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Appunti: CORSO DI GESTIONE

AZIENDALE A

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1. LE ORGANIZZAZIONI Si definisce organizzazione un insieme di individui che hanno uno scopo in comune e che, per il suo raggiungimento, decidono di intraprendere delle azioni condivise. I punti chiave della definizione sono questi:

ci sono due o più individui: l’organizzazione è un gruppo di individui, è un concetto esteso che va dai piccoli gruppi di lavoro alle multinazionali. È importante sottolineare come si stia parlando di persone e non di macchine. A differenza delle macchine, infatti, le persone:

- hanno obiettivi personali, che possono non coincidere con quelli dell’organizzazione (fatto di cui bisogna tenere conto durante la progettazione);

- provano sentimenti e hanno un pensiero proprio, che può essere diverso dagli altri (cose che possono generare conflitti).

ci sono obiettivi in comune: deve esserci un obiettivo comune per giustificare la nascita di un’organizzazione. Non meno importante, i membri devono trarre dei vantaggi dalla collaborazione, l’unione di intenti deve rendere più semplice il raggiungimento degli obiettivi: gli scopi possono essere perseguiti più in fretta o con maggior profitto se vengono unite le competenze che ognuno ha a disposizione.

si attuano azioni condivise: i soci condividono appunto competenze e conoscenze per una ragione comune.

Il termine “organizzazione”, più in generale, può avere due significati:

in primo luogo, si può intendere l’organizzazione come un’istituzione sociale. In questo caso, si può fare riferimento ad un insieme eterogeneo di istituzioni ed enti che hanno scopi, forme, caratteristiche e dimensioni variabili nel tempo, come per esempio la Chiesa e gli eserciti (storicamente, le organizzazioni “più antiche”), ma anche le associazioni professionali e i partiti politici.

in secondo luogo, si può intendere l’organizzazione come atto di organizzare. In questo senso, l’organizzazione consiste nel decidere:

- l’attribuzione dei compiti; - la suddivisione dei compiti; - come gestire il coordinamento tra attività e persone.

L’organizzazione, quindi, è sia un sapere (una disciplina, con teorie e metodologie di analisi) sia un saper fare (un know how,).

Le prime teorie organizzative di natura sistematica sull’organizzazione scientifica del lavoro (F. W. Taylor), invece, risalgono al XIX e XX secolo, quando nacquero le prime grandi organizzazioni industriali e amministrazioni pubbliche moderne.

1.1 Le principali prospettive di analisi Nella storia del pensiero organizzativo, i problemi centrali di specializzazione e coordinamento delle organizzazioni sono stati studiati da tre differenti prospettive:

prospettiva manageriale La prospettiva manageriale è quella che prende in considerazione il punto di vista degli imprenditori, dei dirigenti e dei manager di imprese e pubbliche amministrazioni, in poche parole di tutti i soggetti che si occupano della gestione delle organizzazioni e cercano di raggiungerne gli obiettivi (per le imprese, in genere l’obiettivo comune è la creazione di profitto). In questo caso, l’organizzazione viene vista come un sistema composto da parti o unità organizzative che interagiscono (con pesi diversi) nella creazione del profitto: questa analisi si occupa di individuare le modalità più opportune attraverso le quali l’impresa può essere in grado di generare utile.

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Questa prospettiva tende ad essere molto razionale, molto formale, in quanto si concentra sugli aspetti più tangibili dell’organizzazione:

- le strutture societarie; - le job descption, ossia la descrizione dei compiti; - la ripartizione dei compiti tra i soci; - i meccanismi di coordinamento.

prospettiva sociologica La prospettiva sociologica è quella che studia il sistema organizzativo non nel suo complesso ma concentrandosi sui singoli individui, analizzando l’insieme di relazioni e interazioni tra i diversi membri e come, attraverso questa rete di relazioni, avviene il perseguimento degli scopi. Più in particolare, si analizza:

- come il pensiero complesso delle persone può modificare e influenzare i risultati; - come i comportamenti portano al raggiungimento degli obiettivi; - quali motivazioni animano i membri; - quali sono i vincoli posti dall’organizzazione alle aspirazioni e alle azioni dei membri.

Come già detto, non si parte dai sistemi ma dagli individui: ci si concentra sui valori personali, sulla cultura, sulle competenze. Un modello organizzativo tra i più studiati usando questa prospettiva è senza ombra di dubbio quello dei distretti industriali.

prospettiva politica La prospettiva politica è quella prospettiva di analisi per mezzo della quale si cerca di capire come i grandi sistemi sociali (come il capitalismo e l’economia di mercato, il socialismo, …) e le tendenze della società moderna (come la globalizzazione) si servono di organizzazioni ben precise per regolare i rapporti sociali. In questo caso, l’organizzazione viene definita come un mezzo, uno strumento per generare consenso, esercitare il potere e distribuire le ricchezze. L’analisi si concentra sui meccanismi di potere e sui modi in cui questi meccanismi concorrono nella risoluzione e riduzione dei conflitti interpersonali.

Dal nostro punti di vista, sarà molto importante concentrarsi su una prospettiva di tipo manageriale. Questo particolare punto di vista implica:

un’attenzione alla progettazione organizzativa, cioè alla definizione degli aspetti formali, strutturali e sistemici dell’organizzazione;

un approccio contingente e normativo, ossia si vogliono individuare dei criteri che a seconda della situazione (aspetto contingente, dipende da variabili tecnologiche e settoriali, degli obiettivi, …) indichino al management l’aspetto organizzativo migliore e più efficace (aspetto normativo).

1.2 Le tre questioni organizzative Il tipo di prospettiva non è l’unico criterio di analisi delle organizzazioni. Un aspetto generale che riguarda il modo in cui si è sviluppato il pensiero organizzativo riguarda infatti tre tematiche centrali dell’organizzazione aziendale, che in qualche modo interessano tutte le prospettive di analisi utilizzate:

1. questione tecnologica o industriale La questione tecnologica studia il rapporto complesso tra l’organizzazione (e variabili come la specializzazione, il contenuto di lavoro individuale e le motivazioni) e la tecnologia, intesa come tutti quei mezzi e strumenti che possono essere utilizzati nell’attività di impresa. C’è infatti una forte interdipendenza tra il tipo di organizzazione che può essere progettata e le tecnologie che vengono utilizzate: si parla di rapporto bilaterale, può essere un aspetto a influenzare l’altro o viceversa. Consideriamo per esempio due situazioni diametralmente opposte: una fabbrica con una catena di montaggio, per la realizzazione di un prodotto in serie, e una fabbrica dove invece per via del livello di sofisticazione e attenzione al prodotto notevolmente maggiori un

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addetto svolge più compiti. In questi casi ci sono due tecnologie produttive completamente diverse: questi due processi, di conseguenza, non potranno mai e poi mai avere la stessa organizzazione. Infatti:

in un caso ci sono operazioni elementari e veloci, per le quali è quasi nulla la capacità decisionale del dipendente, e in genere si ha un alto livello di automatizzazione;

nell’altro, invece, c’è sicuramente una maggiore libertà decisionale del dipendente per via delle operazioni più complesse che devono essere svolte.

Il rapporto con la tecnologia è trasversale, perché può essere analizzato dalle tre prospettive prima presentate:

dal punto di vista manageriale, si studia come rendere compatibile il lavoro umano con la tecnologia, come sfruttare il loro rapporto per il vantaggio dell’organizzazione;

dal punto di vista sociologico, si studia come il rapporto tra uomo e tecnologia possa essere utilizzato per migliorare e facilitare le relazioni.

2. questione burocratica Quando si parla di burocrazia si intende l’insieme di norme e regole che cercano di orientare il comportamento di un individuo all’interno di una qualsiasi organizzazione (per esempio, vengono introdotti moduli standard per l’inserimento dei dati di clienti e fornitori, in cui si indicano che informazioni servono, ...). La burocrazia, in una qualsiasi organizzazione, è necessaria. Gli individui lasciati soli e liberi infatti cercano di massimizzare i loro obiettivi personali: se invece vengono definite norme e procedure si può incanalare il loro comportamento verso gli obiettivi dell’impresa. L’utilizzo della burocrazia è una questione centrale molto controversa: esistono infatti delle organizzazioni molto burocratiche e ricche di formalismi, ma anche altre che fanno un utilizzo più blando della regolamentazione. Questa differenza dipende dal fatto che spesso si ha un’accezione negativa della burocrazia, in quanto si pensa che ponga eccessive limitazioni e che allunghi i tempi, rendendo le operazioni più vincolate: troppe regole rendono molto più rigida l’organizzazione. La burocrazia si “blocca” quando accade qualcosa che non è previsto dai formalismi (cioè si verificano dei casi particolari). Per questo motivo, in un mercato fortemente globalizzato e in evoluzione bisogna trovare il giusto compromesso tra:

l’introduzione di regole che impediscono comportamenti divergenti; rendere troppo rigida l’impresa.

Come il rapporto con la tecnologia, anche il rapporto con la burocrazia è trasversale: dal punto di vista sociologico, si studia come cambiano i comportamenti degli

individui dopo l’introduzione delle norme; dal punto di vista politico, si studia come le norme possono essere utilizzate per

esercitare potere e controllo nell’organizzazione. 3. questione decisionale

Quando si parla di questione decisionale ci si riferisce all’analisi di come l’organizzazione influenza i processi decisionali o, al contrario, come i processi decisionali più adatti alla realtà d'impresa possono influenzare l’organizzazione: anche in questo caso, quindi, si parla di rapporto bilaterale. In particolare, si possono distinguere:

un’organizzazione gerarchica o verticale, se c’è un capo che controlla e gestisce, a cui è affidato il potere decisionale. In questa situazione, c’è sicuramente un forte accentramento delle decisioni, che a cascata vanno a impattare su tutti i livelli gerarchici inferiori. Questo modello decisionale è molto poco partecipativo, in quanto gli altri individui possono avere funzioni di raccolta di informazioni o supporto nelle scelte ma la parola finale spetta sempre al capo.

un’organizzazione non gerarchica, se per esempio c’è un team di manager che gestisce l’impresa. In questo caso si hanno meno livelli gerarchici e c’è una maggiore contribuzione nelle decisioni.

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Quando si affrontano queste tre tematiche, non è possibile prescindere dall’analizzare il rapporto tra decisioni e risorse: nessuna organizzazione, piccola o grande che sia, possiede risorse (monetarie, tecnologiche e umane) infinite, quindi qualsiasi decisione che viene presa deve essere rapportata alle disponibilità dell’impresa.

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2. LA PROGETTAZIONE DI UN’ORGANIZZAZIONE Il primo problema che si pone quando nasce un’organizzazione è, sicuramente, la divisione dei compiti: questo vale tanto per i piccoli gruppi di lavoro quanto per le multinazionali. La divisione dei compiti ha un ruolo fondamentale, in quanto permette una processazione delle operazioni più efficiente e più efficace. Infatti:

si ha una maggiore focalizzazione sui problemi analizzati; si ha una ripartizione in base alle competenze (che porta a maggiore efficacia); si ha un risparmio di tempo (che porta a maggior efficienza).

Sono di fondamentale importanza quindi:

la specializzazione del lavoro, una conseguenza logica della ripartizione dei compiti in quanto se ad ogni operatore sono affidate specifiche azioni si avrà una maggiore specializzazione dello stesso in quelle determinate attività;

il coordinamento del lavoro, una conseguenza della maggiore specializzazione, necessario per garantire un’adeguata comunicazione tra gli operatori in modo che non si perda l’efficacia acquisita.

Nella progettazione di un’organizzazione, bisogna quindi tenere conto di diversi fattori: come specializzare; come coordinare; come il contesto potrebbe influenzare l’organizzazione (generalmente, non c’è una sola

conformazione possibile, ma bisogna analizzare come la situazione va a influenzare le scelte di specializzazione e coordinamento).

2.1 L’organizzazione e la crescita Si può dire che sia specializzazione che coordinamento sono fenomeni che variano anche a seconda delle dimensioni dell’impresa: nelle istituzioni di grandi dimensioni, infatti, si affrontano problemi organizzativi di dimensioni maggiori e anche le soluzioni risultano essere più complesse, in quanto la crescita richiede maggiore specializzazione e introduce problemi di coordinamento. Organizzazione e crescita sono quindi due fenomeni collegati, in quanto:

la crescita pone l’organizzazione di fronte a problemi sempre nuovi; senza un’organizzazione efficiente crescere risulta essere impossibile.

Ma perché le imprese crescono? Esistono molti fattori che influenzano e stimolano la crescita delle imprese o al contrario la frenano, come per esempio:

la volontà di sfruttare le economie di scala; la volontà di sfruttare le economie di scopo, ossia di sfruttare le possibili sinergie tra

business diversificati (possibili nelle attività finanziarie, nel marketing, nella ricerca e sviluppo, …);

la necessità di accedere ai mercati finanziari e a forme di finanziamento più evolute; la possibilità di attrarre risorse umane più qualificate; l’ambizione personale, sia in termini di profitto che in termini di visibilità, di manager e

imprenditori; scelte dei dirigenti dell’impresa, che preferiscono mantenere ridotte le dimensioni per

sfruttare le maggiori agilità e flessibilità (spesso si preferisce creare delle reti collaborative di piccole imprese);

la paura degli imprenditori ad aprire l’accesso al capitale, che potrebbe portare alla perdita del controllo dell’impresa.

Nei prossimi esempi si mostrerà che la necessità di specializzazione è una conseguenza diretta della crescita dell’impresa in dimensioni e complessità. Il tipo di specializzazione però dipende dal tipo di diversificazione, che può essere di prodotto o di fase.

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Caso 2.1 – Panasonic: la crescita diversificata La Panasonic è un’azienda che nasce in un settore apparentemente ristretto, quello elettrico, e man mano nel tempo compie una diversificazione di mercato di prodotto, entrando in aree di business collegate (c’è un’applicazione delle economie di scopo), crescendo fino a diventare una delle più grandi imprese a livello mondiale grazie soprattutto alla forte capacità innovativa. Contestualmente, questa azienda è passata anche da un mercato prevalentemente nazionale a uno invece mondiale, in quanto c’è stato un ampliamento geografico del mercato di riferimento. Man mano che l’impresa è cresciuta c’è stata la necessità di creare diverse strutture che si occupassero da un lato dei diversi prodotti, dall’altro degli specifici mercati geografici. Questa realtà societaria, quindi, è stata caratterizzata da una doppia specializzazione:

di prodotto, dato che ogni unità cerca di ottimizzare la produzione di un prodotto; di mercato (dal punto di vista geografico), in quanto la creazione di sedi dislocate:

- consente di adattare il prodotto alle specificità locali (norme, lingua delle istruzioni, gusti, modi d’uso);

- si garantisce una maggiore vicinanza ai consumatori È molto importante, però, sottolineare come quella della Panasonic è stata una crescita orizzontale: l’impresa non ha “assorbito” le componenti della catena del valore, in quanto non si realizzano le componenti. Caso 2.2 – ENI: la crescita correlata (focalizzata) Quello di ENI è un esempio di impresa che si è concentrata prevalentemente sul core business, l’energia, cercando di sfruttare le economie di scala per conquistare posizioni competitive nel mercato globale. La società ha infatti sempre concentrato le sue attività in questo settore, eccezion fatta per una breve comparsa nel settore chimico, arrivando a coprire l’intera catena del valore a patire dalla cosiddetta exploration (la ricerca di nuove fonti) fino alla distribuzione. In questo caso, c’è stata una crescita verticale, piuttosto che orizzontale, contestualmente ad un’espansione geografica. La specializzazione in questo caso non si ha per il prodotto ma per le attività (sono necessarie competenze e tecnologie diverse per la distribuzione di benzina e l’estrazione di petrolio): le unità organizzative sono focalizzate sul tipo di operazioni, non sui prodotti.

2.2 La vita delle organizzazioni Le organizzazioni sono soggette ad un ciclo di vita: dopo una o più fasi di crescita, infatti, per la maggior parte di esse inizia una fase di declino che porta ad una contrazione dimensionale e successivamente o alla chiusura o all’incorporazione da parte di altre organizzazioni. Caso 2.3 – Bodin: la vita di un’impresa Il caso Bodin aiuta a capire come progressivamente, all’aumentare della complessità dell’impresa aumenta anche la complessità dell’organizzazione. Ecco ora un breve riassunto della vita di questa società, con una prima analisi della situazione:

la Bodin è un’impresa che nasce nel settore dei nastri di tessuto e che, per una brillante intuizione del titolare, passa alle etichette tessute (per abiti). Il giovane proprietario è in grado di legare l’intuizione di prodotto alle conoscenze tecnologiche a disposizione (il telaio in grado di realizzare facilmente il passaggio), che permettono all’azienda di “lanciarsi” nel mercato regionale. Inizialmente il nucleo è di tre persone:

- Bodin, il capo, che si occupa dello sviluppo del prodotto (cioè il design dell’etichetta e la progettazione dettagliata di come realizzarla sul telaio);

- due operaie, addette alla realizzazione dell’etichetta, al taglio e al confezionamento. Non c’è una particolare divisione del lavoro tra gli operai. La situazione iniziale, quindi, presenta queste caratteristiche:

- c’è una specializzazione tra il gestore (che si occupa di tecnologie, manutenzione e vendita) e i lavoranti, che hanno compiti diversi;

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- c’è assenza di specializzazione tra le lavoranti, che svolgono gli stessi compiti; - la cooperazione è basata prevalentemente sulla comunicazione informale ad hoc

(viene cioè effettuata in presenza di problemi e necessità) tra i vari attori. in poco tempo, il prodotto ha successo e il numero di ordini inizia ad aumentare: diventa

necessaria l’assunzione di nuovo personale. Visto l’aumento della forza lavoro, non è più possibile decidere i compiti la mattina stessa: Bodin dà quindi ad una lavorante un doppio ruolo, operativo e di supervisione del lavoro (si occupa della soluzione dei problemi, del coordinamento, ...). In questa seconda fase, quindi, si ha una specializzazione fra le lavoranti che non riguarda tanto una divisione orizzontale dei compiti quanto invece una specializzazione verticale di responsabilità tra i ruoli degli operanti: si crea un nuovo livello gerarchico. La specializzazione introduce, oltre al coordinamento informale, una nuova coordinamento delle attività: la supervisione diretta.

dopo un’ulteriore incremento di vendite, Bodin si vede costretto a delegare alcune attività come la costruzione dei cartoni che fungono da guida per la tessitura (ingegnerizzazione) a dei tecnici. Si ha quindi una maggiore specializzazione orizzontale, in quanto si distinguono ora due attività: ingegnerizzazione e produzione. Per la fase di ingegnerizzazione vengono assunti dei tecnici diplomati e quindi già formati, persone che possiedono competenze e pertanto necessitano di meno coordinamento: si passa ora ad ha un coordinamento per specializzazione delle competenze.

l’impresa cresce ancora, fino a quando il modello organizzativo non è più sostenibile anche a causa della nascita di nuovi competitors (che spingono Bodin a ridurre i costi, si avverte una pressione per una maggiore efficienza, riduzione dei costi). A fronte di un prodotto abbastanza standard, si ha una riorganizzazione della struttura che vede anche lo spostamento in un nuovo stabilimento. Vengono creati dei reparti produttivi: c’è una divisione delle fasi del processo di produzione e lavorazione tra diverse persone e, fisicamente, in spazi diversi della fabbrica. C’è quindi una forte specializzazione orizzontale del lavoro. Gli operai con maggiori anni di esperienza continuano ad essere polivalenti e possono spostarsi in funzione delle necessità (queste figure sono molto importanti, garantiscono una grande flessibilità dell’organizzazione): queste persone che giostrano tra più reparti hanno una visione più ampia, possono portare delle idee e innovazioni per migliorare l’attività di una fase in modo da favorire quella della successiva (hanno visione d’insieme del processo, che favorisce il miglioramento). Allo stesso tempo, si ha una maggiore attenzione alla formazione dei dipendenti: non si ha più una formazione di tipo training on the job come in passato, si usa una standardizzazione delle competenze (viene anche creato un manuale) come strumento di coordinamento. Bodin procede anche con una standardizzazione delle procedure, che vengono descritte nel dettaglio (burocrazia): in questo modo, si ha una maggiore efficienza e una maggiore diversificazione orizzontale. La parcellizzazione dei compiti (specializzazione) facilita anche la standardizzazione, una migliore descrizione delle singole attività elementari.

negli anni ‘80 viene introdotto un direttore commerciale che affianca Bodin nelle sue attività. Si passa, inoltre, da una situazione in cui c’era un supervisore generale che comandava i singoli capireparto (che ogni mattina si trovano e si dividono i compiti di produzione, con un livello di programmazione limitato) ad una maggiore programmazione della produzione (con definizione di target di produzione, ...). Il vantaggio di questo nuovo sistema è una maggiore autonomia del reparto rispetto agli altri: non ci si preoccupa del coordinamento con gli altri reparti, ma solo del proprio programma e del suo completamento (si ha una standardizzazione degli obiettivi). Nella sofisticazione del prodotto, Bodin arriva a realizzare:

- etichette monocolore, che richiedono più semplici tecnologie e meno competenze e costituiscono la fetta più grande del mercato;

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- etichette multicolor, più sofisticate, che a scapito di risorse tecnologiche più onerose e di una maggiore complessità garantiscono al produttore un premio di prezzo vista l’elevata qualità.

Visto che la produzione è limitata a questi due prodotti, Bodin si chiede se ha senso produrre entrambe nello stesso reparto produttivo. Una divisione permetterebbe di avere macchinari sofisticati e adatti a minori volumi in un impianto dedicato alle etichette multicolor e macchinari meno sofisticati ma adatti a volumi maggiori in un impianto dedicato alle etichette standard (una simile ripartizione verrebbe fatta per le competenze). Si procede quindi alla separazione, si ha una specializzazione del lavoro non legata alla produzione ma alla tipologia di prodotto. Durante tutto questo tempo Bodin continua a visitare la fabbrica, per controllare lavoro e qualità, e contemporaneamente si occupa di prendere decisioni strategiche e controllare: c’è una forte centralizzazione del potere.

l’incapacità di Bodin di adattare l’organizzazione segnerà la fine della società. Nasce una tecnologia di stampa ad alta qualità delle etichette, ma l’imprenditore non vuole cambiare la sua attività perché è “troppo sentimentale”. Non avendo eredi interessati alla successione, Bodin decide di liquidare l’impresa per via degli eventi contingenti e soprattutto della non adeguatezza del modello organizzativo al mercato in cui si trovava (è molto importante quindi un allineamento tra il contesto e il modello organizzativo).

Nella storia della Bodin, quindi, sono cambiati: l’aspetto dimensionale, ossia il numero di dipendenti; il prodotto commerciato e, di conseguenza, il mercato di riferimento (prima era nuovo e

innovativo poi competitivo); la strategia (prima di prodotto, poi di costo); il know how personale e le competenze.

2.2.1 Specializzazione orizzontale e verticale Il caso Bodin permette di fare molte considerazioni sullo sviluppo e sull’evoluzione delle organizzazioni, per esempio riguardo il tema della specializzazione. Quando si parla di specializzazione, si può fare una distinzione tra:

specializzazione orizzontale Si parla di specializzazione orizzontale quando si ha una divisione (o parcellizzazione) del lavoro in microattività che vengono ripartite tra più persone o unità organizzative per ottenere lo stesso risultato. Una conseguenza della specializzazione orizzontale è il proliferare delle mansioni. Si è in presenza di:

- elevata specializzazione orizzontale se le mansioni svolte dai singoli individui sono molto limitate;

- bassa specializzazione orizzontale se le mansioni svolte dai singoli individui sono poco limitate.

specializzazione verticale Si parla, invece, di specializzazione verticale quando viene introdotta una separazione tra chi progetta e controlla le attività e chi le esegue: in questo modo è possibile fare una distinzione “sociale” all’interno dell’organizzazione, separando coloro che eseguono il lavoro da coloro che invece controllano l’operato degli esecutori. Si è in presenza di:

- elevata specializzazione verticale se c’è una netta separazione tra chi progetta e chi esegue;

- bassa specializzazione verticale se invece chi esegue gode di una certa libertà decisionale.

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Come ogni cosa, la specializzazione (orizzontale) comporta vantaggi e svantaggi: la specializzazione orizzontale porta generalmente ad una maggiore produttività: le

operazioni vengono infatti realizzate più in fretta, ossia con costi minori. Si può considerare per esempio il fenomeno delle curve di esperienza: la ripetizione continuativa di un compito e il continuo esercizio portano ad un migliore apprendimento (la focalizzazione su azioni elementari e semplici ne favorisce l’apprendimento e la ripetizione quasi “meccanica”).

se si ripete sempre la stessa azione si riducono tanto i tempi quanto i costi di setup, con risparmi notevoli.

risulta essere molto più facile una standardizzazione del lavoro, quindi si possono creare dei mansionari che descrivono i compiti e le attività elementari (fatti che si riflettono in una maggiore produttività).

una specializzazione orizzontale portata all’estremo tende a far diventare molto semplici le singole attività, cosa che le rende potenzialmente realizzabili da chiunque (è possibile di conseguenza utilizzare manodopera non specializzata, quindi a basso costo).

la specializzazione orizzontale consente di avere delle attrezzature più focalizzate sulla singola attività svolta, fatto che aumenta l’efficienza (anche se potrebbero aumentare i costi fissi per il maggior numero di macchinari, si risparmia grazie alla maggiore efficienza).

c’è una maggiore efficacia, dovuta alla specializzazione sul singolo compito (aumentano le competenze).

Oggi sta assumendo una sempre maggiore importanza il concetto di lavori knowledge based, basati sulla conoscenza: basti pensare per esempio alla medicina e ai dottori specializzati, che non garantiscono una maggiore produttività ma un maggiore approfondimento del problema.

una forte specializzazione porta con se costi di coordinamento maggiori, per via dell’aumento della mole di dati e variabili che devono essere tenuti sotto controllo.

con l’aumento della specializzazione orizzontale si va incontro ad una minore flessibilità, che però deve essere valutata anche in base al contesto.

un’eccessiva parcellizzazione del lavoro porta ad una maggiore alienazione del lavoratore e ad una diminuzione delle motivazioni. Per questo motivo, in molti contesti si cerca di contrastare un’eccessiva specializzazione attraverso:

- il job enlargement, ossia un allargamento delle mansioni dei singoli operatori; - il job enrichment, ossia un arricchimento delle mansioni dei singoli operatori (che si

vedono conferire maggiore capacità decisionale). se la specializzazione è molto alta, il singolo operatore ha una minore visione d’insieme,

fatto che riduce la capacita di miglioramento e innovazione dei processi di lavoro. 2.2.2 I meccanismi di coordinamento Il secondo tema fondamentale delle organizzazioni che può essere studiato grazie al caso Bodin è il ruolo del coordinamento, conseguenza della specializzazione orizzontale o verticale del lavoro. Il coordinamento consiste in una comunicazione finalizzata ad avere dei risultati coerenti con gli obiettivi condivisi dell’organizzazione. In particolare, esistono cinque diversi meccanismi di coordinamento:

1. mutuo adattamento o adattamento reciproco Il mutuo adattamento è senza ombra di dubbio il primo e più immediato meccanismo di coordinamento (coincide con il prima descritto coordinamento informale). In questo caso, gli operatori si accordano direttamente quando emerge un problema (o nasce la necessità di scambiarsi informazioni, idee e prospettive) e modificano operazioni e comportamenti per giungere ad una soluzione. Le modalità di coordinamento sono innumerevoli: si può parlare direttamente con chi di dovere, convocare una riunione con tutti gli interessati, ma anche cogliere un’occasione quando si incontra casualmente un collega. Il tratto distintivo di questo coordinamento è l’informalità: non si richiedono particolari sforzi di progettazione o regole, la comunicazione si verifica in base alle occasioni (quando si

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verifica un problema, si parla di coordinamento ex post) e quando ce n’è bisogno. Non essendo formalizzato, l’adozione di questo meccanismo dipende dalla volontà e dalla discrezionalità dell’individuo di relazionarsi e di coordinarsi con gli altri. Il mutuo adattamento è un metodo che può essere utilizzato in contesti relativamente semplici, per esempio nelle piccole organizzazioni: nel caso Bodin, per esempio, questa era la metodologia dominante nella fase di sviluppo dell’impresa, quando c’erano ancora pochi formalismi. Ma quali possono essere i problemi del mutuo adattamento applicato in contesti più complessi e su organizzazioni più grosse? Al crescere della complessità (intesa come combinazione di dimensioni, problematiche e mercato) si perde progressivamente sempre più efficienza.

2. supervisione diretta Il secondo metodo di coordinamento è la supervisione diretta, che consiste nell’introduzione di una figura a capo degli altri operatori. Questo responsabile si occupa da un lato dell’assegnamento dei compiti (in modo che non ci siano problemi di coordinamento) dall’altro del controllo delle operazioni e della soluzione dei problemi (se per caso ci fossero dei problemi, si deve sempre passare attraverso il capo). Questa è una tipologia di coordinamento informale (anche se la figura del coordinatore viene formalmente riconosciuta) in quanto non ci sono delle regole o norme riguardo la cadenza dell’informazione o la tipologia delle informazioni da comunicare: è un coordinamento ad hoc ed ex post, che si attiva in caso di necessità. Il limite di questo sistema di coordinamento riguarda il numero di persone “gestibili”: per ovvi motivi, il numero di subordinati (pur essendo variabile) non può crescere oltre una certa soglia altrimenti il coordinamento fallisce (è un problema noto come span of control). Nel caso Bodin, al mutuo adattamento viene affiancata la supervisione diretta: funziona meglio perché tutte le comunicazioni e le informazioni sono direzionate verso una persona, fatto che rende l’attività di coordinamento più efficiente. Anche nella realtà, la supervisione si affianca al mutuo adattamento, non lo sostituisce.

3. standardizzazione dei processi Il terzo meccanismo di coordinamento è la standardizzazione dei processi: in questo caso, si definisce a priori (e nel dettaglio) il funzionamento dei processi, in modo da prevenire i problemi o quantomeno cercare di evitarli. Si tratta di un tipo di coordinamento formale (generalmente, si procede con una formalizzazione mediante manuali di lavoro e documenti, che eliminano i dubbi e le ambiguità). Questo è un meccanismo di tipo ex ante, in quanto la formalizzazione avviene prima del coordinamento (ci si attrezza affinché le persone siano autonome grazie ai manuali e si interviene in caso di problema). La standardizzazione del processo ha un grosso limite, legato ai casi particolari e alle eccezioni che non sono incluse nei formalismi. Se il contesto è molto turbolento (per l’andamento del mercato o la presenza di concorrenti) e cambia velocemente o è difficile una standardizzazione di tutte le alternative che possono verificarsi, si rischia:

di trovarsi di fronte a qualcosa di inaspettato e per il quale non esistono norme; che l’organizzazione sia inefficiente perché segue procedure inadatte; che le operazioni effettive (ossia l’organizzazione reale) siano distanti dalla loro

formalizzazione (ossia l’organizzazione formale). Bisogna sottolineare, infine, come questa standardizzazione può essere fatta a diversi livelli di dettaglio: ci possono essere sia procedure dettagliatissime sia procedure che indicano delle linee guida di alto livello e concedono molta discrezionalità all’individuo.

4. standardizzazione dei risultati o degli obiettivi Si parla di standardizzazione dei risultati o degli obiettivi quando, al posto di stabilire come fare le cose (standardizzare i processi), si decide di stabilire a priori il risultato atteso, uno standard in termini di performance che deve essere raggiunto (sistema ex ante). Ai responsabili di ogni reparto viene indicato quanto e cosa produrre, non come: viene data

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grande libertà decisionale agli operatori, ai quali si chiede grande autonomia e grande contributo. Questa metodologia si applica, in genere, nei contesti con tassi di innovazione maggiore: si può stabilire un target per poi adattare i processi alla situazione contingente, molto variabile, affidandosi alla discrezionalità degli operatori. Questo metodo consiste, per esempio, nell’applicazione dei sistemi di budgeting e pianificazione. Se la variabilità e l’instabilità del settore sono eccessive, però, la determinazione degli obiettivi risulta problematica.

5. standardizzazione delle competenze Il quinto e ultimo meccanismo di coordinamento è la cosiddetta standardizzazione delle competenze. Il fatto di avere competenze mirate e molto elevate porta le persone a lavorare sfruttando ciò che sanno e al massimo delle loro possibilità, per ottenere il migliore risultato data la situazione. Anche questo è un meccanismo relativamente formale (dato che si possono specificare le competenze necessarie per ogni settore e ogni attività) e, come tutte le forme di standardizzazione, è un meccanismo ex ante. Questo criterio viene utilizzato soprattutto quando anche la definizione di obiettivi target risulta essere molto complicata e difficile, limitante per certi versi (per esempio in ambito di ricerca).

Anche se sono concettualmente distinti, nelle organizzazioni di grandi dimensioni tutti e cinque i meccanismi operano contemporaneamente, anche se per ovvie ragioni uno risulta essere dominante sugli altri. Come si è visto nel caso Bodin e come si può vedere nella figura, esiste una sorta di ciclicità nell’applicazione dei meccanismi di coordinamento, che variano tanto a seconda della situazione contingente quanto a seconda delle dimensioni dell’impresa. Ma una volta giunti al coordinamento mediante competenze standard in quali situazioni conviene tornare all’applicazione del mutuo adattamento? Ecco alcuni esempi:

molto spesso, quando si affronta un mercato completamente nuovo o una situazione poco chiara in quanto innovativa, potrebbe essere potrebbe essere utile tornare almeno in un primo momento al mutuo adattamento. Per esempio, consideriamo il tema della sostenibilità aziendale: si tratta di un tema trasversale, dove bisogna raggiungere il miglior trade-off tra i temi aziendali (il profitto), l’impatto sociale delle decisioni e la questione ambientale, fatto che richiede nuove competenze che spaziano in più ambiti. In questo caso, non è facile stabilire dei target e/o delle procedure standard, quindi inizialmente ci si coordina attraverso il mutuo adattamento (per quanto poco efficiente), con molte riunioni e meeting.

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un altro esempio è quello dei team di direzione, i cosiddetti management board. Nelle organizzazioni dirette in questo modo ci saranno certamente dei formalismi, una standardizzazione di competenze e obiettivi, ma il meccanismo dominante è il mutuo adattamento: i manager, infatti, devono decidere insieme come affrontare le sfide che si pongono man mano nel tempo.

2.3 I costi della specializzazione e del coordinamento Specializzazione e coordinamento implicano dei vantaggi ma, ovviamente, anche dei costi:

di esecuzione; di coordinamento.

Analizziamo ora più nel dettaglio come si comportano le curve dei costi al variare del livello si specializzazione orizzontale:

curva dei costi di esecuzione Questa curva esprime la variazione dei costi di esecuzione, intesi come costi sostenuti dall’impresa per lo svolgimento di tutte le attività. L’andamento è decrescente fino a quando non si raggiunge la cosiddetta soglia di alienazione, oltre la quale si manifestano perdite di efficienza.

costi di coordinamento Oltre ai costi di esecuzione, bisogna anche tenere conto dei costi che si sostengono per il coordinamento o legati al non–coordinamento (penali, perdite):

1. mutuo adattamento: le attività vengono interrotte molte volte per garantire la comunicazione e viene sottratto del tempo ai momenti produttivi.

2. supervisione: in questo caso, vengono inserite nuove figure (i capireparto) che devono essere retribuite maggiormente non per produrre ma per coordinare.

3. standardizzazione dei progetti: si sostengono costi aggiuntivi per la progettazione e per la manutenzione delle procedure aziendali.

4. standardizzazione dei risultati: si sostengono costi aggiuntivi i processi di stima e per la determinazione degli obiettivi target.

5. standardizzazione delle competenze: si sostengono costi aggiuntivi in quanto o le risorse umane che possiedono più competenze hanno un costo maggiore o si sostengono spese ingenti per la specializzazione delle risorse umane.

Da un punto di vista economico, però, si può dire che al crescere della standardizzazione i costi di coordinamento tendono a diminuire.

Sommando queste due curve si ottiene la curva dei costi totali, a partire dalla quale è possibile individuare un livello di specializzazione orizzontale ottimale (inferiore della soglia di alienazione) che conviene all’organizzazione, in corrispondenza del quale si hanno i minimi costi totali del processo.

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Il punto di minimo varia da caso a caso: ogni impresa può avere vantaggi diversi e costi diversi per la specializzazione; i costi di coordinamento dipendono dalle dimensioni dell’impresa, dall’incertezza e dalla

complessità del contesto; i costi di coordinamento sono diversi da meccanismo a meccanismo, anche se in genere la

standardizzazione contribuisce ad abbassare i costi.

2.4 Microstruttura, macrostruttura e processi aziendali La progettazione organizzativa riguarda tre ambiti distinti, anche se fortemente interconnessi:

la microstruttura, che riguarda il complesso di scelte per determinare il livello di specializzazione orizzontale e verticale delle mansioni individuali, per formalizzare i compiti di ogni operatore e per individuare i metodi di coordinamento più efficaci tra gli individui. La progettazione microstrutturale si incrocia con la gestione delle risorse umane, che si occupa di determinare tanto i meccanismi di ricompensa ed incentivo del personale quanto l’identificazione dei percorsi di crescita e di sviluppo.

la macrostruttura, intesa come insieme delle unità organizzative (ossia il raggruppamento delle posizioni individuali). L’organizzazione deve essere scomposta in parti dotate di un certo grado di autonomia e sottoposte all’autorità di un singolo individuo, le unità organizzative, per ciascuna delle quali occorre determinare:

- la dimensione, intesa come numero di individui che ne fanno parte; - il profilo di competenze dei membri; - eventuali confini e raggio d’azione; - l’esistenza di sotto-unità.

Progettare una macrostruttura significa, principalmente, individuare i criteri di raggruppamento delle attività.

i processi aziendali, ossia gli insiemi organizzati di attività e di decisioni finalizzati alla produzione degli output richiesti dai clienti. Il tema dei processi aziendali è senza ombra di dubbio la dimensione più avanzata e complessa della progettazione organizzativa, oltre che un tema di rilevanza fondamentale: una buona progettazione strutturale da sola, infatti, non garantisce il raggiungimento degli obiettivi aziendali, in quanto le organizzazioni necessitano di processi decisionali rapidi, efficaci e riconfigurabili in risposta alle variazioni del mercato.

La progettazione organizzativa nasce con l’obiettivo di determinare in quale modo l’impresa dovrebbe utilizzare le risorse a disposizione (e in quale modo dovrebbe coordinarle) per raggiungere gli obiettivi prefissati. La bontà della progettazione organizzativa viene misurata mediante la cosiddetta efficacia organizzativa. Ma come si può misurare questo parametro?

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La misura dell’efficacia organizzativa è strettamente collegata al tipo di obiettivi che l’impresa si pone e dalle modalità di azione dei manager dell’impresa. In generale, si può però dire che l’efficacia organizzativa deve trovare riscontro in una performance aziendale adeguata, dove con performance non si fa riferimento semplicemente alla dimensione economico-finanziaria ma anche agli obbiettivi di shareholders e stakeholders.

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3. MICROSTRUTTURA La progettazione organizzativa della microstruttura consiste nel definire il contenuto di lavoro e il ruolo dei singoli individui all’interno di una qualsiasi organizzazione, formalizzandone in modo più o meno marcato il comportamento atteso. Nella progettazione della microstruttura bisogna tenere in debita considerazione il ruolo e l’importanza delle risorse umane: a differenza delle risorse tecnologiche e materiali, gli individui interagiscono in modo attivo con l’organizzazione e non si lasciano semplicemente “plasmare”. Le risorse umane hanno queste peculiarità:

possiedono delle aspirazioni e degli obiettivi personali, che possono influenzare la progettazione dell’organizzazione (è di fondamentale importanza che questi obiettivi individuali siano allineati o quantomeno compatibili quelli aziendali);

possiedono delle competenze e delle capacità diverse e variegate, che vincolano sia la progettazione della microstruttura sia le relazioni interindividuali;

esistono dei processi sociali di interazione tra la persona (o i gruppi) e l’organizzazione.

3.1 Concetti fondamentali Ecco alcune definizioni chiave nella progettazione della microstruttura:

compito Quello di compito è un concetto base, riferito ad un’attività specifica e non scomponibile ulteriormente che richiede in genere il contributo di un individuo: non è altro che il “set minimo” che può essere assegnato ad un dipendente esecutivo. È il concetto base e fondamentale della programmazione.

mansione Si definisce mansione o job un insieme di compiti, che vengono aggregati ed attribuiti in modo relativamente stabile ad una posizione individuale. La determinazione delle mansioni è il primo step vero e proprio della progettazione: una volta individuati i compiti elementari, si procede con la loro ripartizione in modo opportuno (passando da compiti a mansioni, si sceglie il livello di specializzazione e il livello di programmazione). In particolare si hanno:

- delle mansioni poco specializzate se contengono molti compiti; - delle mansioni molto specializzate se contengono pochi compiti.

posizione individuale La posizione individuale è un oggetto astratto che permette di disarticolare la progettazione della microstruttura dagli individui: è il caso, per esempio, delle “cariche” di direttore marketing, caporeparto, addetto al magazzino, ... . In tutte queste situazioni, in fase di progettazione si crea la posizione senza “attribuire nome e cognome”, ossia senza definire subito a chi sarà assegnata. È molto importante sottolineare come ogni posizione individuale possa essere assegnata univocamente ad una persona e come, invece, una stessa mansione possa essere attribuita a più di una posizione individuale (in funzione del volume di attività).

ruolo Il ruolo è un insieme di aspettative di comportamento che l’organizzazione si attende da una persona, in funzione della posizione occupata dalla stessa e degli obiettivi aziendali. Mentre i compiti e le mansioni sono ben specificati, i comportamenti non sono ben descrivibili (si pensi ad un venditore e al rapporto coi clienti): per questo motivo si aggiunge discrezionalità alla valutazione dell’individuo. In particolare, tanto più il ruolo ricoperto è decisionale e manageriale, tanto più prevarrà il comportamento sul compito.

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Caso 3.1 – IDI: compiti e mansioni in un grande poliambulatorio Ecco i motivi che hanno portato a queste specifiche scelte di progettazione organizzativa:

i tre compiti relativi al laboratorio di analisi sono raggruppati in quanto interdipendenti: il driver è la richiesta unica del cliente, che si presenta allo sportello per chiedere informazioni e per l’accoglienza. Per quanto riguarda l’amministrazione, conviene aggiungerla agli altri due compiti in quanto le stesse informazioni raccolte in accoglienza sono necessarie per la fattura (sarebbe quindi ridondante un disaccoppiamento).

i servizi di prenotazione e informazione del laboratorio di diagnostica per immagini e delle visite specialistiche sono messi insieme perché c’è contemporaneità sul singolo servizio (possono tutti essere effettuati al telefono). La presenza di un unico numero garantisce una maggior facilità di contatto (e inoltre assicura una maggiore saturazione del lavoro e un maggiore bilanciamento dei carichi). In questo caso, il driver è la non differenziazione delle competenze e del processo (oltre che una sequenzialità verticale delle operazioni).

i servizi di accoglienza e amministrazione (sia per la diagnostica che per le visite specialistiche) presentano una sequenzialità: il cliente, forniti i dati, paga la prestazione. La separazione delle mansioni dei due servizi serve per favorire il cliente, che è fisicamente più vicino al reparto (generalmente, sono separati).

la consegna unificata dipende dal fatto che questo servizio è “separato” temporalmente dagli altri che lo precedono: non c’è differenziazione del compito rispetto all’esame fatto, quindi conviene raggruppare tutte le consegne in un unico spazio.

3.1.1 Ampiezza della mansione e interdipendenze La scelta del livello di specializzazione della mansione è una decisione fondamentale nel processo di programmazione organizzativa. In genere, nella ripartizione dei compiti in mansioni si tiene conto di più fattori:

si fanno delle considerazione sui carichi di lavoro e sulla loro omogeneità: - volumi più elevati portano in genere a mansioni più specializzate; - volumi meno elevati portano invece a mansioni meno specializzate.

si prendono delle decisioni in funzione del tipo di interdipendenze tra i compiti, sui legami esistenti.

Le interdipendenze possono essere di diverso tipo:

interdipendenze sequenziali Si ha un’interdipendenza sequenziale quando un compito è in stretta sequenza logica e temporale con un altro e comporta un passaggio di informazioni (in poche parole, un compito A discende da un altro B).

interdipendenze reciproche Sono tra le interdipendenze più complesse. Si ha un’interdipendenza reciproca quando ci sono due compiti A e B che, indifferentemente dall’ordine temporale in cui sono eseguiti, comportano uno scambio di informazioni.

interdipendenze legate a risorse Si è in presenza di un’interdipendenza legata a risorse, ad esempio, se due compiti A e B utilizzano lo stesso sistema informativo (o la stessa risorsa umana) e non possono essere realizzati contemporaneamente. Il “problema” è tuttavia risolvibile mediante una duplicazione della risorsa problematica.

interdipendenze spazio–temporali Si parla infine di interdipendenze spazio–temporali quando, pur non essendoci né legami logici né condivisione di risorse, due compiti A e B vengono realizzati fisicamente o nello stesso luogo o nello stesso tempo.

Una volta trovate delle interdipendenze, bisogna unire in mansioni i compiti che presentano i maggiori livelli di interdipendenza (anche a seconda del tipo di interdipendenza).

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3.1.2 Mansioni operative, manageriali e professionali Quando si analizza la microstruttura di una qualsiasi organizzazione, può essere molto utile studiare nel dettaglio i livelli di specializzazione verticale e di specializzazione orizzontale. Ecco più nel dettaglio le varie mansioni presentate nel grafico:

mansioni operative ristrette Quando si parla di queste mansioni, si fa riferimento a mansioni caratterizzate:

- da un’elevata specializzazione verticale (sono compiti operativi semplici); - da un’elevata specializzazione orizzontale, a causa della quale si tratta di mansioni

“ristrette” (composte da pochi compiti). In genere si tratta di mansioni tipiche delle operations dell’impresa, come per esempio la produzione, la gestione dei magazzini e la distribuzione (o, in aziende si servizi, la gestione dei servizi e le operazioni di back office). Per queste mansioni i meccanismi di coordinamento più adeguati sono senza dubbio la standardizzazione dei processi e la supervisione diretta: la discrezionalità dell’operatore, nello svolgimento del compito, è pressoché nulla in quanto si creano si creano formalismi da seguire (mentre in caso di problemi interviene la supervisione).

mansioni operative allargate Le mansioni operative allargate nascono dall’applicazione del concetto di job enlargement alle mansioni operative ristrette: non si tratta più di mansioni focalizzate su pochi compiti, l’individuo copre una maggiore porzione del processo produttivo (ed è quindi più versatile). Nello svolgimento di queste mansioni, l’operatore ha una percezione maggiore del proprio compito nella creazione di valore o nelle attività, quindi viene data più libertà di scelta. Queste mansioni sono tipiche degli stessi contesti delle mansioni operative ristrette, la discrezionalità aggiuntiva dell’operatore viene motivata:

- dall’eccessiva complessità, imprevedibilità e dinamicità del contesto; - dal fatto che un’eccessiva specializzazione delle mansioni e dei compiti creerebbe

troppa alienazione del lavoratore. I meccanismi di coordinamento più adeguati per queste mansioni sono la standardizzazione dei processi, seppur con minore dettaglio per lasciare libertà decisionale (per esempio, per reagire ad un fermo macchina improvviso, a eventuali guasti o alla realizzazione di prodotti di qualità scadente), e la supervisione diretta.

