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rassegna dell’ordine degli avvocati di torino la P azienza Pubblicazione trimestrale - Spediz. in abb. postale 70% - Filiale di Torino- Anno XXV n. 3 - 3° trimestre - 10138 Torino, Corso Vittorio Emanuele II 130 - Contiene I.P. SETTEMBRE 2008 100

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DIRETTORE RESPONSABILE

Mauro RONCO

COMITATO DI REDAZIONE

Luigi CHIAPPERO

Anna CHIUSANO

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Paolo DAVICO BONINO

Vincenzo ENRICHENS

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Carlo PAVESIO

Fabio Alberto REGOLI

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Romana VIGLIANI

Registrato al n. 2759 del Tribunale

di Torino in data 9 giugno 1983

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la Pazienzarassegna dell’ordine degli avvocati di torino

6 Editoriale di Mauro Ronco

8 Diritti umani e diritto internazionale di Edoardo Greppi

12 Il sistema europeo di tutela dei diritti umani di Ivana Roagna

17 I tempi della giustizia penale italiana secondo la corteeuropea dei diritti umani di Paolo Davico Bonino

In tema di diritti umani19 I diritti delle donne e delle bambine non sono… i diritti dell’uomo:

le mutilazioni genitali femminili di Silvana Fantini25 Diritto di asilo: l’ospite inatteso di Maurizio Veglio27 Vittime di reato e diritto al risarcimento del danno

di Marco Bona, Stefano Commodo e Vincenzo Enrichens 31 Brevi riflessioni in tema di rapporti tra diritti umani e proprietà industriale

di Fabio Alberto Regoli e Filippo Vallosio34 Della violazione dei diritti umani: la tortura di Davide Mosso

Associazioni a tutela dei diritti umani37 Introduzione di Anna Chiusano38 Intervista al Presidente Nazionale di ASF WORLD Avv. Paolo Iorio

di Anna Chiusano40 Intervista al Presidente Nazionale di AMNESTY INTERNATIONAL

dott. Paolo Pobbiati di Anna Chiusano

42 Diritti umani e difesa: un’esperienza in Bosnia di Lorenzo Trucco

Difensori dei diritti umani45 Juan Méndez48 Fauziya Kassindja 51 Harry Wu

Recensione del libro: Non c’è futuro senza perdono54 di Davide Mosso

Recensione del libro: Senza alcuna diplomazia56 di Stefano Commodo

Diritti umani e linguaggio58 Il linguaggio del potere e l’autorevolezza delle parole di Romana Vigliani60 Una riflessione sui “diritti della donna” di Mauro Ronco

La guerra di Bruno62 tratto da La Repubblica del 03/09/2008

63 Lettere alla Redazione di Piero Fioretta

66 Programma del Convegno: “Gli avvocatie la tutela dei diritti umani

Le fotografie e alcunidegli articoli di questonumero sono tratti da:Voci Contro il Potere.

Difensori dei DirittiUmani che stanno

cambiando il mondo diKerry Kennedy, fotografie

di Eddie Adams, a cura di Nan Richardson.

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© 2000 Eddie Adams

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1. IntroduzioneRicorre quest’anno il sessantesimo

anniversario della Dichiarazione uni-versale dei diritti dell’uomo, fattadall’Assemblea Generale delle NazioniUnite il 10 dicembre 1948. Il Consigliodell’Ordine e la Fondazione Croce,insieme con il Dipartimento di ScienzeGiuridiche della Facoltà di Giuri-sprudenza e la Società Italiana perl’Organizzazione internazionale, havoluto ricordare questo evento alloscopo di verificare in che modo i dirittiumani siano diventati oggetto dellaconcreta iniziativa giudiziaria per operadella classe forense. Da quest’esigenzaè sorta l’idea di organizzare unConvegno culturale – intitolato, appun-to: “Gli Avvocati e la tutela dei dirittiumani” – in data 11 dicembre 2008, cuisono stati invitati eminenti giuristi,affinché offrano il contributo preziosodella scienza ed esperienza maturatanelle sedi giudiziarie ove si combattequotidianamente la battaglia per la pro-tezione dei diritti umani.

Anche la Pazienza intende contri-buire al ricordo della Dichiarazione del1948. Perciò dedica questo numero altema dei diritti umani, riguardato pre-valentemente, come si conviene agliavvocati, sotto il profilo pratico. Nellasperanza che queste iniziative solleciti-no tutti i colleghi all’approfondimentodella materia, anche in vista della diffu-sione di un’opera concreta di tutela deidiritti nelle varie sedi giurisdizionali,desidero svolgere, in guisa di introdu-zione, alcune brevi note su questo tema,che costituisce una sfida decisiva perl’umanità intera, se essa vorrà incam-

minarsi lungo percorsi che, pur traimmancabili difficoltà e arretramentidolorosi, favoriscano operosamente lapace tra le nazioni.

Mi limiterò a due sintetiche conside-razioni. Con la prima intendo ricordareche i diritti umani postulano un fonda-mento oggettivo che, in quanto raziona-le e universale, deve guadagnare il con-senso più vasto possibile tra tutti ipopoli della terra. Con la seconda desi-dero sottolineare che i diritti umani nondebbono, come troppo spesso accade,oscurare i correlativi doveri umani.

2. La visione dignitaria dei diritti umani

È a tutti noto che la Dichiarazione del1948 nacque nel clima contrassegnatodalla reazione morale dei popoli control’abominio del totalitarismo nazista edel militarismo delle potenze dell’Asse,nonché contro gli orrori degli sterminidi massa, che per lunghi anni devastaro-no il mondo intero, primo fra tutti losterminio del popolo ebraico. Quando leNazioni Unite decisero, nel 1947, diredigere una Dichiarazione dei dirittiche potesse definirsi universale l’atten-zione si diresse, perciò, a un modelloche avesse a suo fondamento la dignitàincomprimibile di ogni essere umano,per il fatto solo della sua esistenza bio-logica, mettendo in disparte tanto ilmodello individualistico, caratteristicodelle democrazie liberali, quanto - eancor più - il modello collettivistico, dicui l’Unione Sovietica si faceva in queltempo banditore minaccioso nel mondo.

Su questa piattaforma, che potrem-

mo definire “basata sul principio didignità”, piattaforma filosoficamenteindeterminata, che però aveva guada-gnato l’appoggio del senso comune deipopoli stremati dalle guerre, si formòun consenso amplissimo, comprenden-te paesi con culture molto diversificate.Fra i 58 Stati membri delle NazioniUnite nel 1947 c’erano, oltre a quellioccidentali e dell’oriente europeo, non-ché a 21 paesi dell’Ibero-America, seipaesi asiatici (Cina, India, Pakistan,Birmania, Filippine e Siam) e novenazioni ove la cultura islamica era asso-lutamente predominante (Afghanistan,Egitto, Iraq, Iran, Pakistan, ArabiaSaudita, Siria, Turchia e Yemen).Inoltre tre paesi avevano una popola-zione di religione in gran parte buddista(Birmania, Cina e Siam). LaDichiarazione venne approvata senzaalcun voto contrario, ma con otto asten-sioni: i sei membri del blocco sovietico,il Sud Africa e l’Arabia Saudita.

La Dichiarazione, pur risentendo dialcuni compromessi tra le varie cultu-re, è caratterizzata dal privilegioaccordato a una struttura normativastatale che rispetti la dignità della per-sona umana, struttura genericamentedefinibile come “democratica”; dal-l’intreccio tra le proclamazioni dilibertà civili e politiche di “primagenerazione” e il riconoscimento didiritti sociali ed economici di “secon-da generazione”; dalla limitazione deidiritti attraverso la previsione di corri-spondenti doveri; dall’attenzione pre-stata ai problemi del nutrimento, del-l’alimentazione, della salute e dell’e-ducazione. Così, se pure è vero che -come ha ricordato Jacques Maritain

la Pazienza

Editoriale

NEL SESSANTESIMO ANNIVERSARIO DELLADICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL’UOMO

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nell’introduzione all’inchiesta svoltadall’Unesco nel 1947 - l’accordo futrovato nella formulazione della listadei Diritti, ma, “a condizione che nonci si domandi il perché”, e, quindi,senza alcun accordo sul fondamentodei diritti medesimi, tuttavia è anchevero che la Dichiarazione Universaleha esercitato una notevole influenzapositiva sullo sviluppo giuridico dellenazioni nei decenni successivi, tantoche molte nuove nazioni hanno adotta-to leggi sui diritti dei cittadini che sirifanno al modello approvato dalleNazioni Unite.

Questa visione dignitaria dei dirittiumani è oggi posta in crisi dal prolifera-re di aspirazioni, desideri e bisognieccessivamente libertari, che non ten-gono alcun conto del fatto che in tantopuò parlarsi di diritti universali in quan-to essi corrispondano a princìpi univer-sali della ragione umana. Proclamarel’universalità dei diritti non significapretendere l’omogeneità assoluta degliapprocci per attuarli concretamentenella vita dei singoli paesi, perchénazioni e culture diverse attribuisconovalenze non univoche a queste norme,ma significa rinnovare l’impegno ditutti i paesi per rintracciare, al fondodelle molteplici esperienze storiche eculturali, un fondamento oggettivo eimprescrittibile, basato sull’universa-lità della ragione umana. Quanto più,invece, si diffonde il relativismo cultu-rale, tanto più si pretende l’adeguamen-to uniforme di tutti i paesi a determina-te pratiche ritenute corrispondenti aun’idea limitata e, in fondo, deformatadel progresso sociale. Si pensi, come èavvenuto in passato, al condizionamen-to degli aiuti ai paesi poveri all’adozio-ne di misure limitative delle nascite,addirittura con la promozione dell’a-borto!

A fronte di questa deriva libertariadei diritti umani, occorre riportare l’ac-cento su quei diritti che sicuramentegodono di un riconoscimento – già oggie in tutte le culture – di tipo universale,come è per il diritto all’alimentazione,all’istruzione, all’educazione, al lavo-ro, all’assistenza sanitaria, alla curadelle persone anziane, malate o gravateda handicap fisici e mentali.

Lungo questa linea di vera ricercadell’universalità sarà possibile, conimpegno tutt’altro che semplice, trova-re, anche tra culture e tradizioni diver-se, un accordo razionale foriero di svi-

luppi positivi per tutte le nazioni, acominciare da quelle più povere.

3. La visione dei diritticome strettamente intrec-ciati ai doveri dell’uomo

Molto opportunamente la Costi-tuzione italiana ricollega all’art. 2 idiritti inviolabili dell’uomo all’adem-pimento dei doveri inderogabili di soli-darietà politica, economica e sociale.Invero, senza il contrappeso dei doveri,i diritti tendono a diventare tirannici.Antonino Spadaro, docente di dirittocostituzionale nell’Università Mediter-ranea di Reggio Calabria, ha sottoli-neato che, affinché i diritti fondamen-tali possano dirsi effettivi, sono neces-sarie almeno due cose: “a) che essiappaiano ragionevoli nel complessoquadro degli ordinamenti costituziona-li contemporanei, sempre più multiet-nici e multiculturali (e che dunque essirisultino compatibili con universi divalori fra loro molto diversi); b) chesiano individuati in concreto i soggettistorici chiamati a ottemperare ai dove-ri cui corrispondono, di volta in volta, iricordati diritti (pena la riduzione diquesti ultimi a mere enunciazionideclamatorie)”. (Spadaro, Dall’indi-sponibilità (tirannia) alla ragionevo-lezza (bilanciamento) dei diritti fonda-mentali).

Se si tiene conto di due fatti essen-ziali, che i diritti non possono accredi-tarsi esclusivamente alle generazionioggi viventi, ma anche a quelle future, eche essi non possono valere – pena unapatente ingiustizia – soltanto per questoo quel paese, ma, tendenzialmentealmeno, per tutta l’umanità, allora sicomprende quanto sia sbilanciato esostanzialmente irragionevole l’ap-proccio abituale alla teoria dei dirittipraticato in gran parte dei paesi econo-micamente più sviluppati. Tale approc-cio mette in evidenza un mercato in cuitrafficano soggetti insaziabili, che nonsi preoccupano né della compatibilitàdelle loro pretese con la sopravvivenzadelle generazioni future, né della com-patibilità delle stesse pretese con i dirit-ti degli altri popoli.

Soltanto una politica degli Stati ispi-rata al principio della corrispondenzabiunivoca tra diritti ragionevoli e dove-ri ragionevoli può porre le basi di ungoverno partecipato e non violento del

complesso processo di globalizzazione.Il tema dei diritti umani, pertanto,

lungi dal porsi come fattore di pericolo-se distorsioni di matrice individualisti-ca, deve rinviare, ben più seriamente,alla responsabilità della politica per uneffettivo sforzo di giustizia distributivanel rispetto e nella promozione delladignità di ogni essere umano.

4. Conclusione L’occasione del sessantesimo anni-

versario della Dichiarazione del 1948costringe così a una riflessione profon-da – anche, se del caso, intransigente-mente critica – dei percorsi intrapresidall’umanità. Dopo il tramonto delleideologie, di cui la caduta del muro diBerlino nel 1989 è stata segno inequi-voco, si è aperto un periodo che taluno,negli spericolati Anni ‘90, caratterizza-ti dall’espansione economica e tecno-logica apparentemente illimitata,aveva troppo affrettatamente definitocome politicamente “vuoto”. Questovuoto si è ben presto riempito. L’11 set-tembre 2001 ha rappresentato un bru-sco richiamo alla realtà. La crisi finan-ziaria di questo anno 2008 rappresentaaltresì un monito severo nei confrontidegli ottimismi imprudenti a riguardodelle capacità autoregolative del mer-cato.

Nel patrimonio dell’umanità, comelegato non piccolo, stanno leDichiarazioni dei diritti umani, tra cuiassume un rilievo particolarmenteimportante quella del 1948. A questopatrimonio occorre guardare conserietà, rendendosi conto, tuttavia, che idiritti umani non si esauriscono affattonegli atti formali che li dichiarano, maacquisiscono un significato realmentepositivo se affondano le loro radicinelle esigenze profonde della naturaumana, nella misura, cioè, in cui corri-spondono a ciò che è bene per l’uomo ela donna di ogni tempo, consideraticome enti razionali, liberi e responsabi-li, come valore in sé e come valore perle relazioni di bene che sono capaci diintessere con il prossimo. Affinché ciòaccada occorre una incessante educa-zione all’uso della ragione e al ragione-vole esercizio della libertà. Questa è larisposta migliore, io credo, alle dram-matiche sfide dell’ora presente.

Mauro Ronco

la Pazienza Editoriale 7

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1. Le norme internazionalia sessant’anni dallaDichiarazione Universale

Il 10 dicembre 2008 ricorre il ses-santesimo anniversario dell’adozionedella Dichiarazione Universale deiDiritti Umani da parte dell’Assembleagenerale delle Nazioni Unite, riunita aParigi in un 1948 gravido di crisi inter-nazionali e di minacce alla pace.

Questa ricorrenza offre l’occasioneper qualche riflessione sui fondamentinormativi e sull’evoluzione della prote-zione internazionale dei diritti dellapersona umana.

In prima battuta, è opportuno ricor-dare che la dimensione dei diritti umaniin età moderna e contemporanea puòessere fatta risalire ai primi grandi testielaborati in Inghilterra, negli Stati Unitie in Francia, dal Bill of Rights del 1689alle Dichiarazioni del 1776, del 1787 edel 1789, che hanno esercitato unagrande influenza su alcune costituzioniin Europa e in Nord America. La perso-na, tuttavia, restava al di fuori dellasfera normativa del diritto internazio-nale. O, meglio, essa era confinata negliangusti limiti della cosiddetta “dome-

stic jurisdiction”, cioè dell’esclusivoesercizio dei poteri pubblici dello Stato.La persona era considerata oggetto deldiritto o, al più, “soggetto passivo”. Ildiritto internazionale regolava tradizio-nalmente i rapporti tra Stati sovrani. Gliindividui erano posti nella sfera norma-tiva di questi, senza che l’ordinamentointernazionale ne potesse penetrare lasfera di “dominio riservato”.

Le atrocità e gli orrori della secondaguerra mondiale hanno indotto gli Statia porre la questione dei diritti umani tragli scopi della nuova organizzazionemondiale, denominata “NazioniUnite”, ma inizialmente in una formaessenzialmente ancillare rispetto allaprimaria preoccupazione della garanziadi pace e sicurezza. Il meccanismo isti-tuzionale di sicurezza collettiva eraaffidato ad un Consiglio di sicurezzadotato della facoltà di adottare decisio-ni. I diritti umani, invece, erano fattirientrare nella competenza dell’organopolitico plenario, l’Assemblea genera-le, investito soltanto del potere di adot-tare raccomandazioni, cioè atti non vin-colanti.

La pressione di una parte importantedella comunità internazionale – essen-zialmente l’Occidente – ha tuttaviafatto sì che il 10 dicembre 1948 venisseproclamata una raccomandazionesolenne, presentata nella forma di“dichiarazione di principi”. Per laquale, anziché l’aggettivo “internazio-nale” fu scelto quello “universale”, perconferire al testo un’enfasi ulteriore.

Il padre giuridico della Dichia-razione Universale fu il grande giuristafrancese René Cassin, poi premioNobel per la pace; madrina politica fu lasignora Eleonora Roosevelt, vedovadel presidente degli Stati Uniti. I 30articoli di quella che fu poi detta la“Magna Charta” dell’umanità hannocostituito la prima “incursione” deldiritto internazionale nella sfera del“dominio riservato” degli Stati, laprima affermazione forte del principioche la potestà degli Stati sugli individuinon possa essere considerata senzalimiti. Questi limiti possono e debbonoessere posti dalla comunità internazio-

nale attraverso l’adozione di norme ditrattato e la graduale formazione dinorme consuetudinarie.

In altre parole, nel compiere questoprimo grande passo, la comunità inter-nazionale (nella sua massima espressio-ne istituzionale: le Nazioni Unite) eraconsapevole della intrinseca debolezzadello strumento della “Dichiarazione diprincipi”, ancorché dotata del rilievo edella solennità di una “DichiarazioneUniversale”. Furono, quindi, avviatinegoziati diplomatici finalizzati a farescaturire da quel primo germoglio untesto normativo dotato di efficacia vin-colante per gli Stati che l’avrebbero fir-mato e ratificato.

Quasi un ventennio fu necessarioperché si potesse arrivare alla firma – il16 dicembre 1966 a New York – di duePatti delle Nazioni Unite, l’uno dedica-to ai diritti civili e politici e l’altro aquelli economici, sociali e culturali.Sono due grandi convenzioni multilate-rali, che vincolano ormai circa 160 Statidel mondo. Molte norme in esse conte-nute sono oggi considerate regole gene-rali, di natura consuetudinaria.

Una notevole quantità di ulterioritrattati si è venuta ad aggiungere neidecenni, al fine di allargare e approfon-dire la prospettiva normativa ad ambitidiversi: divieto di discriminazione con-tro le donne, diritti dei bambini, divietodi discriminazione razziale, divieto ditortura e di trattamenti crudeli, disuma-ni e degradanti, ecc.

Se i negoziati che hanno condottoalla firma dei Patti delle Nazioni Unitesono stati lunghi e defatiganti, assai piùagevole si è rivelato il percorso versol’adozione di un testo normativo in uncontesto culturale, politico e giuridicopiù omogeneo: l’Europa. Il 4 novembre1950, infatti, ad iniziativa del Consigliod’Europa, veniva adottata a Roma laConvenzione europea per la salvaguar-dia dei diritti dell’uomo e delle libertàfondamentali (più frequentementericordata come “Convenzione europeadei diritti dell’uomo”, con l’acronimoCEDU).

La CEDU ha istituito un meccani-smo giurisdizionale efficace, incentrato

la Pazienza

Diritti umani e diritto internazionale

Fotografia tratta da: Voci Contro il Potere.Difensori dei Diritti Umani che stanno cambian-do il mondo di Kerry Kennedy, fotografie diEddie Adams, a cura di Nan Richardson.Umbrage Editions, distribuito da Logos.© 2000 Eddie Adams

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su una Corte europea dei diritti dell’uo-mo, che pronuncia sentenze vincolantigli Stati e che accoglie i ricorsi degliindividui. La Convenzione è divisa indue parti. La prima contiene un catalo-go di diritti che gli Stati si impegnano arispettare (e che appartengono allagrande tradizione del giusnaturalismoeuropeo, incarnato nelle principalicostituzioni del vecchio Continente egià confluito nella DichiarazioneUniversale); la seconda predispone ilmeccanismo di tutela giudiziaria effetti-va, imperniata sull’azione di una Corteimparziale e precostituita, che costitui-sce una vera pietra miliare sulla stradadella tutela effettiva dei diritti umani.

2. Il problema dell’effettivaattuazione delle normeinternazionali

Numerosi sono, dunque, i principalifondamenti normativi. Essi consento-no, a sessant’anni dalla Dichiarazionedel 1948, di fare qualche riflessione inmerito alla loro “mise en oeuvre”.

In primo luogo, è innegabile chedalla Dichiarazione siano scaturitieffetti di rilievo. Il più evidente è che latutela dei diritti umani è stata “interna-zionalizzata”. Oggi gli Stati non posso-no sottrarsi a valutazioni del loro gradodi effettivo rispetto dei diritti enunciatinegli strumenti citati.

Salvo il caso della CEDU, che com-porta l’accettazione di un vero e propriosistema giurisdizionale, si tratta tuttaviaancora di valutazioni essenzialmente diordine politico. Ma queste sono la con-seguenza della avvenuta internaziona-lizzazione, e permettono di constatareche anche la sola pressione politica puòrivelarsi suscettibile di conseguenzeimportanti. Inoltre, per quell’inscindibi-le collegamento che la Carta dell’ONUopera tra mantenimento della pace edella sicurezza internazionali e tuteladei diritti umani, la prassi del Consigliodi sicurezza ha costantemente confer-mato che questo organo politico affermala propria competenza a decidere misu-re (sia non implicanti che implicantil’uso della forza, ex articoli 41 e 42) afronte di massicce violazioni di dirittidella persona umana. Insomma, lamateria dei rapporti tra lo Stato e l’indi-viduo ha cessato di essere oggetto esclu-sivo di “domestic jurisdiction”.

Dalla affermazione della rilevanza

della persona umana per l’ordinamentointernazionale discende un’ulterioreconseguenza importante. Se l’indivi-duo è oggetto di diretta attenzione nor-mativa nel tradizionale diritto interna-zionale “di pace”, ancora prima eraapparso destinatario di norme di prote-zione in quello detto “di guerra”.

Nel diritto internazionale umanitariosi sono, infatti, venute a formare e aconsolidare norme esplicite di tutela diampie categorie di soggetti che si pos-sono qualificare in senso ampio come“vittime” dei conflitti armati: i feriti, imalati, i naufraghi, i prigionieri di guer-ra e la popolazione civile. Queste cate-gorie sono ormai di una dimensionequantitativa che non ha eguali nella sto-ria dei secoli passati. Le tradizionaliguerre tra Stati dell’età moderna sonostate largamente soppiantate da unagrande quantità di conflitti armati didiversa entità ed estensione, prevalen-temente di carattere non internazionale.Un dato appare di assoluta evidenza:nella Grande Guerra (1914-1918) imorti erano stati per il novanta percento militari combattenti; nella secon-da guerra mondiale (1939-1945), laproporzione tra vittime militari e civiliè stata circa fifty-fifty; nei conflitti bal-canici della fine del secolo (1991-1999)le vittime civili sono state superiori alnovanta per cento.

Ebbene, le convenzioni di Ginevradel 12 agosto 1949 e i relativi protocol-li aggiuntivi dell’8 giugno 1977 hannospostato l’attenzione del diritto interna-zionale dei conflitti armati dalla regola-mentazione dell’esercizio della violen-za bellica alla protezione delle vittime,dando luogo ad una sorta di “codice”che è ormai costituito da oltre 600 arti-coli.

Accanto a queste norme del dirittoumanitario, si è sviluppata un’altragrande famiglia di princìpi e regole,mirante alla punizione degli autori deicrimini più efferati contro le categorieprotette: il diritto internazionale penale.

Dai tribunali militari internazionalidi Norimberga e di Tokyo ai tribunalipenali internazionali per i crimini com-messi nell’ex Jugoslavia e in Ruanda èscaturita ormai una cospicua giurispru-denza relativa alle grandi tragedie delNovecento che, per la prima volta,hanno avuto conseguenze non soltantonella sfera politica ma anche in quellagiudiziaria. Lo sviluppo della giustiziapenale internazionale ha dato luogo

all’affermazione del principio dellaresponsabilità penale individuale degliautori dei crimini. In parallelo agli svi-luppi normativi in materia di dirittiumani e loro protezione internazionale,la comunità internazionale ha realizza-to, quindi, un’importante evoluzionedel diritto internazionale penale, che hacondotto dieci anni fa all’adozionedello Statuto di Roma della Corte pena-le internazionale, competente a giudi-care e punire gli autori dei più gravi cri-mini di guerra, crimini contro l’umanitàe crimini di genocidio.

Sul piano istituzionale, infine, dallescarne previsioni della Carta dell’ONUha preso le mosse un processo di gradua-le formazione di organi deputati a pro-muovere nuove norme in materia e a sti-molarne e controllarne il rispetto. LaCommissione del diritto internazionaleha svolto una significativa opera di pre-disposizione di progetti normativi, suc-cessivamente adottati dall’Assembleagenerale dell’ONU. L’Assemblea stessaha istituito una Commissione dei dirittiumani che, recentemente, è stata sosti-tuita da un Consiglio dei diritti umani. IlPatto sui diritti civili e politici ha condot-to alla istituzione di un Comitato deidiritti umani, dotato di incisivi poteri dicontrollo politico. Due altri organi sussi-diari dell’Assemblea generale svolgonoun’essenziale opera di promozione delrispetto dei diritti della persona: l’AltoCommissario per i diritti umani e l’AltoCommissario per i rifugiati.

3. Il cuore del problema:la sovranità dello Stato ela sua responsabilità neiconfronti della persona

In una valutazione complessiva, nonpuò mancare qualche riflessione suquello che era e rimane l’elemento cru-ciale quando si affronta il delicato temadei diritti umani: il rapporto che inter-corre tra la sovranità dello Stato (e larelativa pretesa di questo al suo piùrigoroso rispetto) e i diritti fondamenta-li di cui la persona, suddito dello Statosovrano, è titolare.

Lo Stato è vincolato da norme inter-nazionali e deve rispettare e garantirequesti diritti. In molti Stati questoavviene. Ma che cosa è possibile farenelle situazioni nelle quali i diritti sonoinvece conculcati?

Nella sensibilità contemporanea è

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ritenuto inaccettabile che ci si fermidinanzi alle prerogative della sovranità,che ci si arresti dinanzi alla frontieradello Stato violatore, lasciando che leviolazioni continuino ad essere perpe-trate e restino impunite.

A partire dagli anni Novanta delsecolo scorso (soprattutto dopo le tra-gedie di Srebrenica e del Ruanda), nellacomunità internazionale si è sviluppatauna tendenza – sia sul piano politico siasu quello giuridico – ad affermare che afronte di massicce violazioni dei dirittiumani vi sarebbe un “diritto di ingeren-za” che, per alcuni, avrebbe addiritturai connotati di un “dovere di ingerenza”.Questa dottrina ha avuto scarso riscon-tro nella prassi, che ha visto ancora pre-valere una logica di tipo tradizionale,incentrata sulla centralità del principiodel rispetto della sovranità (codificatoall’art. 2, par. 1, della Carta ONU comeprincipio della “eguaglianza sovranadegli Stati”).

Una recente tendenza ha determina-to un parziale spostamento della pro-spettiva. Ad iniziativa del governocanadese, nel 2000 una Commissionedi esperti indipendenti, la InternationalCommission on Intervention and StateSovereignty, ha prodotto un Report daltitolo “The Responsibility to Protect” 1.Secondo questa Commissione, unnuovo concetto di sicurezza – la “sicu-rezza umana” – emerge ad allargare laprospettiva di quello tradizionale,ponendo serie limitazioni al principiodi sovranità. Richiede, infatti, che siagarantita alla persona umana la sicurez-za a fronte di minacce come il genoci-dio, i crimini di guerra e quelli control’umanità, la tortura, gli omicidi e stupridi massa, la pulizia etnica, che determi-nano forme inaccettabili di insicurezza.La protezione dello Stato va, dunque,rivista nel senso di andare al di là dellasua tradizionale dimensione “esterna”(in termini, cioè, di difesa dei confinidall’ingerenza esterna). Lo Stato, inaltre parole, deve garantire il rispettodella sovranità degli altri Stati, maanche tutta la sfera dei diritti individua-li al suo interno. In termini di legalitàdell’uso della forza militare, questoporta a identificare come “giusta causa”dell’intervento militare una finalità diprotezione, purché intesa come misuraestrema, eccezionale, e solo in caso digravi violazioni o minacce dei dirittiumani fondamentali. Gli Stati membripermanenti del Consiglio di Sicurezza

dovrebbero impegnarsi a non fare ricor-so al veto in questi casi, a meno che nonsiano in gioco interessi essenziali.

Nella scia di questo rapporto, si col-loca il Report dell’High Level Panel onThreats, Challenges and Change “Amore secure world: our shared respon-sibility”, che si è nuovamente posto ilduplice problema della “legality” edella “legitimacy” dell’uso della forza2.

Il Rapporto dedica ampio spazio alleminacce interne, spesso rappresentate daatrocità di massa, commesse ai dannidella popolazione di uno Stato. La sovra-nità dello Stato, la domestic jurisdiction,si scontra con la percezione che vi siauna sorta di diritto di intervento.

In particolare, il principio di nonintervento negli affari interni di unoStato non può essere riconosciuto inun’estensione tale da consentire dicoprire atti di genocidio o altre atrocità,quali violazioni su vasta scala del dirit-to umanitario, crimini contro l’umanità,pulizia etnica, ecc. Questi possonoessere considerati minacce alla pace egiustificare ampiamente l’interventodel Consiglio di Sicurezza.

I casi di Somalia, BosniaErzegovina, Ruanda, Kosovo e Darfurportano a porre l’accento non sui dirittidi uno Stato a difendere le proprie pre-rogative sovrane, ma piuttosto sullaresponsabilità che grava sugli Stati diproteggere la propria popolazione. GliStati, cioè, hanno la “primary responsi-bility to protect” i propri cittadini dauccisioni di massa, stupri, pulizia etni-ca, torture, terrore e altre catastrofiumanitarie. Quando essi non siano ingrado di farlo (siano cioè “unable orunwilling”) la responsabilità deve esse-re esercitata dalla comunità internazio-nale, con azioni di prevenzione, rispo-sta alle violenze, mediazione, missioniumanitarie e di polizia. La forza armatacostituisce l’ultima risorsa.

Questa della responsabilità colletti-va di proteggere sarebbe una “emergingnorm”, e consentirebbe di autorizzareazioni militari quando il Consiglio disicurezza sia pronto a dichiarare che lasituazione è una minaccia alla pace ealla sicurezza internazionali.

Infine, l’efficacia del sistema disicurezza collettiva dipende, in ultimaistanza, non solo dalla legalità delledecisioni ma dalla percezione della lorolegittimità, dal loro fondamento su soli-de basi di prova, nonché sulla buonaragione che le ispira, anche sul piano

morale. In altre parole, la non facilesfida è quella posta dal combinare irequisiti di legalità dell’uso della forzacon quelli di opportunità, di necessità.

Il Segretario generale delle NazioniUnite Kofi Annan, nel suo successivoReport all’Assemblea generale “InLarger Freeedom”, ha largamente fattopropri questi rilievi3.

Guardando al genocidio, alla puliziaetnica e ad altri crimini contro l’uma-nità, si tratta di minacce alla pace e allasicurezza internazionali contro le qualil’umanità dovrebbe già essere in gradodi guardare al Consiglio di sicurezzaper ottenere protezione. Secondo ilSegretario generale, il compito cheattende la comunità internazionale nonè di trovare alternative al Consiglio diSicurezza come fonte di autorità, ma èquello di porlo in condizioni di lavoraremeglio. Il Consiglio dovrebbe, in con-clusione, soppesare la serietà dellaminaccia; valutare lo scopo dell’azionemilitare proposta; verificare se vi sianoaltri mezzi idonei a fermare la minac-cia; controllarne la proporzionalità;determinare se vi sia una ragionevolepossibilità di successo.

Tutto questo dovrebbe essere ogget-to di una risoluzione del Consiglio stes-so, che dichiari questi principi ed espri-ma l’intenzione di ispirarvisi quando sitratti di decidere se autorizzare o deci-dere l’uso della forza.

L’insieme delle riflessioni e delleproposte qui sinteticamente presentateha prodotto l’adozione di alcune di que-ste nell’Outcome Document del WorldSummit delle Nazioni Unite del 20054.Questo accoglie il principio dellaresponsabilità di proteggere le popola-zioni da genocidi, crimini di guerra econtro l’umanità, pulizie etniche, accet-tando il concetto della possibilità diazioni militari collettive per l’attuazio-ne del principio.

Il Vertice mondiale, infatti, affermache “each individual State has theresponsibility to protect its populationfrom genocides, war crimes, ethniccleansing and crimes againsthumanity” e che “this responsibilityentails the prevention of such crimes,including their incitement, throughappropriate and necessary means”. Perquanto riguarda le misure collettiveefficaci, i Capi di Stato o di governohanno dichiarato di essere pronti aprendere “collective action, in a timelyand decisive manner, through the

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Security Council, in accordance withthe UN Charter, including Charter VII,on a case by case basis and in coopera-tion with relevant regional organisa-tions as appropriate, should peacefulmeans be inadequate and nationalauthorities manifestly failing to protecttheir population”.

Si tratta di un esito importante, dalmomento che oltre 170 Capi di Stato o diGoverno hanno espressamente dichiara-to di volersi ispirare al principio dellaresponsabilità di proteggere per assicu-rare che il dogma della sovranità non siapiù considerato indiscutibile.

Infine, occorre ricordare sempre chespetta in primo luogo ed essenzialmen-te agli Stati il compito di garantire agliindividui un effettivo godimento deidiritti fondamentali. I rimedi interna-zionali (sia quelli politici sia quelli giu-diziari) non possono che essere consi-derati complementari. Il passaggio piùdelicato resta quello che conduce alcontrollo dell’adattamento del dirittointerno alle norme internazionali, allascrupolosa verifica del rispetto dellenorme e alla sanzione delle violazioni.

4. A mo’ di conclusioneA sessant’anni dalla Dichiarazione

universale del 1948, sono cioè sempregli Stati a dovere dare per primi concre-ta attuazione al nobile principio sulquale poggia l’intera Dichiarazione(articolo 1): “Tutti gli esseri umaninascono liberi ed eguali in dignità ediritti”. “Tutti” vuol dire ogni essereumano; “nascono” significa che siamodi fronte a diritti innati, non a conces-sioni dello Stato sovrano. Il binomio“libertà ed eguaglianza”, poi, è inscin-dibilmente legato a quello di dignità ediritti. Ed è particolarmente significati-vo (e bello) che la dignità venga collo-cata in una posizione privilegiata,prima dei diritti. È questa l’affermazio-ne più alta, solenne e impegnativa dellaDichiarazione del 10 dicembre 1948,quella che ha sollevato allora obiezioniche sono purtroppo in parte vive ancoraoggi. Furono 48 gli Stati a votare ses-

sant’anni fa a favore del testo dellaDichiarazione, con nessuno contrarioma con sette astensioni, che sono “urladel silenzio”: l’URSS e i Paesi del bloc-co socialista, il Sud Africa e l’ArabiaSaudita. Soprattutto questi ultimi dueStati non accettavano il principio dellatitolarità dei diritti in capo a “tutti gliesseri umani”. Per il Sud Africa si trat-tava di escludere i neri; per l’Arabia diescludere le donne. Dopo sei decenni,possiamo senz’altro constatare apprez-zabili progressi nel Paese africano (gra-zie soprattutto alla pressione dellacomunità internazionale), mentre moltastrada resta ancora da percorrere perassicurare la piena affermazione deidiritti delle donne, in Arabia e altrove.

Per quanto attiene alle violazioni,soprattutto a quelle di inaccettabile gra-vità, si può constatare che vi sono trecategorie di soggetti: gli autori (spessoorgani dello Stato), le vittime e i cosid-detti “by-standers”, quelli che stanno aguardare passivamente. La storia recen-te ha visto ancora troppo numerosa que-sta categoria. La promozione di unagenuina cultura dei diritti umani poggiaprincipalmente sull’opera essenziale enecessariamente appassionata e infati-cabile di coloro i quali (tra i cittadini,nelle istituzioni, nella società civile)mostrano di essere consapevoli dellanecessità di levarsi in piedi e alzare lavoce. Questo ruolo appartiene alla piùnobile tradizione dell’Avvocatura. Nona caso, essa è nel mirino dei regimiautoritari e repressivi, e delle ideologieche li ispirano. È, quindi, particolar-mente significativo e appropriato chel’Ordine degli Avvocati di Torino e laFondazione dell’Avvocatura (che portail nome di un Avvocato che ha saputodare la vita pur di non restare tra i “by-standers” in un periodo di terrore e didisprezzo dei diritti civili e politici nellatravagliata storia della democrazia ita-liana) abbiano voluto dedicare spazio ainiziative di riflessione su questo tema.

Ai diritti della persona fa riscontro,dunque, il dovere dello Stato. Lo Statoresta l’ente che deve essenzialmentegarantire il rispetto dei diritti umani.

Questo dovere è un elemento essenzia-le della sovranità intesa come responsa-bilità. Mi piace richiamare, a ses-sant’anni dalla sua elezione alla supre-ma magistratura dello Stato (nello stes-so anno 1948), il penetrante pensiero diLuigi Einaudi che, anche in questocampo, si rivela dotato di un afflato pro-fetico e lungimirante. Dalla critica delmito della sovranità assoluta, il grandestatista piemontese ricava il diritto –anzi il dovere – di ingerenza negli affa-ri interni di uno Stato. Se lo Stato, in uncontesto di forte interdipendenza, non èpiù sovrano, necessariamente cade ladottrina del non intervento. Le dueguerre mondiali avevano mostrato l’in-tollerabilità in ogni angolo del mondodei regimi tirannici e liberticidi.

“A stento, con ripugnanza, trascinatia viva forza, gli alleati dovettero rico-noscere che il regime di ogni stato nonè un affare interno, che esso è invece unaffare il quale interessa lo straniero nonmeno che il nazionale, perché un regi-me, il quale opprime la libertà umanaall’interno, è un germe di infezione intutto il mondo. (...) Lo stato, reso impo-tente ad armarsi contro gli altri stati, achiudere le proprie frontiere contro gliuomini e i prodotti stranieri, costrettodal diritto delle genti a rispettare lalibertà e la personalità dei propri citta-dini, a cui sia nuovamente consentitafacoltà di sottrarsi con la emigrazione aipropri governi tirannici, lo stato troveràfinalmente lo stimolo e la forza diadempiere ai fini suoi propri di benes-sere, di cultura, di giustizia”5.

Si tratta di “un’evidente anticipazionedel diritto di ingerenza [ora potremmochiamarlo ‘responsabilità di proteggere’nella sua proiezione internazionale, ndr],dell’obbligo per le Nazioni Unite diintervenire per tutelare i principi dellaconvivenza pacifica, della democrazia,della tutela dei diritti dell’uomo”6.

Edoardo GreppiProfessore ordinario

di diritto internazionalenella Facoltà di Giurisprudenza

dell’Università di Torino

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Note1 ICISS, The Responsibility to Protect, Canada, December 2001.2 Il testo è in http://www.un.org/reform/highlevelpanel/index.3 Il testo è in http://www.un.org/largerfreedom.4 A/RES/60/1 del 24 ottobre 2005. Il testo è in http:// daccessdds.un.org/doc/UNDOC/GEN/N05/487/60/PDF/N0548760. pdf.5 L. EINAUDI, La teoria del non intervento, “Il risorgimento liberale”, 19 giugno 1945, ripubblicato nel volume “Il buongoverno. Saggi di economia e politi-

ca”, Bari 1955, pag. 630-633.6 U. MORELLI, Luigi Einaudi e l’Europa, in R. EINAUDI (a cura di), L’eredità di Luigi Einaudi, Roma 2008, pag. 75.

