Coordinamento Nazionale Giustizia - Federazione Confsal ... · sta rappresentando. Se da un lato è...
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Settimanale della Giustizia Tel. 06-6876650 06-6876662 Fax 06-6878819 Mail: [email protected] Web: www.sagunsa.it
Federazione Confsal-Unsa Coordinamento Nazionale Giustizia
Via della Trinità dei Pellegrini, 1 – 00186 Roma
Sommario:
L’editoriale: (di M. Battaglia)
(di Red.)
1. Anche il "diversamente abile" è trasferibile in caso di accertata incompatibilità
ambientale.
2. Legittimo il licenziamento dell'insegnante che critica l'Istituto.
3. Pubblico impiego: le dimissioni del dipendente sono valide anche se non accettate
dall'Amministrazione.
4. Legittimo il licenziamento del lavoratore che gioca con il pc dell'ufficio.
Oggi parliamo di:
A proposito del blocco stipendiale nel pubblico impiego.
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Sicurezza? Si, ma come?
Di solito, quando si parla di sicurezza nei luoghi di lavoro, si tende a fare riferimento a tutta quella pletora di norme che il legislatore ha codificato, per prevenire infortuni e malattie professionali e per tutelare quindi la salute e l’incolumità fisica di tutti quei lavoratori, pubblici o privati, che in un qualche modo nell’esercizio delle loro funzioni potrebbero subire dei danni alla loro salute e/o alla loro incolumità. Tutte queste norme, da
ultimo, sono state recepite dal D.Lvo n. 81 del 2008, che ad oggi è il punto di riferimento in tale delicata materia, contemplando tutte (o quasi tutte…) le situazioni di pericolo o comunque dannose per la salute dei lavoratori. Ma il problema di cui oggi, attraverso queste poche righe, vorrei parlarvi riguarda un altro tipo di sicurezza (non contemplato nel decreto legislativo sopra indicato). Mi riferisco alla tutela dell’incolumità fisica dei lavoratori da comportamenti violenti che, sempre più spesso, utenti del servizio giustizia pongono in essere nei confronti di chi opera all’interno degli uffici giudiziari. Uno degli esempi più drammatici, al riguardo, è ancora ben presente nella memoria di chi, come me, l’ha vissuto personalmente. Siamo al 17 ottobre 2007, quando un folle, armato, si è introdotto all’interno del Tribunale di Reggio Emilia (…ma resta da capire come sia stato possibile che l'uomo sia riuscito a entrare con una pistola all'interno di un ufficio giudiziario) ed ha cominciato a sparare. L’esito fu tragico: tre morti e alcuni feriti.
Purtroppo, però, di episodi di violenza (anche se non così tragici) si sono ripetuti nel
tempo in altri uffici giudiziari, come ad esempio all’Ufficio NEP di Bologna, al Tribunale di
Modena (solo pochi mesi fa), all’Ufficio del Giudice di Pace di Bologna e, da ultimo, solo
pochi giorni fa, al Tribunale per i Minorenni di Bologna ove si è introdotto un cittadino, di
nazionalità straniera che, in evidente ed incontrollato stato di nervosismo a causa
dell’andamento di una pratica di affidamento di un bambino, e nonostante il personale
amministrativo cercasse in ogni modo di calmarlo, ha sferrato un violentissimo
pugno in pieno volto a un malcapitato Direttore Amministrativo, costretto a ricorrere
alle cure dell’Ospedale, con prognosi di otto giorni.
Inutile dire che questo caso, ancora una volta, ripropone, sotto un aspetto del tutto diverso
da quelli cui siamo abituati, la delicata questione della sicurezza dei lavoratori giudiziari nei
luoghi di lavoro.
Ho ritenuto, quindi, dover intervenire ancora una volta, e con estrema decisione, nei
confronti dei massimi vertici del Dicastero di Via Arenula (oltre che nei confronti del
Procuratore Generale – responsabile per la sicurezza negli uffici del Distretto - e del
L’Editoriale
di Massimo Battaglia
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Presidente della Corte d’Appello del capoluogo felsineo), la delicatissima questione della
sicurezza nei luoghi di lavoro, centrali e periferici, del nostro Ministero.
Le problematiche attinenti le questioni di sicurezza dei lavoratori non attengono,
ovviamente, solo alla assurda eventualità dell’introduzione di qualche malintenzionato
negli uffici giudiziari.