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mansioni manageriali di medio-basso livello Un ulteriore allargamento dei compiti porta alle mansioni manageriali di medio–basso livello: si tratta di mansioni non più operative, in cui si ha un contributo maggiore in termini di decisioni (c’è una funzione di gestione e coordinamento delle attività, pur senza avere ampi poteri decisionali). Tipicamente, gestire un’attività significa saper confrontarsi con compiti diversi: la specializzazione orizzontale è generalmente bassa, anche se varia a seconda della complessità dell’impresa. Per quanto riguarda la specializzazione verticale, si parla di manager di basso livello: per esempio si tratta di capi ufficio, capi reparto o responsabili vendite di piccole zone, che hanno una certa autonomia ma devono confrontarsi con i livelli gerarchici superiori. I meccanismi di coordinamento utilizzati sono la standardizzazione dei processi, con un livello di dettaglio minore rispetto al livello operativo, e la standardizzazione degli obiettivi: i formalismi “impongono” delle linee guida per le operazioni (procedure light) e degli obiettivi target da raggiungere. Inoltre, comincia a essere rilevante la standardizzazione delle competenze (che dipendono dell’area e dal ruolo).

mansioni manageriali di alto livello Una differente direzione di crescita professionale è quella di job enrichment, che porta alle mansioni manageriali di alto livello: si tratta sostanzialmente tutte le posizioni di top management, come amministratori delegati, direttori generali ma anche primi riporti (ossia la “prima linea” di dirigenza, spesso a seconda della dimensione dell’impresa si considerano anche la seconda e la terza linea). Le caratteristiche di questa mansione sono queste:

- per via dell’alta posizione nella scala gerarchica, le responsabilità decisionali e il livello di autonomia aumentano;

- c’è una partecipazione attiva nei processi decisionali strategici dell’organizzazione. Queste mansioni vengono coordinate mediante la standardizzazione degli obiettivi e quella delle competenze, piuttosto che formalizzando le procedure: ci si coordina con gli altri manager in funzione delle competenze e delle responsabilità diverse che ciascuno ha.

mansioni professionali In molte organizzazioni, infine, si introduce anche il concetto di mansioni professionali: il contributo garantito da queste mansioni è prevalentemente di tipo intellettuale, knowledge based (dipende dalle competenze specialistiche della persona). Le mansioni professionali sono tutte quelle mansioni caratterizzate da:

- elevata specializzazione orizzontale, cioè sono focalizzati su un numero ristretto di compiti non per una ricerca di efficienza e ripetitività ma per la necessità di disporre di un know-how avanzato (difficile da accumulare se non in un campo limitato);

- un’elevata discrezionalità e autonomia decisionale nell’ambito locale, diversa però dalla libertà di scelta dei manager (che hanno libertà maggiori e intervengono nei processi decisionali strategici).

Esempi di mansioni professionali sono gli avvocati, gli architetti e i medici, che lavorano in maniera indipendente o in gruppi, associazioni di categoria. In termini di coordinamento, le mansioni professionali presentano delle difficoltà: esse sono difficilmente gestibili attraverso la supervisione e la standardizzazione dei processi, quindi tendenzialmente si preferisce adottare procedure di standardizzazione delle competenze e dei risultati e, addirittura, il mutuo adattamento. Sempre più spesso, oggi, si tende a integrare nella struttura societaria queste mansioni per sfruttarne le competenze. Uno dei problemi che possono essere incontrati in questa “integrazione” riguarda la collaborazione: spesso, questi professionisti si identificano più con la loro categoria che con l’organizzazione, quindi potrebbe esserci un disallineamento con gli obiettivi societari. Dato che per queste mansioni vengono a meno gli strumenti di controllo del lavoro, molte organizzazioni cercano di “indirizzare” il comportamento dei professionisti con strumenti di incentivo (per esempio, le stock option).

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Ecco un riassunto delle peculiarità diverse mansioni:

Mansioni operative ristrette ripetitività; presenza di norme e procedure.

Mansioni operative allargate versatilità; multifunzionalità degli operatori; presenza di norme e procedure;

Mansioni manageriali di medio-basso livello

coordinamento; presenza di norme e procedure; autonomia limitata.

Mansioni manageriali di alto livello

delega e autonomia; bassa formalizzazione; varietà ed imprevedibilità dei compiti; coinvolgimento nei processi decisionali strategici.

Mansioni professionali compiti limitati ma sofisticati; conoscenza tecnica; autonomia decisionale locale.

Caso 3.2 – Italcementi: ruoli e mansioni in un gruppo in rapida crescita Se si usa il grafico prima presentato per “mappare” cronologicamente le mansioni ricoperte da D.A. nell’impresa, possiamo dire che:

la prima mansione, quella di controllore, è operativa, ristretta. Il processo da seguire è fortemente standardizzato, il compito affidato da D.A. è controllare i parametri di processo e, in caso di scostamento, riferire al supervisore (non c’è grande autonomia).

la seconda mansione, quella di gestione, è sicuramente un’attività manageriale di medio–basso livello: D.A. risponde ad altri manager, ci sono delle procedure standard che concedono poca discrezionalità e, soprattutto, ci saranno parametri e target da rispettare.

la terza mansione, ossia la direzione dello stabilimento in Bulgaria, è una mansione manageriale di alto livello (per l’organizzazione, la produzione è il core business).

3.2 La formalizzazione del comportamento La formalizzazione è uno strumento che viene utilizzato dal management nelle organizzazioni per ridurre la discrezionalità degli operatori e far si che il comportamento dei singoli individui stessi sia allineato con gli obiettivi della società. Essa, inoltre, permette una standardizzazione dei processi come meccanismo di coordinamento. La formalizzazione può essere implementata in due modi:

attraverso l’introduzione dei mansionari, dei documenti che raccolgono al loro interno una descrizione di tutte le mansioni che vengono svolte nell’organizzazione precisando gli specifici comportamenti individuali;

attraverso l’introduzione di norme e procedure, che a differenza dei mansionari hanno una valenza generale e sono indipendenti dalla particolare mansione svolta. Esse sono valide per tutti i membri dell’organizzazione, devono essere rispettate ed adottate da tutti i dipendenti.

La formalizzazione presenta sia vantaggi che svantaggi per l’organizzazione:

è uno strumento utile al coordinamento. L’esistenza di una base scritta di regole e norme funge da potente meccanismo di automatico coordinamento tra persone diverse: grazie ad

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esse si impone una certa reazione del team a determinate situazioni o eventi, si ha una migliore coordinamento tra gli operatori dato che tutti sanno cosa faranno gli altri. La formalizzazione è indirettamente un meccanismo di coordinamento in quanto permette di implementare la standardizzazione dei processi.

per tutte quelle aziende che si rapportano direttamente con i clienti finali, la formalizzazione è molto importante in quanto è uno strumento che garantisce un trattamento uniforme: grazie all’introduzione di regole e norme si impedisce il trattamento disuniforme o preferenziale di clienti o utenti. Questo aspetto è di grande rilevanza nelle pubbliche amministrazioni e negli ambiti bancario e amministrativo.

in molti casi è uno strumento di garanzia e protezione per i lavoratori (dipendenti) dell’organizzazione, da un lato rispetto all’arbitrarietà dai manager e dei supervisori (che non possono “imporre” carichi di lavoro troppo elevati o assegnare compiti estranei alla mansione), dall’altro nei confronti dei clienti o utenti (le norme proteggono da pressioni eccessive e insistenze, richieste inesaudibili, …).

agisce come uno strumento di controllo, in quanto la presenza di regole e obiettivi scritti permette un controllo stringente dei comportamenti dei dipendenti e riduce la probabilità di comportamenti indesiderati. Da questo punto di vista, inoltre, la formalizzazione conferisce al management la capacità di infliggere delle sanzioni in caso di inadeguatezza del comportamento (cioè se i comportamenti reali si discostano da quelli descritti).

se le regole sono troppo stringenti, c'è un’elevata probabilità che il personale tenti di aggirarle in qualche modo, per mezzo di comportamenti elusivi (fatto che potrebbe danneggiare l’organizzazione).

se la formalizzazione non possiede una casistica adeguata (ci sono situazioni non comprese nei regolamenti) o se ci sono regole inadeguate (in concomitanza di determinati eventi non suggeriscono la reazione migliore e anzi potrebbero portare danno o al cliente o all’organizzazione) ci può essere uno scostamento fra l’azione reale e quella formale oppure l’operatore può trovarsi di fronte ad un trade-off tra il seguire le norme (e causare dei danni al cliente o all’impresa) o violarle (seguendo la soluzione migliore ma andando incontro a possibili sanzioni).

3.2.1 Formalizzazione e mansioni Esistono diverse tipologie di formalismi in base alla mansione:

per le mansioni operative, il livello di formalizzazione è in potenza molto elevato vista la natura dei compiti assegnati.

per le mansioni manageriali, invece, può essere difficile introdurre dei formalismi. Per questa “categoria” il livello di specializzazione orizzontale è generalmente basso e la libertà decisionale è al contrario alta, cose che rendono difficile l’introduzione di regolamenti. Molto spesso si parla di ruoli manageriali piuttosto che di mansioni: l’organizzazione è in grado solo di specificare in modo generico che cosa vuole dal singolo e l’aspettativa nei confronti del manager riguarda principalmente i risultati.

anche per le mansioni professionali, infine, la formalizzazione in genere è bassa. Ciò accade essenzialmente per due motivi:

- essendo i professionisti specializzati in una certa attività (in cui ha molta importanza la conoscenza tacita, non formalizzabile), per l’organizzazione è difficile “inquadrare” queste mansioni;

- in genere, i professionisti sono “insofferenti” alle norme e alle procedure, preferiscono mantenere una certa libertà decisionale.

Nelle imprese a forte presenza professionale per questo motivo si parla della cosiddetta istituzionalizzazione: si tratta di una sorta di formalizzazione, volta non tanto alla standardizzazione dei processi quanto all’introduzione di valori, obiettivi e saperi che si devono considerare comuni all’intero gruppo.

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3.2.2 I sistemi organici e meccanici La formalizzazione dei comportamenti non varia solamente da mansione a mansione. Se si confrontano organizzazioni di natura diversa, sarà possibile identificare molte caratteristiche differenti. In particolare, è possibile presentare due modelli contrapposti utilizzando le cosiddette metafore dell’organizzazione (che presentano due visioni diametralmente della formalizzazione in un’azienda):

metafora del modello meccanico Seguendo la metafora del modello meccanico, l’organizzazione viene vista come una macchina composta da diversi “ingranaggi” che svolgono ciascuno una certa funzione determinata a priori (si nota una forte specializzazione e differenziazione). La macchina può funzionare bene solamente se tutte le parti hanno un comportamento adeguato ed interagiscono nel modo migliore possibile e, in caso di malfunzionamento o rottura, ogni ingranaggio può essere rimpiazzato rapidamente e senza problemi con un altro identico. Seguendo il modello, è evidente come le parti della macchina siano gli individui, cui sono assegnati compiti e mansioni ben precisi e il cui rispetto dei formalismi e delle procedure porta l’organizzazione a raggiungere i suoi obiettivi. Quando si parla di sostituibilità, infine, si intende che gli operatori sono perfettamente rimpiazzabili con nuovi operatori che a fronte di un addestramento opportuno possono integrarsi alla perfezione nei meccanismi. Se si analizza questa metafora con le variabili della microstruttura, è possibile dire che:

- c’è un’elevata specializzazione, dato che ogni ingranaggio della macchina svolge determinati compiti ristretti.

- c’è un’elevata standardizzazione, in genere dei processi, una conseguenza ovvia della specializzazione orizzontale. Essa viene utilizzata come strumento di controllo, insieme alla supervisione diretta.

- c’è un’elevata formalizzazione, un requisito necessario per standardizzare i processi. Le organizzazioni “strutturate” come questo modello sono più rigide e incontrano una difficoltà ad adattarsi ad un contesto mutevole.

metafora del modello organico Secondo la metafora del modello organico, l’organizzazione viene vista come un organismo vivente composto da diversi organi che hanno ciascuno una propria funzione ma che in caso di necessità possono interagire, sopperendo a mancanze: gli organi concorrono nella realizzazione degli obiettivi e le loro funzioni non sono ben definite, ma possono cambiare nel tempo sulla base delle interazioni che ci sono tra le diverse parti. Per quanto riguarda la sostituibilità, le singole parti dell’organismo non sempre possono essere sostituite e, se cambiate, i risultati non sempre sono quelli desiderati. Procedendo con un parallelismo, risulta evidente come in questo modello acquista una maggiore importanza l’interazione tra gli operatori: esistono dei rapporti gerarchici, ma hanno grande importanza anche quelli orizzontali, in quanto la collaborazione degli operatori porta al raggiungimento degli obiettivi. Non meno importante è il concetto di non–sostituibilità degli individui: in questo contesto ogni dipendente non può essere valutato solo in base alla mansione, ma anche in relazione alla sua conoscenza tacita e al suo network di relazioni (“valori” personali e difficilmente trasferibili), fatto che rende quantomeno problematico rimpiazzare una perdita. Analizzando la metafora con le variabili della microstruttura, risulta evidente che:

- c’è una bassa specializzazione; - c’è una bassa standardizzazione; - c’è una bassa formalizzazione.

Il meccanismo di coordinamento utilizzato in questo caso è solitamente la standardizzazione delle competenze, in genere affiancata dal mutuo adattamento e dalla standardizzazione degli obiettivi. Le imprese di questo tipo sono quelle più adatte ad un contesto mutevole.

Queste due metafore caratterizzano due tipi ideali, non reali: le organizzazioni reali possono essere più sbilanciate verso uno o l’altro o, addirittura, applicare entrambi in parti diverse.

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4. MACROSTRUTTURA Progettare la macrostruttura di un organizzazione significa:

raggruppare, sulla base dell’attività generica, gli operatori in unità organizzative; identificare quali meccanismi di coordinamento sono i migliori per garantire una buona

comunicazione tra le unità organizzative. Si definisce unità organizzativa un raggruppamento di posizioni o ruoli ai quali sono assegnati un insieme di compiti che hanno queste caratteristiche:

sono attribuibili in modo stabile, fattore necessario affinché le unità organizzative abbiano un senso nel tempo e per giustificare lo sforzo progettuale;

sono interrelati o interdipendenti tra loro, perché nel creare le unità organizzative le organizzazioni cercano di accorpare attività interdipendenti per una maggiore “comodità” ed efficienza degli operatori;

sono autonomi e misurabili, cioè deve esserci un certo grado di indipendenza dalle mansioni inserite in altre unità organizzative.

La creazione di unità organizzative favorisce il coordinamento ed il controllo dei compiti, principalmente attraverso il meccanismo della supervisione diretta ma anche sfruttando il mutuo adattamento e i meccanismi di standardizzazione (resi possibili dalle interdipendenze presenti nell’unità stessa). Alcuni studi hanno determinato che, all’aumentare della dimensione dell’organizzazione, azienda è necessaria la creazione di unità organizzative per semplificare e rendere più efficace la gestione delle attività più complesse.

4.1 La formalizzazione della macrostruttura La struttura organizzativa si può descrivere, in modo sintetico, mediante una rappresentazione con un organigramma. L’organigramma non è altro che una rappresentazione con uno schema a blocchi dalle diverse unità organizzative, che fornisce informazioni riguardo:

il nome dell’unità organizzativa; il nome del responsabile dell’unità organizzativa; gli eventuali rapporti gerarchici con altre unità organizzative; le dimensioni delle unità organizzative; le posizioni che compongono l’unità organizzativa e il nome degli operatori che ricoprono

quelle posizioni; l’organico delle diverse unità organizzative.

L’organigramma è lo strumento che viene in genere utilizzato per la formalizzazione della macrostruttura, vista la sua capacità di rendere esplicite ed oggettive le scelte progettuali. Il livello di formalizzazione della macrostruttura può variare da caso a caso, anche a seconda di diversi fattori:

il livello di sofisticazione dell’organizzazione; la stabilità o turbolenza del contesto; lo stile di management dell’organizzazione.

Anche per questo motivo, per alcune imprese non è possibile trovare un organigramma.

4.2 Due dimensioni di analisi È possibile condurre un’analisi della macrostruttura organizzativa lungo due diverse dimensioni:

dimensione orizzontale dell’organizzazione Quando si parla di dimensione orizzontale, sono di fondamentale importanza i concetti di ampiezza del controllo (o span of control) e di ampiezza manageriale. Per ampiezza del controllo si intende il numero di persone che il singolo responsabile (sia esso un capo o un supervisore) è in grado di controllare. Questo concetto è evidentemente collegato all’ampiezza dell’unità organizzativa: maggiore è l’ampiezza di controllo, maggiori

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saranno le dimensioni dell’unità organizzativa “governata” dal responsabile preso in considerazione. Un concetto molto simile ma non identico, poi, è quello di ampiezza manageriale: con questo termine si misura il numero di mansioni diverse che il responsabile controlla (attraverso supervisione e coordinamento), quindi indica il numero di mansioni diverse ricoperte dagli operatori nell’unità organizzativa in analisi. All’interno di una singola unità organizzativa, ampiezza del controllo e manageriale possono essere “convergenti” o “divergenti” in quanto concetti distinti seppur collegati:

- si può avere un’alta ampiezza del controllo (il supervisore coordina 10 operatori) e contemporaneamente una bassa ampiezza manageriale (gli operatori svolgono tutti la stessa mansione);

- si può avere un’alta ampiezza del controllo (il supervisore coordina 10 operatori) e contemporaneamente un’alta ampiezza manageriale (gli operatori svolgono, in totale, 8 mansioni differenti).

dimensione verticale dell’organizzazione Quando si parla della dimensione verticale dell’organizzazione si fa invece riferimento al concetto di catena gerarchica, ossia al numero di livelli gerarchici presenti (dove con gerarchia si intendono le relazioni di subordinazione che esistono in azienda, sia tra unità che tra posizioni). Per conoscere la lunghezza della catena gerarchica si possono considerare:

- il numero di livelli gerarchici, prendendo in esame la catena più lunga; - il numero di riporti gerarchici, sempre prendendo in esame la catena più lunga.

Il concetto di gerarchia in un’unità organizzativa è strettamente correlato al principio di unicità del comando, secondo il quale in una buona organizzazione ogni individuo ed ogni unità organizzativa devono ricevere ordini da un solo responsabile.

Ampiezza di controllo e lunghezza della catena gerarchica sono due misure strettamente collegate: per esempio, minore è il numero di operatori che possono essere supervisionati da un capo maggiore sarà il numero di capi e di conseguenza maggiore sarà il numero di livelli gerarchici da introdurre per il coordinamento di questi responsabili. In una qualsiasi organizzazione, per questo motivo, si deve cercare di bilanciare il rapporto tra dimensione orizzontale e verticale, in modo che:

l’ampiezza di controllo non sia eccessivamente estesa, per assicurare la governabilità delle unità organizzative;

la linea gerarchica non sia troppo lunga, al fine di limitare i costi complessivi di struttura e velocizzare i passaggi di informazioni e i processi decisionali.

Le teorie organizzative tradizionali propongono due strutture estreme: una struttura organizzativa orizzontale, caratterizzata da un’ elevata ampiezza del controllo

e da pochi livelli gerarchici; una struttura organizzativa verticale, caratterizzata da una bassa ampiezza del controllo e da

molti livelli gerarchici. Sono stati condotti molti studi volti a definire degli standard quantitativi relativi ad ampiezze di controllo ottimali. Si è però giunti alla conclusione che l’ampiezza di controllo (e di conseguenza la lunghezza della linea gerarchica) varia:

da un’impresa all’altra e a seconda del livello gerarchico preso in considerazione; a seconda dei meccanismi di coordinamento utilizzati (se la supervisione viene affiancata da

standardizzazione e mutuo adattamento l’ampiezza di controllo aumenta); in base allo stile direzionale e di leadership del management; in base alle complessità delle posizioni (ampiezza manageriale, preparazione, …).

Oggi le spinte di job enlargement e job enrichment hanno portato ad un ampliamento dell’ampiezza di controllo e ad una riduzione di livelli gerarchici: si parla quindi di lean organization (“snelle”).

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4.3 Le unità organizzative È molto importante descrivere le diverse tipologie di unità organizzative di un’organizzazione, in quanto evidentemente la progettazione di un reparto produttivo è completamente diversa dalla progettazione di un comitato esecutivo o di un ufficio legale. In particolare, è possibile fare una distinzione sulla base:

del contenuto di lavoro, inteso come mansioni raggruppate nell’unità considerata. Da questo punto di vista, è possibile fare una distinzione tra:

- unità organizzative di line o di linea Le unità di linea sono tutte quelle unità che si posizionano sui diversi livelli gerarchici, dalla direzione agli organi operativi, e si occupano del core business dell’impresa. Queste unità creano del valore per il quale il cliente è disposto a pagare e sono diverse in base al tipo di organizzazione: per esempio, si tratta delle funzioni di marketing, produzione, acquisti e vendite in un’azienda manifatturiera.

- unità organizzative di staff Le unità di staff sono delle unità trasversali, che non si trovano direttamente nella linea gerarchica ma si occupano di affiancare e supportare le unità di linea. Pur non occupandosi del core business, hanno un ruolo fondamentale in quanto consentono un regolare svolgimento delle attività principali e una “manutenzione” dell’impresa, fungono da supporto e facilitano il raggiungimento degli obiettivi. Esempi di unità di staff sono la gestione delle risorse umane, l’ufficio legale e la manutenzione. Oggigiorno c’è una tendenza delle organizzazioni ad esternalizzare parte delle attività svolte dagli staff o, soprattutto nel caso dei grandi gruppi, a creare delle apposite società giuridicamente separate dedicate allo svolgimento e all’ottimizzazione di queste attività: si parla in questo caso di outsourcing.

Spesso la distinzione tra unità di linea e di staff non è molto marcata, in quanto all’interno di una certa unità organizzativa ci possono essere posizioni di linea e di staff (per esempio un controller in una business unit).

del contenuto decisionale, una distinzione trasversale alla precedente che fa riferimento all’autonomia decisionale dell’unità organizzativa. Da questa prospettiva si distinguono:

- unità organizzative operative Le unità operative sono caratterizzate da una prevalenza di mansioni operative e si occupano dello svolgimento dei processi di trasformazione all’interno dell’azienda. Alcuni esempi sono il reparto produttivo nelle imprese manifatturiere e delle attività di front office e back office per le società di servizi. Queste unità sono generalmente situate ai livelli più bassi della catena gerarchica e sono caratterizzate da livelli tendenzialmente alti di standardizzazione.

- unità organizzative direttive Le unità direttive, invece, sono quegli organi preposti alla guida e alla direzione dell’organizzazione. Si trovano ai livelli più elevati della catena gerarchica e hanno diversi compiti: prendono decisioni strategiche, definiscono gli obiettivi o le politiche di comportamento e indirizzano l’azienda e le unità sottoposte (prendono il nome di vertice aziendale o strategico). Possono essere tanto di piccole dimensioni (per esempio si pensi al proprietario di un’impresa o ad un AD) quanto di carattere collegiale (come i comitati esecutivi o i comitati di direzione). Questi organi raggruppano mansioni manageriali di alto livello, caratterizzate da bassi livelli di standardizzazione e che utilizzano principalmente il mutuo adattamento come meccanismo di confronto e coordinamento. Un’ultima caratterizzazione di queste unità riguarda la loro temporaneità o stabilità: esistono infatti unità direttive permanenti, rappresentate nell’organigramma e senza limitazioni di tempo, ma anche organi temporanei creati ad hoc per la soluzione di esigenze specifiche (e pertanto con durata limitata).

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4.4 I criteri di raggruppamento Una volta definite le variabili chiave della macrostruttura è di fondamentale importanza capire quali sono i criteri di raggruppamento delle posizioni in unità organizzative. Il raggruppamento delle attività in delle unità permette di definire un sistema di coordinamento comune: nella progettazione organizzativa ci si pone infatti il problema di minimizzare non solo i costi di coordinamento tra individui ma anche i costi di coordinamento tra unità diverse, garantendo l’efficienza dello svolgimento delle attività d’impresa. Inoltre, il raggruppamento è strettamente collegato alle interdipendenze esistenti tra compiti e mansioni distinti: nella progettazione ogni interdipendenza deve essere analizzata e studiata, per verificare i vantaggi di una sua gestione all’interno di un’unica unità e il costo di coordinamento relativo alla sua separazione in unità distinte. Ma quali sono i criteri di raggruppamento? Ne esistono tre categorie diverse:

criteri di raggruppamento numerico I criteri numerici sono molto semplici: si procede a creare delle unità organizzative dividendo i lavoratori sulla base del numero massimo di posizioni che possono essere gestite da un unico supervisore, nell’ipotesi di considerare delle posizioni omogenee (o considerate tali) e caratterizzate da elevata intercambiabilità. Le posizioni considerate possono non distinguersi rispetto ad un’altra unità, si ricerca semplicemente la gestibilità come unico vantaggio. Questo criterio viene generalmente utilizzato nelle organizzazioni di grandi dimensioni che seguono il modello meccanico, caratterizzate da un’elevata standardizzazione dei processi e da un numero elevato di posizioni omogenee (per esempio, si usa per mansioni operative molto semplici, in corrispondenza di elevati livelli di specializzazione orizzontale). Un altro caso di applicazione di questo criterio è la costituzione di turni di lavoro.

criteri di raggruppamento orientati agli input I criteri orientati agli input, invece, portano ad accorpare le attività in base al contenuto specifico della mansione e ai mezzi necessari per svolgere le mansioni, siano essi competenze, tecnologie o metodi di lavoro. Rientrano in questa tipologia due sotto-criteri:

- il raggruppamento in base alle conoscenze e capacità utilizzate per svolgere le mansioni, usato per esempio per la creazione di dipartimenti universitari o reparti in un ospedale.

- il raggruppamento in base alla funzione svolta o, in alternativa, alla tecnica o processo di lavoro. Esempi di funzioni svolte in un’azienda possono essere la compravendita di beni e servizi, la trasformazione degli input in output e l’amministrazione: usando questo criterio si procede alla creazione delle cosiddette funzioni aziendali (produzione, marketing, amministrazione, ricerca e sviluppo, …). I criteri di raggruppamento basati sulla tecnica o il processo, invece, dipendono dalle tecnologie chiave del settore: le attività produttive, per esempio, possono essere raggruppate in base al tipo di attività svolte.

criteri di raggruppamento orientati agli output I criteri orientati agli output permettono un raggruppamento indipendentemente dalle competenze necessarie per le attività, dalla funzione svolta e dalle tecnologia utilizzate: si procede al raggruppamento facendo riferimento o ai prodotti o agli obiettivi dell’attività, che costituiscono il fattore comune. Rientrano in questa tipologia tre diversi sotto-criteri:

- il raggruppamento in base ai prodotti o servizi. In questo caso, ogni unità organizzativa viene creata con l’obiettivo di svolgere le attività legate ad un certo prodotto o servizio. La maggior parte delle grandi imprese per questo motivo crea delle business unit, dedicate alle principali famiglie di prodotti commerciati (dalle attività di progettazione fino alla vendita).

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- il raggruppamento in base al cliente, cioè le unità organizzative vengono create raggruppando una serie di attività rivolte e dedicate a tipologie di clienti specifiche. Questo criterio è molto usato da quelle aziende che si rivolgono sia al mercato industriale (intermedio) sia al mercato finale, che hanno una maggiore convenienza a creare delle separazioni tra le attività in base al tipo di cliente servito.

- il raggruppamento su base geografica, che segue una logica o di localizzazione dell’attività (l’organizzazione può avere convenienza nel raggruppare le attività che si svolgono in una certa area geografica) o invece di caratterizzazione del mercato (se è conveniente “andare incontro” alle caratteristiche culturali peculiari della clientela locale: il raggruppamento è guidato dalla diversità di gusti e richieste).

Il problema della scelta del criterio di raggruppamento da utilizzare si pone a tutti i livelli gerarchici dell’impresa e in corrispondenza di ogni livello si possono utilizzare dei criteri differenti. Ma quali vantaggi comporta ogni criterio rispetto agli altri?

i criteri orientati agli input hanno due vantaggi, legati ad obiettivi di efficienza e riduzione dei costi:

innanzitutto, c’è un vantaggio legato alle economie di scala: raggruppando molte attività simili il volume di attività realizzato sarà maggiore rispetto al caso in cui si decida di realizzare le stesse attività in unità produttive separate (per esempio, si immagini di produrre l’intero volume produttivo su una sola linea produttiva anzi che su più stabilimenti). In questo caso (soprattutto per le attività di tipo capital intensive, che richiedono grandi investimenti) si ha in genere una riduzione dei costi al crescere dei volumi produttivi e quindi c’è convenienza al raggruppamento. Alcuni esempi sono:

- la concentrazione di lavorazioni simili in un solo reparto per utilizzare tecnologie più efficienti;

- la creazione di uffici centralizzati (nelle multinazionali) per gli acquisti, al fine di aumentare il potere contrattuale.

il secondo vantaggio, enfatizzato se si raggruppa in base alle competenze, è la ricerca di economie di specializzazione: raggruppando persone con competenze simili o uguali si può avere un significativo vantaggio sia per l’accumulo che per l’accrescimento delle conoscenze medie, per via dei confronti e delle interazioni (tratto marcato dei lavori knowledge intensive). In questo modo, l’organizzazione si garantisce una maggiore efficacia ed efficienza dell’attività. Un raggruppamento di questo tipo è quello che caratterizza gli uffici di ricerca e sviluppo.

I criteri orientati agli input si possono o trovare in imprese di produzione di massa (dove c’è una forte standardizzazione del prodotto e il margine di guadagno è ricercato sulla riduzione dei costi) o più in generale nelle attività dove si ricerca una grande efficienza.

i criteri orientati all’output, invece, garantiscono una maggiore integrazione di attività diverse lungo il processo di lavoro: si riesce a coordinare meglio le attività diverse perché esse sono collegate e il coordinamento riduce errori da un lato e migliora la qualità dall’altro. Integrare queste attività porta anche ad una maggiore capacità di rispondere al mercato in tempi brevi: il vantaggio ricercato quindi riguarda prevalentemente l’efficacia nella risposta al cliente in termini di qualità, tempi ma anche adattamento.

Per decidere quale criterio utilizzare bisogna capire quale valorizza meglio le interdipendenze esistenti (si verifica se le interdipendenze sono legate a prodotti, area geografica o cliente). In sostanza, per progettare le unità organizzative bisogna aver sempre chiare in mente le interdipendenze tra le diverse mansioni e attività. È anche possibile che un’impresa adotti contemporaneamente diversi criteri in base alla “parte” considerata e alle sue caratteristiche, per un maggiore bilanciamento tra efficacia ed efficienza.

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4.5 Il coordinamento tra unità organizzative La scelta di raggruppamento delle attività e delle mansioni in unità organizzative privilegia alcune interdipendenze tra attività rispetto alle altre. Queste altre interdipendenze dovranno quindi essere gestite con modalità alternative, affinché sia garantito il coordinamento complessivo e i processi aziendali non incontrino complicazioni: si ripropone dunque un problema di coordinamento, non più tra operatori ma tra unità organizzative. I principali meccanismi di collegamento o integrazione sono semplicemente degli strumenti specifici che integrano i meccanismi di coordinamento di base e sono tre:

meccanismo del distacco o dei ruoli di collegamento Questo meccanismo permette il coordinamento orizzontale di due unità organizzative mediante la definizione di un ruolo specifico, all’interno di un’unità, dedicato al coordinamento e all’integrazione con un’altra unità organizzativa. Ci sono diversi ambiti in cui si può applicare questa soluzione: per esempio, all’interno della funzione di produzione si può assegnare ad una persona il compito di coordinarsi con la progettazione al fine di individuare le scelte progettuali più adatte nel rispetto dei vincoli tecnologici. Questo meccanismo sfrutta principalmente il mutuo adattamento (la persona che opera il collegamento deve confrontarsi, infatti, con entrambe le unità), che può essere affiancato dalla standardizzazione degli obiettivi (si possono imporre dei target da raggiungere)

meccanismo dei manager integratori Quella dei manager integratori è una posizione simile a quella presentata prima ma caratterizzata da un ruolo più ampio, non limitato al coordinamento di due sole unità. Queste posizioni, inoltre, sono in genere super partes: gli individui che ricoprono questa carica non appartengono a nessuna delle unità coordinate. Esistono diverse tipologie di manager:

- il project manager (diffusi nel settore dell’impiantistica), una figura che nasce con l’obiettivo di coordinare persone appartenenti a diverse unità operative che lavorano insieme su un progetto di sviluppo di un prodotto o servizio o un progetto di innovazione (tipicamente gestisce persone che provengono da aree diverse e hanno competenze diverse);

- il product manager (tipico delle imprese che producono beni di largo consumo), utile in situazioni in cui si ricerca l’efficacia ed è necessaria coerenza tra le decisioni di variare funzioni (progettazione, produzione, vendita, …);

- l’account manager (tipico del settore dei servizi professionali), una figura a cui si affida la responsabilità dei rapporti con un certo cliente (o gruppo di clienti) e a cui viene dato il compito di coordinate le attività collegate a quel determinato cliente.

Il meccanismo di coordinamento utilizzato è ancora il mutuo adattamento, sempre affiancato dalla standardizzazione degli obiettivi.

team inter-funzionali Quello dei team inter-funzionali è un meccanismo di coordinamento che consiste nella creazione di organi temporanei o permanenti (costituiti da persone appartenenti a diverse unità organizzative) da dedicare ad una specifica attività o alla soluzione di un problema. Ci sono diversi esempi di applicazione di questo meccanismo, si pensi per esempio ai cosiddetti project team (comitati temporaneamente dedicati allo sviluppo di un prodotto, ...) o ai comitati di direzione (che invece sono un’attività specifica on-going, continuativa, che affianca la normale attività degli individui). La creazione di un team adibito facilita il mutuo adattamento. Altri meccanismi di coordinamento, in questo caso, possono essere la standardizzazione degli obiettivi e delle competenze. Molto spesso il leader del team è un manager integratore.

I meccanismi proposti sono di natura organizzativa, basati sull’introduzione di ruoli e sul coordinamento.

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Esistono anche altri sistemi di coordinamento non organizzativi, come per esempio: i sistemi di pianificazione e controllo, una soluzione di natura gestionale. Questi sistemi

nascono con l’obiettivo di definire per ogni unità organizzativa delle azioni auspicabili e degli output target, in modo gerarchico a partire dagli obiettivi dell’organizzazione, e di verificarne l’effettiva realizzazione. Grazie a questi sistemi si riesce ad implementare a livello di unità organizzativa la standardizzazione degli obiettivi e dei processi. Esempi di sistemi di pianificazione e controllo possono essere, ad esempio, il budget, i piani di miglioramento e i piani strategici.

l’utilizzo di sistemi informativi aziendali, una soluzione collegata all’utilizzo delle tecnologie ICT a fini integrativi. I sistemi informativi aziendali sono uno strumento che facilita il coordinamento tra le unità operative, in quanto garantiscono:

- una migliore trasmissione di informazioni lungo la catena gerarchica e quindi un migliore controllo della situazione (si pensi ai sistemi informativi di reporting);

- un migliore coordinamento tra unità organizzative vista la facilità di condivisione delle informazioni sensibili.

4.6 Le strutture organizzative Le scelte dell’ampiezza di controllo, della lunghezza della linea gerarchica, dei criteri di raggruppamento e dei meccanismi di collegamento permettono di delineare alcune strutture organizzative ideali. 4.6.1 La struttura semplice La struttura organizzativa più elementare è la cosiddetta struttura semplice: essa è una struttura poco articolata, cioè caratterizzata da poche unità organizzative al primo livello, generalmente raggruppate secondo criteri orientati agli input. In questa conformazione, tutte le decisioni sono accentrate nelle mani dell’imprenditore (o proprietario) o del management, mentre i collaboratori hanno solo dei ruoli esecutivi. Il livello di formalizzazione è generalmente basso, vista l’assenza di procedure o descrizioni formali di compiti e mansioni; il controllo e il coordinamento sono mediati attraverso la supervisione diretta e la standardizzazione delle competenze. Molto spesso, queste strutture sono definite sulla base delle competenze dei manager.

Un esempio di struttura semplice sono i gruppi di pari, organizzazioni professionali di piccole dimensioni (società di consulenza, studi legali, …) caratterizzate da una discreta omogeneità dei compiti svolti e da una complessità mediamente elevata. Ciascun professionista membro del gruppo mantiene grande autonomia nello svolgimento del suo ruolo, pur con il vantaggio di sfruttare spazi (per esempio una sede), servizi (come la segreteria o l’amministrazione) e il brand.

4.6.2 La struttura funzionale L’evoluzione più comune della struttura semplice (in funzione della crescita dimensionale e della specializzazione) è senza dubbi la struttura funzionale, una struttura organizzativa in cui al primo livello gerarchico ci sono delle unità organizzative progettate raggruppando le attività in base allo svolgimento di una funzione comune. Ecco alcuni esempi di funzioni in vari tipi di organizzazioni:

in un’azienda manifatturiera, le principali funzioni sono: - la funzione commerciale; - la funzione produzione; - la funzione ricerca e sviluppo; - la funzione logistica; - l’Amministrazione e Finanza; - i Sistemi Informativi; - la Gestione Risorse Umane.

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in un’impresa di servizi, invece, si possono distinguere: - la funzione commerciale e di vendita; - le funzioni di customer service; - la funzione di sviluppo di nuovi servizi e nuovi business.

Le strutture funzionali, nei livelli gerarchici inferiori al primo, possono articolarsi in diversi modi:

in alcuni casi si usano nuovamente criteri funzionali per ripartire nuovamente in unità organizzative la funzione;

in altri casi, invece, si adottano altri criteri orientati agli output (la tipologia organizzativa dipende però dalla scelta del criterio di raggruppamento del primo livello gerarchico).

Il vantaggio ricercato con la scelta di questa particolare struttura è senza ombra di dubbio l’efficienza della produzione, possibile perché:

da un lato si hanno dei vantaggi di costo, dovuti alla ricerca delle economie di scala e al concentramento dei volumi produttivi in un’unica unità organizzativa;

dall’altro lato, la ricerca delle economie di specializzazione permette elevati livelli di specializzazione e sviluppo delle competenze.

In secondo luogo, si persegue l’ottimizzazione locale delle singole funzioni aziendali. Le strutture funzionali per il coordinamento richiedono l’utilizzo della standardizzazione dei processi (necessaria per disaccoppiare le funzioni) ma anche la standardizzazione degli obiettivi. All’interno delle funzioni, invece, è molto utilizzata la supervisione diretta. I principali difetti delle strutture funzionali sono questi:

al crescere della dimensione aziendale, le strutture funzionali tendono ad essere caratterizzate da un’elevata burocratizzazione, che rende molto rigida la struttura aziendale e può causare problemi in caso di situazioni non contemplate dai formalismi.

c’è una mancanza di attenzione specifica su prodotti, clienti e mercati, fatto che riduce notevolmente l’efficacia e la velocità di risposta dell’organizzazioni ad un mercato variegato.

Per questi motivi, risulta conveniente l’utilizzo di queste strutture in corrispondenza di situazioni mono-prodotto e mono-mercato (o caratterizzate da un numero limitato di prodotti o clienti): in questo modo è possibile beneficiare della maggiore specializzazione e sfruttare le economie di scala. Allo stesso modo, un altro fattore molto importante è la prevedibilità: queste strutture sono adatte in situazioni statiche, in quanto rapide variazioni del contesto porterebbero a continue modifiche degli obiettivi e delle modalità di lavoro delle unità organizzative. Per superare i limiti di queste strutture senza rinunciare ai loro vantaggi è possibile integrare la struttura funzionale ideale con opportuni ruoli di coordinamento: la loro introduzione, ovviamente, comporta costi aggiuntivi non trascurabili, che devono essere valutati. 4.6.3 La struttura divisionale Un terzo tipo di strutture organizzative sono le cosiddette strutture divisionali: si tratta di una configurazione in cui, al primo livello gerarchico, si trovano delle unità organizzative raggruppate in base agli output. Queste unità organizzative prendono il nome di business unit o divisioni e costituiscono, a tutti gli effetti, delle sorte di aziende nell’azienda. Nelle strutture divisionali, ogni business unit possiede elevata autonomia decisionale per quanto riguarda il raggiungimento degli obiettivi prefissati: per questo motivo, uno dei più usati strumenti di coordinamento (per il primo livello gerarchico) è la standardizzazione degli obiettivi, ai manager della divisione vengono assegnati degli obiettivi target ed il compito di gestire nel modo migliore le risorse a disposizione per il loro raggiungimento. La definizione degli obiettivi della specifica business unit è resa semplice dal fatto che molto spesso le divisioni sono anche dei centri di costo, ossia sono responsabili (per uno specifico prodotto) tanto dei costi quanto dei ricavi: partendo da questi presupposti, è semplice calcolare la marginalità imputabile alla business unit e quindi ripartire correttamente gli obiettivi aziendali.

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Le strutture divisionali presentano diversi vantaggi e svantaggi: sono adatte a contesti turbolenti, che richiedono flessibilità: possiedono infatti una buona

capacità di adattamento alle mutazioni della situazione e una notevole rapidità di risposta alle richieste del cliente.

sono adatte a contesti multi-prodotto, multi-mercato e multi-cliente. si perde la possibilità di sfruttare i vantaggi derivanti dalle economie di scala e dalla

specializzazione. si riscontra un minore livello di coordinamento e coerenza tra le scelte dei diversi business

che impegnano l’organizzazione. Le business unit possono essere di tipi diversi:

strutture per prodotto In questo caso, si procede alla creazione di business unit dedicate a singoli prodotti o famiglie di prodotti. Il raggruppamento delle attività dedicate ad un singolo prodotto favorisce la coerenza e l’integrazione tra queste attività, aumentando così l’efficacia dei risultati.

strutture per cliente La struttura per mercato permette la creazione di business unit dedicate a tutte le attività necessarie per una certa tipologia di cliente, separando i diversi mercati cui si rivolge l’impresa. Questa particolare struttura garantisce una grande efficacia e rapidità di risposta alle specifiche richieste della clientela, senza rinunciare alle economie di scala se i volumi realizzati in ciascun segmento di mercato sono adeguatamente elevati.

strutture per area geografica Un ultimo modello di divisionalizzazione sono le strutture per area geografica: in questo caso, vengono create delle unità organizzative relativamente autonome e dedicate alle attività svolte in una certa regione o area geografica. Queste unità prendono il nome di filiali o subsidiaries e includono tutte le funzioni necessarie per progettare, realizzare e commercializzare i prodotti nell’area di riferimento. Questa struttura nasce con lo scopo di:

- rispondere in modo diversificato alle richieste dei clienti; - rispettare particolari esigenze e condizioni di lavoro; - rispondere alla necessità di vicinanza fisica ai mercati di sbocco.

Anche in questo caso, lo svantaggio riguarda tipicamente la perdita dei vantaggi di scala e specializzazione come conseguenza dell’aver privilegiato la capacità di risposta locale.

4.6.3.1 I costi delle strutture divisionali La grande diffusione di questa struttura nelle organizzazioni di grandi dimensioni, come per esempio le multinazionali, dipende essenzialmente da questi fattori:

innanzitutto, tanto le economie di scala quanto le economie di specializzazione hanno come requisito fondamentale l’omogeneità dei prodotti trattati. In imprese fortemente diversificate si otterrebbero limitati vantaggi di scala e specializzazione costituendo unità orientate alle funzioni.

in secondo luogo, la creazione di business unit è giustificata laddove la singola divisione riesce a sfruttare le economie di scala non in modo ottimale ma almeno in modo tale da “allineare” i costi con la concorrenza.

Per imprese che realizzano grandi volumi, la perdita di efficienza dovuta alla creazione di business unit è in genere limitata rispetto ai vantaggi della divisionalizzazione. Considero per esempio i casi A e B:

nel caso A, la differenza di costo dovuta alla divisione del volume è molto marcata per via delle ridotte quantità in gioco. Questo dimostra come una piccola impresa può incontrare grossi problemi in caso di divisionalizzazione.

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nel caso B, la differenza di costo è invece minima per via delle grandi quantità in gioco. Di conseguenza, questo dimostra come a volte i benefici che una grande impresa trae da una divisionalizzazione giustificano la minore efficienza data dall’impossibilità di sfruttare le economie di scala.

4.6.4 La struttura ibrida Dato che per la progettazione della struttura organizzativa si deve tenere conto dei trade-off tra forma divisionale e forma funzionale (bisogna valutare adeguatamente vantaggi e svantaggi di entrambe anche in funzione degli obiettivi dell’impresa), molto spesso si cerca di adottare una struttura ibrida, che mantiene i vantaggi delle varie forme. Queste strutture sono molto utili nei casi in cui gli obiettivi aziendali abbiano pesi diversi nelle varie parti dell’organizzazione: in questi casi può essere vantaggioso organizzare il primo livello gerarchico creando un mix di unità organizzative raggruppate secondo criteri funzionali e altre con criteri divisionali (anche con criteri di divisionalizzazione diversi). Il vantaggio di queste strutture è che si cerca, in funzione del tipo di attività dell’impresa, il criterio ottimale di raggruppamento: si adottano criteri funzionali o divisionali solo a seconda della situazione e della particolare attività in esame. Caso 4.3 – Cobra Automotive Technologies: lo sviluppo di una struttura ibrida L’azienda in questione è nata nel cosiddetto mercato after market di antifurti per auto. La sua organizzazione iniziale era di tipo funzionale, dato che:

ci si trovava in una situazione ragionevolmente mono-prodotto e mono-mercato; basando le competenze sulla tecnologia e sul processo produttivo si potevano avere enormi

vantaggi. L’espansione del business nel mercato origninal equipment prima e in quello degli antifurti per moto poi hanno portato ad un cambiamento della struttura. Ecco cosa è successo:

l’ingresso nel mercato original equipment (ossia l’installazione dell’antifurto durante assemblaggio dell’auto, mercato crescente) genera un problema: cambia il modo in cui ci si interfaccia al cliente. Cobra decide di riorganizzare la struttura organizzativa, ma una struttura orientata al cliente serve per le vendite e non sicuramente per le fasi di progettazione o produzione. Infatti:

- la parte vendite e marketing potrebbe avere dei vantaggi da una differenziazione per tipologia di cliente.

- la produzione non gioverebbe di questa ripartizione, perché c’è poca differenziazione di prodotto (poca customizzazione) e perché è importante sfruttare le economie di scala per rimanere leader del settore. Anche se la creazione di linee separate permetterebbe di avere una linea sempre pronta per il mercato original equipment (cosa che porterebbe ad una riduzione dei problemi di ripartizione dei carichi ed

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evasione degli ordini), lo sfruttamento delle economie di scala rimane più importante per il management.

- per quanto riguarda invece la progettazione, è evidente come una divisionalizzazione permetterebbe di progettare non a catalogo ma in modo più dedicato al cliente mentre mantenere un unico gruppo avrebbe come vantaggio una specializzazione delle competenze e un accentramento delle conoscenze (fattori che permettono di mantenere un buon tasso di innovazione).

un ragionamento simile è stato fatto in seguito all'ingresso nel business degli antifurti per moto.