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IntroduzioneIl sistema europeo di tutela dei dirit-

ti umani, la cui punta di diamante è rap-presentata dalla Convenzione di salva-guardia dei diritti dell’uomo e dellelibertà fondamentali (CEDU)1 e dallaCorte europea dei diritti dell’uomo (diseguito Corte europea o semplicementeCorte) è un universo purtroppo ancorasconosciuto a molti2. Ciò nonostante sitratti di un meccanismo di garanziedella dignità della persona unico almondo quanto ad efficacia, a cui si sonoispirati tanto il sistema interamericanoche quello africano che, tuttavia, nonhanno saputo eguagliarne la perfezione.Benché, nell’immaginario collettivo, ilsistema europeo di tutela dei dirittiumani venga percepito come estrema-mente lontano, l’influenza che esso è ingrado di esercitare sui sistemi giuridicinazionali è notevole, se è vero che,“l’art. 117, primo comma, Cost. condi-ziona l’esercizio della potestà legislati-va dello Stato e delle Regioni al rispet-to degli obblighi internazionali, tra iquali indubbiamente rientrano quelliderivanti dalla Convenzione europeaper i diritti dell’uomo”3. Il parametrocostituzionale in esame comporta (...)l’obbligo del legislatore ordinario dirispettare dette norme, con la conse-guenza che la norma nazionale incom-patibile con la norma della CEDU edunque con gli “obblighi internaziona-li” di cui all’art. 117, primo comma,viola per ciò stesso tale parametrocostituzionale. Con l’art. 117, primocomma, si è realizzato, in definitiva, unrinvio mobile alla norma convenziona-le di volta in volta conferente, la qualedà vita e contenuto a quegli obblighiinternazionali genericamente evocati e,con essi, al parametro, tanto da esserecomunemente qualificata “norma inter-posta”4.

Benché perfettibile quanto all’indi-viduazione dei diritti garantiti (sonotuttora esclusi diritti fondamentali qualil’asilo), la CEDU è riuscita a racchiu-dere in poche espressioni, aumentatenel tempo con i Protocolli Addizionali5,la sostanza dei principi che devono

governare l’esercizio dei diritti dell’uo-mo e delle libertà fondamentali, dimo-strandosi uno strumento in grado dicontrastare la permanente tentazionedella ragion di Stato. Questo articolointende illustrare, sia pure brevemente,il sistema costituito dalla CEDU e dallaCorte europea dei diritti dell’uomo (diseguito Corte europea o semplicementeCorte), le sue regole di procedura ed isuoi principi fondamentali così da con-sentire agli Avvocati di introdurreun’ulteriore dimensione alla propriaattività professionale.

La CEDULa CEDU è probabilmente lo stru-

mento internazionale che meglio rap-presenta, anche alla luce di quello che èil suo mandato, il Consiglio d’Europa(CoE). Non è un caso che delle oltre200 Convenzioni internazionali pro-mosse fino ad oggi dal CoE, organismoregionale europeo nato da un’idea diWinston Churchill e che vide la lucenel 1949, solo la CEDU sia obbligato-ria per tutti i 47 Stati membri. Volutacon pervicacia dall’AssembleaParlamentare del CoE già dalla suaprima sessione, la CEDU venne apertaalla firma a Roma il 4 novembre 1950per poi entrare in vigore il 3 settembredel 1953. Essa affonda le sue radicinella Dichiarazione universale deidiritti dell’uomo, cui lo stessoPreambolo rinvia: nelle intenzioni deilegislatori di Strasburgo si trattava diadottare le prime misure volte ad assi-curare la garanzia collettiva di alcunidei diritti civili e politici previsti dallaDichiarazione universale dei dirittidell’uomo del 1948: diritto alla vita(art. 2 CEDU), proibizione della tortu-ra (art. 3) e della schiavitù e del lavoroforzato (art. 4), diritto alla libertà e allasicurezza (art. 5) e ad un equo processo(art. 6), nulla poena sine lege (art. 7),diritto al rispetto della vita privata efamiliare (art. 8), libertà di pensiero, dicoscienza e di religione (art. 9), diespressione (art. 10) e di riunione e diassociazione (art. 11), diritto al matri-monio (art. 12) e ad un ricorso effettivo

(art. 13), divieto di discriminazione(art. 14). La CEDU, tuttavia, si disco-sta profondamente sia dallaDichiarazione universale che da altristrumenti internazionali in materia didiritti umani. Per usare le parole dellaCorte Costituzionale: “In relazione allaCEDU (...) occorre tenere conto dellasua peculiarità rispetto alla generalitàdegli accordi internazionali, peculia-rità che consiste nel superamento delquadro di una semplice somma di dirit-ti ed obblighi reciproci degli Stati con-traenti. Questi ultimi hanno istituito unsistema di tutela uniforme dei dirittifondamentali. L’applicazione e l’inter-pretazione del sistema di norme è attri-buito beninteso in prima battuta ai giu-dici degli Stati membri, cui compete ilruolo di giudici comuni dellaConvenzione. La definitiva uniformitàdi applicazione è invece garantita dal-l’interpretazione centralizzata dellaCEDU attribuita alla Corte europea deidiritti dell’uomo di Strasburgo, cuispetta la parola ultima e la cui compe-tenza ‘si estende a tutte le questioniconcernenti l’interpretazione e l’appli-cazione della Convenzione e dei suoiprotocolli che siano sottoposte ad essanelle condizioni previste’ dalla mede-sima (art. 32, comma 1, dellaCEDU)”6.

Nonostante il testo conciso, e pertaluni aspetti prodigioso, la CEDU èdivenuta, grazie alla giurisprudenzadegli organi di Strasburgo, un autenticojus commune in materia di diritti del-l’uomo, nella misura in cui fissa normevalevoli per tutti i Paesi del continenteeuropeo. Essa, per usare le parole dellaCorte europea, è da riguardarsi quale“strumento costituzionale dell’ordinepubblico europeo”: con la stipula dellaCEDU le Parti Contraenti “non hannovoluto concedersi diritti ed obblighireciproci utili al perseguimento deirispettivi interessi nazionali, ma realiz-zare obiettivi ed ideali del CoE edinstaurare un ordine pubblico comunedelle libere democrazie d’Europa alfine di salvaguardare il loro patrimoniocomune di tradizioni politiche, di idea-li, di libertà e di preminenza del dirit-

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Il sistema europeo di tuteladei diritti umani

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to”7. Ad oggi le statistiche paiono con-fermare l’efficacia di un sistema che èsempre più conosciuto, visibile, acces-sibile e che con le sue sentenze è inter-venuto a modificare (indirettamente) lelegislazioni degli Stati membri in sensosempre più garantista e rispettoso delladignità della persona.

Composizione e funzionidella Corte europea

Istituita nel 1959, la Corte ha condivi-so, fino al 1998, le proprie funzioni conla Commissione europea per i diritti del-l’uomo e il Comitato dei Ministri delCoE, pronunciando 837 sentenze. Talientità (conosciute collettivamente come“organi della Convenzione”) potevanoessere attivate dagli Stati contraenti(ricorsi interstatali) e, solo nell’ipotesi incui le Parti avessero accettato il diritto diricorso individuale, anche da personefisiche, gruppi o organizzazioni. Dal 1°novembre 1998, data di entrata in vigoredel Protocollo n. 11 alla CEDU che creauna Corte a tempo pieno e che offre aglioltre 800 milioni di europei la possibilitàdi accesso diretto, le sentenze pronun-ciate sono state 10.000, a cui vannoaggiunte le decine di migliaia di decisio-ni di ricevibilità. La Corte europea ècomposta da un numero di giudici pari aquello degli Stati contraenti (attualmen-te 47, per una popolazione totale di circa800 milioni di persone). Essa assolvediverse funzioni, tra cui quelle principa-li sono sicuramente le funzioni di inchie-sta, di conciliazione e di valutazionerispetto alle doglianze di cui è investita.Secondo il suo regolamento, la Corte sisuddivide in quattro Sezioni, la cui com-posizione deve essere equilibrata tantodal punto di vista geografico (così dacomprendere esponenti delle c.d.“nuove” e “vecchie” democrazie e darappresentare i diversi sistemi giuridicidei membri del CoE) che dal punto divista di genere. All’interno di ciascunaSezione sono istituiti i Comitati e leCamere. Composti da tre giudici, iComitati rappresentano un elementoimportante della nuova struttura poichésvolgono gran parte della funzione di fil-traggio: sono i Comitati a dichiarare(all’unanimità) la manifesta inammissi-bilità di un ricorso. Le Camere, compo-ste da 7 giudici, sono la formazione chesi occupa di decidere la maggior partedei casi, inclusi quelli ricevuti daiComitati nell’ipotesi in cui l’unanimità

non sia stata raggiunta. In qualunque sta-dio della procedura le Camere possonospogliarsi della competenza a favoredella Grande Camera (17 giudici): que-sto accade quando la Camera ritenga cheil caso sollevi una grave questione relati-va all’interpretazione della Conven-zione oppure quando la soluzione di undato problema possa portare a un contra-sto giurisprudenziale, sempre che nessu-na delle parti vi si opponga.

La procedura davanti alla Corte europea

La procedura per poter adire laCorte europea è relativamente sempli-ce e le formalità minime. Ogni Statocontraente (nel caso di un ricorso inter-statale) o individuo che si ritenga vitti-ma di una violazione dellaConvenzione (nel caso di un ricorsoindividuale) può inoltrare direttamentealla Corte di Strasburgo un ricorso incui lamenti la violazione, da parte diuno Stato contraente, di uno dei dirittigarantiti dalla Convenzione. Il ricorso,da inoltrarsi preferibilmente ma nonnecessariamente (almeno per quellache in gergo tecnico è definita la“prima lettera”) sugli appositi formula-

ri disponibili sul sito della Cortewww.echr.coe.int, può essere redatto inuna qualsiasi delle lingue parlate nei 47Stati membri del CoE e può ancheessere anticipato, per impedire il termi-ne decadenziale, via fax. Le condizionidi ricevibilità sono ridotte al minimo:a) previo esaurimento dei ricorsi ordi-nari disponibili secondo il diritto inter-no (non si dimentichi che il sistemaeuropeo è sussidiario rispetto a quellonazionale); b) il rispetto del termine di6 mesi dalla data della decisione inter-na definitiva (nell’ipotesi di situazionicontinue tale termine non si applica).La procedura innanzi alla nuova Corteeuropea dei Diritti dell’Uomo è scritta,contraddittoria e pubblica. Le udienze(che rappresentano un’eccezione) sonopubbliche, a meno che la Ca-mera/Grande Camera non decidadiversamente in virtù di circostanzeeccezionali. I ricorrenti individuali(che devono poter essere considerate“vittime” – dirette o indirette – dellaviolazione lamentata) possono intro-durre personalmente il ricorso, anchese la Corte stessa, nelle istruzioni pub-blicate sul sito, raccomanda che a rap-presentare il ricorrente sia un Avvocatoabilitato all’esercizio della professione

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Fotografia tratta da: Voci Contro il Potere. Difensori dei Diritti Umani che stanno cambiando il mondodi Kerry Kennedy, fotografie di Eddie Adams, a cura di Nan Richardson. Umbrage Editions, distribuitoda Logos. © 2000 Eddie Adams

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in uno degli Stati del CoE. La presenzadi un Avvocato è comunque necessariaper le udienze ovvero successivamentealla comunicazione del ricorso alloStato convenuto, momento a partire dalquale le lingue della procedura diven-tano il francese e/o l’inglese. Adisposi-zione dei ricorrenti indigenti, è dispo-nibile presso il Consiglio d’Europa unsistema di assistenza legale gratuitache, contrariamente a quanto siamoabituati, non prevede soglie massimedi reddito: la situazione del ricorrente,infatti, è liberamente valutata dallaCorte che decide caso per caso. Ogniricorso individuale viene attribuito aduna Sezione, il cui Presidente designaun Relatore. Dopo un esame prelimina-re del caso, il Relatore decide se questodebba essere esaminato da un Comitatodi tre membri oppure da una Camera.Le Camere sono competenti a pronun-ciarsi sia sulla ricevibilità che sul meri-to dei ricorsi, con una decisione unica odue distinte. Prese alla maggioranza, ledecisioni della Camera sulla ricevibi-lità debbono essere motivate e resepubbliche. Una volta dichiarato ricevi-bile il ricorso, la Camera invita le partia presentare delle prove complementa-ri ed osservazioni scritte, compreso,per quel che concerne la parte ricorren-te, un’eventuale richiesta di “equa sod-disfazione”. Il Presidente della Camerapuò, nell’interesse di una buona ammi-nistrazione della giustizia, invitare oautorizzare qualunque Stato contraentenon parte alla procedura, o qualunquepersona interessata diversa dal ricor-rente, a introdurre delle osservazioniscritte o, in circostanze eccezionali, apartecipare all’udienza. Lo Stato con-traente il cui cittadino sia parte ricor-rente nel caso può invece intervenire didiritto.

Durante la procedura relativa almerito, la Cancelleria della Corte simette a disposizione delle parti per laconclusione di negoziati finalizzati adun regolamento amichevole della con-troversia. Tali negoziati, confidenziali,prevedono mutue concessioni e sono difondamentale importanza sia per lagestione del carico di lavoro della Corteche per gli Stati convenuti. Vi sono, tut-tavia, dei limiti, nella misura in cuianche i regolamenti amichevoli devonoessere guidati dal rispetto per i dirittiumani: questo significa che ogni “con-trattazione” sui diritti garantiti dallaConvenzione è vietata e tutto ciò che è

negoziabile è rappresentato esclusiva-mente dalla somma dovuta a titolo diequa soddisfazione.

Quanto al contenuto della sentenza, laCorte si limita a verificare se, in conside-razione delle circostanze del caso con-creto oggetto di esame, a lei sottoposto,vi è stata una violazione della CEDU. Inaltri termini, non spetta alla Corte pro-nunciarsi in abstracto sulla compatibi-lità di una normativa interna con laCEDU. Essa valuta esclusivamente se,nel caso di specie, l’applicazione di talenormativa abbia o meno violato laCEDU. Tale prassi, che riflette del restoquel riparto di competenze che si è inte-so realizzare nell’ambito del sistema diprotezione fra il livello nazionale e illivello sovranazionale, sembrerebbesminuire l’efficacia erga omnes dellasentenza della Corte, limitandone lavalidità al caso di specie. È pur vero, tut-tavia, che la pratica del Comitato deiMinistri del CoE (incaricato di monito-rare l’esecuzione delle sentenze) è quel-la di accordare un’importanza sempremaggiore alla logica del ragionamentoseguito dalla Corte: il risultato è quellodi stimolare la Parte contraente colpevo-le ad intervenire in maniera sistematica,ad esempio con interventi legislativi, alfine di evitare violazioni future. Le con-danne sono vincolanti per la Parte con-traente contro la quale sono pronunciate.L’art. 41 CEDU prevede che “se la Cortedichiara che vi è stata violazione dellaConvenzione o dei suoi protocolli e se ildiritto interno dell’Alta Parte contraentenon permette di riparare, se non in modoincompleto, le conseguenze di tale viola-zione, la Corte accorda, quando è il caso,un’equa soddisfazione alla parte lesa”.Quest’ultima rappresenta pertanto ilrimedio all’imperfezione dei meccani-smi statali, anche se è pur vero che inalcune occasioni8 la Corte ha indicato lariparazione in forma specifica (nuovacelebrazione del processo, ove richiestodal ricorrente) quale modalità per sanarela violazione accertata9.

La sentenza della Camera divienedefinitiva con il decorso del termine ditre mesi senza che nessuna delle partiabbia richiesto il rinvio alla GrandeCamera, oppure anche prima di dettascadenza nel caso in cui le parti dichia-rino espressamente di non avere l’in-tenzione di richiedere il rinvio allaGrande Camera, o se il collegio di cin-que giudici incaricato di esaminare ladomanda rigetta la richiesta di rinvio.

Se quest’ultima viene accettata, laGrande Camera decide sul caso a mag-gioranza. Le sentenze della GrandeCamera sono sempre immediatamenteesecutive. Tutte le sentenze definitivedella Corte sono vincolanti per gli Staticonvenuti interessati. Il Comitato deiMinistri del Consiglio d’Europa èresponsabile del controllo dell’esecu-zione di dette sentenze. Esso è quindiincaricato di verificare che gli Stati chesono stati condannati per aver violato laConvenzione abbiano preso le misurenecessarie per adempiere gli obblighispecifici o generali che risultano dallesentenze della Corte.

I principi fondamentali delsistema europeo

Così come esposto il sistema euro-peo di tutela dei diritti umani sembra difacile comprensione. In realtà, il siste-ma è facilmente accessibile ma estre-mamente complesso, non solo per lebarriere linguistiche. Intanto si tratta diun sistema “vivente”, per usare un’e-spressione cara alla Corte, fondato suun diritto di formazione giurispruden-ziale, quindi più vicino ai sistemi dicommon che di civil law. Questo signi-fica, in sostanza, che la giurisprudenzaforma parte integrante della CEDU, percui conoscere quest’ultima significaavere contezza dell’interpretazione ela-borata dalla Corte in relazione ai varicasi sottoposti al suo esame. In secondabattuta, appare opportuno evidenziareche l’applicazione della Convenzionerichiede l’adozione di una prospettivalegale di tipo diverso da quella impostadalla normativa nazionale. Vi è, invero,un insieme di concetti interdipendentiche sono governati dal contesto interna-zionale e dal diritto dei diritti umani.Gli organi della Convenzione hanno ilcompito di stabilire standards interna-zionali minimi. Essi non perseguono ilcompito di identificare il modo piùappropriato per proteggere i dirittiumani, con ciò riconoscendo le diver-sità esistenti fra gli Stati contraenti.Essi identificano solamente il livellominimo di protezione che ciascun siste-ma legale dovrebbe garantire.L’universo della Convenzione è unmondo a sé stante e sarebbe sbagliatocercare di trasporre direttamente i prin-cipi enunciati dalla Corte nell’ordina-mento interno. È quest’ultimo, invece,a dover rispecchiare tali principi.

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Numerosi e complessi sono i principiche devono guidare l’avvocato nel suoapproccio con la CEDU. Tra essi visono certamente la sussidiarietà, il mar-gine di apprezzamento, l’autonomiaconcettuale, l’effettività e la proporzio-nalità.

Quanto alla sussidiarietà, giovaricordare che gli organi dellaConvenzione sono stati concepiti comeuno strumento di supervisione. Essi,pertanto, sono complementari rispettoalle autorità nazionali, alle quali èdemandata in primo luogo la protezionedei diritti umani. Questo aspetto siriflette anche sulla condizione di ricevi-bilità previo esaurimento delle vie diricorso interne, alla luce del quale èfondamentale che l’Avvocato sappiaindividuare una possibile violazionedei diritti garantiti quanto prima, cosìda potersene lamentare avanti le com-petenti autorità. Sotto questo profilovale anche ricordare che la Corte euro-pea non rappresenta una “quarta istan-za”, vale a dire una possibilità successi-va alla Cassazione di ribaltare una deci-sione giudiziaria. Il suo ruolo è invecequello di vegliare affinché gli Stati con-traenti garantiscano ai soggetti sottopo-sti alla loro giurisdizione i diritti che sisono impegnati ad assicurare con la

firma della Convenzione. Ne consegueche la funzione di ricerca della veritàdella Corte è decisamente limitata,tanto più che il procedimento ha naturascritta e che pubbliche udienze vengo-no tenute solo se assolutamente neces-sario. Il materiale sul quale la Cortebasa la sua decisione è essenzialmenterappresentato da quanto prodotto dalleparti, tanto più che nella maggior partedei casi la ricostruzione dei fatti non èoggetto di contestazione. La Corte nonè chiamata a valutare la correttezzadella decisione interna, bensì a stabilirese il processo decisionale e l’esecuzio-ne della decisione hanno rispettato idiritti umani dei soggetti coinvolti. Ilcontrollo, in altre parole, è volto adaccertare se lo scopo della decisione eralegittimo e se la modalità con la quale siè pervenuti ad una certa scelta non siastata arbitraria o realizzata con abuso dipotere.

Il margine di apprezzamento èstato definito una sorta di “scriminante”invocata dai Governi ogni qual volta cisi trovi di fronte ad una evidente inter-ferenza statale nel godimento di undiritto. In presenza di argomenti ugual-mente fondati tanto a favore quantocontro ciascuna delle parti, la decisionefinale viene spesso risolta “tirando

fuori dal cappello a cilindro” proprio ilconcetto di margine di apprezzamento.La circostanza che gli usi, le politiche ele pratiche degli Stati membri del CoEsiano così eterogenee viene talvolta uti-lizzata al fine di fondare l’esistenza delmargine di apprezzamento. Laddovenon vi è un concetto condiviso, adesempio, di morale, si accetta la presen-za di una molteplicità di soluzioni oapprocci diversi rispetto al tema10.L’ampiezza del margine di apprezza-mento varia a seconda del contesto e deltema: esso è notevole quando si tratta disicurezza nazionale, politiche di piani-ficazione, transessualismo, insemina-zione artificiale, mentre è decisamentepiù ristretto quando, ad esempio, è que-stione di vita privata e familiare. In pra-tica, l’apprezzamento è il margine dimanovra di cui gli Stati godono neldeterminare ciò di cui la società habisogno, nonché il modo migliore perraggiungere tali risultati. Nel ruolo disupervisore del raggio di azione degliStati, tuttavia, rimane la Corte, chevigila affinché determinati confini nonvengano superati.

L’ autonomia concettuale è un altroaspetto che occorre conoscere per evi-tare di incappare in clamorosi errori.Quando si tratta di interpretare l’am-

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Prendere le giuste decisioni non è facile. La realtà è sempre più complessa, veloce, mutevole. Noi lavoriamo per semplificarla, chia-rirla, risolverla e offrire alla persone e alle aziende le certezze che ritengono essenziali nella vita privata e professionale.

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piezza o l’applicazione dei dirittisostanziali e delle libertà garantite dallaConvenzione, gli organi di Strasburgosi concentrano su quella che è la sostan-za dei diritti protetti, indipendentemen-te da quella che è l’interpretazione,secondo il diritto interno degli Stati,degli stessi. La Corte ha più volte affer-mato nelle proprie sentenze che i termi-ni utilizzati nella Convenzione sonoconcetti autonomi: essa quindi godedella libertà di verificarne l’applicazio-ne nelle fattispecie concrete che si rea-lizzano nei sistemi giuridici degli Statimembri. Così, ad esempio, il concettodi vita privata elaborato dallaConvenzione potrebbe non coinciderecon quello adottato dal Governo conve-nuto, né quest’ultimo può arrogarsi ildiritto di limitare il concetto o ridefinir-lo secondo classificazioni formali vale-voli per il diritto interno. Ugualmente,anche nei casi in cui la Corte non parladi autonomia concettuale, essa si avvi-cina alle nozioni di vita privata e fami-gliare, ad esempio, guardando allasostanza di ciò che è in gioco, senzaessere condizionata dalle definizionifornite dal diritto interno.

Tra i principi generali elaborati dagliorgani di Strasburgo vi è altresì l’effet-tività. Quest’ultimo ispira un’interpre-tazione ed un’applicazione della CEDUtale da rendere i diritti e le libertà garan-tite “non teoretici e illusori ma concretied effettivi”11. Questo significa, in altre

parole, che gli Stati non possono rifug-gire le proprie obbligazioni proteggen-do i diritti garantiti in maniera superfi-ciale, fittizia o formalistica.

La conoscenza del meccanismo euro-peo di protezione dei diritti umani pre-suppone, infine, la familiarità con il con-cetto di proporzionalità. Secondo auto-revole dottrina esso rappresenta il temadominante che sottende all’interaConvenzione12. E, ad esempio, il requisi-to richiesto, unitamente alla necessità,per le misure ammesse dall’art. 2 e dagliarticoli 8-11 (c.d. “diritti qualificati”),nonché da altri articoli a cui è stato este-so, nel contesto delle giustificazioniragionevoli ed obiettive delle differenzedi trattamento previste dall’art. 14, per lelimitazioni all’accesso ad un tribunale aisensi dell’art. 6, nel quadro dei diritti diproprietà ex art. 1 del Protocollo addizio-nale alla Convenzione, nonché come basiper l’individuazione di obbligazionipositive a carico degli Stati. Esso è altre-sì invocato allorquando si tratta di realiz-zare il bilanciamento fra gli interessi delricorrente e quelli della comunità.L’esame delle questioni sotto il profilodella proporzionalità richiede una rispo-sta alla domanda se lo Stato avrebbepotuto ottenere lo stesso risultato attra-verso modalità differenti. Tuttavia, sicco-me la Convenzione non pone standardsideali, non è sufficiente a fondare un giu-dizio di violazione la circostanza che, peresempio, metodi diversi siano usati in

altri Stati. Ciò che rileva è che i metodi inesame non siano proporzionali e, al con-tempo, non rientrino in quel margine didiscrezionalità di cui gli Stati godono,avuto riguardo alle particolari circostan-ze del caso.

ConclusioniL’importanza crescente assunta dalla

Convenzione europea dei diritti umaninel nostro ordinamento, anche e soprat-tutto alla luce della recente giurispru-denza costituzionale, impone agliAvvocati di aggiungere alla propria pra-tica professionale una dimensione inter-nazionale. Non è più possibile ignoraregli strumenti disponibili per la tuteladella libertà e dignità della persona acausa di barriere, principalmente lingui-stiche e culturali, che in un’epoca globa-lizzata risultano quantomai anacronisti-che. È doveroso che gli operatori giuri-dici siano in grado di individuare tem-pestivamente le possibili violazionidella CEDU così da potersene lamenta-re avanti le autorità nazionali e, nell’i-potesi in cui queste non addivengano asanare la violazione, anche davanti allaCorte europea. Per quanto lontano dalmodo di pensare tipico degli Avvocati,questo Tribunale internazionale è piùvicino di quanto sembri e sarebbe vera-mente un’occasione mancata non saper-ne utilizzare le grandi potenzialità13.

Ivana Roagna

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Note1 Ratificata dall’Italia con Legge 4 agosto 1955 n. 848.2 Oltre alla CEDU fanno parte del sistema europeo la Carta sociale europea, la Convenzione quadro per le minoranze nazionali, la Convenzione europea per la

prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, tutte accompagnate da meccanismi di controllo di varia natura, e il Commissario per i dirittiumani.

3 Corte Cost. sent. 24.10.2007, n. 348.4 Corte Cost., sent. 24.10.2007, n. 349. La Corte Costituzionale ha definito, con le sentenze 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349, la posizione delle norme della

Convenzione europea (CEDU) e delle sentenze della Corte europea per i diritti dell’uomo rispetto alla nostra Carta costituzionale, in occasione della pronun-cia di incostituzionalità di alcune disposizioni sulle espropriazioni per pubblica utilità (articolo 5-bis, commi 1, 2 e 7-bis, del decreto legge n. 333 del 1992,convertito dalla legge n. 359 del 1992, e articolo 37, commi l e 2, del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 recante il testo unico in materiadi espropriazione per pubblica utilità), più volte censurate dinanzi alla Corte europea ed ai giudici nazionali.

5 Attualmente 14, di cui una parte procedurali e una parte sostanziali. L’ultimo Protocollo, destinato ad incidere fortemente sulle modalità di lavoro della Corte,necessita della ratifica da parte della sola Federazione Russa per entrare in vigore.

6 Corte Cost. 24.10.2007, n. 349.7 Commissione, D 788/60, Austria c. Italia, Annuaire de la Convention n. 4, p. 139.8 Öcalan v. Turkey, Application No. 46221/99.9 Sul problema della riapertura dei processi conclusi in violazione dei principi della Convenzione, la recentissima sentenza della Corte Costituzionale 30 apri-

le 2008, n. 129, ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Bologna con ordinanza del 15-21 marzo 2006 (sullapossibilità di considerare le sentenze di Strasburgo come uno dei presupposti per la revisione del processo), ponendo un freno alla immediata applicazione deiprincipi enunciati dalla Corte europea nelle sentenze di condanna dell’Italia pur sottolineando la improrogabile necessità che l’ordinamento predisponga ade-guate misure per riparare, sul piano processuale, le conseguenze scaturite dalle violazioni ai principi della Convenzione europea in tema di “processo equo”,accertate da sentenze della Corte europea, ed espressamente rivolgendo al legislatore nazionale “un pressante invito” ad intervenire nella materia.

10K. Reid, A Practitioner’s Guide to the European Convention on Human Rights, Thompson - Sweet and Maxwell, London 2008, p. 45.11È questa l’espressione utilizzata dalla Corte nel caso Artico c. Italia, 13 settembre 1980, avente ad oggetto una vicenda di denegata assistenza giudiziaria a

persona non abbiente (imputabile ad un atteggiamento formalistico della giustizia italiana), che venne duramente stigmatizzata dalla Corte.12Reid, cit.13Per ulteriori approfondimenti si rinvia al sito della Corte europea www.echr.coe.int, dove è possibile scaricare (sotto il link Information for applicants) tutta

la documentazione necessaria per presentare un ricorso, in italiano, accompagnata da istruzioni e chiarimenti, nonché accedere al database di tutte le senten-ze e decisioni della Corte. In italiano, fra i tanti siti disponibili, si citano quello dell’Osservatorio della CEDU http://osservatoriocedu.it/e del Governohttp://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/pronunce _corte _ europea/

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Scriveva nel rapporto sulla sua visitain Italia del giugno del 2005 l’ex

Commissario spagnolo per i diritti del-l’uomo, Alvaro Gil-Robles:

“ ...Malgrado il livello in genereelevato di protezione dei dirittiumani offerto dalla sua legislazio-ne, l’Italia contribuisce tuttavianotevolmente a determinare ilsovraccarico di lavoro della Corteeuropea dei diritti dell’uomo. Èinfatti il quinto Stato per il numerodi ricorsi dinanzi alla Corte ed è ilprimo in termini di condanne.Inoltre, è il paese che registra ilnumero maggiore di mancata ese-cuzione delle sentenze”.Tre anni dopo, nel giugno del 2008,

il Commissario svedese ThomasHammarberg osserva (punto 74 del rap-porto 28/7/08):

“ ...il sistema giudiziario italianosoffre del cronico problema delladurata eccessiva dei suoi proces-si (compresi quelli penali) e del-l’arretrato delle cause. In questocontesto, si deve ricordare chel’Italia è lo Stato europeo con ilpiù alto numero di condanne(1715) pronunciate dalla Corteeuropea dal 1999 al 2007. Lamaggioranza di queste sentenze(948) attiene al sistematico pro-blema della durata eccessiva deiprocessi. Ancora al 31/12/07,l’Italia risulta lo Stato contraentecon la più alta percentuale (45%)di sentenze di condanna pronun-ciate dalla Corte...”.Come dire..., c’è poco da stare allegri!Il tema della durata dei processi è

trattato nella Convenzione per la salva-guardia dei diritti dell’uomo e dellelibertà fondamentali del 1950 (ratifica-ta in Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848)sotto un duplice profilo:– quello di cui all’art. 6, per il quale

“ogni persona ha diritto che la suacausa sia esaminata imparzialmen-te, pubblicamente e in un temporagionevole...” (comma 1).

– e quello di cui all’art. 5, per il quale“ogni persona arrestata o detenuta...deve essere, al più presto, condot-

ta davanti ad un giudice... e ha ildiritto di essere giudicata in untempo congruo” (comma 3),e per il quale “ogni persona privatadella libertà... ha diritto di presenta-re un ricorso davanti ad un tribuna-le affinché decida in breve temposulla legittimità della sua detenzio-ne...” (comma 4).Tra i costituti dell’“equo processo”

la Convenzione individua pertanto ladurata “ragionevole” del procedimentogiudiziario, civile e penale (art. 6),quale garanzia indefettibile di tutela deidiritti fondamentali all’interno di unordinamento civile e democratico.

Senza voler qui affrontare la com-plessità dell’argomento, il problemastrutturale dei ritardi eccessivi in Italiaè determinato da due grandi problema-tiche, legate alle evidenti carenze del-l’organizzazione giudiziaria e deimezzi di cui dispone, da un lato, e aimeccanismi procedurali, dall’altrolato.

A cercare di porre rimedio ai ritardidella giustizia italiana è così intervenu-ta la legge 24 marzo 2001 n. 89 relativaall’equa riparazione del danno in casodi irragionevole durata di un procedi-mento giudiziario, denominata comu-nemente legge Pinto. Essa ha introdottola possibilità di presentare un ricorsoper riparazione in caso di durata ecces-siva di un procedimento (al più tardi,entro sei mesi dal passaggio in giudica-to della decisione che conclude il pro-cedimento). Il meccanismo ha consen-tito di ridurre il numero di ricorsi pro-posti contro il nostro Paese presso laCorte di Strasburgo.

Ma la legge Pinto permette unica-mente di indennizzare le vittime deiritardi, senza affrontare la causa delproblema. L’assegnazione di una ripa-razione pecuniaria non ha infatti alcunaconseguenza sulle procedure o sullegiurisdizioni responsabili del ritardoirragionevole constatato.

Non a caso, pur in presenza di questavalida alternativa, i cittadini italianicontinuano a rivolgersi alla Corte diStrasburgo per vedersi riconoscere iloro diritti.

Nel caso F.M. (Sez. I, 28/11/2002),emblematico per la significativa lun-ghezza dei tempi che sono stati consi-derati dalla Corte europea come nongiustificabili, dalla notifica del provve-dimento di rinvio a giudizio alla senten-za di primo grado sono decorsi sei anni,otto mesi e ventisette giorni! È stataliquidata a favore del ricorrente lasomma di 10 mila euro per i dannimorali, senza richiesta di rimborsodelle spese legali.

Le conseguenze disastrose di taliritardi possono talvolta rivelarsi dram-matiche, dal momento che l’incapacitàdi garantire il diritto alla giustizia intempi ragionevoli incide sulla possibi-lità di garantire altri diritti, in particola-re i diritti fondamentali.

Per quanto concerne i processi pena-li, le conseguenze sull’accusato sonoevidenti, segnatamente per gli innocen-ti, che devono in particolare sopportareil danno prolungato alla loro reputazio-ne. Oltre a tali conseguenze per gliaccusati, la lentezza dei procedimentinega ugualmente alle vittime il dirittoalla giustizia e contribuisce in modo piùgenerale a favorire una certa impunità,che indebolisce lo stato di diritto e lapubblica sicurezza.

Più nutrita è ovviamente la casisticadei ricorsi proposti alla Corte ex art. 5,commi 3 e 4 della Convenzione.a) Interessante a tal riguardo è il caso(Sez. I, 17/2/2005) del signor SardinasAlbo, cittadino cubano condannato inItalia ad undici anni di reclusione pertraffico internazionale di stupefacenti,che ha subito una carcerazione preven-tiva pari a tre anni, due mesi ed ungiorno.

Ebbene, secondo la Corte, le fasiprocessuali attinenti il merito (siamo inLombardia) si sono dilatate oltre ogniragionevole durata, pur avendo riguar-do alla complessità della vicenda. I giu-dici europei hanno pertanto valutatoche le autorità giudiziarie italiane nonavevano condotto il processo con quel-la “speciale diligenza” richiesta persituazioni di quel tipo e, di conseguen-za, hanno reputato violato l’art. 5comma 3 Conv., nonché proceduto alla

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I tempi della giustizia penaleitaliana secondo la CorteEuropea dei Diritti Umani

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liquidazione di 4 mila euro in favore delricorrente per il risarcimento dei dannimorali subiti.

b) In un’altra vicenda, il signorRapacciuolo (Sez. III, 19/5/2005) èstato ristretto in regime cautelare dal 6settembre 1997 al 9 giugno 1999, allor-ché è stato assolto nel merito dalTribunale di Torre Annunziata dall’ac-cusa di associazione per delinquerevolta al compimento di stupri ed atti dilibidine nei confronti di ragazzi mino-renni.

Il controllo di legalità sulla detenzio-ne svolto dal Tribunale di Napoli èdurato due mesi e ventisette giorni (laCorte ha chiarito che il periodo da pren-dere in considerazione decorre dal gior-no della presentazione del ricorso alTribunale al momento in cui la decisio-ne viene comunicata all’interessato o alsuo difensore); quello operato dallaCassazione (in due distinte occasioni)quasi un anno.

I giudici di Strasburgo hanno osser-vato che la complessità del caso inesame non giustificava comunquel’eccessiva durata dei tempi impiegatidai giudici italiani per accertare lalegalità della detenzione, ed hanno

quindi condannato lo Stato a versare 4mila euro a titolo di ristoro per i dannimorali patiti.

c) Nel caso invece del signor Fodale(Sez. III, 1/6/2006), la Corte europea hastabilito due importanti principi.

La portata dell’art. 5 comma 4 dellaConvenzione si deve infatti estendereanche ai casi in cui l’indagato sia statoscarcerato, poiché è sufficiente che visia il pericolo dell’applicazione di unamisura cautelare per ritenere applicabi-li tutte le garanzie previste dallaConvenzione europea a tutela dellalibertà personale dell’individuo: ciòavviene, quindi, anche laddove il sog-getto sia stato nel frattempo scarceratoe sia in attesa di un nuovo giudizio insede cautelare.

Inoltre, i giudici europei hanno sot-tolineato come la Convenzione nonimponga l’obbligo di prevedere un dop-pio grado di giudizio per l’accertamen-to della legalità della detenzione, ma seuno stato (come l’Italia) decide diseguire questo principio dovrà allorafornire tutte le garanzie per quel cheriguarda la privazione della libertà per-sonale (nella fattispecie, il ricorrenteaveva censurato l’omesso avviso del-

l’udienza camerale in Cassazione).d) Interessante invece, sotto un altro

profilo, è la sentenza del 6/11/2003(Sez. III) sul caso del signor Pantano,condannato in primo grado per parteci-pazione ad associazione mafiosa a noveanni di reclusione e per tale vicenda sot-toposto a regime cautelare per anni due,mesi otto e giorni quattordici.

La Corte ha deliberato il rigetto delricorso proposto ex art. 5 comma 3della Convenzione, pur a fronte di unapprezzabile lasso di tempo trascorso instato cautelare detentivo, dato che neiprocessi di mafia è forte l’esigenza dicondurre indagini approfondite, e per-tanto l’apprezzamento del carattereirragionevole della detenzione cautela-re non può fare a meno di considerare lenecessità investigative dell’autoritàgiudiziaria e la natura stessa delle atti-vità criminose.

Da questa breve rassegna di casi sot-toposti alla Corte di Strasburgo è possi-bile ricavare un quadro di estremo equi-librio e serenità da parte dei giudicieuropei, chiamati ad un compito ed aresponsabilità sempre più delicati.

Torino, settembre 2008

Paolo Davico Bonino

la PazienzaI tempi della giustizia penale italiana secondo la Corte Europea dei Diritti Umani 18

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I l riconoscimento e la fruizione diqualsiasi diritto nel concreto è sem-

pre stato diversamente modulato edinterpretato in funzione delle differenzedi genere e ciò non solo per l’età adulta,ma fin dalla nascita.

E così, la Dichiarazione Universaledei Diritti Umani del 1948, nonostanteall’art. 3 affermi il diritto alla vita, allalibertà, alla sicurezza, all’art. 5 vieti latortura ed i trattamenti inumani e degra-danti ed all’art. 25 sancisca il diritto allasalute ed auspichi una speciale prote-zione per la maternità ed infanzia (etutto ciò, secondo l’art. 2, senza discri-minazione alcuna) non ha comunqueimpedito che ancora oggil’Organizzazione Mondiale per laSanità stimi in oltre 135 milioni ilnumero delle donne e delle bambineportatrici di mutilazioni genitali fem-minili, con un incremento annuale sti-mato di circa oltre due milioni di unità(dati diffusi al convegno di Nairobi delsettembre 2004 cfr. Vanvan A., MiazziL. “Modificazioni genitali: tradizioniculturali, strategie di contrasto e nuovenorme penali” in Diritto immigrazionee cittadinanza, 1, 2006).

L’Organizzazione Mondiale dellaSanità ha classificato in quattro tipi gliinterventi che vengono effettuati sudonne e bambine, da quello “menoinvasivo” detto di clitoridectomia, par-ziale o totale, all’infibulazione, finoall’asportazione dei genitali esterni conl’introduzione nella vagina di sostanzecorrosive e con cauterizzazione dei tes-suti per ottenerne un restringimento, inmodo che non solo i rapporti sessualisiano fisicamente sgraditi e spesso

impossibili, se non preceduti da unintervento ulteriore, ma per le bambinee per le donne sia difficile e dolorosoespletare le normali funzioni corporali.

Anche una descrizione sommaria ditali pratiche rende di tutta evidenza dicome esse siano totalmente in contrastocon i principi sopra enunciati.

Eppure esse vengono inflitte al gene-re femminile in almeno 28 Paesi africa-ni ed in alcuni Paesi dell’Asia occiden-tale, quasi sempre senza anestetici,senza antisettici, con attrezzi da mani-scalchi, coltelli da cucina o vetritaglienti.

Molte portatrici di tali mutilazioni sitrovano oggi in Europa, nel NordAmerica, in Australia e Nuova Zelanda.

In Italia si stima che non meno di45.000 siano le donne che hanno subi-to mutilazioni e che ogni anno circa6.000 bambine figlie di immigratisiano a rischio di subire tali pratiche,soprattutto nei periodi di rientro neipaesi nativi.

