1%). Il 15-20% dei pazienti con sindrome di Beckwith-

Wiedenam non presenta nessuna di queste alterazioni ed è causato verosimilmente da

meccanismi molecolari non ancora noti o da “mosaicismi” tissutali non rilevabili, al di

sotto delle sensibilità delle attuali metodiche di laboratorio impiegate per la conferma

molecolare (Murrell et al., 2004).

La sindrome di Siver-Russel (SRS), che ha una prevalenza nei nati vivi di

1:30/100.000 (Mussa et al., 2013), è caratterizzata da ritardo della crescita ad esordio

prenatale, facies caratteristica ed asimmetria degli arti e rappresenta un esempio di

sindrome malformativa da restrizione della crescita fetale. Sono stati definiti criteri clinici

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diagnostici “maggiori” e “minori” (tab. 14) e comunemente la diagnosi viene posta con 3

criteri maggiori o 2 maggiori più 2 minori (Wakeling et al., 2010).

Sindrome di Silver-Russel Criteri maggiori

- IUGR/SGA (<10°percentile)

- Accrescimento post natale con rapporto peso/altezza < 3°percentile

- Normale circonferenza cranica (3°-97°percentile)

- Asimmetria degli arti, del corpo e/o del volto

Criteri minori - Clinodattilia del V dito

- Facies triangolare

- Bozze frontali prominenti

- Macchie caffè-latte o alterazioni della pigmentazione cutanea

- Anomalie genito-urinarie (criptorchidismo, ipospadia)

- Arti superiori corti con normale rapporto segmento superiore/inferiore

- Disturbi dell’alimentazione

- Ipoglicemia

Tab. 14 - Criteri diagnostici della sindrome di Silver-Russel

L’eziologia della sindrome è eterogenea: nel 10% circa è presente disomia

uniparentale materna del cromosoma 7 (doppia dose del cromosoma materno 7), mentre

una quota rilevante (40-50%) mostra ipometilazione del gene H19, localizzato sulla

regione cromosomica 11p15.5 soggetta ad imprinting e nota per essere correlata alla

sindrome di Beckwith-Wiedemann. L’ipometilazione può essere dovuta in molti casi ad un

meccanismo epigenetico, oppure ad un microriarrangiamento genomico, come la micro

duplicazione materna della regione critica. L’insieme dei difetti dimostrabili raggiunge

quasi il 60% dei pazienti diagnosticati clinicamente (Abu-Amero et al., 2010).

1.2.6 Epigenetica e accrescimento

Anomalie dei pattern epigenetici simili a quelle riscontrate nei quadri sindromici

caratterizzati da disordini dello sviluppo, anche se di minore entità, sono responsabili di

fenotipi molto più sfumati (Scott et al., 2008). Così, associato ad un fenotipo obeso

(correlabile a BWS) avremo ipermetilazione IC1 e ipometilazione IC2, al contrario ad un

fenotipo magro (correlabile a SRS) sarà invece associata ipometilazione IC1 (tab. 15)

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Tab. 15 – Alterazioni metilazione associate a disordini dello sviluppo (Scott et al.,

2008)

In uno studio condotto su una coorte di neonati è stato messo in evidenza che,

andando ad analizzare la metilazione di IC1 e IC2 in neonati con IUGR nei confronti di

controlli, circa il 65% dei casi di IUGR presentava ipometilazione di IC1, compatibile con

il modello precedentemente proposto (tab. 16).

Ciò che sembra emergere è che l’ipometilazione di IC1 possa essere responsabile della

restrizione di crescita. Lo studio ha comunque riportato anche un ipometilazione IC2 nel

40% dei soggetti (Cordeiro et al., 2014).

Tab. 16 - (Cordeiro et al., 2014)

Tuttavia, le correlazioni fra metilazione delle ICR e indici di crescita non sempre

corrispondono a quanto atteso dal modello precedentemente esposto e di questo diversi

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studi ne sono testimoni. Nello studio di Huang RC e coll. (Huang et al., 2012), ad esempio,

una coorte di 315 giovani adulti di età media 17 anni, ha effettuato nel diciassettesimo

anno un prelievo di sangue periferico, sul quale è stata condotta una analisi citogenetica

per ricercare modificazioni della metilazione della regione IC1. I risultati dell’analisi sono

stati in seguito confrontati con i dati auxologici di tre periodi diversi (la nascita, un periodo

compreso fra 1 e 10 anni e il momento del prelievo), allo scopo di valutare relazioni

possibili fra i diversi dati. I risultati sono stati i seguenti:

- nessuna correlazione individuabile tra metilazione IC1 e peso, lunghezza e

circonferenza cranica alla nascita

- correlazione negativa tra metilazione IC1 e circonferenza cranica valutata tra 1 e 10

anni (l’aumento di una deviazione standard nella metilazione della sequenza CpG

da 13 a 14 della IC1 è associato ad una riduzione dello z-score per la circonferenza

cranica di 0,12; cioè un aumento del 3,4% nella metilazione è associato ad una

riduzione della circonferenza cranica di 18 mm, p=0,006)

- correlazione positiva tra metilazione IC1 e spessore della plica cutanea (p=

compresa fra 0,01) e adiposità sottocutanea (p=0,023) ma non con altri parametri

(peso, altezza, BMI, circonferenza della vita, adiposità viscerale)

E’ sicuramente interessante la relazione inversamente proporzionale fra metilazione

e circonferenza cranica nei bambini, in quanto conferma il ruolo fondamentale

dell’asse IGF nella crescita e nello sviluppo, di cui la circonferenza cranica sembra

rappresentare il marker più sensibile e accurato rispetto al peso alla nascita, anche se in

una modo inatteso rispetto al modello precedentemente esposto, dove una restrizione di

crescita si associa ad ipometilazione IC1.

Risultati analoghi sono stati ottenuti in studi su modelli animali (Pidsley,

Fernandes, et al., 2012) e umani (Pidsley, Dempster, & Mill, 2010) in cui la

metilazione del DNA di IC1 è stata correlata negativamente con la massa cerebrale:

l’ipermetilazione si associa ad un ridotto sviluppo cerebrale sia nell’uomo che nel topo.

1.2.7 Epigenetica e nutrizione

L’epigenetica ha trovato molto spazio nello studio dei meccanismi che concorrono

allo sviluppo ed alla determinazione fenotipica dell’individuo. In questo ambito l’interesse

degli scienziati si è concentrato sulla ricerca di quei fattori ambientali in grado di andare a

influire sui meccanismi sopradetti, in particolare quelli imprescindibili per la vita di

qualsiasi individuo, alimentazione e vita intrauterina.

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La nutrizione, è ormai noto, costituisce uno dei maggiori fattori ambientali ad avere

un profondo impatto sulla salute o sulla malattia di una popolazione: è ormai noto che nei

paesi industrializzati l’eccessivo intake calorico nella dieta sia responsabile di molte

malattie croniche, come l’obesità, il diabete mellito di tipo 2, le malattie cardiovascolari ed

il cancro, così come nei paesi sottosviluppati la malnutrizione, specie nel periodo

perinatale, sia causa di elevate mortalità neonatale e morbidità perinatale (R. Horton, 2008)

(Saenger et al., 2007).

Esistono tuttavia fenomeni meno semplici da spiegare, come ad esempio quello

della carestia olandese nell’inverno 1944-1945 (noto come “Dutch famine” o “Dutch

hunger winter”), durante la quale le forze occupanti tedesche costrinsero alla fame la

popolazione della regione occidentale del paese: dei circa 4,5 milioni di abitanti della

regione, circa 18000 perirono di inedia (Jimenez-Chillaron et al., 2012).

Il triste episodio rimane tuttavia celebre soprattutto per il contributo scientifico che

ne è derivato nell’ambito della comprensione dei meccanismi epigenetici, grazie

all’incredibile ed eccellente documentazione che ci è arrivata. Le autorità sanitarie olandesi

hanno infatti aggiornato i registri sanitari di tutti i cittadini alla fine della guerra,

accorgimento che permise agli scienziati di misurare gli effetti della carestia sulla salute

umana. Già nel 1945 si riconobbe come la carestia potesse essere studiata per misurare, ad

esempio, gli effetti della malnutrizione materna sullo sviluppo del feto.