La scelta di Cobra è quindi quella di creare una struttura organizzativa ibrida, che assecondi le peculiarità di ogni parte dell’organizzazione. L’ultimo step di innovazione è stato l’ingresso nel mercato dei servizi, con la quale si è passati dall’utilizzo di una tecnologia hardware a quello di una tecnologia software. Vista la grande diversità del prodotto, si decide di creare una business unit apposita (vista la rilevanza del servizio). Generalmente, le strutture ibride hanno il problema di non definire in modo adeguato i confini “esecutivi” di ogni business unit (o in generale di ogni parte del primo livello gerarchico). Queste strutture possono avere molte forme, anche se tipicamente:

le attività legate al mercato (marketing, vendite, customer service, ...), in cui pesano maggiormente la flessibilità, la capacità di adattamento al cliente e la personalizzazione, vengono divisionalizzate;

le attività di produzione (soprattutto nel caso di prodotti omogenei), in cui pesano maggiormente la specializzazione e lo sfruttamento delle economie di scala, adottano criteri di funzionalizzazione;

le attività di ricerca e progettazione costituiscono un caso particolare, in quanto la loro ripartizione dipende dalla particolare situazione (anche se, di solito, si funzionalizzano le attività di ricerca e si divisionalizzano quelle di progettazione e sviluppo).

4.6.5 La struttura a matrice Un’ultima struttura organizzativa che può essere utilizzata è la cosiddetta struttura organizzativa a matrice, che si utilizza quando i criteri divisionali e funzionali (oppure i vari tipi di criteri divisionali) hanno uguale peso nel raggruppamento delle attività. In questo caso, si può decidere di abbandonare il principio di unicità di comando procedendo con la creazione di diverse linee gerarchiche, per ognuna delle quali si adottano criteri di raggruppamento diversi. Un esempio può essere la gestione del marketing in un’impresa alimentare. Il responsabile infatti risponde tanto alla funzione marketing quanto alla direzione della produzione. Le principali caratteristiche di questa struttura, quindi, sono queste:

si ha una perdita dell’unicità di comando, dato che al posto di esserci un capo ce ne sono n (dove n è il numero di righe gerarchiche). Inoltre, ogni capo ha degli obiettivi specifici che vengono comunicati ai sottoposti.

si presidiano tutte le dimensioni rilevanti. Senza ombra di dubbio, questa è una delle strutture più problematiche e difficili da gestire:

per il coordinamento, vista la molteplicità di capi ed obiettivi; per i costi, visto il numero di capi presenti.

Proprio perché uno dei problemi di maggiore rilievo nella struttura a matrice è la duplicità dei comandi, spesso si assegnano pesi diversi alle diverse parti del primo livello gerarchico: in questo modo, si introducono delle priorità di responsabilità di alcuni capi rispetto ad altri. Ciò permette di fare una distinzione, per ogni individuo, tra:

i riporti gerarchici, molto forti in quanto il membro dell’organizzazione che si considera dipende gerarchicamente da un capo. I riporti gerarchici individuano la dimensione della

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matrice che ha maggior peso e che ha la responsabilità diretta della valutazione dei sottoposti (cosa che può influenzarne la carriera).

i riporti funzionali, più deboli in quanto individuano delle dimensioni secondarie che permettono di definire delle linee guida che, se contrastanti con l’altro riporto, vengono “messe da parte”.

Dato che i problemi derivanti da questa struttura sono molti (duplicità dei comandi, elevati costi di coordinamento, ridondanza delle risorse manageriali, …), generalmente si preferisce utilizzarla solamente in contesti con queste caratteristiche:

l’ambiente è molto complesso ed incerto; vi sono molteplici output critici da monitorare; la scarsità di alcune risorse spinge ad una loro condivisione flessibile.

Caso 4.5 – Adecco Italia La situazione di Adecco era questa:

non c’è un presidio adeguato dei clienti, c’è un problema di interfaccia multipla: se un’impresa si rivolge ad Adecco, deve contattare diverse business lines in base agli skill cercati.

rispetto al prodotto (cioè il tipo di candidato), c’è una grande specializzazione. Questo è un chiaro esempio di come la divisionalizzazione, in base al criterio adottato, può creare dei problemi.

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5. L’INFLUENZA DEL CONTESTO Una volta definiti i concetti di microstruttura e macrostruttura e le principali variabili che li caratterizzano, il passo successivo è cercare di riassumere in maniera sistematica l’impatto che il contesto ha sulle scelte organizzative. Quando si parla di influenza del contesto, si parte dai presupposti che:

non esistono organizzazioni “universali”, che si adattano alla perfezione in ogni situazione. L’osservazione empirica ha infatti dimostrato come:

- organizzazioni molto differenti possano avere la stessa efficacia organizzativa; - organizzazioni molto efficaci in un certo contesto falliscano in un altro (e viceversa).

le organizzazioni che presentano una maggiore coerenza con il contesto tipicamente hanno maggiori e migliori risultati (e quindi hanno una maggiore efficacia).

Il contesto in cui opera l’impresa generalmente è analizzabile secondo quattro dimensioni:

1. la dimensione ambientale Il concetto di ambiente è molto ampio, in quanto comprende due sottodimensioni:

- il contesto socioeconomico in cui opera l’impresa; - il contesto “industriale” (ossia il settore e il mercato) in cui opera l’impresa.

2. la dimensione tecnologica La tecnologia non è un fattore meno importante, in quanto è fondamentale verificare che le scelte organizzative siano coerenti con le tecnologie usate (intese come competenze, processi produttivi, macchinari, …).

3. la dimensione strategica La strategia è di importanza fondamentale, in quanto è posta in una relazione di mutua influenza con il contesto. Alcuni fattori appartenenti a questa dimensione sono la determinazione della mission, il vantaggio competitivo e le modalità di creazione del valore.

4. la dimensione anagrafica In ultimo luogo non si deve trascurare l’importanza dei fattori anagrafici, come per esempio:

- l’età e le dimensioni dell’impresa; - la collocazione nel ciclo di vita delle imprese.

A seconda del tipo di stadio in cui ci si trova, infatti, si potranno avere anche prodotti in fasi di vita diverse: ciò è rilevante nella progettazione della macrostruttura.

5.1 I fattori ambientali Una delle variabili da valutare per comprendere una qualsiasi organizzazione è l’ambiente in cui essa opera. Come già detto, si devono analizzare:

un concetto esteso di ambiente, ossia il contesto socioeconomico, e tutti i fattori legati al particolare luogo geografico (o ai luoghi) in cui l’impresa opera (come per esempio la cultura o le specifiche del paese considerato);

il settore o mercato in cui l’impresa opera, indipendentemente dal paese preso in considerazione, in quanto esso può cambiare significativamente l’impresa.

Vediamo ora più nel dettaglio questi due fattori. 5.1.1 Il contesto socioeconomico Parlando di contesto socioeconomico si fa riferimento a diversi elementi:

alle culture e ai comportamenti che caratterizzano aree geografiche diverse. agli assetti istituzionali e ai quadri normativi della zona considerata. Si possono infatti

compiere scelte organizzative molto diverse in base alle leggi sul mercato del lavoro e dei prodotti/servizi, sulle responsabilità amministrative, ... .

al mercato del lavoro stesso, che può essere inteso sia come facilità (o difficoltà) che si incontra nel reperire delle risorse necessarie nel mercato del lavoro sia come insieme delle caratteristiche e degli skill dei lavoratori richiesti (mobilità, titoli di studio, competenze, ...).

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5.1.2 Il mercato o settore: complessità ed incertezza Quando si studia invece il settore o mercato in cui l’organizzazione opera si fa tipicamente riferimento a due macro-caratteristiche, ossia:

incertezza dell’ambiente esterno L’incertezza dell’ambiente esterno è un fattore che condiziona l’organizzazione in quanto richiede capacità di adattamento e di risposta rapida. Essa è un concetto di fondamentale importanza in quanto misura:

- quanto è facile (o difficile) conoscere le caratteristiche del settore; - quanto può evolvere, in modo poco prevedibile, l’area di business stessa.

I livelli di incertezza e turbolenza possono essere considerati variabili da settore a settore, anche se in genere quelli meno incerti sono i mercati più maturi in cui:

- si conoscono tecnologie e si è in grado di sfruttare economie di scala; - è difficile l’ingresso di un nuovo competitor.

In generale, si può anche dire che l’incertezza è strettamente collegata con il tasso di cambiamento dell’ambiente e alla difficoltà che si incontra nella previsione di questo ambiente. L’incertezza dell’ambiente ha impatti organizzativi molto importanti.

complessità dell’ambiente esterno Un’altra caratteristica di sintesi dell’ambiente esterno è senza ombra di dubbio la sua complessità, che fa riferimento alla varietà di elementi che il management è costretto a prendere in considerazione e alla quantità di informazioni che devono essere processate. In generale, si può dire che un settore è complesso se è caratterizzato da un elevato numero di competitors/clienti/fornitori, da una grande quantità di tecnologie che devono essere utilizzate, ... . In poche parole, la complessità è proporzionale al numero di parametri che devono essere tenuti sotto controllo per una corretta gestione aziendale.

Complessità ed incertezza del settore o mercato sono concetti distinti, non necessariamente collegati: infatti, esistono situazioni in cui a fronte di un’elevata incertezza si ha una bassa complessità (si pensi per esempio al settore della moda) o viceversa (è il caso invece delle produzioni meccaniche). Per questo motivo, occorre essere in grado di analizzare separatamente incertezza e complessità. Ma quali sono le conseguenze, da un punto di vista organizzativo, dei diversi livelli di incertezza e complessità?

un’elevata incertezza porta a preferire delle organizzazioni che si adattano prevalentemente alla metafora organica, ossia dove:

- hanno grande importanza le risorse umane; - ci sono bassi livelli di formalizzazione; - si utilizza prevalentemente il meccanismo di coordinamento informale; - il livello di specializzazione è basso.

Se l’incertezza è invece bassa, si segue un ragionamento diametralmente opposto e convene seguire la metafora meccanica.

se invece si studia l’influenza della complessità, risulta molto importante questa considerazione “empirica”:

“Al crescere della complessità del contesto (cioè della complessità esterna) cresce la complessità interna dell’organizzazione (intesa come numero di livelli gerarchici e unità organizzative, ...).”

Seguendo questo ragionamento, risulta evidente come più sono gli aspetti che caratterizzano un determinato contesto più sono le persone o le unità organizzative che dovranno seguire questi aspetti (si pensi ad esempio alle enormi differenze tra imprese mono-cliente ed imprese pluri-cliente): l’incremento di complessità richiede infatti maggiori competenze. L’aumento della complessità interna dell’impresa porta ad maggiori livelli standardizzazione e formalizzazione: per questi motivi, in corrispondenza di elevata complessità si preferisce la struttura meccanica mentre con bassa complessità la struttura organica.

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Definite delle linee guida in base ai livelli di complessità, è di fondamentale importanza analizzare cosa succede in base alle diverse combinazioni di complessità ed indeterminatezza. Caso 5.1 – Mobiltekna e ABL Riassumiamo in una tabella le caratteristiche di Mobiltekna e ABL, due diverse realtà che sono situate nella stessa area geografica e in un settore simile:

MOBILTEKNA ABL

Maggiore dimensione degli ordini Complessità ↑ Maggiore numero di ordini Incertezza ↓

Maggiore personalizzazione Complessità ↑ Incertezza ↑

Settore più maturo Incertezza ↓

Complessità del processo di acquisto Complessità ↑

Anche se è molto importante sottolineare come questo sia un paragone relativo e non assoluto (il confronto sulla base di incertezza e complessità dipende dal particolare settore preso in considerazione), risulta evidente come:

Mobilitekna si trova in un contesto molto incerto e complesso, quindi sarà conveniente una struttura di tipo organico:

- minore specializzazione dei ruoli; - maggiore utilizzo del coordinamento informale; - standardizzazione più che altro degli obiettivi; - bassa formalizzazione.

ABL si trova in un contesto poco incerto e complesso, quindi sarà conveniente una struttura di tipo meccanico:

- maggiore specializzazione dei ruoli; - standardizzazione dei processi; - elevata formalizzazione.

Non ci sono invece grandi differenze in termini di complessità dell’organizzazione: entrambe sono infatti piccole imprese che operano in mercati concentrati, una maggiore complessità non sarebbe giustificata.

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5.2 I fattori tecnologici Il secondo fattore contingente che deve analizzato è il tipo di tecnologia che deve essere utilizzata. Il rapporto tra tecnologie ed organizzazione ha una rilevanza fondamentale: ogni volta che si verifica un “salto tecnologico”, infatti, emergono tanto nuovi modelli organizzativi quanto nuovi problemi e prospettive. Il legame tra tecnologia e organizzazione, tuttavia, è più complesso di quanto si possa immaginare. Si può parlare di una coevoluzione, in quanto:

da un lato lo sviluppo tecnologico produce cambiamenti organizzativi; dall’altro i fattori sociali e culturali che modificano le organizzazioni influenzano lo sviluppo

tecnologico. Quando si parla di fattori tecnologici si può fare una distinzione tra:

le tecnologie di processo utilizzate, che possono essere: - tecnologie industriali, cioè legate alla trasformazione fisica di input in output; - tecnologie di servizi, cioè utilizzate per l’erogazione di servizi (comportano in

genere una trasformazione di informazioni). le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT, ossia Information and

Communication Technologies), che permettono la gestione delle informazioni necessaria per il controllo dell’impresa.

5.2.1 Le tecnologie industriali Un modello classico molto utile per sintetizzare le relazioni tra le tecnologie industriali e l’organizzazione del lavoro è la cosiddetta matrice prodotto–processo. Essa è infatti uno strumento molto utile per stabilire un legame tra:

le caratteristiche dei prodotti, ossia volumi realizzati e varietà; le tecnologie industriali di processo, come sofisticazione della tecnologia e automazione.

In particolare, le caratteristiche principali di questa matrice sono le seguenti: in ascissa, si vede come al crescere del volume produttivo diminuisce la varietà dei prodotti; in ordinata, invece, si vede come al crescere del livello di automazione diminuiscono i costi

sostenuti. Le tipologie di produzione prese in considerazione sono:

la produzione unitaria (ad esempio la produzione cantieristica, aeronautica o navale) e la produzione in lotti ridotti (per esempio la produzione di prodotti da officina), casi in cui il sistema produttivo è normalmente in grado di realizzare un numero molto ampio di prodotti diversi e dunque di fornire una varietà molto elevata.

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la produzione di massa (per esempio l’industria automobilistica), caratterizzata da volumi di produzione maggiori e dalla realizzazione di campagne prolungate (e da tempi e costi di attrezzaggio elevati). In questo caso, la varietà della produzione è minore.

la produzione continua (per esempio le raffinerie), tipica di industrie di processo ad alta intensità di capitale in cui i prodotti sono in genere non numerabili in pezzi ma misurabili in unità dimensionali come peso o lunghezza.

Per quanto riguarda invece la realizzazione dei prodotti, essa dipende evidentemente dai volumi e dalle varietà da realizzare. In particolare si distinguono:

la produzione a cantiere, necessaria per esempio quando si vogliono realizzare prodotti unici in uno spazio fisico delimitato (senza spostare il prodotto stesso ma spostando le attrezzature, che convergono alla postazione). In questo caso:

- convivono risorse con specializzazioni differenti; - la supervisione e il mutuo adattamento sono i meccanismi prevalenti.

la produzione per reparti, adatta a produzioni estremamente variate e personalizzate realizzate o in piccoli lotti o per esemplari unici. In questo caso, è il prodotto a muoversi mentre le risorse sono raggruppate in aree secondo il criterio funzionale. Il ciclo tecnologico del prodotto prevede l’attraversamento dei vari reparti secondo sequenze flessibili, variabili da lotto a lotto. In questo caso:

- i livelli di sofisticazione e di automazione sono generalmente medio–bassi; - le tecnologie sono interfungibili, ovvero utilizzabili per scopi e prodotti diversi.

la produzione in linea, invece, è ispirata a criteri divisionali e fa riferimento a processi tecnologici più complessi e rigidi: in questo caso, le risorse usate vengono raggruppate in base all’omogeneità dell’output. Le linee, eventualmente, possono essere connesse (ossia possono contenere mezzi di movimentazione). La produzione in linea possiede queste caratteristiche:

- è adatta per produzioni poco variate ma caratterizzate da volumi elevati; - i livelli di standardizzazione verticale ed orizzontale sono in genere elevati; - i principali meccanismi di coordinamento sono la supervisione diretta e la

standardizzazione dei processi; Per rendere più motivante l’ambiente di lavoro, negli ultimi anni si ricorre sempre più alla creazione di gruppi di lavoro e al job enlargement.

la produzione a flusso, ideale per le produzioni dell’industria di processo. In questo caso: - i livelli di sofisticazione e automazione sono molto elevati; - il ciclo tecnologico è rigido e predeterminato; - il controllo tecnico è incorporato nel processo, agli individui viene dato un semplice

ruolo di controllo (e hanno il compito di intervenire in caso di emergenza); - ci sono formalismi piuttosto vincolanti, accompagnati dalla standardizzazione di

tecnologie e competenze. Le combinazioni ottimali si dispongono lungo la diagonale in quanto sarebbe stupido e privo di senso, per esempio, cercare di realizzare produzioni ad alto volume con un’organizzazione per reparti o produzioni in piccoli lotti con un’organizzazione in linea. 5.2.2 Le tecnologie dei servizi Il mondo dei servizi ha un’importanza fondamentale nel mercato moderno. I settori di servizio possono essere classificati in:

servizi di distribuzione, come per esempio distribuzione, commercio e trasporti; servizi alla produzione, come per esempio i servizi bancari, finanziari e assicurativi, le

consulenze, i servizi contabili e i servizi legali; servizi sociali, come per esempio l’istruzione, la sanità, l’assistenza, le organizzazioni non

governative e quelle no profit;

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servizi alla persona, come per esempio il turismo, la ristorazione, i servizi domestici e quelli legati a sport&fitness.

Come per i prodotti, è possibile creare una ripartizione anche per i servizi. In particolare sarà possibile fare una distinzione tra:

servizi professionali I servizi professionali hanno queste caratteristiche:

- sono fortemente personalizzati e danno grande importanza al contatto con il cliente (cioè alle attività di front office);

- le tecnologie di produzione sono “leggere” e hanno impatti organizzativi poco rilevanti;

- il livello di formalizzazione è basso e, in genere, vengono preferite le strutture di tipo organico;

- dal punto di vista macrostrutturale si tratta di strutture semplici o funzionali. In questo ambiente è grande l’importanza dei professionisti.

servizi di massa I servizi di massa hanno queste caratteristiche:

- la personalizzazione è modesta e le attività che non comportano un contatto con il cliente (quelle di back office) hanno un’importanza fondamentale;

- presentano elevata standardizzazione; - il ruolo della tecnologia è rilevante.

In questo ambiente è prevalente la presenza di mansioni operative, ristrette o allargate. In alcuni casi, il ruolo della tecnologia nei servizi di massa diventa tanto importante e la tecnologia tanto sofisticata che agli individui viene lasciato semplicemente un ruolo di controllo (e di intervento in casi estremi).

5.2.3 Le tecnologie ICT Le ICT hanno un ruolo fondamentale nella determinazione della struttura e delle strategie di un’organizzazione e, in questa fase storico–economica, sono il motore di numerosi processi di cambiamento sociale ed economico. Il rapporto tra l’organizzazione e queste tecnologie può essere studiato sulla base di queste cinque variabili:

1. coordinamento Il primo effetto rilevante delle ICT è la facilitazione del coordinamento delle attività. Le nuove tecnologie infatti consentono:

una più veloce comunicazione e condivisione delle informazioni e degli obiettivi; un rapido feedback dei dati di processo; l’utilizzo di meccanismi quali il mutuo adattamento anche a grandi distanze, senza

perdite di efficacia nonostante la dispersione geografica; una riduzione dei costi di coordinamento (si sposta la soglia di convenienza

dell’utilizzo di un meccanismo di coordinamento rispetto ad un altro, quindi meccanismi più semplici possono tornare competitivi: c’è un forte impatto sulla complessità).

un potenziamento delle strutture di tipo organico, per le quali il coordinamento informale ha un ruolo fondamentale.

Naturalmente, lo sviluppo delle ICT può portare allo sviluppo di nuove problematiche: un esempio è il cosiddetto information overflow (eccesso di informazioni), che può “paralizzare” l’organizzazione vista la difficoltà nel processare una grande quantità di dati.

2. dimensione Un secondo impatto fondamentale delle ICT riguarda la dimensione dell’impresa. Queste tecnologie, infatti, portano ad una migliore gestione della complessità e della mole di informazioni, fatto che porta ad una riduzione delle dimensioni.

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La riduzione dei costi di transizione e di coordinamento, inoltre, spinge molte imprese ad esternalizzare interi processi aziendali.

3. controllo Un altro effetto molto importante delle ICT sull’organizzazione è la facilitazione del controllo dei risultati. In molte aziende infatti le ICT vengono utilizzate per:

consentire accentramento decisionale; potenziare la gerarchia e la supervisione; consentire l’allargamento dell’ampiezza di controllo, cosa che permette il delayering

organizzativo (riduzione dei livelli gerarchici) e la formazione di lean organizations. In questo caso, i flussi informativi sono prevalentemente verticali. Il miglioramento del controllo porta inoltre a degli aumenti di efficacia e di tempestività della risposta.

4. unità ad hoc La rinnovata spinta di innovazione tecnologica e l’importanza strategica ed organizzativa delle ICT ha portato molte aziende a creare delle unità organizzative ad hoc. A queste unità viene dato il compito di gestire a livello centrale lo sviluppo delle tecnologie e delle applicazioni. Per questo motivo, in molte imprese si crea la posizione di CIO (Chief Information Officier).

5. gestione della conoscenza Un ultimo beneficio fondamentale delle ICT è che sono in grado di rendere più agevole l’accumulo e la gestione della conoscenza nelle organizzazioni. Si possono distinguere due diversi approcci:

approccio people-to-system Questo approccio è basato sulla codifica e sull’archiviazione dell’informazione. Le informazioni e le conoscenze a disposizione vengono prima opportunamente raccolte ed organizzate in strutture adeguate (processo di data warehousing), poi estratte con degli strumenti appositi (processo di data mining) in caso di necessità degli utenti. Questo approccio è molto efficiente (dato che permette un rapido reperimento delle conoscenza) ma possiede un grande limite intrinseco, ossia la codificabilità dell’informazione. In genere, viene adottato dalle società di consulenza.

approccio people-to-people Questo approccio è basato sull’interazione diretta tra gli individui. Le tecnologie utilizzate sono indirizzate o alla comunicazione multimediale tra gli utenti o alla creazione di appositi database che tengono traccia delle conoscenze possedute dai vari individui (interrogando il database, in questo modo, si “scopre” a chi ci si deve rivolgere). Questo approccio è tipico, ad esempio, delle società di manutenzione.

5.3 I fattori strategici La terza macrovariabile contingente che deve essere presa in considerazione è la strategia: in una visione molto deterministica e razionale, infatti, l’organizzazione può essere vista come uno strumento nelle mani del management utilizzato per l’attuazione della strategia ed il raggiungimento dei risultati e degli obiettivi. Da questa prospettiva, è evidente come la strategia guida le scelte organizzative e come l’organizzazione subisce dei mutamenti al variare della mission e della strategia. Il modo più semplice per definire una relazione tra strategia e organizzazione è fare una differenza tra le strategie competitive di base presentate da Porter (1980):

1. leadership di costo Quando adotta questa strategia, l’impresa mette sul campo delle azioni per ridurre i costi (di produzione, trasporto, …) in modo da essere al top nel settore. Avere dei bassi costi di produzione permette di abbassare i prezzi di vendita (mantenendo comunque discreti

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margini di guadagno), cosa che fa aumentare la quantità del venduto e di conseguenza il risultato economico ottenuto. I fattori che abilitano questa strategia sono questi:

il settore deve essere caratterizzato da economie di scala e/o da economie di apprendimento (il costo unitario di produzione deve diminuire per via dell’aumento delle competenze e dalla migliore ottimizzazione delle risorse);

le innovazioni di processo e di prodotto; la presenza di costi di approvvigionamento bassi.

Questa strategia enfatizza la ricerca di efficienza, economie di scala e controllo dei costi. Per questo motivo, l’adozione di queste strategie comporta l’utilizzo di strutture funzionali (a livello di macrostruttura, in modo da ridurre i costi e sfruttare i criteri di raggruppamento orientati agli input) e organizzazioni meccaniche (a livello di microstruttura, per sfruttare l’efficienza), caratterizzate da:

alta formalizzazione; standardizzazione dei processi; supervisione diretta; accentramento dei processi decisionali.

2. differenziazione e attrattività Le imprese che adottano questa strategia cercano di aumentare tutte le caratteristiche che rendono unico il prodotto o servizio, fatto che si riflette su un aumento del margine di profitto unitario (si ha un premio di prezzo, i consumatori sono disposti a pagare di più per acquistare) che compensa i costi di produzione maggiori. Esistono due diversi differenziali di attrattività:

differenziali di immagine (marchio, pubblicità, …), che non conferiscono al prodotto o servizio un effettivo miglioramento. Essi richiedono grandi investimenti e sono difficili da mantenere nel tempo per via della rilevanza dell’opinione pubblica (un eventuale cliente scontento ha un grande impatto mediatico).

differenziali reali, come per esempio: - una qualità, sia essa tecnica (prestazione del prodotto, …) o percepita (che

dipende dall’impressione trasmessa al consumatore e dipende, quindi, dal particolare “rapporto” che si instaura tra lui e il prodotto, dal grado non misurabile di soddisfazione), maggiore rispetto ad altri prodotti;

- un tempo (inteso, a seconda del settore, come tempo di consegna, di intervento in caso di guasto, …) di reazione migliore rispetto a dei competitors;

- una maggiore cura per l’ambiente (zero emissioni, prodotti bio, …), che può influenzare positivamente il consumatore.

Queste strategie sono basate sull’innovazione e richiedono l’adozione di una struttura organica (a livello di microstruttura, perché aumenta l’efficacia) e i modelli divisionale o a matrice (a livello di macrostruttura, il secondo se ci sono diversi fattori da considerare).

Negli ultimi anni sta assumendo sempre più importanza è il bilanciamento tra: - il focus esterno, ossia l’attenzione per la remunerazione degli investitori; - il focus interno, ossia l’attenzione per la soddisfazione dei lavoratori, considerati

funzionali al raggiungimento dei risultati esterni. Un focus interno ha un grande impatto sulle scelte organizzative, in quanto può influire sui processi di job enrichment e job enlargement e può portare a ridurre la specializzazione.

5.4 I fattori anagrafici Le organizzazioni sono influenzate anche da un insieme di fattori che possono essere definiti anagrafici, come per esempio:

l’età e la dimensione dell’impresa; il posizionamento nel ciclo di vita dell’impresa.

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Le spinte verso la crescita portano indubbiamente a dei cambiamenti organizzativi rilevanti. Sulla base dei fattori prima presentati, si possono fare delle distinzioni tra:

imprese piccole, intese o come imprese di piccole dimensioni o come imprese “giovani”, caratterizzate da:

- struttura semplice; - modello organico; - bassa formalizzazione; - bassa specializzazione; - coordinamento informale (prevalentemente con mutuo adattamento o supervisione

diretta); - grande attenzione per il prodotto e per l’idea imprenditoriale, per la flessibilità e per

la rapidità di risposta al mercato. imprese grandi, che sviluppandosi hanno incontrato un aumento della complessità (che ha

portato a cambiamenti organizzativi). Queste imprese sono caratterizzate da: - struttura funzionale (o divisionale o a matrice, in base alla complessità); - modello meccanico; - elevata formalizzazione; - elevata standardizzazione dei processi; - ricerca delle economie di scala; - coordinamento e controllo più sofisticati.

Il processo di crescita e di trasformazione può essere descritto attraverso il cosiddetto modello di Greiner (1972), un modello molto noto nel quale si individuano:

cinque stadi di crescita, periodi nei quali le caratteristiche organizzative dell’impresa sono pressoché stabili;

cinque stadi di crisi, che sanciscono il passaggio da uno stadio all’altro, in cui si manifesta un problema che viene superato solo grazie ad un cambiamento radicale a livello di organizzazione.

Ecco ora une breve descrizione degli stadi e delle crisi presentati: stadio della creatività

Questa è la prima fase della crescita dell’impresa, quella che coincide la fase imprenditoriale fondativa in cui si ha una focalizzazione sulle attività operative (sulla produzione di beni o sull’erogazione di servizi, oltre che sulla loro vendita). In questa fase, l’impresa appena lanciata cerca di affermarsi sul mercato.

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In genere: - è un’organizzazione semplice e poco struttura; - la comunicazione è informale, prevalentemente basata sul mutuo adattamento.

crisi di leadership Al crescere delle dimensioni dell’impresa, la focalizzazione sugli aspetti operativi porta alla prima crisi. Nasce nell’esigenza della presenza di un leader a livello manageriale che guidi l’operato dell’organizzazione, per spostare il focus dalle attività operative a quelle strategiche in modo da sconfiggere i competitors sul mercato. Se ciò non avviene, l’impresa va incontro a diversi svantaggi quali l’impossibilità di una crescita maggiore, la perdita di opportunità e la nascita di problemi gestionali. Il nuovo ruolo manageriale può essere assunto:

- dall’imprenditore stesso; - da uno dei manager dell’impresa, che intraprende un percorso di crescita; - da un manager assunto dall’esterno per migliorare la situazione.

stadio della direzione Superata la prima crisi si arriva nel secondo stadio, in cui il management fornisce delle direttive e struttura l’organizzazione. In particolare, vengono introdotte:

- una maggiore formalizzazione; - una standardizzazione dei processi.

In questa fase si ha un grande senso di entusiasmo, dato che i dipendenti sviluppano un grande senso di appartenenza; la presenza di un leader manageriale, tuttavia, porta inevitabilmente ad un forte accentramento decisionale.

crisi di autonomia Il forte accentramento decisionale è la causa della seconda crisi: i manager “meno considerati” vogliono un maggiore potere decisionale e sono scontenti della loro marginalità nei processi di decisione più importanti. La leadership, in genere, non viene messa in discussione: viene semplicemente richiesta una maggiore autonomia.

stadio della delega Per superare la seconda crisi si introduce una struttura caratterizzata da un maggiore decentramento decisionale: la macrostruttura si evolve verso forme divisionali, che consentono la creazione di nuovi ruoli dedicati a prodotti o mercati (e l’azienda può crescere nuovamente grazie alla rinnovata spinta dei manager intermedi).

crisi di controllo La frammentazione dell’organizzazione (a causa della creazione di nuove divisioni) innesca una nuova crisi. Il top management dell’impresa teme di perdere visibilità e controllo in favore del nuovo management intermedio.

stadio del coordinamento La crisi di controllo viene superata mediante un maggiore utilizzo della formalizzazione, che comporta ad esempio:

- il rafforzamento dei sistemi di reporting; - ruoli più formalizzati; - procedure più stringenti.

crisi di burocrazia L’eccessiva adozione di norme e di procedure porta ad una nuova crisi, che si manifesta specialmente in concomitanza di cambiamenti tecnologici e/o di mercato (come crisi economiche) di fronte ai quali un’organizzazione troppo rigida (per via dei formalismi) può incontrare difficoltà.

stadio di collaborazione L’uscita dalla crisi burocratica porta ad un recupero dello spirito di squadra e di appartenenza: le norme non vengono eliminate (sarebbe impossibile per un’organizzazione complessa di grandi dimensioni stare senza), il lavoro di gruppo acquisisce una maggiore

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importanza e si impara a convivere con le norme. Contestualmente, si ha un ritorno almeno parziale alle strutture organiche.

crisi di rivitalizzazione Anche questo ultimo stadio può andare incontro a nuove problematiche e si può giungere ad un nuovo stadio di crisi, quando l’organizzazione ormai matura viene percepita come lenta, inadeguata al contesto, e ha bisogno di un rilancio. Gli esiti di questa crisi possono essere:

- il declino più o meno lento, se l’impresa non è più in grado di sopravvivere; - una maturità continuata, se l’impresa riesce a sopravvivere nel mercato dando

continuità alle sue performances; - uno snellimento, se l’impresa riesce a superare la crisi e a rilanciarsi più forte di

prima. Quello di Greiner è un modello ideale e presenta alcuni limiti: le organizzazioni infatti non attraversano necessariamente tutti gli stadi presentati, soprattutto dato che il processo evolutivo è largamente influenzato dalla velocità di sviluppo del mercato.

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6. I PROCESSI DECISIONALI Tutte le organizzazioni sono caratterizzate da decisioni, che ne determinano il successo o il fallimento. Le decisioni possono apparire in diversi modi al decisore:

in alcuni casi, il contesto appare all’individuo con chiarezza e il decisore è quindi in grado di comprendere immediatamente la posta in gioco (sia nel caso si verifichi un problema sia nel caso si manifesti un’opportunità);

in altri casi, invece, la decisione non viene avvertita come rilevante e critica e i decisori non si accorgono della sua portata (non colgono l’importanza delle conseguenze);

in altri casi ancora, infine, le decisioni sono semplicemente il frutto di processi che da un punto di vista organizzativo appaiono lenti e confusi.

In generale, quindi, si può fare una prima distinzione tra:

decisioni organizzative consapevoli, che sono basate su processi di identificazione, analisi e risoluzione dei problemi;

decisioni organizzative inconsapevoli, se per caso gli esiti non possono essere facilmente previsti.

Piuttosto che di decisioni in realtà si dovrebbe parlare di processi decisionali, intesi come insieme di fasi (e attività) che portano alla scelta (e poi all’implementazione) di una determinata azione, date delle alternative a disposizione. I processi decisionali:

hanno un ruolo fondamentale a livello aziendale; riguardano in genere l’intero sistema organizzativo (non coinvolgono singoli individui); hanno queste caratteristiche:

- si parla di “processo decisionale” e non di “decisione”: la decisone, infatti, può essere vista quindi come l’output di un processo. Il processo decisionale non riguarda semplicemente la scelta, include le attività preparative di problem setting.

La decisione, in realtà, dovrebbe essere vista come una sorta di output intermedio (e non di output finale): una volta fatte delle scelte, bisogna anche implementarle.

- i processi decisionali hanno termine nella cosiddetta fase di monitoraggio: una volta implementata la decisione, è importante verificare se le conseguenze sono quelle attese.

Una verifica è molto importante, perché serve tanto per la specifica decisione (per valutare gli esiti e per attuare delle azioni correttive) quanto per decisioni future (per l’apprendimento, per aumentare le conoscenze a disposizione per supportare le decisioni future).

6.1 Programmazione, rischio e ruoli organizzativi Le decisioni che vengono prese dalle imprese possono essere classificate secondo diversi criteri:

1. decisioni programmate o non programmate Un primo criterio di distinzione è la programmabilità. Si può infatti fare una distinzione tra:

decisioni programmate, legate a problemi ripetitivi e ben definiti, per i quali esistono metodologie di risoluzione e procedure consolidate. In questo caso:

- le informazioni necessarie sono disponibili; - i criteri di scelta sono chiari; - l’organizzazione si predispone in anticipo ad affrontare il problema.

Esempi di decisioni programmate sono la programmazione della produzione (settore manifatturiero) o la programmazione dell’utilizzo della flotta (compagnia aerea).

decisioni non programmate, che vengono affrontate senza una preparazione specifica. In questo caso:

- le decisioni sono nuove; - non ci sono a disposizione metodologie e procedure prestabilite;

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- non esistono esperienze pregresse; - le informazioni o non sono disponibili o sono difficilmente reperibili.

Esempi di decisioni non programmate sono l’entrata nel mercato di un nuovo competitor o il blocco di un impianto.

Tanto per le decisioni programmate quanto per le decisioni non programmate bisogna tenere in considerazione un ulteriore fattore, la tempestività. Nei processi decisionali, infatti, il tempo ricopre un ruolo fondamentale e le organizzazioni molto spesso si trovano costrette a compiere delle scelte in tempi molto ridotti.

Negli ultimi anni sono stati condotti molti studi sulla velocità decisionale e si è giunti alla conclusione che è meglio prendere tante decisioni, alcune delle quali sbagliate, piuttosto che ritardare le scelte cercando la soluzione ottimale. Non decidere (o procrastinare le decisioni), infatti, equivale a non fare nulla e molto spesso questo porta a conseguenze negative. La velocità dei processi decisionali è notevolmente aumentata:

- dall’utilizzo delle tecnologie dell’informazione (ICT), che facilitano la comunicazione anche a grandi distanze;

- dal decentramento dei processi decisionali mediante meccanismi di delega; - dall’utilizzo di sistemi di decisioni automatizzati, dove si riduce l’intervento umano

(per esempio nei sistemi di produzione). 2. decisioni ricorsive o non ricorsive

Un secondo criterio di distinzione è la ricorsività. Si può infatti fare una distinzione tra: decisioni ricorsive, che fanno riferimento a problemi che sono prevedibili o

addirittura ripetitivi. In questo caso, l’organizzazione possiede già delle conoscenze adeguate e quindi si concentra direttamente sulla risoluzione del problema.

decisioni non ricorsive, legate a problemi nuovi che si verificano in modo del tutto inaspettato e coinvolgono il management in una nuova analisi e impostazione del problema decisionale.

3. decisioni strategiche o operative Nel mondo reale, tutte le decisioni sono caratterizzate da rischio o incertezza ed è difficile che le soluzioni identificate abbiano esiti completamente certi. Nei processi decisionali si devono tenere in considerazione molte variabili, difficili da controllare, come per esempio le mosse dei concorrenti, lo sviluppo tecnologico e il quadro normativo.

Sulla base di rischio e incertezza, come si vede nel grafico, si può fare una distinzione tra: decisioni operative, che vengono prese in condizioni di rischio e incertezza ridotti. Si

tratta in genere di decisioni programmate e più nel dettaglio si ha che: - mansioni operative ristrette: decisioni programmate a basso rischio.

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- mansioni operative allargate: decisioni anche non programmate ma sempre a basso rischio.

decisioni strategiche, che vengono prese in condizioni di rischio e incertezza elevati. Si tratta di decisioni spesso non programmate e più nel dettaglio si ha che:

- mansioni manageriali di medio–basso livello: decisioni programmate o non programmate a medio rischio.

- mansioni manageriali di alto livello: decisioni non programmate e ad alto rischio.

Per quanto riguarda le mansioni professionali, infine, si tratta di decisioni non programmate con rischio variabile.

6.2 La razionalità limitata Per la teoria economica classica il decisore è un soggetto perfettamente razionale. Si assume, cioè, che il soggetto economico sia:

sempre consapevole, ossia si suppone che abbia ben chiari i propri obiettivi; pienamente informato, ossia si suppone che conosca tutte le alternative da valutare; senza incertezze, ossia si suppone che conosca perfettamente gli esiti di ogni possibile

alternativa. Si suppone, cioè, che il decisore sia in grado di analizzare in modo sistematico gli elementi del problema e del contesto circostante in modo da determinare tutte le alternative a disposizione e selezionare quella che più contribuisce all’obiettivo (utilizzando dei criteri di ottimizzazione). Nella realtà, invece, il principale problema dei processi decisionali è la razionalità limitata dei decisori. Per vari motivi, infatti, i soggetti che vengono considerati non si possono definire pienamente razionali in quanto almeno una delle caratteristiche presentate non è verificata: a causa di questo fatto, non sempre è possibile determinare una soluzione ottima. Non si deve confondere il concetto di razionalità limitata con quello di irrazionalità. Nelle organizzazioni, le decisioni non sono illogiche o casuali ma sono limitate da alcuni fattori:

la difficoltà di definire una funzione obiettivo, in quanto spesso i decisori antepongono altri obiettivi al profitto o addirittura hanno obiettivi divergenti (in contrasto tra di loro);

l’incertezza, che insieme alla limitatezza delle informazioni a disposizione riduce la possibilità di generare un insieme esauriente di alternative;

la pressione del tempo e la necessità di prendere rapidamente delle decisioni, che rende problematica se non impossibile un’analisi completa e dettagliata;

l’eventualità di ritardi nelle decisioni, che possono far perdere delle opportunità e ritardare l’inizio delle attività (inoltre, c’è il rischio che il contesto cambi);

la “non-decisione”, in quanto non decidere o procrastinare equivale sostanzialmente a decidere di non fare nulla (se non si considera lo status quo come possibile alternativa si corre il rischio di non rendersi conto che non apportare dei cambiamenti porta ad una situazione peggiore delle altre alternative);

la richiesta di molte risorse, problema fondamentale tanto da un punto di vista economico quanto da un punto di vista temporale (nel valutare le diverse alternative si devono sempre prendere in considerazione i trade-off tra tempi e costi);

l’indifferenza tra alcune alternative, dato che ci si potrebbe trovare in una situazione in cui le alternative sul tavolo sono uguali dal punto di vista dei risultati per via della molteplicità degli obiettivi da considerare (l’indecisione provoca un blocco del processo decisionale, in questo caso si ha un maggiore vantaggio nell’agire in modo intuitivo).

Una delle principali conseguenze della razionalità limitata dei decisori è l’adozione dei criteri di soddisfacimento: non si ricerca una soluzione ottima, ci si accontenta di un’alternativa soddisfacente.

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6.3 Le decisioni nelle imprese Gestire quotidianamente un’organizzazione significa, di fatto, essere in grado di prendere una grande quantità di decisioni consapevoli che riguardano molteplici aspetti e caratterizzano tutti i livelli. Le decisioni consapevoli possono essere viste come dei processi che iniziano con l’identificazione del problema e che terminano quando la soluzione selezionata viene implementata. In particolare, possiamo distinguere all’interno di questo processo due fasi distinte:

1. il problem setting, ossia la fase di identificazione del problema, che include la percezione del problema, la definizione degli obiettivi e l’analisi dei fattori rilevanti della scelta.

2. il problem solving, ossia la soluzione del problema, che include l’identificazione delle alternative possibili e la loro valutazione (in termini di coerenza con gli obiettivi e soddisfacimento degli stessi), la scelta della soluzione migliore, la sua implementazione e infine il controllo dei risultati ottenuti.

Naturalmente, nella realtà il confine tra problem setting e problem solving può essere minimo: a volte infatti i decisori, durante l’analisi del problema, iniziano a pensare a delle soluzioni e a valutarle, per poi tornare ad analizzare la realtà se non soddisfatti (si ricordi che il decisione è caratterizzato da razionalità limitata).

Negli ultimi anni, la concentrazione si è spostata dal problem solving e dalle tecniche di ottimizzazione al problem setting e alla capacità di identificare e impostare correttamente il problema.

6.4 Il problem setting Ogni decisione presuppone la volontà da parte di chi compie la scelta di raggiungere uno o più obiettivi, per quanto essi possano essere ambigui. Per questo motivo, l’identificazione degli obiettivi e il loro impatto sugli attori che intervengono nel processo decisionale è di fondamentale importanza. In un contesto aziendale, gli obiettivi sono definiti da un insieme di soggetti (il management) che operano e decidono in nome e per conto dell’organizzazione. All’interno della fase di problem setting si possono distinguere diverse sotto-fasi:

1. l’innesco del processo decisionale; 2. la determinazione degli obiettivi; 3. l’individuazione dei vincoli; 4. la costruzione di modelli.

6.4.1 L’innesco del processo decisionale I processi decisionali sono sempre innescati dal manifestarsi di determinati eventi, come per esempio:

la nascita di un problema, come un malfunzionamento durante una prestazione; eventi interni all’impresa o esterni, cioè che si verificano nel contesto in cui l’impresa opera,

che potrebbero deteriorare sul lungo termine le prestazioni. L’innesco del processo decisionale, ovviamente, può essere più o meno evidente (e preciso):

la segnalazione di un problema durante l’analisi delle prestazioni annuali è un innesco preciso, in quanto il report e il problemi segnalati innescano l’azione dei responsabili competenti;

il verificarsi di un problema inaspettato nel processo produttivo, come il fallimento di un fornitore, non costituisce un innesco preciso;

la nascita o lo sviluppo di nuove tecnologie, così come la loro valutazione in termini di capacità di supportare il raggiungimento degli obiettivi dell’impresa, è una situazione in cui non è possibile determinare in modo preciso e chiaro l'innesco del processo decisionale.

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Le caratteristiche principali dell’innesco sono quindi: la chiarezza e la precisione; il tempismo, ossia la capacità del decisore di avviare per tempo i processi decisionali

(bisogna essere in grado di cogliere anche i segnali più deboli). 6.4.2 La determinazione degli obiettivi Una volta che il processo decisionale è stato innescato, diventa necessario determinare quali sono gli obiettivi che vogliono essere raggiunti dai decisori mediante l’implementazione della decisione. Gli obiettivi prefissati possono essere diversi, come ad esempio:

aumentare la soddisfazione dei dipendenti; aumentare il livello di automazione dei processi; introdurre delle nuove tecnologie.

In poche parole, cioè, è necessario capire su quale (o su quali) performance intervenire. Dato che la realtà è caratterizzata da una razionalità limitata, insieme agli obiettivi devono essere definiti dei livelli target di soddisfacimento ritenuti accettabili (che verranno puoi utilizzati come criteri di scelta). Nel processo di determinazione degli obiettivi possono essere incontrati diversi problemi:

molteplicità degli obiettivi Un aspetto ricorrente in molti processi decisionali è la compresenza di più obiettivi, spesso in contrasto (trade-off) tra di loro. La presenza di più obiettivi può essere dovuta:

- alla molteplicità di attori decisionali che intervengono e interagiscono nei processi di decisione (raramente è un singolo soggetto a prendere delle decisioni, molto più spesso si tratta di gruppi di persone). Questi soggetti hanno ciascuno interessi e scopi diversi, differenti, a volte addirittura contrastanti con quelli degli altri.

- all’esistenza di rischio e incertezza nel processo decisionale, che portano i decisori a prendere in considerazione più obiettivi (come la massimizzazione del risultato insieme alla minimizzazione del rischio).

La molteplicità degli obiettivi decisionali è problematica in quanto in genere la soluzione che migliora un obiettivo particolare ne peggiora altri: si pensi per esempio alle alternative che possiedono il massimo risultato atteso, che in genere sono caratterizzate da una maggiore deviazione del risultato stesso (è maggiore la probabilità che il risultato effettivo si scosti, anche di molto, dal risultato previsto e auspicato). Per questo motivo, per agevolare le decisioni si può prendere in considerazione la cosiddetta curva del trade off.

fattore tempo Il fattore tempo ha un ruolo determinante nelle decisioni multi-obiettivo con trade-off. È possibile infatti che ci siano determinate alternative che danno risultati migliori nel breve termine e altre che, benché inizialmente meno attraenti, danno risultati migliori sul lungo termine (in genere, aspettare significa avere risultati migliori ma anche più rischiosi). La scelta tra un risultato nel breve o lungo termine dipende:

- dalla propensione del decisore per il rischio e dalla sua capacità di attendere i risultati;

- dalla situazione contingente dell'impresa, in quanto un’organizzazione che si trova in difficoltà sarà sicuramente propensa a favorire ritorni immediati per quanto minori.

molteplicità degli indicatori di prestazione Aver definito l’obiettivo (o gli obiettivi) non è sufficiente. Vanno infatti definiti per ogni obiettivo:

- un target, ossia un livello obiettivo di soddisfacimento; - un orizzonte di previsione; - un indicatore di prestazione, da utilizzare per misurare i risultati.

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La presenza di una grande quantità di indicatori di prestazione può costituire un problema, in quanto gli indicatori utilizzati per valutare un processo influenzano gli obiettivi e quindi le decisioni.