Le origini delle mutilazioni genitalisembrano perdersi nella notte deitempi.

Erodoto le descrive come usanzadegli Egiziani e da ciò discende che unaforma particolarmente cruenta vengachiamata ancora oggi “circoncisionefaraonica”.

Non solo Ittiti, Etiopi e Fenici le pra-ticavano, ma anche i Romani.

Il termine infibulazione, infatti, traeorigine dalla spilla che veniva usata peragganciare la toga, la fibula: essa veni-va applicata con una specie di interven-to chirurgico, soprattutto (ma non solo)sulle schiave per evitare che avessero

rapporti sessuali non conformi agliinteressi dei padroni.

La pratica resta viva nel corso deisecoli in Africa e trova un fertile terrenonella religione islamica, ma vieneattuata anche da appartenenti ad altriculti e dai non credenti che vivono indeterminati contesti socioculturali.

In Europa ancora nel XVIII e XIXsecolo la clitoridectomia era tutt’altroche desueta e veniva praticata per trat-tare “patologie” ritenute conseguentialla masturbazione femminile, qualiepilessia e disturbi mentali.

Tale presunto rimedio chirurgico fupraticato negli ospedali psichiatricieuropei sino al 1930, per contrastare laninfomania e la masturbazione femmi-nile eccessiva.

Dopo la Dichiarazione dei DirittiUmani, che intervenne meno divent’anni dopo la cessazione di prati-che “terapeutiche” di tal genere neimanicomi europei, per affrontare l’ar-gomento a livello internazionale èinnanzitutto necessario risolvere unproblema terminologico.

Si parlò, infatti, per decenni di“modificazioni genitali femminili”, di“circoncisione femminile”, di “chirur-gia genitale”, di “pratiche dannose perla salute delle donne”.

L’uso di eufemismi permetteva direlegare nel folclore e nelle consuetudi-ni di popolazioni di altra cultura la cata-logazione di tali pratiche e, quindi, aiPaesi occidentali di trattare il problemacon maggior distacco e senza troppicoinvolgimenti.

Inoltre negli anni Settanta ed

la Pazienza

In tema di diritti umani

I DIRITTI DELLE DONNE E DELLEBAMBINE NON SONO... I DIRITTIDELL’UOMO: LE MUTILAZIONIGENITALI FEMMINILI

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Ottanta, sembrava politicamente cor-retto non creare un insanabile contrastotra culture con parole che potesserorisultare offensive per tutte le popola-zioni per le quali le mutilazioni eranoelemento fondamentale in ambitosociale e/o religioso.

Una corrente di pensiero che privile-giava il relativismo culturale non vole-va enunciare con l’uso di termini dichiara condanna una presunta superio-rità del nostro patrimonio di valoririspetto a quello di altre società.

Solo dopo molte esitazioni e nume-rosi ripensamenti il termine “mutilazio-ne”, quello più appropriato e che nonlascia dubbi sulla realtà dei fatti, nélascia spazi all’equivoco di riconnettereinesistenti potenzialità igieniche o tera-peutiche a simili atrocità, cominciò adessere usato nella documentazione giu-ridica internazionale, in particolare dal1997, quando l’OrganizzazioneMondiale della Sanità insieme conl’Unicef approvò un documento cheusava, appunto, il termine “mutilazionigenitali femminili”.

Al di là degli aspetti lessicali, vi fuper lungo tempo una sottovalutazione ocomunque una disattenzione per gliaspetti sanitari di ciò che veniva valuta-to superficialmente come un rito avalenza sociale.

Si pensi che l’OrganizzazioneMondiale della Sanità, invitata dalConsiglio Economico e Socialedell’ONU sin dalla fine degli Anni ‘50ad effettuare indagini sulla situazionesanitaria connessa con le pratiche subi-te dalle donne e dalle bambine, rifiutòquesta sollecitazione, motivando che leoperazioni rituali, riferendosi ad ambitisocioculturali, esulassero dalla propriacompetenza.

Solo nel 1979 l’invito, che nel frat-tempo era stato reiterato, venne accoltoe fu organizzato un seminario sul tema“le pratiche tradizionali che colpisconola salute delle donne e dei bambini”.

Sempre nel 1979 la convenzionedell’ONU “Contro ogni forma di discri-minazione nei confronti della donna”impegnò i Paesi aderenti ad adottaretutte le misure anche legislative permodificare ogni “disposizione, regola-mento, consuetudine, pratica, che costi-tuisca discriminazione nei confrontidella donna”.

La convenzione di New York del

20/11/1989 sui diritti del fanciullo e ladichiarazione di Vienna del 1993, riba-dendo entrambe che “i diritti umanidelle donne e delle bambine sono unaparte inalienabile, integrale e indivisi-bile dei diritti umani universali”, porta-rono l’attenzione sulla persona bambi-na, doppiamente vittima, per discrimi-nazioni di genere e perché l’età la lasciain totale balia di decisioni che vannocontro il diritto alla salute, alla libertàdal dolore e alla dignità.

Ma le stesse donne africane in piùcontesti, ed in particolare nel dibattitotenutosi alla terza conferenza mondialedelle Nazioni Unite a Nairobi nel 1985,difesero le mutilazioni genitali femmi-nili come segno distintivo della loro“africanitudine” e della loro apparte-nenza culturale e religiosa, affermandodi ritenere superiore la loro identitàetnica rispetto alla loro salute fisica.

La conferenza sulla popolazionemondiale tenuta al Cairo nel settembre1994 su “demografia e sviluppo”richiese ai Governi di abolire le mutila-zioni genitali.

Ciò non impedì al grande Mufti dellaRepubblica Egiziana di emettere unaFatwa (parere legale) nel quale riaffer-mava che la circoncisione femminilefosse un bene per ogni donna.

La definitiva svolta anche nel pensie-ro delle donne del mondo avvenne alla“quarta conferenza ONU sulle donne” aPechino, nel settembre del 1995, dove,nella dichiarazione e piattaforma adot-tata al termine dei lavori, gli Stati ven-nero invitati ad “eliminare la discrimi-nazione nei confronti delle bambine neisettori della salute e della malnutrizionee prendere tutte le misure appropriateallo scopo di abolire le pratiche tradizio-nali pregiudizievoli alla salute dei bam-bini” ed a “rafforzare le leggi, riformarele istituzioni e promuovere norme e pra-tiche che eliminino la discriminazionecontro le donne ed incoraggino le donnee gli uomini ad assumersi la responsabi-lità del loro comportamento sessuale edella procreazione e ad assicurare ilpieno rispetto per l’integrità fisica delcorpo umano”.

I Paesi nei quali le pratiche di muti-lazione erano e sono più radicate negliultimi due decenni del secolo scorsotennero comportamenti prevalente-mente di mediazione tra le istanze delconsesso internazionale e le realtàinterne.

Nonostante l’approvazione dellaCarta Africana dei Diritti dei Popoli daparte dell’Organizzazione per l’UnitàAfricana nel 1981 e della Carta delBenessere dei Bambini africani, nono-stante molti Paesi Africani, ad es.Burchina Faso, Ghana, Egitto, Sudan,Tanzania, Costa d’Avorio, Etiopia,Uganda, Ciad, abbiano vietato espres-samente le mutilazioni genitali femmi-nili, almeno le più invasive, il dirittoconsuetudinario sembra tutt’oggi esse-re ben più cogente e vincolante delleleggi emanate dagli Stati.

L’Egitto, poi, ha tenuto comporta-menti ondivaghi: ha prima introdottoun divieto, poi l’ha abolito, statuendo lapossibilità di effettuare le mutilazioniin ospedale e, successivamente, a fron-te delle pressioni internazionali, l’haripristinato.

La strada della medicalizzazione,ossia la scelta di delegare ai medici gliinterventi mutilativi per ovviare aigravi danni conseguenti a infezioni,emorragie, errori dovuti a strumentiapprossimativi come cocci di vetro ecoltelli ed all’incompetenza medicadelle donne anziane dei villaggi, èparsa da un lato una moderna manieradi riduzione del danno, ma concettual-mente e di fatto ha costituito una verapatente di liceità, che, consentendo lepratiche di mutilazione in ambito ospe-daliero, luogo di protezione e di cura,ne ha confermato le presunte finalità diprofilassi, di igiene e, comunque, haavallato la giustificazione che essevanno nel senso del “bene delledonne”.

La deontologia medica ha ora intutto il mondo negato la liceità di inter-venti di tal genere.

Anche in Italia si è posto il proble-ma.

In particolare, il ConsiglioRegionale Toscano di Bioetica, nel2004, aveva ritenuto meritevole diattenzione la proposta, nata in un noso-comio toscano, di praticare in ambienteospedaliero una simbolica puntura dispillo che avrebbe dovuto sostituirepratiche più cruente.

La cosiddetta “sunna simbolica” nonottenne, però, consensi, anche in quan-to ritenuta in contrasto con l’art. 50 delcodice deontologico dei medici, chevieta loro di praticare qualsiasi forma dimutilazione genitale femminile.

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L’Unione Europea si è a più ripreseoccupata del problema, anche stimolatadalle ondate migratorie di etnie diverse,ed in particolare africane, che hannoimmesso sul Vecchio Continente unenorme numero di donne portatrici dimutilazioni e di bambine che rischianodi subirle.

Il Consiglio d’Europa nel 1998 haemesso la raccomandazione n. 1371con la quale chiedeva a tutti gli Statimembri di emanare efficaci disposizio-ni contro le mutilazioni genitali femmi-nili, vietandole nei loro ordinamenticome pratiche di tortura e prevedendosanzioni penali severe contro i respon-sabili, compresi i genitori.

Con la raccomandazione 1450/2000ha poi richiamato gli Stati membri adare attuazione a quella precedente.

Anche il Parlamento dell’UnioneEuropea, che il 20/9/2001 aveva adotta-to una risoluzione riguardante le muti-lazioni genitali femminili, con la qualechiedeva all’Unione Europea ed agliStati membri di approntare ogni misuraper la predisposizione di una normativaad hoc, nella quale fosse consideratareato qualsiasi mutilazione femminile,ha da quel momento statuito la lineadella “tolleranza zero” (Risoluzione delParlamento europeo del 2/2/2006 sullasituazione attuale nella lotta alla violen-za contro le donne ed eventuali azionifuture -2004/2220 INI- [considerandoC]; risoluzione del Parlamento europeodel 24/10/06 sull’immigrazione femmi-nile: ruolo e condizione delle donneimmigrate nell’Unione Europea[2006/2010 INI]- [considerando H];risoluzione del Parlamento europeo del13/3/2007, “tabella di marcia per laparità tra donne e uomini 2006-2010”,in cui si chiede uno “sforzo di coordina-mento e rafforzamento delle misureeuropee e nazionali per la protezionedelle donne e dei bambini” [par. 4]).

La ritenuta necessità dell’UnioneEuropea di disposizioni specifiche didivieto, sanzionato penalmente, superail precedente orientamento secondo ilquale si riteneva sufficiente, il manteni-mento della legislazione esistente seadeguata (per l’Italia, ad es. il reato dilesioni personali gravi o gravissime dicui agli artt. 582 e 583 c.p.).

Indubbiamente una normativa speci-fica in ciascuno Stato fa chiarezza, con-sentendo di agevolare sia l’interventodell’autorità giudiziaria sia, più in

generale, l’azione di contrasto del feno-meno, in una situazione in cui ancorapochissimi sono i casi oggetto didenuncia.

Queste ragioni sono emerse anchenel dibattito parlamentare che ha prece-duto l’approvazione della legge n. 7 del9/1/2006, con la quale è stato introdottol’art. 583 bis c.p. che punisce le prati-che di mutilazione degli organi genitalifemminili.

Tuttavia dette ragioni sembranoscontrarsi, in concreto, con la conside-razione secondo cui nei Paesi europeiche si sono dotati da tempo di una legi-slazione repressiva ad hoc, come laSvezia e il Regno Unito, la pratica restain larga misura occulta e clandestina e,paradossalmente, proprio nel paese incui non esiste un divieto penale specifi-co, la Francia, più numerosi sono i casiaffrontati dall’autorità giudiziaria.

Infatti le popolazioni immigrate neiPaesi europei, anche nelle Nazioni chehanno esplicitamente previsto un reato“ad hoc”, non hanno perso il riferimen-to culturale o religioso che porta allepratiche di mutilazione.

Esse ancora rappresentano, secondouna lettura psicologica che ricorda imetodi ed i fini educativi antecedentiall’esplicitazione del pensiero diRousseau, un rituale iniziatico, con ilcompito di trasformare un essere prove-niente dal mondo marginale e poten-zialmente pericoloso della natura, ossiail bambino, in un individuo sociale.

Certamente nei Paesi d’origine, maanche in Europa, in contesti chiusi dialcune etnie, una ragazza non circonci-sa o non infibulata diventa oggetto discherno, e di disprezzo e spesso ècostretta a lasciare la sua comunità, nonavendo possibilità di sposarsi.

I genitali della donna non infibulatasono considerati da alcune popolazionibrutti e si ritiene che, se non recisi, cre-sceranno a dismisura.

Al di là di fabulazioni, tradizioni,credenze, appare evidente come lemutilazioni genitali femminili altro nonsiano che uno strumento finalizzato allasottomissione della donna ed al control-lo della sua sessualità.

Nell’Africa sub Sahariana questepratiche costituiscono l’espressionesimbolica di un complesso sistema eco-nomico sociale di strategie matrimonia-

li, fondato sul prezzo della sposa, cioèsul compenso che il futuro marito ver-serà alla famiglia della futura moglie.

Le mutilazioni genitali femminilirappresentano una protezione della ver-ginità femminile e del suo valore eco-nomico.

In tali contesti le donne hanno barat-tato con questa pratica terribile unacerta quota di libertà.

Non a caso quelle che subiscono unaforma più rigorosa di mutilazione e chesono quindi maggiormente protettedalle tentazioni sessuali, come leEtiopi, sono libere di muoversi, di avererapporti sociali, di indossare abiti sgar-gianti.

Laddove invece si applicano formepiù lievi di mutilazione, le donne ven-gono immediatamente coperte e perdo-no libertà di movimento.

Le misure di rilevanza giuridicaassunte nei diversi Paesi che hannosubìto ed accolto le ondate migratorie, enei quali le etnie africane rappresentanouna minoranza, non vanno solo nelladirezione di una normativa penale adhoc, con la punizione dei colpevoli,anche se genitori e medici, ma si fannocarico della protezione di chi rischia disubire mutilazioni al rientro nel Paesed’origine.

Il Parlamento europeo ha infattiimpegnato i Paesi membri all’armoniz-zazione delle misure di protezione sup-plementare relative allo status di rifu-giato da applicarsi in particolare allepersone che non possono tornare alPaese d’origine perché rischiano diessere sottoposte a violenze sessuali, olegate all’appartenenza al sesso o a trat-tamenti inumani o umilianti.

La politica dei Paesi europei passaattraverso il riconoscimento dello “sta-tus di rifugiate” secondo la conven-zione di Ginevra del 1951, anche se conil mezzo di una interpretazione estensi-va.

“Rifugiato è colui che temendo aragione di essere perseguitato per moti-vi di razza, religione, nazionalità,appartenenza ad un determinato grupposociale o per le sue opinioni politiche, sitrova fuori dello Stato di cui è cittadinoe non può o non vuole, a causa di questotimore, avvalersi della protezione diquesto Stato”.

Non essendo previsto dallaConvenzione il riferimento al genere,

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perlopiù si riconosce come grupposociale quello delle donne perseguitateper le mutilazioni genitali femminili, osi afferma che la mutilazione genitalepuò essere assimilata alla persecuzionepolitica.

Le decisioni dei Paesi dell’Unioneconformi a questa interpretazione dellaConvenzione di Ginevra cominciano adessere in numero significativo.

In Belgio una donna ha ottenuto lostatus di rifugiata, in quanto temeva chese fosse ritornata nel suo Paese d’origi-ne sarebbe stata nuovamente infibulata,dopo la nascita del figlio.

Nel 1991 in Francia, la Corted’Appello di Parigi ha riconosciuto chele mutilazioni genitali femminili sonouna persecuzione ai sensi dellaConvenzione di Ginevra.

La Gran Bretagna ha riconosciuto lo“ status di rifugiate politiche” a duesorelle etiopi a rischio di infibulazionecon la motivazione che esse appartene-vano a “un gruppo sociale”.

Anche al di fuori della UE laConvenzione di Ginevra viene applica-ta con interpretazione estesa al genere;gli Usa hanno, ad esempio, riconosciu-to lo status di rifugiata per due gruppi:quello delle donne escisse e quello delledonne non ancora escisse (ma, ovvia-mente, soggette al rischio di venirlo).

Quanto all’Italia, occorre sottolinea-re che, posto che il requisito determi-nante per l’individuazione del rifugiato,secondo la Convenzione di Ginevra, è ilfondato timore di essere perseguitato,esso costituisce una nozione ristretta seconfrontata con il diritto assicurato dal-l’art. 10 c. 3 della nostra Costituzione,secondo cui ha diritto di asilo nel terri-torio della Repubblica, secondo le con-dizioni stabilite dalla legge, lo straniero“al quale sia impedito l’effettivo eserci-zio delle libertà democratiche garantitedalla Costituzione italiana”.

La giurisprudenza del consiglio diStato (sez. 4, 11/7/2002, n. 3874) hachiarito che la posizione di rifugiato sipone come species rispetto al genuscostituito dal diritto di asilo.

Recentemente il decreto legislativo25/2008 n. 40 ha introdotto strumenti ditutela e procedure relative al diritto d’a-silo, offrendo probabilmente una corsiapreferenziale alle donne soggette alrischio di mutilazioni genitali femmini-

li, laddove esse vengano ritenute appar-tenere alla categoria delle persone vul-nerabili indicate dall’art. 8 del decretolegislativo 30/5/2005 n. 140: “l’acco-glienza è effettuata in considerazionedelle esigenze dei richiedenti asilo e deiloro familiari, in particolare delle per-sone vulnerabili quali minori, disabili,anziani, donne in stato di gravidanza,genitori singoli con figli minori, perso-ne per le quali è stato accertato chehanno subito torture, stupri o altreforme gravi di violenza psicologica,fisica o sessuale”.

Prima dell’entrata in vigore dellalegge sopra richiamata costituivacomunque meccanismo di protezionel’art. 19 del TU sull’immigrazione(D.L.vo 25/7/98, n. 286), che vieta ilrespingimento o l’espulsione verso unoStato in cui lo straniero possa essereoggetto di persecuzione per motivi disesso.

Quanto agli aspetti interpretativi,vale la pena di ricordare che il Giudicedi Pace di Perugia ha accolto il ricorsodi una nigeriana contro il decreto diespulsione che metteva a rischio lafiglia di 7 anni di essere sottoposta allemutilazioni genitali femminili, e che lagiurisprudenza della Corte diCassazione ha ritenuto che le contro-versie relative ai dinieghi di riconosci-mento dello status di rifugiato politico,ivi comprese quelle relative al diniegodel permesso di soggiorno, rientrasseronella giurisdizione dell’autorità giudi-ziaria ordinaria, in quanto attinenti aposizioni di diritto soggettivo, relativeallo status (Cass., sez unite 7/12/99, n. 907).

Sul versante della tutela penale, tragli stati membri UE, la Francia, come siè detto, è il paese più prolifico di deci-sioni.

Ha perseguito le mutilazioni genitalifemminili a mente della norma delcodice penale che punisce la mutilazio-ne, l’amputazione, la privazione dell’u-so di un membro o la morte provocatesui minori senza che l’autore le abbiavolute intenzionalmente.

Fin dal 1983 una sentenza dellaCorte di Cassazione francese stabilivache l’escissione dovesse considerarsiuna mutilazione; sulla scia di tale deci-sione vennero celebrati numerosi pro-cessi a carico di genitori e di chi avevadi fatto compiuto la mutilazione.

Nel 1999 la Corte d’Assise di Parigiha emesso 25 condanne per mutilazionisessuali, estese a medici ed ai parentidelle vittime. Le pene perlopiù sonostate lievi e la loro esecuzione sospesa.

In tutti questi processi tenutisi inFrancia sono emerse alcune questioni,principalmente quella relativa all’igno-ranza della legge: spesso le personeimputate non conoscono la lingua e,peraltro, l’incriminazione discende dal-l’interpretazione giurisprudenziale diun articolo di legge che non descrivechiaramente la condotta riconducibilealle mutilazioni genitali.

Anche l’elemento soggettivo èapparso di problematica individuazio-ne: i genitori non pensano di far male,sono, anzi, convinti di agire per il benedelle figlie.

Altro aspetto di criticità è emerso dalconflitto normativo tra la legge france-se e la tradizione dei Paesi d’origine,che presenta forti connotati normativi edal dubbio che l’interesse delle vittimesia contrario al precetto penale, soprat-tutto quando il progetto migratorio siasolo temporaneo e quindi le bambinecorrano il rischio di essere definitiva-mente espulse dal contesto sociale alloro ritorno in patria.

Passando ad altri Paesi europei, laSvezia si è dotata sin dal 1983 di unalegislazione specifica, seguita dalRegno Unito nel 1985 e poi ancheAustria, Belgio, Danimarca, Spagna.

Nel Regno Unito, anche a seguitodel Children’s Act del 1989, non solo lalegge punisce anche tutti coloro cheaiutino, incitino, consiglino, o fornisca-no mezzi ad un terzo per praticare leMGF, ma sussiste l’obbligo per le auto-rità locali di investigare se abbiano ilsospetto che un bambino o una bambi-na ricadente nella loro giurisdizione siaa rischio di subire un danno e debbonointervenire con le misure necessarie,compresa la sospensione della potestàgenitoriale.

Tale obbligo sussiste anche in Italiaed i Tribunali per i Minorenni ed iGiudici ordinari dovrebbero vigilare edagire anche ai sensi degli artt. 330/333c.c., nell’ottica in cui i provvedimentirelativi alla potestà genitoriale non deb-bono considerarsi misure sanzionatoriedi una cultura di diverse etnie, ma atti ditutela preventiva delle bambine.

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Quanto all’Italia giova ricordare cheanche prima dell’intervento dellanovella del 2006 che ha introdotto laprevisione di un reato specifico, alcunicasi di mutilazioni genitali femminilierano giunti all’attenzione dei nostriGiudici penali.

Il primo si è concluso con un senten-za di condanna (per lesioni personaligravi, ex art. 583 c. 1 n. 2 per indeboli-mento permanente dell’apparato geni-tale) a carico di un immigrato egizianoche, in occasione di una vacanza inEgitto, aveva fatto amputare il clitoridealla figlia di dieci anni, nata da unmatrimonio misto con una italiana, laquale, al rientro della figlia in Italia,aveva denunciato il fatto (T. Milano25/11/1999, El Namr, Dir. immigr. cit-tad. 2000, 148).

Un secondo caso è stato, invece,affrontato dal Tribunale penale diTorino: alcuni medici avevano denun-ciato per lesioni personali gravissime igenitori nigeriani di una bambina cheera stata sottoposta ad un intervento diasportazione parziale delle piccole lab-bra e del clitoride nel Paese d’origine: ilprocedimento si è, tuttavia, conclusocon un decreto d’archiviazione, richie-sto dallo stesso PM per “mancanza dicondizioni per legittimare l’eserciziodell’azione penale”.

E veniamo al delitto di mutilazionedegli organi genitali femminili previstodall’art. 583 bis c.p., che punisce con lareclusione da 4 a 12 anni “chiunque inassenza di ragioni terapeutiche cagioniuna mutilazione degli organi genitalifemminili”.

Senza scendere nella specificadescrizione delle condotte, che ricom-prendono tutte le pratiche riconducibilialla classificazione data dall’OMS eche vedono modulata la pena in funzio-ne anche della maggiore menomazionedelle funzioni sessuali e della eventualemalattia conseguente e, ancora, delfatto che soggetto della pratica sia unaminore, ovvero che il reato sia com-messo per fini di lucro, è opportuno sof-fermarsi su alcuni aspetti particolari.

In primo luogo, con riferimento allacondotta si pone il problema dellariconducibilità alla norma in esamedelle procedure di deinfibulazione ereinfibulazione.

Il primo intervento consiste nellarimozione della sutura per consentire

l’apertura dell’orifizio vaginale, prece-dentemente chiuso mediante infibula-zione, ed è tradizionalmente praticatain occasione del primo rapporto sessua-le della donna ovvero durante il parto.

“Poiché a tale intervento chirurgicosono sottese precise indicazioni medi-che, può ritenersi che detta procedurasia sempre praticata in presenza di esi-genze terapeutiche, mirando a ripristi-nare almeno una parte delle funzionisessuali della donna”. (Cfr. digestodelle discipline penalistiche, aggiorna-mento, 2008, Tomo 1, a cura di AlfredoGoito, con la collaborazione di M.Ronco o C. Santoriello, F. Giunchea,pag. 570-Voce Infibulazione).

La reinfibulazione, cioè il ripristino,su un corpo già mutilato delle preesi-stenti suture appare, invece, rientrarenell’ambito della condotta del reatoaggravato di cui al II comma, cagionan-do una apprezzabile riduzione dellafunzionalità degli organi genitali, sep-pure già mutilati.

In secondo luogo la novella normati-va si segnala perché colma una lacunadel sistema altrimenti difficilmentesuperabile.

Infatti, almeno nei casi riguardantidonne maggiorenni, le quali, cosciente-mente e consapevolmente, si sottopon-gano ad una delle pratiche indicate nel-l’art. 583 bis, non si potrebbe riteneresussistente il reato di lesioni personalivolontarie.

Infatti, esso presuppone il dissenso ocomunque la carenza di consenso dellapersona offesa, mentre nelle ipotesiappena descritte si ha una situazioneche non configurerebbe reato in quantole pratiche sono accettate o consentite.Senza un esplicito divieto, quale quellointrodotto dalla novella, si sarebberosollevati dubbi sulla invalidità e irrile-vanza dell’eventuale consenso prestatodalla donna maggiorenne. Invece, l’art.583 bis, introducendo, per legge, ildivieto delle pratiche mutilative, dàrilevanza al disposto dell’art. 5 delcodice civile (atti di disposizione delproprio corpo) consentendo di configu-rare il consenso carente perché invalidoe come tale equiparabile al dissenso.

Resta tuttavia il forte dubbio sull’ap-plicabilità della scriminante di cuiall’art. 50 c.p. ai fatti di lesione ricondu-cibile al II comma dell’art. 583 bis c.p.

Le pratiche ivi previste incidonosulle funzioni sessuali della donnasenza determinare una diminuzionepermanente delle stesse o dell’integritàfisica, né possono essere consideratecontrarie alla legge, all’ordine pubblicoo al buon costume, secondo l’interpre-tazione vigente nel settore penale del-l’ordinamento.

A dire il vero, qualche dubbio sussi-ste anche rispetto alle condotte ricondu-cibili al I comma del citato articolo,posto che l’ordinamento giuridicovigente ammette compromissioni per-manenti dell’integrità fisica anche piùinvasive rispetto a numerose forme dimutilazione genitale femminile, come,ad esempio, gli interventi per il muta-mento di sesso o la sterilizzazione con-sensuale non terapeutica.

Nulla quaestio, invece, sulla inappli-cabilità per irrilevanza della scriminan-te dell’esercizio del diritto, non poten-do essere validamente invocato l’eser-cizio di una libertà religiosa che nonpuò incidere sul diritto alla salutegarantito dall’art. 32 dellaCostituzione.

Altro profilo critico della normativaè il dolo specifico richiesto e costituitodall’agire al fine di menomare le fun-zioni sessuali della donna o della bam-bina.

L’espressione appare di incertainterpretazione, soprattutto ove si con-sideri che le pratiche di mutilazione nonhanno detto scopo specifico, ma piutto-sto quello di introdurre con un atto sim-bolico la bambina o la donna nel conte-sto sociale dell’etnia d’origine.

Il “fine di menomare le funzioni ses-suali” potrebbe essere interpretatocome “fine di alterare le funzioni ses-suali”, evitando così che tali pratichericadano nelle disposizioni di cuiall’art. 582 c.p. per assenza del dolospecifico richiesto dalla norma specia-le.

Inoltre, secondo Ronco (art. 583 bisin Cod. Pen. Ipertestuale Torino 2007),l’espressione utilizzata dal legislatoresottintenderebbe il concetto di “incide-re sul piacere sessuale” con la conse-guente esclusione dalla fattispecie degliinterventi volti a stimolare il piaceresessuale attraverso modalità trasgressi-ve di esibizione dei genitali esterni, (adesempio l’introduzione di piercing,ecc.).

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Interessante notare come per gli Entinella cui struttura siano commessi idelitti di mutilazioni genitali femminilisia prevista l’irrogazione di una sanzio-ne pecuniaria da 300 a 700 quote e dellesanzioni interdittive di cui all’art. 9,comma II del Dlgs 231/2001 (interdi-zione dall’esercizio dell’attività,sospensione o revoca di autorizzazioni,licenze, o concessioni funzionali allacommissione dell’illecito, divieto dicontrattare con la PubblicaAmministrazione, ecc...), per una dura-ta non inferiore ad un anno, con revoca

dell’accreditamento e l’interdizionedefinitiva dell’esercizio dell’attività exart. 16 comma III del predetto Dlgs.231/2001, se l’ente o una sua unitàorganizzativa sia stabilmente utilizzatoper consentire o agevolare la commis-sione delle mutilazioni genitali femmi-nili.

Interessante e certamente utile allefinalità che si propone la novella è lapunibilità delle pratiche anche se com-messe all’estero, allorquando l’agentesia cittadino italiano o straniero resi-dente in Italia, ovvero la persona offesa

sia cittadino italiano o straniero resi-dente in Italia.

Non rileva, invece la circostanzadell’attualità della presenza in Italia.

La formulazione della norma che pre-vede come condizione di procedibilità larichiesta del Ministro della Giustizia,appare infelice, posto che non è chiaro setutte le ipotesi di reato commesse all’e-stero siano subordinate a detta richiestao se lo sia solo quella del fatto commes-so in danno di cittadino italiano o di stra-niero residente in Italia.

Silvana Fantini

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L’universo dei rifugiati è un magmaribollente di vite, morti e resurrezio-

ni. Impossibile fotografarlo con preci-sione: secondo i dati Acnur (l’AltoCommissariato delle Nazioni Unite per iRifugiati), la fine del 2007 avrebbe con-tato 16 milioni di rifugiati nel mondo,mentre gli sfollati per conflitti e catastro-fi naturali (Internally displaced persons)ammonterebbero a 51 milioni circa. Mamai come in questo caso le cifre rincor-rono inutilmente la realtà: le colonne diprofughi invadono i mari e le terre, sfi-dano valli e deserti, mentre i numeri pos-sono solo intercettarne le traiettorie,seguirne le impronte, contare i caduti.

Ecco perché la presenza, insperata equasi rocambolesca, di una disciplinaorganica del diritto di asilo al gran galàper i 60 anni della DichiarazioneUniversale dei diritti dell’uomo ha, peril nostro Paese, un sapore particolare.Risarcitorio, anzitutto: solennementebattezzato dalla Costituzione repubbli-cana, l’istituto dell’asilo è rimasto lette-ra morta per mezzo secolo, soffocato dalimitazioni e opportunismi diplomatici.

Frutto di una gestazione durata,anch’essa, 60 anni, il nuovo sistema diprotezione internazionale – contenutonei D. Lgs. 251/2007 e 25/2008, di rece-pimento delle direttive comunitarie2004/83/CE, c.d. “direttiva qualifiche”, e2005/85/CE, c.d. “direttiva procedure” –offre una compiuta rimodulazione dellerelative categorie giuridiche e fornisceuna serie di fondamentali strumenti ditutela della vita e della dignità umana.

Come è noto la competenza a deci-dere di una domanda di asilo è attribui-ta alle Commissioni territoriali per ilriconoscimento della protezione inter-nazionale, istituite presso la Prefetture– U.T.G. e composte da un funzionariodella carriera prefettizia (con funzioni

di presidente), un funzionario dellaPolizia di Stato, un rappresentante di unente territoriale e un rappresentantedell’Acnur.

L’art. 20 del D. Lgs. 25/2008 chiari-sce che il richiedente asilo “non puòessere trattenuto al solo fine di esami-nare la sua domanda”. La medesimanorma prevede peraltro che il medesi-mo venga ospitato presso un Centro diaccoglienza richiedenti asilo (C.a.r.a.),per un periodo di tempo non superiore a20 giorni, qualora sia necessario verifi-carne o determinarne nazionalità eidentità.

La permanenza può aumentare fino a35 giorni nel caso in cui lo stranieroabbia presentato lo domanda dopo esse-re stato fermato per ingresso irregolare,in condizioni di soggiorno irregolare,oppure già destinatario di un provvedi-mento di espulsione non adottato permotivi di pericolosità sociale.

È invece previsto il trattenimentopresso un Centro di identificazione edespulsione (C.i.e., gli ex C.p.t.) delrichiedente asilo resosi responsabile dicrimini contro la pace o gravi crimini didiritto comune, oppure condannato inItalia per uno dei delitti previsti dall’art.380, c. 1 e 2, c.p.p. ovvero per reati ine-renti gli stupefacenti, la libertà sessua-le, lo sfruttamento della prostituzione odi minori, il favoreggiamento dell’im-migrazione clandestina, o infine desti-natario di un provvedimento di espul-sione adottato per motivi di pericolositàsociale.

Qualora non ricorrano le condizio-ni per l’accoglimento o il trattenimen-to del richiedente, al medesimo vienerilasciato un permesso di soggiornovalido per tre mesi e rinnovabile finoalla definizione della procedura avan-ti la Commissione territoriale.

La nuova disciplina disegna tempi

estremamente contenuti: il colloquiodovrebbe tenersi entro 30 giorni dalricevimento della domanda da partedella Commissione, che provvede alladecisione entro i successivi tre giorni.Particolare celerità è prevista per leistanze palesemente fondate, quelleavanzate da minori, anziani, donne instato di gravidanza e altre categorie vul-nerabili, nonché dai richiedenti accoltipresso un C.a.r.a. o trattenuti presso unC.i.e.

Come segnalato, la principale novitàdella disciplina consiste nella più cheopportuna ridefinizione delle categoriegiuridiche che qualificano l’ambitodella protezione internazionale.

All’esito dell’audizione, infatti, laCommissione territoriale può adottaretre tipologie di decisione: riconoscereuna forma di protezione internazionale– lo status di rifugiato oppure la c.d.protezione sussidiaria – rigettare larichiesta tout court oppure rifiutare laprotezione internazionale ma accertarela sussistenza di gravi motivi di caratte-re umanitario.

Muovendo dalla Convenzione diGinevra del 1951, a tenore della quale ilrifugiato è colui il quale “nel giustifica-to timore d’essere perseguitato per lasua razza, la sua religione, la sua citta-dinanza, la sua appartenenza a undeterminato gruppo sociale o le sueopinioni politiche, si trova fuori delloStato di cui possiede la cittadinanza enon può o, per tale timore, non vuoledomandare la protezione di dettoStato”, il legislatore provvede final-mente a definire natura e portata di que-gli atti persecutori che ne identificanol’essenza.

Questi ultimi possono consistere inepisodi di violenza fisica o psichica,provvedimenti legislativi e amministra-tivi discriminatori, azioni giudiziarie o

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DIRITTO DI ASILO: L’OSPITE INATTESO

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sanzioni penali sproporzionate o discri-minatorie, rifiuto di accesso ai mezzi ditutela giuridici, e devono essere ricondu-cibili a motivi di razza, religione, nazio-nalità, appartenenza ad un particolaregruppo sociale od opinione politica.

Lo status di persona ammissibilealla protezione sussidiaria deve inveceessere riconosciuto allo straniero che,pur non possedendo i requisiti del rifu-giato, in caso di rientro in patria corre-rebbe un rischio effettivo di subire ungrave danno (dalla condanna a mortealla tortura, dai trattamenti inumani odegradanti fino alla minaccia all’inco-lumità dovuta ai conflitti armati).

La linea di demarcazione tra i dueistituti, diversi ma complementari, èdunque netta: da un lato il pericolo diuna persecuzione di natura individuale,

dall’altro l’eventualità di violenze eabusi, anche a carattere generalizzato.

Qualora la Commissione non ritengasussistere tali requisiti, nondimeno puòravvisare l’esistenza di gravi motivi dicarattere umanitario, segnalando allaQuestura l’opportunità di rilasciare alrichiedente un permesso di soggiorno aisensi dell’art. 5, c. 6, T.U. Immigrazione.

Notevoli modifiche sono state appor-tate anche in tema di rimedi giurisdizio-nali. Avverso un provvedimento di dinie-go di protezione internazionale, a cuiconsegue l’obbligo di lasciare il territorionazionale alla scadenza del termine perl’impugnazione, è possibile ricorreredinanzi al Giudice ordinario (vertendosiin tema di diritti soggettivi perfetti).

Il ricorso deve essere presentato

avanti il Tribunale che ha sede nel capo-luogo di distretto di Corte d’Appello incui ha sede la Commissione territorialeche si è pronunciata, entro 30 giornidalla comunicazione del medesimo(termine ridotto a 15 giorni in caso ditrattenimento del richiedente presso unC.i.e.). La proposizione del ricorso, cir-costanza di particolare rilievo, compor-ta la sospensione dell’efficacia delprovvedimento impugnato, con conse-guente rilascio di un permesso di sog-giorno per richiesta di asilo valido finoal termine della procedura.

Il Tribunale sente le parti e assumetutti i mezzi di prova necessari con lemodalità dei procedimenti in camera diconsiglio; quindi, entro tre mesi dallaproposizione del ricorso, decide con sen-tenza reclamabile in Corte d’Appello.

All’accertamento dello status dirifugiato conseguono un permesso disoggiorno di validità quinquennale rin-novabile, il titolo di viaggio per stranie-ri, una serie di agevolazioni per il ricon-giungimento familiare, l’accessoall’occupazione (anche nel pubblicoimpiego, alle medesime condizioni pre-viste per i cittadini Ue).

Ai titolari della protezione sussidia-ria viene invece rilasciato un permessodi soggiorno triennale (rinnovabile pre-vio parere della competente Com-missione, che deve pronunciarsi sullapermanenza delle condizioni che nehanno imposto il rilascio), oltre allapossibilità di ottenere un titolo di viag-gio qualora il medesimo non possarichiedere il passaporto alle autoritàdiplomatiche del proprio Paese.

La sfida, dunque, si sposta ora sulpiano dell’effettività delle garanzie. Lacronaca infatti testimonia violazioniintollerabili per un Paese civile (dai rim-patri collettivi ai dinieghi di accesso allaprocedura di asilo) e preannuncia unaserie di emendamenti, sorprendente-mente tempestivi, di impronta restritti-va: limitazione del diritto di circolazionesul territorio nazionale del richiedente edabrogazione dell’efficacia sospensivadel ricorso in sede giurisdizionale.

Disattendere le aspettative o, peggioancora, ricacciare i richiedenti asilo nellimbo della transitorietà tradirebbe lesperanze di chi già conosce e soffre,nelle parole del premio Nobel nigerianoWole Soyinka, quel surrogato della vitache è l’esilio.

Maurizio Veglio

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Fotografia tratta da: Voci Contro il Potere. Difensori dei Diritti Umani che stanno cambiando il mondodi Kerry Kennedy, fotografie di Eddie Adams, a cura di Nan Richardson. Umbrage Editions, distribuitoda Logos. © 2000 Eddie Adams

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1. La sollecitazione comunitaria

Da tempo c’è forte polemica sullesignificative difficoltà per le parti leseda reati di ottenere un risarcimento.Questa situazione delle vittime si èsempre più aggravata ed è particolar-mente evidente in Italia: tralasciamo inumerosissimi casi in cui il responsabi-le neppure viene individuato (tanto chenell’ambito della microcriminalitàspesso il cittadino neppure denuncia ilfatto) ed i deprimenti dati statistici sutale aspetto snocciolati annualmentedai Procuratori Generali, e pensiamo aitanti fatti (omicidi, stupri, lesioni perso-nali, sinistri mortali in stato di ubria-chezza, furti, rapine, ecc.) il cui esito èla scarcerazione del responsabile, subi-ta dalla parte lesa o dai suoi eredi ofamiliari come ulteriore e più odiosaoffesa, spesso in assenza di ogni risarci-mento anche a fronte di condanna.Pensiamo altresì ai tanti casi in cui gliimputati approfittano degli arrestidomiciliari per rendersi latitanti, oancora alle situazioni in cui la vittima,stante le condizioni economiche del suooffensore, non può azionare utilmentele sue pretese risarcitorie.