Il fatto è, purtroppo, che i lavoratori medesimi corrono seri rischi per la loro incolumità
anche per un’altra serie di omissioni da parte di chi sarebbe preposto a garantire la loro
sicurezza e la salvaguardia della loro salute.
Vengono i brividi solo a pensare a certe strutture giudiziarie (che comunque, è bene dirlo,
sono sempre di proprietà comunale o di privati) che, oltre alla loro conclamata fatiscenza
strutturale, sono prive di qualsivoglia controllo degli accessi e di qualsiasi vigilanza, attiva
e/o passiva. Questa situazione di fatto consente agli eventuali malintenzionati, ove lo
volessero, di accedervi liberamente e di porre in essere azioni violente contro la persona.
I lavoratori giudiziari, come è noto a tutti, hanno già numerosi motivi di doglianza
(condizione lavorativa allucinante, rivendicazioni di carriera e economiche mai prese in
considerazione, blocco del turnover, blocco del rinnovo dei contrati fermi dal 2009),
segnalati ripetutamente ai massimi livelli decisionali, e quindi proprio non possono
tollerare ulteriormente che ora si debba avere paura anche per la propria incolumità
fisica e per quella degli utenti del servizio giustizia.
Temere quotidianamente per la propria incolumità fisica non è certamente un buon
viatico per iniziare la propria giornata lavorativa.
Ritengo che sarebbe da irresponsabili sottovalutare questi ennesimi segnali di
intolleranza, che sempre più spesso sfociano nella violenza fisica verso chi, in un modo o
nell’altro, svolge la sua attività lavorativa all’interno delle istituzioni che in quel momento
sta rappresentando.
Se da un lato è vero che presso ogni Distretto di Corte d’Appello l’Autorità competente a
garantire la sicurezza negli uffici giudiziari è il Procuratore Generale della Repubblica, è
altrettanto vero che troppe volte egli si limita ad inviare generiche richieste al Ministero
della Giustizia che, come sempre più spesso accade, si trincera dietro la pilatesca scusa
della “mancanza di fondi”.
Questo significa che per una questione di vil denaro si rinuncia volontariamente (ed
è questa la cosa più grave) ad offrire alle lavoratrici e ai lavoratori la giusta
condizione di sicurezza nell’esercizio delle loro funzioni. Non si trovano risorse per
una questione così delicata, ma i denari per gli sprechi più assurdi, per le
esternalizzazioni di certi servizi, per le consulenze richieste anche per le cose più
banali, quelli si che si trovano.
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Ricordo a me stesso ( e il solo ricordarlo mi provoca ogni volta un moto di rabbia)
che alcuni anni fa l’allora ministro della Giustizia affidò una consulenza in materia di
ristrutturazione e nuova edificazione di Istituti di pena a un suo conoscente che,
professionalmente, si occupava di import-export di carni macellate e prodotti surgelati (!)
Tutto ciò è veramente intollerabile.
E allora, si provveda ad eliminare veramente sprechi e spese inutili (che Confsal-Unsa ha
segnalato innumerevoli volte), e si faccia anche l’impossibile per dare sicurezza ai
lavoratori degli uffici giudiziari.
Si installino strumenti tecnologici destinati al controllo degli ingressi e si faccia in
modo di metterli effettivamente in funzione. Si impieghino anche le forze dell’ordine
al presidio degli accessi di tutti gli uffici giudiziari, e non solo in quei Palazzi
“importanti” che vediamo tutti i giorni in TV.
Lo Stato non può, ancora una volta, usare due pesi e due misure nei confronti dei suoi
stessi servitori. Forse che la sicurezza e l’incolumità fisica di un cancelliere di un
piccolo tribunale (sopravvissuto al “taglio” dei circa mille uffici giudiziari) valgono
meno di quelle di un/a qualsiasi dipendente di un ufficio di grandi dimensioni?
Non vogliamo credere che in via Arenula ci sia qualcuno che la pensa in questo modo.
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Cassazione. Sentenza n. 24775 del 2013.
Anche il "diversamente abile" è trasferibile in caso di accertata incompatibilità ambientale.