6.4.3 L’individuazione dei vincoli La terza fase del problem setting è la cosiddetta individuazione dei vincoli. In ogni processo decisionale, infatti, esistono dei vincoli di varia natura (tecnologici, finanziari, normativi, organizzativi, ...), dei limiti posti alla libertà di azione e di decisione degli individui. Da questo punto di vista, i vincoli in una decisione sono per certi versi simili agli obiettivi: c’è una dimensione di prestazione da valutare, ma a differenza degli obiettivi (in cui si cerca per quanto possibile di raggiungere l’ottimalità, sia essa locale o globale) per i vincoli è sufficiente che ci sia una verifica/soddisfacimento. Ma da cosa possono derivare i vincoli decisionali? È molto importante saperlo per essere in grado di:

riconoscerli e quindi prenderli in considerazione; sapere quanto sono flessibili (se troppo rigidi, possono non esserci delle alternative ad

alcune decisioni). I vincoli possono derivare da:

fonti esterne all’azienda Questo è il caso per esempio di tutti i vincoli che derivano dall’ambiente competitivo, come per esempio delle prestazioni. Si pensi ad esempio al tempo di consegna (che può essere vincolato da accordi presi con il cliente o dagli standard del mercato) o al costo della manodopera (che può essere vincolato da accordi sindacali). Un altro fattore esterno di importanza non minore sono le normative ambientali, che stanno acquistando un’importanza sempre più rilevante.

fonti interne all’azienda Alcuni esempi di vincoli imposti dall'interno possono essere:

- le decisioni di livello superiore, ossia tutti quei vincoli che vengono imposti al decisore da individui che ricoprono una posizione più alta nella scala gerarchica organizzativa (come per esempio i vincoli di budget);

- le decisioni pregresse, spesso sottovalutate ma molto importanti (le decisioni che vengono prese da un’impresa sono spesso vincolate dalle decisioni che sono state prese in passato, per questo motivo è molto importante valutare le implicazioni future delle decisioni correnti).

Una volta riconosciuti i vincoli, è necessario valutarne la rigidità ed eliminare i vincoli presunti (limitazioni poste dai decisori in quanto ritenute necessarie ma che potrebbero invece essere rimosse). 6.4.4 La costruzione di modelli Una volta terminata la parte definizione di vincoli ed obiettivi, si passa alla fase fondamentale del problem setting: la modellazione. Un modello può essere definito come una rappresentazione selettiva e semplificata della realtà. Essi sono fondamentali nei processi decisionali in quanto consentono di limitare la quantità di dati che devono essere analizzati. Sono fondamentali:

la capacità di selezionare le variabili rilevanti; la capacità di definire le variabili, cioè di specificare la natura di ogni variabile.

Lo scopo di un modello decisionale è identificare i fattori rilevanti per la decisione e i nessi causali che li legano. Per questo motivo, le variabili devono essere classificate come:

variabili decisionali (D), che sono definite in ambito decisionale e sono le leve controllabili dai manager (per esempio, nelle decisioni di marketing possono essere la scelta del canale di distribuzione, il target di clienti e il messaggio di promozione);

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variabili ambientali (A) o esogene, fattori non controllabili e su cui il decisore non può agire nell’ambito della decisone ma che condizionano il risultato della decisione (come per esempio, in una scelta pubblicitaria, il numero di clienti che legge una testata giornalistica);

variabili endogene (E), ossia i risultati, gli effetti e le conseguenze delle decisioni e delle variabili ambientali. Nella costruzione di un modello, gli obiettivi da perseguire diventano variabili endogene.

Si ha quindi che: 𝐄 = 𝒇(𝐀;𝐃)

Nei processi reali, tuttavia, ci sono ulteriori complicazioni:

accade di frequente che le leve decisionali non abbiano effetti diretti e immediati sulle variabili endogene. Spesso infatti le decisioni producono effetti intermedi, che contribuiscono agli effetti finali (sono quindi “passaggi” strumentali, necessari per il conseguimento dell’obiettivo): si parla di variabili endogene strumentali (E’).

a volte le decisioni manageriali producono risultati non voluti, degli effetti collaterali: si parla di variabili endogene collaterali (E’).

un ultimo fattore rilevante e non trascurabile è il tempo, che deve essere preso in considerazione nella modellazione.

Una versione più dettagliata della formula prima presentata è quindi questa: 𝐄𝐭 = 𝒇𝐭(𝐀𝐭; 𝐃𝐭; 𝐄′𝐭)

Inoltre, si può dire che:

per le variabili endogene, l’aspetto critico riguarda la scelta degli indicatori; per le variabili ambientali, l’aspetto critico riguarda la stima del valore futuro; per le variabili decisionali, l’aspetto critico riguarda l’ampiezza di manovra dei decisori.

Bisogna inoltre considerare che il modello della realtà risente fortemente della prospettiva dell’attore decisionale: attori diversi inseriti in uno stesso contesto potrebbero infatti formulare modelli diversi e questa è potenzialmente una fonte di conflitto organizzativo. 6.4.4.1 La modellazione mediante mappe causali In molti processi decisionali non è possibile o necessario arrivare ad una formulazione analitica completa delle relazioni tra variabili, per esempio per l’eccessiva complessità e per la quantità di tempo necessaria. Spesso è infatti sufficiente conoscere le relazioni di causalità tra le variabili, rinunciando a una rappresentazione formale della relazione. Le mappe causali sono una metodologia qualitativa che permette di descrivere in modo semplice e sintetico le relazioni di causa–effetto di un modello. Esse non sono altro che grafi composti da:

i nodi, che indicano le variabili rilevanti; gli archi, che vengono orientati e contrassegnati da un + o un –, che rappresentano i nessi

causali. In particolare si ha che: - gli archi positivi rappresentano un legame in cui al crescere della variabile causa

cresce anche la variabile effetto (e viceversa); - gli archi negativi rappresentano un legame in cui al crescere della variabile causa

decresce la variabile effetto (e viceversa). 6.4.4.2 Le tecniche di previsione Nei contesti aziendali spesso è necessario formulare una previsione delle variabili del problema decisionale. Esistono numerose tecniche che possono essere utilizzate, ma possono essere ricondotte a due principali tipologie:

tecniche quantitative Le tecniche quantitative richiedono l’utilizzo di dati storici della variabile oggetto della previsione o di altre variabili ad essa collegate. Esse possono essere utilizzate se è possibile

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reperire una sufficiente quantità di dati ed informazioni (esprimibili in formato numerico) sulle variabili in questione e se è ragionevole presumere una sorta di continuità dell’andamento della variabile rispetto a quanto successo in passato. All’interno di questa categoria troviamo:

- le tecniche esplicative, che formulano una previsione assumendo che la variabile da prevedere abbia un legame con altre variabili note e più facilmente misurabili. Questi metodi cercano di rappresentare un legame causa–effetto o di correlazione tra più variabili, cercando di prevedere in questo modo l’andamento della variabile decisionale d’interesse. In questa categoria si trovano le tecniche di regressione (lineare, non lineare, multipla, dinamica, …).

- le tecniche estrapolative, che ricercano nella storia passata della variabile da prevedere elementi di continuità e regolarità e sulla base di questi dati cercano di formulare una previsione dell’andamento futuro. In questa categoria rientrano le tecniche di smorzamento esponenziale, le medie mobili e le tecniche ARIMA.

tecniche qualitative Le tecniche qualitative sono invece utilizzate quando o non sono presenti grandi quantità di informazioni sulla variabile da prevedere (o su variabili correlate) o se si ritiene che lo studio della storia passata non fornisca spunti utili per il futuro. Per questo motivo, questi approcci sono basati prevalentemente sull’esperienza e sulle opinioni di persone ritenute competenti, cui viene chiesta una valutazione del problema decisionale. All’interno di questa categoria troviamo:

- le tecniche basate su giudizi individuali, che prevedono la raccolta sistematiche di giudizi ed opinioni e la loro aggregazione per formulare una previsione. In questa categoria rientrano le indagini di mercato.

- le tecniche basate sull’interazione, che operano al fine di consentire agli esperti di poter interagire e confrontarsi fra loro in modo da raggiungere un “accordo” sulla previsione (si parte dal presupposto che una semplice media dei giudizi personali possa portare a valutazioni distorte). In questa categoria rientrano il role playing (diversi attori sono invitati a simulare ruoli differenti, assumendo punti di vista “non convenzionali” per loro), i focus group (nei quali i moderatori gestiscono gli interventi di un gruppo target di individui) e il metodo Delphi.

6.5 Il problem solving Una volta analizzato il problema decisionale (in termini di obiettivi e vincoli) e dopo aver creato un modello con tutte le variabili rilevanti, il decisore è in grado di formulare la propria decisione: può cioè generare una serie di alternative, valutarle e selezionare la migliore (la più soddisfacente). La fase di problem solving si compone di queste sotto-fasi:

1. la generazione delle alternative; 2. la valutazione e la scelta delle alternative; 3. l’implementazione e il review.

6.5.1 La generazione delle alternative Un’alternativa è una particolare combinazione di variabili decisionali che abbia un suo senso e una sua coerenza (si deve cioè tenere conto di vincoli e obiettivi nella sua formulazione). Le tecniche utilizzate per la generazione delle alternative nascono con l’obiettivo di aiutare i decisori ad identificare il numero più ampio di alternative possibili. A causa della razionalità limitata, infatti, spesso le alternative di un problema decisionale non sono completamente conosciute (soprattutto quando si affronta un problema nuovo).

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I fattori che possono limitare la capacità di generare alternative sono diversi: la percezione, un grande problema in quanto ogni individuo utilizza dei filtri per assimilare

esperienze e informazioni (filtri che sono influenzati dal punto di vista e dalle prospettive personali). Le differenti rappresentazioni della realtà che ne derivano portano i soggetti a concentrarsi su problematiche diverse, in base all’importanza che gli viene data.

le competenze, dato che senza le adeguate competenze (per la soluzione del problema) non si è in grado di individuare le alternative.

i costi e i tempi necessari per raccogliere ed elaborare le informazioni, fondamentali in quanto la forza del processo decisionale si misura nella capacità di generare poche alternative ma ad alta qualità.

Generalmente, nei processi decisionali le alternative non vengono generate “in parallelo” ma piuttosto in modo sequenziale: si parte da un set limitato di alternative (quelle più immediate e intuitive), poi si procede con la loro valutazione in termini di rispetto dei vincoli e degli obiettivi e si generano eventualmente nuove alternative (innescano dei micro-cicli di creazione–valutazione). Per supportare la generazione di alternative si utilizzano delle tecniche di creatività, che vanno a stimolare la creatività di singoli individui o di gruppi e il lateral thinking (si cerca di “forzare” gli individui a ragionare usando degli schemi alternativi). I metodi che possono essere utilizzati sono diversi:

l’utilizzo delle analogie, cioè si chiede ai soggetti di immaginare soluzioni al problema ispirandosi a contesti anche molto diversi;

il brainstorming, che consiste nello stimolare un gruppo a generare delle idee e delle soluzioni (anche provocative e per certi versi “irragionevoli”) per stimolare i processi di analogia e il ragionamento;

il metodo Delphi; l’analisi morfologica, un criterio più strutturato che si basa sullo svolgimento di cinque passi:

- la definizione del problema; - la definizione dei parametri (componenti che costituiscono la soluzione); - la definizione della lista delle variazioni (per ogni parametro vanno identificati le

diverse risposte al problema); - la realizzazione delle differenti combinazioni (vanno enumerate tutte le possibili

combinazioni dei diversi valori che possono essere assunti dai vari parametri); - la valutazione e il miglioramento delle alternative.

Esistono anche dei criteri euristici che permettono di raffinare le alternative generate, in modo da trovare gli ottimi locali. 6.5.2 La valutazione e la scelta delle alternative La fase di valutazione è spesso complicata per due motivi principali:

le difficoltà che si incontrano nella previsione degli impatti delle scelte; la molteplicità degli obiettivi, che può portare alla valutazione di trade-off antitetici.

Per risolvere queste problematiche si può agire in tre diversi modi:

1. è possibile inglobare tutti gli obiettivi in un’unica funzione di utilità, semplificando così il problema.

2. si possono definire dei livelli di soddisfacimento minimi per le prestazioni in esame, cosa che permette di trasformare tutti gli obiettivi (tranne uno) in vincoli e di passare alla soluzione di un problema di ottimizzazione con un solo obiettivo. Questo approccio è tipico delle tecniche di programmazione matematica.

3. si possono affrontare attraverso i cosiddetti sistemi a punteggio, nei quali i decisori: - scelgono i criteri di valutazione delle alternative; - danno un peso relativo a ciascuno di questi criteri (in base all’importanza); - danno dei punteggi a ciascuna delle alternative sulla base di scale definite.

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A questo punto, è possibile calcolare il punteggio pesato di ogni alternativa sulla base delle importanze relative date a ciascun criterio.

𝐩𝐮𝐧𝐭𝐞𝐠𝐠𝐢𝐨 𝐩𝐞𝐬𝐚𝐭𝐨𝐚 =∑𝐩𝐞𝐬𝐨𝐢 ∙ 𝐯𝐚𝐥𝐮𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞𝐢𝐚

𝐢

I processi decisionali aziendali sono influenzati da diversi fattori, come per esempio:

tutti quegli elementi che rientrano nel profilo e nelle esperienze del decisore possono influenzare la scelta: è di fondamentale importanza valutare quindi gli skill e le caratteristiche personali dei decisori.

una seconda caratteristica da prendere in considerazione sono le dinamiche di gruppo. In un contesto aziendale, infatti, difficilmente un decisore può compiere delle scelte in modo autonomo e senza garantirsi il sostegno del resto del gruppo: anche se altri individui non implementano direttamente le decisioni prese, bisogna essere sicuri che non ci siano dei comportamenti contrastanti. Risulta fondamentale quindi un allineamento degli attori decisionali (e degli esecutori). L’allineamento, all’interno del processo decisionale, si può ottenere in due diversi modi:

- attraverso l’utilizzo del potere, cioè si decide di sfruttare l’autorità gerarchica per forzare l’allineamento;

- attraverso la creazione di consenso, cioè si cerca di convincere gli altri attori della validità della propria scelta, della sua bontà.

L’utilizzo di queste due leve dipende da un trade-off molto importante, tra la creazione del consenso e la tempestività decisionale: evidentemente, se si privilegia la rapidità delle decisioni difficilmente si possono ottenere alti livelli di consenso (per via della pluralità di individui e obiettivi, il consenso richiede tempo). Si può dire infatti che:

- se il tempo non è un vincolo stringente (e non ci sono problemi derivanti da un eventuale allungamento del processo decisionale), si preferisce cercare di creare consenso mediante la politica (cioè costruendo relazioni interpersonali, coalizioni, ...);

- se invece si preferisce prendere una decisione il prima possibile, si cerca di sfruttare l’autorità per raggiungere l’obiettivo.

Bisogna considerare che pazientare e prendere una decisione magari meno soddisfacente ma che garantisce maggiore consenso può avere risvolti positivi. Il consenso genera un maggiore allineamento agli obiettivi e, di conseguenza, le performances future saranno in media migliori.

un ultimo fattore da non sottovalutare è il livello di leadership, ossia la capacità di un capo di motivare e coinvolgere i dipendenti in modo da favorire gli obiettivi aziendali. Grazie alla capacità di coinvolgimento, i leader riescono a spostare il trade-off tra velocità e consenso verso livelli più alti (o aumenta la velocità dei processi decisionali a parità di consenso o si genera maggiore consenso a parità di velocità di scelta).

6.5.3 L’implementazione e il review Una volta presa una decisione si entra nella cosiddetta fase di implementazione, che consiste:

nella pianificazione e programmazione di attività e ruoli; nella realizzazione effettiva dei programmi.

Successivamente si procede con il monitoraggio (review) dei risultati, che permette di migliorare: la decisione attuale (per cercare di avvicinarsi il più possibile al risultato target); la capacità decisionale (per tutte le decisioni simili che verranno prese in futuro); altre capacità, come per esempio la capacità di modellizzazione della realtà, di creazione di

consenso e di previsione delle variabili (indipendentemente dalla decisone). Se per caso i sistemi di review segnalano degli scostamenti, è necessario attivare degli ulteriori cicli decisionali in cui l’obiettivo sarà l’annullamento dello scostamento dal target.

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6.5.4 Gli approcci al processo decisionale La decisione manageriale è un processo organizzativo, una sequenza di analisi, interpretazioni, valutazioni, intuizioni e azioni che portano i manager a selezionare un’alternativa decisionale e a realizzarla. Si possono identificare tre diversi approcci alle situazioni decisionali:

1. l’approccio thinking first, analitico e modellistico, secondo il quale si dedica una grande quantità di tempo al problem solving;

2. l’approccio doing first, in cui si passa subito all’azione e si sperimenta una soluzione e l’enfasi è posta sul problem solving;

3. l’approccio seeing first, in cui il decisore prende fin dall’inizio una scelta e si cerca di realizzarla, ponendo anche in questo caso enfasi sul problem solving.

6.5.4.1 L’approccio thinking first Come già detto, questo approccio è basato su un’analisi approfondita e razionale del problema, che porta alla formulazione di modelli quantitativi che possono guidare il management nella ricerca della soluzione. Questo approccio si articola in diverse fasi:

intelligence In questa fase preparativa si percepisce il problema, la minaccia o la possibile opportunità, e il processo decisionale viene innescato. Il decisore procede quindi con la definizione degli obiettivi e con l’identificazione dei vincoli esistenti.

design Una volta definiti vincoli ed obiettivi, si procede con la seconda fase in cui avviene l’identificazione del sistema: in questa sotto-fase, cioè, si procede alla creazione di un modello della realtà che comprenda tutte le variabili da prendere in considerazione. In questa fase, successivamente, si generano (in modo sequenziale) e si valutano delle alternative, seguendo dei criteri di soddisfacimento.

choice Una volta valutate le alternative, si procede con la scelta vera e propria. La decisione è il frutto di una combinazione di molteplici fattori, come per esempio la compresenza di un gran numero di obiettivi o lo stato d’animo del decisore.

implementation Definita la decisione, si procede con la fase di programmazione delle azioni, ossia si definiscono attività, tempi, modi e ruoli delle persone coinvolte. Successivamente, si procede con la fase di realizzazione delle azioni. Nel caso vi sia una pluralità di decisori o ci sia distinzione tra esecutori e decisori è necessario un coordinamento tra due livelli:

- tra decisione ed esecuzione, affinché la decisione venga implementata correttamente; - tra i diversi esecutori, in modo che il completamento dell’attività sia efficace ed

efficiente. review

Una volta implementata la decisione, assume fondamentale importanza la fase di monitoraggio della decisione: ciò implica una misurazione e un confronto dei risultati, anche grazie anche ad un sistema di reporting e agli indicatori definiti nella fase di intelligence. Dal confronto tra i dati misurati e quelli preventivati possono emergere degli scostamenti, generalmente dovuti a:

- errori di misura; - implementazione non corretta; - incompletezza del modello; - obiettivi inadeguati.

Quali sono i vantaggi e i limiti di questo approccio?

se si riescono a raggiungere delle soluzioni, dovrebbero essere quelle ottimali per via dell’approfondita analisi della situazione;

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c’è generalmente un maggiore livello di consenso; è un approccio in media “più facile”, grazie agli elevati livelli di proceduralizzazione (ci sono

maggiori vantaggi di apprendimento); l’esecuzione strutturata dei cicli di analisi comporta tempi e costi elevati; sono necessarie molte informazioni, quindi i maggiori costi (e tempi) devono garantire un

effettivo beneficio e vantaggio; le informazioni non sempre sono disponibili; ci sono limiti di applicabilità: se per caso si individuano più alternative tra loro indifferenti,

la razionalità non basta a prendere una decisione (serve intuito da parte di chi decide). 6.5.4.2 L’approccio doing first Esistono molte decisioni e azioni manageriali che si ispirano ad un approccio incrementale e per tentativi, nel quale i decisori privilegiano la rapidità decisionale (e l’esperienza di chi compie le scelte), annullando quasi totalmente la parte di problem setting. In questo caso, infatti, si procede di fatto all’implementazione di un’alternativa senza che essa sia stata confrontata con altre opzioni. I motivi che giustificano questo comportamento possono essere svariati e vanno dalla mancanza di tempo all’eccessiva difficoltà di modellazione della realtà. Questo approccio è caratterizzato da tre fasi fondamentali:

azione Dà il via al processo ed è assimilabile ad una sperimentazione: il decisore agisce seguendo un’alternativa senza investire tempo e risorse in analisi e valutazioni che potrebbero allungare il processo.

selezione La misura e la valutazione dei risultati sono di fondamentale importanza in quanto permettono di effettuare una selezione, ovvero di decidere se confermare la strategia intrapresa o se implementarne una differente (si segue un approccio di tipo trial and error).

memoria o apprendimento Ad ogni iterazione del processo, la memoria individuale e quella organizzativa vengono arricchite, si sviluppano delle nuove conoscenze a carattere prettamente tacito (si accumulano attraverso meccanismi di learning by doing) utili per le decisioni future. La memoria è fondamentale in quanto è un requisito della tempestività decisionale: per essere veloci nella fase di azione, è necessario fare affidamento sull’apprendimento passato e sul background di esperienza.

Questo è un approccio più empirico che modellistico, che si adatta bene a decisioni di tipo ricorsivo (e reversibili, in quanto devono essere possibili delle azioni correttive). Ma quali sono vantaggi e svantaggi di questa modalità di azione?

si ha una maggiore velocità di decisone; il costo decisionale è generalmente ridotto, in quanto non c’è consumo di risorse per il

problem setting (ma si ha questo vantaggio solo se si ripete il ciclo decisionale un numero limitato di volte);

si hanno minori problemi di blocco decisionale; si garantisce l’applicabilità a realtà poco modellizzabili; si ha un’alta variabilità dei risultati, a causa dell’assenza di analisi; la qualità della decisione rischia di essere più bassa, in quanto non si valutano alternative.

6.5.4.3 L’approccio seeing first I processi decisionali che seguono l’approccio seeing first sono tipici dei primi stadi delle imprese e sono basati sull’ispirazione, che può essere data da un’idea, da un’illuminazione o da una visione. La caratteristica fondamentale di questo approccio è che è che viene presa in considerazione una sola alternativa, che viene suggerita spesso dall’intuito: tutto l’impegno del decisore è posto sull’implementazione e sul miglioramento di questa alternativa e, di conseguenza, si ha un’enfasi

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sul problem solving. Anche in questo caso la fase di problem setting è relativamente marginale, in quanto basata sulla costruzione di modelli mentali da parte del decisore piuttosto che su una modellazione razionale e analitica della realtà. Rispetto all’approccio thinking first, si hanno minore razionalità e minore strutturazione. Si possono riconoscere quattro diverse fasi, ossia:

la preparazione, in cui l’attore decisionale accumula le informazioni, le conoscenze e le esperienze necessarie per affrontare il proprio lavoro;

l’incubazione, fase che inizia quando si manifesta il problema o l’opportunità e l’esperienza accumulata “entra in contatto” con degli stimoli esterni;

l’illuminazione, ovvero la soluzione al problema; la verifica di fattibilità dell’idea, necessaria per capire se l’illuminazione è razionale e se

l’alternativa è applicabile. Ecco i vantaggi e gli svantaggi di questo approccio:

si ha una maggiore capacità innovativa; in genere si sostengono costi minori, in quanto le informazioni si accumulano in maniera

destrutturata; si garantisce applicabilità a contesti complessi e destrutturati; il processo di preparazione non necessariamente richiede poco tempo; si va incontro, in genere, a un minore consenso; l’approccio è prettamente individuale, è molto basato sulle capacità del singolo (e quindi è

difficile costruttore una competenza organizzativa); si incontra una maggiore lentezza nell’implementazione della decisione.

6.6 Le decisioni in condizioni di rischio e di incertezza Nella realtà non sempre si verificano delle situazioni deterministiche: ciò significa che, nonostante gli sforzi di analisi e modellizzazione, non sempre è possibile valutare con certezza le conseguenze delle varie alternative decisionali. Il rischio, a livello aziendale, è associato all’impossibilità di prevedere in modo esatto degli avvenimenti futuri. Si possono distinguere due tipologie principali di rischi:

i rischi puri, che consistono nella possibilità di subire un danno o una perdita di qualsiasi natura (a persone, beni, risorse finanziarie, immagine, …);

i rischi speculativi o d’impresa, fattori di incertezza legati all’attività economica legati ad eventi che possono avere sia conseguenze positive che conseguenze negative.

Ecco alcuni esempi di fonti di rischio:

impianti: a impianti, macchinari e attrezzature si possono associare due tipologie di rischio, ossia il pericolo per l’incolumità delle persone e quello di guasti che interrompano la capacità produttiva.

persone: gli individui sono sempre una fonte di incertezza, in quanto il loro comportamento non è completamente prevedibile (esiste la possibilità di errori umani ma anche di prestazioni superiori alle aspettative).

organizzazione: anche il comportamento dell’organizzazione è imprevedibile, in quanto le gerarchie e le procedure possono diventare la causa di comportamenti indesiderati.

innovazione: può essere tanto un fattore di successo quanto di insuccesso dell’azienda, a causa della bassa prevedibilità degli esiti.

mercato (variabili legate alla domanda di prodotti e servizi): il mercato è incerto in quanto la domanda è influenzata da numerosi fattori, come per esempio le azioni dei competitors.

supply chain: i risultati di un’impresa dipendono dai risultati di tutte le aziende a monte e a valle nella filiera produttiva. L’incapacità di un produttore di effettuare consegne o l’interruzione dell’operatività di un fornitore, infatti, hanno effetti sul livello di servizio.

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contesto politico e sociale: l’attività delle imprese è strettamente collegata, nel bene e nel male, al contesto globale.

ambiente naturale: ogni organizzazione è esposta a degli eventi naturali, che a volte possono avere conseguenze gravi e imprevedibili.

6.6.1 Il rischio e l’incertezza La situazione opposta al determinismo e alla razionalità perfetta è l’ignoranza, una condizione tipica di chi deve prendere delle decisioni senza avere nessuna conoscenza di quello che accadrà in futuro. In questa situazione è impossibile decidere in modo razionale, in quanto:

non si è in grado di associare (nemmeno in modo approssimato) delle conseguenze alle proprie azioni;

non è possibile valutare quale alternativa abbia gli effetti migliori; non si è in grado di prevedere con certezza i valori che verranno assunti da determinate

variabili; non si è in grado di identificare con sicurezza gli scenari futuri.

È di fondamentale importanza fare una distinzione tra i concetti di rischio e incertezza:

in condizioni di incertezza, i processi decisionali avvengono conoscendo quali possibili situazioni si possono manifestare nell’ambiente ma non la qual è la loro probabilità di accadimento. Questo significa che è possibile collegare a ogni possibile alternativa un effetto per ogni scenario ambientale, senza essere però nelle condizioni di poter determinare se uno scenario sia più o meno probabile.

in condizioni di rischio, il decisore non solo conosce i possibili scenari ma è anche in grado di associare a ciascuno di essi una probabilità di accadimento. Per questo motivo, il decisore è in grado di stimare:

- l’effetto atteso, come combinazione degli effetti di ogni scenario; - la variabilità (rischio) associata a ciascun effetto atteso.

L’attribuzione di una probabilità ai valori delle variabili esogene può avvenire in diversi modi, a seconda della conoscenza che si ha dell’ambiente:

se si conoscono le caratteristiche intrinseche del processo di generazione dei valori, si possono determinare a priori le effettive probabilità di accadimento;

se non si conosce il modo in cui vengono determinati i valori delle variabili ambientali ma si dispone di adeguate osservazioni passate (con la frequenza di accadimento di ciascun valore), allora è possibile stimare le probabilità sulla base delle frequenze osservate;

se non si dispone né di una stima né di una misura della probabilità, si effettuano dei calcoli di tipo qualitativo basati sull’esperienza e sull’istinto per determinare delle stime soggettive della probabilità.

6.6.2 Le decisioni in condizioni di rischio Il criterio decisionale più semplice e intuitivo in condizioni di rischio è il cosiddetto valore atteso monetario 𝐄𝐢, definito come media dei risultati (o payoff Vij) corrispondenti ad una determinata

alternativa decisionale Di nei vari scenari Sj pesati in base alla probabilità di accadimento (Pj):

𝐄(𝐃𝐢) = 𝐄𝐢 =∑𝐏𝐣 ∙ 𝐕𝐢𝐣

𝐧

𝐣=𝟏

con i indice che scorre le m alternative e j indice che scorre gli n scenari.

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In base a questo criterio, sarebbe possibile effettuare la decisione definendo come scelta ottimale D* la decisione a cui è collegato il massimo valore atteso. Scegliere utilizzando solamente il valore atteso non offre però alcuna garanzia, in quanto esso è una misura significativa solamente se la decisione non viene presa una tantum ma viene ripetuta nel tempo. Può essere quindi interessante misurare il rischio associato ad ogni alternativa, ossia la variabilità dei possibili risultati in termini di dispersione rispetto al valore atteso (si cerca di valutare quanto i risultati possono discostarsi dal valore atteso). Per questo motivo, può essere utile il calcolo di misure come la varianza (𝛔𝐢

𝟐) e la deviazione standard (𝛔𝐢):

𝛔(𝐃𝐢) = 𝛔𝐢 = √∑𝐏𝐣 (𝐕𝐢𝐣 − 𝐄𝐢)𝟐𝒏

𝒋=𝟏

con i indice che scorre le m alternative e j indice che scorre gli n scenari. I fattori che devono essere considerati nelle decisioni in condizioni di rischio sono quindi due:

il valore atteso del risultato; la variabilità del risultato.

Infine è di fondamentale importanza l’opinione del decisore. Può accadere che: il decisore è avverso al rischio, ossia se ha a disposizione due alternative a pari valore atteso

sceglie quella a cui è associata una minore variabilità; il decisore è propenso al rischio, ossia se ha a disposizione due alternative a pari valore

atteso sceglie quella a cui è associata una maggiore variabilità; il decisore è indifferente al rischio, ossia si pone come unico obiettivo la massimizzazione del

risultato atteso e il rischio non viene preso in considerazione. 6.6.2.1 Il trade off fra il valore atteso e il rischio Supponiamo di considerare un decisore avverso al rischio. Un decisore avverso al rischio si trova sempre di fronte ad un problema multi-obiettivo affetto da trade-off, in quanto contestualmente si ricerca:

una massimizzazione del risultato atteso; una minimizzazione della variabilità del risultato.

Per la soluzione di questo problema, è possibile trasformare n–1 obiettivi in vincoli per ricondursi ad un problema di ottimizzazione ad un solo obiettivo:

è possibile fissare arbitrariamente una soglia massima di rischio accettabile, scartare le alternative che non soddisfano questo requisito e in seguito procedere con la massimizzazione del valore atteso.

𝐦𝐚𝐱 (𝐄) 𝐜𝐨𝐧 𝛔 ≤ 𝛔∗ è possibile fissare arbitrariamente una soglia minima di ritorno atteso accettabile, scartare

le alternative che non soddisfano questo requisito e in seguito procedere con la minimizzazione del rischio.

𝐦𝐢𝐧 (𝛔) 𝐜𝐨𝐧 𝐄 ≥ 𝐄∗ è possibile fissare arbitrariamente un vincolo sulla probabilità cumulata che il ritorno sia

inferiore a una soglia predeterminata, scartare le alternative che non soddisfano questo requisito e in seguito procedere con la massimizzazione del valore atteso.

𝐦𝐚𝐱 (𝐄) 𝐜𝐨𝐧 𝐏(𝐕 ≤ 𝐕𝐦𝐢𝐧) ≤ 𝐏𝐦𝐢𝐧 si riconduce il problema alla massimizzazione di un’unica funzione di utilità dove compaiono

il valore atteso e il rischio. λ rappresenta l’atteggiamento del decisore: con λ > 0 il decisore è avverso, con λ = 0 è indifferente e con λ < 0 è propenso al rischio.

𝐦𝐚𝐱 (𝐔) 𝐜𝐨𝐧 𝐔 = 𝐄 − 𝛌𝛔

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6.6.2.2 La perdita di opportunità Un approccio alternativo alla scelta si basa sul concetto di perdita di opportunità, che consiste nella valutazione del mancato guadagno conseguente ad aver effettuato una determinata scelta non ottimale. È possibile costruire, partendo dalla tabella dei payoff, una tabella delle perdite di opportunità così definite:

𝐏𝐎𝐢𝐣 = 𝐦𝐚𝐱𝐢𝐕𝐢𝐣 − 𝐕𝐢𝐣

Una volta calcolati questi valori è possibile procedere con il calcolo del valore atteso della perdita di opportunità, definito come:

𝐕𝐀𝐏𝐎𝐢 =∑𝐏𝐣 ∙ 𝐏𝐎𝐢𝐣

𝐧

𝐣=𝟏

Il criterio decisionale consiste nella scelta dell’alternativa a cui è associata la perdita di opportunità minima. Questo metodo viene spesso utilizzato in ambienti competitivi, quando non conta il risultato in assoluto ma in relazione a quello degli altri (per esempio i competitors). 6.6.2.3 Altre misure del rischio Esiste una grande varietà di tecniche che possono essere utilizzate per la misura del rischio. Esse possono essere ricondotte a due macro-gruppi:

indicatori assoluti Gli indicatori assoluti sono degli indicatori che misurano la dispersione in termini assoluti, nella stessa unità di misura dei valori considerati. Appartengono a questa categoria questi indicatori:

- il MAD (Mean Absolute Deviation), la media degli scarti in valore assoluto. In questo modo, gli scarti hanno perso linearmente proporzionale alla loro entità.

𝐌𝐀𝐃𝐢 =∑𝐏𝐣 |𝐕𝐢𝐣 − 𝐄𝐢|

𝐧

𝐣=𝟏

- la deviazione standard, detta anche scarto quadratico medio, ossia la radice della somma dei quadrati degli scarti. In questo caso, il peso degli scostamenti cresce in modo più che proporzionale alla loro entità.

indicatori relativi Gli indicatori relativi sono degli indicatori che vengono espressi in termini percentuali riferiti al valore atteso. In questo modo, è possibile un confronto tra indicatori aventi valore atteso significativamente diverso. Appartengono a questa categoria questi indicatori:

- il MAPE (Mean Absolute Percentage Error), la versione relativa del MAD in quanto misura la media degli scarti assoluti percentuali. Gli scarti hanno peso proporzionale alla loro entità.

𝐌𝐀𝐏𝐄𝐢 =∑𝐏𝐣 |𝐕𝐢𝐣 − 𝐄𝐢|

𝐄𝐢

𝐧

𝐣=𝟏

- il coefficiente di variazione, il rapporto tra la deviazione standard e il valore atteso, un indicatore con il quale il peso degli scostamenti cresce in modo più che proporzionale alla loro entità.

𝐂𝐕𝐢 =𝛔𝐢𝐄𝐢

6.6.3 Le decisioni in condizioni di incertezza In numerose circostanze, non sono disponibili delle distribuzioni di probabilità stimate in modo sistematico. In questo caso ci si trova di fronte ad un problema multi-obiettivo (massimizzazione del risultato con minimizzazione del rischio), come nel caso delle decisioni prese in condizioni di rischio, ma l’assenza di probabilità impedisce di utilizzare i criteri decisionali visti fino a questo

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momento dato che non sono possibili né il calcolo del valore atteso né quello della variabilità del risultato. Risulta necessario quindi determinare dei nuovi criteri decisionali. 6.6.3.1 Il criterio di equiprobabilità Il criterio più semplice che può essere utilizzato è il cosiddetto criterio di equiprobabilità o criterio di Pascal, che permette di riportarsi in condizioni di rischio in modo fittizio assumendo che ogni scenario abbia un’identica probabilità di accadimento. In questo modo, è evidentemente possibile applicare i metodi collegati al valore atteso e alla variabilità già visti. La probabilità di accadimento di ciascuno degli n scenari sarà pari a:

𝐏𝐣 =𝟏

𝐧

Questo criterio può essere applicato solo se vi sono fondate ragioni a sostegno dell’assunzione di base, cioè che tutti gli scenari abbiano identica probabilità di accadimento. In caso contrario, questo criterio può risultare fuorviante. 6.6.3.2 Il criterio MaxiMax Il criterio MaxiMax è un criterio ottimistico, fondato sulla speranza che si verifichi lo scenario più favorevole tra quelli presi in considerazione: per questo motivo, si sceglie l’alternativa che permette di avere il risultato migliore in assoluto. Questo procedimento consiste nell’identificare per ogni alternativa il miglior risultato possibile, per poi scegliere la decisione a cui è associato il valore più alto:

𝐕𝐦𝐚𝐱 = 𝐦𝐚𝐱𝐢[𝐦𝐚𝐱

𝐣𝐕𝐢𝐣]

Questo criterio ha sia pregi che difetti: se da un lato consente di avere un grande ritorno nel caso si verifichi la situazione ottima, dall’altro il decisore corre il rischio di essere in perdita se gli scenari sono sfavorevoli (date le condizioni di incertezza, non vi è garanzia che si verifichi tale situazione). 6.6.3.3 Il criterio MaxiMin Il criterio MaxiMin è un criterio antitetico al criterio MaxiMax. Si tratta di un criterio pessimistico, che considera i risultati nel caso si verifichi lo scenario peggiore: in questo caso l’incertezza viene considerata per mezzo del principio di prudenza, dato che il decisore cerca di cautelarsi dal verificarsi dello scenario peggiore. Con questo criterio, prima si associa ad ogni alternativa decisionale il risultato peggiore e poi si sceglie quella a cui corrisponde il valore massimo:

𝐕∗ = 𝐦𝐚𝐱𝐢[𝐦𝐢𝐧

𝐣𝐕𝐢𝐣]

Anche questo criterio presenta sia pregi che difetti: se da un lato il decisore si difende da eventi negativi, dall'altro non si considerano i potenziali guadagni massimi di ogni alternativa. 6.6.3.4 Il criterio del realismo Il criterio del realismo è un criterio che cerca di combinare le caratteristiche dei criterio MaxiMax e MaxiMin, sfruttandone i pregi. A tale scopo ad ogni alternativa decisionale viene associata una combinazione dei suoi risultati migliore e peggiore, pesati attraverso un coefficiente di ottimismo (una variabile che assume valori compresi tra 0 e 1), e poi si sceglie l’alternativa a cui corrisponde la combinazione di valore massimo:

𝐑∗ = 𝐦𝐚𝐱𝐢[𝛂𝐦𝐚𝐱

𝐣𝐕𝐢𝐣 + (𝟏 − 𝛂)𝐦𝐢𝐧

𝐣𝐕𝐢𝐣]

Il principale problema legato all’utilizzo di questo criterio è l’arbitrarietà del coefficiente di ottimismo: esso non rappresenta la probabilità di accadimento degli scenari considerati, ma l’atteggiamento di fondo del decisore (e in quanto tale è difficile stimare il suo valore).

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6.6.3.5 Il criterio MiniMax Il criterio MiniMax è un criterio di tipo pessimistico o prudente, che permette di scegliere l’alternativa che in caso di scenario sfavorevole minimizza le perdite relative. Esso non è altro che l’applicazione del concetto di perdita di opportunità in condizioni di incertezza. In questo caso, ad ogni alternativa decisionale si associa il massimo valore di perdita di opportunità, poi si sceglie quella che presenta il valore minimo:

𝐏𝐎∗ = 𝐦𝐢𝐧𝐢[𝐦𝐚𝐱

𝐣𝐏𝐎𝐢𝐣]

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7. LE DECISIONI INTERATTIVE I problemi decisionali possono diventare più complessi a causa dell’incertezza del contesto ambientale, soprattutto per le imprese che operano in settori fortemente globalizzati e caratterizzati da un alto tasso di innovazione. È possibile individuare una serie di decisioni in cui il rischio e l’incertezza non dipendono tanto da una generica turbolenza o variabilità del contesto ma piuttosto dal comportamento di attori esterni al processo decisionale, ossia dipende dalle scelte e dalle azioni di altri soggetti. Questi soggetti possono essere per esempio:

dei competitors; degli stakeholders.

In questo tipo di situazione, in cui le decisioni sono influenzate da quelle di una controparte, l’analisi degli obiettivi e delle alternative a disposizione dell’avversario può essere utile per identificare la decisione migliore. Si è in presenza di incertezza strategica, che riguarda le scelte di uno specifico competitore e non degli eventi esogeni: per la soluzione di questi problemi decisionali si ricorre, in genere, alla cosiddetta teoria dei giochi. Uno strumento molto utilizzato, inoltre, è la tabella dei payoff:

i payoff esprimono una valutazione quantitativa (per il decisore) dell’esito del processo decisionale, in base alle scelte della controparte considerata. Esso può essere:

- una misura diretta di grandezze economiche (come profitto, margine, NPV, ...); - una misura indiretta, un punteggio che associato ad una scala predefinita consente di

dare una “gerarchia”, in termini di soddisfacimento, ai possibili esiti. in questo strumento vengono riportati, per ogni possibile combinazione di decisioni, i payoff

ottenuti dai due attori in gioco. In particolare, in ogni cella della tabella si indica: - prima il payoff del giocatore identificato dalle righe; - poi il payoff del giocatore identificato dalle colonne.

7.1 Introduzione alla teoria dei giochi La teoria dei giochi può essere definita come uno studio dei comportamenti strategici nel caso in cui ogni attore, nel prendere la decisione, debba tenere conto delle scelte dei competitori. In questa teoria si ipotizza che le decisioni di ogni attore dipendano da quelle dei concorrenti, cioè che:

𝐄𝐢 = 𝒇(𝐃𝐢, �̅�, 𝐀) dove: Ei = esiti o effetti del problema considerato

Di = decisione dell’attore considerato D̅ = decisioni di tutti gli attori coinvolti nel processo decisionale A = ambiente

Per poter applicare la teoria dei giochi devono verificarsi queste condizioni:

l’insieme dei giocatori deve essere noto, ossia si devono conoscere i concorrenti (si devono prendere in considerazione le categorie di attori più rilevanti);

l’insieme di alternative per ogni attore deve essere noto, cioè si deve conoscere il numero finito di alternative discreto tra le quali ogni concorrente può scegliere;

la funzione degli effetti deve essere nota, ossia deve essere possibile stimare le conseguenze delle decisioni per determinare le tabelle dei payoff;

deve esistere un ordinamento di preferenze, ossia ogni decisore deve avere delle preferenze rispetto alle possibili soluzioni del gioco;

ogni giocatore deve possedere l’insieme di informazioni sia sul problema decisionale che sull’ambiente.

Ogni giocatore opta per la decisione che gli consente una massimizzazione dei propri obiettivi.

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La formulazione classica della teoria dei giochi parte dal presupposto che: tutti i giocatori sono perfettamente razionali; tutti i concorrenti sanno che gli altri sono perfettamente razionali.

Queste due assunzioni hanno delle conseguenze molto importanti: ogni attore può modellizzare il processo decisionale sulla base di ciò che la controparte razionalmente potrebbe scegliere. Ciò non è tuttavia sempre valido in contesti reali. 7.1.1 Le alternative dominanti Data la funzione di utilità dell’attore i definita come ui(Di, Dj), dove Di è la scelta dell’attore i e Dj la

scelta dell’attore j, si definisce alternativa dominante l’alternativa D̅i tale che: ui(D̅i, Dj) ≥ ui(Di, Dj)

∀Di ≠ D̅i ∀Dj

In altre parole, si può dire che un alternativa si definisce dominante se procura al giocatore che la sceglie un payoff maggiore di ogni altra sua alternativa, qualunque sia la mossa scelta dall’avversario. La razionalità dei decisori li spinge sempre verso l’alternativa dominante. Si ha quindi che:

se per entrambi i giocatori è possibile determinare un’alternativa dominante, la soluzione del gioco è semplice e immediata e sarà data dalla combinazione delle alternative dominanti;

se si può definire un’alternativa dominante solamente per uno dei giocatori, è possibile identificare comunque una soluzione in quanto:

- il decisore per il quale è possibile definire un’alternativa dominante la sceglierà sicuramente;

- il decisore per il quale non è possibile definire un’alternativa dominante sarà in grado, essendo razionale, di prevedere i comportamenti della controparte e fissata la decisione del competitore opterà per l’alternativa che gli consente di ottenere un payoff maggiore.

7.1.2 L’efficienza di Pareto Un insieme di alternative s (e quindi una soluzione) viene detto ottimo paretiano se non esiste un’altra combinazione s’ tale per cui:

𝐮𝐢(𝐬′) ≥ 𝐮𝐢(𝐬)

per ogni i e valga almeno una disuguaglianza stretta. In altre parole, una soluzione è ottima secondo Pareto se rispetto ad essa non è possibile trovare un’altra soluzione che migliori il payoff di entrambi gli attori (e quindi l’unico modo per aumentare il risultato di un attore è diminuire quello dell’altro). Le soluzioni Pareto–efficienti possono essere determinate anche da un punto di vista grafico: se si individuano in un piano cartesiano le varie combinazioni di payoff, una soluzione si definisce efficiente se non contiene altre soluzioni nel ripiano alto–destro. Ci sono delle differenze tra soluzioni efficienti e soluzioni effettive del gioco:

la soluzione effettiva del gioco è data dal comportamento razionale di ogni singolo attore, ossia della razionalità individuale;

la soluzione efficiente del gioco invece è data dal comportamento razionale collettivo. Non sempre la razionalità individuale implica quella collettiva.

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7.1.3 L’equilibrio di Nash Una soluzione s(D̂i; D̂j) si dice soluzione di equilibrio di Nash se vale che:

data D̂j, 𝐬(�̂�𝐢; �̂�𝐣) > 𝐬(𝐃𝐢; �̂�𝐣), ∀Di;

data D̂i, 𝐬(�̂�𝐢; �̂�𝐣) > 𝐬(�̂�𝐢; 𝐃𝐣), ∀Dj.

Questo significa che una soluzione prende il nome di soluzione di equilibrio se, data questa soluzione, nessun attore preso singolarmente ha convenienza a cambiare la propria decisione. Gli equilibri di Nash sono dei punti si accumulazione, verso cui il gioco tende a convergere: questa nozione consente quindi di individuare l’insieme di alternative stabili verso cui gli attori tendono a portarsi. Vale che:

esistono giochi privi di soluzioni di equilibrio; se si possono adottare delle strategie miste (ossia se gli attori possono combinare le

alternative a loro disposizione) esiste sempre una soluzione di equilibrio. Le considerazioni fatte riguardo la differenza tra soluzioni efficienti e soluzioni effettive vale

anche per le soluzioni di equilibrio.

7.2 Il dilemma del prigioniero Il dilemma del prigioniero è una delle situazioni decisionali classiche più conosciute della teoria dei giochi. È stato formulato nel 1950 da Dresher e Flood. La situazione decisionale è questa:

Due criminali vengono colti in flagrante mentre cercano di scippare una signora anziana. Il commissario che li ha arrestati sospetta che siano coinvolti anche in un tentativo di estorsione (reato molto grave punito con 10 anni di carcere), ma non ha sufficienti prove a disposizione. Decide quindi di interrogare i due malviventi separatamente, ponendoli di fronte a queste alternative:

se il criminale interrogato confessa la colpevolezza del compagno per il reato di estorsione, gli verrà scontato 1 anno sulla pena per il reato di scippo (mentre il compagno riceverà una condanna di 12 anni per i crimini commessi);

se il criminale interrogato non confessa la colpevolezza del compagno per il reato di estorsione, verrà condannato ad una pena di 2 anni per il tentativo di scippo.

I due malviventi devono quindi scegliere se confessare o non confessare il reato del compagno: chiaramente, l’utilità degli attori è inversamente proporzionale al numero di anni di carcere che vengono loro assegnati. La tabella dei payoff potrà essere scritta così (sia in termini di anni che in termini di soddisfacimento): Analizziamo ora le caratteristiche del gioco:

alternative dominanti Si può osservare che l’alternativa Confessare è dominante per entrambi gli attori, in quanto fissata la scelta della controparte in questo modo è possibile minimizzare gli anni di carcere da scontare. Due decisori razionali decideranno quindi di confessare la colpevolezza del compagno.

N.C. C. N.C. C.