Per tutelare le vittime in queste ipo-tesi già il Consiglio d’Europa, con laConvenzione europea sul risarcimen-to delle vittime di crimini violenti del1983, impegnava i Paesi aderenti adadottare un sistema di risarcimento sta-tale per le vittime di reato violento eintenzionale impossibilitate a conse-guire una copertura risarcitoria daglioffensori.

Successivamente, stante la mancataadozione da parte di alcuni Paesi – tracui l’Italia – di tale disciplina, venivaemanata la Direttiva 2004/80/CE del29 aprile 2004 con oggetto l’adozione

da parte degli Stati membri che ancoranon si erano adeguati alla Convenzionedel 1983 di un sistema che garantisse ilrisarcimento delle vittime di reati vio-lenti ed intenzionali.

Tra le tappe fondamentali del per-corso che hanno condotto alla Direttiva2004/80/CE si possono ricordaresoprattutto le seguenti:– Parlamento Europeo: Risoluzione

sulle vittime di violenza criminale(1989);

– Consiglio Europeo, riunione diTampere (15 e 16 ottobre 1999): inquesta occasione il Consiglio solle-citò l’elaborazione di “norme mini-me sulla tutela delle vittime dellacriminalità, in particolare sull’ac-cesso delle vittime alla giustizia e suiloro diritti al risarcimento dei danni,comprese le spese legali”; lo stessoConsiglio auspicò, comunque, l’ade-sione degli Stati membri allaConvenzione europea del 1983;

– Parlamento europeo: Risoluzionesulle vittime di crimini nell’Unioneeuropea (2001);

– adozione il 15 marzo 2001 da partedel Consiglio d’Unione Europeadella Decisione quadro relativa allaposizione della vittima nel procedi-mento penale;

– il Libro Verde “Risarcimento allevittime di reati”, presentato dallaCommissione in data 28 settembre2001, che avviava, come di prassi,“una consultazione con tutte le partiinteressate sulle possibili misure daadottarsi a livello comunitario permigliorare il risarcimento da partedello Stato delle vittime di reatiall’interno dell’Unione europea” 1.Infine, dopo questi vari passaggi, il

legislatore comunitario è approdato allacitata Direttiva 2004/80/CE delConsiglio del 29 aprile 2004 “relativa

all’indennizzo delle vittime di reato”.Le motivazioni addotte dalla

Commissione per l’adozione delladirettiva sono state essenzialmente leseguenti:– “le vittime di reato nell’Unione euro-

pea dovrebbero avere il diritto diottenere un indennizzo equo e ade-guato per le lesioni subite, indipen-dentemente dal luogo della Comunitàeuropea in cui il reato è stato com-messo” (considerando n. 6);

– poiché “le vittime di reato, in molticasi, non possono ottenere un risarci-mento dall’autore del reato, in quan-to questi può non possedere le risorsenecessarie per ottemperare a unacondanna al risarcimento dei danni,oppure può non essere identificato operseguito” (considerando n. 10),“dovrebbe essere pertanto istituito intutti gli Stati membri un meccani-smo di indennizzo” (considerando n. 7), tale da garantire i cittadini euro-pei sia nel proprio Stato di residenza(per i reati ivi commessi) e sia all’e-stero, qualora colpiti da un crimine inuno Stato dell’Unione europea diver-so da quello di residenza.Importante rilevare che il Consiglio

dell’Unione europea segnalava, perl’appunto a giustificazione dell’inter-vento in questione, come del resto “lamaggior parte degli Stati membri[avesse] già istituito questi sistemi diindennizzo, alcuni di essi in adempi-mento dei loro obblighi derivanti dallaconvenzione europea del 24 novembre1983 sul risarcimento alle vittime diatti di violenza” (considerando n. 8).

Fulcro della Direttiva 2004/80/CE èil disposto dell’art. 12:

1. Le disposizioni della presentedirettiva riguardanti l’accesso all’in-dennizzo nelle situazioni transfron-

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VITTIME DI REATO E DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO

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taliere si applicano sulla base deisistemi degli Stati membri in materiadi indennizzo delle vittime di reatiintenzionali violenti commessi neirispettivi territori.

2. Tutti gli Stati membri provvedonoa che le loro normative nazionaliprevedano l’esistenza di un sistemadi indennizzo delle vittime di reatiintenzionali violenti commessi neirispettivi territori, che garantisca unindennizzo equo ed adeguato dellevittime.

Il comma 2 dell’art. 12 dellaDirettiva, pertanto, è assolutamentechiaro nel sancire l’obbligo per gli Statimembri (Italia compresa) di approdaread un risultato ben preciso, quelloconsistente nell’istituzione a favoredelle vittime di reati intenzionali vio-lenti, impossibilitate a conseguire unrisarcimento dagli autori delle con-dotte criminose in questione, di unmeccanismo di “compensation” (così laversione inglese), cioè di un sistematale da garantire a queste vittime ildiritto alla corresponsione, da partedello Stato di appartenenza/residenza,di somme risarcitorie necessariamen-te “eque ed adeguate” (nella versionefrancese: “indemnisation juste etappropriée des victimes”; nella versio-ne inglese: “fair and appropriate com-pensation”; nella versione spagnola:“ indemnización justa y adecuada porlos perjuicios sufridos”).

La Direttiva non precisa quali sianoesattamente i contenuti minimi delrisarcimento da riconoscersi in capoalle vittime di reati violenti intenziona-li, né i criteri di liquidazione: agli Stativiene posta unicamente la condizione-risultato che le somme risarcite sianoeque ed adeguate, criteri questi cheperaltro paiono indicare una natura piùrisarcitoria che indennitaria della tutelarimediale apprestata dal legislatorecomunitario.

In merito alla scelta tra “indennizzo”e “risarcimento”, che come sappiamopossono dare effetti molto diversi nellaquantificazione, vale la pena rilevareche il Libro Verde della Commissioneeuropea, aveva sempre utilizzato,anche nella versione italiana, l’espres-sione “risarcimento” e che la stessa tra-duzione in italiano della Convenzioneeuropea del 1983 utilizzava quest’ulti-ma espressione. L’adozione del termine

“indennizzo” è quindi il frutto dellapenna dei traduttori o, comunque, cura-tori della versione italiana, non già dellegislatore europeo. Del resto, occorreconsiderare come nelle versioni inglesee francese non vi è stata alcuna muta-zione terminologica rispetto alle prece-denti impostazioni: nella versioneinglese si continua ad utilizzare l’e-spressione “compensation” e in quellafrancese il termine “indemnification”,concetti giuridici che, rapportati alnostro sistema, abbracciano sia la fatti-specie del risarcimento che quella del-l’indennizzo. Ed è esattamente in questiultimi termini che è da interpretarsi laDirettiva in esame, ogniqualvolta, nellaversione italiana, si rinviene il termine“indennizzo”, ossia nel senso diabbracciare sia l’ipotesi del risarcimen-to quanto quella dell’indennizzo, fermorestando che i requisiti di equità ed ade-guatezza, posti dalla Direttiva quali cri-teri che devono rispettare le sommeallocate dai sistemi nazionali di tuteladelle vittime di reati, sembrano indica-re come il modello sia più vicino a logi-che risarcitorie che indennitarie.

Essendo comunque chiaro che ilrisarcimento deve essere “equo” e“adeguato” e che l’obiettivo della disci-plina è di garantire un risarcimento aquelle vittime impossibilitate a conse-guire il risarcimento dei danni subitidagli autori materiali della condottapenalmente rilevante, si può agevol-mente dedurre come questo risarcimen-to debba necessariamente riguardarealtresì i pregiudizi non patrimoniali.

A questo preciso riguardo si osserviche la stessa Relazione esplicativa dellaConvenzione europea del 1983, comegià sopra illustrato, ha ammesso larisarcibilità di questi danni in seno alsistema statale di tutela delle vittime direati violenti intenzionali. Inoltre, nellamaggior parte degli Stati membri, chehanno attuato la Direttiva 2004/80/CE,il risarcimento dei danni non materiali èespressamente ammesso. Sul punto vasoprattutto ricordato come la stessaCommissione europea, nel Libro Verdedel 2001, abbia rilevato quanto segue,indicando una precisa via, sicuramenteutile anche ai fini dell’interpretazionedella direttiva stessa: “... se ci si richia-ma all’esigenza di adottare il punto divista della vittima, i danni non mate-riali non devono essere trascurati. [...]Escludere i danni non materiali cree-rebbe... grandi differenze tra quello che

la vittima può ottenere dallo Stato. [...]... sembrano profilarsi forti motivi perfare rientrare i danni non materialinella normativa minima”. Aggiungasidel resto come sostenere in tutta unaserie di casi che la disciplina in esamenon contempli anche (anzi, in primis) ilrisarcimento dei danni non patrimonia-li implicherebbe svuotare il sistemaistituito dal legislatore comunitario diqualsivoglia significato concreto (inaltri termini, la protezione risarcitoria si ridurrebbe a ben poca cosa, contra-riamente alle finalità perseguitedall’Unione europea).

2. La mancata adozione daparte dello Stato italianodella tutela rimediale predisposta dalla Direttiva 2004/80/CE

Il diritto al risarcimento dei dannisancito dal legislatore comunitario inseno alla Direttiva 2004/80/CE non haavuto attuazione dallo Stato italiano,che non si è ancora dotato di un sistemadi risarcimento/indennizzo nazionaleprevisto dall’art. 12, comma 2, dellaDirettiva, né tale carenza è stata supera-ta con l’emanazione del D.lgs. 9novembre 2007 n. 2042. Infatti, questoprovvedimento, seppur intitolato«Attuazione della direttiva 2004/80/CErelativa all’indennizzo delle vittime direato», non ha istituito, come laDirettiva imponeva, un sistema nazio-nale di risarcimento delle vittime deireati in questione.

Basta scorrere il testo di questodecreto legislativo in questione per ren-dersi conto come l’art. 12, comma 2,della Direttiva nonsia stato in alcunmodo contemplato, né si può conside-rare che ciò dipenda dall’esercizio daparte del legislatore delegato nostranodei margini di discrezionalità che ledirettive normalmente lasciano in capoagli Stati membri in sede di attuazione.

Nello specifico il Governo italiano,con una scelta ben precisa (estrema-mente riduttiva rispetto agli scopi per-seguiti dalla Direttiva) e pur nella con-sapevolezza di non avere ratificato laConvenzione europea del 1983 (dun-que, di essere già ampiamente in difettonella protezione delle vittime di reatiintenzionali e violenti), ha ritenuto lasufficienza, ai fini dell’attuazione dellaDirettiva, delle disposizioni emanate

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nel passato in Italia a favore di determi-natevittime di crimini, posizione delresto già sostenuta, senza successo,avanti la Corte di Giustizia nella causaC-112/07 terminata con la condannadell’Italia con sentenza del 29 novem-bre 2007, in cui la Repubblica Italianasi era difesa osservando “che determi-nate leggi già vigenti nell’ordinamentogiuridico italiano prevedono l’inden-nizzo delle vittime di atti di terrorismo edella criminalità organizzata nonchédelle vittime di richieste estorsive e diusura”.

Questa scelta del Governo italiano,riduttiva e volta al risparmio, è, tuttavia,palesemente contraria a quanto dispostodalla stessa Direttiva, perché, se è veroche alcune nostre leggi, emanate prece-dentemente alla Direttiva, prevedonointerventi economici a carico delloStato a favore di talune vittime di reati(peraltro in tutta una serie di casi senzaprevedere un equo ed adeguato risarci-mento/indennizzo), tuttavia ciascuna diqueste norme è ritagliata ad hoc perdeterminate e circoscritte categorie divittime – peraltro con trattamenti traloro differenziati quanto all’estensionedei risarcimenti/indennizzi accordati(dunque, con la prospettiva di una

discriminazione tra vittime non ammes-sa dall’ordinamento comunitario), alcu-ne delle quali (vittime dei reati di usuraed estorsione) neppure rientranti nellanozione di vittime di “reati violenti” –,con la conseguenza che – in senso con-trario agli obiettivi della Direttiva edell’art. 12 della stessa – tutta unaserie di vittime di reati violenti edintenzionali decisamente gravi (sipensi ai casi di omicidio non ricolle-gabili a fenomeni di terrorismo o dimafia, oppure allo stupro) rimango-no indubbiamente escluse dalla tutelaapprestata dalla Direttiva.

I casi di stupro sono emblematiciquanto all’inadempimento dello Statoitaliano: come risulta confermato dallacomparazione delle varie schede pubbli-cate sul «Judicial Atlas - Compensationto Crime Victims», accessibile sul sitodella Commissione Europea, in tutti gliStati membri dell’Unione europea (ivicompresi quelli che non hanno ancoraratificato la Convenzione europea del1983), ad eccezione delle sole Greciaed Italia, tutte le vittime di criminiimplicanti violenze sessuali sono tute-late in conformità a quanto statuitodalla Direttiva 2004/80/CE, essendosinegli ultimi anni adeguate agli obiettivi

comunitari anche Lituania, Lettonia,Polonia, Slovacchia, Slovenia, Ungheriae Bulgaria. In altri termini, il trattamen-to, a livello di tutela risarcitoria stata-le, oggi riservato dallo Stato italianoalle donne stuprate in Italia3 – sianoesse residenti oppure turiste o lavora-trici di altri Paesi – risulta palesemen-te carente rispetto agli altri Statimembri dell’Unione europea, con evi-dente discriminazione di chi abbia lasventura di subire violenze di questo tiponel nostro Paese rispetto a chi sia colpitodagli stessi eventi in altri Statidell’Unione europea (discriminazionemanifestamente contraria agli obietti-vi della Direttiva, imperniati sulla libe-ra e sicura circolazione delle personenell’Unione europea).

3. Le conseguenze a caricodello Stato italiano per l’omessa adozionedella Direttiva 2004/80/CE

Il cittadino italiano, dinanzi asituazioni di gravi omissioni da partedel proprio legislatore nell’assolvi-mento dei suoi obblighi sorgenti dallapartecipazione all’Unione europea,

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dispone, laddove pregiudicato dall’i-nadempimento del proprio Stato, diun solo strumento di tutela rimedia-le: l’affermazione, per via giudizia-ria, della responsabilità civile delloStato inadempiente e la condanna diquest’ultimo al risarcimento deidanni.

La ravvisabilità di una siffattaresponsabilità civile dello Stato sem-bra ormai pacifica sia nella giurispru-denza comunitaria e sia nella giuri-sprudenza italiana ed essa è sicura-mente ravvisabile nei casi di violazio-ne da parte dello Stato italiano deldiritto delle vittime di reato violento alrisarcimento dei danni.

Sul punto occorre segnalare la giuri-sprudenza della Corte di GiustiziaCE, come noto determinante in mate-ria, la quale fa derivare la responsabilitàcivile degli Stati membri dall’art. 10 delTrattato CE (oggi art. 4 Trattato UE)che impone agli Stati di adottare “tuttele misure di carattere generale e parti-colare” finalizzate agli scopi delTrattato, nonché, per quanto concernenello specifico la mancata o tardivaattuazione di direttive, dall’obbligo pergli Stati membri di raggiungere il risul-tato prefissato dalle direttive (art. 249,comma 3, del Trattato CE, oggi art. 288Trattato UE: “La direttiva vincola loStato membro cui è rivolta per quantoriguarda il risultato da raggiungere,salva restando la competenza degliorgani nazionali in merito alla forma eai mezzi”).

Sulla posizione della Corte diGiustizia CE si può succintamentericordare come abbia costituito unvero e proprio punto di svolta l’ormaistorica sentenza Francovich c.Repubblica Italiana e Bonifici c.Repubblica Italiana (Corte diGiustizia CE, 19 novembre 1991,cause riunite C-6/90 e C-9/90): in que-sta occasione, infatti, i giudici europei,peraltro proprio con riferimento alloStato italiano, affermarono a chiarelettere la configurabilità della respon-sabilità civile degli Stati membri per

il mancato adeguamento della nor-mativa interna alle disposizionidegli organi comunitari: poiché “ilTrattato CE ha istituito un ordinamen-to giuridico proprio, integrato negliordinamenti giuridici degli Stati mem-bri che si impone ai loro giudici, i cuisoggetti sono non soltanto gli Statimembri, ma anche i loro cittadini eche, nello stesso modo in cui impone aisingoli degli obblighi, il diritto comu-nitario è altresì volto a creare dirittiche entrano a far parte del loro patri-monio giuridico”, “ il diritto comuni-tario impone il principio secondo cuigli Stati membri sono tenuti a risarci-re i danni causati ai singoli dalle vio-lazioni del diritto comunitario ad essiimputabili”. Più nello specifico, fustatuito che, “qualora... uno Statomembro violi l’obbligo, ad essoincombente in forza dell’art. 189,terzo comma, del Trattato, di prenderetutti i provvedimenti necessari a con-seguire il risultato prescritto da unadirettiva, la piena efficacia di questanorma di diritto comunitario esigeche sia riconosciuto un diritto alrisarcimento”.

In altri termini, sottolineandosi l’ob-bligo, del tutto pacifico ed incontrover-tibile, degli Stati aderenti allaComunità ad adottare tutte le misure dicarattere generale o particolare atte adassicurare l’esecuzione degli obblighiderivanti dalla partecipazione allaComunità, fu riconosciuta dalla Cortedi Giustizia a favore dei cittadini euro-pei non solo la titolarità dei dirittinascenti dall’istituzione dell’ordina-mento comunitario, ma altresì lo speci-fico diritto a vedere recepita dalloStato di appartenenza la normativacomunitaria, con conseguente dirittoal risarcimento del danno in caso di ina-dempimento del legislatore nazionale,ritenendosi questa soluzione impre-scindibile, essendo che altrimenti“ sarebbe inficiata la tutela dei dirittiriconosciuti se i singoli non avessero lapossibilità di ottenere un risarcimentoove i loro diritti siano lesi da una viola-

zione di diritto comunitario imputabilead uno Stato membro”.

Successivamente la stessa Corte diGiustizia è ritornata in più occasioni aribadire il suo orientamento: “il princi-pio della responsabilità dello Stato perdanni causati ai singoli da violazionidel diritto comunitario ad esso impu-tabili è inerente al sistema delTrattato” (così, ex plurimis, Palmisanic. Inps e altri, Corte giustizia CE, 10luglio 1997, procedimento C-261/95,in Riv. It. Dir. Pubbl. Comunitario,1998, 509).

La giurisprudenza italiana, dopoalcuni tentennamenti iniziali e taluneresistenze, ha recepito integralmente idettami della Corte di Giustizia CE,come conferma la recente Cass., Sez.III, 12 febbraio 2008, n. 3283, in cui siè ribadito come la “mancata tempestivaattuazione delle [direttive comunitarie]a livello interno” possa dare luogo adun danno tale da costituire “una conse-guenza immediata e diretta (art. 1223cod. civ.) dell’illecito (art. 2043 cod.civ.) integrato dalla violazione, daparte dello Stato italiano, degli obbli-ghi derivanti dal Trattato”.

Questa sentenza ultima non haovviamente mancato di richiamarsi alprecedente, fondamentale nel panora-ma italiano, recato da Cass., Sez. III,16 maggio 2003, n. 7630, che, ricorda-to l’orientamento della Corte diGiustizia CE ed in aderenza allo stesso,ha affermato la “risarcibilità del dannosubito dal singolo in conseguenza diviolazione delle norme comunitarie daparte del legislatore per mancataattuazione di direttiva non autoesecu-tiva, in ambedue le ipotesi di unione diun diritto soggettivo di un interesselegittimo”, e cioè, come precisato dallamassima ufficiale, “sia che l’interesseleso giuridicamente rilevante sia quali-ficabile come interesse legittimo siacome diritto soggettivo” 4.

Marco BonaStefano Commodo

Vincenzo Enrichens

la PazienzaIn tema di diritti umani30

Note1 Nelle conclusioni del Libro Verde la Commissione sottolineò “l’esigenza di cogliere” l’opportunità offerta dalla consultazione “per fare ulteriori passi avan-

ti nel risarcimento da parte dello Stato delle vittime di reati. Dalla convenzione europea del 1983, attraverso la quale si è compiuto il primo passo verso unamaggiore convergenza su disposizioni minime, sono stati compiuti notevoli progressi nella comprensione e l’interesse verso la situazione delle vittime di reati.Allo stesso tempo, l’Unione europea si è prefissata l’obiettivo di creare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Sembra che adesso siano riunite le con-dizioni per raggiungere, a livello comunitario, obiettivi ambiziosi a vantaggio delle vittime di reati”.

2 Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 261 del 9 novembre 2007 - Supplemento ordinario n. 228.3 Si rileva che il 31,9% delle donne italiane hanno subito violenza fisica o sessuale (Fonte: Ministero dell’Interno, dato del 2006).4 Nel caso della direttiva n. 80/2004, non vi è ombra di dubbio, come si ricava dalla stessa direttiva (cfr., ad esempio, il considerando n. 6), che si sia dinanzi ad

un vero e proprio “diritto” delle vittime di reato “di ottenere un indennizzo equo e adeguato per le lesioni subite”.

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1. IntroduzioneMolte sono le definizioni di pro-

prietà industriale, alla quale sempre piùspesso ci riferiamo utilizzando – ancheun po’ distrattamente – l’espressioneproprietà intellettuale tipico della lin-gua inglese, pur essendo stato ampio ildibattito, anche nel nostro ordinamen-to, sulla correttezza della prima espres-sione in luogo della seconda.

Tra le tante, nell’era di internet – edanche ai fini di queste poche righe, lequali non vogliono avere alcun caratte-re di scientificità, ma intendono unica-mente fornire alcune notizie su moltidei dibattiti in corso – si è deciso di sof-fermarsi sulla definizione oggi consul-tabile nella versione italiana diWikipedia: “Con proprietà intellettuale[e non proprietà industriale: NdR] siindica l’apparato di principi giuridiciche mirano a tutelare i frutti dell’inven-tiva e dell’ingegno umani; sulla base diquesti principi, la legge attribuisce acreatori e inventori un vero e propriomonopolio nello sfruttamento delle lorocreazioni/invenzioni e pone nelle loromani alcuni strumenti legali per tute-larsi da eventuali abusi da parte di sog-getti non autorizzati”.

Due appaiono essere i principi-car-dine: la tutela dell’inventiva e dei suoifrutti, da un lato, e l’attribuzione di unmonopolio nello sfruttamento econo-mico a servizio di questa, dall’altro.Principalmente su questi due principi siè aperto un acceso dibattito tra chi si fapaladino della difesa della proprietàindustriale e chi, attraverso motivazionile più varie, a tale difesa si oppone, nondi rado con ragioni (politiche ed econo-miche e, di norma, assai poco giuridi-che) di stampo ideologico ed aprioristi-

co, seppure con argomentazioni chedevono indurre alla riflessione.

Facciamo un esempio. In un discorsoradiofonico reso alla nazione nell’agosto2008, il presidente dell’Ecuador RafaelCorrea ha difeso la tesi secondo la qualela repressione della contraffazione dimarchi (ovviamente stranieri: ed anzi,molti legati al made in Italy) viola i dirit-ti umani in quanto impedisce ai contraf-fattori (ovviamente ecuadoriani: ma nonsi può non presumere che il principiodebba applicarsi ad ogni Stato od etnia)di svolgere un’attività che consenta lorodi procurarsi un reddito. La motivazionedebole (al contrario di altre che riguarda-no, ad esempio, i farmaci e di cui si faràcenno poco oltre) si accompagna adun’ulteriore caratteristica di fatto che larende difficilmente difendibile: non solol’Ecuador è uno dei Paesi dove più forteè la produzione di prodotti in violazionedi marchi (moltissimi dei quali, come si èosservato, italiani), ma l’industria dellacontraffazione ecuadoriana è in mano adetnie asiatiche e non ai “produttori” loca-li, i quali vengono a loro volta pesante-mente sfruttati. Ancora, si dimentica chechi intende ottenere un brevetto, ottienesì un monopolio di varia durata, ma alcontempo rivela e rende pubblico il con-tenuto del proprio trovato.

Naturalmente non mancano gliapprocci che ricercano argomenti ideo-logici, e non solo economici, per daresostegno etico e/o sociale alla proprietàindustriale: ad esempio con riferimentoalla Cina, vi sono voci dell’Unioneeuropea che esortano il governo cinesead assumere iniziative a tutela dello svi-luppo della “produzione intellettuale”locale in quanto mezzo per assicurareuna crescita economica individualedalla quale nasce, in seconda istanza,

una migliore difesa dei diritti civili. Piùseria (ed in effetti più “economica”)appare la motivazione di chi affermache la Cina dovrebbe favorire lo svilup-po e la tutela di proprietà industrialilocali al fine di fornire strumenti direale concorrenza globale ai propri cit-tadini, mentre l’opera di mera contraf-fazione non fa che ridurre le possibilitàdi crescita sul lungo periodo.

Anche il diritto di autore è oggetto diriflessioni, principalmente collegate altema delle libertà di pensiero e di opinio-ne: anche se nel dibattito, di tali libertà idetrattori non fanno menzione alcuna.

In chiusura di questa asistematicaintroduzione, si deve registrare comeappaia esservi un’ulteriore barriera dinatura politico-ideologica che rendespesso il confronto assai simile al famo-so dialogo tra sordi: si tratta dell’incer-tezza del confine tra diritti civili e dirittiumani, essendo in molte parti del mondotale confine sostanzialmente rimossocon un appiattimento dei secondi suiprimi. L’argomentazione di base è laseguente: nelle economie in crescita l’o-biettivo di uno Stato non può che esserequello di sollevare le popolazioni dallecondizioni di povertà, essendo a dir pocosecondari diritti diversi rispetto a quellidi natura strettamente economica.

I limiti etici di questa posizione nonnecessitano di commenti.

2. Diritto alla salute e brevettabilità dei farmaci

Sebbene il concetto di brevettabilitàdei farmaci si presti facilmente a criti-che di carattere etico (è a dir poco evi-dente il collegamento tra la salute ed ilfarmaco) di spessore ben diverso rispet-to a quelle relative, ad esempio, ai mar-

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BREVI RIFLESSIONI IN TEMA DI RAPPORTI TRA DIRITTI UMANIE PROPRIETÀ INDUSTRIALE

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chi (altra ancora è la questione del dirit-to di autore, dato il suo intrinseco colle-gamento con le libertà di pensiero e diespressione), è un dato di fatto che laricerca farmaceutica è ormai sostanzial-mente sviluppata e condotta dall’indu-stria. Poiché le risorse che è necessariodedicare allo sviluppo di un nuovo far-maco sono enormi, è chiaro come nonsia facile trovare un punto di equilibriotra la legittima richiesta dell’industria diavere un ritorno economico per la pro-pria attività di ricerca e la possibilità diassicurare, a livello planetario, il dirittoindividuale alla salute a prescinderedalle condizioni economiche dei singolie dei loro Paesi di appartenenza.

La situazione è in divenire ed il pen-dolo oscilla tra due estremi (brevettabi-lità assoluta, libertà assoluta), entrambipoco utili ai fini dell’effettiva tutela deldiritto alla salute.

Se - come si è ricordato poco sopra - daun lato è difficile sostenere, a fronte deglienormi investimenti che le società ed ilaboratori di ricerca debbono sostenereper trovare nuovi farmaci, dall’altro nonpuò passare sotto silenzio la circostanzache il prezzo di un farmaco (oltre tutto edassai spesso ben diverso dal suo costo) difatto precluda a milioni di persone l’ac-cesso ad una cura adeguata. Ancora,diventa arduo difendere (sul piano dialet-tico e non certo su quello teorico) il prin-cipio dell’eticità del diritto all’ottenimen-to di un brevetto su un farmaco a frontedella c.d. pratica di “evergreening”, ovve-ro l’introduzione di variazioni (non dirado marginali) ai farmaci esistenti per iquali i brevetti siano in scadenza.

Il dibattito è tuttora aperto e moltodelicate sono le posizioni assunte ancheda Paesi di primaria importanza nelloscacchiere mondiale.

Ad esempio, il governo brasiliano,alcuni anni or sono, aveva annunziatodi non intendere riconoscere – e quindidi essere pronto a violare – il brevetto diun farmaco americano anti-AIDS.Peraltro, a fronte di un prezzo di vendi-ta ben più basso rispetto a quello che lamultinazionale americana avrebbe inte-so praticare, il governo brasilianoaveva dichiarato di volere proseguirenel pagamento delle royalties.

In India, sempre in tema di AIDS,l’Ufficio Brevetti ha respinto la richiestadi concessione di un brevetto relativo adun farmaco antiretrovirale: la decisioneè stata determinata, tra l’altro, dalleopposizioni e prese di posizione di varieassociazioni di pazienti sieropositivi.

Non è difficile scorgere nelle posi-zioni assunte dai due Stati motivazionietiche astrattamente condivisibili.

È però parimenti importante eviden-ziare come, dietro il paravento di talimotivazioni etiche astrattamente condi-visibili, si celino, non di rado, posizionidi difesa dell’economia locale e di inte-ressi specifici: l’India vanta infatti unafiorente industria farmaceutica in rapidacrescita, la quale sarebbe danneggiatadal riconoscimento, anche per prodottigià in produzione, di molti diritti di pri-vativa facenti capo a società straniere.

Non sono mancate poi voci (ad esem-pio, Medici senza Frontiere) che hannorilevato come vi siano farmaci prodottiin India e disponibili agli strati poveridelle popolazioni non solo indiane il cuiblocco impedirebbe la prosecuzione dicure attualmente in atto: l’osservazioneha certamente un forte risvolto praticoed umanitario, ma dimentica che, fissa-to un regime di riconoscimento dellaproprietà industriale (alla quale l’Indiacomunque aderisce), si sta pur sempredissertando in merito ad un’attività ille-cita sul piano civilistico.

Sul fronte degli accordi internazio-nali, il punto di partenza è dato daiTRIPS (Trade-Related aspects of intel-lectual property rights).

I TRIPS, dopo avere affermato ladifesa della proprietà industriale, difatto vietano la produzione locale difarmaci, vincolandone l’importazione,l’uso e la vendita all’autorizzazione deltitolare del brevetto: il che, però, ne pre-sume il riconoscimento.

Gli accordi TRIPS sono in teoriadestinati ad essere ratificati dai 50 Paesimeno sviluppati solo dopo il 2016 (iltermine originario del 2005 è stato infat-ti prorogato): vi è però chi sostiene chequesta libertà sia solo di facciata, datoche questi Paesi non hanno né le struttu-re, né le competenze per produrre inter-namente farmaci avanzati. Anche qui sifronteggiano due mezze verità.

È opinione diffusa che i TRIPS nonabbiano dato buona prova sul pianodella tutela effettiva del diritto alla salu-te, seppure l’art. 27 affermi due impor-tanti principi: a) che gli aderenti aiTRIPS possano escludere dalla brevet-tabilità invenzioni il cui sfruttamentocommerciale nel territorio debba essereimpedito per proteggere la vita o lasalute dell’uomo, purché l’esclusionenon sia dettata unicamente dal fatto chelo sfruttamento è vietato dalle loro legi-slazioni; b) che gli aderenti possano

escludere dalla brevettabilità i metodidiagnostici, terapeutici e chirurgici perla cura dell’uomo o degli animali.

L’opinione sopra sintetizzata hafatto sì che, principalmente su richiestadei Paesi in via di sviluppo sensibiliinnanzi tutto al dramma dell’AIDS, sigiungesse nel novembre 2001 alla c.d.Dichiarazione di Doha, la quale haintrodotto principi di maggiore chiarez-za interpretativa nella lettura deiTRIPS, ribadendo il principio delleeccezioni per gravi motivi di salutepubblica (da valutarsi – e qui l’innova-zione probabilmente di maggiore inci-sività – singolarmente ed indipendente-mente da ciascuno Stato), nonché lafacoltà di rilascio di una licenza obbli-gatoria di produzione da parte del Paesein cui sia presente e dichiarata unasituazione di emergenza sanitaria.

È infine immaginabile che nuovidibattiti verranno aperti dal lancio deifarmaci c.d. “biosimilari”, ovvero di queifarmaci equivalenti ai farmaci apparte-nenti al mondo delle biotecnologie: ilmateriale genetico di base è il medesimo,cambia però il procedimento di ingegne-ria genetica che ne consente la produzio-ne. Tali farmaci non possono essere con-siderati innovativi, ma comunque origi-nali, e quindi come tali appaiono tutela-bili: ma anche per questi è facile preve-dere l’obiezione di Paesi in via di svilup-po, specie di quelli che hanno già una fio-rente industria farmaceutica interna.

Certamente, la tesi secondo la qualeil brevetto di un farmaco è sempre ecomunque antietico non convinceanche sul piano dei fatti: vi sono infatticasi in cui la tutela brevettuale ben puòrappresentare uno stimolo alla ricercaper quelle malattie in relazione allequali il livello di approfondimento edella messa a punto della cura non siaancora elevato o sia addirittura inesi-stente (pensiamo al caso delle malattierare). Ad esempio, è stato recentementeproposto dal governo americano, conbuona eco delle associazioni pediatri-che italiane, la possibilità di una con-cessione di brevetti di maggiore durataper i farmaci per la cura delle patologietumorali nei bambini.

Come si vede, dunque, non è possi-bile assumere una visione unitaria,ideologica ed aprioristica, del concettodi brevettabilità dei farmaci: la materianecessita ancora di profonde medita-zioni innanzi tutto etiche in merito allequali i governi nazionali dovrannosapere trovare il giusto equilibrio tra le

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legittime richieste di chi investe perfare ricerca, e quindi desidera avere unritorno sull’investimento, e chi eviden-zia come la salute individuale sia unbene da tutelarsi in via assoluta. Talimeditazioni, probabilmente, non do-vrebbero essere disgiunte da un buonlivello di considerazioni pragmatiche:l’esempio testé riportato della cura per itumori dei bambini deve fare riflettere.

La strada da percorrere è ancoramolta.

3. Il valore della proprietàintellettuale fra Dirittod’autore e software

“ I differenziali di crescita tra le varienazioni dipendono strettamente dalcapitale umano degli individui che lepopolano, definito come istruzione,conoscenze e competenze scientifiche etecnologiche” 1. Per poter essere cono-sciuta, quindi, una informazione devepoter circolare ed essere distribuita qua-lunque sia la forma espressiva che essarivesta. Accedere alle informazioni sipresenta come un diritto fondamentaledi ogni uomo nel rispetto della cultura etradizione che caratterizza ogni popolo.Tale principio – ancorché espresso suc-cessivamente – permette di comprende-re il motivo per cui il diritto d’autore siastato incluso nella “Dichiarazione uni-versale dei diritti dell’uomo” approvatadall’Assemblea dell’Organizzazionedelle Nazioni Unite nel 1948. Anche la“Convenzione europea per la salvaguar-dia dei Diritti dell’Uomo e delle libertàfondamentali” (firmata nel 1950 a Romafra i paesi fondatori del Consigliod’Europa), quale espressione normativadi tutta una serie di principi afferenti lasfera etico-morale (ad es. equo processo,libertà di pensiero, religione, espressio-ne, ecc.)2, pur non occupandosi esplici-tamente del diritto d’autore, lo garanti-sce come enunciazione della libertà d’e-spressione posta a fondamento dellacreazione di qualsivoglia opera.

Il rapporto tra il diritto d’autore (italia-no) e il fenomeno dell’informatica libera,si ritiene abbia modificato il concettostesso di distribuzione delle conoscenze,per secoli espresse in prodotti tangibili –

quali i libri – poi smaterializzate e distri-buite senza limiti di spazio e tempo con lac.d. world wide web. Attraverso Internet,forse, si è realizzata Thélème, l’abbaziaimmaginaria voluta da Rabelais comecostruzione priva di muraglie e barriereesterne ove tutti potevano entrare, essereben accolti e anche smarrirsi.

I prolegomeni consentono di tratteg-giare le differenti forme di distribuzionedei programmi per elaboratore ed evoca-no la distinzione generale tra c.d. softwa-re “libero” e software “proprietario”.

È noto come al creatore di un’operadell’ingegno (quale i programmi perelaboratore) vengano attribuiti diritti dinatura personale (il c.d. diritto moraled’autore che comprende: i diritti dipaternità-anonimo-inedito-opposizio-ne) e patrimoniale (che comprende idiritti di pubblicazione-riproduzione-modifica-distribuzione).

Orbene, senza dilungarsi in quelleche risultano essere le tutele offerte dallalegge sul diritto d’autore, che evocano lafigura del software c.d. proprietario,nella fattispecie del software libero l’au-tore del programma consente che lo stes-so venga pubblicato senza esercitare ilproprio diritto di sfruttamento economi-co a condizione che il programma sia:1. Liberamente eseguibile per qualsiasi

scopo2. Liberamente studiabile ed adattabile

alle proprie esigenze3. Liberamente copiabile4. Liberamente distribuibile, modifica-

to o menoLe libertà espresse sub 1 e 2 presup-

pongono l’accesso al programma sor-gente, cioè alla traduzione in “linguag-gio macchina” dell’idea posta alla basedella creazione intellettuale.

Ma la differenza tra le due fattispeciesi rinviene nelle differenti modalità didistribuzione attuata attraverso le licen-ze d’uso. A tal proposito si possonoclassificare alcune tipologie di licenze edi software:• Il freeware ove il programma per ela-

boratore può essere copiato ed utiliz-zato gratuitamente, ma il codice sor-gente non può essere utilizzato inassenza del consenso dell’autore (alquale debbono riconoscersi i dirittiderivanti dalla proprietà intellettuale).

• Il shareware ove i programmi circo-lano liberamente sulla rete e possonoessere copiati ed utilizzati entro certilimiti (ad esempio utilizzo di unasola parte del programma).

• I programmi di pubblico dominioove l’autore si spoglia di tutti i dirit-ti riconosciutigli dalle norme sullaproprietà intellettuale (di solito ven-gono indicati come no copyright).

• L’open source che consente lo svilup-po di una sorta di sistema aperto chechiunque può implementare attraver-so un proprio contributo (l’esempiopiù noto è costituito da Linux, sistemaoperativo nato nel 1991 ad opera diuno studente universitario e poi svi-luppatosi con l’apporto di program-matori di tutto il mondo).La filosofia sottesa a questo genere

di software postula la necessità di rea-lizzare la libertà d’accesso al codicesorgente e trova il suo pigmalione inRichard Stallman che nel 1985 fondò laFree Software Foundation attraverso laquale introdusse il concetto di “copy-left” da contrapporre a “copyright” elanciò il modello c.d. software opensource (OSS) - e la relativa GeneralPublic License (GPL) - attraverso cuinon viene contestato il principio dellaproprietà intellettuale in quanto tale,ma si ritiene che il codice sorgentedebba essere free, non nel senso di gra-tuito ma di liberamente accessibile3. Ilfenomeno appena descritto si accompa-gna alla diffusione degli hacker, spessoconfusi con i criminali informatici, madescritti da Eric Steven Raymond, nelsaggio consultabile in rete How tobecome a Hacker, ove si prospetta ilseguente profilo di distinzione: “Thebasic difference is this: hacker buildthings, crackers break them” 4.

Vi è certo una contrapposizione tra ciòche deve venir protetto in quanto espres-sione di un’opera dell’ingegno e ciò chedeve rimanere patrimonio comune frui-bile da tutti onde consentire l’accesso allainformazione quale bene universale, el’odierna trattazione non aspira a fornireuna soluzione ma solo lo spunto per unariflessione, si auspica ragionata.

Fabio Alberto Regoli Filippo Vallosio

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Note1 Robert Lucas “On the mechanics of economics development” in Journal of monetary economics 22-l988-n-1 p. 3-42.2 Sul problema della relazione tra diritti umani ed etica vedi il saggio Diritti umani: etica, politica di H. Gros Espiell, pubblicato nell’opera I diritti umani a 40

anni dalla Dichiarazione Universale, Padova, 1989.3 R. Stallman, The GNU Project, in Gnu.org (www.gnu.org).4 Cfr. http::www.tuxedo.org/-esr/faqs/hacher-howto.html.

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34la Pazienza

IntroduzioneLa pagina che la libera enciclopedia

on-line, Wikipedia dedica alla torturainizia con l’avvertenza che alcuni deisuoi contenuti potrebbero urtare la sen-sibilità di chi legge.

E, d’altro canto, la parola “tortura”lascia indifferenti o non risuona piutto-sto fino a toccare un nervo scoperto dinuda umanità?

Presente sin dall’antichità, diffusa intantissime culture, la tortura – pressonoi uomini e donne che evolviamo nellamisura in cui ci rendiamo consapevolidi esser parte di un’umanità condivisa(homo sum et nihil humanum mihi alie-num esse) – è lì a ricordarci quanta partedi noi è ancora al di qua della linea ani-male… giacché gli animali tra loro nonsi torturano!

Chi scrive queste note ha avuto nellesettimane scorse la “ventura” di visitarea Volterra il “Museo della Tortura” (cfr.www.museodellatortura.com).