Sono stati fatti numerosi studi epidemiologici di coorte che hanno mostrato come i

soggetti esposti alla carestia materna in epoca fetale soffrissero, rispetto ai nati nei periodi

precedenti o seguenti la carestia, di un aumentato rischio di obesità, ipertensione, diabete

mellito di tipo II e disturbi psicopatologici (schizofrenia e depressione) trasmesso poi ai

discendenti (Heijmans et al., 2008).

Negli anni successivi molti scienziati provarono ad elaborare teorie e modelli che

potessero spiegare l’episodio olandese.

Una delle prime teorie elaborate fu quella del “thriphty genotype” (il genotipo

risparmiatore) ad opera del genetista americano James V. Neel (1915-2000), secondo cui

nel corso dell’evoluzione umana sarebbero stati selezionati alcuni geni, presumibilmente

implicati in meccanismi metabolici, utili per sopravvivere in condizioni nutrizionali

avverse, ma che si sarebbero rilevati pericolosi in tempi “di vacche grasse” (Neel, 1962).

La teoria di Neel risultava tuttavia debole, in quanto, sulla base delle sue argomentazioni,

la quasi totalità della popolazione, soprattutto nei paesi industrializzati, avrebbe dovuto

essere diabetica ed obesa, senza considerare che avrebbe sminuito il ruolo dell’alterazione

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nutrizionale sul fenomeno. L’ipotesi di Neel tuttavia, è stata il presupposto fondamentale

per la formulazione, nei primi anni ’90 dello scorso secolo, di due teorie che avrebbero

rivoluzionato il modo di intendere il ruolo dell’alimentazione nello sviluppo, il fetal

programming e il thrifty fenotype.

Nel 1991 Lucas enunciò l’ipotesi del “fetal programming”, secondo la quale

l’azione di uno stimolo o di un insulto in momenti critici dello sviluppo, come l’epoca

embrio-fetale, possa determinare conseguenze a lungo termine nella vita dell’individuo,

tramite un aggiustamento genomico adattivo (Lucas, 1991).

Contemporaneamente Hales e Barker formularono una teoria alternativa o

quantomeno complementare a quella di Neel, che negli anni successivi ha trovato molte

conferme sia a livello epidemiologico, che molecolare, vale a dire quella del “thrifty

fenotype” (fenotipo risparmiatore), secondo cui condizioni critiche embrio-fetali e basso

peso alla nascita, seguite da un eccessivo apporto calorico durante la vita postnatale,

sarebbero i principali determinanti dell’incremento di patologie cronico-degenerative

(cardiovascolari, metaboliche, renali) (Barker et al., 1990) (Hales et al., 1991) (Burgio E,

2012)

Negli anni successivi divenne evidente che l’intero periodo dello sviluppo embrio-

fetale e perinatale svolge un ruolo chiave nella programmazione di organi e tessuti: tessuto

adiposo, asse ipotalamo-ipofisi-gonadico, parenchima renale, apparato cardiocircolatorio,

sistema nervoso centrale etc (Meyer-Bahlburg & Ehrhardt, 1980).

Le successive acquisizioni nel campo dell’epigenetica avrebbero permesso, in

seguito, di dare concretezza molecolare a questi modelli e di elaborare teorie sempre più

comprensive sullo sviluppo neonatale e sull’origine fetale delle malattie croniche

dell’adulto (Calkins & Devaskar, 2011) (Burgio E, 2012).

Uno dei primi aspetti ad essere chiarito è stata la definizione di quando avvengono

più frequentemente queste modificazioni. Dagli studi sembra emergere che i momenti

critici siano fondamentalmente due: durante le primissime fasi dello sviluppo e durante i

cambiamenti persistenti dell’alimentazione nell’età adulta (Jimenez-Chillaron et al., 2012).

Già il caso della Dutch famine aveva messo in evidenza l’importanza delle

modificazioni che avvengono nell’ambiente intrauterino, ma l’evidenza molecolare delle

modificazioni dell’imprinting nelle cellule staminali durante le fasi precoci dello sviluppo

(Corry, Tanasijevic, Barry, Krueger, & Rasmussen, 2009) ed in particolare le demetilazioni

degli embrioni che avvengono fra la fecondazione e l’impianto dello zigote per permettere

la riprogrammazione dell’epigenoma, hanno fornito un modello per spiegare l’ipotesi di

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Lucas e Baker (Santos, Hendrich, Reik, & Dean, 2002).

Il rapporto fra queste modificazioni che avvengono nel periodo embrio-fetale e

l’alimentazione, è stato messo bene in evidenza da vari studi proposti su vari modelli,

soprattutto umani e murini, nei quali è stata valutata in particolare la risposta epigenetica a

condizioni nutrizionali estreme: carenza proteica, restrizione calorica, dieta iperlipidica ed

eccessivo apporto alimentare neonatale (Jimenez-Chillaron et al., 2012).

In particolare l’apporto proteico del feto durante la gravidanza sembra rivestire un

ruolo importante nella regolazione della metilazione di diversi geni e ICR e di questo ne

sono prova diversi studi su modelli murini, nei quali sono state confrontate le

modificazioni dei pattern di metilazioni a livello di geni implicati nello sviluppo e nel

metabolismo epatico in ratti sottoposti a restrizione proteica durante la gravidanza.

I risultati di questi studi sono stati contrastanti: in alcuni, in seguito a dieta

restrittiva proteica, è stata riscontrata ipometilazione dei geni GR (glucocorticoid receptor),

PPARα e PPARγ (peroxisomal proliferator-activated receptor) (Lillycrop, Phillips,

Jackson, Hanson, & Burdge, 2005), in altri invece ipermetilazione degli stessi geni

(Lillycrop et al., 2008) (Gong, Pan, & Chen, 2010) (Rees, Hay, Brown, Antipatis, &

Palmer, 2000).

Nello specifico, in uno di questi (Lillycrop et al., 2008), sono state analizzate tre

popolazioni di ratti femmine gravide sottoposte a diete diversificate: restrizione proteica e

ridotto apporto di acido folico (1 mg/kg), restrizione proteica ma con supplementazione

maggiore di folati (5 mg/kg) ed un gruppo di controllo. Sono stati riscontrati livelli di

metilazione maggiori, rispetto al gruppo di controllo, in entrambi le popolazioni con

restrizione proteica, anche se di entità superiore (63% vs 47%, p<0,05) nella popolazione

supplementata con basse dosi (1 mg/kg) di acido folico. L’effetto ipometilante dell’acido

folico nei confronti di una dieta ipoproteica è stato messo in evidenza anche da un altro

studio (Gong et al., 2010), condotto sempre su ratti femmine gravide, ma che risulta ancora

più interessante perché riguarda la metilazione della IC1.

Molto importanti sono poi risultate le acquisizioni derivate dagli studi condotti su

esseri umani: uno fra tutti risulta particolarmente interessante, in quanto si tratta di uno

studio che ha cercato di dare una base molecolare alla Dutch famine, tramite la valutazione

delle modificazioni nella metilazione del DNA in una coorte di individui che, al tempo,

subirono la deprivazione nutrizionale in età peri-concezionale (Heijmans et al., 2008). Lo

studio, più precisamente, ha valutato le modificazioni della metilazione di Igf2 DMR ed è

risultato che i soggetti con esposizione periconcezionale alla carenza nutrizionale e che

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avrebbero presentato sei decadi più avanti aumentata suscettibilità per diabete e obesità,

mostravano in età adulta livelli di metilazione significativamente più bassi rispetto ai

controlli (Heijmans et al., 2008).

Resta da chiarire l’effettivo meccanismo molecolare con il quale le alterazioni

dell’alimentazione possano andare a produrre modificazioni epigenetiche, anche se sono

stati ipotizzati tre meccanismi implicati nella metilazione del DNA (Jimenez-Chillaron et

al., 2012)

- cessione diretta del gruppo funzionale da “donatori di gruppi metili”

- modulazione dell’attività enzimatica delle DNMT ad opera di cofattori

- alterazione dell’attività degli enzimi che regolano il ciclo della metionina.