N.C. 2; 2 12; 1 N.C. 3; 3 1; 4

C. 1; 12 11;11 C. 4; 1 2; 2

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soluzioni efficienti Si può notare, inoltre, come tutte le soluzioni del gioco eccezion fatta per l’alternativa Confessa–Confessa sono soluzioni efficienti.

soluzioni di equilibrio La soluzione Confessa–Confessa è una soluzione di equilibrio di Nash.

Anche se istintivamente saremmo portati a pensare che una collaborazione tra i due attori li porterebbe a cooperare, bisogna prendere in considerazione la possibilità di un comportamento opportunistico da parte della controparte.

La soluzione verso cui gli attori puntano è però quella suggerita dalla loro razionalità individuale, non dipende da una mancanza di fiducia nel compagno.

7.2.1 Il teorema popolare È possibile dimostrare che, sotto alcune opportune ipotesi che prendono il nome di ipotesi del teorema popolare (folk’s theorem), si può arrivare ad una soluzione di cooperazione:

1. il gioco deve poter essere ripetuto, in quanto in assenza di questa possibilità conviene sempre adottare un comportamento opportunistico;

2. deve essere possibile sanzionare i comportamenti opportunistici, cioè chi fa il furbo deve essere in qualche modo punito (ci possono essere per esempio specifici accordi contrattuali, per disincentivare questi atteggiamenti, oppure si può escludere dalle trattative chi si comporta in questo modo: i “giudici” che controllano il corretto svolgimento del gioco assumono un’importanza fondamentale);

3. il futuro deve avere valore per entrambi i giocatori, cioè entrambi gli attori devono preferire una collaborazione in quanto la somma dei payoff attualizzati sul lungo termine maggiora sicuramente un solo comportamento opportunista.

Il teorema popolare rende la soluzione collaborativa possibile, non unica o necessaria. Affinché questa soluzione possa effettivamente realizzarsi è necessario che il cambiamento sia congiunto e coordinato. Spesso però le situazioni reali sono molto più complicate e, nella determinazione della soluzione effettiva del gioco, bisogna tenere conto di altri fattori:

la presenza di molteplici obiettivi; il fattore tempo, inteso come momento in cui l’attore opera la propria scelta.

7.3 Il gioco del dispetto Consideriamo la seguente situazione decisionale:

Un padre si rivolge ai suoi due figli singolarmente, proponendo loro il seguente accordo: si impegna a dare al figlio con cui sta parlando 1€ se il figlio accetta che al fratello ne vengano dati 3, mentre se invece rifiuta nessuno riceverà del denaro. Ipotizzando che ogni figlio abbia come obiettivo la massimizzazione del guadagno personale, la tabella dei payoff sarà la seguente:

Nella realtà, molto difficilmente i due fratelli accetteranno la soluzione proposta. Non sempre l’obiettivo dei decisori è unico, molto spesso si considerano degli obiettivi molto articolati: in questa situazione ad esempio alla massimizzazione del profitto personale si affianca la

€ A. N.A.

A. 4; 4 1; 3

N.A. 3; 1 0; 0

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massimizzazione del guadagno differenziale rispetto alla controparte, in quanto ciascun fratello non vuole che l’altro abbia un guadagno maggiore (seguendo la teoria dell’equità, vorrà che la differenza sia quantomeno nulla). Se i fratelli decidono considerando anche la realizzazione relativa della propria scelta (payoff differenziali ) si ottiene la seguente tabella: Se infine ipotizziamo che i fratelli siano mossi da entrambi gli obiettivi e in egual misura, cioè se li consideriamo sensibili allo stesso modo ai payoff assoluti e a quelli differenziali, il payoff totale sarà dato dalla somma dei valori delle due tabelle: Si può facilmente notare che questa situazione equivale al dilemma del prigioniero. Si ha quindi che:

alternative dominanti Non accettare diventa l’alternativa dominante per entrambi i giocatori.

soluzioni efficienti Tutte le soluzioni, ad eccezione di Non accettare–Non accettare, sono efficienti.

soluzioni di equilibrio L’unica soluzione di equilibrio è la soluzione Non accettare–Non accettare.

7.4 Il gioco del pollo Il gioco del pollo è uno dei modelli classici che fa riferimento ad una situazione di questo tipo:

Due ragazzi stanno correndo in macchina ad alta velocità lungo la stessa strada ma in direzioni opposte. Si incrociano in prossimità di uno stretto ponte, da cui può passare solamente una macchina alla volta: nessuno dei due vuole dare la strada all’altro ma entrambi sanno che se nessuno si scansa potrebbe scaturirne un incidente. I loro obiettivi sono questi:

l’obiettivo primario è la sopravvivenza; l’obiettivo secondario è passare per primo, senza cedere il passo.

Ogni attore ha due alternative a disposizione, ossia Sterzare o Non sterzare, i cui payoff sono quelli della tabella a lato. Il loro valore potrebbe essere però influenzato anche:

dalla considerazione per la propria vita; dalla “propensione al bullismo” di ogni attore.

La struttura del gioco, in ogni caso, non subirebbe alcun cambiamento.

Δ€ A. N.A.

A. 0; 0 –2; 2

N.A. 2; –2 0; 0

tot A. N.A.

A. 4; 4 –1; 5

N.A. 5; –1 0; 0

S. N.S.

S. 3; 3 2; 4

N.S. 4; 2 0; 0

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Analizziamo quindi il gioco: alternative dominanti

Non esistono alternative dominanti. soluzioni efficienti

Eccezion fatta per la soluzione Non sterzare–Non sterzare, tutte le soluzioni del gioco sono efficienti.

soluzioni di equilibrio Il gioco possiede due soluzioni di equilibrio, relative alla situazione in cui uno dei due decisori cede il passo.

Uno degli elementi chiavi del gioco del pollo è la possibilità di osservare i comportamenti della controparte e la sua decisione: se uno dei due ragazzi decidesse di Sterzare, la controparte manterrebbe sicuramente la direzione. Questo gioco mostra quindi l’importanza di poter osservare tempestivamente le decisioni della controparte: chi attende il più possibile nel prendere una decisione spesso ottiene maggiori vantaggi, in quanto possiede una maggiore quantità di informazioni.

7.5 Il gioco delle coppie Il gioco delle coppie è uno dei modelli classici che fa riferimento ad una situazione di questo tipo:

Due fidanzati devono decidere come trascorrere la serata. Lui preferirebbe andare al cinema, mentre lei preferirebbe andare a teatro. Entrambi però pongono come priorità lo stare assieme, anche se vorrebbero poter andare nel luogo preferito.

In questa situazione, la tabella dei payoff è quella a lato. La struttura di questo gioco è molto simile a quella del gioco del pollo, in quanto la segnalazione della propria scelta può essere un fattore decisivo per la definizione della soluzione: a differenza dell’altro gioco, però, chi sceglie per primo (first mover) è evidentemente favorito in quanto sposta verso la propria preferenza le sorti del gioco. Il gioco delle coppie è utile quindi per definire l’importanza della prima mossa e della sua segnalazione.

Questo gioco si presta alla realizzazione di strategie miste: se la situazione si presenta con frequenza, i fidanzati possono raggiungere un compromesso e alternare le scelte.

Analizziamo quindi il gioco:

alternative dominanti Non esistono alternative dominanti.

soluzioni efficienti Le soluzioni efficienti sono Cinema–Cinema e Teatro–Teatro.

soluzioni di equilibrio Le soluzioni di equilibrio sono Cinema–Cinema e Teatro–Teatro.

I giochi delle coppie e del pollo sono molto utili in quanto permettono di illustrare la difficoltà della determinazione, a priori, di un unico equilibrio (e dunque della soluzione del gioco) in quanto ogni attore può mettere in atto delle strategie volte a forzare la soluzione in suo favore:

essere inflessibili. Nel gioco del pollo, per esempio, la flessibilità è un punto di debolezza: è possibile forzare la scelta della controparte spostandosi decisamente verso l’alternativa che si favorisce e manifestando la volontà di non cambiare opzione. In questo caso, la credibilità del decisore assume un’importanza fondamentale.

fare leva sull’effetto annuncio. La comunicazione della decisione assume un’importanza rilevante, in quanto l’annuncio può da solo produrre degli effetti.

C. T.

C. 4; 3 2; 2

T. 1; 1 3; 4

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aumentare la posta in gioco. In molte circostanze si può adottare la politica del rischio calcolato, che prevede di alzare la posta in gioco e il conseguente rischio fino a portare l’avversario alla “soglia del precipizio”, costringendolo a desistere.

evitare il gioco. In molte circostanze è possibile evitare il gioco del pollo semplicemente cercando di alterare in modo creativo il contesto decisionale.

7.6 Le diverse tipologie di giochi I giochi possono essere di due diverse tipologie:

giochi sequenziali Un gioco si definisce sequenziale quando l’interazione tra i giocatori non avviene in modo simultaneo, ma come reazione alla scelta della controparte: in questo caso un attore può scegliere dopo aver osservato la scelta dell’altro. (per esempio il gioco del pollo e il gioco delle coppie)

giochi simultanei Un gioco si definisce simultaneo quando gli attori decisionali devono compiere la loro scelta contemporaneamente. (per esempio il gioco del prigioniero)

I giochi, inoltre, possono essere anche classificati come:

giochi iterati Un gioco si definisce iterato se può essere ripetuto più volte nel corso del tempo. (per esempio alcune versioni del gioco del prigioniero o il gioco delle coppie)

giochi non iterati Un gioco si definisce non iterato quando non può essere ripetuto più volte nel corso del tempo. (per esempio il gioco del pollo)

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8. IL RUOLO DEL TEMPO Gli effetti di una decisione dipendono anche dal momento nel quale la decisione viene presa:

in molti casi la possibilità di scegliere per primo può influenzare in modo rilevante il gioco; in altri casi, invece, la possibilità di aspettare ed osservare il comportamento della

controparte può portare a grandi vantaggi. Il tempo quindi, inteso come momento in cui si affronta la decisione (timing), ha un ruolo di fondamentale importanza nelle decisioni manageriali. Considero un generico processo decisionale definito come un modello retro-azionato: Si possono distinguere questi diversi tempi:

tempo di decisione TD Il tempo di decisione è l’intervallo di tempo che viene utilizzato dal decisore per:

- definire gli obiettivi dello specifico problema; - definire il modello della realtà; - generare e valutare le alternative; - scegliere l’alternativa migliore.

La lunghezza di questo intervallo è influenzata dal particolare approccio alle decisioni che viene considerato.

tempo di implementazione TI Il tempo di implementazione è l’intervallo di tempo necessario per l’implementazione dell’alternativa decisionale che viene scelta. In particolare, comprende i tempi necessari per:

- acquisire i capitali; - operare gli investimenti; - sviluppare le competenze; - attuare i piani.

tempo di adattamento della realtà TR Il tempo di adattamento della realtà è l’intervallo che deve essere atteso prima che si manifestino nella realtà gli interventi del decisore.

tempo di misura TM Il tempo di misura è l’intervallo necessario per la misura retroattiva degli effetti dell’implementazione dell’alternativa (dipende anche dal sistema di controllo e misurazione che viene adottato).

orizzonte degli effetti TE L’orizzonte degli effetti è un parametro molto importante: alcune decisioni infatti producono degli effetti di breve termine (decisioni di programmazione della produzione, …), mentre altre producono effetti più duraturi (decisioni di investimento, …).

orizzonte delle variabili ambientali TA L’orizzonte delle variabili ambientali è l’intervallo di tempo entro il quale il decisore è in grado di prevedere l’andamento delle variabili ambientali (questo parametro risente della capacità previsionale).

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Spesso il ritardo tra la decisione l’osservazione degli effetti implica la necessità di formulare delle previsioni sull’ambiente esterno, fatto che introduce ovviamente rischio o addirittura incertezza nel processo produttivo. L’esistenza di un tempo necessario per realizzare la decisione comporta la possibilità che una soluzione ritenuta ottima non sia più tale in seguito ad un cambiamento repentino ed imprevisto del contesto. Per questo motivo, risulta importante l’introduzione della condizione di tempestività:

𝐓𝐃 + 𝐓𝐈 + 𝐓𝐑⏟ 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐝𝐢 𝐫𝐞𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞𝐝𝐞𝐥 𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐦𝐚 (𝐓)

+ 𝐓𝐄 + 𝐓𝐌 ≤ 𝐓𝐀

Il processo decisionale è efficace e sotto controllo se e solo se i decisori sono in grado di valutare gli effetti di una decisione (tenendo conto che potrebbero protrarsi nel tempo) prima che il contesto abbia un evoluzione imprevista. Si ha quindi che:

se il tempo necessario per realizzare una decisione è minore dell’orizzonte entro cui il contesto esterno rimane stabile o prevedibile, la decisione viene presa con sufficiente anticipo;

se il tempo necessario per realizzare una decisone è maggiore dell’orizzonte entro cui il contesto esterno rimane stabile e prevedibile, il decisore potrebbe non essere in grado di attuare la decisione migliore in quanto gli effetti sarebbero valutati (e corretti) facendo riferimento a delle variabili ormai superate ed inadatte.

Il timing delle decisioni è dunque essenziale:

se il tempo necessario alla decisione eccede il tempo concesso dall’ambiente, il rischio è quello di trovarsi spiazzati e in ritardo rispetto all’evoluzione del contesto (si rischia per esempio di lanciare nel mercato un prodotto già “vecchio”);

se la decisione viene presa con largo anticipo, esistono dei rischi connessi alla scarsità delle informazioni a disposizione (si rischia per esempio di lanciare un prodotto in un mercato non ancora pronto).

8.1 Il modello di Ansoff Il modello di Ansoff (1979) descrive le dinamiche dei tempi necessari per attuare una decisione e di quelli a disposizione per farlo prima che intervenga un cambiamento radicale nel contesto. Questo modello:

si adatta alle decisioni non ripetitive e “nette”, che comportano un cambiamento ben definito (salti tecnologici, cambiamenti normativi, aperture di nuovi mercati, …);

non si adatta a cambiamenti lenti ma continui. Questo modello parte dai presupposti che:

la quantità di informazioni utili disponibili è variabile nel tempo (è molto limitata all’inizio ed aumenta gradualmente con il progredire del cambiamento);

i decisori attraversano dei progressivi stadi di conoscenza, in base al livello di conoscenza delle caratteristiche del cambiamento.

Ansoff riconosce l’esistenza di sette stadi progressivi:

1. senso generale di turbolenza Si avverte l’esistenza di una discontinuità, di un fermento all’interno del settore: non è ancora chiaro però né come si presenterà il cambiamento né le azioni che possono essere intraprese in risposta.

2. identificazione della fonte Con il passare del tempo, le fonti del cambiamento iniziano a diventare più chiare. Esse possono essere ad esempio nuovi concorrenti e cambiamenti normativi o sociali.

3. identificazione dell’impatto Le organizzazioni comprendono tanto l’entità del cambiamento quanto le modalità e i tempi in cui si manifesteranno gli effetti. Si stimano (con incertezza) le conseguenze.

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4. determinazione della risposta Si determinano le possibili risposte (azioni, programmi, …) che potrebbero essere formulate per chiarire quali risorse mettere in campo e quali azioni potrebbero essere intraprese.

5. valutazione degli effetti Gli effetti delle varie alternative sono più chiari e i decisori hanno maggiori informazioni a disposizione (possono stimare le conseguenze delle alternative e le reazioni degli altri attori).

6. primo impatto Il cambiamento comincia a manifestarsi limitatamente ad una parte della realtà: solo alcune parti del sistema sono interessate e solo pochi pionieri operano nel nuovo contesto.

7. pieno impatto Il settore è entrato nell’ultima fase del cambiamento: la transizione è stata completata e gli effetti sono completamente misurabili.

8.1.1 Il tempo disponibile e il tempo necessario Si può fare una distinzione tra:

tempo disponibile prima del primo impatto Td Il tempo disponibile prima del primo impatto è il tempo che il decisore ha a disposizione per poter reagire e per potersi adattare al cambiamento del contesto. Si ha che, col progredire degli stadi di conoscenza:

- si riduce progressivamente, fino ad annullarsi al pieno impatto; - la disponibilità di informazioni aumenta.

tempo necessario per reagire al cambiamento Tn Il tempo necessario per reagire al cambiamento è il tempo di cui ha bisogno il decisore per potersi adattare al cambiamento. Si compone di:

- tempo necessario per lo sviluppo delle competenze Ts È il tempo necessario per costruire ex novo le conoscenze e le capacità per rispondere al cambiamento. Questa componente è decrescente col progredire degli stadi di conoscenza, in quanto con l’avvicinarsi al primo impatto le informazioni diventano più abbondanti (è più facile reperire informazioni mediante l’acquisizione di competenze, la reverse engineering, …).

Anche se si acquisiscono competenze già formate sarà necessario un certo tempo per adattamento alla realtà aziendale.

- tempo necessario per l’implementazione del cambiamento Ti È il tempo che occorre per realizzare i cambiamenti tecnologici e per rendere operante l’alternativa che si sceglie di implementare. Questa componente è indipendente dalle informazioni disponibili (è pressoché costante).

Si ha quindi che il tempo necessario per reagire al cambiamento si può calcolare come: 𝐓𝐧 = 𝐓𝐬 + 𝐓𝐢

Anche da un punto di vista grafico, è evidente come:

il punto L identifica il punto di intersezione tra le due curve, cioè indica lo stadio della conoscenza nel quale al più tardi occorre decidere per arrivare almeno puntuali al pieno impatto.

se le decisioni vengono prese a sinistra del punto L, cioè quando si ha che Tn < Td , il

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processo è ancora sotto controllo è si possono prendere le decisioni con calma. In questa situazione si hanno minima informazione e massimo rischio (ma in molti settori i first mover si garantiscono una leadership duratura).

se le decisioni vengono prese a destra del punto L, cioè quando si ha che Tn > Td , si decide in condizioni di massima informazione e minimo rischio ma in ritardo rispetto al tempo disponibile. Si rinuncia, come minimo, al vantaggio di arrivare prima degli altri e si rischia di essere spiazzati dai competitori (si arriva dopo il pieno impatto).

8.2 La turbolenza ambientale Solitamente, quando ci si riferisce al mutamento dell’ambiente esterno in cui opera l’impresa si parla di turbolenza ambientale. Sono molti, infatti, i fattori contingenti che influenzano le organizzazioni: basti pensare alle variabili ambientali relative ai mercati, alle tecnologie o alle normative. Tutte queste variabili possono cambiare più o meno frequentemente, in modo più o meno rilevante e con impatto variabile. Ansoff (1979) qualifica la turbolenza ambientale di un qualsiasi settore analizzando tre diversi elementi caratterizzanti:

1. velocità del cambiamento La velocità di cambiamento dell’ambiente è inversamente proporzionale all’intervallo di tempo all’interno del quale le variabili ambientali rilevanti del modello rimangono stabili (o, in alternativa, sono affette da piccole variazioni non rilevanti a fini decisionali). Un aumento della velocità di cambiamento:

implica necessariamente tempi di risposta più contenuti, in quanto di riduce il tempo disponibile prima del pieno impatto;

porta all’adozione di strumenti di governo delle decisioni più sofisticati, che riducono il tempo di risposta del sistema. Si può intervenire:

- sul tempo di sviluppo del processo decisionale (TD), ad esempio introducendo la standardizzazione di alcune procedure per rendere più rapidi i processi di modellizzazione e di generazione/valutazione delle alternative;

- sul tempo di implementazione (TI), utilizzando per esempio strutture di tipo organico (permettono di ridurre i tempi connessi alle decisioni);

- sul tempo necessario per misurare gli effetti (TM), per esempio mediante l’utilizzo di sistemi di controllo (privilegiando la tempestività piuttosto che il dettaglio delle informazioni).

2. novità del cambiamento Una seconda dimensione di analisi può essere la cosiddetta novità del cambiamento. Questo concetto si può ricondurre:

all’insieme di variabili ambientali che vanno considerate all’interno del modello (è necessario ampliare il numero di fattori da considerare);

V1

V2

V3

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alla stabilità del modello decisionale, ossia alla validità della legge f (in presenza di novità varia l’andamento nel tempo delle variabili ambientali e, quindi, variano le leggi che cercano di prevederlo);

alla variazione dei vincoli da considerare; all’insieme di variabili decisionali che devono essere introdotte.

L’aumento della novità del cambiamento porta ad una rapida obsolescenza dei modelli decisionali e ne richiede l’aggiornamento: maggiore è la novità, quindi, meno si può fare affidamento alle tecniche basate sul passato (che oltre a non essere un riferimento valido potrebbe essere fuorviante).

3. complessità del cambiamento Un ultimo fattore da considerare, poi, è la complessità del cambiamento, che prende in considerazione il numero di variabili (e di relazioni) interessate dal cambiamento. All’aumentare del numero di variabili e delle loro interazioni diventa più difficile prevedere l’evoluzione dello scenario e, di conseguenza, è più complicato prevedere i risultati delle decisioni ed eventuali effetti collaterali: aumenta quindi la necessità di coordinare le azioni dei diversi decisori (ed aumentano anche i vincoli da considerare).

L’effetto congiunto di novità e complessità ambientale è l’aumento del tempo necessario per reagire al cambiamento: a parità di stadio di conoscenza, la maggiore novità comporta un tempo maggiore per acquisire le conoscenze mentre la maggiore complessità richiede un tempo maggiore per poter decidere (per via della grande quantità di variabili da tenere sotto controllo). L’effetto complessivo di una generale turbolenza ambientale è visibile se si sovrappongono gli effetti delle tre dimensioni di analisi.

NC3

NC2

NC1

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Al crescere della turbolenza ambientale, le imprese sono costrette a decidere avendo a disposizione una minore quantità di informazioni (e quindi in condizioni di rischio o addirittura di incertezza). Per questo motivo:

diventa più complesso prendere decisioni, quindi è necessario fare affidamento su sistemi decisionali più “robusti”;

diventano più importanti i sistemi di previsione e di rilevazione dei segnali (anche deboli) provenienti dal mercato;

diventa critico valutare gli effetti di un cambiamento prima del primo impatto. Anche lo stile di management è influenzato dal livello di turbolenza. Si possono riconoscere diversi stili:

stile reattivo In questo caso, il punto limite si trova intorno al 6° o 7° stadio della conoscenza: la gestione dell’organizzazione può avvenire tramite controllo e reazione al cambiamento (spesso si attende il primo impatto per intervenire, in modo da identificare l’alternativa migliore). Per poter applicare in modo ottimale questa strategia, è necessario garantire un monitoraggio adeguato dell’ambiente mediante strumenti di misura e reporting.

stile anticipativo In questo caso, il punto limite si trova intorno al 5° o 6° stadio della conoscenza: l’utilizzo dei dati storici inizia a diventare inadeguato (la velocità li rende presto obsoleti e la novità introduce nuove variabili, mai considerate prima), quindi è di fondamentale importanza affinare le capacità previsionali per rilevare informazioni sull’ambiente in modo da anticipare il primo impatto. Si utilizzano dei sistemi di pianificazione di lungo termine, basati proprio sulle previsioni.

stile esplorativo In questo caso, il punto limite si trova fra il 3° e il 5° stadio della conoscenza: le capacità previsionali dell’impresa sono ancora più importanti, ma le difficoltà che si incontrano nelle previsioni sono elevate. Bisogna quindi stabilire delle strategie da seguire, per gestire l’incertezza del contesto e garantire flessibilità, ed è fondamentale esplorare l’ambiente esterno, per controllare l’elevata novità.

stile creativo In questo caso, il punto limite si trova intorno al 1° o 2° stadio della conoscenza: è ancora più importante saper cogliere anche i più deboli segnali che annunciano il cambiamento. Vista la difficoltà che si incontra nel reperire informazioni strutturate, i decisori cercano di cavalcare ed indirizzare il cambiamento piuttosto che subirlo.

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9. IL MARKETING MANAGEMENT Il marketing è l’insieme di decisioni e di azioni che possono essere intraprese dall’azienda per:

creare prodotti e servizi che possano soddisfare la domanda del mercato, dando loro una forma, un contenuto e delle funzioni;

creare la conoscenza dei prodotti e dei servizi offerti (e delle loro caratteristiche); gestire la domanda dei vari clienti (consumatori finali, altre imprese, amministrazioni

pubbliche, distributori, …) di prodotti e servizi; rendere disponibili al cliente i prodotti e i servizi (mediante la loro distribuzione).

L’idea di base del marketing management è che la domanda di beni e servizi può essere stimolata e opportunamente canalizzata. Da questa prospettiva, è evidente come per il marketing la domanda non sia una variabile ambientale (esogena) ma una variabile endogena, il cui livello e la cui composizione sono l’effetto combinato di:

azioni di marketing mirate, come ad esempio campagne promozionali, offerte e sconti (che “pompano” la domanda con effetti positivi generalmente solo nel breve termine), pubblicità televisive e televendite (che possono anche sviluppare dal nulla la domanda), la capacità di sviluppare un brand solido o di lanciare una moda (che scatenano la corsa all’acquisto);

variabili ambientali quali il reddito disponibile dei potenziali clienti, la propensione all’acquisto, il fabbisogno effettivo, … .

9.1 I bisogni e la domanda Qualsiasi domanda di beni o servizi espressa da un soggetto economico (sia esso un individuo o un’organizzazione) si origina da un particolare bisogno. I bisogni possono essere soddisfatti in questi modi:

autoproduzione; baratto (cessione di beni e servizi posseduti ma non necessari in cambio di altri beni e

servizi di cui si ha bisogno); acquisto in cambio di denaro.

La domanda espressa o latente di un cliente è frutto di un bisogno, ossia una necessità più o meno impellente da soddisfare, che non può essere soddisfatto mediante autoproduzione. Per quanto ci siano molti aspetti in comune tra queste due categorie (fatto che rende possibile considerare una teoria unica), ci sono enormi differenze tra il marketing rivolto ai consumatori finali e quello rivolto invece ai consumatori intermedi (clienti industriali). Un primo elemento di discontinuità riguarda proprio la modalità di generazione della domanda:

nel mercato finale la domanda nasce ovviamente da un bisogno, dalla necessità da parte di una persona di avere qualcosa che permetta di raggiungere un determinato stato. Il bisogno non si traduce immediatamente in una domanda: esso viene tradotto dalla persona in un desiderio, che misura l’orientamento e la preferenza del cliente verso i diversi prodotti o servizi che sono offerti dal mercato. Il marketing interviene proprio in questa sequenza bisogno–desiderio–domanda, con l’obiettivo di indirizzare un generico bisogno verso il desiderio di uno specifico prodotto o servizio (e non con l’obiettivo di generare un bisogno). Un riferimento descrittivo per i bisogni di questa categoria può essere la cosiddetta scala di Maslow (1954):

1. bisogni fisiologici: sono i bisogni di base degli esseri umani, quelli legati alla sopravvivenza (come fame, sete, sonno, …);

2. bisogni di sicurezza: riflettono la ricerca di protezione dalle minacce, dai pericoli e dalle privazioni;

3. bisogni di appartenenza: riguardano la sfera affettiva, in quanto “animali sociali” gli uomini hanno bisogno di sentirsi parte integrante di una comunità;

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4. bisogni di stima: riguardano sia l’autostima (la propria autonomia e l’indipendenza) sia la stima degli altri e il riconoscimento;

5. bisogni di autorealizzazione: sono di ordine superiore, legati allo sviluppo delle proprie potenzialità.

nei mercati industriali, invece, la natura dei bisogni è diversa (è più tecnica e razionale). Il legame bisogno–domanda è molto più immediato, in quanto i beni e i servizi richiesti dalle imprese sono quelli funzionali al regolare svolgimento del business: per questo motivo, il bisogno (specificato nel dettaglio) si traduce in genere in una domanda immediata. In questo caso, il marketing ha l’obiettivo di canalizzare i bisogni verso i servizi che meglio li soddisfano.

9.1.1 L’offerta, il valore e la marca Per intercettare i desideri e la domanda le imprese offrono sul mercato prodotti e servizi, che permettono al cliente di garantirsi:

benefici funzionali, ottenuti dal consumatore in seguito al consumo del prodotto o servizio; benefici psicologico–emotivi, che hanno a che fare con la sfera psicologica ed emotiva del

consumatore. L’insieme di questi benefici e del costo di acquisizione costituiscono l’offerta di un’impresa. In particolare, con costi di acquisizione si intende la somma di costi monetari sostenuti e sforzo o tempo spesi per procurarsi il prodotto o servizio. Il valore dell’offerta per un cliente è costituito dal rapporto della somma dei benefici e della somma dei costi. Ogni impresa cerca di comunicare informazioni riguardo ai benefici ottenibili dal consumo dei propri prodotti. In questa comunicazione ha grande importanza la marca (o brand), che già da sola comunica il valore associabile ad un prodotto ed evoca sensazioni quali qualità, importanza, sicurezza e validità del prodotto. 9.1.2 L’orientamento al marketing Il marketing management nasce con l’obiettivo di modificare e influenzare la domanda di mercato o, in una visione più ampia, di individuare i bisogni attuali e potenziali del mercato in modo da trasformarli in opportunità di business. In questo contesto, quindi, risulta molto importante l’approccio del management al mercato, che varia a seconda della storia (sia dell’azienda che del settore), della strategia di base adottata e delle caratteristiche dell’impresa. Per aumentare le vendite e il fatturato si possono adottare quattro diversi approcci:

1. orientamento al marketing In questo caso, l’obiettivo primario è la conoscenza (e il soddisfacimento) dei reali bisogni del cliente, la catena bisogno–(desiderio)–domanda viene stimolata dall’azienda attraverso una migliore comprensione delle domande manifeste e la ricerca di domande latenti. Questo approccio è adatto tanto a settori maturi quanto a settori emergenti.

2. orientamento alle vendite Usando questo approccio si ha un focus più limitato rispetto al caso precedente. L’azienda si preoccupa di stimolare la domanda mediante tecniche di vendita (di conseguenza le leve di azione sono abbastanza limitate), partendo dal presupposto che se non adeguatamente incentivati i clienti non comprano.

3. orientamento al prodotto Si ha un atteggiamento di questo tipo se, per l’azienda considerata, il modo migliore per aumentare la domanda è un continuo miglioramento del prodotto offerto (si punta cioè a fornire al cliente il prodotto migliore in assoluto). Questo atteggiamento è tipico delle aziende nate e cresciute con un prodotto specifico.

4. orientamento alla produzione In questo caso, l’enfasi viene posta sulla capacità di produrre e distribuire prodotti e servizi in grande quantità (leve limitate), approccio tipico dei mercati e settori in via di sviluppo.

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9.1.3 Gli stati della domanda Nell’interpretare e stimolare la domanda ci si può trovare di fronte ad una grande quantità di situazioni differenti:

domanda stabile (tipica di molti prodotti di largo consumo) La domanda è stabile e regolare sul lungo periodo. L’obiettivo del marketing, in questo caso, è sostenere la domanda (cercando di mantenere volumi adeguati), andando a monitorare sia il grado di soddisfacimento dei clienti sia le azioni che possono essere messe in campo dai competitori (e che potrebbero erodere la quota di mercato).

domanda irregolare (settore dell’abbigliamento) La domanda, in questo caso, è stabile sul lungo termine ma presenta forti oscillazioni sul breve termine, ad esempio a causa di stagionalità o picchi improvvisi. In questo caso, il compito del marketing non è tanto aumentare la domanda quanto livellarla, cercando di renderla più omogenea mediante saldi, sconti, incentivi e promozioni.

domanda in declino La domanda, in questo caso, è in netto calo. Il marketing ha di fronte a sé due alternative: cercare di rivitalizzare il prodotto (o il servizio) con innovazioni o modifiche o lasciare che il declino continui, favorendo investimenti in prodotti o servizi alternativi.

domanda latente (mercati nati da poco) La domanda viene creata dall’individuazione di bisogni nascosti. Si devono quindi creare una marca ma anche un’offerta e un sistema di distribuzione e, generalmente, la rapidità è fondamentale per la leadership.

Non sono rare, poi, situazioni di questo tipo: - domanda eccessiva (turismo a Venezia)

La domanda è superiore alle capacità di soddisfacimento. Si devono mettere in campo azioni di de-marketing, volte non tanto all’azzeramento della domanda quanto al suo contenimento (o all’indirizzamento verso soluzioni alternative).

- domanda nociva (alcol, fumo, stupefacenti) In questo caso, invece, le azioni di de-marketing devono essere rivolte a scoraggiare (o preferibilmente annullare) la domanda.

9.2 Il marketing e l’innovazione tecnologica Al giorno d’oggi, ossia in un contesto socioeconomico fortemente globalizzato e caratterizzato da mercati liberalizzati, per una qualsiasi impresa è molto difficile sostenere un vantaggio competitivo basato su una leadership di costo (o più specificamente su una riduzione dei costi del lavoro) o individuare una nicchia protetta dalla concorrenza. Diventa di fondamentale importanza, quindi, il concetto di innovazione tecnologica: l’introduzione di nuovi prodotti e di servizi, infatti, consente alle imprese di mantenere entro certi range la loro crescita e di proteggere i propri margini di profitto. Per capire in quale modo il marketing influisce nei processi di innovazione è necessario considerare le dinamiche di base dell’innovazione tecnologica. I suoi elementi essenziali sono questi:

1. fonti di innovazione Le attività interne di ricerca e sviluppo non sono l’unica fonte di innovazione delle aziende. Tra le principali fonti di innovazioni di una qualsiasi impresa, infatti, è molto importante ricordare le fonti esterne, come ad esempio gli utilizzatori (ossia i clienti): tantissime innovazioni sono state pensate o addirittura sviluppate dai clienti, prima di essere poi commercializzate dalle imprese commerciali su larga scala. Quello degli utilizzatori, di conseguenza, è un ruolo fondamentale: è molto comune che un cliente introduca delle innovazioni sui prodotti di interesse (o che comunque fornisca spunti o idee ai costruttori), soprattutto grazie all’esperienza quotidiana che si ha del prodotto. Gli utilizzatori hanno ben chiare, infatti:

le condizioni di utilizzo dei beni o servizi forniti;

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eventuali problemi ricorrenti collegati all’utilizzo; i margini di miglioramento del prodotto o del servizio.

Quando si parla di innovazioni generate o ispirate e guidate dagli utilizzatori si parla di innovazioni demand pull, in modo da distinguerle da quelle spinte dalle nuove tecnologie (dette invece technology push).

Gli utilizzatori non sono l’unica fonte esterna di innovazione, si potrebbero citare anche i fornitori, i centri di ricerca e le università, i concorrenti e molte altre fonti. Il ruolo della funzione marketing, però, è quello di:

- stimolare i clienti all’innovazione; - raccogliere e canalizzare le proposte e gli spunti dei clienti; - sondare il mercato alla ricerca di segnali di innovazione.

2. conflitti tra standard e disegno dominante Nei mercati attuali sono diversi i settori in cui il successo competitivo delle imprese dipende fortemente dalla possibilità (o meno) di affermare uno standard o un disegno dominante del prodotto, ossia un paradigma di riferimento che si impone sugli altri. Si pensi ad esempio ai settori ad alta tecnologia, dove spesso ci sono modelli di riferimento (come ad esempio per le telecomunicazioni gli standard 3G e 4G, per l’informatica Microsoft, …) principalmente perché i rendimenti di queste tecnologie crescono con il numero di utilizzatori. Accade di frequente, quindi, che aziende diverse lancino sul mercato tecnologie differenti, dando vita ad un conflitto tra standard (si pensi ad esempio al caso Betamax di Sony contro VHS di Panasonic), cercando ciascuna di imporre il proprio prodotto come disegno dominante. È molto importante, inoltre, sottolineare come spesso gli esiti di questi scontri non dipendono solamente dall’effettiva bontà o superiorità della nuova tecnologia ma dalle scelte strategiche e di marketing dell’azienda: molte volte chi per primo individua il mercato potenziale e riesce a soddisfare i bisogni latenti riesce ad ottenere il predominio del mercato.

Esistono anche settori in cui condividono standard e disegni diversi: molto spesso, infatti, questi conflitti si concludono con una sorta di pareggio (si pensi al mercato delle consolle e agli standard PlayStation di Sony, Wii di Nintendo e Xbox di Microsoft).

3. timing dell’innovazione La scelta del tempo di ingresso nel mercato è un fattore cruciale per il successo e modelli come quello di Ansoff forniscono una cornice concettuale alle tempistiche dei processi decisionali. I vantaggi del first mover (o, a volte, anche degli early followers), ossia di chi per primo lancia l’innovazione o il nuovo prodotto sul mercato, sono molti:

si può sfruttare un monopolio temporaneo del mercato, garantendosi potenzialmente maggiori profitti almeno nel breve termine;

si ha la possibilità, vista l’assenza di concorrenti, di affermare il proprio standard come dominante, consolidando il brand e fidelizzando i clienti, e di proteggere il prodotto con brevetti;

si possono sfruttare economie di scala e di apprendimento nel medio termine prima dei competitors.

Se, da un lato, il vantaggio del first mover è consistente e può essere perso solo in seguito ad errori strategici, sconfitte sugli standard o particolari fattori esterni, non bisogna dimenticare svantaggi e rischi collegati all’ingresso anticipato:

molto spesso i first mover si trovano costretti ad investire grandi capitali senza ritorni immediati, ad esempio per stimolare una domanda ancora inesistente o latente;

tante volte l’introduzione anticipata di prodotti può portare a minori livelli di qualità e affidabilità rispetto ad altri prodotti che verranno introdotti poco dopo.

Il ruolo del marketing, anche in questo caso, è di centrale importanza: è necessario valutare attentamente i bisogni e la domanda potenziale evitando di lanciare un prodotto sul mercato prima che esso sia maturo e pronto ad accoglierlo in modo adeguato.

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Altre situazioni frequenti sui mercati attuali sono: il lancio di prodotti “sovradimensionati” da parte dei leader tecnologici del mercato,

ossia l’introduzione di prodotti in grado di garantire performances eccessive rispetto alle effettive richieste dei clienti in modo da fronteggiare la concorrenza e mantenere margini di profitto.

il ritardo nel lancio di un prodotto per evitare i rischi di cannibalizzazione (un aspetto cruciale collegato al timing di introduzione). Molte volte le aziende operanti in un mercato ritardano la vendita di una nuova tecnologia per non erodere i profitti di altri prodotti maturi che già offrono: questa scelta, spesso giustificata, a volte si rivela pericolosa (altri potrebbero introdurre prima del lancio il nuovo standard e si potrebbero perdere il vantaggio competitivo o una posizione di leadership).

Non va trascurata, inoltre, l’importanza del ciclo di vita dei prodotti e delle tecnologie.

9.3 Il marketing e la società Il marketing management è un insieme di attività e di funzioni molto vicine e per certi versi sovrapposte alle strategie di impresa: per questo spesso si parla di marketing strategico. Nella maggior parte delle aziende il marketing è una funzione dotata di risorse consistenti e con competenze specialistiche molto avanzate. Gli obiettivi di marketing, in genere, discendono dagli obiettivi strategici (di profittabilità, sviluppo, diversificazione, consolidamento, mantenimento delle posizioni, …) secondo una logica strumentale, ossia sono funzionali al raggiungimento di obiettivi strategici più generali. Esempi di obiettivi di marketing sono:

il raggiungimento o il mantenimento di una certa quota di mercato; il conseguimento di certi livelli di fatturato; il mantenimento di un tasso di crescita delle vendite; la canalizzazione della domanda di servizi e prodotti verso segmenti più redditizi; il lancio di nuovi prodotti o servizi.

Il primo compito del marketing è sicuramente l’analisi del contesto di mercato in cui l’impresa opera (o vorrebbe operare) al fine di individuare:

le opportunità (opportunities), le possibilità che si presentano all’impresa di aumentare i propri profitti;

le minacce (threats), che possono essere potenziali rischi per l’impresa (tendenze ambientali sfavorevoli, comportamenti avversi di altri attori, …), opportunità non colte perché non identificate in tempo o minacce non percepite.

Minacce e opportunità possono determinare l’attrattività attuale e futura di un business. Per questo motivo sono molto importanti le cosiddette SWOT analysis (Strenghts, Weaknesses, Opportunities, Threats), ossia delle analisi finalizzate a:

valutare fattori importanti come i punti di forza o di debolezza dell’impresa, oltre che minacce e opportunità del mercato;

definire gli obiettivi specifici del business, come ad esempio i punti di forza da utilizzare e le debolezze da “limare” per poter sfruttare le opportunità del mercato.

9.3.1 Le tendenze emergenti Il mondo del business è continuamente attraversato da cambiamenti e fenomeni sociali, tecnologici ed economici che modificano gli orientamenti delle imprese e “colpiscono” specialmente la funzione marketing, essendo essa l’interfaccia dell’impresa con il mercato. Ecco alcune tendenze:

economia e società digitali Internet è ormai uno strumento quotidiano per milioni di consumatori, si imprese e di organizzazioni in tutto il mondo. La Rete, negli ultimi anni, ha assunto una sempre maggiore importanza anche nelle attività economiche, al punto di aver cambiato profondamente i processi di acquisto: è sempre

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maggiore, infatti, il numero di potenziali acquirenti che si informa su beni e servizi su Internet (cercando l’opinione di altri consumatori). La connettività e la digitalizzazione offrono al marketing delle opportunità straordinarie, che provocano cambiamenti straordinari tanto nel mercato B2B quanto nel mercato B2C:

- nei mercati B2B, ad esempio, sono sempre di più le imprese che acquistano beni e servizi attraverso delle piattaforme elettroniche e che cercano nuovi fornitori e informazioni, negoziano e fanno aste su piattaforme dedicate.

- nei mercati B2C, invece, le potenzialità del marketing digitale sono grandissime, a patto che si configuri come opportunità per il cliente e non come invasione degli spazi e dei tempi privati. I software CRM, inoltre, forniscono un supporto alle aziende e consentono di gestire la multi-canalità.

L’economia digitale ha due conseguenze principali, per certi versi contrastanti: - la disintermediazione, in quanto in moltissimi ambiti rende possibile un contatto

diretto tra fornitore e cliente (che interagiscono ed effettuano la transazione senza intermediari);

- la re-intermediazione, in quanto in molti altri ambiti sono nati nuovi intermediari elettronici che forniscono informazioni e supporto al cliente.

glocalization A causa della globalizzazione in molti settori è possibile riconoscere la nascita di un “consumatore globale”, i cui gusti cioè bypassano le tradizionali differenze tra usi e costumi di nazioni diverse. Allo stesso tempo, tuttavia, rimangono molti i mercati caratterizzati da caratteristiche fortemente locali e da specificità molto marcate. A causa di questi due fattori opposti, le grandi aziende (per quanto globali e in grado di sfruttare i vantaggi che ne derivano) devono tenere conto dell’importanza del territorio e, di conseguenza, non devono trascurare le strategie di marketing locali. La necessità delle aziende di operare su questi due piani (con tutte le implicazioni organizzative che ne derivano) è ben rappresentata dal motto “think global, act local”.

responsabilità sociale e sostenibilità Al giorno d’oggi il mondo delle grandi aziende (e in particolare le multinazionali) è caratterizzato da diverse importanti tematiche sociali. Tra le più importanti:

- le aziende, innanzitutto, non sono mai state socialmente neutre in quanto da un lato hanno la capacità di generare lavoro e di dare occupazione e dall’altro sono a volte costrette a licenziare lavoratori o a spostare delle attività (e si nota, negli ultimi anni, una maggiore attenzione sociale da parte di numerose aziende);

- è molto importante, in secondo luogo, il rapporto che le aziende hanno con le pubbliche amministrazioni (ed in particolar modo con la corruzione);

- un ultimo aspetto di sostenibilità sociale delle aziende riguarda l’impatto delle pratiche finanziarie dell’azienda o di meccanismi di corporate governance non trasparenti.

Alle tematiche sociali, poi, è necessario aggiungere le non meno importanti tematiche ambientali: qualsiasi azienda ha un impatto sul territorio ed è molto importante che le politiche aziendali siano volte ad una progressiva riduzione degli impatti negativi. Il ruolo della funzione marketing, in questo caso, è duplice:

- deve allontanare, ovviamente, le pratiche operative poco etiche o addirittura illegali (pubblicità ingannevoli, accordi commerciali iniqui, …);

- deve comunicare in modo adeguato l’impegno dell’azienda per sostenibilità. privacy

Un tema di grande attualità al giorno d’oggi con un forte impatto sul marketing è senza ombra di dubbio l’attenzione per la riservatezza e la tutela dei dati personali. Le implicazioni della privacy per il marketing sono davvero notevoli. Per questo, molto spesso si parla di permission marketing, ossia di una comunicazione che si rivolge (previo consenso) solamente a persone che veramente lo desiderano e che sono positivamente

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disposte nei confronti di una pubblicità mirata, in contrapposizione all’interruption marketing, che invece si caratterizza di una comunicazione invasiva che può portare a risultati negativi o addirittura controproducenti.

servitization Un ultimo fenomeno che caratterizza tutti i settori, poi, è l’aumento della rilevanza della componente di servizio associata ai prodotti. Ciò accade in quanto i fornitori vogliono soddisfare in modo sempre più completo i bisogni dei clienti, offrendo una proposta di valore maggiore (in alternativa ad una guerra dei prezzi, ad esempio) al fine di vincere la concorrenza. Questo fenomeno, negli ultimi anni, sta spingendo i produttori di beni a diventare sempre più anche fornitori di servizi.

9.4 Il ciclo di vita della tecnologia e del prodotto Tanto le tecnologie quanto i prodotti (e, di conseguenza, anche i mercati) sono caratterizzati da un ciclo di vita: nascono, si sviluppano, arrivano a maturità e, prima o poi, declinano. In genere, il ciclo di vita di una tecnologia è caratterizzato da questi passaggi:

nelle prime fasi, in genere, diverse imprese si affacciano al mercato con prodotti, formati e standard differenziati. In un primo momento, quindi, cercano di penetrare il mercato potenziale diffondendo il loro prodotto (e cercano di migliorarne le prestazioni).

col passare del tempo la competizione per affermare un disegno dominante lascia posto ad una competizione basata sui prodotti e sui marchi, oltre che su guerre di prezzo e sull’offerta di servizi complementari.

infine, quando le prestazioni dei prodotti non possono più essere migliorate, si prepara il terreno per una sostituzione tecnologica, ovvero per l’avvio del ciclo di sviluppo di una nuova tecnologia che possa sostituire la precedente.

All’interno dei cicli tecnologici si sviluppano in genere i cicli di vita dei prodotti. Sebbene in rari casi i due cicli coincidano, la maggior parte delle volte all’interno del ciclo di vita di una tecnologia si possono distinguere numerose generazioni di prodotti, ciascuna con miglioramenti incrementali rispetto alla precedente. In un ciclo standard di vita di un prodotto si possono distinguere quattro fasi (che, graficamente, hanno un andamento “a campana” rispetto le vendite e i profitti). Esse sono:

1. introduzione In questa fase le imprese hanno appena lanciato il prodotto sul mercato, ma la conoscenza da parte dei clienti è ancora scarsa. I primi clienti sono dei pionieri e possono essere aziende innovative alla caccia di nuove tecnologie nel caso B2B o soggetti caratterizzati da una

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passione quasi sfrenata per la novità e desiderosi di acquistare qualcosa appena immesso sul mercato nel caso B2C. L’obiettivo del marketing, in questa fase, è far conoscere il prodotto in modo da spingere i potenziali clienti all’acquisto. Si possono riconoscere due situazioni:

nel caso di tecnologie già affermate, gli sforzi di marketing saranno concentrati sul tentativo di far risaltare i miglioramenti del prodotto;

nel caso di nuove tecnologie, può capitare che diverse aziende lancino sul mercato prodotti differenti con standard diversi (di conseguenza, è in questa fase che si innescano i conflitti per l’affermazione dello standard).