Il diritto del diversamente abile a non essere trasferito senza il suo consenso ad altra
sede, mentre non può subire deroghe e limitazioni in caso di trasferimento riferibile ad
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esigenze tecnico/produttive dell'azienda di appartenenza, non sarà invece invocabile se
dovesse accertarsi la incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede di lavoro
abituale. Lo hanno stabilito gli Ermellini con la sentenza n. 24775 del 2013, con la quale
hanno pertanto respinto il ricorso di una donna impiegata presso il front office di un ente
locale e trasferita in un altro ufficio all'interno dello stesso comune, a causa
dell'incompatibilità ambientale che si era creata in seguito a numerosi contrasti intervenuti
con la maggior parte dei colleghi di lavoro.
I giudici di piazza Cavour hanno respinto "in toto" tutte le doglianze della ricorrente che
aveva lamentato atti persecutori, vessazioni e mobbing orizzontale, atti valutati
inconsistenti dal giudice di merito, la stessa aveva peraltro anche richiesto l'applicazione al
caso "de quo", della normativa a tutela del trasferimento dei disabili.
Per la Cassazione, la valutazione da parte dei giudici di secondo grado, della non
procrastinabilità della permanenza in sede della disabile, viste le forti tensioni createsi con
i colleghi, con rilevanti ripercussioni sul regolare svolgimento dell'attività lavorativa, è una
valutazione di merito non esaminabile e censurabile in sede di legittimità, per cui il
trasferimento disposto nei confronti della ricorrente è stato ritenuto corretto.
La circostanza dell'intervenuta incompatibilità ambientale, se pure prescinde da ragioni di
stampo punitivo/disciplinare ed riferibile direttamente all' art. 2103 c.c. (Prestazione del
lavoro), differisce da meri aspetti tecnici, organizzativi e produttivi invocati dalla norma, è
direttamente causa di disfunzione e turbativa alla regolare attività lavorativa e può pertanto
autonomamente giustificare un reale bisogno di trasferimento in altra sede aziendale,
seppur di una persona affetta da disabilità.
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Corte di Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza n. 24989 del 6 novembre 2013.
Legittimo il licenziamento dell'insegnante che critica l'Istituto.
È legittimo licenziamento per giusta causa dell'insegnante che critica aspramente e apertamente ai genitori la scuola dove lavora, visto che le critiche mosse possono provocare gravi danni al datore di lavoro. E' il principio di diritto stabilito dalla Corte di Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con la sentenza 6 novembre 2013, n. 24989.
Dagli atti di causa emergeva che all'insegnante era stato addebitato di aver affermato, parlando con alcuni genitori, che l'istituto presso il quale lavorava era notevolmente inadeguato e che le insegnanti erano didatticamente impreparate sotto ogni profilo, suggerendo anche di iscrivere gli alunni altrove.
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Inoltre le era stato addebitato di aver dichiarato, al cospetto di terzi, che il Commissario straordinario non era in grado di gestire alcunché e che, con una telefonata a persone altolocate, lo si poteva mettere a tacere. Tali comportamenti, in piena evidenza gravemente lesivi del decoro e della reputazione dell'Istituto scolastico nel suo complesso e direttamente del suo Commissario straordinario, sono stati correttamente qualificati come integranti una violazione dei doveri fondamentali ed elementari di fedeltà e correttezza che gravano su un lavoratore in quanto in alcun modo possono essere ricondotti ad una legittima critica anche dell'operato del datore di lavoro per la loro offensività e per i termini utilizzati, tanto da culminare nel suggerimento ad alcuni genitori di iscrivere altrove i loro figli, con potenziale gravissimo pregiudizio per l'Istituto scolastico.
Si tratta di inadempienze così plateali, gravi e radicalmente lesive di obblighi alla base del rapporto di lavoro e della correlata fiducia tra le parti, da non necessitare di alcuna pubblicità disciplinare essendo intuitivo il dovere di evitare simili comportamenti, derivante direttamente dalla legge.
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Corte di Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza n. 24341 del 29 ottobre 2013.
Pubblico impiego: le dimissioni del dipendente sono valide anche se non accettate
dall'Amministrazione.
A seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo 29/1993, essendo il c.d. rapporto di pubblico impiego privatizzato regolato dalle norme del codice civile e dalle leggi civili sul lavoro, nonché dalle norme sul pubblico impiego, solo in quanto non espressamente abrogate e non incompatibili, le dimissioni del dipendente pubblico, in seguito revocate, sono valide anche se manca l'accettazione dell'amministrazione. Le dimissioni costituiscono, infatti, un negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui venga a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di accettarle, sicché non necessitano più, per divenire efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della pubblica amministrazione. E' il principio stabilito dalla Corte di Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con la sentenza 29
ottobre 2013, n. 24341.