La S-Adenosyl-metionina (SAM) rappresenta il donatore universale di gruppi metile per le

DNMT ed è sintetizzato nel ciclo della metionina a partire da precursori e substrati presenti

nella dieta, fra i quali la metionina, l’acido folico, la colina e le vitamine B2, B6 e B12

(Feil & Fraga, 2011) (McKay & Mathers, 2011). È quindi logico pensare che un ridotto

apporto nutrizionale di tali substrati possa determinare una carente sintesi di SAM, con

conseguente ipometilazione globale del DNA, mentre livelli elevati di tali substrati

porteranno all’effetto contrario (Jimenez-Chillaron et al., 2012).

Questa ipotesi sembra essere supportata da diverse evidenze emerse nel corso di

studi condotti sui ratti, nei quali venivano riscontrati bassi livelli di metilazione di DNA a

seguito di restrizione alimentare di proteine (Deminice, Portari, Marchini, Vannucchi, &

Jordao, 2009) oppure di folati, metionina e colina (Pogribny et al., 2008) (Cravo et al.,

1992; Hoyo et al., 2011).

Esistono tuttavia studi recenti che portano a conclusioni diametralmente opposte a

quelle precedentemente affermate e mostrano di conseguenza un quadro ben più complesso

di quello prospettato inizialmente: un recente report (Kim, 2005) ha infatti puntualizzato

l’estrema variabilità dell’impatto dei folati sul processo di metilazione di diversi geni,

mostrando che non necessariamente a deficit nutrizionale di folati, corrisponde

ipometilazione del DNA.

Studi su modelli umani hanno dimostrato inoltre che la supplementazione materna

di acido folico prima e durante la gravidanza è associata ad una riduzione della metilazione

della DMR del gene H19. (Hoyo et al., 2011).

Altri studi riportano che un ridotto apporto calorico in utero possa determinare nel

feto sia ipometilazioni, che ipermetilazioni di specifici loci genomici (Waterland et al.,

2010) (Tobi et al., 2009).

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49

Abbiamo precedentemente visto come la dieta possa influire indirettamente

sull’attività delle DNMT, andando ad aumentare la concentrazione di SAM. Esistono

inoltre alcuni nutrienti che possono agire come cofattori delle DNMT e quindi

determinarne una modulazione tramite meccanismo diretto. Ne sono di esempio

l'epigallocatechina gallato (o EGCG), un polifenolo che tipicamente si trova nel tè verde, e

la genisteina, isoflavone rinvenuto in fave, soia e caffè, che funzionano come inibitori

diretti delle DNMT (Fang, Chen, & Yang, 2007).

Fig. 7 – Ciclo della metionina (Jimenez-Chillaron et al., 2012)

L’attività degli enzimi che regolano il ciclo della metionina (fig. 7) può essere

modulata da cofattori rappresentati da alcuni nutrienti, soprattutto vitamine, in particolare

le vitamina B6 e B12, rispettivamente cofattori degli enzimi serin-idrossimetil-transferasi

(SHMT) e 5-metiltetraidrofolato-omocisteina-metiltransferasi (MTR). Queste vitamine,

aumentando la concentrazioni di SAM, vanno ad aumentare l’entità dei processi di

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metilazione del DNA (Feil & Fraga, 2011): prova indiretta dell’efficacia di questo

meccanismo è l’osservazione degli effetti indotti dall’eccessivo consumo di etanolo, che

determina una riduzione della disponibilità di vitamine B6 e B12 ed una conseguente

riduzione della metilazione del DNA (Ballard, Sun, & Ko, 2012).

Esistono inoltre diverse evidenze sugli effetti dell’alimentazione sulle

modificazioni istoniche (Tsukada et al., 2006) (Sealy & Chalkley, 1978) (Drummond et al.,

2005) (Delage & Dashwood, 2008) (Nian, Delage, Ho, & Dashwood, 2009), anche se non

sempre concordanti in maniera univoca, a dimostrazione di come la nutrizione sia un

fattore fondamentale nella regolazione dell’espressione genica.

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51

CAPITOLO 2. Obbiettivi

Gli obbiettivi della nostra ricerca sono stati:

Valutazione delle differenze di metilazione delle imprinting control region

(ICR) IC1 e IC2 a livello del cromosoma 11p15 fra neonati a termine e neonati

pretermine, di età gestazionale compresa fra 27 e 34 settimane;

Valutazione delle differenze di metilazione di IC1 e IC2 dal primo prelievo su

sangue periferico, eseguito entro la prima settimana di vita, al secondo, al

momento della dimissione;

Valutazione della correlazione tra livelli di metilazione di IC1 e IC2 e

accrescimento postnatale del gruppo di neonati pretermine;

Valutazione dell’impatto di vari fattori ambientali, prenatali e postnatali, sulle

modificazioni della metilazione di IC1 e IC2;

Valutazione del ruolo della nutrizione nei cambiamenti della metilazione.

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CAPITOLO 3. Pazienti e metodi

3.1.1 Popolazione di pazienti, valutazione clinica e analisi molecolare

Per la selezione dei soggetti, sono stati presi in considerazione pazienti nati (o

trasferiti subito dopo la nascita) nella U.O. Neonatologia dell’Azienda Ospedaliero-

Universitaria Pisana tra aprile 2014 e luglio 2015.

Abbiamo distinto la popolazione in due gruppi: un gruppo di neonati a termine (tra

37 e 42 settimane di età gestazionale), ricoverati presso il nido, e uno di neonati

pretermine, ricoverati presso i reparti di terapia intensiva o subintensiva neonatale.

I criteri di esclusione dei neonati per il gruppo dei pretermine sono stati :

- età gestazionale >34 settimane

- età postmestruale compresa tra 36-42 settimane

Il numero complessivo dei campioni è stato quindi di 28 neonati, di cui 8 a termine

e 20 pretermine. Il gruppo dei soggetti a termine è stato costituito da 8 neonati, 2 di sesso

maschile e 6 di sesso femminile, con un’età gestazionale compresa tra 37 e 41 settimane

(39 ± 2) e peso alla nascita compreso tra 2558 e 3958 grammi (3304,1 ± 491,2). Il gruppo

dei soggetti pretermine è stato costituito, invece, da 20 neonati, 7 di sesso maschile e 13 di

sesso femminile, con un’età gestazionale compresa tra 27 e 34 settimane (30 ± 2) e peso

alla nascita compreso tra 840 e 2466 grammi (1364,9 ± 424,4).

Nella popolazione in esame abbiamo valutato soprattutto

- Fattori prenatali, che interessano tutto ciò avvenuto prima del parto ed in

particolare nel periodo compreso entro i 12 mesi precedenti l’ultima mestruazione;

questi dati sono stati raccolti tramite la somministrazione di un questionario alle

madri dei soggetti durante il periodo di ricovero

- Fattori perinatali, che riguardano principalmente caratteristiche del neonato (età

gestazionale, gemellarità), fattori auxologici e fattori nutrizionali direttamente

ricavati dalle cartelle cliniche di reparto

- Fattori molecolari, che riguardano le modificazioni dei pattern di metilazione

presenti sulle imprinting control region IC1 e IC2 sul cromosoma 11p15, che sono

stati valutati tramite l’analisi molecolare del DNA dei soggetti ottenuto tramite

prelievo venoso di sangue periferico.