Le caratteristiche di questa fase sono le seguenti: il tasso di crescita è ridotto ed in genere vi sono pochi concorrenti; i profitti sono bassi o addirittura negativi, a causa dell’impossibilità di sfruttare le

economie di scala e degli investimenti. È di fondamentale importanza, quindi, un corretto timing di introduzione.

2. crescita In questa fase le vendite aumentano rapidamente e hanno tassi di crescita in genere elevati. Il prodotto è conosciuto da una parte significativa del mercato e, nel caso B2C, i clienti non sono più dei pionieri ma degli innovatori (molto spesso si tratta di opinion leader, persone in grado di influenzare gli altri e di innescare comportamenti imitativi). Le caratteristiche di questa fase sono le seguenti:

per la maggior parte dei clienti si tratta del primo acquisto; nei mercati in cui il bene o il servizio viene acquistato più di una volta, iniziano i

riacquisti dei pionieri; le aziende iniziano ad avere dei profitti che coprono gli investimenti; aumenta il numero dei concorrenti e la competizione.

3. maturità La riduzione del tasso di crescita delle vendite porta alla fase di maturità. In questa fase si ha una stabilizzazione delle vendite causata dalla saturazione del mercato: la maggior parte dei potenziali clienti è stata raggiunta e a pionieri ed innovatori si aggiunge la maggioranza conservatrice, ossia la moltitudine che acquista solo quando la tecnologia è assestata. Le caratteristiche di questa fase sono le seguenti:

gli standard sono ormai definiti; le vendite sono principalmente di sostituzione (per i beni di consumo durevole e di

investimento) o di riacquisto (per i beni di largo consumo); aumenta la concorrenza nel settore e il numero di prodotti offerti è generalmente

elevato; le imprese competono sfruttando leve come l’ampliamento della gamma, il brand e il

livello di servizio. I profitti, in questa fase, sono generalmente sostanziosi ma possono essere erosi dalle spese di marketing, necessarie per la battaglia per la leadership. È di fondamentale importanza riuscire a ritardare il declino delle vendite, per esempio grazie all’innovazione.

4. declino Quando i tassi di crescita delle vendite diventano negativi inizia la fase di declino, che può avere una durata più o meno lunga. Essa può iniziare per diverse ragioni:

i prodotti diventano obsoleti per via dell’innovazione tecnologica; cambiano i gusti dei consumatori o finisce una moda.

In questa fase si possono individuare gli ultimi acquirenti, cioè i ritardatari, che sono insensibili o addirittura avversi all’innovazione. Le vendite diminuiscono (come i profitti) e le aziende o escono dal mercato o preparano nuovi prodotti o nuove tecnologie.

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9.4.1 I cicli anomali e le frequenze di acquisto Il modello del ciclo di vita del prodotto è molto flessibile e si adatta anche a categorie di prodotti molto differenti. Benché sia un modello di riferimento standard, tuttavia, ci possono essere delle situazioni non riconducibili ad esso:

cicli fallimentari o abortivi Questo è il caso di prodotti che non incontrano un successo consistente, o comunque non sufficiente per ripagare gli investimenti di sviluppo. I prodotti, di conseguenza, vengono abbandonati prima del raggiungimento della maturità.

cicli deludenti In questo caso, variante del ciclo fallimentare, le vendite del prodotto si assestano su volumi medio bassi, molto inferiori alle attese eppure sostenibili (almeno nel medio termine)

cicli ridimensionati Questo caso è un’ulteriore variante del ciclo fallimentare ed è caratterizzato da una forte crescita iniziale seguita da una perdita di interesse, che porta però ad un assestamento su una nicchia e a volumi sostenibili.

cicli rivitalizzati Si tratta di cicli abbastanza frequenti, tipici di prodotti e tecnologie che dopo una fase iniziale di declino o stagnazione trovano un nuovo slancio e hanno nuovamente successo.

cicli abbreviati In questo caso, infine, la fase di maturità è molto breve o addirittura assente e la crescita tumultuosa è seguita da un rapido crollo delle vendite. Questo fenomeno non è necessariamente indice di fallimento, in quanto in molti settori sono gli stessi produttori a lanciare sul mercato modelli sempre nuovi per sostenere una domanda di sostituzione in un mercato saturo.

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Le curve del ciclo di vita dei prodotti, inoltre, si possono differenziare in base alla frequenza di acquisto del prodotto da parte di un singolo cliente. Si può fare una distinzione, infatti, tra:

acquisti una tantum Tipici dei beni di investimento ad elevato costo o dei beni di uso corrente soggetti a mode, sono caratterizzati da vendite che crescono fino a raggiungere un certo picco oltre il quale inizia la fase di declino della domanda (causa saturazione del mercato potenziale).

acquisti saltuari Tipici di beni di consumo durevoli o beni industriali soggetti ad usura e obsolescenza, alle vendite di primo acquisto si sommano le vendite di sostituzione (volte a sostituire i beni diventati obsoleti), che prolungano la fase di maturità.

acquisti frequenti Tipici dei beni di largo consumo e dei materiali per la produzione industriale, alle vendite di primo acquisto si aggiungono prima e si sostituiscono poi le vendite di riacquisto, in genere proporzionali al grado di soddisfazione del cliente nei confronti del prodotto acquistato.

9.5 L’organizzazione del marketing 9.5.1 L’evoluzione della funzione Con lo sviluppo del marketing come disciplina e corpo di conoscenze manageriali, le attività e i ruoli organizzativi del marketing sono cambiati e si sono strutturati in unità organizzative autonome. Ecco alcuni passaggi fondamentali:

funzione assente o nascosta Inizialmente il marketing coincide, anche dal punto di vista strutturale, con le vendite. L’orientamento, di conseguenza, è appunto alla vendita (e non al cliente) e le attività di analisi delle opportunità e delle minacce sono o assenti o gestite in outsourcing.

funzione integrata Poco alla volta le imprese diventano consapevoli dell’importanza del marketing strategico e della necessità di analizzare le opportunità e le minacce del mercato e dell’esigenza di investire in comunicazione e brand. Si dà così maggiore importanza alla funzione, che rimane tuttavia integrata alle vendite (molte volte si ha solo un cambiamento nominale, si passa dal Direttore Commerciale al Direttore Marketing).

funzione autonoma Quando si sviluppano le competenze specialistiche e le strategie di comunicazione si fanno più sofisticate si tende a separare la funzione marketing dalle vendite, creando una funzione spesso centralizzata che riporta direttamente al top management o al CEO.

funzione diffusa Una volta riconosciuto che, nonostante esistano degli elementi fortemente specialistici e delle competenze specifiche, l’orientamento al marketing coinvolge tutte le funzioni aziendali emerge un orientamento al teamworking inter-funzionale (le unità di progettazione, produzione e acquisti collaborano con il marketing, ma si ha anche un fenomeno opposto). In questa fase non vengono smantellate le funzioni di marketing, ma spesso si ha un ridimensionamento.

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9.5.2 Le strutture organizzative e i ruoli di marketing Le unità organizzative di marketing possono essere di diverse tipologie:

strutture funzionali In questo caso c’è un’unica unità, coordinata dal Direttore Marketing, composta da specialisti che si occupano ciascuno di una specifica attività (come ad esempio rapporti con i media, pubblicità, campagne promozionali, …).

strutture divisionali Spesso all’organizzazione funzionale si preferisce l’organizzazione divisionale, che può essere realizzata sulla base di:

- area geografica, in quanto i singoli mercati presentano delle peculiarità importanti. - prodotto, se ci sono delle unità specializzate dedicate allo sviluppo del mercato, al

potenziamento della comunicazione e del marchio e alla gestione delle attività di marketing legate a un singolo prodotto o a una famiglia di prodotti (spesso queste attività sono affidate ad un product manager). Può essere necessario, poi, fare una distinzione tra:

i. settori industriali, dove i product manager sono concentrati sugli aspetti tecnici e commerciali, oltre che sul supporto tecnico.

ii. settori di largo consumo, dove i product manager sono concentrati sulla pubblicità e sulla promozione delle vendite. In questo settore si possono incontrare due tipologie di manager, ossia i brand manager (che coordinano team dedicati ad un certo marchio) e i category manager (che coordinano team dedicati a una certa categoria di prodotti).

- cliente, se vengono fatte divisioni tra piccoli e grandi clienti (come nei mercati industriali) o sulla base dei distributori e dei canali di vendita (come nel caso dei mercati di consumo).

strutture a matrice La struttura a matrice è tipica delle grandi imprese multinazionali, in cui può essere molto utile combinare la dimensione geografica con quella di prodotto.

Molto spesso le attività di marketing danno luogo a strutture ibride. Dato che le economie di scala sono spesso trascurabili per queste attività e prevalgono le esigenze di adattamento a mercati locali o a clienti, di frequente nelle imprese marketing e vendite sono divisionali mentre produzione e progettazione sono funzionali.

9.6 Le decisioni di marketing In generale il processo decisionale di marketing si articola su diversi livelli e può coinvolgere diverse funzioni aziendali. Il modello di riferimento è quello thinking first e si possono riconoscere diversi step:

1. analisi delle opportunità (e delle minacce) di mercato Questa fase dà il via al processo decisionale ed è di fondamentale importanza. Le analisi in questione devono essere condotte:

a livello di macroambiente, ossia nel contesto socioeconomico; a livello di microambiente, ossia analizzando il mercato e la concorrenza diretta.

2. ricerca e selezione dei mercati obiettivo In questa seconda fase, invece, si realizzano queste operazioni:

la previsione della domanda potenziale; la segmentazione del mercato, di fondamentale importanza in quanto molti mercati

sono troppo ampi o troppo diversificati per essere raggiunti da un’offerta unica; il targeting, ossia la scelta dei segmenti sui quali l’azienda andrà ad operare.

3. sviluppo della strategia di marketing In questa fase si ha lo sviluppo vero e proprio della strategia di marketing, in tre passaggi:

si deve posizionare l’offerta nei vari segmenti rispetto alla concorrenza.

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si devono definire le risorse necessarie. è necessario decidere l’insieme di azioni, ossia il marketing mix, che compongono la

strategia (è il cuore del processo decisionale di marketing). Le leve del marketing mix (dette anche modello delle 4P) sono:

i. prodotto (product) o servizio, ossia l’insieme delle caratteristiche funzionali ed estetiche, il brand, le varianti, i modelli, la gamma, i servizi accessori, …;

ii. prezzo (price), oltre che tutte le decisioni che lo riguardano, dalle logiche di fissazione (pricing) a quelle di modifica (sconti);

iii. distribuzione (place), ossia i canali che l’azienda vuole utilizzare ma anche la localizzazione geografica e il tipo di punti vendita;

iv. comunicazione (promotion), ovvero l’insieme di attività con le quali si crea e si mantiene una relazione con il mercato.

4. programmazione operativa 5. realizzazione e controllo

Nelle imprese di maggiori dimensioni l’analisi delle opportunità è tipicamente svolta a livello centrale (corporate), mentre la ricerca e la selezione dei mercati e lo sviluppo di una strategia di marketing sono di pertinenza delle singole divisioni o delle business unit.

9.6.1 Il grado di decentramento delle decisioni Nelle grandi organizzazioni il marketing strategico (ed in particolare l’analisi delle opportunità e delle minacce di mercato) e la scelta dei mercati obiettivo sono di competenza degli staff centrali (o addirittura del top management o del CEO). Le decisioni di marketing mix e la programmazione operativa, invece, sono progressivamente delegate alle unità periferiche, dedicate agli specifici prodotti o mercati. Nonostante questa sia la consuetudine, non di rado possono esserci delle differenze in base alle leve di marketing. A prescindere da come vengano prese le decisioni, è evidente come il processo decisionale di marketing sia un processo decisionale multi-attore, che richiede capacità di negoziazione interna ma anche attenzione per i diversi trade-off che si presentano.

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10. L’ANALISI DI MERCATO

10.1 L’analisi delle opportunità e delle minacce di mercato Questa analisi consiste nel valutare l’insieme dei protagonisti e delle forze esterne che possono determinare o influenzare il successo delle azioni strategiche o delle decisioni di marketing dell’impresa. Questa analisi viene condotta a due diversi livelli:

analisi del contesto socioeconomico Questa analisi, detta anche analisi del macroambiente, fa riferimento all’insieme delle forze economiche, demografiche, sociali, culturali, politiche, normative e tecnologiche che caratterizzano il contesto in cui l’impresa opera.

analisi dell’ambiente di mercato Questa analisi, detta anche analisi del microambiente, consiste nel monitorare gli attori che possono influire sui risultati economici dell’impresa, come ad esempio clienti, fornitori, concorrenti (si effettua un’analisi mirata ad identificare i competitors e a prevedere le possibili reazioni in caso di ingresso) ma anche i canali di distribuzione.

10.1.1 L’analisi del contesto socioeconomico Le opportunità e le minacce che le imprese si trovano ad affrontare derivano innanzitutto dal contesto in cui sono inserite. Di conseguenza, quando si imposta una strategia di marketing è fondamentale individuare le principali caratteristiche dell’ambiente in cui si opera (o in cui si vorrebbe operare). Questa analisi consente di valutare quali opportunità di crescita, sviluppo e differenziazione esistano, ma anche quali siano le minacce più rilevanti: in questo modo è possibile determinare quali prodotti e quali servizi offrire, a quali mercati e con quali strategie di marketing. Il contesto socioeconomico è caratterizzato da mode, transitorie e con uno scarso impatto, ma anche da trend, che invece riguardano grandi cambiamenti dell’ambiente, e mega-trend, “direzioni epocali” di cambiamento. Nell’analizzare il macroambiente occorre distinguere i diversi aspetti che lo caratterizzano, ma anche la loro importanza a seconda del mercato a cui si rivolge l’azienda. I principali aspetti del macroambiente sono questi:

ambiente demografico Con ambiente demografico si fa riferimento alle caratteristiche e ai cambiamenti che riguardano gli aspetti demografici del contesto in cui opera l’azienda, come ad esempio la dimensione della popolazione, la sua composizione (in termini di età, sesso, etnie, livello di istruzione, …), la sua distribuzione geografica e le tendenze agli spostamenti.

ambiente economico Questa dimensione include i diversi fattori che influenzano i comportamenti dei consumatori e delle aziende. Si possono considerare indicatori (relativi ai consumatori) come la disponibilità di reddito, la propensione alla spesa (o al risparmio) e quella all’indebitamento, tutti elementi che possono condizionare fortemente le aziende e la loro offerta di marketing (che deve essere adattata in termini di prodotto, prezzo, comunicazione e distribuzione).

ambiente naturale Questo aspetto del macroambiente riguarda le problematiche legate all’impatto ambientale delle attività economiche (ossia la sostenibilità ambientale), un tema di importanza crescente che è in grado di influenzare le scelte dei consumatori. Gli aspetti ambientali sono da un lato una minaccia per le aziende, a causa delle numerose limitazioni imposte da leggi e normative, dall’altro un’opportunità di successo, di apertura di nuovi mercati e di differenziazione dai competitors.

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ambiente socioculturale La società e la cultura hanno un’influenza rilevante sui comportamenti delle persone e sui loro bisogni. Fattori come lo stile di vita (connesso all’atteggiamento nei confronti della società, della natura e delle istituzioni) e i valori di fondo della società (la cosiddetta sottocultura) assumono quindi una rilevanza centrale.

ambiente tecnologico Il tasso di sviluppo della tecnologia è un fattore di fondamentale importanza quando si analizza un contesto socioeconomico, in quanto consente di comprendere meglio le opportunità di mercato attuali e future. Se da un lato, infatti, l’evoluzione delle tecnologie di processo è molto importante in quanto condiziona le caratteristiche del prodotto, dall’altro le tecnologie stesse sono una componente fondamentale tanto dei prodotti quanto dei servizi, influenzano notevolmente i canali di vendita e di distribuzione e creano nuove opportunità di promozione.

ambiente politico e istituzionale L’influenza dell’ambiente politico e istituzionale è dovuta essenzialmente alla presenza di leggi e organi di governo che limitano o vincolano i comportamenti delle imprese (si pensi, ad esempio, alle normative sulla privacy).

10.1.2 L’analisi dell’ambiente di mercato: la concorrenza Analizzare l’ambiente di mercato significa valutare le scelte ed i comportamenti dei diversi attori che possono condizionare l’attrattività del mercato. Da questo punto di vista, è di fondamentale importanza il modello delle cinque forze competitive di Porter (1980), che si basa sulla teoria che l’attrattività di un qualsiasi settore sia strettamente legata alla sua competitività (maggiore è la competitività interna, infatti, minori saranno i margini attesi). Secondo questo modello, in particolare, le variabili che influenzano il livello di competizione sono:

1. i comportamenti dei concorrenti attuali; 2. la minaccia di prodotti sostitutivi; 3. la minaccia di potenziali entranti; 4. il potere contrattuale dei fornitori; 5. il potere contrattuale dei clienti.

Una qualsiasi analisi di mercato non può prescindere dal riconoscimento dei principali concorrenti: identificare i competitors (e i loro possibili comportamenti) non è sempre facile, principalmente perché non sempre i mercati sono definiti in modo netto e distinto, ma è molto utile perché consente di determinare il livello di rivalità interna e di avere maggiori informazioni quando si deve progettare una strategia di marketing. Per questo motivo, parametri come la presenza di barriere all’ingresso (o all’uscita), la concentrazione del settore, il tasso di crescita, la possibilità di battaglie sul prezzo o la presenza di fattori di differenziazione hanno una rilevanza fondamentale. L’analisi, infine, è complicata anche da altri fattori, come ad esempio la necessità di identificare eventuali prodotti sostitutivi (molto spesso difficili da riconoscere) o la minaccia dei potenziali entranti (ossia di attori che potrebbero, in futuro, essere interessati ad entrare nel settore). 10.1.3 L’analisi dell’ambiente di mercato: i clienti Il mercato è costituito dall’insieme dei clienti attuali o potenziali di un certo prodotto o servizio. Per questo motivo le caratteristiche dei mercati differiscono molto, a seconda dei clienti che li compongono. In generale, è possibile individuare quattro tipologie principali di mercato, ciascuno con caratteristiche peculiari:

1. mercato dei consumatori finali 2. mercato delle imprese

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3. mercato degli intermediari 4. mercato delle pubbliche amministrazioni In generale, l’insieme delle tecniche di approccio con il mercato dei consumatori prende il nome

marketing B2C, ossia business to consumer. Le tecniche dedicate agli altri mercati, invece, prendono il nome di B2B, ovvero business to business.

Indipendentemente dal mercato a cui si rivolge, però, l’impresa deve studiare i comportamenti dei clienti (che dipendono dai prodotti acquistati, dalle motivazioni e dalle modalità di acquisto, …) e deve capire quali siano i fattori che possono influenzare le scelte. 10.1.3.1 Il mercato dei consumatori finali Il mercato dei consumatori finali è costituito dagli individui, dalle famiglie o dai gruppi di consumatori che acquistano beni o servizi per uso o beneficio personale. Questo è un mercato molto ampio e vario, che richiede quindi un analisi approfondita volta a distinguere le tipologie di prodotti e servizi che vengono offerti. Questi mercati sono in genere molto frammentati, ossia composti da migliaia o milioni di clienti potenziali. Per questo motivo spesso si tratta di mass market, il che implica due conseguenze:

in genere, il piccolo cliente è poco importante, poco visibile per l’impresa, che detiene il potere contrattuale. Questa caratteristica però si sta poco alla volta perdendo, a causa della saturazione dei mercati, della diffusione delle valutazioni dei prodotti, della maggiore visibilità mediatica delle associazioni dei consumatori e della possibilità, per i clienti, di intraprendere delle class action. Di fronte a queste tendenze, le aziende hanno iniziato a tenere in maggiore considerazione la soddisfazione dei clienti, anche grazie a software come il CRM.

il brand ha una rilevanza fondamentale, la sua costruzione (insieme al suo mantenimento) è essenziale per il raggiungimento del successo competitivo.

Questi mercati, inoltre, sono caratterizzati dalla presenza di intermediari commerciali, che si interpongono fra clienti e fornitori. Ma quali sono i fattori che portano il consumatore all’acquisto di un certo prodotto o servizio? Nella teoria microeconomica classica il comportamento del consumatore è semplice ed è dettato dalla sensibilità ai prezzi medi del settore: al diminuire dei prezzi medi di un certo settore, cioè, aumenta la domanda del mercato. Secondo questo modello il principale driver degli acquisti è il livello medio dei prezzi. Questa rappresentazione è chiaramente limitata, in quanto non descrive completamente la varietà dei comportamenti che caratterizzano i mercati e le motivazioni che spingono i clienti ad acquistare: i bisogni che spingono i clienti all’acquisto, infatti, non sono sempre di natura funzionale, in quanto i bisogni psicologici, i condizionamenti della comunicazione o l’effetto moda hanno un ruolo rilevante. Per questo motivo, generalmente per descrivere le motivazioni di acquisto si utilizza il modello stimolo–risposta, per il quale:

il consumatore nelle sue scelte è influenzato da una serie di stimoli esterni, come ad esempio stimoli ambientali (fattori culturali, economici, politici o tecnologici) o stimoli legati alle azioni di marketing delle imprese;

la risposta a questi stimoli è diversa da consumatore a consumatore, in quanto dipende sia dalle caratteristiche personali che dal processo decisionale di acquisto.

I fattori principali che determinano i bisogni percepiti dai consumatori sono questi: la cultura, intesa come insieme di conoscenze, valori e preferenze della persona; la classe sociale e le caratteristiche di famiglia e gruppi di riferimento (amici, colleghi);

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le caratteristiche personali, come età, occupazione, situazione economica e stile di vita; i fattori psicologici, come la motivazione, l’apprendimento e gli atteggiamenti; la percezione che si ha di un certo prodotto (o brand) o di una modalità di offerta, che

dipende sia dall’attenzione selettiva (che porta gli individui a selezionare solo parte degli stimoli a cui sono sottoposti) che dall’apprendimento (ossia dalle esperienze passate con un certo prodotto o servizio) e dalle opinioni.

Il processo di acquisto di un bene è un processo decisionale, nel quale la scelta riguarda se acquistare o meno un certo prodotto oppure quale prodotto acquistare tra diverse alternative. Questo processo è caratterizzato da una pluralità di attori decisionali, che spesso nel mercato dei consumatori finali coincidono (ma non sempre, specialmente nel caso delle famiglie o dei gruppi di acquisto). Si possono infatti considerare:

l’iniziatore, che per primo suggerisce l’acquisto; l’influenzatore, che porta consigli o informazioni rilevanti per la scelta; il decisore; l’acquirente; l’utilizzatore.

Il processo di acquisto, inoltre, si svolge in questi passaggi: 1. percezione del bisogno

L’acquisto prende il via con la percezione di un bisogno, di un problema o di un desiderio. L’emergere del bisogno è fortemente influenzato sia dai fattori del macroambiente che circonda il consumatore che dagli stimoli esterni.

2. ricerca di informazioni La seconda fase del processo di acquisto è la ricerca delle informazioni, che può essere:

passiva, nelle prime fasi in cui si forma la consapevolezza del bisogno, quando il consumatore intensifica l’attenzione nei confronti di certi messaggi e di certi stimoli;

attiva, quando il consumatore va a cercare opinioni, giudizi, informazioni obiettive e consigli riguardo i diversi prodotti che possono soddisfare il bisogno percepito.

3. valutazione delle alternative Questa fase consiste nel processo, più o meno razionale ed esplicito, che consente di confrontare i benefici attesi dai vari prodotti tra i quali il cliente può scegliere. Nella valutazione delle alternative è molto importante capire quali siano i criteri utilizzati per il confronto, ma anche il peso dei giudizi e delle informazioni raccolte.

4. decisione di acquisto La decisione di acquisto non discende necessariamente dalla valutazione delle alternative: possono infatti intervenire dei fattori esterni (opinioni, situazioni impreviste, …) in grado di posticipare o addirittura annullare l’acquisto del prodotto. È importante sottolineare come la decisione non riguarda solo il prodotto ma anche la marca, il punto o il canale di vendita e le modalità di acquisto.

5. comportamento post acquisto Il comportamento del consumatore dopo l’acquisto dipende dal livello di soddisfazione del consumatore rispetto al prodotto o al servizio acquistato.

I processi decisionali sono spesso caratterizzati da razionalità limitata e non sempre seguono tutte le fasi descritte. Nel caso dei processi di acquisto, inoltre, si può fare una distinzione tra:

comportamenti di acquisto complesso, che sono caratterizzati da un elevato livello di coinvolgimento e dalla consapevolezza delle caratteristiche dei prodotti da parte di chi acquista (si conoscono le differenze tra le diverse marche, ci sono criteri oggettivi di differenziazione, …) e sono tipici dell’acquisto di beni di valore medio o alto;

comportamenti di acquisto abituale, caratteristici dei beni ad acquisto ripetuto o frequente, in cui le fasi di ricerca delle informazioni sono irrilevanti se non assenti e la decisione di acquisto è fortemente condizionata dalle opinioni e dalle esperienze precedenti.

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10.1.3.2 Il mercato delle imprese Nel mercato industriale le imprese vendono i propri beni o servizi ad altre imprese, che li utilizzano a loro volta per produrre altri beni e servizi. In generale, si può dire che in questi mercati vengono scambiati:

materie prime; componenti; servizi; beni di investimento; prodotti finiti.

Questo mercato presenta tratti molto differenti da quello dei consumatori. Le sue caratteristiche principali sono queste:

il numero di aziende che acquistano beni o servizi è abbastanza ridotto ed è possibile fare una distinzione tra le diverse imprese sulla base dei fabbisogni quantitativi;

molto spesso è possibile riconoscere una forte concentrazione geografica di imprese che operano in uno stesso settore (si parla di distretti industriali, si pensi alla Silicon Valley);

la domanda è anelastica al prezzo, ossia nel breve termine le aziende “assorbono” gli aumenti di prezzo dei fornitori senza che si riducano i fabbisogni (al limite le imprese si rifanno sui consumatori o modificano il mix di fattori produttivi), in quanto la domanda delle imprese non è altro che una domanda derivata da quella dei mercati di consumo (e si hanno forti variazioni solo se aumenta la sensibilità al prezzo dei consumatori);

il ruolo degli intermediari è più circoscritto, in quanto molto spesso ci sono relazioni dirette tra fornitori e clienti;

le transazioni sono spesso accompagnate da finanziamenti; le fluttuazioni della domanda sono abbastanza marcate (si parla di effetto bullwhip), ossia

risalendo lungo la supply chain dal mercato dei consumatori finali fino a quelli intermedi la variabilità della domanda risulta essere amplificata.

Per quanto riguarda gli acquisti, invece, nonostante le caratteristiche personali dei manager siano importanti sono i fattori organizzativi ad avere un ruolo centrale: le scelte di acquisto infatti sono determinate dalla strategia di acquisto dell’azienda, dalle politiche e procedure utilizzate per l’acquisto e dalla struttura organizzativa della funzione acquisti. Il processo di acquisto, benché caratterizzato dalle stesse fasi del mercato dei consumatori, presenta alcune differenze specifiche:

si è in presenza di una maggiore complessità e variabilità (anche a seconda dei particolari beni considerati);

sono presenti numerosi attori decisionali e si ha una maggiore complessità dei ruoli (nasce una vera e propria organizzazione di acquisto);

i processi sono più formalizzati e si utilizzano strumenti specifici (gare, offerte, appalti, …); c’è una maggiore attenzione per i servizi connessi alla transazione (come la disponibilità di

informazioni, la flessibilità rispetto ai termini di pagamento, …); c’è una maggiore frequenza di transazioni protratte nel tempo; i clienti, per via dei grandi volumi acquistati, hanno un maggiore potere contrattuale; la negoziazione ha un ruolo più rilevante.

Di conseguenza, quando si valutano i comportamenti di acquisto dei clienti industriali gli elementi di maggiore interesse sono:

i fattori economici che possono influenzare gli acquisti delle imprese e i volumi di domanda; le strategie e le politiche di approvvigionamento; la struttura organizzativa e le funzioni coinvolte nei processi di acquisto; le procedure e gli strumenti utilizzati per l’acquisto; i criteri e le modalità di valutazione dei fornitori.

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10.1.3.3 Il mercato degli intermediari Il mercato dei rivenditori (come le trading companies) è costituito dagli intermediari commerciali, ovvero dai soggetti economici che acquistano prodotti per rivenderli ad altri soggetti senza ulteriori trasformazioni. Gli intermediari creano un’utilità di luogo, di tempo, di quantità e di assortimento per i clienti, ossia rendono disponibili prodotti e servizi di diversi produttori in modo diffuso e capillare sul territorio, rendendo l’offerta accessibile in tempi brevi e garantendo la possibilità di acquistare una vasta gamma di prodotti in un unico punto vendita (concetto di one stop shopping). Da un punto di vista economico, la loro esistenza è giustificata solamente se il valore di utilità creata per il cliente è maggiore del loro margine di guadagno, ossia del ricarico applicato dall’intermediario sui prodotti. Gli intermediari svolgono in genere queste funzioni:

vendita La vendita non è altro che la transazione commerciale mediante la quale, dietro pagamento, il cliente diventa proprietario del bene. Questa funzione raccoglie numerose attività, come la raccolta di informazioni sul cliente, la negoziazione con i clienti stessi, il trasferimento della proprietà e la gestione del rischio.

distribuzione fisica La distribuzione consiste nel trasporto, nell’immagazzinamento e nell’esposizione dei beni o servizi finalizzata a rendere disponibili i prodotti ai consumatori finali (nelle quantità e varietà desiderate).

servizio Consiste nelle attività di supporto alla vendita, come ad esempio la consulenza al cliente nella scelta, l’installazione o la manutenzione.

La presenza degli intermediari sul mercato è di fondamentale importanza per i produttori e ha delle influenze sulle azioni di marketing. Si possono infatti distinguere:

strategie pull In questo caso le azioni di marketing del produttore sono dirette al consumatore finale. Si cerca, cioè, di stimolare la domanda finale, confidando nel fatto che il cliente poi vada a cercare il prodotto o il servizio presso i distributori: la domanda viene quindi “tirata” dallo stadio a valle e il comportamento di acquisto del rivenditore è anch’esso trainato dalla domanda del consumatore.

strategie push In questo caso, invece, le azioni di marketing del produttore sono dirette al distributore. Si tratta di un insieme eterogeneo di azioni volte a stimolare ed incentivare i rivenditori, al fine di far privilegiare i propri prodotti (che verranno “spinti” verso il cliente finale). In questi casi il comportamento del rivenditore è simile a quello di un operatore industriale.

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10.1.3.4 Il mercato delle pubbliche amministrazioni Le pubbliche amministrazioni acquistano un vasto insieme di beni e di servizi per l’erogazione dei propri servizi ai cittadini e alle imprese. Questi mercati sono ampi ed eterogenei, in parte assimilabili ai mercati B2B (i processi di acquisto sono simili a quelli delle organizzazioni) ma con requisiti di trasparenza e formalizzazione ancora maggiori (sono la garanzia di azioni eseguite nell’interesse del cittadino). Le principali caratteristiche di questi mercati sono le seguenti:

si hanno processi di acquisto formalizzati, con bandi di gara pubblici, aste al ribasso e altri meccanismi volti a garantire la trasparenza;

enfasi sulla determinazione dei capitolati, ossia sulle specifiche tecniche dei beni o servizi che si vogliono acquistare.

Alcuni mercati, benché tecnicamente non riconducibili alle amministrazioni pubbliche, mostrano molte similitudini con queste ultime: è il caso per esempio delle organizzazioni no profit (università, scuole, ospedali private, associazioni umanitarie, …).

10.2 La ricerca e la selezione dei mercati obiettivo Alla prima fase di analisi segue la selezione dei mercati sui quali si decide di operare. In particolare, le opportunità di mercato che emergono dall’analisi esterna devono essere valutate in maggior dettaglio, in modo che sia possibile decidere quali sfruttare e come impostare le strategie di marketing. In generale si compie un’analisi secondo due punti di vista:

da un lato, si deve valutare la stima della domanda attuale e futura; dall’altro, si devono identificare i segmenti di mercato, ossia gruppi omogenei di clienti (da

valutate in base all’attrattività). 10.2.1 La misura e la previsione della domanda La stima della domanda non è utile e funzionale solo all’ingresso in mercati nuovi: deve essere periodicamente elaborata anche per valutare se e come rimanere all’interno del mercato in cui si opera. Ma quando si parla di domanda di mercato a cosa si fa riferimento?

“La domanda di mercato di un prodotto è il volume totale che verrebbe acquistato da un determinato segmento di consumatori in una specifica area geografica in un determinato intervallo di tempo dato un certo ambiente di marketing e un certo livello dell’attività di marketing.”

[Kotler, 2003] Da questa definizione è evidente che:

la domanda non coincide con le vendite di mercato ma fa riferimento solamente a una potenzialità di acquisto del cliente, non ad un acquisto effettivo (che non si può concretizzare anche a causa di problemi incontrati dall’impresa);

la domanda può essere misurata a diversi livelli di dettaglio, ma deve sempre essere riferita a uno specifico prodotto (o gruppo di prodotti), a un segmento di riferimento e ad un orizzonte di tempo preciso.

Per misurare la domanda occorre definire, però, a quale nozione di mercato si fa riferimento. È infatti possibile individuare queste diverse tipologie di mercato:

1. mercato potenziale Indica l’insieme di tutti i soggetti che dimostrano interesse per l’offerta di mercato relativa al prodotto.

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2. mercato disponibile È una sotto-porzione del mercato potenziale, che oltre ad avere interesse per il prodotto ha anche un reddito adeguato e può accedere all’offerta (il mercato potenziale può essere limitato da fattori quali l’impossibilità fisica di accedere al prodotto o la mancanza di strutture distributive).

3. mercato servito Si compone di tutti i segmenti del mercato disponibile a cui si rivolge l’offerta di marketing. Risulta quindi essere la porzione di mercato disponibile circoscritta dalle particolari scelte di marketing (in termini di segmentazione e focalizzazione).

4. mercato penetrato È la porzione di mercato servito che effettivamente acquista il prodotto.

La domanda di mercato non è completamente esogena: in parte, infatti, dipende dalle azioni intraprese dalle aziende che operano nel settore. Graficamente, è possibile individuare:

il minimo di mercato, ossia il livello minimo di vendite possibile in assenza di azioni di marketing;

il mercato potenziale, ossia il livello massimo di saturazione.

In generale è possibile dire che la domanda cresce al crescere degli investimenti delle imprese nel settore e che la domanda attuale è strettamente legata alle azioni di marketing delle imprese del settore. Alcuni parametri importanti sono:

il rapporto tra il livello attuale della domanda e il livello potenziale, che prende il nome di indice di penetrazione ed è molto importante per giudicare l’efficacia di ulteriori sforzi di marketing;

l’ambiente economico che caratterizza il mercato, in quanto sia il minimo di mercato che la sensibilità al marketing variano nei periodi di prosperità e in quelli di recessione.

10.2.1.1 La quota di mercato La stima della domanda di mercato è utile all’azienda per valutare la dimensione del mercato e la sua attrattività. È molto importante, però, anche la stima della propria domanda, ossia della quota di mercato che si ottiene in seguito allo sforzo di marketing. La quota di mercato di una qualsiasi azienda si può calcolare in questo modo:

𝐪𝐢 =𝐐𝐢𝐐=

𝐐𝐢∑ 𝐐𝐢𝐢

dove: qi = quota di mercato dell’azienda i–esima Qi = vendite dell’azienda i–esima (in valori o volumi) Q = vendite complessive del mercato

Dato che le vendite dell’impresa dipendono strettamente dallo sforzo di marketing, lo stesso varrà per la quota di mercato. In particolare, essa sarà legata:

all’investimento in promozione e comunicazione; alla qualità del prodotto; alla distribuzione; al prezzo di vendita.

Bisogna tuttavia sottolineare che non tutte le aziende hanno uguale efficacia nelle loro azioni di marketing, quindi per calcolare l’impatto delle azioni e degli sforzi si devono tenere in considerazione dei coefficienti correttivi.

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La quota di mercato di una qualsiasi impresa può anche essere calcolata sulla base delle tre componenti operative, ossia l’introduzione, la copertura e la selettività. In particolare si ha che:

𝐪 = 𝐈 ∙ 𝐂 ∙ 𝐒 dove: q = quota di mercato dell’azienda

I = introduzione C = copertura S = selettività

Ecco il significato di queste componenti: l’introduzione di un’impresa indica quale parte degli acquisti totale dei suoi clienti è

costituita da prodotti venduti da lei. Rappresenta, quindi, il peso medio dell’azienda come fornitore dei suoi clienti. Si ha che:

- un’introduzione alta indica che i clienti dell’azienda acquistano prevalentemente i suoi prodotti, soddisfacendo in tal modo una buona parte dei fabbisogni;

- un’introduzione bassa indica che i clienti dell’azienda coprono solo una piccola parte dei loro bisogni rivolgendosi all’impresa, rivolgendosi per il resto ad altri fornitori.

Si può calcolare l’introduzione come:

𝐈𝐢 =𝐐𝐢∑ 𝐀𝐢𝐣𝐣

dove: Qi = vendite dell’azienda i–esima Aij = acquisti del cliente j dall’impresa i ∑ Aijj = acquisti totali dei clienti dell’impresa i

Per aumentare l’introduzione occorre in genere aumentare la qualità dei prodotti, investire nella comunicazione e ridurre i prezzi.

la copertura, invece, indica la presenza sul mercato di un’impresa in termini di numero di clienti serviti. Si ha che:

- una bassa copertura indica che l’impresa serve un numero limitato dei clienti presenti sul mercato;

- un’elevata copertura indica una presenza capillare dell’azienda nel mercato. Si può calcolare la copertura come:

𝐂𝐢 =𝐍𝐢𝐍𝐓𝐎𝐓

dove: Ni = numero di clienti dell’azienda i–esima NTOT = numero totale di clienti presenti sul mercato

Per aumentare la copertura è necessario in genere intervenire sulle scelte di distribuzione, di segmentazione e di comunicazione dell’azienda.

la selettività, infine, indica la dimensione media degli acquisti dei clienti dell’azienda. Si ha quindi che:

- una selettività superiore a 1 indica che l’azienda serve clienti mediamente più grandi rispetto alla media del mercato;

- una selettività inferiore a 1 indica una dimensione degli acquisti inferiore alla media del mercato.

Si può calcolare la selettività come:

𝐒𝐢 =�̅�𝐢�̅�= ∑ 𝐀𝐢𝐣𝐣

𝐍𝐢

∑ 𝐐𝐢𝐢

𝐍𝐓𝐎𝐓

dove: A̅i = acquisto medio dei clienti dell’azienda i–esima A̅ = acquisto medio dei clienti presenti sul mercato

Per aumentare la selettività, infine, è necessario cercare di sottrarre i clienti più grandi ai competitors, per esempio attraverso degli sconti o dando la garanzia di una quantità di conformi maggiore.

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10.2.1.2 I modelli di previsione della domanda L’attrattività di un mercato non è determinata solamente dalla sua dimensione attuale ma soprattutto da quella futura. Per questo motivo, è di fondamentale importanza che gli analisti di marketing siano in grado di stimare in modo adeguato l’evoluzione della domanda. Il modello di riferimento per valutare l’andamento della domanda nel tempo è la curva del ciclo di vita del prodotto: la previsione dipenderà quindi dalla capacità di individuare lo stato in cui si trova il prodotto nel suo ciclo di vita, distinguendo tra acquisti una tantum, acquisti saltuari e acquisti frequenti (che richiedono metodologie e tecniche differenti). Una volta definito l’andamento della curva si deve stimare il valore effettivo della domanda nei diversi periodi, operazione che può essere sia svolta internamente che affidata in outsourcing a società esterne. In particolare si possono utilizzare quattro diverse metodologie:

l’analisi dei comportamenti passati, ossia delle serie storiche, se si cerca di estrapolare dai dati raccolti nel passato il comportamento futuro dei clienti (si cerca di dedurre l’andamento della domanda futura a partire dalla domanda passata). Queste tecniche possono essere utilizzate, ovviamente, solo se sono disponibili delle serie storiche (e non sono adatte di conseguenza a prodotti nuovi, a meno che non siano simili ad altri già presenti sul mercato) e se l’ipotesi che l’andamento futuro rispecchi quello passato è valida.

La domanda di primo acquisto di un prodotto può essere prevista attraverso un modello di diffusione epidemiologica dei prodotti. Questo modello si basa sull’ipotesi che l’adozione di un prodotto da parte di un consumatore dipende da due fenomeni:

- l’imitazione (di altri consumatori), dovuta al fatto che il consumatore acquista il prodotto a causa dell’influenza esercitata da altri acquirenti. Maggiore è la dimensione del gruppo che ha già acquistato, maggiore sarà il fenomeno di imitazione (e quindi maggiore sarà la componente epidemiologica).

- l’adozione spontanea, che consiste nella progressiva adozione del modello da parte dei consumatori senza che essi siano influenzati da altri clienti. Si ipotizza che esista, cioè, un tasso di conversione spontanea al nuovo prodotto (strutturale ad ogni mercato).

La quantità acquistata in un certo momento è pari a:

𝒒(𝒕) =𝜹𝑸

𝜹𝒕= 𝒓 ∙

𝑸(𝒕)

�̅�∙ [�̅� − 𝑸(𝒕)] + 𝒑 ∙ [�̅� − 𝑸(𝒕)]

dove: 𝑞(𝑡) = numero di compratori all’istante t 𝑄(𝑡) = numero di compratori cumulati fino all’istante t �̅� = massimo numero di compratori che si stima acquisteranno il prodotto �̅� − 𝑄(𝑡) = mercato residuo all’istante t 𝑟 = coefficiente imitativo o “di contagio” 𝑝 = coefficiente di propensione spontanea all’acquisto

Il coefficiente imitativo e quello di propensione all’acquisto vengono applicati al mercato potenziale residuo e sono utilizzati per determinare il numero di nuovi acquirenti del prodotto.

la raccolta delle informazioni e di previsioni da parte della forza vendita o degli esperti. Le previsioni, quindi, vengono fatte sulla base delle stime di attori che operano sul mercato, in genere venditori (per prodotti in fase di maturità) o esperti (nella fase di introduzione). Gli esperti stessi, a loro volta, possono essere fornitori, distributori, consulenti di marketing, consulenti o associazioni di categoria.

l’analisi delle intenzioni di acquisto e di comportamento futuro direttamente presso i clienti, che coinvolgono campioni di clienti attuali (o anche potenziali) per verificarne i comportamenti. Sono metodi abbastanza onerosi, condotti di solito da società specializzate.

i test di mercato, che prevedono una prova del prodotto per analizzare la risposta degli acquirenti soprattutto per nuovi prodotti (consentono di determinare i comportamenti di primo acquisto, ma anche di riacquisto o di sostituzione).

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10.2.2 La segmentazione del mercato Un’impresa generalmente non si può rivolgere in modo indifferenziato a tutto il segmento di mercato disponibile. Di solito, infatti, l’impresa individua diversi segmenti di mercato e si rivolge solamente ad alcuni di essi (i mercati obiettivo o target market), per i quali vengono definite delle azioni di marketing specifiche. Questo approccio, che prende il nome di segmentazione, ha una rilevanza fondamentale nel marketing management. Per poter perseguire una strategia di marketing mirata le aziende devono:

1. individuare i gruppi di clienti che presentano bisogni e preferenze omogenee; 2. selezionare uno o più segmenti nei quali operare, ossia definire i mercati obiettivo; 3. a questo punto, infine, è possibile determinare una strategia di marketing da perseguire a

partire dalle caratteristiche del prodotto o servizio, ossia si può determinare il posizionamento di mercato dell’azienda.

Si definisce segmento di mercato un sottogruppo di clienti del mercato potenziale caratterizzati da profili di domanda e da preferenze abbastanza omogenee. Le preferenze dei clienti possono essere distribuite in modo diverso:

ci possono essere dei segmenti naturali, nel caso in cui ci siano comportamenti agglomerati attorno ad alcuni fulcri;

si parla di commodity, invece, nel caso di mercati in cui i comportamenti e le preferenze sono omogenei per tutti i clienti (non esistono segmenti naturali) e in cui le offerte di marketing risultano indifferenziate;

infine, si possono considerare dei mercati caratterizzati da comportamenti disomogenei ma diffusi, situazione che genera difficoltà di segmentazione (in quanto si dovrebbe individuare un segmento per ogni cliente).

Dato che sempre più mercati hanno queste caratteristiche, di recente si è iniziato a parlare di marketing one-to-one, ovvero di marketing orientato al singolo cliente.

Non tutti i raggruppamenti di clienti costituiscono di per se un segmento di mercato. Perché siano tali devono essere verificate queste caratteristiche:

la misurabilità, ossia deve essere possibile misurare la dimensione e il potere di acquisto del gruppo di clienti;

l’accessibilità, ossia deve essere realmente possibile raggiungere il gruppo di clienti con opportune azioni di marketing;

la differenziabilità, ossia il segmento deve essere interamente omogeneo rispetto a una o più caratteristiche ed eterogeneo rispetto ad altri segmenti;

l’importanza, ossia il gruppo di clienti deve avere una dimensione e un potenziale di acquisto tali da giustificare un’azione di marketing;

la durata, ossia il gruppo di clienti deve presentare delle caratteristiche e delle preferenze ragionevolmente stabili nel tempo.

Per individuare i segmenti di mercato è poi necessario selezionare delle opportune variabili di segmentazione, caratteristiche chiave dei clienti che possono essere utilizzate per descrivere un gruppo di consumatori e per preparare un’opportuna offerta di marketing.

Le variabili che possono essere utilizzate nei mercati B2C e B2B sono differenti, in quanto diverso è il comportamento di acquisto del cliente. In entrambi i casi, tuttavia, attraverso la segmentazione è possibile costruire una matrice prodotto-mercato che mette in relazione ogni segmento individuato con le specifiche esigenze del mercato. In genere, è importante non utilizzare troppe variabili di segmentazione: se ne viene considerato un numero esagerato, infatti, si corre il rischio di “profilare” segmenti eccessivamente piccoli. Generalmente, il numero ideale di variabili di segmentazione da considerare è circa 3 o 5.

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10.2.2.1 La segmentazione del mercato B2C Per il mercato dei consumatori finali possono essere utilizzate due principali tipologie di segmentazione:

1. una segmentazione basata sulle caratteristiche dei consumatori, distinta in: segmentazione descrittiva, che differenzia i potenziali consumatori in base a

caratteristiche geografiche e demografiche; segmentazione socio-culturale, che si basa su variabili connesse allo status sociale,

lo stile di vita, gli interessi e le opinioni dei consumatori. Questa tipologia di segmentazione parte dal presupposto che a partire dalle caratteristiche socio-demografiche dei consumatori sia possibile risalire ad un modello che spiega le reazioni degli stessi alle offerte di marketing delle aziende. Generalmente, i segmenti individuati sono abbastanza accessibili e misurabili, quindi questa segmentazione risulta essere efficace (a scapito di una minore omogeneità interna al segmento).

2. una segmentazione basata sulle risposte dei consumatori all’offerta commerciale, che comprende invece:

la segmentazione basata sui vantaggi ricercati nel prodotto o nel servizio; la segmentazione comportamentale, determinata a partire dai diversi

comportamenti di acquisto. Questa seconda tipologia di segmentazione garantisce maggiore omogeneità dei segmenti e una migliore descrizione del comportamento dei clienti, a scapito di una maggiore complessità.