Come ricorda la brochure di presen-tazione della “mostra”, trattandosidella raccolta di più di 100 strumentiprodotti nei secoli per procurare ildolore e la morte, essa è “una sintesivisiva della terrificante storia dellatortura e dei suoi impressionanti ordi-gni… antologia degli orrori, della cru-deltà umana, del lato oscuro della sto-ria”.

Al contempo la visita aiuta a ren-dersi consapevoli che altri congegni,altri strumenti (talvolta in tutto simili aquelli esposti ma adattati alla tecnolo-gia del nostro tempo) vengono in que-sto preciso momento utilizzati in tantaparte del nostro mondo e che quindi èancora lungo il cammino da percorre-re.

Brevi cenni storiciStoricamente si ha notizia che la tor-

tura venne condannata come praticad’indagine, e di conseguenza esclusal’utilizzabilità delle confessioni estortecon tale mezzo, da parte del Vescovo diRavenna, Rinaldo da Concorezzo,quando nel 1311 fu chiamato a giudica-re i Templari dell’Italia Settentrionale.

L’episodio peraltro non ebbe granseguito; quantomeno fino al 1740,allorquando l’uso della tortura fu vieta-to in Prussia da Federico II.

Ed anche in questo caso si trattò diun’iniziativa pressoché isolata.

È infatti il 1764 quando dai torchidel livornese Coltellini esce anonima lastampa del trattato “Dei Delitti e dellepene”.

Uno dei capitoli che desta più inte-resse, e resta ancor oggi tra i più noti (e,ahinoi, come vedremo, attuali) è il sedi-cesimo: “della tortura”.

L’autore lo inizia con la seguenteosservazione: “Una crudeltà consa-crata dall’uso nella maggior partedelle nazioni è la tortura del reo men-tre si forma il processo, o per costrin-gerlo a confessare un delitto, o per lecontraddizioni nelle quali incorre, oper la scoperta dei complici, o per nonso quale metafisica ed incomprensibi-le purgazione d’infamia, o finalmenteper altri delitti di cui potrebbe esserreo, ma dei quali non è accusato”.

Di non molto successive sono leriflessioni contenute nel libro “Logicade’ probabili” (pubblicato nel 1815 mail cui autore era stato giustiziato nel1799).

Al capo XIII intitolato “Della con-fessione estorta ne’ tormenti” Fran-cesco Mario Pagano annota: “Se dallaspontanea e semplice confessione nonpuò nascer la piena dimostrazione,

qual forza avrà quella che una feroce,e barbara tortura, o l’angustie, o l’or-ror di un oscuro criminale strappa dibocca ad un infelice, che a confusiaccenti del dolore mischia le voci dellamenzogna? Egli è contro la naturacostringere il reo a rinunziar, confes-sando, a’ primi doveri della natura,che impone la propria conservazione:ma forzarlo colla tortura è violar lanatura stessa.

La tortura, questa tiranna dell’u-manità, fu la prole della barbarie de’secoli, e de’ superstiziosi errori…Fallace metodo d’investigar il vero…cosiffatta confessione è l’espressionedel dolore, non già l’indizio dellaverità”.

Beccaria e Pagano, come sappiamo,non si limitarono a stigmatizzare ilricorso alla tortura ma ne argomentaro-no doviziosamente l’inutilità.

E molti altri, individui ed organizza-zioni, li hanno seguito su questo cam-mino.

A guardare i risultati, al momentotutti questi sforzi non hanno sortitogrande effetto.

Dalla tortura ai nostri giorni

Uno dei dati che più mi hanno turba-to, raccogliendo il materiale per questoarticolo, è il risultato dell’indagine con-dotta da Amnesty International tra il1997 ed il 2000 in 195 tra territori ePaesi del mondo sul ricorso alla tortura(www.volontariato.org/amnesty.htm).

Ebbene, benché all’epoca ben 119Stati avessero già sottoscritto laConvenzione Internazionale contro laTortura – sulla quale ritorneremo piùavanti – gli osservatori di Amnestyebbero a registrare che erano oltre 150 i

DELLA VIOLAZIONE DEI DIRITTIUMANI: LA TORTURA

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la Pazienza In tema di diritti umani35

Paesi in cui le persone erano state sotto-poste a torture e maltrattamenti da partedelle forze di polizia.

Che per più di 70 Paesi si trattava dipratica assai diffusa.

Che in oltre 80 le torture avevanoprovocato delle morti.

Che la tortura non avveniva solo inStati governati da dittature militari ocon regimi autoritari ma anche in Statidemocratici.

Le vittime erano preferibilmentepresunti criminali e prigionieri politici,dissidenti ed emarginati, persone perse-guitate per il loro credo e per le loro opi-nioni.

Indifferentemente uomini e donne,adulti e bambini.

La ricerca rivelava che il metodo ditortura più diffuso tra gli agenti di poli-zia era quello delle percosse. Inflittecon pugni, bastoni, calci di pistola, fru-ste improvvisate, tubi di ferro, mazzeda baseball, fili elettrici.

Le vittime pativano contusioni,emorragie interne, frattura di ossa, per-dita di denti, danni ad organi vitali.Molti perdevano la vita.

Si era registrata l’abituale pratica distupri ed abusi sessuali.

Metodi di tortura comuni risultavanoessere l’elettroshock (accertato in 40Paesi), la sospensione del corpo (inoltre 40 Paesi), i colpi di bastone sullapianta dei piedi (in oltre 30 Paesi), lefinte esecuzioni e le minacce di morte(50 Paesi), le detenzioni prolungate inisolamento (50 Paesi).

Il rapporto citava poi altri metodiancora, quali l’immersione in acqua, lospegnimento di sigarette sul corpo, laprivazione del sonno e delle funzionisensitive, varie forme di contenzionetra cui l’uso di cinture elettriche.

Quanto accaduto l’11 settembre2001, e quel che ne è seguito, per certiversi non ha giovato a ridimensionare ilfenomeno della tortura (se anche unattento e riconosciuto difensore deidiritti umani, il professore ed avvocatoAlan Dershowitz, ha finito per giustifi-carne il ricorso; cfr. www.amnestyusa.org/askamnesty/torture201112.html).

Al contempo la notizia degli abusi deiquali sono stati vittime detenuti civili nelcarcere di Abu Ghraib in Iraq ovvero lacondizione di detenzione a GuantanamoBay (a titolo esemplificativo sulla situa-zione di una delle persone ivi detenutevds. www.radiobase.net/index) hanno

scosso e, si spera, al tempo stesso sensi-bilizzato l’opinione pubblica mondiale.

Quanto all’Italia il processo che hacercato di ricostruire quanto accadutonella caserma di Bolzaneto durante ilG8 di Genova del luglio 2001, andato asentenza nell’estate scorsa, ha portatoalla luce una serie di violenze gratuiteed ingiustificate che non a torto hannofatto parlare di torture commesse neiconfronti delle persone che erano stateivi condotte.

Dal punto di vista strettamente giuri-dico, in assenza nell’ordinamento pena-le italiano di una specifica disposizionedi legge che vieti la tortura1, la Pubblicaaccusa ha contestato ad alcuni degliimputati quale circostanza aggravantela violazione dell’art. 3 dellaConvenzione Europea, (per unapprofondimento sull’argomento vds.motore di ricerca parole chiave bolza-neto processo).

La tortura e le norme didiritto internazionale

L’Associazione mondiale deiMedici nella dichiarazione di Tokio del1975 definì tortura “ le sofferenze fisi-che e mentali inflitte in modo delibera-to, sistematico o arbitrario da una o piùpersone che agiscono da sole o su ordi-ne di un’autorità per obbligare un’altrapersona a fornire informazioni, a fareuna confessione o per qualunque altraragione”.

Questa definizione fu in parte allabase di quella adottata dallaConvenzione contro la Tortura e altrepene o trattamenti crudeli, inumani odegradanti conclusa a New York il 10dicembre 1984.

All’art. 1 della Convenzione, ed aifini della stessa, venne infatti designatatortura “qualsiasi atto con il qualesono inflitti a una persona dolore o sof-ferenze acute, fisiche o psichiche,segnatamente al fine di ottenere da que-sta o da una terza persona informazio-ni o confessioni, di punirla per un attoche ella o una terza persona ha com-messo o è sospettata di aver commesso,di intimidirla od esercitare pressioni suuna terza persona, o per qualunquealtro motivo basato su una qualsiasiforma di discriminazione, qualora taledolore o tali sofferenze siano inflitte daun funzionario pubblico o da qualsiasialtra persona che agisca a titolo uffi-ciale, o sotto sua istigazione, oppure

con il suo consenso espresso o tacito.Tale termine non si estende al dolore oalle sofferenze derivanti unicamente dasanzioni legittime, ad esse inerenti o daesse provocate”.

La Convenzione, entrata in vigore il26 giugno 1987, al giugno 2008 ratifi-cata da 145 Paesi, impegna gli Staticontraenti ad adottare provvedimentiche impediscano al loro interno il com-pimento di atti di tortura e a prevederecome reato qualsiasi atto che si qualifi-chi come tale.

Vieta l’estradizione in Stati in cui visia rischio di essere sottoposti a tortura.

Prevede che gli Stati Parte forminoal divieto della tortura il personale civi-le e militare incaricato dell’applicazio-ne della legge; vigilino sulle pratiched’interrogatorio e sulla custodia ed iltrattamento delle persone private dellalibertà personale; procedano immedia-tamente ad un’inchiesta imparzialequando vi sia ragionevole motivo dicredere che sia stato commesso nel ter-ritorio un atto di tortura; garantiscanoalla vittima di tortura una riparazioneed un risarcimento equi ed adeguati.

La Convenzione ha previsto inoltrel’istituzione di un Comitato contro laTortura, al quale è stata affiancata unaSottocommissione con il Protocollointegrativo (quest’ultimo firmatodall’Italia il 20 agosto 2003).

Con la predetta Convenzione si èvoluto dare attuazione a principi conte-nuti nella Carta delle Nazioni Unite,nella Dichiarazione Universale deidiritti umani e nel Patto internazionalesui diritti civili e politici.

Segnatamente all’articolo 55 dellaCarta firmata a San Francisco il 26 giu-gno 1945, che prevede alla lettera c) “ilrispetto e l’osservanza universale deidiritti dell’uomo e delle libertà fonda-mentali per tutti, senza distinzione dirazza, sesso, lingua o religione”.

All’art. 5 della DichiarazioneUniversale, il quale dispone che“Nessun individuo potrà essere sotto-posto a tortura o a trattamento o apunizioni crudeli, inumane o degra-danti”.

E all’art. 7 prima parte del Patto, cheparimenti recita “Nessuno può esseresottoposto alla tortura né a punizioni otrattamenti crudeli, disumani o degra-danti”.

Ad essi si aggiunga la Dichiarazionesulla protezione di tutte le persone dalla

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tortura e dai trattamenti inumani adotta-ta dall’Assemblea Generale il 9 dicem-bre 1975.

Quanto all’Europa, il 4 novembre1950 fu firmata a Roma la Convenzioneper la salvaguardia dei diritti umani edelle libertà fondamentali.

Essa dispone, all’art. 3 il divietodella tortura: “Nessuno può essere sot-toposto a torture né a pene o trattamen-ti inumani o degradanti”.

Una Convenzione Europea per laprevenzione della Tortura e delle pene etrattamenti inumani o degradanti è statapoi sottoscritta a Strasburgo il 26novembre 1987 dagli Stati membri delConsiglio d’Europa.

Con essa si è preveduta l’istituzionedel Comitato Europeo per la prevenzio-ne della Tortura come parte integrantedel sistema del Consiglio d’Europa perla protezione dei diritti umani.

Quest’organismo, che si collocaquale meccanismo non giudiziale afianco della Corte Europea dei dirittiumani, svolge una funzione essenzial-mente preventiva attraverso visite peri-dodiche effettuate con regolarità negliStati membri e tramite visite “ad hoc”quando “le circostanze lo richiedano”.

Presenta annualmente un rapportogenerale sulle attività svolte alComitato dei ministri del Consigliod’Europa che viene poi trasmessoall’Assemblea Parlamentare e quindireso pubblico (www.cpt.coe.int)2.

Particolarmente intensa e significati-va è l’attività giurisdizionale dellaCorte Europea dei diritti umani ancheper quanto concerne le situazioni di

presunta violazione dell’art. 3 dellaConvenzione.

Tanto con riferimento alla commis-sione di torture e di violenze ad esseassimilabili, quanto in ordine alla man-canza/incompletezza di effettiveinchieste interne a fronte di lamentateviolenze/torture, ovvero ancora rispettoal pericolo, in caso di estradizione, diessere sottoposti a torture e/o tratta-menti inumani.

Anche all’Italia è accaduto di esserepiù volte citata nanti la Corte per sup-poste violazioni dell’art. 3.

In particolare, in tempi recenti, conriferimento al cosiddetto regime di“carcere duro” disciplinato dall’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario(Bagarella c. Italia sentenza 15 gen-naio 2008).

E per il caso di un’estradizione in unPaese del quale si è contestato fosserosufficienti le garanzie che il trattamentodetentivo rispettasse la Corruzione(Saadi c. Italia sentenza 28 febbraio2008)3.

Considerazioni conclusiveDi solito si immagina che chi com-

mette violenze ed abusi sia diverso danoi: un mostro, un malato, un pervertito.

Nel libro “L’effetto Lucifero. Cattivisi diventa? Cortina Editore, Milano,2008” Philip Zimbardo, psicologosociale alla Stanford University di PaloAlto, esperto di istituzioni carcerarie,perito nel processo contro uno dei mili-tari coinvolti nei fatti di Abu Ghraibanalizza il perché, quantomeno indeterminate circostanze, tutti (o quasi)si possa compiere il male4.

L’autore passa in rassegna fatti qualiil genocidio in Ruanda, il massacro diMay Lai in Vietnam, i campi di concen-tramento nazisti, la tortura della poliziacivile e militare, ed osserva come anche“ le brave persone possono essere indot-te, sedotte e spinte a comportarsi inmodo cattivo”.

In molte situazioni di violenza,peraltro, ad essere determinanti nonsarebbero le caratteristiche indivi-duali ma il ruolo che ci si trova a rico-prire.

A ciò si aggiungano le pressioni divario genere esercitate da un “sistema”,che permette, quando non autorizza,determinati atti.

In tali ultimi casi la legittimazioneproviene dall’ideologia ed il propriocomportamento finisce per trovare lagiustificazione nell’“eseguivo soltantodegli ordini” con cui si sono difesi icapi delle SS al processo di Norimberga(e non soltanto loro).

Da par sua Zimbardo invece nongiustifica e non attenua la gravità deicomportamenti immorali e illegali, nésostiene una forma di determinismo,ma riconosce a ciascuno la capacità disfidare la “norma” attraverso una diver-sa opzione comportamentale.

Uomini e donne, alcuni passati allastoria, altri rimasti sconosciuti, ci con-fermano nel senso che questo è possibi-le, ci infondono con le loro storiecoraggio, ci indicano che un’altra stra-da può essere sempre percorsa.

Davide Mosso

P.S. il 26 giugno è la giornata interna-zionale per le vittime della tortura

Note1 Peraltro, durante la scorsa legislatura, vennero presentati alcuni disegni di legge di iniziativa parlamentare volti all’introduzione dell’articolo 613 bis del codi-

ce penale in materia di tortura. Relatore Emilio Nicola Buccico, alla trattazione dell’argomento furono dedicate sedute il 18, 25, 26 settembre 2007 nonchéil 15 gennaio 2008.Quanto a quella attuale vds. D.D.L. 857; per alcune considerazioni al proposito http://media.camerepenali.it/200810/3883.doc?ver

2 Il comitato ha svolto di recente una visita (la settima) in Italia, dal 14 al 26 settembre 2008.3 Per una rassegna delle decisioni della Corte, oltre all’Osservatorio della Rivista Diritto penale e Processo, vds. www.osservatoriocedu.it (al quale si accede

altresì dal sito del Consiglio dell’Ordine di Torino ricercando la parola cedu).4 L’autore è stato, tra l’altro, l’ideatore nel 1971 del cd. “Esperimento carcerario di Standford”. Vennero reclutati con un annuncio sul giornale alcuni studenti

“sani, intelligenti, di classe media, psicologicamente normali e senza alcun precedente violento” e, in una simulazione di vita carceraria, furono divisi in duegruppi: l’uno di guardie, l’altro di detenuti.L’esperimento, che sarebbe dovuto durare due settimane, fu interrotto dopo cinque giorni soltanto; gli studenti che rivestivano il ruolo di gaurdie si eranoinfatti trasformati in spietati aguzzini.

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Il 10 dicembre 1948 fu adottata dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite la DichiarazioneUniversale dei Diritti Umani.Nel suo preambolo si recita: “Il riconoscimento della dignità specifica e dei diritti uguali ed inalie-nabili di tutti i membri della famiglia umana è la base di libertà, giustizia e pace nel mondo”.Da quel lontano giorno molte iniziative sono state prese affinché la difesa dei diritti umani sancitinella Dichiarazione Universale non restasse lettera morta.Ho ritenuto in tal senso che fosse importante, come contributo a questo numero de La Pazienza, inte-ramente dedicato alla ricorrenza del 60° Anniversario della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo,contattare persone che lavorano direttamente per la tutela degli stessi.Ho proceduto quindi a fare un’intervista al Presidente Nazionale di Amnesty International, Dott.Paolo Pobbiati, nonché al Presidente Nazionale di Avocats sans Frontières World, avv. Paolo Iorio.Sono entrambe associazioni non governative che difendono strenuamente il rispetto dellaDichiarazione Universale dei Diritti Umani.La prima opera da oltre quarant’anni e conta oltre due milioni di soci in più di 150 Paesi.La sede centrale è a Londra mentre la sezione italiana, nata nel 1975, ha la sede a Roma.Avocats sans Frontières World è nata nel 1992 ed ha la sede centrale a Bruxelles, mentre la sede ita-liana, nata nel 1998, è a Roma.È una associazione organizzata a livello mondiale ed è presente in dieci Paesi di cui tre africani.L’impegno, la passione nonché il sacrificio di queste ed anche altre organizzazioni che si adoperanonello stesso settore non possono non farci comprendere l’importanza che queste iniziative rivesto-no per il nostro futuro affinché cessino gli abusi, le discriminazioni ed invero vinca il rispetto per lalibertà!

Anna Chiusano

Associazioni a tutela dei diritti umani

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D.: Cosa è Avocats sans FrontièresWorld?

R.: Avocats sans Frontières è unaorganizzazione internazionale nongovernativa con sede in Bruxelles fon-data nel 1992.

Alla organizzazione partecipano 10paesi europei e tre paesi dell’area nordafricana.

Ogni sede nazionale ha la propriastruttura e organizzazione.

Negli anni Novanta durante la guer-ra fratricida in Congo, già dilaniata dauna sleale colonizzazione e afflitta darivalità etniche, un gruppo di avvocatibelgi fondarono l’associazione Avocatssans Frontières, seguendo l’esempio diMedecins sans Frontières che dal 1979aveva dato esempio di sacrificio e sensodel dovere in molti paesi del cosiddetto“terzo mondo”. L’iniziativa fu sostenu-ta dall’allora sottosegretario delleNazioni Unite per i paesi balcaniciBernard Kouchner oggi Ministro degliesteri francese.

D.: Con quale spirito, dunque, ènata questa organizzazione?

R.: Lo spirito dell’organizzazioneera quello di supporto tecnico, formati-vo e di ausilio in considerazione dellostato di abbandono in cui si trovava larealtà giudiziaria del paese centro afri-cano. A quel tempo, e ancora oggi, pen-devano e pendono decine di migliaia diprocedimenti penali presso le autoritàgiudiziarie del paese africano. Ciòdipese dalla individuazione della giuri-sdizione secondo i principi delTribunale Internazionale del Ruanda.

Con il passare degli anni altri paesieuropei che avevano le medesime moti-

INTERVISTA AL PRESIDENTENAZIONALE DI ASF WORLD AVV. PAOLO IORIO

Fotografia tratta da: Voci Contro il Potere. Difensori dei Diritti Umani che stanno cambiando il mondodi Kerry Kennedy, fotografie di Eddie Adams, a cura di Nan Richardson. Umbrage Editions, distribuitoda Logos. © 2000 Eddie Adams

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vazioni storiche aderirono alla iniziati-va. L’Olanda e la Francia furono i primipaesi dove si formarono slanci di coo-perazione e solidarietà. Successi-vamente altri paesi condivisero l’ideadi fornire supporto e assistenza versorealtà etniche con assetti giudiziarisconvolti e inefficienti.

D.: Venendo all’Italia, quandonasce Avocats sans Frontières e in cheambito presta il suo operato?

R.: Nel 1998 fu fondata ASF Italia,con sede a Roma.

La realtà italiana è molto diversa daquella dei paesi del nord Europa, nonavendo il nostro paese conosciuto feno-meni di colonizzazione così incisivi eduraturi, se non la breve e fallimentareesperienza in Libia, Somalia ed Etiopia.

Ciononostante ASF Italia, nel qualepaese la macchina della giustizia non hamai brillato per efficienza e produtti-vità, decise di coltivare quelle temati-che sempre più attuali dei diritti umaniaffermati dalla Convenzione del 1950.

Un grosso impegno fu dedicato allaprotezione dei diritti e delle libertàaffermati dalla Convenzione di Roma esul ruolo che avrebbe dovuto avere l’or-gano giurisdizionale di protezione, cheaveva dato segni di cedimento, anchedopo l’espansione del Consigliod’Europa. Purtroppo anche a seguitodella riforma del 1998 dalla farragino-sità e burocratizzazione del procedi-mento, in tal senso appoggiato anchedagli Stati Membri inquisiti dinanzi allaCorte, il controllo giurisdizionale nonha mostrato efficienza ed imparzialità,con conseguente assenza di controllo eprotezione.

ASF Italia si è allora dedicata allaprotezione di situazioni derivanti dal-l’incalzante fenomeno della immigra-zione, aumentata vertiginosamentenegli anni Novanta, curando assistenzain sede giudiziaria di ricorsi concernen-ti la Convenzione di Ginevra del 1951 eottenendo positive pronunzie daiTribunali nazionali.

Di recente ASF Italia ha volto i suoiinteressi alla cooperazione, alla forma-zione e ad un più incisivo impegno nelcammino della costruenda EuropaGiudiziaria.

2005-2007. L’associazione ha parte-cipato e curato l’organizzazione di con-vegni e seminari su tematiche di coope-razione giudiziaria europea, mandato di

arresto europeo, Trattato di Schengen,soprattutto in relazione all’aumentodelle garanzie difensive nell’ambitodelle estradizioni e della Convenzionedi Strasburgo del 21 marzo 1983, pro-cesso europeo.

2007-2009. L’associazione in colla-borazione con altre ONG (Orga-nizzazioni Non Governative), che ope-rano nel campo della TutelaGiudiziaria, ha partecipato sotto ilpatrocinio di Istituzioni Comunitarie aprogetti di formazione rivolti alla for-mazione di giovani avvocati degli ulti-mi paesi membri dell’Unione europea.

Infine negli ultimi due anni ha datosupporto alla Università di Roma 3 neimaster post-universitari.

D.: Come vede il futuro e qualisaranno le iniziative che portereteavanti?

R.: Il cammino comunitario, soprat-tutto nell’area del mutuo riconoscimentodei titoli giudiziari, del mandato di arre-sto europeo e di una totale integrazionegiudiziaria ha mostrato segni di inceppa-mento. La ragione sta nella diversità deisistemi giudiziari: questo è il motivo delfallimento del Trattato di Lisbona.

Con Fair Trials Abroad (Asso-ciazione Europea per la Difesa dei Dirittidi Europei processati all’Estero), partnerin varie iniziative di cooperazione e for-mazione, ASF Italia “è preoccupata perla difesa di cittadini coinvolti in processitransnazionali. Il Mandato di ArrestoEuropeo è stato introdotto prima che fos-sero create adeguate misure per la prote-zione dei diritti dell’accusato.

Inoltre, alla luce delle misure propo-ste per il libero scambio delle prove, visono situazioni che mettono in eviden-za che un processo giusto è configura-bile soltanto nello Stato dove trovasil’accusato o dove il processo è celebra-to o dove la prova è assunta.

Non vi è un termine per l’entrata invigore della decisione quadro sullegaranzie procedurali.

Non vi sono proposte per mettere incollegamento i difensori attraverso lefrontiere, né vi sono proposte affinchévenga assicurato il pagamento dei ser-vizi legali prestati dalla difesa in diver-se giurisdizioni.

La nostra richiesta è: cosa si stafacendo per assicurare la protezione deicittadini e dei diritti fondamentalidurante il periodo di trasferimento di

procedimento da una giurisdizione adun’altra?

Se da un lato le associazioni professio-nali possono collegarsi per creare un pro-tocollo per avvocati che lavorano insie-me, al fine di ricevere il pagamento daiclienti che sono in grado di pagare, nonesiste al contrario un meccanismo centra-le (Assistenza Giudiziaria) per assicurareil sostegno finanziario per il pagamentodei servizi prestati in favore di chi non hauna situazione finanziaria adeguata.

Per questi motivi noi proponiamo lacreazione di una agenzia centrale eindipendente che, in linea con Eurojust,fornisca informazioni ai difensori degliStati membri e, se necessario, dia assi-stenza al fine di localizzare un difenso-re del paese d’origine e che costituiscaun gruppo di lavoro per conto dell’ac-cusato di modo che in ciascun procedi-mento siano salvaguardati i diritti didifesa da un efficace gruppo di difesa.

Dovrebbe esser costituita un’auto-rità di assistenza giudiziaria centraliz-zata o guidata dagli Stati membri inte-ressati per far in modo che i difensorisiano adeguatamente retribuiti anchenel caso in cui sia in atto un lavoro pro-fessionale di collegamento.

Tale agenzia dovrebbe provvedereanche alla traduzione di documenti perla difesa e per l’interprete al fine di sod-disfare gli standards minimi richiestidalla Convenzione Europea dei Dirittidell’Uomo e delle Proposte Quadrosulle garanzie procedurali, queste ulti-me più alte delle prime.

D.: Qual è il bilancio delle attivitànegli ultimi anni dell’associazione?

R.: Il bilancio non è molto positivo.Ciò è dovuto all’incremento del nume-ro degli Stati membri nell’Unione eall’accelerazione del percorso comuni-tario nella costruzione dell’EuropaGiudiziaria.

In poche parole questa accelerazionedimentica la necessità di bilanciamentocon una efficiente e competente assi-stenza difensiva soprattutto in tema digiustizia transazionale. ASF Italia,attraverso i progetti messi in atto conaltre ONG e organizzazioni accademi-che, sta cercando di diffondere il mes-saggio tra i giovani che accedono allaprofessione che l’avvocato del futuro èl’avvocato di 27 territori diversi ancor-ché con 27 diversi sistemi giudiziari.

Anna Chiusano

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D.: Come nasce Amnesty Interna-tional?

R.: Nasce dall’intuizione geniale diuno straordinario avvocato inglese chea seguito dell’arresto di due ragazziportoghesi avvenuto in un locale pub-blico dove avevano brindato alla libertàdelle colonie scrisse nel maggio 1961 leseguenti parole sul quotidiano TheObserver: “Aprite il vostro giornaleogni giorno della settimana e troveretela notizia che da qualche parte nelmondo qualcuno viene imprigionato,torturato o ucciso perché le sue opinio-ni o la sua religione sono inaccettabilial suo governo. (...) Il lettore del gior-nale sente un nauseante senso di impo-tenza. Ma se questi sentimenti di disgu-sto ovunque nel mondo potessero esse-re uniti in un’azione comune qualcosadi efficace potrebbe essere fatto”.

In questa frase si ritrova il senso piùprofondo del valore di AmnestyInternational che consiste in un movi-mento di gente comune che lavora peraltra gente comune, a seguito dell’in-dignazione provocata dalla coscienzadi quanto avviene. La visione diAmnesty International è quella di unmondo in cui a ogni persona sono rico-nosciuti tutti i diritti umani sancitidalla Dichiarazione Universale e daaltri documenti internazionali fonda-mentali.

D.: Come è cresciuta da allora lavostra organizzazione?

R.: Da allora Amnesty Internationalè cresciuta enormemente: oggi è pre-

sente in 75 paesi e conta più di2.200.000 soci in tutto il mondo. Icampi di azione che maggiormente laidentificano sono quelli dei prigionieridi opinione, ovvero di tutte le personeche si trovano in detenzione per avermanifestato, unicamente con mezzi nonviolenti, le proprie idee o il propriocredo politico o religioso, per etnia,orientamento sessuale. La lotta controla tortura e ogni altra forma di tratta-mento crudele, inumano o degradante,il diritto a un processo equo e in lineacon gli standard internazionali e la lottacontro la pena di morte e contro le ucci-sioni extragiudiziali.

Soprattutto negli ultimi quindicianni l’organizzazione ha preso progres-sivamente coscienza del fatto che perdare un senso più compiuto a questaaffermazione era necessario ampliarel’azione, che in una prima fase era con-centrata in un mandato abbastanzaristretto. In questo senso ha cominciatoad aprirsi e a lavorare su temi comequello dei diritti economici, sociali eculturali. A occuparsi dei diritti di rifu-giati e migranti, di violenza nei con-fronti delle donne, di ogni forma didiscriminazione.

È stato un passo importante, fattonella consapevolezza dell’universalitàe soprattutto dell’interdipendenza deidiritti umani. È perciò cambiato l’ap-proccio di lavoro di Amnesty, in mododa poter disporre degli strumenti piùadatti e più efficaci. Anche se l’azionedi Amnesty continua a essere focalizza-ta su singole persone, negli ultimi anniha sviluppato strumenti di campaigning(per fare campagne di informazione)

più idonei a operare in un mondo che sitrasforma in continuazione.

Troppo spesso la globalizzazione èlo strumento per portare nuove forme disfruttamento e di prevaricazione neiconfronti dei soggetti più deboli.Rappresenta però anche la creazione dinuove opportunità, una comunicazioneche oltrepassa i confini e che consente achi vive a Kampala di leggere ilFinancial Times e di poter firmare gliappelli on line di Amnesty sui difensoridei diritti umani in Cina. Ci troviamo difronte a dinamiche radicalmente tra-sformate rispetto a solo un paio didecenni fa. Capitali, lavoro e tecnologiesi spostano con estrema facilità sul pia-neta seguendo logiche che trascendonoi confini nazionali e con portata al difuori del controllo dei singoli governi,ridisegnando in modo drammatico lamappa dei poteri mondiali.

D.: Quali sono le vostre attuali efuture sfide?

R.: Non ci si può illudere di affronta-re i problemi di rispetto dei diritti umaniin maniera frammentaria e indirizzandolocalmente la nostra azione. Non pos-siamo pensare di affrontare le nuovesfide del XXI secolo con gli strumentidi quello precedente. Le violazioni deidiritti umani, esattamente come i pro-blemi ambientali, si presentano sempredi più come un problema globale, chenecessita di soluzioni globali che com-portino ricadute e riscontri a livellolocale.

Perciò, accanto al lavoro sui citatitemi tradizionali di Amnesty, che

INTERVISTA AL PRESIDENTENAZIONALE DI AMNESTYINTERNATIONAL DOTT. PAOLO POBBIATI

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la Pazienza Associazioni a tutela dei diritti umani 41

rimangono comunque il cuore delleattività, negli ultimi anni l’associazioneè stata attiva in una serie di campagneglobali e internazionali che hannomobilitato decine di migliaia di attivistiin tutto il mondo e hanno esteso la retecon altri soggetti.

Amnesty si è occupata delle diversee diversificate forme di discriminazio-ne e di violenza cui sono sottoposte ledonne in tutto il mondo attraverso lacampagna «Mai più violenza sulledonne». Ha raccolto, insieme ad altreassociazioni, più di un milione di faccenell’ambito della campagna«ControlArms» da portare alle NazioniUnite per chiedere finalmente l’adozio-ne di un trattato che regolamenti il com-mercio di armi convenzionali.

Si è lavorato sui diritti di migranti erichiedenti asilo, perché chi è costrettoa lasciare il proprio paese per sfuggirealla fame, alla guerra o anche solo a unfuturo senza opportunità, possa esseretrattato con dignità e nel pieno rispettodei propri diritti. Con la campagna «Piùsicurezza più diritti» Amnesty ha chie-sto che la lotta contro il terrorismo siacondotta nell’alveo della legalità e dellagiustizia, che aberrazioni come il carce-re di Guantanamo e gli altri «buchineri», come vengono chiamati i luoghidi detenzione segreta, siano chiusi.Così come non vengano più perpetrateextraordinary rendition, i trasferimentiillegali di prigionieri avvenuti neglispazi aerei e negli aeroporti europei.

L’organizzazione ha chiesto allaCina di rispettare gli impegni presi nel2001 all’atto dell’assegnazione deiGiochi olimpici a Pechino in tema didiritti umani. La speranza era che daquesto evento potesse scaturire l’occa-sione per migliorare gli standard, oggipreoccupantemente bassi, di rispettodei diritti di un quinto circa dell’uma-nità. In un paese che sta diventandosempre più rilevante a livello interna-

zionale e che rischia di portarci in unfuturo in cui si rimettano in discussionelibertà e diritti che oggi diamo un po’troppo per scontati.

Il 24 agosto scorso, al termine deiGiochi olimpici, Amnesty International(AI) ha diffuso un comunicato stampacon il quale ha valutato in modo sostan-zialmente negativo il comportamentodel governo cinese e del movimentoolimpico internazionale in occasionedelle Olimpiadi di Pechino.

AI ha accusato il governo cinese diaver preferito badare all’immaginepiuttosto che alla sostanza e di avercontinuato a perseguitare e punire atti-visti e giornalisti durante le Olimpiadi.

Inoltre, ha rivolto al ComitatoOlimpico Internazionale (CIO) un’im-portante raccomandazione per il futuro:quella di includere chiari e misurabiliindicatori dell’impatto sui diritti umaniin tutte le prossime valutazioni di can-didature all’assegnazione delleOlimpiadi e nei contratti con le cittàospitanti.

D.: Presidente, qual è il bilancioche fa di questi ultimi anni e le sue spe-ranze per il futuro?

R.: Celebrando i 60 anni dellaDichiarazione Universale dei dirittiumani, non possiamo non rilevare datitutt’altro che rassicuranti: metà dellapopolazione mondiale vive con menodi due dollari al giorno, ogni anno unmilione di persone sono costrette alasciare le loro abitazioni e le loro zoned’origine, spesso senza sapere doveandare e ogni anno muoiono 500.000donne per cause correlate alla gravidan-za o al parto, molte delle quali potreb-bero essere facilmente prevenutegarantendo un’assistenza sanitariaminima.

La povertà e la fame sono fra le peg-giori violazioni dei diritti umani perché

privano l’essere umano della suadignità. Amnesty International lancerànel 2009 una campagna internazionaleproprio sulla dignità umana. Se il lavo-ro per i prigionieri di opinione ha forsesinora connotato maggiormenteAmnesty, oggi entriamo in una fasenuova, nella quale cominceremo alavorare anche sui prigionieri dellapovertà.

Povertà non affrontata in una logicadi aiuto o di assistenza, ma intesa comerisultato della negazione di un dirittofondamentale: quello di poter vivereun’esistenza dignitosa.

L’associazione metterà in campol’autorevolezza, il rigore, l’indipenden-za che hanno contraddistinto la suaazione in questi 48 anni di attività perchiedere a governi, organizzazioni eistituzioni internazionali di porre in attotutte le misure necessarie perché a cia-scun essere umano sia garantito l’ac-cesso alle risorse alimentari, all’acqua,all’assistenza sanitaria, a un luogo incui vivere in quanto diritti umani fonda-mentali.

La sfida che il mondo ha per i prossi-mi decenni è quella di garantire questoa tutti i suoi abitanti.

Tutti noi possiamo essere AmnestyInternational.

Il quadro di violazioni dei dirittiumani fondamentali cui siamo costrettiad assistere ogni giorno non è inelutta-bile, ma sappiamo bene che non possia-mo contare sull’azione di governi e isti-tuzioni internazionali se questa nonsarà fortemente spinta e supportata dauna continua pressione della societàcivile, convogliata attraverso l’azionedi organizzazioni come AmnestyInternational. Siamo noi, gente comu-ne, che con le nostre azioni e le nostreattività possiamo contribuire a fare ladifferenza.

Anna Chiusano

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L a cultura dei diritti umani costitui-sce probabilmente la vera ricchez-

za europea: non si tratta infatti di uninsieme di norme astratte, scritte dafreddi giuristi, ma il risultato della sof-ferenza, del dolore, del sangue versatoda vittime innocenti, nei cui confronti ildiritto, assolvendo alla sua funzione piùalta, cerca di porre rimedio e argine,riaffermando i valori più profondi dellaciviltà democratica, nella salvaguardiadella persona.

Ricordo in questo breve articolo imomenti più salienti di una vicenda giu-diziaria seguita personalmente qualedifensore delle vittime di una strageavvenuta in Bosnia, durante la guerradella ex Jugoslavia perché, oltre adessere stata una esperienza quanto maicoinvolgente sia sul piano umano sia suquello professionale, mi ha permesso diverificare da vicino l’importanza e lacentralità di un sistema di tutela deidiritti fondamentali dell’individuo.

Nel maggio del 1993, nel periodopiù sanguinoso del conflitto scoppiatonei territori della ex Jugoslavia, partivada Brescia un convoglio umanitariorecandosi in Bosnia centrale ove avreb-be dovuto portare aiuti alimentari eriportare indietro un gruppo di minori evedove di guerra al fine di essere ospi-tati sul territorio italiano.

Il convoglio, costituito da cinquepersone con un camion e un fuori stra-da, era espressione di quella azione disolidarietà tipicamente italiana, che siera formata spontaneamente a frontedegli orrori scatenatisi in territori cosìvicini e la sua composizione molto ete-rogenea ne era la riconferma: SergioLana, Fabio Moreni, Guido Puletti,Cristiano Penocchio, Agostino Zanotti,provenivano da aree laiche e cattoliche,imprenditoriali e sociali.

I cinque volontari, mentre si adden-travano sui monti della Bosnia centrale,venivano improvvisamente bloccati daun gruppo di persone armate, in unasorta di uniforme con simboli mussul-mani, capitanati da un comandanteindossante un berretto verde con unamezza luna.

Il convoglio veniva sequestrato ecostretto a deviare su una impervia stra-da di montagna e i cinque volontari,derubati di ogni cosa e costretti a saliresu di un carro, venivano condotti in unalocalità sperduta ed isolata. Dopopoche frasi scambiate con grande diffi-coltà causa la lingua sconosciuta, gliitaliani venivano costretti a proseguirea piedi, lungo un sentiero nel bosco, infila indiana: improvvisamente veniva-no colpiti da una raffica di mitra, spara-ta alle spalle. Mentre Sergio Lana,Fabio Moreni e Guido Puletti cadevanouccisi, Agostino Zanotti e CristianoPenocchio riuscivano miracolosamentea salvarsi, buttandosi a rotta di collolungo la ripida riva e mentre uno siacquattava in un cespuglio a mezzacosta, l’altro rimaneva nascosto in unruscello nel fondo della scarpata, men-tre gli appartenenti al gruppo armato licercavano affannosamente per elimi-narli. La discesa provvidenziale delbuio permetteva ai due italiani di scam-pare all’eccidio: entrambi vagavano perdue giorni, separatamente e senza sape-re nulla l’uno dell’altro, sin quando siimbattevano nelle truppe regolaridell’Armata bosniaca, che li traeva insalvo.

Qualche tempo dopo il drammaticorientro in Italia, veniva loro recapita-ta, tramite il battaglione britannico distanza in Bosnia, una videocassettariferentesi ad alcune esercitazionimilitari avvenute circa un anno primanella stessa zona. In tale videocasset-ta, di chiaro carattere propagandistico,vi erano numerose immagini delcomandante Hanefija Prijc detto“Paraga”: nella sua figura i duesopravvissuti riconoscevano imme-diatamente, senza ombra di dubbio, ilcomandante del gruppo armato cheaveva sequestrato il convoglio e ordi-nato l’eccidio.

La Procura della Repubblica diBrescia apriva una inchiesta sui fatti,arrivando ad una identificazione esattadel predetto “Paraga”, resa possibiletramite l’escussione di un suo amico diinfanzia, rintracciato a seguito di alcuni

viaggi che avevo effettuato in Bosnia,essendo stato nel frattempo nominatodifensore da parte dei due sopravvissu-ti e dai familiari del deceduto GuidoPuletti.

Il Pubblico Ministero di Bresciarichiedeva al Gip l’emissione dell’ordi-ne di custodia cautelare, ma tale richie-sta veniva respinta in quanto, essendostato ritenuto trattarsi di reato comunecommesso all’estero nei confronti dicittadini italiani da parte di soggettistranieri, era mancante la condizione diprocedibilità determinata dalla presen-za dell’imputato nel territorio delloStato italiano.