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Valutazione dei fattori prenatali

La valutazione è avvenuta tramite un questionario proposto alle madri di alcuni neonati

del gruppo dei pretermine, in particolare quelli che avevano effettuato un secondo prelievo

di sangue alla dimissione, allo scopo di valutare le influenze di fattori pre e

periconcezionali sulle possibili modificazioni della metilazione. In particolare sono state

richieste informazioni circa:

- l’atteggiamento psicologico della madre nei confronti della gravidanza: gravidanza

desiderata o meno, ricercata o evitata

- il ricorso a trattamenti di procreazione medicalmente assistita (FIVET, IUI, GIFT,

ICSI) e/o farmaci a base di ormoni per stimolare l’ovulazione

- l’utilizzo di supplementazione vitaminica con integratori a base di acido folico:

specificandone la data di inizio in rapporto alla data dell’ultima mestruazione

(considerando come fattore di rischio tutte le assunzioni iniziate non prima di un

mese dalla data dell’ultima mestruazione) e la frequenza settimanale (considerando

come fattore di rischio tutte le assunzioni al di sotto delle sei volte s settimana)

- il peso e rispettivo BMI valutati in tre tempi: poco prima di rimanere incinta, alla

prima visita ostetrica, alla fine della gravidanza

- la presenza di malattie in trattamento o di terapie in corso nel primo trimestre di

gravidanza

- infezioni virali quali rosolia e varicella, eventualmente contratte, e/o le relative

specifiche vaccinazioni

- la presenza di alterazioni persistenti della funzione tiroidea

- le abitudini di vita tenute durante i 12 mesi precedenti l’ultima mestruazione e

durante i mesi della gravidanza (attività lavorativa, attività sportiva, esposizione a

sostanze chimiche, fumo di sigarette, consumo di caffè e di alcolici, utilizzo di sale

iodato, assunzione di frutta e verdura, dieta vegetariana, modificazioni nella dieta,

numero di pasti al giorno, utilizzo di integratori vitaminici, valutazione

laboratoristica della funzione tiroidea)

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Valutazione dei fattori postnatali

Sono state tenute in considerazione:

- il tipo di gravidanza: singola o multipla;

- la presenza di patologie materne gravidiche: distacco di placenta, preeclampsia e

eclampsia, PROM, diabete gestazionale;

- l’età gestazionale;

- il tipo di parto: spontaneo o cesareo;

- la nascita SGA, considerando come SGA i neonati con peso alla nascita < 10°

percentile per età gestazionale utilizzando come riferimento le carte antropometriche dello

studio italiano pubblicato nel 2010 (Bertino et al., 2010a);

- la presenza di ritardo di crescita intrauterino (IUGR);

- il peso minimo raggiunto e il tempo impiegato (espresso in giorni di vita) a

recuperare il peso alla nascita;

- l’assunzione prenatale di farmaci, in particolare steroidei, da parte della madre;

- la durata del periodo di degenza.

Valutazione auxologica

Sono stati valutati i tre parametri auxologici (peso, lunghezza e circonferenza

cranica), misurati almeno tre volte (alla nascita, a 36 settimana, alla dimissione),

rispettivamente tramite bilancia elettronica, infantometro e metro da sarto. Nel caso dei

neonati a termine, visti i brevi tempi di degenza, sono stati valutati unicamente i parametri

alla nascita.

La valutazione dell’accrescimento è stata fatta basandosi sulle carte

antropometriche di Bertino (Bertino et al., 2010a) e sulla base dei dati raccolti sono state

costruite delle curve di crescita.

La restrizione di crescita extrauterina è stata valutata per tutti e tre i parametri

auxologici, sia in modo statico che dinamico. Abbiamo definito EUGR <10 come il

riscontro di valori ≤ 10° centile rispetto alla crescita intrauterina attesa per ciascuno dei tre

parametri

Per ciascuno dei tre parametri è stato valutato l’andamento dello z score durante la

degenza; lo z score indica di quante deviazioni standard è sopra o sotto la media quel dato

parametro, rispetto a neonati della stessa età gestazionale. In questo caso abbiamo definito

come EUGR <10 il riscontro di uno z score < 1 DS. Anche il calcolo dello z score è stato

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effettuato sia alla nascita che alla dimissione e si è basato sui valori delle carte

antropometriche di Bertino (Bertino et al., 2010a).

Valutazione nutrizionale

Sono stati presi in considerazione in particolare:

- il numero di giorni di nutrizione parenterale;

- il numero di giorni di nutrizione enterale e la durata di una sua eventuale

sospensione (a causa di patologie neonatali, come una sepsi, o un’intolleranza

gastrointestinale grave);

- il tempo impiegato per raggiungere una alimentazione enterale totale; è infatti

generalmente presente una discrepanza (di durata variabile), tra il termine della nutrizione

parenterale e il raggiungimento della nutrizione enterale totale: in questo periodo il neonato

riceve oltre al latte anche soluzione glucosata o altre infusioni che lo aiutino a sostenere le

sue necessità di accrescimento, fin quando la quota di nutrizione enterale da esso ricevuta

non sia in grado da sola di soddisfarle;

- Il tipo di allattamento:

1. materno,

2. di banca, ovvero latte umano donato,

3. formulato, ovvero una formula per pretermine,

4. misto, ovvero sia latte umano (materno o donato) che formulato;

Gli apporti nutrizionali sono stati esaminati sia in termini quantitativi che in termini

qualitativi, considerando sia la nutrizione parenterale che quella enterale.

L’alimentazione parenterale è stata valutata quotidianamente per tutta la sua durata

fino a che non è stata raggiunta l’alimentazione enterale totale, considerandone la dose

limite totale (espressa in ml/kg), il quantitativo di ciascun macronutriente (espresso in g,

mg o meq), l’intake calorico totale, quello proteico e quello non proteico (considerando la

% di glucosio e lipidi). Inoltre le eventuali infusioni extra ricevute dai neonati (ad es.

soluzione glucosata, NaCl o emoderivati) sono state calcolate nel totale dei liquidi ricevuti

giornalmente.

L’alimentazione enterale è stata valutata per tutta la durata di quella parenterale,

fino ad un mese, indicandone la quantità (espressa in ml /kg/die), le calorie, e il tipo di latte

ricevuto di cui abbiamo specificato le quantità di ciascun macronutriente.

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Quindi è stato calcolato il quantitativo totale di liquidi, il quantitativo totale dei

macronutrienti e le calorie totali, sommando l’apporto parenterale, extra ed enterale.

Inoltre abbiamo esaminato anche gli apporti nutrizionali ricevuti in un periodo target di

tempo, focalizzando l’attenzione sulla prima settimana di vita: calcolando per ciascun

parametro nutrizionale l’apporto medio ricevuto dei primi 7 giorni di vita.

Valutazione molecolare

Tutti i neonati sono stati sottoposti ad un prelievo di sangue venoso periferico al

settimo giorno di vita; in più, dieci soggetti del gruppo dei neonati pretermine hanno poi

effettuato un secondo prelievo al momento della dimissione. Il sangue intero, raccolto in

provette con acido etilendiamminotetraacetico (EDTA), è stato poi conservato in

frigorifero a 6° C.

Il materiale raccolto è stato poi oggetto di uno studio molecolare presso la UO

Laboratorio di Genetica Medica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana.

L’estrazione del DNA è stata effettuata con estrattore QIAsymphony (Qiagen,

Hilden, Germany); dopodiché la metodica utilizzata per saggiare le metilazioni è stata

quella Methylation-specific multiplex ligation-dependent probe amplification (MS-MLPA)

(Nygren et al., 2005) con kit SALSA MLPA ME030-c3 (MRC-Holland, Amsterdam, The

Nederland’s). La metodica ha consentito di valutare i livelli di metilazione delle ICR IC1 e

IC2 a livello del cromosoma 11p15. Come valori di riferimento circa i normali livelli di

metilazione presenti su questi clusters abbiamo deciso, al pari di altri autori (Cordeiro et

al., 2014), di prendere come riferimento i dati pubblicati in un lavoro precedente (Priolo et

al., 2008):

- per IC1, un valore medio di 0,50 (range 0,46-0,55)

- per IC2, un valore medio di 0,52 (range 0,47-0,58)

3.1.2 Analisi statistica

Il software utilizzato per l’elaborazione dei dati è STATA 12 (Stata Corporation,

TX, USA).

I dati sono indicati come media ± 2SE (standard error) ovvero CI (confidence

interval) con copertura nominale del 95%. Per il confronto tra gruppi abbiamo utilizzato il

test di Wilcoxon-Mann-Whitney, dato che i normali test asintotici (test t student) sono meno

affidabili quando la numerosita’ del campione e’ bassa e le assunzioni alla base del test

non sono plausibili e soprattutto non verificabili (distribuzione non normale della variabile

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di risposta). Fra coppie di variabili quantitative e’ stato calcolato il coefficiente di

correlazione lineare (r) e la relativa significativita’

Per ciascuna correlazione è stata valutata la significatività statistica per p<0.05.