Variabili

descrittive Variabili

socio-culturali Vantaggi Ricercati

Variabili comportamentali

età sesso reddito occupazione istruzione religione nazionalità area geografica dimensione del

centro abitato clima …

classe sociale stile di vita personalità valori interessi

sensibilità al prezzo

preferenze gusti rapporto qualità-

prezzo

occasioni d’uso situazioni d’uso intensità d’uso fedeltà alla

marca stato di

consapevolezza atteggiamento

verso il prodotto propensione

all’innovazione

10.2.2.2 La segmentazione del mercato B2B Analizzando invece il mercato industriale, è possibile evidenziare quattro categorie di variabili. Esse sono in parte simili a quelle utilizzate per i mercati B2C:

1. le caratteristiche demografiche, che includono il settore di appartenenza, la localizzazione geografica, la dimensione d’impresa e la tipologia d’impresa;

2. le variabili operative, che fanno riferimento alle tecnologie di trasformazione utilizzate dall’acquirente;

3. gli approcci all’acquisto, ovvero l’organizzazione della funzione acquisti e le caratteristiche del processo di acquisto;

4. i fattori contingenti, relativi alla tipologia di acquisto, in particolare all’utilizzo finale dei prodotti, le dimensioni medie dell’ordine e la destinazione del prodotto nel processo produttivo del cliente.

Come nel mercato B2C, l’utilizzo simultaneo di diverse variabili consente di identificare dei segmenti di mercato.

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10.2.2.3 Il marketing one-to-one Al giorno d’oggi un numero crescente di mercati è caratterizzato dall’elevata frammentazione delle preferenze e dei comportamenti dei clienti, conseguenza della maggiore maturità dei mercati stessi e delle maggiori esigenze dei clienti. Una delle tendenze più recenti del marketing è, di conseguenza, il tentativo di portare all’estremo la segmentazione: questa tendenza porta alla quasi totale segmentazione del mercato, situazione in cui ciascun segmento arriva a coincidere con il singolo cliente. Questo è il concetto di marketing one-to-one, approccio secondo la quale ogni segmento è costituito da un singolo cliente, caratterizzato da bisogni e comportamenti diversi.

Nell’attuare questa politica è fondamentale sviluppare strettamente relazioni con i clienti al fine di progettare offerte personalizzate per ciascuno di essi e raccogliere informazioni sui loro comportamenti e sulle loro preferenze.

10.2.3 Il targeting: l’individuazione del mercato obiettivo Una volta identificati i segmenti del mercato, le imprese devono affrontare due diverse decisioni:

1. a quali segmenti rivolgersi; 2. quale strategia attuare per differenziare i diversi segmenti di mercato selezionati.

L’azienda ha la possibilità di scegliere a quanti e quali segmenti proporre la propria offerta. Questa decisione deve essere presa considerando molti fattori, in particolare:

l’attrattività di ciascun segmento; le dimensioni dell’impresa; gli obiettivi che si l’azienda si pone; lo stadio nel ciclo di vita dei prodotti.

In particolare, si ha che:

quando l’impresa si rivolge a un unico segmento la sua strategia di marketing è detta marketing concentrato proprio perché le scelte di prezzo, prodotto, distribuzione e comunicazione sono focalizzate sulle specifiche preferenze del segmento target;

se l’impresa decide di rivolgersi a più segmenti, invece, ha a disposizione due diverse alternative di marketing:

- può seguire un marketing differenziato, ovvero attuare politiche di marketing diverse e mirate per ciascun segmento. A causa della differenziazione, questa strategia comporta costi maggiori.

- può adottare un marketing indifferenziato, nel caso in cui decida di offrire a tutti i segmenti lo stesso prodotto allo stesso prezzo, attraverso gli stessi canali e con le stesse strategie di comunicazione. A causa dell’indifferenziazione, questa strategia comporta tassi di penetrazione più limitati.

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Prodotti classici

Prodotti glamour

Fascia di prezzo

alta

Prodotti casual

Fascia di prezzo bassa

11. LA STRATEGIA DI MARKETING

11.1 Il posizionamento dell’offerta Indipendentemente da quale sia l’output dell’azienda (prodotto o servizio), quando si parla di posizionamento dell’offerta si fa riferimento alla definizione di quelle caratteristiche specifiche del prodotto o del servizio che consentono all’impresa di differenziarsi dai concorrenti. Ogni azienda, quindi, avrà il compito di stabilire quali sono gli attributi e i vantaggi della propria offerta, fattori che determinano il valore percepito dal cliente e che insieme al prezzo costituiscono i principali driver di scelta dei consumatori. È importante sottolineare come la percezione di valore del prodotto (e il suo posizionamento, quindi) sia in buona parte determinata anche dall’immagine che l’impresa trasmette del suo prodotto: per questo motivo, l’azienda deve agire sulle leve di marketing mix in modo opportuno, per essere in grado di trasmettere al meglio il posizionamento scelto. In ultima analisi, deve essere sottolineato che il posizionamento di un’azienda nel mercato può essere rappresentato mediante delle mappe delle percezioni, che sintetizzano le principali caratteristiche dell’offerta di un prodotto o servizio (nell’esempio sottostante, le caratteristiche considerate sono la fascia di prezzo e la tipologia di prodotto). 11.1.1 La definizione del prodotto o servizio Il primo problema che un’impresa incontra della definizione del posizionamento rispetto alla concorrenza non è altro che la scelta di che prodotto (o che servizio) si vuole offrire sul mercato. Gli “oggetti” del marketing di un’azienda possono essere numerosi. Si può fare una distinzione tra:

beni fisici; servizi, che costituiscono oltre il 70% del PIL dei prodotti avanzati; esperienze, ottenute combinando servizi di base e differenti prodotti; luoghi o aree geografiche, che possono essere promossi mediante campagne denominate

di marketing territoriale; persone; organizzazioni; idee.

Va sottolineato come ormai, al giorno d’oggi, le differenze tra alcune di queste categorie siano minime. Senza dubbio, gli oggetti principali sono beni fisici e servizi.

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Facendo riferimento proprio ai prodotti fisici, è importante sottolineare come l’oggetto del marketing sia in questo caso il cosiddetto sistema prodotto. Si definisce sistema prodotto l’insieme dato dal prodotto fisico stesso e da tutti i servizi, significati e valori che costituiscono l’offerta commerciale. Il sistema prodotto può essere considerato composto dalle seguenti componenti:

innanzitutto il prodotto essenziale, che può essere considerato il “cuore” della definizione di prodotto. Esso non è altro che il prodotto base, che conferisce il vantaggio essenziale (cioè il soddisfacimento dello specifico bisogno o desiderio del cliente).

in secondo luogo il prodotto tangibile, che si ottiene quando al vantaggio essenziale si affiancano altri elementi (più precisamente, si tratta di marca, estetica, packaging e qualità) che contribuiscono al soddisfacimento del bisogno del cliente.

infine il prodotto ampliato, un’estensione del prodotto tangibile che consente una maggiore personalizzazione dell’offerta al cliente. Questo concetto, che si sta sempre più ampliando, comprende servizi ausiliari quali la garanzia, l’installazione, la definizione dei tempi di consegna e delle condizioni di pagamento, i servizi post-vendita.

In modo analogo a quanto visto per i prodotti, anche per i servizi possono essere distinti diverse componenti. Si tratta di:

servizio essenziale (detto anche core); servizi di facilitazione; servizi ausiliari.

11.1.2 Gli elementi di differenziazione Lo scopo principale dell’offerta di marketing è il soddisfacimento del cliente mediante un prodotto in grado di andare incontro alle specifiche richieste e necessità del consumatore stesso. Per ottenere un vantaggio sui competitori, è molto importante che tale offerta sia opportunamente differenziata da quella dei competitori. Ma come può un’azienda differenziare la propria offerta? Non tutti i settori, purtroppo, offrono le stesse possibilità di differenziazione. Si pensi ad esempio alle commodity, in cui l’offerta di prodotti è talmente omogenea che la differenziazione non può essere operata a livello del prodotto tangibile. In altri casi, invece, la differenziazione dell’offerta dipende proprio dal prodotto tangibile o dai servizi di facilitazione. È di fondamentale importanza che la scelta di come differenziare il prodotto tenga in considerazione il modello di valore del cliente, ottenibile mediante opportune analisi del valore che consentono di determinare quali sono gli attributi del prodotto o servizio che generano una maggiore percezione di valore nel cliente. Bisogna infatti considerare come la qualità effettiva

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dell’offerta si possa in molti casi discostare dalla qualità percepita dal cliente, per le più svariate ragioni (cosa che vale specialmente per il settore dei servizi): per questo motivo, conoscere gli elementi più importanti per il cliente può dare notevoli vantaggi in termini di differenziazione.

A tal proposito, sono molto importanti i modelli di misurazione della customer satisfaction. Tali modelli consentono di evidenziare gli elementi che maggiormente influenzano l’opinione dei consumatori e quindi possono fornire numerosi vantaggi.

Infine, un ultimo elemento di differenziazione può essere l’estetica del prodotto stesso (a volte, anche la confezione del prodotto stesso può essere un elemento di estetica e di differenziazione: si pensi agli iPhone e al particolare packaging). 11.1.2.1 Il brand Il brand (o marchio) è senza ombra di dubbio uno degli strumenti di differenziazione più potenti a disposizione dei marketing manager: esso può essere definito come una promessa di fornire all’acquirente un determinato insieme di attributi, di benefici e di servizi in modo continuativo e coerente. In generale, i principali messaggi veicolati dal brand sono i seguenti:

gli attributi tipici del prodotto; i benefici o vantaggi funzionali e psicologico-emotivi; i valori del produttore; la cultura del prodotto; le caratteristiche dell’utente-tipo.

Senza ombra di dubbio, i marchi di maggior successo sono quelli associati a valori e cultura piuttosto che ad attributi o benefici specifici. Il vero successo per le imprese deriva infatti dalla capacità delle stesse di costruire dei lovemark, ovvero dei marchi fortemente basati sul livello emozionale che generano nei consumatori sensazioni e reazioni al di là della razionalità (i lovemark riescono a coinvolgere maggiormente il consumatore).

È fondamentale ricordare come i brand non possano essere costruiti unicamente con la pubblicità e la comunicazione: l’esperienza fatta dal consumatore ricopre un ruolo centrale.

Non tutte le aziende decidono di associare ai propri prodotti una marca, un brand solido. Molto spesso vengono infatti utilizzate delle marche sviluppate da altri soggetti, che concedono il proprio brand in licenza: è il caso, ad esempio, delle private label nel mercato dei generi di consumo. In questo modo:

il produttore può sfruttare gli investimenti in pubblicità e comunicazione effettuati da altre aziende per vendere proprio il prodotto;

per il proprietario del marchio si ha un aumento i profitti con basso rischio. 11.1.2.2 Il product mix Le decisioni di prodotto riguardano non solo il singolo prodotto ma anche l’assortimento dei prodotti, determinato dall’ampiezza e dalla profondità di gamma. Si ha che:

l’ampiezza di gamma fa riferimento al numero di linee di prodotto vendute dall’azienda; la profondità di gamma fa riferimento al numero di articoli diversi per formato, dimensione,

formulazione che vengono commerciati. Le decisioni di ampiezza e profondità di gamma vengono prese dal produttore in collaborazione con i rivenditori o gli intermediari, che hanno maggiore conoscenza dei mercati specifici. 11.1.3 Le strategie di prodotto nel ciclo di vita L’utilizzo della leva prodotto da parte delle imprese varia a seconda del posizionamento del prodotto nel ciclo di vita (modello di Vernon). Si ha che:

1. nelle fasi di introduzione all’azienda conviene concentrare energie e risorse su un set limitato di prodotti base, da commerciare in poche varianti e versioni diverse. In molti casi, le aziende si concentrano sul solo prodotto tangibile.

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2. nello stadio di crescita l’impresa deve modificare la propria offerta, andando ad agire sulle caratteristiche del prodotto in modo da creare degli elementi di differenziazione (aumentano profondità e ampiezza di gamma). Di conseguenza, l’attenzione si sposterà dal prodotto tangibile al prodotto allargato.

3. raggiunto lo stadio di maturità, lo scopo principale dell’azienda è l’incremento della quota di mercato a scapito dei concorrenti. A tal fine, l’impresa dovrà necessariamente ampliare tanto profondità quanto ampiezza di gamma per ampliare la propria offerta e garantire una maggiore personalizzazione del prodotto: si assiste al fenomeno di proliferazione della gamma.

4. infine, nello stadio di declino, l’impresa tenderà a eliminare i prodotti o le varianti più deboli, quelli che generano minor profitto, in modo da concentrare i pochi sforzi sui prodotti centrali in grado di generare ancora dei guadagni (anche se, magari, esigui).

11.2 La definizione del prezzo La definizione del prezzo è senza ombra di dubbio una delle decisioni di marketing più critiche e delicate. Ciò per due principali ragioni:

in primo luogo, il prezzo influenza direttamente i ricavi e la redditività del business; in secondo luogo, il prezzo è l’elemento più confrontabile e oggettivo del marketing mix se si

considera la prospettiva di un qualsiasi cliente. Si definisce funzione o curva della domanda relazione tra il prezzo (p) e il livello della domanda stessa (Q). Generalmente, da un punto di vista microeconomico si può dire che al crescere del prezzo diminuiscono le unità di prodotto richieste dal mercato. L’intensità dell’effetto di una variazione di prezzo sulla domanda è misurata dal coefficiente di elasticità che può essere così calcolato:

𝛍 = −

∆𝐐𝐐∆𝐩𝐩

In particolare, si ha che per i beni normali tale coefficiente può assumere valori superiori a 1 (domanda elastica) o valori compresi tra 0 e 1 (domanda inelastica). Per i beni di lusso, invece, l’elasticità può assumere valori negativi (ossia all’aumentare del prezzo aumenta anche la domanda, per la maggiore esclusività del prodotto). L’elasticità della domanda di un prodotto è generalmente contenuta quando:

non esistono o vi sono pochi prodotti sostitutivi; il prodotto o servizio è unico o comunque scarsamente confrontabile con altri prodotti; il rapporto qualità/prezzo del prodotto è valutato conveniente dal cliente; vi è una limitata disponibilità da parte del cliente a cambiare abitudini d’acquisto o vi sono

costi elevati di switching del fornitore. 11.2.1 Il processo di determinazione del prezzo Il prezzo deve essere definito per la prima volta quando un prodotto o servizio nuovo viene immesso sul mercato. I passi che vengono seguiti sono quattro, ossia:

1. la definizione della politica e degli obiettivi di prezzo; 2. la scelta del criterio di determinazione del prezzo; 3. la definizione delle modifiche di prezzo; 4. l’approntamento di opportune manovre di prezzo.

Va sottolineato come le decisioni di prezzo sono influenzate da driver importanti, alcuni esogeni all’impresa e atri invece derivanti dalle decisioni strategiche. Si possono considerare:

lo stato generale dell’economia; la presenza di leggi o norme che regolano la fissazione dei prezzi;

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il comportamento dei concorrenti e in particolar modo dei leader di prezzo; l’elasticità della domanda al prezzo; lo stadio nel ciclo di vita dei prodotti; la struttura dei costi dell’impresa; la scelta di posizionamento dell’impresa e del prodotto rispetto ai concorrenti; le decisioni prese sulle altre leve del marketing mix, rispetto alle quali le scelte di prezzo

devono essere coerenti. 11.2.2 La politica e gli obiettivi di prezzo La politica di prezzo intrapresa dalla compagnia deve essere collegata e coerente agli obiettivi dell’impresa stessa: il pricing adottato, infatti, dipende in grande misura dalla strategia competitiva di base del business. Esistono quattro diversi obiettivi che possono essere perseguiti dalle aziende mediante le politiche di pricing. Si tratta di:

1. obiettivi di mercato Un’azienda persegue obiettivi di mercato nel caso in cui voglia massimizzare i volumi, la quota di mercato o i tassi di crescita. Evidentemente, in questo caso le strategie di prezzo saranno orientate a stabilire prezzi inferiori rispetto alla media di mercato.

2. obiettivi di profitto Un’azienda persegue obiettivi di profitto, invece, se vuole massimizzare i risultati nel breve o nel lungo periodo. Tali obiettivi portano alla ricerca del “prezzo ottimo” rispetto all’elasticità della domanda e alla struttura di costo dell’impresa.

3. obiettivi di sopravvivenza L’obiettivo di sopravvivenza è legato alla necessità dell’impresa di mantenere una certa attività nonostante sia in perdita, se non altro per un recupero parziale dei costi fissi. Ciò porta a definire livelli di prezzo decisamente inferiori rispetto alla media del mercato.

4. obiettivi di margine o scrematura del mercato Infine, le aziende che seguono obiettivi di margine vogliono associare un’immagine di elevata qualità o prestigio al prodotto o servizio offerto. In questo caso, la definizione del prezzo è superiore rispetto alla media del mercato.

La definizione della politica di prezzo deve anche essere allineata con la scelta di posizionamento fatta nello sviluppo della strategia di marketing. Generalmente, il criterio di fondo per selezionare la fascia di prezzo in cui collocarsi deriva dall’analisi del rapporto qualità/prezzo che l’azienda vuole offrire:

Prezzo

Basso Medio Alto

Qu

ali

tà Alta Liquidazione Penetrazione Premium price

Media Prezzo

conveniente Valore medio

Sviluppo del margine

Bassa Buon mercato Convenienza

apparente Speculazione

Sulla diagonale della matrice si possono vedere le strategie di prezzo che mantengono inalterato il rapporto tra la qualità e il prezzo.

Un’ulteriore eccezione nelle strategie di prezzo è quella praticata da aziende che operano con prezzi aggressivi, sistematicamente inferiori alla concorrenza, pur offrendo prodotti e servizi di qualità medio-elevata. Questa strategia è detta anche di value price.

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11.2.3 I criteri di fissazione dei prezzi Le imprese possono utilizzare diversi criteri per la fissazione del prezzo. In particolare, è utile ricordare come il prezzo del bene si può collocare in genere in un range in cui sono importanti:

il prezzo minimo, limite inferiore, generalmente pari ai costi variabili di produzione; il prezzo massimo, limite superiore, oltre il quale in base alla curva della domanda non

esistono clienti disposti ad acquistare il prodotto; il prezzo della concorrenza, riferimento centrale, che può influenzare la definizione del

prezzo massimo (anche in base a confronti riguardo alla percezione del prodotto da parte dei clienti).

Ecco alcuni metodi che possono essere utilizzati per la fissazione del prezzo:

metodo del mark-up Un primo metodo per la fissazione del prezzo è il metodo del mark-up, che prevede che il prezzo sia fissato sulla base del costo totale unitario (cui viene aggiunto un ricarico). Il prezzo sarà quindi pari a:

𝐩 = (𝐂𝐯 +𝐂𝐅

𝐐) ∙ (𝟏 + 𝐫𝐢𝐜𝐚𝐫𝐢𝐜𝐨%)

Questo metodo: garantisce margini adeguati ai diversi attori della filiera; non tiene conto né del prezzo di mercato né del valore percepito del prodotto.

metodo del punto di pareggio Un secondo metodo di fissazione dei prezzi è il metodo di break-even, che parte dai costi e dal livello di profitti. Dato che il punto di break-even viene definito come il minimo volume operativo necessario perché un’impresa riesca a pareggiare i costi e i ricavi, il prezzo corrispondente può essere ricavato dalla seguente formula:

𝐐𝐁𝐄 =𝐂𝐅

𝐩 − 𝐂𝐯

Questo metodo: è abbastanza semplice da utilizzare; non tiene conto di riferimenti esterni per la fissazione del prezzo; trascura l’elasticità della domanda al prezzo; non considera la variabilità dei costi in funzione dei volumi.

metodo del valore percepito dal cliente I limiti dei modelli presentati hanno portato alla creazione di un modello differente, che parte dall’analisi del prezzo che il cliente è disposto a pagare in relazione al valore che percepisce di ottenere dal prodotto: non vi è dunque una relazione tra il prezzo stabilito e la struttura di costo del prodotto. Il valore percepito del singolo prodotto è dato dalla media pesata del valore riconosciuto dal mercato ai singoli attributi del prodotto stesso, ossia si calcola come:

𝐕𝐢 =∑𝐏𝐣 ∙ 𝐚𝐢𝐣𝐣

dove: Vi = valore percepito del prodotto i Pj = peso dell

′attributo j

aij = valore del prodotto i secondo l′attributo j

Va sottolineato come il valore percepito di un prodotto sia generalmente diverso nei differenti segmenti di mercato a cui l’impresa si rivolge.

Essendo il metodo che meglio incarna la logica di orientamento al cliente, molto spesso viene utilizzato delle aziende (si usa la cosiddetta tecnica di target costing): in primo luogo, viene fissato il livello del prezzo corrispondente al valore percepito del prodotto; successivamente, si adattino la progettazione, la produzione e la distribuzione del prodotto per ottenere un livello dei costi compatibile con il prezzo fissato.

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Nei mercati industriali o nelle pubbliche amministrazioni, invece, gli acquisti di beni e servizi vengono condotti mediante il cosiddetto meccanismo della gara. In questo caso, il problema dell’impresa è quello di definire un prezzo da indicare nell’offerta che permetta:

da un lato di massimizzare la probabilità di acquisizione dell’ordine; dall’altro di massimizzare i profitti.

11.2.4 Le modifiche di prezzo Il prezzo è caratterizzato da un insieme di modifiche di prezzo che discriminano la domanda in base a diverse dimensioni. Si possono considerare:

in primo luogo delle variazioni che dipendono dalle modalità e alle combinazioni di acquisto. In particolare, i prezzi devono essere definiti in relazione alla combinazione di prodotti o servizi che vengono acquistati contemporaneamente (si parla di product bundling).

in secondo luogo, i prezzi possono essere modulati in relazione al luogo geografico o al canale distributivo presso il quale il prodotto stesso viene acquistato.

Infine, le modifiche di prezzo possono riguardare il momento d’acquisto (o il comportamento di acquisto) del consumatore: sconti e promozioni consistono in una modifica dei prezzi di listino per ricompensare i clienti che acquistano in determinati periodi o secondo determinate modalità. Queste politiche sono particolarmente importanti nel mercato B2B. 11.2.5 Le manovre competitive di prezzo Le manovre di prezzo non sono altro che delle scelte di adattamento del prezzo dei prodotti nel tempo. Ci possono essere diverse motivazioni che portano a queste manovre:

delle modifiche nella struttura dei costi dell’azienda; il cambiamento nella strategia competitiva; l’evoluzione del ciclo di vita del prodotto; le manovre di prezzo effettuate dai concorrenti; i cambiamenti nel contesto macroeconomico di riferimento.

Le manovre, che possono essere tanto di aumento quanto di riduzione del prezzo, devono sempre essere opportunamente motivate dall’impresa ai propri consumatori: infatti, una riduzione di prezzo può essere percepita da parte del cliente come una riduzione del valore del bene se non opportunamente comunicata.

Allo stesso modo, è molto importante che l’impresa non effettui manovre di prezzo troppo frequentemente: frequenti variazioni, infatti, danno l’impressione di instabilità.

11.2.6 Le strategie di pricing nel ciclo di vita La definizione del prezzo da parte delle imprese varia a seconda del posizionamento del prodotto nel ciclo di vita. Si ha che:

1. nelle fasi di introduzione l’azienda può seguire due differenti strategie: - una strategia di penetrazione, nel caso in cui si decida di offrire il prodotto a prezzi

bassi e competitivi per conquistare le fasce basse di mercato; - una strategia di scrematura, nel caso in cui si decida di offrire il prodotto a prezzi

medio-elevati per conquistare la fascia alta di mercato. 2. nello stadio di crescita l’impresa deve modificare la propria politica di prezzo tenendo conto

delle scelte prese in fase di introduzione: - se era stata adottata una strategia di penetrazione, si avrà un incremento dei prezzi

finalizzato ad aumentare il margine di profitto; - se era stata adottata una strategia di scrematura, si avrà una riduzione dei prezzi al

fine di attrarre anche le fasce più basse del mercato. 3. raggiunto lo stadio di maturità, in genere i prezzi dei prodotti vengono abbassati al fine di

incrementare i volumi di vendita. È in questa fase che le imprese fanno maggiore ricorso delle politiche di sconto e promozione (per via dei molti competitors).

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4. infine, nello stadio di declino, l’impresa tenderà a diminuire ulteriormente i prezzi al fine di favorire maggiori volumi di vendita e mantenere la quota di mercato. È in questa fase che, più frequentemente, si scatenano guerre di prezzo.

11.3 Le scelte di distribuzione Le aziende spesso non sono in grado di vendere direttamente ai clienti finali, ma devono ricorrere a degli intermediari. In particolare, si definisce canale di marketing un gruppo di organizzazioni indipendenti coinvolto nel processo che rende disponibile al consumo un prodotto o un servizio.

Ovviamente le caratteristiche del prodotto, il suo prezzo e le attività di promozione devono essere coerenti con la scelta del canale.

In tutti i mercati, industriali e finali, di prodotti e di servizi, il canale di marketing è caratterizzato da flussi in molteplici dimensioni: si tratta di flussi di prodotti, di flussi informativi e di flussi finanziari. Questi flussi possono essere gestiti da differenti tipologie di intermediari, ossia:

i rivenditori, siano essi grossisti o dettaglianti, ossia aziende che acquistano i prodotti per poi rivenderli (applicando ovviamente un ricarico);

gli agenti, siano essi mediatori o agenti alla vendita, che contattano i clienti e negoziano con loro per conto dei produttori (senza mai entrare in possesso del bene);

gli ausiliari, ossia dei soggetti che contribuiscono all’attività di distribuzione fornendo dei servizi di supporto pur non entrando in possesso del bene (né tantomeno partecipando alla transazione).

11.3.1 La lunghezza del canale Quando si parla di lunghezza del canale di marketing si fa riferimento al numero di livelli che compongono il canale stesso. A seconda del numero di intermediari presenti fra il produttore e il cliente finale si possono distinguere queste configurazioni:

innanzitutto il canale diretto, nel caso in cui non vi sia nessun intermediario fra il produttore e il cliente finale;

in secondo luogo il canale breve, costituito da un unico intermediario fra il produttore e il cliente finale;

infine il canale lungo, caratterizzato dalla presenza di due o più intermediari fra il produttore e il cliente finale, tipicamente un grossista (che rivende ad altri operatori commerciali) e un dettagliante (che rivende direttamente a consumatori finali). Ricordiamo che i grossisti sono intermediari che vendono ad altri operatori commerciali; i dettaglianti si rivolgono direttamente ai consumatori finali.

Ma quali driver guidano la scelta della lunghezza del canale? Si possono considerare questi:

innanzitutto, bisogna considerare come la presenza di intermediari nella vendita comporti inevitabilmente un aumento dei costi e quindi del prezzo finale per il cliente;

in secondo luogo, l’introduzione di intermediari produce un allontanamento del produttore dal cliente finale (cosa che può compromettere la capacità di rispondere prontamente al mercato e alle sue variazioni);

di contro, si deve considerare che molti produttori non hanno le risorse per distribuire direttamente i propri prodotti in modo capillare (e quindi traggono vantaggio dal lavoro degli intermediari);

infine, si deve considerare come per molti beni di consumo i clienti richiedano un assortimento che il singolo produttore non è in grado di offrire (ad esempio, in un retail store monomarca di proprietà).

In sintesi, possiamo dire che la scelta di un canale diretto è preferibile quando vi è un numero limitato di clienti che acquistano grandi quantità di beni di alto valore unitario, in genere altamente personalizzati o scelti all’interno di una vasta gamma di possibilità. Al contrario, i canali indiretti

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sono preferibili in presenza di molti clienti che comprano piccole quantità di prodotti di basso valore unitario, in genere altamente standardizzati 11.3.2 La strategia di distribuzione Se una delle prime scelte dell’impresa riguarda la lunghezza del canale di marketing, non si può certo dire che essa sia l’unica. Altrettanto importante è infatti la definizione della strategia di distribuzione, con cui l’impresa stessa si pone l’obiettivo di ottimizzare il trade-off tra il livello di servizio offerto ai clienti e i costi da sostenere per garantire tali performances. In generale, si può dire che il produttore opterà per il ricorso agli intermediari nel momento in cui non sarà in grado di garantire il servizio richiesto a costi ragionevoli. I servizi offerti dalla produzione, secondo Philip Kotler, sono i seguenti:

la quantità; il tempo di attesa; l’ubicazione; la varietà; i servizi aggiuntivi.

Una volta deciso quale canale utilizzare, nella formulazione della strategia di distribuzione l’azienda deve decidere il numero di intermediari da utilizzare. In genere, le aziende hanno a disposizione le seguenti alternative:

1. la distribuzione esclusiva, nel caso in cui l’azienda decida di vendere i propri prodotti attraverso un numero ristretto di intermediari;

2. la distribuzione selettiva, nel caso in cui invece l’azienda decida di ricorrere a più tipologie di intermediari (effettuando comunque una scelta fra tutte quelle disponibili);

3. la distribuzione intensiva, infine, tipica di quelle aziende che puntano a vendere i propri prodotti attraverso tutti i canali possibili al fine di raggiungere il maggior numero di clienti nel modo più capillare.

Solitamente le imprese utilizzano simultaneamente più canali, adottando una strategia che prende il nome di multi-canalità. Tale scelta consente di raggiungere un maggior numero di clienti, con caratteristiche preferenziali e comportamenti d’acquisto a volte molto differenti, a scapito tuttavia di maggiori costi (giustificati soltanto se effettivamente permettono di raggiungere nuovi clienti senza compromettere rapporti commerciali consolidati. 11.3.3 Le strategie di distribuzione nel ciclo di vita Anche le strategie di distribuzione adottate dall’impresa devono essere adattate a seconda del posizionamento del prodotto nel ciclo di vita. Si ha che:

1. nelle fasi di introduzione generalmente l’azienda preferisce concentrarsi su pochi canali per massimizzarne l’efficacia, lasciando perdere (almeno per il momento) una distribuzione intensiva su più fronti.

2. nello stadio di crescita, invece, l’impresa ha interesse ad aprire nuovi canali di vendita (in modo da attrarre nuovi clienti). Allo stesso modo, la rete di vendita deve essere opportunamente potenziata.

3. raggiunto lo stadio di maturità, l’azienda deve essere in grado di raggiungere il maggior numero di clienti possibile. Per questo motivo, in questa fase l’impresa diversificherà ed amplierà la rete di vendita.

4. infine, nello stadio di declino, l’impresa tenderà ad una distribuzione selettiva e manterrà solamente i canali distributivi più remunerativi.

11.4 La comunicazione d’impresa L’ultima leva di marketing mix a disposizione dell’azienda è la comunicazione, definibile come insieme di attività attraverso le quali l’azienda crea una relazione con il proprio mercato e con i propri consumatori. Va sottolineato come i destinatari delle attività di comunicazione, tuttavia, non

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siano solamente i clienti: vanno considerati anche altri agenti, come ad esempio gli azionisti, i fornitori, i dipendenti ed i giornalisti. Vista la molteplicità di destinatari, la comunicazione di impresa si deve avvalere di diversi strumenti quali la pubblicità, le pubbliche relazioni, le promozioni, le sponsorizzazioni o il direct marketing. La comunicazione è fondamentale, anche perché un’azienda rischia di perdere credibilità se non comunica in maniera uniforme e chiara con i propri stakeholder.

Di conseguenza, l’obiettivo principale delle attività di comunicazione è la costruzione di un’immagine dell’azienda coerente con i prodotti proposti. Inoltre, la comunicazione deve essere in grado di fidelizzare il proprio mercato di riferimento.

La comunicazione d’impresa è sempre più incentrata sul tentativo di far conoscere un servizio o un vantaggio procurato dai prodotti offerti, oltre che di costruire un valore d’azienda fonte di vantaggio competitivo. Vista la rilevanza di questa leva, un altro compito della comunicazione è analizzare e comprendere i comportamenti dei consumatori, in modo da conoscerne le esigenze e le peculiarità (fondamentale per poter instaurare una comunicazione solida e duratura nel tempo). Generalmente, è possibile fare una distinzione tra:

comunicazione istituzionale, utile ad un’impresa in molte fasi del ciclo di vita del prodotto, finalizzata a mantenere il contatto con i consumatori;

comunicazione di prodotto, incentrata invece sul lancio, sul posizionamento e sul rafforzamento di uno specifico prodotto sul mercato.

11.4.1 Gli strumenti di comunicazione Una volta definiti da un lato la strategia di comunicazione e dall’altro il budget da destinare complessivamente a tali attività, l’azienda deve decidere come utilizzare le risorse a disposizione allocandole opportunamente. Ogni impresa ha a disposizione diverse alternative, ossia:

pubblicità La maggior parte degli investimenti in comunicazione realizzati dalle imprese si concentra sulla pubblicità classica, definita anche advertising. Queste attività coinvolgono diversi mezzi, da quelli più tradizionali (TV, stampa, radio, cinema) fino a quelli di nuova generazione (Internet, TV digitale, telefonia mobile). A occuparsi delle campagne pubblicitarie sono in genere le agenzie specializzate.

Questo mezzo di comunicazione è per sua natura tipico dei mass-market: è rivolto al consumatore finale ed è basato sul tentativo di “colpire” il maggior numero di clienti nei canonici trenta secondi di uno spot.

direct marketing Quando si parla di direct marketing si fa riferimento ad una tecnica di comunicazione bidirezionale, che coinvolge l’azienda (che comunica) e il cliente (che può reagire, dare una risposta e quindi un feedback). Il marketing diretto raggiunge un pubblico selezionato, potenzialmente interessato al messaggio proposto.

promozioni Il principale obiettivo delle promozioni è creare un vantaggio economico attraverso la vendita di un numero maggiore di prodotti o la costruzione di un marchio fidelizzato. Le promozioni possono essere di diversi tipi:

- se rivolte al consumatore finale, le tecniche maggiormente utilizzate sono le iniziative di riduzione dei prezzi (che devono individuare un opportuno target di riferimento);

- se rivolte al canale di distribuzione, esse hanno il compito di creare una relazione, trasferire delle informazioni o incentivare la vendita.

relazioni pubbliche Quando si parla di relazioni pubbliche si fa riferimento a quelle attività che hanno l’obiettivo di creare e a mantenere relazioni efficienti con i vari pubblici di riferimento, facendo conoscere l’azienda e creando consenso.

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sponsorizzazioni Un'altra forma di comunicazione importante è la sponsorizzazione, che permette a un’azienda di abbinare il proprio marchio a quello di uno sportivo, di una squadra, di un’iniziativa culturale, di un evento o di una campagna sociale. Mediante questa tecnica, l’impresa ottiene un triplice risultato:

- in primo luogo l’esposizione del marchio in numerose occasioni; - in secondo luogo una maggiore riconoscibilità, in quanto il brand può essere

identificato con l’oggetto della sponsorizzazione; - infine, grazie a questo metodo si avrà una rapida promozione del brand.

packaging Un ultimo strumento di comunicazione può un il packaging stesso del prodotto. Un buon confezionamento, infatti, è molto più che una semplice comunicazione sulle funzionalità e i benefici di un prodotto: in molti casi la confezione è in grado di esprimere i valori intrinseci di un marchio e, quindi, può essere considerata una leva di comunicazione molto utile.

11.4.2 Le strategie di comunicazione nel ciclo di vita Ecco come variano le strategie di comunicazione a seconda del posizionamento del prodotto nel ciclo di vita. Si ha che:

1. nelle fasi di introduzione generalmente l’azienda usa la comunicazione per rendere nota l’offerta e per far conoscere il prodotto. In questa fase si fa solitamente largo uso di pubblicità e promozioni, al fine di sviluppare il brand.

2. nello stadio di crescita, invece, l’impresa incrementa gli investimenti in comunicazione (pubblicità, pubbliche relazioni e marketing diretto) al fine di sottolineare le peculiarità del prodotto offerto e attrarre nuovi clienti.

3. raggiunto lo stadio di maturità, poi, la comunicazione è prevalentemente volta a stimolare il consumatore e a mantenere alta la notorietà del brand. È in questa fase che le promozioni hanno massima importanza.

4. infine, nello stadio di declino è possibile riconoscere una drastica riduzione degli investimenti in comunicazione. In questo caso, piuttosto che sottolineare le peculiarità la comunicazione ha il compito di proporre utilizzi alternativi del prodotto per sostenere le vendite.

In questa fase è fondamentale la gestione che viene fatta del brand: se mal gestito, potrebbero esserci ripercussioni di lungo termine sull’impresa.

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12. LE SCELTE DI MAKE OR BUY

Una delle decisioni più importanti che un’impresa si può trovare ad affrontare riguarda la scelta di quali attività svolgere internamente e quali invece affidare a terzi. Storicamente, si possono distinguere le seguenti alternative:

integrazione verticale A lungo le aziende hanno optato per una gestione interna e possibilmente integrata di tutte le attività collegate al business, ossia hanno optato per un’integrazione verticale. Secondo questo modello, l’impresa presidia tutte le attività necessarie alla realizzazione e alla vendita dei propri prodotti, partendo dall’approvvigionamento delle materie prime fino alla distribuzione dei prodotti finiti. Generalmente, imprese del genere possono ottenere un buon successo in un contesto competitivo stabile, caratterizzato da una domanda poco variabile.

disintegrazione e delocalizzazione Nel corso degli anni, il modello dell’integrazione verticale totale si è dimostrato poco alla volta sempre più inefficace, per via di diversi fenomeni:

- innanzitutto per l’instabilità dei mercati, l’aumento della variabilità della domanda e l’impossibilità di pianificare investimenti in capacità produttiva che assicurino un vantaggio garantito nel medio termine;

- in secondo luogo per la riduzione del ciclo di vita dei prodotti, che non lascia alle imprese il tempo di ripagare investimenti particolarmente elevati;

- allo stesso modo per l’aumento della varietà e della gamma dei prodotti offerti sul mercato (insieme alla crescente richiesta di personalizzazione da parte dei clienti);

- infine, per la crescente ricerca di fattori produttivi a basso costo e il tentativo di contenere i costi (ad esempio, della manodopera o dell’energia).

Al giorno d’oggi, le sempre maggiori richieste dei clienti portano le imprese a dover ampliare la loro offerta e a fare ricorso ad un numero sempre più elevato di tecnologie differenti per la realizzazione dei prodotti stessi. Questo maggior bisogno di flessibilità porta le aziende ad affidare molto volentieri ai fornitori il compito di svolgere alcune attività specifiche. Questo fenomeno prende il nome di de-verticalizzazione (in opposizione alla già citata integrazione), terziarizzazione (con riferimento alla cessione a terzi di quote di attività precedentemente svolte internamente) o outsourcing (con riferimento all’approvvigionamento dall’esterno). In parallelo, la ricerca di costi di produzione sempre più bassi ha innescato il fenomeno della delocalizzazione (ossia del “trasferimento” in Paesi il cui costo delle risorse produttive risulta essere minore).

Da un punto di vista strategico, questo significa focalizzare gli investimenti sulle proprie core competence, o competenze chiave, e far leva sui fornitori esterni per ottenere una maggior flessibilità (e per accedere a competenze ausiliarie specifiche). Non sempre la focalizzazione sulle core competences è sufficiente: talvolta è necessario riuscire a modificare la propria strategia e ridefinire le proprie competenze al fine di adeguarsi ai cambiamenti ambientali.

Ovviamente, una conseguenza immediata della de-verticalizzazione è il progressivo aumento del numero dei rapporti di fornitura (con crescente rilevanza delle relazioni di fornitura). In particolare, si può dire che l’incidenza dei costi d’acquisto da fornitori terzi sul fatturato può essere considerato un indicatore del grado di de-verticalizzazione dell’impresa.

Un ulteriore fenomeno che spiega la forte attenzione all’outsourcing è l’effetto leva che gli acquisti possono avere sulla redditività di un’impresa. Ad esempio, un aumento del ROI può essere ottenuto, a parità di condizioni, sia tramite un aumento delle vendite che tramite una riduzione nei costi di acquisto: tuttavia, per un’impresa è molto più semplice mantenere il controllo sulla struttura di costo piuttosto che andare ad aumentare le vendite.

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12.1 Il mercato competitivo, il mercato collaborativo e l’integrazione verticale Una qualsiasi impresa può procurarsi i fattori produttivi (o i prodotti, più in generale) di cui ha bisogno adottando una di queste forme di mercato:

1. mercato competitivo La prima alternativa che le aziende hanno a disposizione è ricorrere al mercato, mettendo continuamente in competizione diversi fornitori. Una relazione di questo tipo, detta di mercato competitivo, implica generalmente transazioni spot in un’ottica di breve periodo (i fornitori sono selezionati sulla base di prestazioni a breve-medio termine). Una soluzione del genere comporta tanto vantaggi quanto svantaggi:

le parti dedicano pochi sforzi e poco tempo alle singole relazioni, quindi i costi di switching sono ridotti;

l’azienda può perseguire una propria flessibilità in termini di volumi di produzione, prodotti e tecnologie;

l’azienda ha la possibilità di accedere a nuove tecnologie emergenti affidandosi ai fornitori che le hanno sviluppate, senza compromettere investimenti passati;

il fornitore può perseguire economie di scala, grazie al consolidamento di volumi produttivi che difficilmente una singola azienda cliente riuscirebbe a raggiungere, cosa che comporta un vantaggio di costo anche per il cliente;

ricorrere a relazioni spot di mercato riduce la possibilità di differenziazione; essendo una relazione di breve termine, è difficile che il fornitore sia disposto a

investire per creare una soluzione ad hoc per il proprio cliente; si corre il rischio di perdere competenze prima presidiate; infine, un ultimo rischio è quello di selezionare il fornitore o i fornitori sbagliati (cosa

che può far perdere quota di mercato nei confronti dei competitori); 2. mercato collaborativo

Una soluzione intermedia tra il mercato competitivo e l’integrazione è costituita dai mercati collaborativi, relazioni basate su rapporti cooperativi con un numero limitato di fornitori che di fatto originano dei rapporti di partnership. In questo caso, l’attenzione del management alla qualità della relazione è forte. Una soluzione del genere comporta tanto vantaggi quanto svantaggi:

innanzitutto la possibilità di condividere i rischi di un investimento e di eventuali benefici derivanti;

il cliente può giovarsi di prestazioni migliori offerte dal proprio fornitore; si ha una riduzione del parco fornitori complessivo; la gestione dei rapporti collaborativi richiede maggiori sforzi in termini di persone,

risorse e competenze coinvolte; si hanno elevati costi di sostituzione (switching); si corre il rischio di subire il cosiddetto spill-over, in quanto una volta terminata la

relazione tra cliente e fornitore (o anche all’interno di essa) c’è la possibilità che una delle due imprese renda le informazioni acquisite dal partner disponibili per i suoi potenziali concorrenti.

3. integrazione verticale Infine, l’ultima alternativa a disposizione delle aziende è la cosiddetta integrazione verticale. Diametralmente opposta al mercato competitivo, essa implica l’internalizzazione delle competenze e delle tecnologie necessarie per lo sviluppo dei prodotti finiti. Una soluzione del genere comporta tanto vantaggi quanto svantaggi:

si ha un maggiore controllo sulle attività e sulle prestazioni ottenute, oltre che delle competenze e dei know-how;

si ha una riduzione del fenomeno di spill-over; si ha un maggior livello di personalizzazione e differenziazione dei prodotti; nel caso in cui i volumi realizzati siano sufficientemente elevati, si ha la possibilità di

sfruttare economie di scala e di scopo;

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il sistema produttivo è molto più rigido; svolgere tutto internamente può comportare una de-focalizzazione delle competenze

(cercare di presidiare troppi campi può causare problemi relativi al controllo delle competenze).

12.1.1 Le condizioni per il mercato La scelta dell’azienda riguardo a quale delle seguenti modalità adottare è molto importante. In particolare, ogni organizzazione deve sempre valutare (nella scelta se terziarizzare o meno una certa operazione) se esistono le condizioni per un mercato intermedio, sia esso competitivo o collaborativo. Un supporto teorico fondamentale per le aziende, in questo ambito, è la cosiddetta teoria dei costi di transazione (Williamson, 1979): questa cornice concettuale permette di capire se esistono o meno le condizioni per rivolgersi ad un mercato intermedio. È possibile definire i costi di transazione come somma dei costi associati alla transazione di beni o servizi da parte del fornitore in cambio di un corrispettivo economico da parte del cliente. Questi costi si compongono di diverse voci, quali:

i costi di ricerca e selezione dei potenziali fornitori; i costi di negoziazione dei termini contrattuali con il fornitore e di stesura del contratto; i costi di gestione della fornitura, che includono il controllo della fornitura e del rispetto dei

termini contrattuali. In particolare, si può dire che laddove i costi di transazione sono bassi esistono le condizioni per l’adozione di un mercato competitivo; nel caso in cui i costi di transazione siano elevati, ma comunque sostenibili da parte dei soggetti coinvolti, esistono le condizioni per l’adozione di un mercato collaborativo. Se i costi di transazione risultano essere troppo alti diventa necessario integrarsi verticalmente.

I costi di transazione devono essere confrontati con i costi di produzione in caso di integrazione verticale, ossia nel caso in cui l’azienda decida di realizzare internamente le attività.

L’entità dei costi di transazione dipende da tre fattori:

innanzitutto la complessità descrittiva, che viene utilizzata per misurare quanto è difficile per il cliente comunicare al potenziale fornitore tutte le specifiche del bene o del servizio richiesto. In generale, tanto più è ambiguo e poco definito il fabbisogno tanto più è difficile redigere un contratto completo: all’aumentare della complessità descrittiva, così, aumentano i costi di ricerca, negoziazione, selezione e definizione dei termini contrattuali.

in secondo luogo la specificità, che misura l’entità degli investimenti addizionali fatti dal fornitore (questi esborsi addizionali prendono il nome di investimenti relazionali specifici). In particolare, all’aumentare della specificità aumentano gli sforzi richiesti al fornitore.

infine l’incertezza, che misura l’impossibilità di prevedere cosa accadrà in futuro alla relazione (ad esempio dal punto di vista tecnologico o dei volumi produttivi).

In conclusione, all’aumentare di complessità, specificità e incertezza aumentano i costi di transazione associati, in quanto diventano più difficili le attività di ricerca, negoziazione e selezione di un fornitore. Di conseguenza è più probabile che esistano mercati competitivi laddove questi tre fattori sono bassi e mercati collaborativi laddove risultano elevati ma comunque sostenibili. 12.1.2 I driver strategici Valutare i costi di transazione, tuttavia, non è sufficiente. Ogni impresa deve infatti ponderare la scelta di ricorrere a una soluzione di mercato (collaborativo o competitivo) o di integrazione verticale valutando tale decisione e i suoi effetti da un punto di vista strategico. Si possono considerare i seguenti driver:

1. gestione delle competenze Il primo driver che può essere considerato riguarda le competenze. È di fondamentale importanza, infatti, che ciascuna azienda sia in grado di individuare le proprie competenze chiave, ossia che sia in grado di capire quali sono le conoscenze e i know-how in grado di

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garantirle un differenziale competitivo: queste conoscenze devono se possibile essere mantenute all’interno dell’azienda, vista la loro importanza. Di contro, può essere conveniente terziarizzare quelle attività che richiedono competenze specialistiche, che possono essere funzionali al successo ma che sono facilmente reperibili sul mercato.

2. gestione dei costi Il secondo driver da considerare riguarda i costi. Generalmente si può dire che l’outsourcing consente un risparmio, dato che la terziarizzazione di alcune attività consente la variabilizzazione di alcuni costi e di avere la flessibilità che manca nelle strutture verticali. In generale, infatti, il ricorso a una rete di fornitori permette all’azienda di sostenere solamente quei costi legati ai volumi realizzati (e di risparmiare sui costi fissi).

La terziarizzazione produce una riduzione dei costi fissi e un aumento dei costi variabili. In generale il punto di pareggio si abbassa, rendendo sostenibile il business anche in presenza di una domanda più bassa. Tuttavia, se i volumi aumentano la configurazione più integrata garantisce maggiori ritorni.