La riforma del pubblico impiego portata a compimento con il decreto legislativo n. 165/2001 e successive modifiche ha determinato una delegificazione del rapporto di lavoro pubblico con la sostituzione delle norme pubblicistiche con quelle previste dalla contrattazione collettiva, ragion per cui l'articolo 124, D.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, in virtù delle disposizioni contenute negli articoli 2, comma 2 e 69, comma 1, decreto legislativo 165/2001, è divenuto inapplicabile a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del
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quadriennio 1994-1997, ed ha cessato di produrre effetti dal momento della sottoscrizione del CCNL del quadriennio 1998-2001. Nel caso di specie, non può dirsi violato il principio della domanda, di cui agli articoli 112 e 113, codice procedura civile, in quanto la questione relativa alla vigenza dell'articolo 124, D.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, era a fondamento della domanda proposta e si imponeva a seguito della intervenuta privatizzazione del pubblico impiego a prescindere alla allegazione o meno da parte del datore di lavoro del CCNL di comparto visto che i contratti collettivi nazionali possono essere conosciuti direttamente dal giudice essendone prevista la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. A seguito di adozione della sopra citata disciplina, dunque, non è più necessario alcun provvedimento espresso accettante le dimissioni da parte della Pubblica Amministrazione.
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Cassazione, sentenza n. 25069 del 7 novembre 2013.
Legittimo il licenziamento del lavoratore che gioca con il pc dell'ufficio.
La Corte di cassazione nella sentenza n. 25069 del 7 novembre 2013 ha ritenuto possibile il licenziamento di un lavoratore che utilizza, durante l'orario di lavoro, il computer dell'ufficio per giochi "provocando, in tal modo, un danno economico e di immagine all'azienda". Gli ermellini hanno così ribaltato la sentenza della Corte d'appello di Roma (pubblicata il 9 agosto 2010), che aveva dichiarato la nullità del licenziamento intimato ad un lavoratore, ed aveva condannato la società a riassumere il lavoratore entro tre giorni o, in mancanza, al risarcimento del danno in misura pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione di fatto rigettando ogni altra domanda. Il licenziamento in questione era stato intimato a seguito di lettera di contestazione del 23 novembre 2007, con la quale era stato addebitato al lavoratore di avere utilizzato, durante l'orario di lavoro, il computer dell'ufficio per giochi, con un impiego calcolato nel periodo di oltre un anno, di 260 - 300 ore provocando, in tal modo, un danno economico e di immagine all'azienda. La Corte territoriale è pervenuta alla decisione di nullità del licenziamento considerando non tardiva la contestazione in quanto la tardività va rapportata al momento in cui il datore viene a conoscenza del fatto addebitato indipendentemente dalla possibilità di conoscerlo prima; ha poi ritenuto che il controllo del computer dell'azienda da cui è emerso il suo indebito utilizzo, non configurerebbe controllo a distanza, in quanto il lavoratore aveva probabilmente consentito tale controllo; ha tuttavia ritenuto generica la contestazione che fa riferimento ad un solo concreto episodio rimanendo per il resto generica e tale da non consentire al lavoratore una puntuale difesa; sulle conseguenze della nullità del licenziamento ha ritenuto tardive le deduzioni del lavoratore in merito al requisito dimensionale del datore di lavoro ai fini della tutela reale, avendo questi prospettato
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circostanze nuove relative a collegamenti societari in modo inammissibile, al fine di contrastare la prova fornita dal datore di lavoro riguardo al numero dei dipendenti. La Corte di Cassazione è giunta ad affermare che "L'addebito mosso al lavoratore di utilizzare il computer in dotazione a fini di gioco non può essere ritenuto logicamente generico per la sola circostanza della mancata indicazione delle singole partite giocate abusivamente dal lavoratore. Appare dunque illogica la motivazione della sentenza impugnata che lamenta indicazione specifica delle singole partite giocate, essendo il lavoratore posto in grado di approntare le proprie difese anche con la generica contestazione di utilizzare in continuazione, e non in episodi specifici isolati, il computer aziendale".