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CAPITOLO 4. Risultati

Dati epidemiologici

Sono stati presi in considerazione neonati nati presso la U.O. Neonatologia di Pisa in un

periodo di tempo compreso fra Aprile 2014 e Luglio 2015 (tab. 17)

Sesso Neonati a termine Neonati pretermine

n % n %

Maschio 2 25 7 35

Femmina 6 75 13 65

Totale 8 100 20 100

Tab. 17 - Tabella della distribuzione per sesso

Sono di seguito presentati i risultati dell’analisi molecolare nei vari gruppi:

IC1 (H19DMR) IC2 (KvDMR1)

vn 0,50 (0,46-0,55) vn 0,52 (0,47-0,58)

Maschi 0,49 0,44

0,50 0,48

Femmine

0,50 0,50

0,48 0,50

0,41 0,53

0,46 0,44

0,46 0,47

0,48 0,50

Media (range) 0,48 (0,41-0,50) 0,50 (0,44-0,53)

Tab. 18 – Risultati metilazioni IC1 e IC2 nel gruppo dei neonati a termine (prelievo in 7°

giornata)

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Tab. 19 - Risultati metilazioni IC1 e IC2 nel gruppo dei neonati pretermine (prelievo in 7°

giornata)

Come si può vedere dalle tab.18 e 19 i valori della metilazione del gruppo dei

neonati pretermine presentano medie di metilazione lievemente inferiori, sia per IC1 che

IC2, rispetto al gruppo dei neonati a termine.

IC1 (H19DMR) IC2 (KvDMR1)

vn 0,50 (0,46-0,55) vn 0,52 (0,47-0,58)

Maschi

0,41 0,47

0,42 0,41

0,41 0,36

0,44 0,37

0,51 0,49

0,57 0,59

Femmine

0,50 0,47

0,55 0,49

0,47 0,54

0,44 0,55

Media (range) 0,47 (0,41-0,57) 0,47 (0,36-0,59)

Tab. 20 – Risultati metilazioni IC1 e IC2 nel gruppo dei neonati pretermine con secondo

prelievo (prelievo alla dimissione)

IC1 (H19DMR) IC2 (KvDMR1)

vn 0,50 (0,46-0,55) vn 0,52 (0,47-0,58)

Maschi

0,49 0,49

0,47 0,52

0,48 0,59

0,46 0,48

0,42 0,51

0,46 0,47

0,47 0,53

Femmine

0,49 0,48

0,44 0,45

0,43 0,49

0,48 0,55

0,45 0,52

0,46 0,45

0,50 0,48

0,44 0,52

0,46 0,50

0,36 0,39

0,30 0,32

0,47 0,49

0,50 0,49

Media (range) 0,45 (0,30-0,50) 0,48 (0,32-0,59)

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IC1 (H19DMR)

prelievo 7’giornata

IC1 (H19DMR)

prelievo dimissione

vn 0,50 (0,46-0,55) vn 0,52 (0,47-0,58)

Maschi

0,46 0,42

0,42 0,41

0,46 0,44

0,48 0,41

0,47 0,57

0,43 0,51

Femmine

0,48 0,50

0,45 0,55

0,49 0,47

0,44 0,44

Media (range) 0,46 (0,42-0,49) 0,47 (0,41-0,57)

Tab. 21 – Risultati metilazioni IC1

Fig. 8 – Modificazioni della metilazione di IC1 tra il primo e il secondo prelievo

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IC2 (KvDMR1)

prelievo 7’giornata

IC2 (KvDMR1)

prelievo dimissione

vn 0,50 (0,46-0,55) vn 0,52 (0,47-0,58)

Maschi

0,48 0,41

0,51 0,36

0,47 0,37

0,59 0,47

0,53 0,59

0,49 0,49

Femmine

0,55 0,47

0,52 0,49

0,48 0,54

0,45 0,55

Media (range) 0,51 (0,45-0,59) 0,47 (0,36-0,59)

Tab. 22 – Risultati metilazioni IC2

Fig. 9 - Modificazioni della metilazione di IC2 tra il primo e il secondo prelievo

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Osservando le tab. 21 e 22 e le fig. 8 e 9 risulta interessante notare fin da subito

l’aspetto dinamico della metilazione; nonostante il periodo di tempo relativamente breve,

considerando che i tempi di degenza dei bambini con secondo prelievo sono compresi tra

un minimo di 47 e un massimo di 101 giorni, si può effettivamente vedere come sia

variabile il pattern di metilazione di entrambi le ICR tra il primo ed il secondo prelievo.

In effetti solo in un caso per IC1 e in un caso per IC2 si è assistito al mantenimento

del pattern di metilazione iniziale.

Comparando i risultati molecolari inerenti a IC1 e IC2 con i dati in nostro possesso

circa parametri auxologici, fattori nutrizionali e prenatali è stato possibile scoprire

correlazioni interessanti.

Correlazione fra metilazione del DNA e fattori clinici, auxologici, nutrizionali,

prenatali e neonatali per IC1 al prelievo in 7° giornata

Per quanto riguarda i valori di metilazione trovati al primo prelievo, svolto in 7°

giornata, esistono correlazioni scarsamente significative riguardo ai dati auxologici: l’unica

relazione con significatività prossima al limite di p<0,05 è quella negativa con lo z-score

per la circonferenza cranica alla dimissione (Coef -0,02 [95% CI -0,04 – 0,00] *p=0,072).

Sono emerse inoltre differenze statisticamente significative nelle metilazioni tra

gemelli e non gemelli: il gruppo dei gemelli presenta livelli di metilazione IC1 al primo

prelievo inferiori rispetto ai non gemelli (gemelli 0,43 ± 0,01 vs non gemelli 0,48 ± 0,01,

*p=0,004).

Si segnala inoltre tra i fattori prenatali la significatività per assunzione da parte

della madre di integratori vitaminici contenenti acido folico nel periodo periconcezionale

(mancata assunzione acido folico 0,49 ± 0,00 vs assunzione acido folico 0,46 ± 0,01,

*p=0,04).

Correlazione fra metilazione del DNA e fattori clinici, auxologici, nutrizionali,

prenatali e neonatali per IC2 al prelievo in 7° giornata

Dalla valutazione di questi fattori non sono emerse correlazioni statisticamente

significative tra metilazione e dati auxologici o nutrizionali.

Correlazione fra metilazione del DNA e fattori clinici, auxologici, nutrizionali,

prenatali e neonatali per IC1 al prelievo alla dimissione

Valutando i fattori auxologici sono state rilevate numerose evidenze. Tramite

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regressione lineare è stata rilevata una correlazione negativa tra metilazione e diversi

parametri:

- z score del peso alla nascita (Coef -0,03 [95% CI -0,06 – -0,01] *p=0,02)

- z score alla dimissione per peso (Coef -0,03 [95% CI -0,06 – -0,01]

*p=0,02) (fig. 10)

- z score alla dimissione per lunghezza (Coef -0,02 [95% CI -0,04 – -0,00]

*p=0,04) (fig. 11)

- z score alla dimissione per circonferenza cranica (Coef -0,04 [95% CI -0,06

– -0,01] *p=0,00) (fig. 12).

Fig. 10 - Correlazione lineare tra z score per il peso alla dimissione e il valore di

metilazione IC1 alla dimissione

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Fig. 11 - Correlazione lineare tra z score per la lunghezza alla dimissione e il valore

di metilazione IC1 alla dimissione

Fig. 12 - Correlazione lineare tra z score per la circonferenza cranica alla

dimissione e il valore di metilazione IC1 alla dimissione

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Questa relazione inversamente proporzionale tra parametri auxologici e metilazione

IC1 al secondo prelievo si evidenzia anche dal confronto delle medie di metilazione tra

neonati EUGR/non EUGR <10° percentile per peso e circonferenza cranica:

- neonati EUGR con peso <10° percentile mostrano media di

metilazione IC1 superiore ai neonati non EUGR per lo stesso

parametro (EUGR 0,53 ± 0,02 vs non EUGR 0,43 ± 0,01, *p=0,01)

- neonati EUGR con circonferenza cranica <10° percentile mostrano

media di metilazione IC1 superiore ai neonati non EUGR per lo

stesso parametro (EUGR 0,53 ± 0,02 vs non EUGR 0,43 ± 0,01,

*p=0,03).

Si riporta inoltre una correlazione negativa tra metilazione IC1 al secondo prelievo

ed il tempo (in giorni) necessario per recuperare il peso alla nascita (Coef -0,01 [95% CI -

0,02 – -0,00] *p=0,02).