Lo sconcerto dei familiari era note-vole e comprensibile, posto che inrealtà si era a conoscenza dell’indirizzodi abitazione di “Paraga”, e addiritturaun atto del Tribunale di Brescia venivaa lui regolarmente notificato, con suafirma personale apposta nella cartolinadi ritorno.

Non appena la situazione in Bosniainiziava a migliorare, mi recavo varievolte a colloquio con l’ambasciatoreitaliano a Sarajevo e con il Ministrodegli Interni del nascente Stato bosnia-co: peraltro, al di là di generiche rassi-curazioni su indagini in atto, nulla diconcreto si otteneva ed anzi era semprepiù chiaro che «Paraga», pur non essen-do un personaggio di primo piano,godeva all’interno della Bosnia di sicu-ri appoggi, che ne garantivano l’impu-nità.

Veniva anche presentata una formaledenuncia al Tribunale Internazionaledell’Aia per i crimini commessi nellaex Jugoslavia, nel frattempo insediatosiformalmente, ma senza esito, forse perla dimensione “minima” della strage.

Nonostante lo scorrere degli anni, ladeterminazione delle parti offese per-metteva di scoprire che in realtàHanefija Prijc detto Paraga ricopriva unruolo politico e addirittura si era pre-sentato come candidato ad elezionilocali; a seguito di istanze dettagliatepresentate in Italia, a fronte di questenuove notizie, il fatto veniva considera-to come delitto politico e finalmente

Diritti umani e difesa: un’esperienza in Bosnia

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interveniva la richiesta del Ministro diGiustizia, presupposto giuridico neces-sario per superare l’ostacolo procedura-le della mancata presenza sul territoriodello stato dell’imputato.

Ma le speranze di un avanzamentodella inchiesta bresciana lasciavanopresto il posto allo sconforto di frontead una mancanza di reale determinazio-ne nel proseguimento effettivo dellaprocedura in Italia.

A questo punto, grazie anche al fattoche, a forza di viaggi e incontri inBosnia avevo appreso discretamente lalingua serbo croata, venivo in contattocon un avvocato di Sarajevo, ZarkoBulic.

Il valente collega, assai noto inBosnia per il suo impegno in tema didiritti umani, già presidente delConsiglio dell’ordine degli avvocati diSarajevo, di grande statura morale ealtrettanto pari capacità giuridica, hauna storia personale incredibile: di ori-gine serba, decideva di rimanere inSarajevo durante l’assedio e seguirecosì la sorte della città rifiutando aper-tamente di unirsi alle forze di Karadzic,scatenando in tal modo il suo odio, eper tale ragione veniva messo al“secondo posto” nella lista dei nemicida eliminare...

L’incontro con il collega di Sarajevosi rivelava decisivo nell’acquisizione diulteriori notizie su «Paraga» e sul suoruolo all’interno dell’esercito, e nellaapertura di una formale inchiesta daparte della nascente magistraturabosniaca.

Si arrivava così ad una ricognizionesul luogo della strage, avvenuta insie-me ai due superstiti e con il supportologistico del battaglione Unprofor ita-liano di stanza a Sarajevo.

Con un viaggio la cui angoscia sipuò immaginare, i due sopravissuti riu-scivano a ritrovare il punto esatto oveerano stati bloccati e sequestrati, masoprattutto il luogo in montagna ove siera verificato l’eccidio e la riva scosce-sa ove si erano miracolosamente salva-ti. Personalmente non potrò certodimenticare la profonda emozione diquel giorno, in un bellissimo paesaggiodi faggi autunnali imbiancati da unaimprovvisa nevicata, che contrastava inmodo lacerante con la tragedia che ivi siera consumata.

Il coraggioso Pubblico Ministero diTravnik, antica città della Bosnia com-

petente per territorio, riteneva sussi-stente la ipotesi giuridica di crimine diguerra contro civili, posto che, nel frat-tempo, veniva definito molto più chia-ramente l’effettivo ruolo di «Paraga»all’interno dell’esercito regolarebosniaco. A seguito degli accordi con ilTribunale Internazionale dell’Aia il PMsospendeva l’azione, rimettendo gli attial predetto Tribunale che avrebbe dovu-to decidere se esercitare o meno l’azio-ne penale. Era prevedibile che ilTribunale Internazionale non avrebbeproceduto stante il “ridotto” numero divittime, ma il punto fondamentale,come era stato giustamente sottolineatodal procuratore bosniaco, era che ilTribunale dell’Aia, restituendo gli attiin Bosnia affinché la magistratura loca-le procedesse, ne avallasse la base giu-ridica dell’imputazione di crimine diguerra contro civili, fornendo in talmodo una forte copertura e anche uncontrollo sul prosieguo. Così avvennein effetti e a seguito della restituzionedegli atti, l’autorità giudiziaria bosnia-ca disponeva la cattura di Hanefija Prijcdetto “Paraga”.

Lo scalpore sui giornali locali eranotevole, anche perché «Paraga» permolti costituiva una sorta di eroe nazio-nale per alcune imprese compiutedurante il conflitto, anche se era altret-tanto noto per la notevole «disinvoltu-ra» usata nel condurre le sue azioni.

Si giungeva così al processo, che sisvolgeva nel Tribunale di Travnik pernumerose udienze, e si concludeva nelgiugno del 2001 con la condanna di«Paraga» a 15 anni di reclusione, con-danna poi leggermente ridotta nel suc-cessivo appello.

Inutile dire quanto il processo siastato difficile e soprattutto emotiva-mente coinvolgente, in particolare perle testimonianze rese dai due sopravvis-suti da un lato e per il ruolo dell’impu-tato dall’altro, che era passato da unoostentato e spregiativo silenzio, a suc-cessive lunghissime e fuorvianti rico-struzioni della vicenda, in cui negava lasua partecipazione alla fase finale del-l’eccidio.

Occorre dire che il processo, richia-mantesi in sostanza al nostro vecchiorito inquisitorio, è stato però un pro-cesso “vero”, dall’esito incerto e in cuil’imputato ha potuto avvalersi di unavera e propria difesa da parte di unavalente avvocatessa molto nota in

Bosnia ; ed è inoltre da rimarcare comepoteva essere difficile per unTribunale bosniaco addivenire allacondanna di un comandante dell’eser-cito nazionale.

Il ruolo del collega codifensoreBulic durante le tormentate udienze èstato decisivo e personalmente sonostato in qualche modo aiutato dalla sep-pure parziale conoscenza della lingua,che mi ha permesso di pronunciare l’ar-ringa finale leggendone il testo inserbo-croato, mentre nell’aula calavaun silenzio immobile.

È difficile descrivere che cosa siprova in quei frangenti, posto che ildramma delle vittime è così devastantee tutto il percorso fatto insieme allaricerca delle prove, aveva in sostanzaun unico scopo: non certo quello divedere condannare una persona, mapiuttosto arrivare alla affermazione diun principio di diritto sulla barbarie,sancendo in tal modo quel «diritto allamemoria» che assume spesso un valoredecisivo nei confronti della vittima,assai più della condanna stessa.

Nello stesso tempo l’esperienza vis-suta mi ha permesso di constatare diret-tamente l’importanza del ruolo chel’avvocato può e deve avere nella dife-sa dei principi basilari di libertà, in par-ticolare laddove manchi una effettivatutela da parte delle istituzioni.

È assai stimolante constatare come siriescano facilmente a trovare puntimolto forti di contatto con colleghi didiversa nazionalità e cultura ma altret-tanto coinvolti sulla stessa tematica,dotati spesso di una capacità e di uncoraggio che meriterebbero ben altrarilevanza. Ulteriore conferma in talsenso ho avuto conoscendo personal-mente lo scorso anno Shirin Ebadi,avvocatessa iraniana di Teheran, pre-mio Nobel per i diritti umani, personadi incredibile spessore etico e profes-sionale. Nonostante la difficoltà dicomunicazione linguistica, un dialogocaloroso e comunicativo si è instauratocon grande facilità: la collega iranianasottolineava ripetutamente l’importan-za dei rapporti e dello scambio di espe-rienze tra giuristi, ribadendo coi fattil’importanza del ruolo defensionale, dalei ricoperto con encomiabile coraggioin condizioni difficilissime, esempio emonito nella salvaguardia dei dirittifondamentali della persona.

Lorenzo Trucco

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A bbiamo deciso di pubblicare alcu-ne testimonianze di uomini e

donne che hanno scelto di dedicare laloro esistenza alla difesa dei dirittiumani.

Una scelta per la quale spesso evolentieri essi hanno pagato e pagano inprima persona in termini di limitazionedella libertà personale, di sottoposizio-ne a minacce, a torture, a rischi dellavita stessa.

Queste testimonianze, così come lefoto che corredano fin dalla prima dicopertina questo numero 100 de laPazienza, sono tratte dal libro: SpeakTruth to Power: Human RightsDefenders who are changing ourWorld, by Kerry Kennedy, photos by

Eddie Adams, edited by NanRichardson, Umbrage Editions(www.umbragebooks.com) in associa-zione con Robert F. Kennedy Foundationof Europe (www.rfkennedyeurope.org);distribuito in Italia dalla Logos(www.books.it) con il titolo “Voci controil Potere. Difensori dei Diritti Umani chestanno cambiando il mondo”.

Come ricorda l’autrice KerryKennedy, settima degli undici figli diBob, l’opera è il risultato dell’aiuto dimolti e di uno sforzo collettivo; ed èanche un invito a ciascuno a mettersi inazione, a lasciarsi coinvolgere (nellibro è anche contenuta una guida conindirizzi e contatti delle persone e delleorganizzazioni in esso citate).

L’idea parte da lontano, da quando nel1981, durante un praticantato estivo pres-so Amnesty International, Kerry ebbe lafortuna di incontrare i più importantidifensori dei diritti umani del nostrotempo, nonché di lavorare con loro.

Nel libro, corredato dalle magnifi-che foto del pluripremiato (tra cui ilPulitzer Prize) Eddie Adams, sono rac-colte 50 interviste, realizzate attraver-sando in due anni quaranta nazioni etutti i continenti.

Alcune persone sono internazional-mente note, vi figurano più premiNobel per la Pace, ma la gran parte diquesti difensori dei diritti umani (moltidei quali avvocati) è perlopiù scono-sciuta aldilà della propria patria.

Ascoltare i loro racconti libera emo-zioni profonde e conferma la speranzache un mondo sempre migliore è possi-bile.

Il libro è dedicato, oltre che alle trefiglie dell’autrice ed ai figli di ciascu-no di noi, alla memoria di una di que-ste 50 persone, Digna Ochoa, avvocatoe suora, uccisa in Messico a causa delsuo lavoro per i diritti umani nonché atutti quegli sconosciuti che ci mostra-no come essere pienamente umani.

Al libro è affiancata la mostra foto-grafica Speak Truth To Power che stagirando il mondo.

E dal libro è stata tratta un’opera tea-trale scritta da Ariel Dorfman, e direttadal regista Juan Diego Puerta Lopez,che con il titolo Il sapore della cenereha visto la sua prima rappresentazionemondiale proprio in Italia, il 12 luglioscorso a Prato.

Abbiamo scelto tre storie ma soloperché non ci era possibile pubblicare illibro integralmente.

Il nostro ringraziamento più profon-do alla Umbrage Editions di New Yorknella persona di Ms. Nan Richardsoncuratrice del libro, che ci ha autorizzatoquesta pubblicazione, a Maria StellaCasalini dell’Ufficio di Segreteria dellaRobert F. Kennedy Foundation ofEurope per aver fatto da tramite, aKerry Kennedy, Eddie Adams ed ai pro-tagonisti del libro per il lavoro chehanno svolto e continueranno a fare.

La Redazione

Difensori dei Diritti Umani

Fotografia tratta da: Voci Contro il Potere. Difensori dei Diritti Umani che stanno cambiando il mondodi Kerry Kennedy, fotografie di Eddie Adams, a cura di Nan Richardson. Umbrage Editions, distribuitoda Logos. © 2000 Eddie Adams

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D al 1970 – quando lavorava inArgentina come avvocato cer-

cando di mettere in piedi il ModernHuman Rights Movement – a oggi,Juan Méndez ha definito un pianod’azione a cui altri possono rifarsi neldifendere prigionieri politici. Quandoè stato catturato e incarcerato dalleforze di sicurezza argentine, note perla loro brutalità, la sua famiglia hasubito chiesto quale fosse la sua ubi-cazione e quando i suoi aguzzinihanno capito che avevano poco tempoa disposizione per “strappare” aMéndez le informazioni che andavanocercando, lo hanno subito sottopostoa torture particolarmente brutali.Méndez è divenuto uno dei primi pri-gionieri d’opinione di AmnestyInternational in Argentina e sia gliavvocati che i diplomatici hanno eser-citato forti pressioni sulla giunta mili-tare Argentina, costringendola a rila-sciarlo nel 1977. Méndez durante l’e-silio ha continuato a lavorare per idiritti umani sperimentando perprimo quegli strumenti di legge chesono alla base, oggi, del lavoro inter-nazionale sui diritti umani. Méndezha lavorato quindici anni con HumanRights Watch in qualità di capo dellasezione latinoamericana, più tardi èdivenuto consigliere generale diHuman Rights Watch e di recente halasciato la professione di avvocatoper assumere la direzione generaledell’Istituto Inter-Americano suiDiritti Umani; attualmente dirige unprogramma sui diritti umaniall’Università di Notre Dame. Hainoltre assunto la carica di secondovice presidente della Commissione

Inter-Americana sui Diritti Umani, unorganismo della Organizzazione degliStati Americani (OSA).

Alla fine del 1960 ero uno studenteuniversitario in Argentina. Era l’epocadelle rivolte studentesche nel mondo:Praga, Parigi, America Latina. Noi inquel periodo eravamo sotto il regimemilitare che fomentava la divisione tra

i poveri e i ricchi. Molti di noi eranoimpegnati politicamente; alcuni prese-ro le armi, altri aderirono a delle orga-nizzazioni e altri ancora come me, cer-carono di usare le loro abilità legali perdifendere i prigionieri politici, per lot-tare contro la tortura e per far rispetta-re i diritti umani. Questo pensavopotesse essere il mio contributo allalotta.

JUAN MÉNDEZArgentina. Diritti Umani e riconciliazione “È moralmente giusto che dopo vent’anni di ricerca, molti non riescano ancora a trovare i loro cari, quando c’è chi sa benis-simo dove sono sepolti i corpi?”.

Fotografia tratta da: Voci Contro il Potere. Difensori dei Diritti Umani che stanno cambiando il mondodi Kerry Kennedy, fotografie di Eddie Adams, a cura di Nan Richardson. Umbrage Editions, distribuitoda Logos. © 2000 Eddie Adams

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Fui arrestato la prima volta nel1974, prima della morte del generaleJuan Perón, nella mia città natale, difronte all’università di legge cheavevo frequentato e in cui ora insegna-vo. Mi rilasciarono dopo due o tregiorni, ma questo fu un segnale: misorvegliavano e avevo dei nemici.Quindi, assieme alla mia famiglia mitrasferii a Buenos Aires, dove non miconosceva nessuno. A poco a pocoricominciai a insegnare, a fare l’avvo-cato e sono tornato al mio attivismopolitico, nelle baraccopoli e nei quar-tieri poveri. Poco dopo, nell’agosto del1975, venni arrestato di nuovo.All’epoca, Isabel Perón, morto il mari-to, aveva assunto il potere e il suo regi-me è stato causa di numerosi omicidipolitici.

Il terrore aleggiava ovunque.Molte persone, sorprese mentre dise-gnavano graffiti politici sui muri,venivano ritrovate il giorno successi-vo morte e con segni di torture. E altrivenivano prelevati dalle loro case odagli uffici e uccisi. Molti, come me,furono scaraventati in prigione e senon c’erano accuse a loro carico,venivano trattenuti in detenzione pre-ventiva.

La dittatura militare più repressivadella nostra storia cominciò nel 1976.Io mi trovavo in carcere in quel perio-do e stavo per ottenere l’esilio, i mili-tari mi trattennero ancora un annosenza accuse a carico. Una missione diAmnesty International venne inArgentina nel novembre del 1976.Conobbero la mia famiglia e analizza-rono il mio caso. Era chiaro che non cifosse nessuna prova contro di me, aparte quella di difendere i prigionieripolitici. Ero chiaramente un caso dainserire nella categoria “prigionierid’opinione” di Amnesty, fui uno deiprimi in Argentina. Tre mesi dopo mifu concesso di espatriare. C’erano piùo meno ottomila persone nella miastessa situazione, che avevano vissutoin media quattro anni di detenzionepreventiva, quindi io ero fortunato adessere stato rilasciato dopo solo unanno e mezzo.

In Argentina non c’era pietà.Quegli ottomila erano prigionieri“legali”. Il 90 percento è stato tortura-

to, torture pesanti con elettroshock,botte, finti annegamenti e finte esecu-zioni. Era una prassi metodica, unaroutine, ed estremamente efferata,volevano ottenere più informazionipossibile, e anche se si trattava diinformazioni di nessun valore in sedeprocessuale, a loro non importava.Volevano solo dei verbali. Nel 1976,dopo il colpo di Stato, tutto peggiorò,perché non erano più costretti a rende-re conto dei loro omicidi. Nei primianni Settanta avevano solo pochi gior-ni per ottenere informazioni dai pri-gionieri, prima di tutto perché i tuoicompagni si trasferivano immediata-mente per proteggersi nel caso tu fossistato costretto a rivelare dove abitava-no, in secondo luogo perché prima opoi avrebbero dovuto portarti davantia un giudice. Quelli particolarmentemalconci venivano portati davanti agiudici compiacenti, e siccome dove-vano fare in fretta, erano anche moltocrudeli. Con la tortura ti riducevanoquasi in fin di vita e poi se non riusci-vano a ottenere altre informazioni tilasciavano lì da solo. Molti dei mieiamici hanno subito torture per un’in-tera settimana di seguito, io solo pertre giorni. Sono stato fortunato perchéla mia famiglia si è mossa molto rapi-damente per ottenere un mandato dihabeas corpus e per poter parlare con igiudici. I miei aguzzini sapevano checon me avevano ancora meno tempoquindi mi hanno sottoposto a cinquesedute di tortura in due giorni invecedelle normali due. Alquanto brutale,ma almeno breve.

Dopo il mio secondo arresto sonorimasto diciotto mesi in prigione, poisono stato buttato fuori. Non mi èstato consentito di tornare a casa dallamia famiglia, in Argentina. Mi hannopraticamente messo su un aereo e spe-dito in esilio. Una volta che la miafamiglia mi aveva raggiunto e ci era-vamo stabiliti negli Stati Uniti, hodovuto decidere se rientrare illegal-mente. Molti dei miei amici in esilioerano tornati clandestinamente inArgentina e anche se li ammiravo pen-savo fosse un suicidio, a essere since-ro, perché dopo tutto non potevanofare molto. Quindi decisi di rimanerein esilio e cominciai a lavorare dall’e-sterno delle organizzazioni nongovernative e con gruppi locali.

Quando iniziai non era così perico-loso. Non sapevi se la repressionesarebbe stata transitoria e magari dopoun mese tutto sarebbe tornato a posto.Devi sempre sperarci, anche se permolti è pericoloso, non lo è per te chenon sei molto conosciuto. Solo cosìriesci a vivere. Non è che tu sia parti-colarmente coraggioso, è che pensiche forse non è così brutto quantosembra. Difatti credo che abbiamocapito la tragedia argentina in esilio,osservandola dal di fuori. Quando cisei in mezzo, naturalmente, hai ilsenso del dovere. Hai un prigionieroche ha bisogno che gli compili imoduli, oppure hai un amico che èappena stato arrestato e sua madre tichiede di fare qualcosa. Senti che seinecessario e senti anche che prima opoi passerà, si spera. Quindi ci navi-ghi attraverso. Purtroppo per molti deimiei amici quello è stato un erroregrave.

Gli avvocati in prima linea possonoessere molto efficienti se dalla loroparte hanno la stampa, purché unastampa almeno semi-indipendente. Peresempio, se andavamo in tribunale etrovavamo un giudice che non eraintenzionato ad agire, uno dei modi perspronarlo consisteva nel rivolgercisubito alla stampa presentando unacopia scritta degli habeas corpus. Se lamattina successiva c’era anche solo untrafiletto che diceva che l’habeas cor-pus di qualcuno era stato archiviato dalgiudice tal dei tali, allora il giudicesapeva che doveva agire nel giro di unasettimana, altrimenti sarebbe seguitoun altro articolo in cui si denunciaval’inerzia del tal giudice. Se non hai inmano tali strumenti, l’intero sistema siblocca. Anche ora in America Latina,persino in presenza di norme costitu-zionali, queste condizioni spesso nonci sono. Non possiamo ancora chia-marla democrazia. Ci sono molte altrecose da fare, più dal punto di vista pre-ventivo, come l’educazione ai dirittiumani, o istituire media indipendenti,imparziali, coraggiosi con un altogrado di professionalità. O assicuran-dosi che gli attivisti per i diritti umanivengano riconosciuti dai media.Abbiamo imparato dure lezioni dalladittatura passata e anche se la democra-zia non è quella che speravamo fosse,abbiamo eretto delle barricate contro

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una futura, possibile mancanza dirispetto per la legge.

Quello che passa per riconciliazio-ne in America Latina è, in realtà, unsinonimo di impunità. E non c’entracon ciò che io sento nei confronti dellepersone che mi hanno fatto del male.In realtà non mi interessa più identifi-carle o vederle in prigione. Ma pren-dendo posizione a favore delle comu-nità danneggiate, credo fortementeche la riconciliazione non possa cheavvenire attraverso un graduale pro-cesso. Non può essere imposta da undecreto. E come facciamo ad arrivar-ci? Non con le amnistie imposte dalloStato che finge che la riconciliazionepassi da un decreto. In realtà nonfanno altro che lasciare liberi gliassassini e gli aguzzini. Alcuni dicono“pace e giustizia non sono la stessacosa e per avere la pace non basta lagiustizia”. Non nego che una dellepriorità in luoghi come il SierraLeone, oggi, o El Salvador nei primianni Novanta era quella di mettere deisilenziatori ai fucili. Ma questa non sipuò definire una buona politica.Quando diciamo lasciamoci il passatoalle spalle non facciamo altro cheincentivare gli assassini e gli aguzzinia tornare e a ricominciare. O peggio.Ora che la democrazia ha preso piede,non abbiamo ancora un corpo militareo di polizia su cui contare. Non hannodovuto rispondere di niente e anche seoggi non torturano più i nemici politi-ci, torturano invece i delinquenticomuni. E si può definire democrazia?Se il processo di Pinochet ha prodottoqualcosa di buono è l’aver messo in

evidenza questo argomento in Cile. Equesta evidenza fa sì che non ci possapiù essere il rischio di un colpo diStato. Cileni, Argentini e gente di altripaesi con simili esperienze si stannochiedendo: “È giusta questa riconci-liazione?”. È moralmente giusto, chedopo vent’anni di ricerca molti nonriescano ancora a trovare i resti deiloro cari, quando c’è chi invece sabenissimo dove sono sepolti i corpi?La vittima ha il diritto di sapere. E loStato ha il dovere di informare tutti. Ese la violazione è stata davvero seria,lo Stato ha anche l’obbligo di ripristi-nare la giustizia perseguendo i respon-sabili.

I leader morali per primi devonochiarire i ruoli, costringendo i militaria fornire le informazioni in loro pos-sesso e chiedendo al governo di smet-tere di promulgare leggi di ipocriteamnistie. Così come gli stessi leadermorali devono dire alla gente che unavolta accertata la buona fede del nuovogoverno democratico, accertato che hafatto tutto il possibile, devono riconci-liarsi. La riconciliazione è importantenei confronti della gente che lotta perideologie politiche diverse, proprioper spiegare loro che siamo tutti partedella stessa comunità e che dobbiamoguardare al futuro e dimenticare il pas-sato. Ma è diverso chiedere a una vitti-ma di abusi di riconciliarsi con l’aguz-zino e con l’assassino dei propri figli.Soprattutto quando gli stessi aguzzinie gli stessi assassini non hanno inten-zione di dare niente, né di discutere nétantomeno di fornire le informazionirichieste. Anzi hanno persino la prete-

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sa di meritarsi una medaglia per quelloche hanno fatto. I militari adesso sonotranquilli, ma non ammettono di averfatto qualcosa di sbagliato e cercanocon ogni mezzo di non rivelare laverità o di non farla sembrare credibi-le. Con queste premesse la riconcilia-zione è impossibile.

Mi sento privilegiato di aver potutolavorare in questo campo per moltotempo, di aver vissuto in prima linea inArgentina, di lavorare per HumanRights Watch nell’ambito legale inter-nazionale e di dirigere il programmadell’Istituto Inter-americano dei DirittiUmani all’Università di Notre Dame.Questo mi dà modo di integrare i dueaspetti fondamentali del lavoro suidiritti umani internazionali. Due aspettiche hanno una funzionalità reciproca edessenziale. I gruppi autoctoni che sioccupano di diritti umani sono indi-spensabili perché lottano in primalinea. Ma senza la possibilità di arriva-re alle organizzazioni internazionali ein certi casi alle organizzazioni intergo-vernative (come la Commissione Inter-americana, la Corte Inter-americana deiDiritti Umani o la Corte Europea deiDiritti Umani), la possibilità di cambia-re le cose è limitata. Ma d’altra parte,senza le organizzazioni accademicheche formano attivisti professionistinelle diverse parti del mondo, il movi-mento non può crescere né migliorare,accogliendo nuove generazioni chefaranno un lavoro più efficace. Tuttoquesto è consapevolezza. E la consape-volezza deve essere tramandata.Abbiamo molto da insegnare e molto daimparare.

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Fauziya Kassindja ha scampato perpoco la mutilazione dei genitali

fuggendo durante la notte da un remotovillaggio nel Togo per raggiungere gliStati Uniti, dove, nel dicembre 1994, haottenuto asilo politico. Invece di acco-gliere questa orfana di diciassette annicon umanità e comprensione, i funzio-nari statunitensi l’hanno fatta spoglia-re completamente, l’hanno incatenata,messa in prigione e poi le hanno fattovivere quell’incubo kafkiano che è lapolitica di Immigrazione degli StatiUniti. Lo strenuo impegno di una stu-dentessa di legge di un’università ame-ricana e la comparsa di un articolosulla prima pagina del New YorkTimes, hanno fatto sì che la Kassindjafosse la prima persona che ottenevaasilo politico negli Stati Uniti avendocome motivazione la minaccia dellamutilazione dei genitali. In tutto ilmondo almeno 130 milioni di donne, lamaggior parte delle quali concentratein ventisei nazioni africane, hanno giàsubito la mutilazione dei genitali, ealtri due milioni all’anno sono costret-te ad affrontarla. La prassi prevede larecisione del clitoride. Senza anestesia.Spesso vengono recise anche altre partidei genitali esterni, mentre di solitoviene cucita quasi completamente l’a-pertura della vagina. Gli effetti collate-rali più frequenti sono le infezioni, lecicatrici, la sterilità, il dolore atrocedurante i rapporti sessuali, la difficoltànel parto e in generale una sofferenzapressoché insostenibile. Molte donneaddirittura muoiono in seguito a questaprocedura, che viene praticata conlame di rasoio, pietre affilate, coltelli, ein alcuni casi, bisturi. Nonostante l’e-sperienza traumatica, la Kassindjia ha

avuto parte attiva nel denunciare que-sta pratica, e ha inoltre parlato aperta-mente delle difficoltà che ha dovutoaffrontare a causa del sistema d’immi-grazione statunitense.

Ho quattro sorelle e due fratelli; erola sesta figlia, l’ultima femmina. Erouna birichina, molto legata a miopadre, era il mio migliore amico. Miopadre incoraggiava tutte noi sorelle afare ciò che volevamo nella vita. Inostri genitori non decidevano al postonostro. Dicevano sempre: “la decisioneè tua. Se è positiva ti aiutiamo a realiz-

zarla. Se è negativa, ti consigliamo dinon agire così, ma se poi pensi che èproprio quello che vuoi, fai pure. Dopopuoi dare la colpa soltanto a te stessa.Non potrai dire che i tuoi ti hannocostretta”. Mio padre ci ha mandatetutte a scuola, così imparavamo l’in-glese e potevamo aiutarlo negli affari.Questo, per le ragazze del Togo, erafuori dal comune.

Quando avevo diciassette anni èmorto mio padre ed è cambiato tutto.Mia zia e mio zio, fratelli di mio padre,avevano sempre odiato mia mamma,

FAUZIYA KASSINDJATogo/Stati Uniti. Mutilazioni genitali femminili ereati contro gli immigrati

“Giovedì mi hanno detto che mi sarei sposata. Mi hanno detto che venerdì mi avrebbero tagliata. A mezzanotte sono scappata”.

Fotografia tratta da: Voci Contro il Potere. Difensori dei Diritti Umani che stanno cambiando il mondodi Kerry Kennedy, fotografie di Eddie Adams, a cura di Nan Richardson. Umbrage Editions, distribuitoda Logos. © 2000 Eddie Adams

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perché la mamma era del Benin esecondo loro non c’entrava con loro,non era della loro stessa tribù.Avevano anche cercato di convinceremio padre a divorziare, ma lui non liascoltava. Dicevano anche che eracolpa di mia madre se noi andavamo ascuola. Che aveva avvelenato la mentea mio padre.

Dopo la morte di papà, la zia si ètrasferita a casa nostra. Ci ha detto chemia madre aveva deciso di andare avivere dai suoi nel Benin, e non eravero. Mia zia e mio zio l’avevano man-data via, e la zia è diventata la mianuova tutrice. Mi hanno permesso diandare a scuola fino alla fine di quel-l’anno. Quando ho compiuto diciasset-te anni, lei ha detto che non sarei tor-nata a scuola perché non c’era bisognodi sprecare tempo e denaro, e che d’al-tronde le mie sorelle che avevano stu-diato avevano poi finito con lo sposar-si comunque. Avevo perso mio padre,avevo perso la mia mamma, e adessola scuola. Mi sono detta: “Oddio, cosadeve succedere ancora?”.

Poco tempo dopo, un gentiluomo hacominciato a venire a casa nostra. Hopensato che magari la zia volesse rispo-sarsi, perciò, quando lui se ne andava,dicevo: “Ah, che tipo in gamba”. E leicontinuava a lodarlo, a dire quant’eraricco, e quant’era importante, e gentile.Pensavo che fosse innamorata. Nonsapevo che parlava così per suscitare ilmio interesse. Non mi ha detto chevoleva che io lo sposassi finché unavolta ha accennato: “Gli ho detto chenon vai più a scuola”. Ero sorpresa.“Perché dovevi dirgli che non ci vadopiù?”. E lì lei ha risposto: “Ti ricordiche dici sempre che è una persona cari-na? Vuole sposarti”.

Credevo che scherzasse. Mi avevadetto che lui aveva quarantacinqueanni. E io: “Quarantacinque!!!”. E lei:“Non ti preoccupare. Ha già tre mogli eloro si prenderanno cura di te”. Alloraho detto: “Ma io non voglio”. E da lì inavanti in quella casa non abbiamo fattoaltro che litigare. Poi un giorno mi dice:“Lo so che non lo ami, ma dopo lakakiya [mutilazione dei genitali] vedraiche imparerai ad amarlo”.

Mi ero appena svegliata e mi hachiamata nella sua stanza, dove ho

visto questi bellissimi abiti sul letto –abiti e gioielli e scarpe – e mi ha detto:“È tutto da parte di tuo marito. Ti vuoleoggi. Allora domani è il giorno dellakakiya”. E io: “Cosa?! Mi sposooggi?”. Non sapevo proprio cosa fare.C’è stato il matrimonio e dopo mihanno dato da firmare la licenza dimatrimonio, ma mi sono rifiutata. Sonovenuti i miei fratelli e le mie sorelle piùgrandi e ne abbiamo parlato. Si sonoscusati per non aver impedito che lecose si spingessero fino a questo punto.Mia sorella maggiore era sconvolta.Ma mi diceva di non piangere – chesarebbe andato tutto bene. Avrebbefatto in modo che nessuno mi facesse lakakiya. Ma io non le credevo perché inrealtà non c’era niente che lei potessefare. Ormai ero la moglie di qualcunaltro. E lei mi dice: “Non ti preoccupa-re. Io e Amaray ti nascondiamo”. Lamamma la chiamavamo Amaray; vuoldire “luminosa”.

Mi diceva di non firmare la licenzadi matrimonio, di non preoccuparmi.Che sarebbe andato tutto bene. È torna-ta nel cuore della notte e siamo andatevia di casa, passando poi il confine conil Ghana. Il primo aereo disponibileandava in Germania. Mia sorella mi hadato trecento dollari, tutto quello cheaveva. Ho preso un aereo dallaGermania agli Stati Uniti, comprando-mi un passaporto. Quando l’ufficialedell’immigrazione all’aeroporto diNewark ha detto: “Hai dei soldi?”, le homostrato quel poco che mi era rimasto epoi le ho detto che volevo chiedereasilo. Lei ha detto siediti lì e che sareb-be tornata subito. Ho aspettato sedutache controllasse tutti e poi è venuta dame. Ha detto: “Okay, dimmi cosa vuoidagli Stati Uniti”. Ho detto che volevoasilo. E lei ha detto che le dovevo direche problema avevo. E le ho raccontatotutto. Insomma, non proprio tutto, eraimbarazzante. Come poteva capire?Non sapevo nemmeno le parole per dir-glielo in inglese. Non sapevo come sidiceva. Le ho detto che mio padre eramorto e che mia madre era sparita, e chemia zia voleva che sposassi un uomoche non volevo e che invece io volevotornare a scuola. Questo più o menoriassumeva tutto – non ho parlato dellakakiya perché sapevo che probabilmen-te non avrebbe capito e anzi avrebbepensato che ero pazza. Se mi davanoasilo dipendeva dal giudice, mi ha

detto, e perciò sarei andata prima in pri-gione, poi avrei incontrato il funziona-rio consolare del mio paese.

Ho conosciuto Cecilia Jeffrey, unadetenuta, al riformatorio nel NewJersey. Mi trattava come una sorella.Mi abbracciava quando andavo a dor-mire. Quando mi hanno portata allaLeigh County Prison, in Pennsylvania,mi sono ammalata. Mi hanno messa inisolamento, trattandomi come unabestia. Stavo così male che ho pensato:“Se devo morire, tanto vale che torni acasa”. Ho inviato la domanda all’INS[Servizio di immigrazione e Natura-lizzazione] e ho scritto una lettera aCecilia, che nel frattempo era stata tra-sferita nella mia stessa prigione, dicen-dole quanto avevo apprezzato il modoin cui si era presa cura di me e che nonl’avrei mai dimenticata. Lei era scon-volta, perché sapeva della situazione acasa mia. E si è infuriata. Ha scritto alconsigliere dell’ambasciata dicendoche ero sua figlia e che dovevano, perfavore, trasferirmi nella zona carcera-ria di minima sicurezza, perché leipoteva convincermi a non tornare acasa. La prigione era così affollata cheun gruppo di noi l’avevano messo inmassima sicurezza. Le guardie mihanno chiesto: “Cecilia è tuamamma?”, e io ho detto: “Sì”. Allorami hanno trasferito in minima sicurez-za, dov’era lei, e lei era così arrabbiatacon me. Mi ha detto: “Ma sei matta?Lo sai per cosa torni a casa?”. E io:“Non ce la faccio più”. Il giorno dopolei era nella doccia e mi ha chiamata:“Vieni qui. tesoro”. (Mi chiamavasempre tesoro). Sono entrata in bagnoe lei stava lì in piedi con le gambe aper-te e mi ha detto: “Guarda. È per questoche vuoi tornare a casa?”. Non credevoai miei occhi.

Era qualcosa di orrendo, terribile,non riuscivo a spiegarlo. Ho visto e sonosubito corsa fuori dal bagno. E lei mi haurlato: “Torna qui! Vuoi fare la scema?Torna qui! Vieni qui e guarda!”. Sonotornata e lei mi ha detto: “Lo sai checos’è questo”. Non lo sapevo. Ma nonsembravano neanche dei genitali. Nonsembravano niente. Era una cosa asso-lutamente liscia come il palmo della miamano. Si vedeva solo una cicatrice,come una cucitura. E poi c’era un picco-lo foro. Tutto qua, niente labbra, niente.Io dico: “E tu vivi con questo?”. E lei:

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che mia madre non avesse potuto pro-teggermi dalla mutilazione dei genitali.E non credeva che mio padre avesseprotetto le mie quattro sorelle e nonme. Mi faceva tanta paura. Urlava tan-tissimo e sbagliava a dire il mio nome equello del mio paese, e quando l’hocorretto si è arrabbiato. E poi ha dettoqualcosa e io ho alzato la voce: “No,non è quello che ho detto”. E lui ha gri-dato: “Questa è l’ultima volta cheinterrompi la corte”. Da come andaval’udienza, capivo che lui non mi avreb-be fatto avere asilo. Anche prima dientrare in tribunale, aveva già deciso.Layli mi ha detto che non dovevopreoccuparmi, che qualunque cosasuccedesse lei avrebbe fatto in modo difarmi avere giustizia. Mi pregava dinon tornare a casa.

Ero in prigione quando ho conosciu-to il giornalista del New York Times.All’inizio non volevo che mi intervi-stasse. Mi avevano già intervistato intanti, ma non era servito a farmi uscire.E allora ho detto: “A cosa serve? Stosolo esponendo la mia famiglia. E chis-sà, se poi mi rimandano a casa sarebbe

ancora peggio per me”. Mi avevanoanche mandato una lista di membri delcongresso che avevano firmato unapetizione perché il procuratore distret-tuale mi concedesse la libertà sullaparola, ed era stata respinta. Se venti-cinque membri del congresso non pote-vano tirarmi fuori di prigione, potevaun’intervista?

Comunque alla fine ho accettato diparlare con il Times, e con nostra sorpre-sa la mia storia è apparsa in prima pagi-na. Era l’undici e sono uscita il venti-quattro. Mi dicevano che i media aveva-no molto potere in questo paese. Più delCongresso? Era pazzesco, e io non locapivo. Tutto ha uno scopo e qualunquecosa succeda è destinata. Perciò io sonouscita perché Dio l’ha reso possibile.Quando pativo tutte quelle sofferenzenon la pensavo così. Pensavo: “Perché ame, perché non capita a qualcun altro?”.Ma adesso, quando mi guardo indietro,capisco che se io non avessi passato tuttoquesto, la questione non avrebbe toccatotanta gente, come invece è successo. Èquesto il lavoro di Dio. Ed è davveroincredibile.

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“Per tutta la vita. Piango ogni volta chelo vedo. Piango dentro di me. Mi sentodebole, mi sento annullata”.