3. gestione del capitale L’ultimo driver da considerare riguarda la gestione del capitale. La decisione dell’azienda di disinvestire in certe attività e di ricorrere al mercato per la loro realizzazione consente di :

avere un risparmio in termini di risorse finanziarie, che potrebbero essere utilizzate sia per migliorare altre fasi che per diversificare il portafoglio dell’azienda (con espansione in altri business, cosa che permetterebbe di ridurre il rischio);

avere una riduzione delle immobilizzazioni materiali, cosa che provocherebbe un miglioramento degli indici.

La valutazione di questi driver strategici spinge verso l’outsourcing o l’insourcing dell’attività considerata, a seconda della convenienza.

12.2 Le reti di fornitura Negli ultimi anni, sempre più imprese hanno deciso di sfruttare l’outsourcing per l’esecuzione di alcune attività. Questo fenomeno ha portato alla realizzazione di reti di fornitura molto articolate, in cui si possono distinguere diverse tipologie di rapporto sulla base di queste caratteristiche:

in base al tipo di processo dato in outsourcing si può fare riferimento a: - relazioni di fornitura di processi primari, relative ad attività che aggiungono valore

aggiunto per il cliente finale; - relazioni di fornitura di processi di supporto, relative ad attività che non impattano

direttamente sul valore percepito dal cliente. in base alla posizione del fornitore, invece, si può fare riferimento a:

- rapporti verticali di filiera, se la relazione viene stabilita per attività che sono poste in sequenza tra di loro all’interno del settore;

- accordi orizzontali, se la relazione viene stabilita tra imprese che operano nello stesso stadio della filiera.

Quando la complessità di una rete di fornitura aumenta, diventa necessario organizzarla in modo strutturato: ciò porta alla nascita delle cosiddette reti gerarchiche a livelli. In questo caso, i fornitori di primo livello assumono piena responsabilità su un prodotto (o un componente) e sulle interazioni fra tutte le aziende coinvolte per la sua realizzazione. Esistono altre relazioni di fornitura che creano rapporti orizzontali tra più fornitori. È il caso delle reti di apprendimento (o learning network), in cui l’enfasi è posta sulla condivisione di competenze ed esperienze anche tra imprese che operano a diversi livelli.

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13. GLI ACQUISTI

13.1 Le tipologie di acquisto Il dilemma di make or buy, le tendenze verso l’outsourcing e l’emergere dei mercati collaborativi non sono altro che la cornice strategica entro la quale si collocano tutte le attività di approvvigionamento, ossia l’insieme dei processi e degli strumenti gestionali utilizzati per selezionare e valutare i fornitori, negoziare con loro e completare le transazioni. Le tipologie di beni che vengono acquistate dalle imprese, siano essi prodotti o servizi, sono molto variegate. Per questo motivo, è molto utile creare una classificazione delle diverse tipologie di acquisto (specialmente perché questa eterogeneità si riflette sulle modalità in cui gli acquisti vengono effettuati) seguendo due diverse direttive:

in primo luogo, è importante fare una distinzione tra: - acquisti di materiali diretti o acquisti diretti, che comprendono l’acquisto di tutti

quei materiali che confluiscono nel prodotto dell’azienda acquirente. Si tratta, ad esempio, di materie prime, semilavorati e componenti, ma anche di tutti quei servizi che concorrono all’ottenimento dei prodotti finiti. Facendo riferimento alla catena del valore di Porter (1985), le attività primarie (ossia tutte le attività che concorrono direttamente alla produzione di beni e servizi) comportano acquisti diretti, in quanto richiedono l’acquisto di tutto ciò che verrà incorporato nei prodotti o servizi stessi.

- acquisti di materiali indiretti o acquisti indiretti, che riguardano tutti i beni ed i servizi di supporto alla produzione, che non vengono incorporati nei prodotti o servizi finali ma che sono comunque necessari per mantenere livelli adeguati di produttività e operatività. È possibile fare una distinzione tra:

i. materiali ausiliari, ossia beni di consumo collegati alle attività produttive che non entrano a far parte del prodotto finito (ad esempio lubrificanti, abrasivi, ...);

ii. MRO (Maintenance, Repair and Operating materials), ossia l’insieme di tutti quei beni necessari al funzionamento dell’azienda (come ad esempio la cancelleria, i materiali di manutenzione, le parti di ricambio, ...);

iii. beni di investimento, che possono essere sia beni di investimento materiali o industriali (ossia tutte le tecnologie usate per far funzionare l’azienda, come impianti, macchinari e automezzi) sia beni di investimento immateriali (ossia beni come brevetti, licenze, progetti, campagne pubblicitari, ...).

Sempre facendo riferimento a Porter, le attività secondarie (ossia tutte le altre funzioni aziendali finalizzate a favorire il regolare svolgimento delle attività primarie, come la gestione delle risorse umane, l’amministrazione e i servizi ICT) comportano invece acquisti indiretti.

In base alle problematiche di approvvigionamento si può fare una distinzione tra: - imprese commerciali, che acquistano e rivendono prodotti finiti; - imprese di servizi product based, che forniscono servizi che comprendono una parte

rilevante di prodotti fisici (ristoranti, ...); - servizi puri, che non includono nessuna componente materiale (banche, assicurazioni,

servizi legali, ...). in secondo luogo, poi, si può fare una distinzione tra:

- acquisto di beni tangibili; - acquisto di servizi o prestazioni.

È molto importante fare questa classificazione per poter meglio comprendere le differenze tra acquisti diretti e indiretti, innanzitutto perché spesso esistono unità organizzative diverse dedicate alle diverse tipologie di acquisti.

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Le maggiori differenze tra acquisti diretti e indiretti sono queste:

ACQUISTI DIRETTI ACQUISTI INDIRETTI

VARIETÀ DI GAMMA (ASSORTIMENTO)

Varietà abbastanza bassa, limitata alle poche categorie merceologiche

che vanno a finire nel prodotto

Richiedono una varietà di prodotti e servizi abbastanza ampia

NUMERO DI FORNITORI

Vengono effettuati presso un numero ristretto di fornitori (per

via della bassa varietà dei prodotti e dei grandi volumi)

Vengono effettuati presso un numero maggiore di fornitori

TASSO MEDIO DI ROTAZIONE

La rilevanza in termini di volumi e valore fa si che ci sia una maggiore rotazione, volta a ridurre le scorte

A causa dei minori volumi e del ridotto valore unitario (ma anche alla minore variabilità), i tassi di

rotazione sono minori

LOGICHE DI PROGRAMMAZIONE

Dipendono strettamente dalla previsione della domanda e dalla pianificazione della produzione,

che determinano i fabbisogni

Seguono logiche autonome, in genere basate su previsioni ad hoc

13.2 Il processo di acquisto I processi di acquisto sono dei processi aziendali complessi e interfunzionali, caratterizzati da:

attività che hanno una rilevanza strategica (come ad esempio le scelte di make or buy o le decisioni che riguardano la natura dei rapporti con i fornitori) e che vengono svolte con una frequenza ridotta, in quanto hanno una validità protratta nel tempo;

attività che hanno una natura operativa e più ripetitiva (come ad esempio l’emissione degli ordini, la ricezione delle merci, il controllo della conformità delle forniture, ...).

Il processo di acquisto può essere considerato come l’insieme di tre sottoprocessi:

1. strategic purchasing; 2. sourcing; 3. supply.

13.2.1 Staregic purchasing Lo strategic purchasing è l’insieme di tutte le attività legate alle scelte strategiche relative agli approvvigionamenti. Questo processo prende le mosse a partire dai risultati delle scelte di make or buy e, in particolare, si concentra sui prodotti e sui servizi che si è deciso di realizzare in outsourcing.

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Si possono distinguere quarto diverse attività: 1. definizione delle reti e delle relazioni

In primo luogo, l’azienda acquirente deve decidere per ogni categoria di acquisto la struttura della rete di fornitura, ossia deve decidere quanti fornitori attivare e che rapporto instaurare. Si possono distinguere questi approcci:

multiple sourcing Il cliente, in questo caso, ricorre continuamente al mercato competitivo instaurando relazioni a breve termine con i suoi fornitori, al fine di non essere troppo legato ad uno in particolare. Nella rete ci sono quindi molti fornitori, prevalentemente selezionati in base ai prezzi, che realizzano componenti simili per uno o più prodotti dell’azienda acquirente. In questo modo:

vengono ridotti i rischi di subire comportamenti opportunisitci; si facilita l’accesso all’innovazione, in quanto ogni volta ci si può rivolgere al

fornitore più avanzato ed adeguato; ci sono ridotti costi di switch; si riduce la possibilità di personalizzare i prodotti o servizi richiesti; si limitano le possibilità di seguire le economie di scala, visto che i volumi

vengono frazionati su vari fornitori. Rapporti di questo tipo sono adatti all’acquisto di beni e servizi standard (detti commodity), reperibili facilmente sul mercato.

single sourcing Seguendo questo approccio, diametralmente opposto al multiple sourcing, il cliente si affida ad un unico fornitore per l’approvvigionamento di un determinato bene o servizio. Molto spesso questa è una scelta obbligata, in quanto il cliente chiede al fornitore di investire (ad esempio in ricerca o impianti e macchinari dedicati) in cambio del l’esclusiva o in quanto il fornitore detiene il monopolio su una certa tecnologia. Sono molti però i casi in cui i clienti cercano questa struttura per sfruttare i vantaggi della partnership (personalizzazione, flessibilità, maggiori volumi, ...). In questo modo:

è possibile sfruttare le economie di scala; si hanno vantaggi in termini di personalizzazione, flessibilità e possibilità di

far leva sulle competenze specifiche del fornitore; ci sono elevati costi di switch; esiste un forte pericolo di monopolio laterale, con il cliente che rischia di

trovarsi ostaggio del fornitore. Relazioni di questo tipo sono in genere di medio o lungo termine.

dual sourcing È una variante del single sourcing, in cui il cliente mantiene un fornitore principale per la maggior parte del fabbisogno di un bene e un fornitore di riserva per la parte rimanente. In questo modo, l’azienda acquirente crea una sorta di tensione competitiva (nell’ambito di rapporti comunque stabili nel medio o lungo termine) e riesce a tutelarsi tanto da comportamenti opportunistici quanto da problemi o imprevisti che colpiscono il fornitore principale.

parallel sourcing Questo approccio si basa su una serie di relazioni esclusive di single sourcing con vari fornitori, ciascuno dei quali viene “incaricato” del soddisfacimento di un componente per una determinata famiglia di prodotti. Il cliente rinuncia all’aggregazione del fabbisogno ma mantiene i rapporti con diversi fornitori che realizzano lo stesso prodotto o servizio (ciascuno dedicato ad una particolare famiglia).

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In questo modo: si sfruttano i vantaggi di multiple e single sourcing, mettendo in trade off

l'efficacia e il rischio dei rapporti di fornitura; si ha la possibilità di costruire rapporti duraturi e collaborativi; i costi di switch sono abbastanza ridotti; si mantiene una certa tensione competitiva tra i fornitori; si ha un limite di applicabilità, in quanto una condizione è che vi sia una

gamma abbastanza ampia di prodotti finiti. 2. marketing di acquisto

Quella di marketing d’acquisto è un’attività di fondamentale importanza per le aziende. Si tratta di una sorta di screening, mediante il quale le imprese si tengono aggiornate sullo stato del mercato, sulle novità che vengono proposte a livello di tecnologia e sulle possibili alternative alle soluzioni di fornitura correnti: tale attività è critica in quanto, grazie ad essa, l’azienda può essere al passo col mercato e può reagire prontamente ad eventuali variazioni.

La valutazione dei fornitori potenziali è molto importante, perché garantisce all’azienda la possibilità di rivolgersi a compagnie di cui si possiedono già informazioni (sebbene non sia mai stata instaurata una partnership in precedenza, magari) nel caso in cui la relazione con l’attuale fornitore salti o crei delle problematiche. I parametri che vengono valutati sono numerosi (dalle prestazioni ai costi, compreso il livello di servizio e la puntualità) e in questo modo è possibile procedere con un’attività di qualifica dei fornitori: mediante il confronto dei dati raccolti e dei parametri considerati, infatti, è possibile “scartare” a priori quei potenziali fornitori che non sarebbero in grado di soddisfare i requisiti dell’azienda.

3. gestione dei fornitori L’attività di gestione dei fornitori si compone di diverse decisioni:

in primo luogo, l’azienda deve decidere la tipologia di relazione da instaurare con ciascun fornitore (in poche parole, per ogni fornitura si deve decidere se optare per un mercato competitivo o per una forma di mercato collaborativo).

in secondo luogo, definita la relazione l’azienda deve decidere se accorpare presso un unico fornitore l’acquisto di più codici o se incaricare della loro realizzazione diversi partner.

infine, l’azienda deve valutare la convenienza di attività di supplier development, ossia di azioni che portano ad un miglioramento dei processi di produzione del fornitore stesso. Questa valutazione è molto importante, perché il trasferimento di know how sensibili a un fornitore potrebbe portare ad esiti negativi in caso di rottura della relazione.

4. valutazione dei fornitori Le attività di valutazione strategica dei fornitori non sono altro che delle operazioni ripetute a cadenza periodica al fine di rilevare le attuali condizioni di fornitura e verificarne l’adeguatezza. Questa analisi, del tutto simile a quella condotta in fase di qualifica dei fornitori, consente di trarre delle conclusioni sulle aziende partner e guida l’azienda nei processi di definizione del network di fornitura: se un fornitore non supera la valutazione per il manifestarsi di un problema, infatti, è importante che l’impresa prenda opportune decisioni (dal cambiamento, molto drastico, alla comunicazione del problema, approccio costruttivo finalizzato al miglioramento della relazione).

13.2.2 Sourcing Il sottoprocesso di sourcing è una sorta di collegamento fra le decisioni strategiche e l’attività quotidiana operativa. Il compito di questo sottoprocesso è soddisfare le necessità operative (in genere di routine) al loro manifestarsi: ogni volta che all’interno dell’azienda viene emesso un ordine di acquisto (o, più precisamente, una richiesta di acquisto) la fase di sourcing viene attivata e si procede con la ricerca di un fornitore (tra quelli noti) in grado di soddisfare la specifica necessità.

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Più nel dettaglio, questo sottoprocesso si compone di quattro fasi: 1. definizione delle specifiche

Questa attività iniziale fornisce gli input necessari al processo di sourcing: è in questa fase preparatoria, infatti, che la funzione acquisti traduce in specifiche più o meno dettagliate (caratteristiche, quantità, tempi di fornitura, modalità di consegna, …) le necessità dei clienti interni. Di conseguenza, in questa prima fase si ha necessariamente un contatto tra la funzione acquisti e le altre funzioni aziendali, motivo per il quale è importante che chi si occupa degli acquisti abbia sufficienti competenze per trattare sia con i clienti interni che con i fornitori esterni. Dato che i fabbisogni d’acquisto sono in genere di routine (non sempre sono nuovi, è molto più facile che si siano già presentati in passato), definite le specifiche la funzione acquisti si occupa di rintracciare nel database dei fornitori qualificati dall’azienda un’impresa in grado si soddisfare la fornitura.

2. marketing di acquisto (opzionale) L’attività di marketing di acquisto è un’attività, nel processo di sourcing, che non sempre si verifica. Se l’azienda ha a disposizione dei fornitori qualificati a cui affidare la fornitura, infatti, generalmente si rivolge a loro senza ulteriori analisi (ciò accade specialmente se ci sono dei rapporti di fornitura già attivi): questa scelta, infatti, porta ad un risparmio di tempo e costi di ricerca. Se invece l’azienda non ha a disposizione fornitori in grado di soddisfare le richieste si procede con delle attività di ricerca sul mercato, volte ad individuare la migliore soluzione possibile in termini di tempi, costi e qualità.

Anche se l’azienda possiede un ampio parco fornitori le operazioni di scouting non devono essere del tutto interrotte. È infatti possibile che altre imprese immettano sul mercato nuove tecnologie o offrano nuove soluzioni, quindi sta alla funzione marketing essere in grado di cogliere le innovazioni e non lasciarsi sfuggire le migliori opportunità.

3. richiesta di offerta La richiesta di offerta (ossia l’ordine) viene emesso in seguito all’individuazione di un fornitore adatto. Tale richiesta deve ovviamente includere le specifiche presentate dal cliente interno, oltre che la definizione delle condizioni di fornitura.

4. negoziazione e selezione Una volta ricevute le proposte dei fornitori, l’azienda deve cercare di ottenere le condizioni di fornitura migliori: per farlo, molto spesso può essere utile creare una sorta di competizione tra i diversi fornitori. Una volta identificato e selezionato il fornitore migliore, secondo differenti criteri di scelta, si redige un contratto di fornitura completo e si conclude il processo di sourcing.

13.2.3 Supply Il processo di supply si innesca con la stipulazione di un contratto di fornitura e l’emissione di un ordine: scelto il fornitore e stipulato il contratto, infatti, si passa all’acquisto dei beni vero e proprio. È possibile fare una distinzione tra due diverse tipologie di contratto:

i contratti chiusi, validi per un solo acquisto, tipici di beni d’investimento o beni d’acquisto che vengono comprati una sola volta (o comunque molto sporadicamente).

i contratti aperti o contratti quadro, caratteristici di quelle forniture ripetitive in cui il sourcing viene effettuato una volta e rimane valido per periodi di tempo medi o lunghi e l’attività di supply viene ripetuta ogni volta che se ne ha la necessità. In questo caso, si lasciano in genere maggiori libertà al consumatore riguardo ai volumi e ai tempi dei singoli ordini ma vengono definiti prezzi di acquisto.

Generalmente, il sottoprocesso di supply ha una frequenza molto maggiore rispetto a sourcing e strategic purchasing.

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Questo sottoprocesso si compone delle seguenti attività: 1. expediting

In seguito all’emissione dell’ordine, che costituisce l’innesco vero e proprio, la funzione acquisti procede all’expediting, ossia alla verifica dello stato di processazione dell’ordine.

2. ricezione e controllo La fase di ricezione e controllo si compone sia della mobilitazione fisica delle merci, trasportate nei magazzini input dell’azienda che della fase di registrazione e controllo della merce consegnata (svolte entrambe dalla funzione logistica). Spesso, tuttavia, il controllo di qualità viene delegato al fornitore stesso, dopo che ne è stata verificata l’affidabilità. In questa fase si raccolgono gran parte dei dati che saranno in seguito utilizzati per valutare la fornitura.

3. pagamento Effettuata la consegna, il fornitore emette la fattura per la merce realizzata e l’azienda (in particolare l’amministrazione, verificata la correttezza della fornitura, attiva le operazioni di pagamento.

4. valutazione operativa Un altro compito della funzione acquisti consiste nella raccolta delle informazioni relative alle diverse forniture. Questa attività consente di aggiornare, nel corso del tempo, la valutazione del fornitore.

13.3 L’organizzazione degli acquisti Come per una qualsiasi unità organizzativa, la questione principale che ci si trova ad affrontare nell’organizzazione della gestione acquisti è la divisione del lavoro e definizione dei meccanismi di coordinamento. In particolare, nella creazione di questa unità l’azienda si trova di fronte a due diverse scelte:

in primo luogo, l’azienda deve decidere quali sono le attività di competenza della funzione acquisti. Questa scelta consente di definire il raggio di azione della funzione acquisti.

Va ricordato come il processo di acquisto non è mai gestito interamente dalla funzione in completa autonomia dato che alcune attività, in particolare quelle più strategiche (strategic purchising) vengono sempre svolte in collaborazione con altre funzioni aziendali.

in secondo luogo, l’azienda deve decidere la struttura della funzione acquisti e deve scegliere se creare delle sotto-unità organizzative. Si parla, in questo caso, di definizione dei criteri di raggruppamento da utilizzare.

Le imprese con più sedi operative (e in particolare le multinazionali), inoltre, devono gestire una terza questione nella creazione della funzione acquisti. Si tratta del livello di centralizzazione degli acquisti, ossia della scelta di come gestire gli acquisti (se centralizzarli, affidandoli alla sede centrale, o localizzarli, delegandoli alle sedi periferiche). 13.3.1 Il raggio d’azione La definizione del raggio d’azione della funzione acquisti consiste nel determinare quali e quante delle varie attività dei processi approvvigionamento sono sotto la sua responsabilità diretta. A tal proposito, è possibile riconoscere un’evoluzione storica del ruolo della funzione acquisti all’interno dell’azienda coerente con la sempre maggiore rilevanza degli approvvigionamenti, fenomeno dovuto principalmente alle tendenze alla de-verticalizzazione. Questa evoluzione prevede quattro differenti stadi di sviluppo, che sebbene non vengano necessariamente percorsi da tutte le aziende rappresentano una buona modellazione dell’evoluzione della funzione:

1. azienda imprenditoriale Il primo stadio è quello dell’azienda imprenditoriale, in cui non esiste una specifica unità dedicata agli acquisti e tutte le decisioni sono accentrate nella proprietà. In questa situazione può esistere la figura del buyer, l’impiegato che emette gli ordini e sollecita le consegne nel

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caso in cui le consegne siano in ritardo. Inoltre, non esistono criteri di valutazione formalizzati.

2. acquisti frammentati Il secondo stadio è quello degli acquisti frammentati, tipico delle realtà in cui gli acquisti non hanno particolare rilevanza e sono considerati come un’attività puramente operativa (cioè senza alcun ruolo strategico). In questo caso l’attività più importante è l’esecuzione di procedure di ordine e ricezione (si parla di supply strategico), mentre le altre fasi del processo di acquisto sono effettuare da altre funzioni aziendali. Di conseguenza, il buyer è un esecutore di procedure.

3. ufficio acquisti Il terzo stadio è la creazione di un ufficio acquisti vero e proprio, in grado di centralizzare le procedure di approvvigionamento. Si tratta, in questo caso, di un ampliamento delle responsabilità (si includono anche le procedure di sourcing, oltre al supply). Parallelamente si ha anche un’evoluzione della figura del buyer, che deve assumere un ruolo attivo di ricerca e selezione dei fornitori (la valutazione avviene sulla base di molte performance, dal prezzo di fornitura a qualità e servizio della stessa).

4. direzione acquisti Infine, l’ultimo stadio è la creazione di una direzione acquisti direttamente coinvolta nelle decisioni aziendali di maggior portata. Questa unità, che viene collocata al primo livello dell’organigramma aziendale, intrattiene strette relazioni con le altre direzioni aziendali e ha un ruolo fondamentale all’interno dell’azienda (si occupa direttamente di tutte le fasi del processo d’acquisto). Il buyer, in questo caso, diventa un vero e proprio process owner che deve:

gestire la relazione “tradizionale” con le altre unità; occuparsi dei rapporti di partnership e di interfaccia sia verso l’esterno sia verso

l’interno. La valutazione dei fornitori è effettuata in questo caso sui costi globali (prestazioni di fornitura, costi di mantenimento a scorta, altri costi indotti, …).

13.3.2 I criteri di raggruppamento La definizione dei criteri di raggruppamento consiste nella scelta di un criterio in base al quale raggruppare le varie posizioni in sotto-unità organizzative. A questo scopo, le aziende possono utilizzare due logiche fondamentali ossia:

1. logica funzionale (orientata agli input) Nel contesto degli acquisti, con input si fa riferimento alle categorie merceologiche. In questo caso, di conseguenza, i buyer sono specializzati nell’acquisto di una sola categoria di fattori produttivi per il fabbisogno complessivo dell’azienda (dell’intera azienda nel caso di una multinazionale): l’obiettivo perseguito è quello dell’efficienza, reso possibile grazie all’aumento del potere contrattuale nei confronti dei fornitori.

2. logica divisionale (orientata agli output) Sempre in questo contesto, con output si fa riferimento ai prodotti finiti o ai servizi erogati dall’azienda cliente. In modo diametralmente opposto, in questo caso le unità organizzative sono dedicate a singole famiglie di prodotti finiti e si occupano di tutte le categorie merceologiche necessarie per la produzione. Questo criterio permette di raggiungere obiettivi di efficacia, oltre che un maggior orientamento al cliente finale.

Nella realtà, molte aziende sviluppano la loro funzione acquisti con una struttura ibrida, ovvero adottano in parte il criterio degli input e in parte il criterio degli output cercando di bilanciarne pregi e difetti.

Un’altra struttura frequente in aziende che operano in più sedi geograficamente disperse consiste nella replicazione delle attività di acquisto per ogni sede o paese in cui si opera.

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13.3.3 Il livello di centralizzazione La definizione del livello di centralizzazione è una questione che solo le aziende localizzate su diverse sedi operative si trovano ad affrontare. È necessario tuttavia fare una precisazione:

le fasi di strategic purchasing e sourcing (decisioni strategiche) possono essere centralizzate, in quanto ciò consente di definire strategie comuni per l’intera azienda (e di ottenere condizioni più vantaggiose con i fornitori);

il supply (decisioni operative) generalmente non viene centralizzato, in quanto ciò non sarebbe conveniente (la gestione dei flussi fisici risponde a esigenze specifiche).

Le scelte di centralizzazione e localizzazione vengono ponderate prendendo in considerazione alcune variabili rilevanti:

l’esistenza di comunanze fra gli acquisti fra le varie sedi spinge verso la centralizzazione, per aggregare i volumi di acquisto al fine di ottenere una riduzione dei prezzi;

la rilevanza degli acquisti, in termini di incidenza sui costi totali e sulle prestazioni dell’azienda, spinge verso la centralizzazione per avere un migliore controllo;

l’importanza del potere contrattuale, dovuta ad esempio alla concentrazione del mercato di fornitura, spinge verso la centralizzazione.

la necessità di competenza specialistiche spinge alla centralizzazione, per favorire la specializzazione dei buyer.

l’esigenza di integrare fortemente le attività delle sedi locali con quelle dei fornitori, ad esempio perché si adotta un sistema di tipo just-in-time, spinge verso il decentramento;

la dispersione geografica delle sedi rende necessaria la localizzazione; il mercato di fornitura influenza la scelta a seconda delle sue caratteristiche, in quanto se è

locale è preferibile una struttura decentralizzata mentre se è globale è preferibile una struttura centralizzata;

l’esistenza di vincoli sulla base di fornitura (politico-legislativi, di mercato, logistici, …) spingono verso una struttura decentralizzata.

13.4 La gestione del portafoglio d’acquisto La gestione del portafogli acquisti consiste nella definizione di opportune strategie di approvvigionamento per ciascuna categoria di beni o servizi acquistati dall’azienda. Uno strumento gestionale largamente utilizzato dalle aziende per la gestione del portafoglio di approvvigionamento è la matrice di Kraljic.

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Colli di bottigliaPartnership o integrazione

verticale

Sole sourcing forzoso

StrategiciPartnership

Rapporti consolidati

Single sourcing o dual sourcing

Non criticiMercato competitivo

Transazioni spot

Multiple sourcing

LevaPartnership

Uso del potere contrattuale

Parallel sourcing o dual sourcing

13.4.1 La matrice di Kraljic La matrice di Kraljic è uno strumento di supporto molto utilizzato nella definizione delle modalità di gestione del portafoglio di acquisti. Secondo l’autore, Peter Kraljic, gli oggetti acquistati possono essere classificati secondo due dimensioni fondamentali:

1. l’importanza strategica del bene acquistato (asse delle ascisse); 2. la difficoltà del mercato di fornitura (asse delle ordinate).

In particolare si ha che:

l’importanza strategica di un bene acquistato misura il suo contributo alle prestazioni competitive dell’azienda e dipende da fattori quali:

- l’incidenza di costo del bene sui costi totali; - il contributo alla qualità del prodotto finito; - il contributo ai differenziali competitivi.

la difficoltà del mercato di fornitura, invece, dipende dall’esistenza o meno di ostacoli all’approvvigionamento di un bene sul mercato ed è influenzata da fattori quali:

- la concentrazione del mercato di fornitura; - i costi logistici; - la capacità produttiva complessiva dei fornitori.

In base a queste due dimensioni la matrice di Kraljic individua quattro diverse tipologie di prodotti, dati dalle intersezioni delle variabili descrittive. Si possono distinguere:

1. acquisti non critici (commodity) Gli acquisti non critici sono dei beni a bassa importanza strategica e a bassa difficoltà di mercato, che quindi possono essere approvvigionati efficacemente sul mercato competitivo. Le caratteristiche di questi beni fanno si che l’obiettivo degli acquisti sia la minimizzazione del prezzo di acquisto.

2. acquisti leva (macchine utensile) Gli acquisti leva sono dei beni ad elevata importanza strategica e a bassa difficoltà di mercato, che pur avendo un elevato valore unitario sono offerti da molti fornitori. Vista la molteplicità di fornitori, l’azienda può sfruttare l’effetto leva (potere contrattuale) per contenere i costi pur mantenendo la qualità e la stabilità della fornitura.

3. colli di bottiglia (microprocessori) Gli acquisti collo di bottiglia sono dei beni a bassa importanza strategica ed elevata difficoltà di mercato e costituiscono una criticità per l’azienda, in quanto i fornitori hanno elevato

Importanza strategica

Difficoltà di mercato

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potere contrattuale vi è il rischio di rimanere bloccati per ritardi o difetti nelle consegne. Le alternative a disposizione dell’azienda per questi fattori produttivi sono le seguenti:

innanzitutto, l’azienda deve capire se questi input sono effettivamente indispensabili oppure se è possibile sostituirli con altri meno critici;

se non sono sostituibili, l’azienda deve valutare la possibilità di ricorrere all’integrazione verticale per sottrarsi a una situazione di dipendenza dai fornitori;

se nemmeno l’integrazione verticale è possibile, l’ultima alternativa possibile è gestire la fornitura in modo appropriato (si ricorre così a forme di partnership).

4. acquisti strategici (motore e componenti critici di un’automobile) Gli acquisti strategici, infine, sono beni ad alta importanza strategica e alta difficoltà di mercato (i fornitori hanno elevato potere contrattuale). La concentrazione del mercato di fornitura è spesso connessa alla rilevanza strategica, di conseguenza il prezzo di acquisto non è la variabile più rilevante: l’obiettivo dell’azienda è l’ottimizzazione delle prestazioni di fornitura sul lungo termine, ragion per cui spesso si consolidano partnership di lungo termine (single sourcing o dual sourcing).

13.4.2 Local sourcing e global sourcing Nel mercato attuale è sempre più diffusa la tendenza al global sourcing, ossia si è in presenza di fenomeni e fattori che facilitano e incoraggiano l’utilizzo di fornitori lontani dal luogo dove opera il cliente. Questa tendenza è determinata da alcuni driver molto rilevanti:

innanzitutto lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto, che permette di movimentare grandi quantità di merci su lunghe distanze a costi ragionevoli;

in secondo luogo, gli accordi commerciali internazionali, la riduzione delle barriere doganali e le semplificazioni burocratiche;

molto importante anche lo sviluppo di attività manifatturiere a basso costo, specialmente in Asia, più convenienti rispetto a quelle occidentali;

ultima ma non meno importante, la scelta del global sourcing può essere dovuta alla ricerca dei cosiddetti fornitori world class, cioè i migliori al mondo nel loro settore in termini di qualità e innovazione.

In alcune situazioni, la scelta di fornitori globali può essere addirittura obbligata a causa del controllo esclusivo delle risorse (naturali o tecnologiche) da parte del fornitore stesso. Parallelamente a questo fenomeno, tuttavia, gli acquisti presso fornitori locali (il cosiddetto local sourcing) rimangono fondamentali per le aziende. Ciò accade per diverse ragioni:

in primo luogo, per i prodotti di basso valore unitario ed elevato volume e peso i costi logistici sono generalmente elevati (e non giustificano quindi il mercato globale);

in secondo luogo, fattori come la necessità di consegne rapide e affidabili (fondamentali nel just-in-time e in contesti ad alta turbolenza) oppure la volontà di instaurare rapporti di stretta collaborazione con i fornitori fanno preferire il mercato locale.

13.5 La valutazione dei fornitori (vendor rating) La gestione del portafoglio fornitori è fondamentale in ogni azienda. Ogni organizzazione, infatti, deve essere in grado di selezionare uno o più fornitori adatti per ciascun oggetto d’acquisto e, per farlo, deve essere in grado di valutare i fornitori attuali e potenziali: si parla di vendor rating, valutazione dei partner finalizzata ad individuare quali fornitori sono adatti alla esigenze dell’azienda. Questa valutazione si compone di due diverse analisi:

1. da un lato si realizza una valutazione strategica, all’interno del processo di strategic purchasing, che considera diversi parametri orientati al lungo termine;

2. dall’altro lato si realizza una valutazione operativa, all’interno del processo di supply, che rileva periodicamente le prestazioni di consegna ed è una base per la valutazione strategica.

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Ovviamente la valutazione di un fornitore con cui si lavora da tempo è più semplice rispetto a quella di un potenziale nuovo fornitore: nel secondo caso, infatti, le informazioni disponibili sono più limitate e non sono basate sull’esperienza diretta. Se si vuole aggiornare il proprio parco fornitori, tuttavia, bisogna valutare nuove aziende.

Per la ricerca di nuovi fornitori si possono usare diverse tecniche di raccolta delle informazioni. Innanzitutto si possono effettuare visite presso i siti produttivi del fornitore, per interloquire con i tecnici e osservare direttamente le attrezzature, l’organizzazione del lavoro e i modi di lavorare. In alternativa si possono raccogliere referenze presso imprese già clienti del fornitore o richiedere forniture campione per valutare la capacità di realizzare quanto richiesto.

Sebbene sia ogni azienda a scegliere indipendentemente dalle altre quali sono i parametri di valutazione dei fornitori, generalmente è possibile identificare tre livelli principali di analisi:

valutazione operativa La valutazione operativa considera le prestazioni di consegna del fornitore, in termini di conformità e prezzo dell’oggetto ma anche di modalità di evasione dell’ordine (tempo di consegna, puntualità, completezza, …). Queste prestazioni sono le semplici da individuare.

valutazione complessiva La valutazione complessiva delle prestazioni consiste in un allargamento della prospettiva. In questo caso infatti l’azienda deve valutare non solo l’oggetto della fornitura, ma anche i suoi effetti sul cliente: si parla ad esempio di total cost of ownership (che indica i costi globali indotti da una fornitura). La valutazione preventiva dei costi futuri (che a volte possono essere anche molto superiori al costo iniziale di acquisto) permette di confrontare in modo più corretto fornitori alternativi: si deve quindi effettuare un’analisi nel medio-lungo termine, che prende in considerazione anche la capacità del fornitore di mantenere o meglio migliorare le proprie prestazioni nel tempo.

valutazione strategica La valutazione strategica, infine, consiste in un ulteriore ampliamento della prospettiva di analisi. Essa infatti include considerazioni sulla solidità delle relazione di fornitura nel lungo periodo e sul modo in cui potrà contribuire all’ottenimento di vantaggi competitivi. Questa analisi in particolare considera la potenzialità tecnologica del fornitore (in termini di capacità di introdurre innovazioni), la solidità finanziaria del fornitore (in termini sia di risorse che di sostenibilità) e la capacità organizzativo-manageriali del fornitore (gestione della complessità, adattamento a cambiamenti nel contesto e comprensione delle strategie della concorrenza).

I sistemi di vendor rating non devono essere semplicemente una metodo che consente di “dare un voto” ai fornitori. Essi devono essere uno strumento di check-out della relazione, in grado di evidenziarne le criticità e di rendere evidenti le cause dei problemi. Un modello molto efficace per lo sviluppo del vendor rating è quello proposto da Olsen ed Ellram (1997), che identificano due dimensioni fondamentali:

l’attrattività del fornitore, che riassume i tre parametri precedentemente illustrati (la valutazione operativa, la valutazione complessiva delle prestazioni e la valutazione strategica);

la forza della relazione, che sintetizza lo stato corrente della relazione di fornitura in termini di livello di cooperazione, frequenza e intensità di contatto, distanza (geografica culturale, tecnologica, …).

Talvolta le imprese non costruiscono relazioni forti con i fornitori che pure sono molto attrattivi: in questo caso si deve cercare di rilanciare la relazione, individuando i punti di miglioramento. In altri casi, invece, le relazioni forti sono quelle con fornitori poco attrattivi: questo avviene principalmente per il consolidamento dei rapporti di lunga data con fornitori magari locali che col tempo hanno perduto capacità innovativa.

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14. LA GESTIONE DELLA PARTNERSHIP

La gestione delle relazioni di partnership con i fornitori richiede il coinvolgimento di numerose funzioni aziendali, caratteristica che distingue il mercato collaborativo da quello competitivo (in cui invece sono coinvolte prettamente le funzioni commerciali). Infatti:

in un mercato competitivo vi è un contatto tra le aziende essenzialmente limitato all’interazione diretta tra compratore (buyer) e venditore (seller). In questo caso, la funzione acquisti deve cercare di massimizzare i benefici che la concorrenza può portare all’azienda.

in una partnership, invece, l’interfaccia della relazione è molto più estesa e coinvolge moltissime funzioni, dagli acquisti alla progettazione passando per marketing, produzione, logistica, vendita (per il cliente) e acquisti (per il fornitore). In questo caso, una gestione esclusivamente negoziale e conflittuale del fornitore è controproducente.

14.1 I meccanismi di protezione I meccanismi di protezione sono degli strumenti a disposizione di un’azienda (cliente o fornitore) per tutelarsi da rischi eccessivi. I principali sono i seguenti:

contratti quadro I contratti quadro sono dei contratti di medio-lungo termine che sanciscono una relazione di fornitura duratura. Questi contratti:

- danno al fornitore la possibilità di recuperare gli investimenti effettuati; - tutelano il cliente, in quanto garantiscono la possibilità di sfruttare la capacità

produttiva del fornitore necessaria a far fronte alla domanda. monitoraggio delle prestazioni

Se controlla in modo costante e tempestivo tutte le prestazioni rilevanti il cliente può accorgersi per tempo dei problemi evitando quindi disagi nel medio termine. Se si applica questa tecnica, deve essere chiaro a entrambe le parti quali prestazioni vengono rilevate.

investimenti relazionali La scelta di una delle due parti di attuare degli investimenti relazionali specifici (privi cioè di valore al di fuori di essa) comporta un rischio, ma fornisce alla controparte una prova “tangibile” della serietà e del coinvolgimento nella relazione.

condivisione di conoscenza Allo stesso modo, lo scambio di competenze e know-how costituisce una particolare forma di investimento dedicato (condividere informazioni sensibili potrebbe essere rischioso in caso di comportamenti opportunistici).

trasparenza e riconoscimento dei costi La trasparenza sui costi è senza ombra di dubbio una delle leve più critiche ma anche più efficaci. Se il fornitore si espone rivelando la propria struttura di costo, infatti:

- da un lato il cliente è tutelato rispetto alla richiesta di prezzi troppo elevati; - dall’altro lato il fornitore può ottenere il riconoscimento dei propri costi, compresi

quelli dovuti ad investimenti dedicati. reputazione

Infine, la reputazione del fornitore può giocare un ruolo rilevante nel medio-lungo termine: se un partner si comporta in modo opportunistico può ottenere vantaggi nel breve termine, ma è altrettanto vero che potrebbe incontrare difficoltà in futuro.

14.2 Le tipologie di partnership Si possono distinguere due diverse tipologie di collaborazione tra clienti e fornitori:

si definisce collaborazione tecnologica una partnership tra due aziende che hanno instaurato un rapporto di stretta interazione riguardante attività di sviluppo che richiedono il contributo delle conoscenze tecnologiche di entrambi gli attori;

si definisce collaborazione operativa una partnership in cui le due aziende hanno instaurato una congiunta attività operativa legata al ciclo logistico produttivo.

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14.2.1 La collaborazione tecnologica La collaborazione tecnologica, spesso detta codesing o progettazione congiunta, che consiste nella collaborazione tra cliente e fornitore nelle attività di progettazione dei nuovi prodotti. Il codesign occupa una posizione intermedia fra altre due forme di sviluppo dell’innovazione:

l’acquisto a catalogo, in cui il fornitore ha già progettato in precedenza un prodotto o servizio che il cliente acquista attingendo da un catalogo standard (al quale potrebbero attingere anche altri clienti);

la subfornitura, ossia la decisione dell’azienda di delegare ad un certo fornitore un bene (progettato interamente dal cliente).

Evidentemente il codesign si distingue quindi da entrambe queste forme, perché prevede la partecipazione di entrambe le parti al processo di progettazione del prodotto. Gli obiettivi che vengono perseguiti con il codesign sono diversi e vanno dalla riduzione dei tempi e costi di sviluppo e al miglioramento della qualità e dell’innovatività dei prodotti. Ciò è possibile in quanto questa tipologia di partnership consente di sfruttare le risorse e le competenze progettuali di due o più aziende invece di una sola. Per realizzare il codesign in modo proficuo è necessario che vengano soddisfatti dei prerequisiti:

prima di tutto, cliente e fornitore devono possedere adeguate competenze progettuali; in secondo luogo, le parti devono essere in grado di interagire tra loro; inoltre, per massimizzare i vantaggi le competenze e il know-how delle aziende dovrebbero

essere complementari; infine, è fondamentale che tra le parti vi sia un livello sufficiente di fiducia reciproca.

14.2.1.1 Le tipologie di codesign È possibile fare una distinzione tra quattro diverse tipologie di codesign. Questa classificazione può essere ottenuta considerando due diverse variabili, ossia:

in primo luogo, una caratteristica che deve essere considerata è il know-how scambiato fra cliente e fornitore. In particolare, questa caratteristica consente di fare una distinzione tra:

- codesign di tipo function nel caso in cui cliente e fornitore collaborano per progettare ex novo un componente. In questo caso, l’innovatività del componente è fondamentale in quanto fattore di differenziazione del prodotto finito stesso rispetto ai competitori. La progettazione di un nuovo componente comporta anche la sua ingegnerizzazione, cioè la progettazione del processo produttivo atto a realizzarlo.

- codesign di tipo process nel caso in cui l’oggetto della progettazione congiunta è il solo processo produttivo (da migliorare per ridurre i costi dei realizzazione del prodotto finale). Questa partnership, che non consente di ottenere di vantaggi di differenziazione, permette di migliorare la qualità delle tecnologie e di conseguenza di perseguire vantaggi in termini di costi e semplificazione dei processi produttivi.

in secondo luogo, una caratteristica che deve essere considerata è l’organizzazione del processo decisionale. Questa variabile consente di fare una distinzione tra:

- processo decisionale separato (delivery) nel caso in cui vi è una netta separazione dei ruoli. In questo caso il cliente definisce gli obbiettivi della collaborazione, il fornitore specifica eventuali vincoli e propone le alternative progettuali e infine il cliente valuta le alternative.

- processo decisionale condiviso (joint development) nel caso in cui tutte le fasi del processo decisionale sono svolte congiuntamente. In questo caso, l’attività di sviluppo è effettivamente svolta da entrambi i partner contemporaneamente tramite frequenti contatti e gruppi di lavoro misti. Questo tipo di rapporto, più oneroso in termini di tempi e costi, permette di ottenere migliori risultati.

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Function delivery

Fornitore world class e leader tecnologico

(portalampada)

Joint function

developmentCliente e fornitore leader e innovatori

Innovazioni radicali

(cerniera)

Process delivery

Fornitore affidabile

Innovazione incrementale

(imballaggio)

Joint process development

Fornitore da far crescere

Innovazioni radicali

(sportello)

Incrociando le due dimensioni di classificazione si ottengono queste combinazioni:

function delivery In questo caso viene progettato un componente nuovo utilizzando un processo decisionale separato. Questo tipo di partnership viene generalmente utilizzato quando esiste un fornitore con competenze avanzate (in grado di progettare il componente richiesto in modo autonomo), che si coordina con il cliente a intervalli prestabiliti. Si tratta di un codesign in quanto il fornitore progetta un componente specifico per il cliente sulla base di precisi requisiti: non si tratta quindi né di acquisto a catalogo, né di subfornitura.

process delivery In questo caso il componente vero e proprio è stato progettato autonomamente dal cliente mentre il processo produttivo è stato sviluppato con il fornitore. Il processo decisionale è separato, in quanto il fornitore lavora con ampia autonomia. Generalmente questa relazione viene utilizzata quando si affidano delle innovazioni incrementali a dei fornitori con provata competenza e affidabilità, ai quali è quindi possibile delegare intere fasi del processo.

joint process development In questo caso viene sviluppato un nuovo processo produttivo con un processo decisionale condiviso fra cliente e fornitore. In questa situazione cliente e fornitore interagiscono strettamente in tutte le fasi della partnership. Questa relazione è molto adatta all’introduzione di innovazioni radicali nel processo produttivo: anche se cliente e fornitore hanno forti competenze nei rispettivi ambiti, l’importanza e la novità del progetto richiedono una stratta interazione.

Questa tipologia di rapporto può essere sfruttata anche per aiutare fornitori nuovi o inesperti, in modo da far loro sviluppare le competenze necessarie a svolgere quanto loro richiesto.

joint function development In questo caso viene sviluppato un componente innovativo tramite un processo decisionale condiviso. Sebbene sia la più onerosa, questa forma di codesign permette di raggiungere i migliori risultati in termini di differenziazione e innovazione.

Separato Condiviso

Processo decisionale

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14.2.2 La collaborazione operativa La collaborazione operativa consiste nel coordinamento tra il cliente e il fornitore in ambiti quali:

le attività di previsione della domanda; la determinazione dei fabbisogni; l’emissione dell’ordine; le operazioni di produzione, spedizione, consegna, ricezione e controllo qualità.

L’adozione di qualsiasi forma di coordinamento è di per se già un passaggio da un rapporto conflittuale, cioè di mercato puro, ad uno con caratteristiche collaborative. Il coordinamento può essere, in molti casi, la migliore alternativa a disposizione dell’azienda proprio in virtù dei benefici che garantisce (che vanno da vantaggi di efficienza a quelli di velocità, affidabilità, qualità e flessibilità). Affinché cliente e fornitore siano realmente interessati e in grado di instaurare una collaborazione operativa, devono essere soddisfatti alcuni requisiti:

in primo luogo, è necessario che il rapporto considerato sia prolungato nel tempo; in secondo caso, essendo una relazione caratterizzata da un costo di realizzazione come per

le partnership tecnologiche, il ricorso a questa modalità di collaborazione deve essere giustificato (nella matrice di Kraljic, si tratta dei colli di bottiglia e degli acquisti strategici);

in generale, si può dire che tali rapporti siano preferibili ogni volta che i ritorni potenziali sono elevati.

14.2.2.1 I livelli di collaborazione operativa Si possono distinguere diversi livelli di collaborazione operativa:

visibilità Un primo livello di collaborazione operativa è la visibilità, ossia la comunicazione dei piani di produzione. Cliente e fornitore possono scambiarsi informazioni riguardo:

- le previsioni di domanda; - le attività promozionali; - gli ordini ricevuti; - lo stato delle consegne; - le giacenze di materiali, componenti e prodotti.

In questo caso, si decide di fornire al partner ogni informazione utile per pianificare le attività in modo efficiente ed efficace: ciò garantisce da un lato la soddisfazione della domanda e dall’altro l’ottimizzazione delle attività operative.

integrazione Un livello ulteriore di collaborazione operativa è la cosiddetta integrazione: in questo caso, cliente e fornitore decidono di integrare i propri sistemi logistico produttivi (si tratta di un accoppiamento fisico, con costi e impatti sul modo di operare generalmente medio-alti). Un’integrazione operativa richiede anche la creazione di capacità produttiva dedicata al cliente.

Altre possibili forme sono la delega al fornitore della gestione delle scorte di componenti, la pianificazione congiunta della produzione e dei ri-approvvigionamenti.