Analizzando i fattori nutrizionali è invece emersa una correlazione negativa tra

metilazione IC1 al secondo prelievo e l’apporto totale (parenterale ed enterale) di proteine

(Coef -0,13 [95% CI -0,22 – -0,04] *p=0,01) (fig. 13).

Fig. 13 - Correlazione lineare tra apporto totale di proteine e il valore di

metilazione IC1 alla dimissione

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Relativamente ai fattori prenatali, si riporta una correlazione negativa

statisticamente significativa con il peso della madre, valutato in tre tempi: prima della

gravidanza (Coef -0,00 [95% CI -0,01 – 0,00] *p=0,00), alla prima visita ostetrica (Coef -

0,01 [95% CI -0,00 – 0,00] *p=0,01) ed al termine della gravidanza (Coef -0,00 [95% CI -

0,01 – 0,00] *p=0,02).

Attraverso il test di Wilcoxon sono emerse differenze di metilazione per le seguenti

variabili:

- inizio della supplementazione con acido folico rispetto all’ultima

mestruazione: i neonati di madri che avevano iniziato supplementazione con

acido folico più tardivamente (a meno di un mese prima dell’ultima

mestruazione), mostrano una media di metilazione IC1 al secondo prelievo

superiore rispetto ai neonati di madri con supplementazione più precoce

(almeno 6 mesi prima dell’ultima mestruazione) (acido folico oltre un mese

dall’ultima mestruazione 0,50 ± 0,02 vs acido folico per almeno 6 mesi

prima 0,43 ± 0,01, *p=0,03)

- dieta vegetariana: madri che praticavano dieta vegetariana anche nei 12

mesi precedenti e durante la gravidanza, mostrano livelli di metilazione IC1

al secondo prelievo superiori nei confronti di quelle con dieta normale (dieta

vegetariana 0,53 ± 0,02 vs dieta normale 0,43 ± 0,01, *p=0,01)

Correlazione fra metilazione del DNA e fattori clinici, auxologici, nutrizionali,

prenatali e neonatali per IC2 al prelievo in dimissione

Nella valutazione dei parametri auxologici neonatali si può osservare una

correlazione negativa, statisticamente significativa, tra livello di metilazione IC2 alla

dimissione e:

- z score del peso a 36 settimane (Coef -0,46 [95% CI -0,85 – -0,00]

*p=0,02)

- z score circonferenza cranica alla dimissione (Coef -0,05 [95% CI -0,09 – -

0,01] *p=0,03) (fig. 14)

- circonferenza cranica alla dimissione (Coef -0,019 [95% CI -0,03 – -0,01]

*p=0,03)

Anche la valutazione con test di Wilcoxon ha messo in evidenza una correlazione

negativa fra circonferenza cranica e metilazione IC2 al secondo prelievo, mostrando

differente media di metilazione tra neonati EUGR <10° percentile per circonferenza

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cranica e neonati non EUGR per tale parametro (EUGR 0,54 ± 0,03 vs non EUGR 0,44 ±

0,02, *p=0,06).

Fig. 14 - Correlazione lineare tra z score per la circonferenza cranica alla

dimissione e il valore di metilazione IC2 alla dimissione

Tra i fattori prenatali che mostrano significatività statistica con correlazione

negativa, abbiamo il peso materno a fine gravidanza (Coef -0,01 [95% CI -0,01 – -0,00]

*p=0,00) ed il corrispettivo BMI (Coef -0,02 [95% CI -0,03 – -0,00] *p=0,01), il numero

di sigarette nei 12 mesi precedenti l’ultima mestruazione (Coef -0,07 [95% CI -0,01 – -

0,03] *p=0,00), il numero di pasti materni al giorno nei 12 mesi precedenti la gravidanza

(Coef -0,11 [95% CI -0,23 – -0,00] *p=0,51) ed il numero di tazzine di caffè consumate

quotidianamente dalla madre durante la gravidanza (Coef -0,08 [95% CI -0,14 – -0,02]

*p=0,01).

Sempre tra i fattori prenatali, l’analisi dei dati tramite test di Wilcoxon ha messo in

evidenza una differenza di metilazione IC2 al secondo prelievo tra neonati di madre con

diabete gestazionale e neonati di madri sane (madri con diabete gestazionale 0,56 ± 0,01 vs

madri sane 0,44 ± 0,03, *p=0,01); il primo gruppo mostra una media di metilazione

superiore al secondo

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CAPITOLO 5. Discussione

I meccanismi che sottendono lo sviluppo e la crescita neonatale sono ancora in

larga parte sconosciuti; le teorie del “thrifty fenotype” e del “fetal programming”

suggeriscono che fattori prenatali di varia natura svolgano un ruolo decisivo nel definire il

futuro del neonato. Studi successivi nel campo dell’epigenetica hanno inoltre cercato di

correlare le osservazioni cliniche a pattern molecolari diversi per giustificarne le

modificazioni fenotipiche.

Nel nostro studio abbiamo cercato di correlare fattori di varia natura (neonatali,

prenatali, postnatali e nutrizionali) con modificazioni della metilazione di due “imprinting

control region” (ICR), IC1 e IC2, di geni implicati nei processi di crescita e sviluppo

(IGF2, H19, KCNQ10T1, KCNQ1, CDKN1C, PHLDA2), valutate in gruppi di neonati a

termine e pretermine di età gestazionale inferiore a 34 settimane.

Dall’analisi statistica di tutti i parametri presi in considerazione, alcuni tra questi

offrono interessanti spunti di discussione, in particolare alcuni dati auxologici e

nutrizionali.

Tra i fattori auxologici analizzati quello che ha il maggior numero di correlazioni è

rappresentato dalla misura della circonferenza cranica. La restrizione di crescita della

circonferenza cranica alla dimissione rappresenta un evento frequente nel neonato

pretermine, in particolar modo in quello very low birth weight (VLBW). La misura della

circonferenza cranica correla, inoltre, con il volume del cervello e di conseguenza, come

ampiamente dimostrato dalla letteratura, con un peggiore outcome neurocognitivo a

distanza (Neubauer, Griesmaier, Pehbock-Walser, Pupp-Peglow, & Kiechl-Kohlendorfer,

2013).

Nel nostro studio abbiamo riscontrato una costante correlazione negativa tra la

circonferenza cranica (intesa come z score) e la metilazione delle ICR, IC1 e IC2, sia alla

nascita, che alla dimissione dei neonati. Particolarmente significative sono risultate le

seguenti correlazioni:

- metilazione IC1 (dimissione) e z score cc (dimissione)

- metilazione IC2 (dimissione) e z score cc (dimissione)

L’associazione inversamente proporzionale tra circonferenza cranica e metilazione

della regione IC1 era già stata descritta in letteratura in un precedente studio (Huang et al.,

2012), anche se con metodiche e su una popolazione differente: la relazione era emersa dal

confronto di valori di metilazione presenti al diciassettesimo anno di età, con i valori di

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circonferenza cranica precedentemente misurati sugli stessi soggetti ad un’età compresa tra

1 e 10 anni. Risultati analoghi sono stati riscontati anche in altri lavori su modelli umani

(Pidsley et al., 2010) e murini (Pidsley, Fernandes, et al., 2012), nei quali la metilazione

della regione IC1 era correlata in modo inversamente proporzionale al volume cerebrale.

Ulteriore conferma di questa relazione deriva dall’osservazione che i neonati

EUGR <10° percentile per circonferenza cranica, presentano, nel nostro studio, medie di

metilazione IC1 (0,53 ± 0,30 vs 0,45 ± 0,01, *p=0,0275) e IC2 (0,54 ± 0,03 vs 0,44 ± 0,02,

*p=0,0673) alla dimissione significativamente superiori rispetto ai neonati non EUGR.

Oltre alla circonferenza cranica sono emerse evidenze di ridotta crescita anche per

gli altri due parametri auxologici, peso e lunghezza. Per quanto riguarda il peso, è stata

riscontrata una correlazione negativa tra la metilazione della IC1 alla dimissione e lo z

score del peso alla dimissione, confermata dal reperimento di valori medi di metilazione

IC1 maggiori nei neonati EUGR <10° percentile per il peso (EUGR 0,53 ± 0,02 vs non

EUGR 0,43 ± 0,01, *p=0,04), e una relazione negativa tra metilazione IC2 al secondo

prelievo e z score del peso alla 36° settimana. Per la lunghezza, l’unica relazione

significativa è quella negativa tra metilazione della IC1 e lo z score per tale parametro alla

dimissione.