La guardo e vedo la donna più fortedel mondo. Dall’esterno non si riesce adire se soffre o se prova dolore. So chenon è felice, ma non si direbbe dal suoaspetto o da come tratta gli altri. È lapersona più amorevole che abbia maiconosciuto. E poi mi dice: “Va bene, sevuoi tornare a casa, ti aiuto a scrivere ladomanda. Anche se sei scema. Va benecosì”. Le ho presentato Karen[Masalo], il mio avvocato, e insiememi hanno convinta a rimanere. Allaprima udienza il giudice era così sgar-bato, così cattivo, sia con me che conLayli. Layli Miller Bashir era una stu-dentessa di giurisprudenza dell’Ame-rican University Law Clinic che avevaassunto il mio caso. Layli mi facevauna domanda e prima che potessirispondere il giudice diceva: “Non ènecessario, la corte non vuole saperequesto”. E poi mi faceva lui unadomanda e prima che io rispondessi,rispondeva per me. In tribunale nonpotevo parlare affatto. Lui non credeva

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Settimo di otto figli di un banchiere diShanghai, Harry Wu ha studiato dai

gesuiti prima di iscriversi al College ofGeology di Pechino, alla fine degli anniCinquanta. Nello spasimo delle purghecomuniste, la sua università ha offerto ilproprio tributo in elementi controrivolu-zionari, tra questi Wu, che è stato confi-nato per diciannove anni nel gulag cine-se, il laogai. Lì è riuscito a sopravviverefisicamente e psicologicamente alla tor-tura, cibandosi per un certo periodo sol-tanto di pula macinata. Nella sua bio-grafia Bitter Winds, racconta della cac-cia ai topi per scoprire dove stessero erubare i chicchi di granaglie dai loronidi, oppure di quando mangiava i ser-

penti. Dopo la sua liberazione, nel 1985,Wu ha accettato un posto di ricercatoreospite non retribuito presso l’Universitàdella California, a Berkley, ed era arri-vato negli Stati Uniti con soli quarantadollari in tasca. Per dieci giorni ha svol-to il lavoro di ricerca, mentre di nottedormiva su una panchina del parco, poiè riuscito a trovare un lavoro: faceva ilturno di notte in un negozio di ciambelledove poteva contare su tre pasti al gior-no e un posto per dormire (tuttora, nonpuò vedere le ciambelle). Wu è tornato, oha cercato di tornare, in Cina circa cin-que volte. Mentre si trovava là, in dueoccasioni nel 1991, e in una nel 1994,Wu ha documentato le condizioni di pri-gionia nei campi di lavoro per SixtyMinutes e altri programmi d’informa-zione e, a causa delle sue denunce, èstato inserito nella lista dei ricercaticinesi più pericolosi. Nel 1995, duranteil suo quinto viaggio, è stato catturato.Mentre Wu scontava sessantasei giornidi detenzione, in attesa di conoscere lapropria sorte, ha preso il via una campa-gna mondiale per la sua liberazione, chetra l’altro chiedeva a Hillary Clinton diboicottare la Conferenza sulle Donne, aPechino. La Cina l’ha rilasciato e il suoritorno negli Stati Uniti è stato festeg-giato in tutto il paese. Oggi WU moltospesso testimonia a Capitol Hill [sededel Congresso statunitense aWashington] in merito ai più recentiabusi da lui scoperti, come la vendita, daparte di funzionari del governo, di orga-ni dei detenuti mandati a morte, l’espor-tazione illegale di prodotti del lavoroeffettuata in prigione (come ad esempio imotori diesel e le divise dei ChicagoBulls), la frequenza delle esecuzionipubbliche, le inique restrizioni sui dirittiriproduttivi e le loro terrificanti proce-dure di applicazione. La Laogai

Research Foundation, fondata e direttada Wu, stima che dal 1950 ad oggi sianostate incarcerate circa cinquanta milionidi persone e che oggi ci siano circa ottomilioni di perone costrette ai lavori for-zati. L’obiettivo dichiarato di Wu è quel-lo di far inserire lo parola laogai in tuttii dizionari del mondo e, a questo scopo,lavora diciotto ore al giorno attraver-sando in lungo e in largo il paese perparlare con gruppi di studenti e capi diStato e far sì che questo presente orribi-le diventi una memoria del passato.

Gli esseri umani vogliono viverecome esseri umani e non come bestie dasoma, non come strumenti ad uso e con-sumo di altri. Le persone devono rispet-tarsi reciprocamente quanto basta pervivere l’una accanto all’altra pur mante-nendo il diritto alla libertà di scelta:libertà di scegliere la propria religione,la propria cultura. Se parli di diritti indi-viduali, sei automaticamente un opposi-tore del governo.

Molti uomini politici e studiosi statu-nitensi fanno eco alle menzogne cinesisecondo cui alla Cina vada applicato undiverso concetto di diritti umani. La lea-dership cinese sostiene che la categoriapiù importante dei diritti umani è quelladei diritti economici. Jiang Zemin, presi-dente della Cina, ha detto: “La mia primaresponsabilità verso i diritti umani è dareda mangiare alla gente”. In risposta iodirei che posso anche alimentarmi dasolo, se sono libero, non ho bisogno diqualcuno che lo faccia per me.Purtroppo, alcuni Occidentali dicono:“Il cinese non parla mai dei valori indi-viduali, parla di diritti collettivi, quindinon imponete gli standard occidentalidei diritti umani ai cinesi. La democraziaè un concetto occidentale”. Questa è

HARRY WUCina. Laogai“Non è sufficiente liberare un dissidente quando la posta in gioco è così alta. Sul piatto della bilancia siamo tutti uguali, e tuttele vittime dei laogai hanno gli stessi diritti”.

Fotografia tratta da: Voci Contro il Potere.Difensori dei Diritti Umani che stanno cambian-do il mondo di Kerry Kennedy, fotografie diEddie Adams, a cura di Nan Richardson.Umbrage Editions, distribuito da Logos. © 2000Eddie Adams

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pura ipocrisia, esiste solo una versionedella Dichiarazione dei Dirittidell’Uomo, dichiarazione per altro rati-ficata dalla Cina. Non esistono una ver-sione cinese e una versione americana. Idiritti umani sono universali.

L’occidente si concentra principal-mente sulla libertà di parola e sulla libertàdi religione e cerca di far liberare i dissi-denti religiosi, i dissidenti politici e glistudenti dissidenti. Quindi la maggiorparte dell’attenzione degli Occidentali sifocalizza sugli individui, su quel sacerdo-te cattolico o su quel monaco tibetano. Daun lato è molto importante esigere la loroliberazione perché la vita appartiene a unapersona soltanto una volta, non due.Dobbiamo salvarli. Ma noi cinesi dicia-mo: “Mai porre l’attenzione su un soloalbero; concentrarsi su tutta la foresta”.

Lasciate che vi racconti la storia delletre W: Wu, Wei ,Wang Dan. Io sono laprima “W”. Nel 1957 mentre studiavoall’università di Pechino, ho denunciatoapertamente l’invasione dell’Ungheriada parte dei Sovietici. Perciò sono statomarchiato come “controrivoluzionario”e condannato a vita al laogai, il terminecinese per gulag. In definitiva ho datodiciannove anni della mia esistenza aquesto sistema. Nel 1979, l’anno in cuisono stato rilasciato, l’Occidente plaudi-va la Cina per la sua apertura. Mao eramorto e la Rivoluzione Culturale si eraconclusa, e sembrava che DengXiaoping fosse sul punto di proclamarela nascita di una nuova Cina. Ma lo stes-so anno la seconda “W”, Wei Jingsheng èstato incarcerato per aver espresso libera-mente la sua opinione, per aver chiesto la“quinta modernizzazione”, l’instaurazio-ne di un regime democratico in Cina. Nel1989 quando mi trovavo già negli StatiUniti e Wei era al suo decimo anno di car-cere, un altro giovane, Wang Dan, è statoincarcerato per il ruolo che ricoprivaall’interno del movimento studentescoper la democrazia. Il governo cinese haimprigionato ognuno di noi in unmomento diverso per aver pacificamenteespresso le nostre opinioni; tutti noi neglianni Novanta siamo stati condannati unaseconda volta. Quanto ai diritti indivi-duali, dal 1957 non è cambiato molto.

Il primo anno della mia prima espe-rienza in prigione piangevo quasi ognigiorno. Mi mancava la mia famiglia, spe-cialmente mia madre, che si era suicidataperché ero stato arrestato. Pensavo allamia fidanzata. Ero cattolico, e allora pre-

gavo. Ma dopo due anni non c’erano piùlacrime. Non ho più pianto, perché erodiventato una bestia. Non perché ero uneroe, e nemmeno perché avevo unavolontà di ferro, ma perché ho dovutopiegarmi. Credo che nessuno possa resi-stere in determinate circostanze. Giàdurante la prima notte al campo siamostati costretti a confessare. La confessio-ne distrugge la dignità. Se non confessivieni sottoposto a torture fisiche. E nellaconfessione devi essere coerente, sem-pre, dall’inizio alla fine. Non puoi maidichiarare la tua innocenza. Puoi solo gri-dare, ancora e ancora: “Ho sbagliato.Sono uno stupido. Sono un pazzo. Sonouna merda. Sono un criminale. Non sononiente”. Allo stesso tempo devi affronta-re i lavori forzati. Il lavoro è uno dei modiche ti aiuta a diventare un nuovo sociali-sta. Il lavoro è un’opportunità che ti offreil partito per riformarti. L’obiettivo ulti-mo è trasformarti in un nuovo cittadinodel sistema comunista.

Mi hanno detto che il mio criminenon era grave, non era serio. Ma il pro-blema era il mio atteggiamento politico.“Non ho fatto nulla di sbagliato”, dice-vo. “Mi avete ingannato. Io non ammet-terò mai nessun crimine”. Non ho con-fessato. Mi hanno separato da tutte lepersone della mia vita, dai miei compa-gni di studi, dai miei amici, dai mieiinsegnanti, dai miei genitori. Ero com-pletamente isolato. Pensavo: “Sono unerrore. A loro non piaccio. Sono qualco-sa di sbagliato. Lasciate che ci pensi,okay?”. E dopo: “Sì, ho sbagliato”.Passo dopo passo ho perso la miadignità, la mia sicurezza in me stesso, lamia posizione sociale. Ho iniziato a cre-dere di essere un criminale. Era come senoi cinesi vivessimo in una scatola pertutta la vita senza mai vedere il cielo. Senon esci mai dalla scatola, finisci percredere che quella sia la realtà. Questa èla riprogrammazione, che alla fine tiriduce a un automa. Una goccia d’acquapuò riflettere il mondo intero, ma tante,tantissime gocce possono diventare unfiume, un oceano.

Diciannove anni. Quanti giorni,quante notti? Ho preso a pugni qualcu-no, ho rubato. Non ho mai pianto. Hosmesso di pensare a mia madre, alla miafidanzata, al mio futuro. Alcune personesono morte. E allora? Mi hanno spezza-to la schiena. Ho avuto sangue umanosulle labbra. Ho dimenticato così tanto.Nel 1986, sono venuto negli Stati Uniticome ricercatore ospite. Ricordo il gior-

no, era ottobre, in cui ho tenuto una con-ferenza sul laogai. Mi sono detto: “Senon fossi Harry Wu. Saresti un cantasto-rie”. Improvvisamente non ho più potu-to fermarmi. Per venti minuti gli studen-ti sono rimasti in silenzio. Ho conclusola conferenza e allora mi sono reso contodi essere tornato un essere umano. Allafine della conferenza per la prima voltaho detto: “Sono così fortunato a esseresopravvissuto”.

La prima volta che sono venuto negliStati Uniti, nessuno mi conosceva.Proprio come a laogai, ero anonimo. Ilgoverno cinese mi ha inserito nella listadei ricercati perché ho messo il dito nellapiaga. Se si vuole parlare dei dissidenti, icinesi sono disposti a parlare con voi, manon se parlate del laogai. Potreste parla-re a Hitler dei campi di concentramento?Potreste parlare a Stalin dei gulag?

Non so come ho fatto a sopravvivere.Pensi a te stesso come a un essereumano, che lotta per la sua dignità, per ilsuo futuro, per la sua vita, per i suoisogni. La vita ti appartiene solo unavolta. Prima o poi voi e io moriremo.Alcuni ci mettono trent’anni, altri ottan-ta. Una volta in esilio, perché non avreidovuto godermi quel che mi restava davivere? Perché ho sentito il bisogno ditornare in Cina? Ho provato a godermi lavita. Ma mi sono sentito in colpa.Soprattutto quando la gente parlava dime definendomi un eroe. L’Occidentemi ha sempre esaltato, perché è semprein cerca di un eroe. Ma un vero eroesarebbe morto, morto. Se fossi un veroeroe, come quelle persone che ho incon-trato nei campi, mi sarei suicidato. Sonofinito, non esiste nessun Harry Wu. Eccoperché alla fine ho deciso di tornare inCina.

Nel 1991 ho visitato il campo laogaidove era detenuto Wei Jingsheng. Lui sitrovava nel Deserto del Gobi e io volevogirare un filmato per mostrare la situazio-ne alla gente. In passato mi ero spacciatoper prigioniero, per turista o per un mem-bro della famiglia. Questa volta per poli-ziotto. Non mi hanno riconosciuto. I poli-ziotti mi salutavano facendomi cennocon la mano e io salutavo di rimando. Maquando nel 1995 stavo ancora tentandodi raccogliere prove, sono stato sorpresomentre cercavo di entrare in Cina dalconfine con la Russia. Mi hanno arresta-to e mi hanno mostrato le fotografie cheavevo scattato. Questa volta mi hannocondannato a quindici anni.

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Ora sto lavorando su questioni legateal controllo delle nascite, perché questo èun altro ambito dei diritti umani decisa-mente problematico in Cina. Senza il per-messo del governo, in Cina, non è possi-bile avere figli. Avevo una copia dellalicenza “di avere figli” e del “divieto diavere figli” della provincia di Fujian.Dopo il primo figlio si ha il dovere di farsisterilizzare. Se una donna viene scopertaincinta una seconda volta, il governo lacostringe ad abortire. Non puoi avere unsecondo figlio, anche se vivi in campa-gna. In questo caso, devi aspettare deglianni e solo dopo puoi avere il secondofiglio. Subito dopo il parto, si procede allasterilizzazione forzata.

Un sinologo statunitense una volta miha detto che la crescita della popolazionein Cina è spaventosa, e costituisce unproblema non solo per la Cina, ma per ilmondo intero. E io ho risposto: “Sarestid’accordo con l’introduzione negli StatiUniti dell’aborto forzato?”. Ha rispostodi no. “Allora perché applicare questostandard ai cinesi? È una politica assas-sina. È una politica contro ogni singoladonna, contro ogni singolo individuo”.Le statistiche del governo ci dicono chein una sola area della Cina, il 75 percento delle donne tra i sedici e quaranta-nove anni sono state sterilizzate: 1,2milioni di persone. Ogni mese si pratica-no circa cento aborti.

Oggi, i cinesi hanno il diritto di sce-gliere tra diverse marche di shampoo,ma ancora non possono esprimere quel-lo che realmente vorrebbero esprimere.Il diritto di scegliere uno shampoo cicondurrà al diritto di scegliere libera-mente la nostra religione, come sosten-gono alcuni? C’è una bella differenza.

La mia scelta è stata semplice: prigio-nia o esilio. Ma quello che la gente noncapisce è che l’esilio in sé è una tortura.Anche l’esilio è una violazione dei dirit-ti umani. Non abbiamo mai applaudito isovietici quando esiliavano i dissidenti.Tuttavia, quando i cinesi hanno esiliatoWang Dan, il dipartimento di Stato e laCasa Bianca hanno affermato che si ètrattato di una vittoria della politica del-l’engagement degli Stati Uniti.

Certo, penso che valga la pena salva-re qualcuno da quel meccanismo, ma èproprio il meccanismo che vorrei vede-re distrutto. Vengo dal laogai. WeiJingsheng veniva dal laogai. Ora WangXiaopo è in un laogai. Dei sacerdoti

cattolici si trovano nel laogai. Dei sin-dacalisti stanno nel laogai. La maggiorparte delle persone che si trova in unlaogai non ha un nome, non ha un volto.Non è sufficiente salvare un dissidentequando la posta in gioco è così alta. Sulpiatto della bilancia siamo tutti uguali,e ogni vittima del laogai merita gli stes-si diritti, non soltanto i dissidenti politi-ci, ma anche i criminali. Con questonon voglio dire che i crimini vadanogiustificati, ma ad ogni prigionierodeve essere garantita la stessa protezio-ne. Si tende a dimenticare questo puntoquando si parla soltanto di prigionieri dicoscienza. È difficile dire quale sia lapercentuale di prigionieri d’opinionerispetto a quella dei semplici criminali.Potete chiederlo alle autorità cinesi eloro vi risponderanno che in Cina non cisono prigionieri politici. Diranno, peresempio, che praticare la propria reli-gione è legale, ma se pratichi il cattoli-cesimo ti arrestano, accusandoti però diturbare l’ordine e di partecipare a riu-nioni illegali.

Ogni regime totalitario ha bisogno diun sistema repressivo. La cosa singolareè che nessuno parla di questo sistemariferendosi alla Cina comunista. Diconoche il sistema repressivo non esiste, oche lo usano soltanto nel caso di partico-lari individui. Ho tenuto conferenze sullaogai in tutte le maggiori universitàdegli Stati Uniti. Quando ero a Yale hoparlato con Jonathan Spence, autore delmanuale sulla Cina più usato nelle uni-versità statunitensi. Gli ho detto:“Jonathan, parli molto bene il cinese, haiuna moglie cinese e addirittura usi moltitermini cinesi nei tuoi lavori. E il laogai?Le vittime dei laogai sono molto piùnumerose di quelle dei gulag sovietici edei campi di concentramento. Di sicurone hai sentito parlare, ma non comparemai nei tuoi lavori, nei tuoi articoli, neituoi libri. Non vuoi parlarne, perché?”.Perché Steven Spielberg non ha filmatoil laogai come ha fatto per i campi diconcentramento?

Voglio che il laogai diventi una vocein ogni dizionario, in ogni lingua.“Lao” significa “lavoro”, mentre “gai”significa “riforma”. Loro ti riformano.Hitler sin dall’inizio aveva un’ideamalvagia: distruggere gli Ebrei,distruggere le persone. I comunistiall’inizio avevano l’idea meravigliosadi creare una sorta di paradiso, elimi-nando miseria e povertà. Sembravanoangeli, all’inizio, e si sono rivelati dei

demoni. I cinesi perpetrano numeroseviolazioni: torture fisiche, torture men-tali e torture spirituali. Loro dicono “Tiaiutiamo a diventare una nuova personasocialista. Non ti vogliamo uccidere,per il nostro senso di umanità. Hai sba-gliato, confessa. Accetta il comunismoe anche tu, insieme alla riforma, contri-buirai a ricostruire la comunità sia spi-ritualmente che mentalmente”.

Prima del 1974, “gulag” non era unaparola. Oggi lo è. Così ora dobbiamodenunciare la parola laogai: quante vitti-me ci sono nei laogai, quali sono le con-dizioni dei prigionieri, quali sono lemotivazioni per tale sistematico degra-do? Voglio che la gente sia consapevole,consapevole di quante persone sonoimprigionate nei laogai. Consapevoledei prodotti ‘made in China’ usciti dallemani dei prigionieri sfruttati: i giocatto-li, i palloni, i guanti chirurgici.Consapevole di cosa sia la vita sotto ilavori forzati. Consapevole dei supposticrimini per cui la gente viene rinchiusain un laogai. È una questione di dirittiumani, non di import-export.

Sono assolutamente consapevole cheoggi sia difficile parlare di laogai. Hodetto al presidente Clinton: “Vorrei chelei fosse il primo leader che condanna illaogai cinese. La imploro. Solo unafrase. Non le costerebbe nulla”. E ho cri-ticato la politica statunitense come tipicapolitica dell’appeasement. I leader degliStati Uniti mi hanno chiesto:“Suggerirebbe l’isolazionismo o la poli-tica del contenimento?”. Questo tipo dipolarizzazione è troppo dozzinale. Nonho mai suggerito l’isolazionismo e nem-meno suggerisco le sanzioni. Ma doveteraccontarmi l’altra parte, il resto dellastoria. I profitti dell’industria benefice-ranno soltanto il regime comunista. Diquesto non si parla. Il regime comunistacinese è stabile. Perché? Perché lo soste-nete finanziariamente.

La Cina, in un futuro molto vicino,diventerà più importante. Quando sare-mo testimoni dell’egemonia cinese inOriente, allora ci chiederemo il perché.Perché ignoriamo la forza crescente diquesto regime autoritario? Lasciate chevi citi un altro proverbio cinese: “Se vuoiche l’acqua smetta di bollire, devi solorimestarla. Il modo migliore però, è spe-gnere il fuoco”. L’Occidente ha bisognodi una politica cinese a lungo termine,una politica che sostenga tutti i desideridi libertà e democrazia in Cina.

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La foto di copertina: classe discuola elementare; in primo piano

vicini di banco due bambini: uno capel-li biondi e carnagione bianca, l’altrocapelli neri e carnagione nera.

La dedica: Alle donne e alla “picco-la gente” del Sudafrica.

L’autore: Desmond Tutu (cenni)Nato in Sudafrica nel 1931. Laureato

nel 1954, ordinato sacerdote nel 1960.Ha studiato ed insegnato in Inghilterra eSudafrica. Nel 1975 primo nero suda-fricano ad essere nominato diacono enel 1978 primo segretario generale dicolore del Concilio delle ChieseSudafricane.

Premio Nobel per la Pace nel 1984.Arcivescovo Anglicano di Città del

Capo dal 1986 al 1996.Presidente della Commissione per la

verità e la riconciliazione del Sudafrica.

Una premessa:Nel bellissimo libro La domanda di

giustizia (Giulio Einaudi editore, pagi-ne 73), resoconto di un dialogo su que-sto tema tra Carlo Maria Martini eGustavo Zagrebelsky, quest’ultimoricorda che esistono diverse forme digiustizia.

La giustizia retributiva: per la qualefunzione della giustizia è distribuiresanzioni e ricompense giacché il malerichiama il male ed il bene richiama ilbene.

E la giustizia distributiva: il cui fineè promuovere un’equa ripartizionedelle risorse comuni, creare cioè unasocietà giusta dal punto di vista mate-riale (pagg. 28-29).

Il Presidente emerito della CorteCostituzionale si sofferma però poi suuna terza forma di giustizia: quellariconciliativa o ricostitutiva (restorati-ve justice).

Una giustizia orientata alla riconci-liazione, alla reciproca accettazione, alriconoscimento dell’umanità delle per-sone, il cui miglior esempio del nostro

tempo è stato rappresentato dallaCommissione del Sudafrica (pagg. 30-40).

Trama: Desmond Tutu racconta la sua espe-

rienza quale Presidente dellaCommissione per la verità e la riconci-liazione istituita in Sudafrica dopo leelezioni del 1994 che segnarono ilsuperamento del regime di apartheid.

Affronta i vari aspetti storici, giuri-dici, sociologici e culturali che hannocondotto all’istituzione di questo orga-nismo.

Riporta stralci di quanto accadutonel corso delle udienze dando voce avittime e carnefici. Dà conto del climaculturale nel quale ebbe ad operare laCommissione.

Parla, senza nascondimenti, di sestesso, delle difficoltà incontrate, delsuo coinvolgimento emozionale (comequando scoppia a piangere nella primaudienza al racconto di un uomo rimastosemiparalizzato per le torture subite,tanto da pensare di essere inadatto alruolo che gli è stato riservato).

Desmond Tutu è anche uomo digrande fede in Dio; e a Dio più volte sirivolge per chiedere ragione di tantoorrore, per chiedere aiuto per sé e pergli altri, per essere sostenuto nel porta-re a termine nel miglior modo possibileun compito che avverte così importanteper il suo Paese.

Il libro inizia con una data: il 27 apri-le 1994.

Quel giorno, all’età di 62 anni, diceDesmond Tutu, era infine venuto ancheper lui il momento di potersi recare alleurne ed esprimere il proprio voto per ilParlamento (che si risolse poi nellanomina, il 10 maggio, di NelsonMandela a Presidente del Sudafrica).

“Persone delle etnie più diverse,forse per la prima volta, si trovavanoaccomunate in una fila. Domestici eprofessionisti, padrone e cameriere...Le lunghe ore di attesa ai seggi ci

hanno aiutato a muovere i primi passil’uno verso l’altro... la verità, quellaverità che con tanta fatica avevamocercato di comunicare, cominciava afarsi strada nella testa della gente.Ognuno aveva accanto dei fratelli edelle sorelle, uomini e donne apparte-nenti alla terra del Sudafrica; la razza,l’etnia, il colore della pelle erano irri-levanti. Per la prime volta le persone siguardavano non più come bianchi oneri o indiani e meticci bensì comeesseri umani... Le elezioni di normasono eventi politici mondani, da noi sipuò dire che hanno avuto il carattere diun’autentica, sublime esperienza spiri-tuale... I neri entravano nei seggi e neuscivano diversi: entravano gravatidall’angustia e dal peso dell’oppressio-ne, minati nella vitalità come da unacido per la continua consapevolezzadi essere considerati pattume e ne usci-vano rinnovati. “Sono un essere libe-ro”.

In quel fatidico giorno sentimmo laverità delle parole di Martin LutherKing: “Se non vivremo insieme comefratelli e sorelle moriremo insiemecome stolti” (pagg. 12-13).

Se il 27 aprile 1994 segnava un gior-no nuovo nella vita del Sudafrica, mol-teplici questioni rimanevano sulcampo.

Il dolorosissimo passato, segnatodall’apartheid e da tutto ciò che ne eraconseguito – gravissime violazioni deidiritti umani, delitti, torture, sparizioni,attentati – era ben presente nella vita enella memoria del Paese e dei suoi abi-tanti e non poteva essere cancellato conun semplice colpo di spugna.

La questione andava affrontata nelmiglior modo possibile perché solo di lìin realtà sarebbe nato il nuovoSudafrica.

Varie soluzioni erano astrattamentepraticabili.

Dall’amnistia tout court al processogiudiziario stile “Norimberga”; model-li che però, per vari motivi, nel caso del

Recensione del libro:Non c’è futuro senza perdono

Non c’è futuro senza perdono (titolo originale No future without forgiveness) di Desmond Mpilo TutuEd. italiana Giangiacomo Feltrinelli Editore; pagine 214

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la Pazienza Recensione del libro: “Non c’è futuro senza perdono”55

Sudafrica non sarebbero stati di facilerealizzazione e che al contempo avreb-bero comportato il rischio di una nuovastagione di tensioni.

Si scelse così una “terza via”: e, conla legge “Promotion of National Unityand Reconciliation Act”, fu istituita laCommissione per la verità e la riconci-liazione che iniziò ad operare nel 1995.

Composta nel suo nucleo originarioda 16 persone, essa inaugurò i suoilavori il 16 dicembre 1995 “Giornodella riconciliazione” a Bishopscourt,residenza dell’Arcivescovo anglicano aCittà del Capo ma, a suo tempo, casa diquel Jan van Riebeeck che nel 1652 erastato il primo bianco a stabilirsi comecolono in Sudafrica.

In qualche modo la legge aveva pre-visto un’amnistia ma un’amnistia parti-colare, condizionata.

La poteva ottenere chi, avendo com-piuto tra il 1960 ed il 1994 un atto cri-minale per motivazioni politiche, aves-se reso davanti alla Commissione unaconfessione piena e dettagliata di tutti ifatti relativi al delitto per il quale richie-deva il beneficio.

La legge istitutiva della Com-missione prevedeva inoltre che nel cer-care di ricostruire al meglio il quadrodelle violazioni dei diritti umani sidesse voce alle vittime.

Queste potevano poi, pur senza dirit-to di veto vero e proprio, opporsi finan-

co all’amnistia quando avessero ritenu-to mancanti le condizioni richieste.

Ad esse veniva inoltre riconosciutauna riparazione che pur non rappresen-tando un risarcimento vero e proprioma un indennizzo simbolico, era unmodo con cui si cercava di dire: ricono-sciamo che i vostri diritti sono stati gra-vemente violati (pagg. 51 ss.).

Il libro riporta, come si diceva, piùtestimonianze.

Ne scegliamo una.Quella di Lucas Sikwepere che, dopo

aver ricordato alla Commissione comeaveva perduto la vista a seguito dellosparo in faccia ad opera di un famigera-to poliziotto di Città del Capo, disse“Sento che... il fatto di essere qui e diavervi raccontato la mia storia mi hacome ridato la vista. Mi sembra che pertutto questo tempo la cosa che mi hafatto star male sia stata il fatto di nonaver potuto raccontare quello che hovissuto. Ma ora ... avervi raccontato lamia storia, è come se mi avesse guarito”.

L’ubuntu.In questa parola, ubuntu, che è al

tempo stesso concezione dell’esistere edell’esistenza, possiamo dire che haaffondato le sue radici la scelta operatadal Sudafrica per cercare una soluzioneall’immenso conflitto che il Paeseaveva conosciuto.

“Ubuntu – dice Tutu – è molto diffi-cile da rendere in una lingua occidenta-le. Riguarda l’intima essenza dell’esse-re umano. Il tale ha ubuntu significache è persona generosa, accogliente,benevola, sollecita, compassionevole;che condivide quello che ha. È comedire: La mia umanità è inestricabilmen-te collegata, esiste di pari passo con latua... Una persona che ha ubuntu hacoscienza di appartenere a un insiemepiù vasto, e quindi si sente sminuitaquando gli altri vengono sminuiti oumiliati, torturati e oppressi, trattaticome inferiori a ciò che sono” (pag.32).

Noi sosteniamo che esiste un altrotipo di giustizia da quella punitiva il cuiscopo principale è il castigo. In cui laparte lesa diventa lo Stato ridotto aun’entità impersonale che ha scarsaconsiderazione per le vittime e quasinessuna per i criminali.

Noi sosteniamo che esiste la giusti-zia restituiva. Così nello spirito dell’u-buntu fare giustizia significa innanzi-tutto risanare le ferite, correggere glisquilibri, ricucire le fratture dei rap-porti, cercare di riabilitare tanto le vit-time quanto i criminali, ai quali va datal’opportunità di reintegrarsi nellacomunità che il loro crimine ha offeso(pag. 46).

Davide Mosso

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56la Pazienza

Ne ha fatta di strada il giovaneJoseph, scappato da Shangai nel

1949 all’inizio della dittatura comunista,per arrivare nel 2006 ad essere nominatoCardinale di Hong Kong da S.S. papaBenedetto XVI, una strada passata attra-verso mille peripezie, in cui c’è anche unpoco di Torino.

Il card. Joseph Zen Ze-kiun ha infattisvolto i suoi studi teologici presso ilseminario salesiano di via Caboto aTorino e nella nostra città venne ordina-to sacerdote nel 1961 dal card. Fossati.

È una delle tante sorprese che rendonodi grande interesse il libro che DorianMalovic (Senza Alcuna Diplomazia, Ed.San Paolo) ha dedicato al card. Zen: lavicenda di un uomo alieno dai compro-messi, che ci fa ripercorrere la storiarecente e drammatica del popolo cineseattraverso la battaglia che Joseph Zen haingaggiato contro nemici risoluti e vio-lenti, per difendere uno dei diritti fonda-mentali della persona, il diritto alla libertàreligiosa, vera cartina al tornasole dellaeffettiva democraticità di un sistema.

Anche la nostra Costituzione poneall’art. 19 la libertà religiosa tra i dirittifondamentali della persona, specifica-zione del principio posto all’art. 13 (lalibertà personale è inviolabile), corolla-rio necessario del “diritto di manifestareliberamente il proprio pensiero con laparola, lo scritto e ogni altro mezzo didiffusione” (art. 21), ed in tale direzionesi sono orientate le principali costituzio-ni moderne, comprese quella cinese del1982 che all’art. 35 afferma che i cittadi-ni cinesi “hanno libertà di parola, stam-pa, riunione, associazione, viaggi,dimostrazioni”, così come all’art. 36afferma che “hanno libertà di credenzareligiosa” con la precisazione contenutanello stesso articolo che “Le associazio-ni (tuanti) e gli affari religiosi non ven-gono manovrati (zhipei) da influenzestraniere”, a dimostrazione che la pauradelle autorità cinesi è quella antica che,nella interpretazione dei rapporti traStato e confessioni religiose, è eredefedele della millenaria tradizione impe-riale: a condizionare la libertà di espres-sione religiosa, ancor prima della appli-cazione di teorie comuniste, interviene

spesso la storica e ben radicata dottrinacinese della subordinazione della reli-gione al potere politico.

Al di là di questo aspetto proprio dellamentalità cinese, vi è la constatazionedella generale difficoltà di vedere con-cretamente tutelato il principio di libertàreligiosa. Basti pensare a quanto staaccadendo in India, dove da tempo è incorso un massiccio pogrom anticristianocon assassini, violenze di ogni genere edistruzioni di antiche chiese, o in Egitto,dove è diventata legge civile dello Statoil divieto per un musulmano di abbrac-ciare un credo diverso; senza trascurareil fatto che nella più vicina Inghilterra,dove la legge dinastica continua a vieta-re la corona ai cattolici (...ma si parla diuna imminente modifica), il ministroRuth Kelly ha deciso di dimettersi dal-l’esecutivo non essendole riconosciutacompleta libertà di coscienza.

È l’importanza della posta in giocoche dà quindi senso e valore alla batta-glia di Joseph Zen, alfiere e testimonesulla sua pelle dei principi posti daldecreto Conciliare Dignitatis Humanae,emanato da Paolo VI il 7 dicembre 1965:“...questo Concilio Vaticano dichiarache la persona umana ha il diritto allalibertà religiosa. Il contenuto di una talelibertà è che gli esseri umani devonoessere immuni dalla coercizione da partedei singoli individui, di gruppi sociali edi qualsivoglia potere umano, così che inmateria religiosa nessuno sia forzato adagire contro la sua coscienza né siaimpedito, entro debiti limiti, di agire inconformità ad essa: privatamente o pub-blicamente, in forma individuale o asso-ciata. Inoltre dichiara che il diritto allalibertà religiosa si fonda realmente sullastessa dignità della persona umana qualel’hanno fatta conoscere la parola di Diorivelata e la stessa ragione. Questo dirit-to della persona umana alla libertà reli-giosa deve essere riconosciuto e sancitocome diritto civile nell’ordinamentogiuridico della società”.

Dal libro di Malovic risulta che lasituazione della libertà religiosa in Cinaè piuttosto complessa: il regime comuni-sta – nonostante i principi costituzionalisopra riportati – concede una certa

libertà di culto soltanto ai fedeli aderentialla Associazione patriottica cattolicacinese, che non riconosce ufficialmenteil primato del Papa sulla Chiesa. In realtàmolti degli aderenti a questa associazio-ne si riconoscono clandestinamente allaChiesa detta sotterranea rimasta fedeleal Papa. Quest’ultima, nonostante siacostretta ad operare nella clandestinità,sarebbe quella con una maggiore cresci-ta di fedeli (5000 chiese aperte dal1980). Numerosi sacerdoti e vescovidella Chiesa “clandestina” negli annipassati sono stati condannati al carcere oai lavori forzati.

Per comprendere l’attuale momentodella Cina descritto dal libro, bisognaconsiderare che nel 1949, l’anno dellapresa del potere dei comunisti guidati daMao Tse-Tung, i cattolici in Cina eranocirca tre milioni e mezzo, i sacerdoti5.788 (di cui 2.698 cinesi), le suore7.463 (di cui 5.112 cinesi), i frati 840; nelPaese c’erano oltre 300 seminari.

La Chiesa contava anche numeroseopere sociali: 216 ospedali e case diricovero; 6 lebbrosari; 781 dispensarimedici; 254 orfanotrofi; 3 università;189 scuole superiori e secondarie; 2011scuole elementari; 2243 scuole di cate-chesi; 32 tipografie; una cinquantina digiornali e riviste.

Preso il potere, il Partito comunistaavviava un’intensa campagna per l’atei-smo che comprendeva notevoli limita-zioni ai religiosi provenienti dall’estero,la chiusura di numerose chiese, la stata-lizzazione delle tre università cattoliche.La politica di repressione proseguiva conla chiusura di seminari, conventi e scuolecattoliche. Molti missionari stranierivenivano costretti a lasciare il Paese,alcuni vennero incarcerati e poi espulsi.

Alla fine dell’anno 1951 il governoconfiscò tutte le proprietà della Chiesasull’intero territorio nazionale, ma lapersecuzione del regime non si arrestò:nel 1955 viene azzerata la Chiesa catto-lica a Shangai, una delle più fiorenti delPaese; alla fine dell’anno i missionaristranieri ancora presenti sul suolo cine-se, inclusi 2 vescovi, sono solo 16, di cui14 in prigione, mentre anche gli ultimiseminari e i conventi vengono chiusi.

Recensione del libro:Senza alcuna diplomazia

Da Torino ad Hong Kong: libro intervista al card. Joseph Zen Ze-kiun

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Il 2 agosto 1957 nasce la già citata“Associazione patriottica dei cattolicicinesi”, direttamente controllata dalregime; da allora la Chiesa cattolicaentra nella clandestinità e comincia adessere chiamata “sotterranea”. I cattolicisono chiamati ad iscriversi all’associa-zione; per chi rifiuta e rimane fedele allaSanta Sede sono aperte le porte deicampi di lavoro.

Tra il 1966 e 1969, durante il periododi repressione tristemente noto comeRivoluzione Culturale, vengono chiusele pochissime chiese ancora rimasteaperte; successivamente molte subisco-no il vandalismo delle Guardie Rosse evengono distrutte.

Nel 1979, dopo timidi passi di pro-gressiva apertura, per la prima voltadopo oltre 25 anni i cristiani possonocelebrare pubblicamente il Natale intutta la Cina, ma sono segni positivi chevengono contraddetti da altri in una este-nuante sorta di altalena, così nel 1980 ilpartito comunista approva il Docu-mento n. 19, l’atto su cui si regge la poli-tica religiosa di Deng Xiaoping, in cui siafferma che le religioni sono destinate ascomparire, ma che nell’immediato“sono tollerate in quanto sostengono laguida del partito comunista e la moder-nizzazione del Paese”.

In quegli anni, nella tragica situazio-ne della Chiesa in Cina, c’è una circo-stanza riportata dal cardinale Zen nellibro di Malovic che fa sorridere: laChiesa sotterranea fedele al Papa sotto laspinta della riforma conciliare celebra –clandestinamente – la Messa in cinese,mentre la comunità che fa riferimentoall’Associazione patriottica, sotto l’egi-da del partito della rivoluzione comuni-sta, celebra – pubblicamente – in latinosecondo il rito tridentino.

Diversi segnali di distensione traSanta Sede e Repubblica cinese vengonosmentiti nel 2000 con l’ordinazione,imposta dall’Associazione patriottica, di12 vescovi fedeli al regime, che però –come ricorda il libro di Malovic – provo-ca un “boomerang” che rende chiaro alregime che anche i cattolici “ufficiali”preferiscono la fedeltà al Papa: incredi-bilmente, 7 dei 12 candidati si sottraggo-no alla nomina e ben 120 seminaristi delseminario nazionale di Pechino evitanola partecipazione al rito; nei mesi suc-cessivi, a conferma dell’inesistenza diuna vera libertà religiosa in Cina, subi-ranno corsi di propaganda politica esedute di autocritica forzata nellamigliore tradizione comunista.

Nel settembre 2000 Giovanni PaoloII ordina la canonizzazione di 120

cinesi, martiri della rivolta dei Boxer(30.000 cattolici massacrati perché sirifiutarono di rinnegare la Fede), ed ilregime cinese reagisce inscenando unacampagna diffamatoria verso i santi e la Santa Sede. La campagna vieneripresa dai media cinesi; solo ad HongKong i martiri vengono onorati pubbli-camente.

In questo quadro si inserisce la testi-monianza del Cardinale, riportata almomento in cui gli è consentito il primoritorno in Cina: “Quello che mi sconvol-se profondamente fu constatare l’assen-za totale della Chiesa. La Chiesa cosìattiva in passato, era, né più né meno,scomparsa. Tutte le chiese e le cappelleerano state chiuse da anni. In giro nonc’erano più preti né fedeli. I cattolicidovevano vivere la loro fede nel silenziodel loro cuore. La libertà d’espressionecostava anni di prigione a coloro cherischiavano... Tutti i sacerdoti e i sale-siani erano in prigione.”

Correva l’anno 1974, in cui JosephZen inizia una complessa partita di scac-chi con il regime comunista cinese, gio-cata con la paziente remissività di chi èconvinto che la sua parte, la Chiesa, hauna prospettiva storica che va ben oltre lavicenda terrena del singolo giocatore, maanche con il rigore – che ha ispirato iltitolo del libro – di quella strana artediplomatica cinese, che può sembrare“ruvida e dura” ad un osservatore occi-dentale, ma che parte dalla convinzione –a ben vedere non solo cinese – che non sipuò concedere nulla ad un interlocutoreche non dimostra di rispettarti, con l’ulte-riore convinzione che non ci può essererispetto per chi si rende troppo remissivo.

Seguono sette anni di intensa attivitàdi insegnamento nei seminari ufficiali,tollerando le autorità che tale attività sisvolgesse anche in quelli “clandestini” inapplicazione di un patto tacito che lascia-va pratica libertà alla Chiesa sotterranea,purché questa non assumesse forme pub-bliche palesi: “mi ero ripromesso di starein silenzio perché non volevo compro-mettere il mio impegno di insegnare aigiovani seminaristi cinesi. In quel fran-gente preciso il mio dovere non era par-lare forte e chiaro, denunciare o critica-re. Bisognava lavorare, osservare e com-prendere una nuova realtà”.

Ma se c’è il momento del silenzio, c’èanche quello della denuncia e della pro-testa: quando nel 2002 viene nominatovescovo, Joseph Zen esprime riserve siasulle proposte di legge anti-sovversione(in pratica forti limiti alle libertà civili dasempre esercitate ad Hong Kong), siacontro la diminuzione del ruolo della

Chiesa cattolica nella scuola iniziandoanche una battaglia legale, appoggiatada centinaia di avvocati e giuristi, perdifendere il diritto delle scuole cristianead accogliere anche i piccoli che le auto-rità si ostinavano a considerare clande-stini. Non sono mancate le sue prese diposizioni contrarie al primo Gover-natore post-unificazione, Tung Chee-hwa, poi sostituito dalle stesse autorità diPechino e le puntuali proteste in meritoai diritti negati al Tibet e contro la suaforzata cinesizzazione.