Studiando il meccanismo di regolazione dell’espressione genica a livello del

cromosoma 11p15, abbiamo cercato di costruire un modello che potesse spiegare i

cambiamenti della metilazione in rapporto alle modificazioni della crescita neonatale.

Possiamo riassumere lo schema (tab. 12), già analizzato nell’introduzione, dicendo

che dalle modificazioni della metilazione delle ICR, IC1 e IC2, derivano una differente

espressione dei geni IGF2, KCNQ1, CDKN1C e PHLDA2. In generale IGF2 è un gene

con un effetto positivo sulla crescita sia fisiologica che patologica (patologie metaboliche,

crescita neoplastica); al contrario, KCNQ1, CDKN1C e PHLDA2, hanno un effetto

negativo sullo sviluppo e vengono definiti per questo motivo “growth inhibitors”(Cordeiro

et al., 2014). Non abbiamo preso in considerazione i geni H19 e KCNQT10T1, trascritti

come lunghe sequenze di RNA senza essere poi tradotti in proteine, poiché la loro funzione

non è ancora ben stata chiarita. Dato che la metilazione della ICR determina un aumento

dell’espressione dei geni interessati, andando ad impedire il legame del DNA con la

proteina inibente la trascrizione CTCF, possiamo perciò affermare che:

- l’ipermetilazione della IC1, determinando un aumento dell’espressione

genica di IGF2, abbia un effetto positivo sulla crescita

- l’ipermetilazione della IC2, determinando un aumento dell’espressione

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genica di KCNQ1, CDKN1C e PHLDA2, abbia un effetto negativo sulla

crescita

- l’ipometilazione della IC1, determinando una ridotta espressione di IGF2,

abbia un effetto negativo sulla crescita

- l’ipometilazione della IC2, determinando una ridotta espressione di

KCNQ1, CDKN1C e PHLDA2, abbia un effetto positivo sulla crescita

L’evidenza che tali modificazioni siano associate in maniera compatibile a disordini

dello sviluppo (la sindrome di Beckwith-Weidmann e la sindrome di Silver-Russell) può

rappresentare una conferma dell’attendibilità di questo modello.

Sulla base di queste considerazioni, se il riscontro nel nostro studio di

ipermetilazione di IC1 associata a restrizione di crescita risulta poco compatibile con il

modello appena esposto, quello dell’ ipermetilazione di IC2 invece ben vi si accorda.

Nello specifico l’incremento della metilazione di IC2 sembra trovare correlazione

maggiore proprio nel parametro della circonferenza cranica. Sulla base di questo e di

evidenze che derivano dalla letteratura (Huang et al., 2012) potremmo considerare la

circonferenza cranica come un marker più sensibile del fetal programming sulla crescita

neonatale, rispetto al peso.

Per quanto concerne i fattori nutrizionali tra le correlazioni riscontrate, sicuramente

una delle più interessanti, anche per la sua significatività (p=0,01), riguarda quella negativa

tra metilazione IC1 alla dimissione e apporto nutrizionale proteico totale: è risultato che

una nutrizione neonatale con ridotto apporto proteico, determina ipermetilazione di IC1

rispetto ai valori iniziali. Benchè questo risultato possa apparire poco logico, in quanto gli

amminoacidi delle proteine rappresentano un importante substrato per la formazione di S-

adenosilcisteina (SAM) (Deminice et al., 2009), in letteratura esistono diversi studi con

risultati analoghi a quelli da noi riscontrati, anche se condotti su modelli murini (Lillycrop

et al., 2008) (Gong et al., 2010). In particolare lo studio di Gong e coll. (Gong et al., 2010)

ha messo in evidenza gli effetti ipermetilanti della restrizione proteica, in ratti femmine

gravide, proprio a livello della IC1.

Un’appropriata nutrizione proteica è un presupposto fondamentale per il corretto

sviluppo neonatale del pretermine, in particolare per la circonferenza cranica; è stato

inoltre osservato che una supplementazione proteica postnatale in neonati pretermine con

ridotto sviluppo può migliorarne l’outcome auxologico (C. Morgan et al., 2014). In effetti

abbiamo notato che, dei 10 neonati del nostro studio con doppio prelievo, i 4 andati

incontro a ipermetilazione IC1 al secondo prelievo sono poi quelli che hanno presentato

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ridotto accrescimento della circonferenza cranica (misurato come z score alla dimissione) e

che hanno ricevuto un apporto proteico totale inferiore rispetto agli altri. Dal nostro studio

sembra quindi emergere una correlazione diretta tra intake proteico, metilazione della

regione IC1 e sviluppo della circonferenza cranica, che viene supportata da evidenze della

letteratura. Tuttavia data l’esiguità del campione è necessario approfondire con un numero

maggiore di casi.

Un altro aspetto interessante da valutare sempre nei riguardi del ruolo del basso

apporto proteico sulla crescita, è quello delle modificazioni a lungo termine, quelle cioè

che si vengono a manifestare nel soggetto ormai adulto. Queste modificazioni epigenetiche

infatti sembrerebbero associate, oltre che allo sviluppo a breve termine di restrizione di

crescita, alla determinazione tardiva di alterazioni metaboliche importanti (obesità,

insulino-resistenza, diabete, malattia cardiovascolari etc.). Già lo studio di Heijmans e coll.

(Heijmans et al., 2008) aveva messo in evidenza l’impatto delle modificazioni epigenetiche

della IC1, conseguenti alla “starvation” materna, sul futuro metabolico dei neonati;

esistono però studi più recenti, condotti sui topi (Claycombe, Uthus, Roemmich, Johnson,

& Johnson, 2013), che dimostrano come ad un basso apporto proteico durante la

gravidanza corrispondono alterazioni della metilazione della IC1 con conseguente

riprogrammazione del setting metabolico dei nascituri. Anche nello studio di Huang e coll.

(Huang et al., 2012) era stata evidenziata nella popolazione dei soggetti studiati, ormai

cresciuti, una correlazione positiva tra metilazione IC1 e spessore della plica cutanea e

adiposità sottocutanea. Queste osservazioni non ci devono stupire se si accettano le teorie

di Barker (Barker et al., 1990) e Lucas (Lucas, 1991), che hanno messo in evidenza

l’importanza del ruolo del periodo embrio-fetale e neonatale nel setting metabolico

dell’individuo e nella genesi delle patologie croniche dell’adulto: condizioni di disagio

nutrizionale in questi fasi della vita determinano una riprogrammazione del metabolismo

del soggetto che viene quindi settato al risparmio.

Da queste osservazioni deriva la necessità di migliorare la nutrizione precoce dei

neonati per ottenerne due vantaggi, uno immediato, l’altro a lungo termine:

- correggere il deficit di crescita e migliorare l’outcome auxologico e

neurologico del neonato

- prevenire alterazioni del setting metabolico che aprono la strada alle

patologie croniche dell’adulto.

Interessante è stata anche la valutazione dei fattori prenatali, come il ruolo svolto

dalla supplementazione periconcezionale di acido folico nei cambiamenti della metilazione

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delle ICR. La supplementazione periconcezionale di acido folico (0,4 mg/die) è fortemente

raccomandata a tutte le donne che desiderino intraprendere una gravidanza, poiché è ormai

noto da anni il suo effetto preventino nei confronti di diverse malformazioni fetali (difetti

del tubo neurale, cardiopatie, labio/palatoschisi, difetti del tratto urinario, ipo-agenesie

degli arti, onfalocele, atresia anale etc.), che tuttavia si esplica in maniera efficace solo se

iniziata almeno un mese prima dell’ultima mestruazione. Le linee guida italiane

raccomandano, perciò, a tutte le donne che non escludono una futura gravidanza e che di

conseguenza non mettono in atto metodi anticoncezionali, di iniziare la supplementazione

almeno un mese prima del concepimento e di portarla avanti per almeno tutto il primo

trimestre. Nonostante le raccomandazioni siano forti, da un recente studio (De Santis et al.,

2013), emerge che solo il 43,4% delle donne italiane inizia la supplementazione prima del

riconoscimento dello stato di gravidanza. È importante ricordare che all’assunzione di

acido folico deve sempre essere associata una dieta equilibrata e ricca di frutta e verdura,

ma è anche vero che l’assunzione di frutta e verdura da sola non basta a fornire il

quantitativo necessario ai fini della supplementazione, dato che per raggiungere la dose di

0,4 mg/die ne sarebbero necessarie enormi quantità.

Dalle nostre valutazioni sembra emergere che, ad un ridotto apporto derivante da un

inizio tardivo della supplementazione (oltre un mese prima dall’ultima mestruazione), si

accompagna ad un’ipermetilazione del DNA riguardante IC1 ed IC2, sia ad una settimana

di vita, che alla dimissione. I risultati sembrano trovare conferma in alcuni lavori, presenti

in letteratura, condotti su modelli murini (Lillycrop et al., 2008) (Gong et al., 2010), ma

anche umani (Hoyo et al., 2011). Lo studio di Hoyo e coll. (Hoyo et al., 2011) in

particolare è andato a valutare la metilazione della IC1, ottenendo risultati sovrapponibili

con i nostri. Gli studi di Lillycrop (Lillycrop et al., 2008) e Gong e coll. (Gong et al.,

2010), invece, mettono soprattutto in evidenza l’effetto ipometilante dell’acido folico,

come fattore protettivo dall’ipermetilazione associata a riduzione dell’apporto proteico

durante la gravidanza. Queste considerazioni sembrano confermare il ruolo benefico e

protettivo di una accurata supplementazione periconcezionale di acido folico, anche nei

confronti dei disturbi della crescita.

Degna di nota è anche l’influenza della dieta vegetariana, che determinerebbe

un’ipermetilazione di IC1 alla dimissione. In realtà sarebbe logico attendersi una

ipometilazione del DNA nei soggetti vegetariani, dal momento che una dieta priva di carne

determina con maggiore facilità riduzione dell’introito di vitamina B12, con conseguente

alterazione del ciclo della metionina. Nello specifico si verifica un incremento dei livelli di

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omocisteina che accelerano a loro volta la generazione di S-adenosilomocisteina, potente

inibitore della S-adenosilcisteina (SAM) che è fondamentale per il processo di metilazione.

Tuttavia, non esistono ad oggi evidenze in letteratura che attestino cambiamenti nella

metilazione del DNA legati alla dieta vegetariana (Geisel et al., 2005). Dato che nel nostro

studio la dieta vegetariana è accompagnata ad un’ipermetilazione della IC1, sulla base dei

nostri risultati, possiamo avanzare l’ipotesi che si tratti di un fattore di rischio per la

restrizione di crescita, in particolare della circonferenza cranica. Non essendo state trovate,

nel nostro studio, correlazioni di alcun tipo tra apporto di frutta o verdura da parte della

madre in gravidanza e modificazioni della metilazione; sembra logico pensare allora che

l’effetto ipermetilante della dieta vegetariana non sia tanto dovuto ad un aumento di

substrati per il ciclo della metionina, bensì ad una riduzione dell’apporto di proteine, cha

sappiamo essere associato a ipermetilazione. Per quanto detto a proposito dell’acido folico,

possiamo allora riconfermare l’importanza della sua supplementazione durante gravidanza

e l’impossibilità di una sua completa sostituzione con frutta e verdura: le madri vegetariane

non supplementare, mostrerebbero infatti l’effetto ipermetilante conseguente sia al ridotto

apporto proteico, che alla relativa carenza di acido folico.

Sono poi stati riscontrati molti altri fattori prenatali che hanno mostrato una

correlazione con i cambiamenti della metilazione delle ICR (il numero di tazzine di caffè e

sigarette assunte dalla madre durante la gravidanza, il numero di pasti al giorno e il peso

materno), ma non riuscendo a trovarne conferma in letteratura, ci siamo limitati alla

semplice presentazione dei risultati.

Il periodo embrio-fetale e neonatale è decisivo nel setting metabolico dell’individuo

e nella genesi delle patologie croniche dell’adulto in quanto condizioni di disagio

nutrizionale in questi fasi della vita determinano una riprogrammazione del metabolismo

del soggetto che viene quindi settato al risparmio.

Il nostro studio è una ulteriore conferma del fatto che migliorare la nutrizione

precoce dei neonati consente non solo di correggere il deficit di crescita e migliorare

l’outcome auxologico e neurologico del neonato, ma anche prevenire alterazioni del setting

metabolico foriere di patologie croniche dell’adulto.

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CAPITOLO 6. Conclusioni

I meccanismi che sottendono lo sviluppo e la crescita neonatale sono ancora in

larga parte sconosciuti, ma le recenti acquisizioni nel campo dell’epigenetica sembrano

conferire loro un fondamento molecolare, correlando modificazioni ambientali occorse in

periodi critici, embrio-fetale e neonatale, a cambiamenti nel fenotipo dell’individuo.

Nel nostro studio abbiamo cercato di correlare fattori ambientali di varia natura

(prenatali, postnatali e nutrizionali) con modificazioni della metilazione di due “imprinting

control region” (ICR), IC1 e IC2, di geni implicati nei processi di crescita e sviluppo

(IGF2, H19, KCNQ10T1, KCNQ1, CDKN1C, PHLDA2), valutate in gruppi di neonati a

termine e pretermine di età gestazionale inferiore di 34 settimane. In modo particolare sono

stati oggetto del nostro studio le differenze di metilazione di queste due regioni in due

prelievi, uno in 7°giornata, l’altro alla dimissione, in un gruppo di dieci neonati.

Dall’analisi statistica effettuata di tutti i parametri presi in considerazione, in

particolare emergono correlazioni tra dati molecolari con quelli auxologici e nutrizionali.

È stata osservata una generale relazione inversamente proporzionale tra la

metilazione di entrambe le ICR e le misure dei tre parametri auxologici alla dimissione

(peso, lunghezza, circonferenza cranica).

Tra i fattori auxologici, quello che presenta il maggior numero di correlazioni

statisticamente significative è rappresentato dalla misura della circonferenza cranica alla

dimissione, la quale è risultata correlare negativamente con l’ipermetilazione sia di IC1 e

IC2, al pari di quanto descritto in studi precedenti (Huang et al., 2012).

E’ stata riscontrata inoltre una correlazione inversamente proporzionale tra la

metilazione di IC1 alla dimissione e l’apporto totale di proteine effettuato durante il primo

mese di ricovero. Di conseguenza i neonati con ridotto apporto proteico sono quelli che

hanno presentato ipermetilazione IC1 e che alla dimissioni hanno dimostrato avere

restrizione di crescita per la circonferenza cranica.

Il ruolo di un ridotto apporto proteico durante la gravidanza e la vita neonatale è

stato confermato da diversi studi, dai quali emerge anche un ruolo protettivo svolto dalla

supplementazione di acido folico, che riduce l’effetto ipermetilante della deprivazione

proteica (Lillycrop et al., 2008) (Gong et al., 2010). Questo aspetto, risulta confermato nel

nostro studio, in quanto le madri che avevano effettuato durante la gravidanza una

supplementazione vitaminica con folati per periodi di tempo inferiori, sono quelle in cui

sono state riscontrate medie di metilazione delle ICR più basse.

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Inoltre è risultata significativa l’evidenza che la dieta vegetariana sia associata ad

una ipermetilazione della IC1, di conseguenza possiamo ipotizzare che possa rappresentare

un fattore di rischio per la restrizione di crescita, in particolare della circonferenza cranica.

In conclusione sono risultate diverse correlazioni che possano dimostrare un ruolo

attivo dell’ambiente nella determinazione dell’espressione genica tramite meccanismi di

natura epigenetica, nella fattispecie la metilazione delle ICR sul cromosoma 11p15.

Per quanto riguarda il corretto sviluppo della circonferenza cranica sembra

emergere, al pari di altri lavori presenti in letteratura (C. Morgan et al., 2014), l’importanza

di un adeguato apporto proteico e di un’efficace supplementazione con acido folico durante

il periodo periconcezionale.

Tuttavia, considerata l’esiguità del campione del nostro studio, riteniamo necessaria

una ulteriore valutazione su una popolazione decisamente più ampia di neonati.

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