Dopo essere stato nominato Car-dinale nel 2006 ha impegnato la Chiesacattolica locale a favore del referendumper il suffragio universale nell’ex-posse-dimento britannico, per ottenere che leaffermazioni formali della “legge fonda-mentale” che regge Hong Kong venisse-ro messe in pratica, partecipando inprima fila il 4 dicembre dello stesso annoad una imponente manifestazione che haradunato centinaia di migliaia di perso-ne, intervenendo anche al comizio finaleal Victoria Park insieme agli altri leaderdemocratici.

In quella occasione il card. Zen hamesso in luce il nesso tra diritti demo-cratici e diritti sociali: “Chiediamo unsistema democratico – ha sostenuto ilprelato – per assicurare i diritti dei setto-ri più deboli della società, per ridurre ladisuguaglianza fra ricchi e poveri e perpermettere ai poveri di condividere connoi i frutti del nostro impegno”.

La partita di scacchi continua, quindi,tra il piccolo prete e l’ultimo grande par-tito comunista: la posta in gioco è l’ap-plicazione pratica del principio “unPaese, due sistemi” che sino ad ora haispirato l’integrazione di Hong Kongnella madre Cina.

Da una parte la burocrazia di Pechino,che non sembra preoccupata dal dilagaredei McDonald’s e del consumismo occi-dentale se viene mantenuto il suo potereautoritario, magari con l’aiuto della cen-sura di Yahoo, quindi riducendo progres-sivamente le libertà dell’ex coloniainglese, dall’altra il Cardinale Rosso,come è stato chiamato Joseph Zen, chespera proprio nel processo contrario,cioè che siano le libertà di Hong Kong aconquistare la Cina, anche attraversoquel “siate sempre pronti a rispondere achiunque vi domandi ragione della spe-ranza che è in voi” (Pietro, prima lettera,3,15), come ha sollecitato S.S. Be-nedetto XVI nel suo discorso del 12 set-tembre a Parigi tenuto presso il Collegiodei Bernardins.

Stefano Commodo

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La Corte di Strasburgo dei Dirittidell’Uomo, questo alto centro delle poli-tiche di controllo sociale continua, nelladisattenzione di molte e nel silenzio ditutti, a presentarsi sul palcoscenico delmondo, imponendosi con l’autorità dellesue parole, attraverso una dicitura diesclusione dove, a dispetto della costitu-zione duale dell’umanità, assume ilmaschile, quello che conta, come refe-rente dell’intero genere umano.

“I Diritti dell’Uomo” discendono daquella “Dichiarazione”, approvata suispirazione dei pensatori dellaRivoluzione Francese, nell’agosto del1789. Una data che ha segnato la fine diun’epoca e una svolta importantissimanella storia dell’Uomo allorchél’Uomo, non più “suddito” all’internodi uno spazio riservato prima esclusiva-mente agli Stati Sovrani, ha ottenuto didiventare “Cittadino”. Una grande,irreversibile conquista per l’Uomo.

Ma solo per l’Uomo.Perché la “Dichiarazione dei Diritti

dell’Uomo” è stata alla fin fine unaregolazione di conti fra collettivi diUomini, una regolazione che, incentra-ta su quell’androcentrismo della culturapatriarcale che vorrebbe il soggettomaschile neutro universale, sanciscel’esclusione storica della donna. LaRivoluzione Francese ha ufficialmente– si potrebbe dire – “consacrato” l’e-quazione “Uomo = neutro universale”.Equazione già per altro solidamentecostruita in anticipo dal razionalismoche, a partire da Cartesio, ha intesoinvestire l’intero sapere sulla “ragione”dell’Uomo. Cioè su un arbitrario pro-getto culturale attuabile al maschile peril maschile. Dove alla donna viene con-ferito il ruolo di spettatrice passiva

capace di garantire al protagonista dellacreatività, l’apprezzamento dei suoivalori.

Per questo a Olympe de Gouges, nonspettatrice ma protagonista, venne cuci-ta la lingua e tagliata la testa. Per averella compilato, in concomitanza con“La Dichiarazione dei Dirittidell’Uomo e del Cittadino”, quella“Dichiarazione dei Diritti della Donnae della Cittadina”, dichiarazione, allaquale si diede subito silenziosa sepoltu-ra. Pochi ricordano il gesto emblemati-co (o anche solo il nome) di Olympe deGouges. Non la ricordò neppure ilnostro filosofo torinese NorbertoBobbio quando, nel 1988, fu chiamato atenere una lezione su “La RivoluzioneFrancese e i Diritti dell’Uomo” allaCamera dei Deputati e delle Deputate(su invito della Presidente della Cameraon. Nilde Jotti!).

Per tutto l’Ottocento e ancora aigiorni nostri, come dimostra la perseve-rante titolazione della Corte diStrasburgo, si è coltivato il dogma delmaschile-universale.

Ad esso certo si sono ispirati i legi-slatori di Giovanni Giolitti quando, isti-tuendo nel 1913 il “Suffragio”, chiama-to con impertinenza “universale”, rico-nobbero soltanto agli uomini il diritto divoto. Fu così che in nome della vantatauniversalità maschile, non poteronovotare donne pensanti come GraziaDeledda, Maria Montessori, Ada Negri,Annie Vivanti, Sibilla Aleramo,Eleonora Duse e, per stare in casa, lanostra Lidia Poèt. Per andar lontanoinvece, potremmo dire che, se fossestata in Italia, non avrebbe potuto votareneanche lei, lei Eleonora Roosevelt, lagrande promotrice di tutti i diritti umani

la Pazienza

Con queste poche righe si vorrebbeinviare un messaggio alla “Corte

di Strasburgo dei Diritti dell’Uomo”affinché venga aggiornata la sua arcai-ca denominazione: una dicitura che ègià in sé un atto di ingiustizia perché nelmomento in cui la Corte si attribuisce ilpotere di tutelare “i diritti dell’uomo”definisce ed annulla attraverso un lin-guaggio di azione, lo spazio di chiuomo non è.

Una operazione che conferma che:“quando si abolisce la differenza digenere, tutto diventa maschile”.

Si tratta di una modifica apparente-mente non rilevante, non degna di stareall’altezza delle grandi forme del razio-nalismo classico. Apparentemente.Perché si chiederebbe in definitiva,come dicono i giuristi, di “un atto dovu-to”. Si tratta invece di un gesto impor-tante, un gesto di sfida che, per ilmondo femminile, contiene la forzasovversiva di un atto di verità. Contro leiniquità del Diritto e delle sue costru-zioni giuridiche dove, attraverso seco-lari procedure di esclusione, al titolaredi diritti è stato sempre negato un corpodi donna.

La nostra irrequietezza inventiva dache la donna è diventata protagonistastorica, rende ciascuna di noi semprepiù sensibile a tutte le offese e semprepiù insofferente alle ingiustizie. Anchea quelle apparentemente minimali chesi annidano negli interstizi del diritto ea quelle, ancor più insidiose, che ci ven-gono offerte attraverso i paradigmi del-l’omologazione, paradigmi che ci sonovenuti a noia da quando abbiamo presocoscienza che il nostro desiderio non èla parità con l’uomo ma è la nostralibertà di essere noi stesse.

Diritti umani e linguaggio

IL LINGUAGGIO DEL POTERE E L’AUTOREVOLEZZA DELLE PAROLE

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e la firmataria di una “lettera aperta alledonne del mondo” datata 5 febbraio1946! e presentata, con grandissimoanticipo sugli sviluppi a venire, allaPrima Assemblea delle Nazioni Unite.

Insomma, se, ai tempi del c.d.Suffragio Universale del 1913, fossestata vivente, non avrebbe potuto vota-re in Italia nemmeno la grande CaterinaSeconda!

Anche il linguaggio della Chiesa,autorevole ed autoritario, si è sempreispirato e si ispira al maschile-universa-le. Ma la Chiesa non è mai stata con noi.Perciò sentiamo le alte Autorità eccle-siastiche lontane quando, rifacendosialla storia dell’uomo, si dichiaranopreoccupate per il destino dell’uomo,per il futuro dell’uomo, per il mondodell’uomo.

Solo a partire dagli Anni ‘70, allorchéirruppero nella storia le riflessioni e lepressioni del Movimento delle Donne,

irruzione che pose all’attenzione delmondo la condizione femminile, si giu-bilò definitivamente (con una “rivoluzio-ne di velluto” cioè soltanto con l’autore-volezza di un nuovo pensiero!) il dogmadella imperante soggettività maschile.

L’anno della svolta fu il 1975 allor-ché le Nazioni Unite proclamarono“L’anno internazionale della donna” e,a Città del Messico, tappa importantedella nostra storia, si tenne una confe-renza affollatissima cui presero partedonne di tutti i continenti.

Fondamentale fu, in seguito, nel1995, la “Conferenza mondiale diPechino” alla quale molte di noi parte-ciparono. Quelle che rimasero a casa,emblematicamente vestirono unamaglietta su cui c’era scritto “I sent asister to Pekin”. APechino si sancì defi-nitivamente il principio per cui i dirittidelle donne devono essere concepiticome diritti umani: “Women’s rights

are Human rights”. Ecco perché laCorte di Strasburgo deve diventare la“Corte dei diritti umani” dando atto chela donna da vittima storica è diventataprotagonista politica.

Una scoperta fertile per tutti: essa,facendo emergere un nuovo soggettodesiderante prima sconosciuto, haposto all’attenzione dell’Uomo, sbigot-tito, dei panorami esistenziali travol-genti. Si tratta di una novità storica cheha portato a un duplice risultato: la“costruzione di un nuovo soggetto poli-tico” e nel contempo la “de-costruzionedell’uomo soggetto-unico”.

Il dogma dell’Uomosoggettounicova archiviato per sempre in nome di ununiversalismo riconosciuto, e ciò ancheattraverso il linguaggio, quando esso,non già con l’autorevolezza delle cose,ma con l’autorità delle parole, si impo-ne come linguaggio del potere.

Romana Vigliani

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L a nobile passione di RomanaVigliani per i diritti della donna mi

induce a fare una riflessione a voce alta.La collega cita la scrittrice franceseOlympe de Gouges (1748-1793), che,dopo aver scritto varie opere drammati-che, pubblicò numerosi opuscoli suiproblemi sociali, il più famoso dei qualiè la Déclaration des droits de la femmee de la citoyenne, del 1791. Olympe deGouges seguì dapprima il movimentorivoluzionario, ma, quando attaccòRobespierre (1758-1794), costui la feceghigliottinare. Il grande vigore dellasua parola, secondo cui “... la Nation,qui n’est que la réunion de la Femme etde l’Homme”, costituisce, a mio avvi-so, la risposta, non del tutto consapevo-le, alla violenza del postulato dell’indi-vidualismo assoluto, governato da unaclasse culturale a larghissima predomi-nanza maschile, che percorse gran partedel movimento di pensiero caratteriz-zante la società colta francese dellaseconda metà del ‘700.

Siccome, però, Romana Viglianicoinvolge il cristianesimo nell’accusadi maschilismo, desidero svolgerequalche osservazione contro la sua tesi.La parola biblica in ordine al rapportotra i sessi non potrebbe essere più chia-ra nel mettere in luce l’uguaglianzaontologica dell’uomo e della donna el’essenziale complementarietà dellaloro relazione per il raggiungimento delfine, naturale e soprannaturale, dellavita di entrambi. Genesi 1,27 proclama:“Dio creò l’uomo a sua immagine; aimmagine di Dio lo creò”; maschio efemmina li creò”. In Gen. 2,18 sta ilversetto, organicamente collegato alprecedente, che suona: “Poi il SignoreDio disse: “Non è bene che l’uomo siasolo: gli voglio fare un aiuto che gli siasimile”. Nel versetto successivo (Gen.

2,24), è ribadita la medesima dignitàontologica dell’uomo e della donna conl’affermazione/prescrizione: “Per que-sto l’uomo abbandonerà suo padre e suamadre e si unirà a sua moglie e i duesaranno una sola carne”. Gesù (in Mt.19,4) riprende entrambi i temi delGenesi, dicendo: “Non avete letto che ilCreatore da principio li creò maschio efemmina e disse: Per questo l’uomolascerà suo padre e sua madre e siunirà a sua moglie e i due saranno unacarne sola?”, Gesù, peraltro, ripristinòanche l’uguaglianza giuridica dell’uo-mo con la donna, rammentando cheMosé concesse all’uomo di dare l’attodi ripudio alla donna, ma che “da prin-cipio non fu così” e che non deve piùessere così (Mt. 19,8).

Le Scritture sono tutte impregnatedel profondo senso circa l’intima fon-dazione dell’uguaglianza dell’uomo edella donna nella loro identica dignità,siccome fatti entrambi a immagine diDio. Il commento più emotivamentetoccante alla parola di Gen. 2,18: “Nonè bene che l’uomo sia solo”, lo si trovaforse nell’Ecclesiaste (QO, 4, 9-11),ove è detto, con ineguagliabile saggez-za anche pratica: “Meglio essere in dueche uno solo, perché due hanno unmiglior compenso nella fatica. Infatti,se vengono a cadere, l’uno rialza l’al-tro. Guai invece a chi è solo: se cade,non ha nessuno che lo rialzi. Inoltre, sedue dormono insieme, si possonoriscaldare; ma uno solo come fa ariscaldarsi?”.

La modernità - ma non solo essa,seppure essa lo abbia fatto con sforzicaratterizzati da una singolare sotti-gliezza filosofica - ha teso a negare, inun émpito di individualismo sregolato,l’essenza relazionale della vita umana,che si rinviene principalmente nel rap-

porto stabile dell’uomo con la donna. Èmolto significativo, invero, che il rifiu-to del tema biblico dell’uomo creato aimmagine di Dio porti come suo retag-gio il disprezzo dell’umanità e la svalu-tazione ontologica della donna. Silegga al riguardo il seguente passo diVoltaire (1694-1778): “Ô homme! quioses te dire l’image de Dieu, dis-moi siDieu mange, et s’il a un boyau rectum”(art. Déjection, nelle Questions surl’Encyclopédie, 1774), cui fa da con-trappunto l’inversione diametrale deltesto biblico: “[S]i l’être fantastique etridicule qu’on appelle le diable avaitvoulu faire les hommes à son image, lesaurait-il formés autrement?” (Histoirede Jenni ou l’Athée et le Sage, par M.Sherloc, 1775).

Questo sguardo negativo sull’uma-nità ha favorito l’abbandono della pro-spettiva cristiana, nella quale, al di làdegli innumerevoli atti pratici chehanno offeso nel corso dei secoli ladignità della donna, mai è stata negatala sua uguaglianza ontologica con l’uo-mo e la sua inconcutibile dignità di per-sona. Il rifiuto dell’essenziale relazio-nalità tra uomo e donna e l’affermazio-ne dell’individualismo assoluto trova-no in Diderot (1713-1814) l’espressio-ne più nitida e in Sade (1740-1814) ilgrido più empio. Per Diderot:“L’homme n’est peut-être que le mon-stre de la femme, ou la femme le mon-stre de l’homme” (Le Rêve ded’Alembert, 1769). Per Sade: “Tant quedure l’acte du coït, je peux, sans doute,avoir besoin de cet objet [la partner]pour y participer; mais sitôt qu’il estsatisfait, que reste-t-il, je vous prie,entre lui et moi?”, onde coerente è laconclusione: “et quelle obligation réel-le enchaînera à lui ou à moi les résultatsde ce coït?” (La Philosophie dans le

UNA RIFLESSIONE SUI “DIRITTI DELLA DONNA”

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Boudoir ou les Instituteurs immoraux,1795).

L’affievolirsi del senso della com-plementarietà tra l’uomo e la donna e ilcorrelativo formarsi di una convinzionecirca un preteso “diritto naturale” delsesso più forte sono i corollari deldiscredito che venne proiettato sull’in-segnamento del Genesi. George L.Mosse – lo studioso che ha analizzatocon precisione la genealogia del razzi-smo e del militarismo germanico – hasituato nel cuore del XVIII secolo l’ini-zio della dissociazione tra l’uomo e la

donna in ordine al modo di percepirel’umanità, vista come priva di comple-mentarietà e abusivamente mascoliniz-zata (L’Image de l’Homme. L’inventionde la virilité moderne, versione france-se, 1997).

Ciò che occorre – cara Romana –non è tanto, a mio avviso, modificare ledichiarazioni dei diritti e aggiungereuna parola ai testi (se si vuole, lo si fac-cia pure, ma purché ciò non serva comealibi per scavare un solco ancora piùprofondo tra l’uomo e la donna), quan-to, piuttosto, recuperare, praticamente,

ma, prima ancora, culturalmente, l’inte-ro senso della relazionalità tra l’uomo ela donna nella vita di tutti i giorni, nelcinema, nella televisione, nella pubbli-cità e nella moda, ovunque. Soltanto inquesto modo, combattendo l’individua-lismo culturale, alla cui radice sta lapassione della filautia (in parole sem-plici, l’egoismo), potremo riconquista-re il valore di una relazione armoniosa epiù appagante tra gli uomini e le donnedel nostro tempo.

Mauro Ronco

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La guerra di Bruno tratto da La Repubblicadel 03/09/2008

La Redazione è lieta di pubblicare qui di seguito l’articolo apparso su La Repubblicain data 03/09/2008 dedicato all’avvoca-to Bruno Segre, fondatore del giornale L’INCONTRO, da sempre difensore dei diriti umani

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Ègiunta in Redazione e viene pubbli-cata la lettera dell’avv. Piero

Fioretta.

Il De Profundis non è ancora per meanche se – dopo oltre 50 anni di liberaattività professionale – si avvicina ilgiorno nel quale potrà essermi cantato.

Il De Profundis lo intono io per laGiustizia e per la Legge: Giustizia cheun tempo veniva rispettosamente indica-ta con la iniziale maiuscola e, dagli anti-chi, rappresentata come dea con le sem-bianze di una bella donna; Legge dellaquale i nostri antenati romani erano aragione fieri, che diffusero nel mondoconosciuto, lasciandoci tra l’altro leDodici Tavole ed il Corpus Iuris.

Povera Italia che si è dimenticatatutto, o quasi, e che – lungi dal far valereciò che di valido possiede – è riuscita acopiare bovinamente norme di altri paesiche hanno mentalità, cultura e tradizionidifferenti.

In proposito vi sarebbe da scrivere untrattato ma, a parte la capacità necessarianon ne ho la voglia; e, del resto, non èquesta la sede adatta.

* * *Ricordo che, anni orsono, un cliente

(che progettava e costruiva giocattoli)venne a parlarmi di una causa di danniche gli era stata intentata negli USA.

Una fionda di plastica che faceva partedi una sua confezione si era spezzata,ferendo un bambino ad un occhio. Lacausa, avanti ad una Corte statunitense sistava mettendo male. Invero la rotturadella fionda non era dipesa da difetto difabbricazione, né era comunque ricollega-bile a colpa del costruttore, bensì dal fattoche un bambino, litigando con un altro,l’aveva usata come arma contundente percolpirlo, percuotendolo sul capo.

Feci presente al cliente che la Corted’Appello italiana non avrebbe mai deli-bato una sentenza di condanna stranieraper una asserita siffatta responsabilità delcostruttore (sarebbe lo stesso come se sipretendessero i danni da una casa vinico-la perché una bottiglia di un suo vino si èspezzata ferendo una persona, quando labottiglia gli è stata rotta in testa).

Non so come siasi conclusa la causa:il cliente intendeva definirla comunque

al meglio, pur avendo ragione, perché –mi fece rilevare – anche se la eventualesentenza non sarebbe stata poi delibatain Italia, sarebbe stata pur valida negliUSA e le sue esportazioni nel paesesarebbero state ostacolate e bloccate.

Certamente nei confronti degli anglo-sassoni abbiamo motivo di riconoscenza(se non altro per il fatto che, se non fossestato per loro, oggi probabilmentesaremmo ancora sottoposti alla occupa-zione nazista). Ma essere riconoscentinon significa copiare tutto, anche quelloche non merita di esserlo, come la proce-dura penale (che abbiamo assurdamenteimitato emanando il nuovo codice diprocedura penale: quello vecchio, conqualche necessaria modifica a suo temposuggerita andava benissimo: comel’Avvocatura – me compreso quale rela-tore per il Piemonte al Congresso nazio-nale forense di Lecce (29 settembre-4 ottobre 1979) – aveva evidenziatosenza, inutile sottolinearlo, ottenererisultato di sorta, perché, e questo varibadito, ai Congressi (anche se naziona-li) sono pochi i delegati che partecipanoalla disamina: gli altri se ne disinteressa-no occupandosi unicamente dei simposie delle gite turistiche.

Gli effetti ottenuti con le assurde imi-tazioni in sede penale e civile sono quel-li a cui assistiamo. Processi penali chevanno in prescrizione; cause civili che sitrascinano per lustri; pericolosi malvi-venti lasciati in libertà o premiati con gliarresti domiciliari; casi eclatanti di dene-gata giustizia; ecc. ecc.

Invece di meditare, prima di emanareuna norma di legge, la si redige subito,salvo accorgersi, pochi giorni dopo, cheè inadeguata, approssimativa, malfatta:ed allora la si modifica con un provvedi-mento successivo creando ulterioreincertezza e caos: anche perché, lungidal redigere un nuovo testo che contengale modifiche apportate si procede, idio-tamente (il termine si adatta perfetta-mente alla fattispecie) scrivendo che allariga... la parola... è sostituita dalla paro-la...; ovvero che tra le parole... è inseritala frase...; e così via. Creando così unaulteriore vergognosa confusione in chi lalegge la deve applicare (magistrati edavvocati), o la deve subire.

Il risultato è quello che è stato piùvolte segnalato e che i parlamentari (chesono invero pagati profumatamente perl’attività legislativa che dovrebbero svol-gere) hanno recentemente – bontà loro –denunciato: troppe leggi. In Italia sonosvariate decine di migliaia, talune dellequali rimaste in vita, dopo secoli, per unsolo articolo! Con buona pace del poverocittadino che non può eccepire la nonconoscenza delle norme penali (art. 5c.p.: ma, di fatto, non può eccepire nean-che la non conoscenza di quelle “civili”).

Un esempio eclatante di questo mal-vezzo è rappresentato dalle c.d. leggifinanziarie, che contengono la bellezza(si fa per dire) di centinaia di articoli,buona parte dei quali rappresentantimodifiche di norme precedenti che,come sottolineato poc’anzi, non vengonoriprodotte integralmente nel nuovo testo.

Anni orsono mi accadde di scorrereuna legge, della quale al momento nonrammento gli estremi esatti. Ad imita-zione di leggi straniere e dei contrattiredatti nel diritto anglosassone la legge –costituita da svariati articoli – iniziavacon le “Definizioni”.

Rilessi le “definizioni” varie volte,non credevo a quanto leggevo, ma poimi convinsi che non ero io che era anda-to definitivamente fuori di testa. Vi stavaproprio scritto “ai fini della presentelegge si intende, per Ministerodell’Industria e Commercio, il Ministerodell’Industria e Commercio”.

Non faccio commenti, per buona ata-vica educazione, anche se tale concetto dieducazione è oggi praticamente obsoleto.

Rilevo che si è poco alla volta modifi-cata la procedura civile (rendendo anco-ra più lungo, confuso ed incerto, il lavo-ro di magistrati ed avvocati) con l’affian-care ed il sostituire al processo ordinariotutta una serie di riti, che vanno dal pro-cesso del lavoro (le cui norme avrebberodovuto essere in parte mutuate per quel-lo ordinario che, per il vero, con le modi-fiche operate dalla c.d. riforma Sattadegli Anni ‘50, andava benissimo edavrebbe dovuto essere supportato unica-mente da un maggior numero di magi-strati ed addetti al funzionamento degliuffici), al processo in tema di locazioni,al c.d. processo cautelare, al c.d. proces-

Lettere alla Redazione

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so societario, al processo per danni dacircolazione stradale.

D’altro canto si è atteso decenni peremanare norme necessarie, e più voltesollecitate, quali ad esempio quella chenon richiede la notifica al debitore ese-cutato di ogni singolo atto successivo alpignoramento (progetto di riparto dellaesecuzione immobiliare compreso) nonessendo indispensabile essere dei finigiuristi per rendersi conto che il debito-re, vendutagli la casa, è costretto a prov-vedere diversamente, non abita più lì, esovente emigra e si rende irreperibile.

Ex multis sono rimasto sconcertatodalle polemiche insorte quando in dipen-denza di intrusioni violente di malviven-ti in abitazioni ed uffici si discusse dellalegittima difesa e delle eventuali modifi-che da introdurre negli artt. 52 segg. c.p.Ricordo che, in allora, comparvero suiquotidiani scritti giornalistici ed intervi-ste a parlamentari che, opponendosi aduna estensione delle norme sulla difesa(ed all’uso delle armi in relazione) face-vano ironicamente riferimento alla c.d.legge del Far West affermando sarcasti-camente che si voleva introdurla nelnostro paese.

Premetto che, anche se lo si è dimen-ticato – e la giurisprudenza in propositoinsegna – il codice penale (il c.d. CodiceRocco: Rocco che, lo si rammenti, era ungrande giurista) prevedeva la non puni-bilità per legittima difesa di chi avevacommesso il fatto per esservi statocostretto dalla “necessità di difendere undiritto proprio od altruicontro il pericoloattuale di una offesa ingiusta”.

Ciò premesso rilevo che giornalisti eparlamentari (anche in considerazionedel fatto che sono pagati per il loro lavo-ro) prima di fare affermazioni avventatedovrebbero, come minimo, documentar-si. Se lo facessero e nella specie lo aves-sero fatto si sarebbero avveduti che giànelle Leggi delle XII Tavole (Capo IVdei Frammenti quali furono reintegratied emendati da Jacopo Gotofredo, illu-strati da R.G. Pothier) era previsto – nonriporto il testo in latino perché oramaipochi avvocati sono in grado di com-prenderlo (un tempo, per accedere allaprofessione forense, era obbligatoria-mente richiesta la previa frequentazionedel liceo, ove si insegnava il latino) –che, se uno ruba di notte, ed altri l’ucci-de, è “ucciso a diritto”, mentre se il furtoviene commesso o tentato di giorno ed illadro non è armato, lo si può privaredella libertà. Il che, in buona sostanza,significa che, poiché di notte non si può

vedere se il malvivente sia o meno arma-to, la reazione più grave (l’uccisione) èlegittima.

* * *Non posso esimermi dal rammentare

che un illustre giurista ed avvocato delsecolo scorso soleva affermare che,quando gli si rammostrava nel contrattoche, nella sua stesura, occupava più ditre facciate incominciava a dubitare.

Invero non è necessario stilare deitesti contrattuali lunghi decine di pagine:servono solo a fare la fortuna di chi liredige (e dei collaboratori alla redazio-ne) che, per consuetudine anglosassone,sono retribuiti sulla base della c.d. tariffaoraria (od a facciata).

Un contratto dovrebbe badare all’es-senziale: il pensare di prevedere tutto(anziché rimandare, per quanto non spe-cificato, alle norme di legge vigenti)significa correre il rischio di dimenticarequalcosa con le ovvie conseguenze di unfuturo, costoso, contenzioso.

Inoltre mette conto di sottolineare che,salvo casi particolari, la “definizione” edaltre amenità del genere sono superflue esovente inutili. Se chi cura la stesuradelle norme legislative o contrattuale deltesto fosse meno presuntuoso, si dovreb-be ricordare che il codice civile del 1942,come regola, cercava di non “definire”(le definizioni si trovano nel dizionario enei testi di diritto) ma fotografava la fatti-specie; e detto codice civile redatto daillustri giuristi, dopo che erano stati inter-pellati Organi giudiziari, Collegi profes-sionali ed Università - è ancora oggi piùche valido (malgrado le modifiche edaggiunte, talune necessarie come adesempio quelle in tema di famiglia, edaltre discutibili come quelle a propositodei c.d. contratti del Consumatore, ovecompare la “perla” della dicotomia tra“consumatore” e “professionista” ilquale ultimo ben avrebbe potuto esserepiù propriamente indicato come “opera-tore economico”: ma forse si è volutoricordare la “professione” della signoraWarren di G.B. Shaw!).

* * *“Qui giace l’Aretin, poeta tosco. Di

tutti disse mal fuorché di Cristo, scusan-dosi col dir: non lo conosco”.

Lungi da me la presunzione di para-gonarmi a Pietro l’Aretino ma, dopo diavere detto male della Legge – e nondimentico la reintroduzione della tassadi successione che, oltre a non rendereallo Stato ciò che gli costa per personale,uffici e contenzioso è una assurdità e non

solo giuridica: perché se i miei guadagni,per i quali ho pagato le tasse, li tengo adesempio sotto il materasso i miei eredinon pagheranno la tassa mentre, selascio loro un immobile nel quale li hoinvestiti, la pagano? – non posso esimer-mi dal dire male della giustizia.

Sia ben chiaro, non mi riferisco a queimagistrati, non molti per la verità, chesvolgono il loro lavoro, duramente, conscarsi mezzi, poca assistenza, ma conentusiasmo ed onesta preparazione. Tradi essi esistono ancora dei giuristi nellaaccezione vera della parola, che affron-tano i problemi loro sottoposti con sere-nità, umilmente (nel senso che non pon-tificano, ma si studiano le questioni, nediscutono con i colleghi, senza peccaredi presunzione e pressapochismo) edapplicano la legge.

Mi riferisco in particolare alla Ecc.maCorte di Cassazione, la Suprema Cortedi legittimità che – come diceva un insi-gne giurista “giudica ed insegna”.

Ricordo la giovinezza.Dopo la discussione della tesi di lau-

rea (in tema di diritto di autore) con ilprof. Paolo Greco, il docente mi disse:“Fioretta, si faccia rivedere”.

Mi feci rivedere e fui invitato a parte-cipare alle riunioni della c.d. Scuola didiritto commerciale che il prof. PaoloGreco teneva a Torino, tutti i venerdìpomeriggio in una saletta dell’Istitutogiuridico, in Via Po.

Alle riunioni del venerdì erano pre-senti Rodolfo Sacco, Gastone Cottino,Franzo Grande Stevens, Silvio Pieri, ifuturi avvocati Cermelli di Alessandria eA. Motta di Cuneo, l’avv. Tabellini, ilcommercialista dott. Pasteris e – saltua-riamente – altri. Vi erano anche gli assi-stenti del prof. Greco avvocati AlbertoBuffa e Federico Gamna (che poi avreb-bero rinunziato per dedicarsi unicamen-te alla professione). Il prof. Greco avevauna agendina tascabile sulla qualesegnava gli estremi degli argomenti chesi sarebbero dovuti discutere e delle sen-tenze che meritavano di essere esamina-te e commentate.

Dopo che i vari “allievi” avevanoriferito – se avevano da riferire – su studio ricerche in corso, il prof. Greco estrae-va dalla tasca l’agendina. “Il prof.Bigiavi mi ha segnalato che laCassazione avrebbe mutato il suo orien-tamento in tema di...; vediamo di procu-rarci la sentenza. Lei – e si rivolgeva auno di noi – scriva al prof. Bigiavi e se lafaccia mandare. La veda e poi riferisca”.E così avveniva.

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la Pazienza Lettere alla Redazione65

La notizia del mutamento dell’orien-tamento veniva ascoltata in religiososilenzio. Ci si sarebbe alzati in piedi,quasi come avveniva allorché, primadell’inizio di una partita di football, sisuonava l’inno nazionale.

La Cassazione!È pacifico che oggi la Suprema Corte

sia oberata di lavoro e che non si possapiù pretendere l’eccellenza di una volta.

Ma vi è da rimanere perplessi di fron-te al proliferare delle sentenze delleSezioni Unite chiamate a dirimere unaquestione di diritto già decisa in sensodifforme dalle sezioni semplici. Ricordodue episodi, tra i tanti.

Uno di molti anni orsono. In materiadi premi di assicurazione, avevo fatto unricorso dopo avere dato un parere basan-domi sulla giurisprudenza costante dellaCorte, nei trent’anni precedenti.

La Corte respinse il ricorso. Dopo diallora, decidendo in un diverso processo,ritornò alla giurisprudenza precedente.

Un altro, più recente. Lo stesso gior-no la Corte, stessa sezione, stessi giudici,ma diverso presidente (alle 10,30 si eraallontanato ed era stato sostituito) decisein senso difforme la stessa identica que-stione proposta nei confronti dellamedesima parte (una banca) da due dif-ferenti ricorrenti.

Cosa poteva dire il povero clienteall’avvocato e cosa, il povero avvocato,al cliente?

Ho letto recentemente sentenze delleSezioni civili della Corte che respingeva-no o dichiaravano inammissibili il ricor-so perché in base al principio, autoenun-ciato dalla Corte, che il ricorso deve esse-re “autosufficiente” (e cioè conteneretutti gli elementi perché la Corte possadecidere sulla scorta della sua sola lettu-ra) o, disquisendo di vizio della motiva-zione per omessa valutazione di un docu-mento - non era stato riprodotto nel ricor-so il testo del documento, né indicata lasede (Tribunale o Corte d’Appello) in cuila produzione era avvenuta; e vi è dadomandarsi allora per quale motivo sirichieda la trasmissione a Roma, dal giu-dice territoriale, del fascicolo di causa(compresi quelli di parte) se poi la Cortedi legittimità per il succitato principio diautosufficienza non ne prende visione.O, ancora respinge il ricorso perché neldenunciare la sentenza si è fatto riferi-mento al disposto dell’art. 360 n. 3 anzi-ché a quello del n. 4 (e ciò malgrado, nelmezzo per annullamento, fossero stateesattamente specificate le ragioni delricorso e le norme che si assumevano

violate). E la esemplificazione in propo-sito potrebbe a lungo proseguire.

Nella realtà, i casi nei quali laSuprema Corte esamina l’aspetto giuri-dico della fattispecie così come eviden-ziato nel ricorso, sono sempre di meno.E la ciliegina sulla torta è ora rappresen-tata dall’introduzione, ad opera del legi-slatore, della norma dell’art. 366 bisc.p.c. (D.L. 2/2/2006 n. 40) che prevedeche, nel ricorso ex art. 360 numeri 1-2-3-4 c.p.c., sia formulato a pena di inam-missibilità “un quesito di diritto”.

Una ulteriore occasione dunque perpotere dichiarare inammissibile il ricor-so, che va ad aggiungersi a quelle già esi-stenti e note e che sono già state adegua-tamente sfruttate dalla Corte con il nonesaminare ricorsi perché la illustrazionedel mezzo di annullamento non sarebbestata esaurientemente esposta nel ricorso,ma solo specificata nella memoria ex 378c.p.c. o perché, pur essendo stata enun-ciata chiaramente la fondata violazionedi legge, non sarebbe stata evidenziata lautilità pratica che dall’annullamentosarebbe derivato al ricorrente, e così via.

A parte il fatto che, se un ricorso perCassazione era redatto secondo le rego-le, esso conteneva già in epigrafe la indi-cazione delle norme che si assumevanoviolate e del motivo per cui si denuncia-va la sentenza, va sottolineato che il legi-slatore non si è minimamente preoccu-pato – eventualmente con Regolamentosuccessivo al D.L. – di spiegare in qualemodo debba essere formulato il quesitodi diritto: per cui si è lasciato incom-prensibilmente alla Corte di legittimitàdi determinarne le modalità ed i termini.

* * *Sarà perché – per l’età – mi fanno

male le gambe, confesso che non sentopiù l’impulso di alzarmi in piedi come,ai tempi della giovinezza, mi accadevadi fronte ad una decisione dellaSuprema Corte.

* * *Mio Padre, avvocato Oreste Fioretta,

iniziò la attività forense laureandosidopo la Grande Guerra alla quale avevapartecipato diciassettenne, negli Alpini,rientrando a casa con il petto carico didecorazioni al valore (la maggior partedelle quali conferitegli “sul campo”) e,tra l’altro, con la perdita dell’uso delbraccio sinistro che, da allora, gli pen-dette inerte sul fianco.

A cinquant’anni di distanza, gli usci-vano ancora schegge di ossa e del piom-bo della scarica di mitragliatrice austria-

ca che lo aveva colpito nell’agosto 1918nell’azione per la conquista del MonteMenecigolo nel gruppo dell’Adamello,a latere del Tonale.

La guerra sui ghiacciai – in allora nonerano in dotazione agli Alpini validiocchiali per ripararsi dal riverbero dinevi e ghiacci – gli aveva anche indebo-lito gli occhi e, quando si evidenziaronoproblemi alla vista, gli interventi chirur-gici non ebbero felice esito: è risaputoche, quando vi è una parte più debole,germi e batteri hanno tendenza ad ivilocalizzarsi.

Per farla breve: mio Padre divennecompletamente cieco e tale rimase perquindici anni fino al momento dellamorte. Non lo sentii mai lamentarsi néimprecare contro la cattiva sorte. Finchéun giorno seguitava a venire in Studio(lo accompagnava in auto uno di noifigli) e seduto alla sua scrivania, libera dicarte, estraeva dal cassetto una piccolaradio portatile che gli avevamo regalatoed ascoltava le trasmissioni – dopo aversentito una delle tante notizie relative alnostro Paese lo sentii dire: “Forse non nevaleva la pena”.

La frase mi colpì e me la rammentocome se fosse stata pronunziata ieri.L’unico mio attuale motivo di conforto èche mio Padre non ha assistito allo scem-pio operato dal c.d. decreto Bersani a pro-posito della professione forense (gliavvocati sono trattati come mestieranti oimprenditori commerciali, ignorandosecoli di storia e tradizioni) con buonapace anche delle prime elementari nozio-ni ai Corsi di scienza delle finanze ed eco-nomia, ove si insegna ad una matricolache la indiscriminata libera concorrenzaporta alla creazione di “cartelli” o mono-poli, o trust e che non giova all’utente (ilquale sopporta un servizio ogni giornopeggiore dato che la continua riduzionedei prezzi influisce necessariamente sullapreparazione e resa del servizio).

Così, con buona pace dell’on.Bersani, siamo arrivati al negozio alivello strada ove si vendono i pareri alprezzo che figura nel listino esposto alpubblico fuori del negozio, tipo osteria,o al blocchetto prepagato contenentedieci buoni, ognuno dei quali legittimaun parere o alla redazione di una lettera,ovvero al patto di quota lite (chiaradimostrazione di impreparazione stori-ca, giuridica e culturale).

Povera Legge, povera Giustizia,povera cultura e povero Paese mio.

De Profundis!

Piero Fioretta

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Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino e la Fondazione dell’Avvocatura Torinese Fulvio Croce insie-me con il Dipartimento di Scienze Giuridiche e la Società Italiana Organizzazione Internazionale (SIOI),Organizzano per giovedì 11 dicembre 2008 nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia il Convegno di Studi su

GLI AVVOCATI E LA TUTELA DEI DIRITTI UMANINel sessantesimo anniversario della Dichiarazione dei Diritti Umani

ore 9,15: Indirizzi di saluto.

I SESSIONE: I Diritti dell’Uomo nell’Ordinamento Internazionale ed Europeo

PRESIDENZA: Prof. Andrea Comba, Ordinario di Diritto dell’Unione Europea nell’Università diTorino

ore 10,00: Prof. Vladimiro Zagrebelski, Giudice della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,Strasburgo: L’esperienza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

ore 10,45: Pausa: coffee-break

ore 11,15: Prof. Edoardo Greppi, Ordinario di Diritto internazionale nell’Università di Torino:L’evoluzione dei diritti umani nell’ordinamento internazionale

ore 12,00: Prof. Mauro Politi, Giudice della Corte Penale internazionale, L’Aja, I Tribunalipenali internazionali

ore 13,00: Buffet

II SESSIONE: I Diritti umani nell’esperienza della giurisdizione penale

PRESIDENZA: Avv. Giampaolo Zancan, Avvocato in Torino

ore 14,30: Introduzione alla II sessione

ore 15,00: Prof. Mario Chiavario, Ordinario di Procedura penale nell’Università di Torino: Lagiurisprudenza europea sui diritti dell’uomo e l’ordinamento italiano

ore 15,45: Avv. Lorenzo Trucco, Avvocato in Torino: La difesa giurisdizionale dei diritti dell’uomo

ore 16,15: Pausa: coffee-break

ore 16,30: TAVOLA ROTONDAI Diritti umani nel diversi settori dell’ordinamento. Presiede: Avv. Marco Weigmann,Avvocato in Torino

Intervengono: Prof. Mario Dogliani, Ordinario di Diritto Costituzionale nell’Università di TorinoProf.ssa Gilda Ferrando, Ordinario di Diritto privato nell’Università di GenovaProf. Carlo Emanuele Gallo, Ordinario di Diritto amministrativo nell’Università diTorinoProf. Michele Graziadei, Ordinario di Diritto Privato nell’Università di TorinoProf. Piergiuseppe Monateri, Ordinario di Diritto Civile nell’Università di TorinoCarlo Pavesio, Avvocato in Torino

Programma del Convegno:“Gli avvocati e la tutela dei diritti umani”

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