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Oggi parliamo di:
A proposito del blocco stipendiale nel pubblico impiego
Profili di criticità dell'art. 9 comma 21 del D.L. 78/2010 : "Per il personale di cui all'articolo 3
del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni le progressioni di
carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013
hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici".
Nei giorni 5 e 6 novembre 2013 sono state sottoposte all'attenzione della Corte
Costituzionale le ormai annose questioni connesse al "blocco stipendiale del pubblico
impiego", con particolare riferimento a taluna categoria di pubblici non privatizzati
(diplomatici, militari, polizia, prefettizi ecc.)
In attesa di una pronuncia della Consulta, si spera non pilatesca, si evidenziano alcuni
profili di criticità che emergono dalla lettura della norma che ha avuto l'effetto di paralizzare
gli effetti economici delle progressioni di carriera disposte "e anche maturate" dal
personale in regime di diritto pubblico nel triennio in titolo.
Già a seguito della sentenza 223/2012, la Consulta ha censurato parzialmente gli effetti
della norma in esame nella parte in cui ha avuto l'effetto di introdurre "una tassazione
speciale" del tutto avulsa dalla capacità contributiva del destinatario.
Infatti, l'art. 53 della Carta Costituzionale enuncia chiaramente il principio secondo il quale
"tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva". Tale precetto, unitamente al principio di uguaglianza di cui all'art. 3, ha
indotto la Consulta a ritenere illegittimo ogni prelievo discriminatorio che si risolvesse in un
provvedimento ablativo avente natura tributaria.
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Il principio secondo il quale il diritto acquisito deve soggiacere ai criteri di proporzionalità e
progressività nel prelievo fiscale o in ogni qualsiasi altra forma di ablazione è un caposaldo
irrinunciabile di giustizia sociale, prima ancora che di diritto.
Particolare attenzione, invece, merita il precetto secondo il quale "le progressioni di
carriera ... hanno effetti esclusivamente giuridici", e non economici.
L'esame dell'inciso della norma è particolarmente importante ai fini della valutazione della
natura del provvedimento legislativo; nello specifico occorre valutare se la norma incide su
diritti acquisiti dal dipendente pubblico o è idonea ad impedirne la maturazione, e più in
particolare quello di verificare se la norma ha natura ablativa e quindi di prelievo fiscale, o
è semplicemente ostativa alla maturazione del diritto.
Orbene, il tenore della norma è chiaro nello statuire che il diritto connesso alla
progressione di carriere si acquisisce giuridicamente e, pertanto, non è abrogato dalla
norma.
Quelli che non si verificano sono gli effetti patrimoniali conseguenti alla maturazione del
diritto.
La mancata abrogazione della norma che attribuisce la maturazione del diritto in ragione
della progressione di carriera porta a ritenere che la norma primaria da cui scaturisce il
diritto medesimo rimane intatta ed inalterata, mentre ciò che la previsione in esame
colpisce sono gli effetti economici che da questa discendono.
A prescindere da ogni sindacato di ragionevolezza e di proporzionalità rispetto alla
quantità e qualità del lavoro prestato, non si può sottacere come la norma incida in
maniera autoritativa su rapporti tipicamente paritetici e quindi esclusivamente sugli effetti
economici consequenziali. Infatti, la maturazione del diritto connesso alla progressione di
carriera costituisce l'antecedente logico per l'attribuzione degli effetti economici, altrimenti
non vi sarebbe alcun diritto da privare degli effetti economici consequenziali. Pertanto, la
norma non impedisce la maturazione del diritto ma, in maniera ablativa, lo espropria degli
effetti economici che ne derivano.
Quindi, all'atto della maturazione dei requisiti previsti dalla progressione di carriera si
acquisisce un diritto assoluto pieno aventi contenuti sia giuridici che economici. Infatti, l'art.
9 comma 21 del D.L. 78/2010 lascia inalterata maturazione del diritto patrimoniale
connesso alla progressione maturata, ma dispone che detto diritto non produca effetti.
A riprova dell'assunto basti considerare che l'inscindibilità della struttura del sinallagma
genetico che lega gli effetti giuridici a quelli patrimoniali nel rapporto di impiego comporta
che la genesi dei secondi è intimamente collegata alla nascita dei primi. Infatti, l'effetto
patrimoniale nasce insieme alla maturazione "giuridica del diritto" ed ha pari contenuto di
questo. Solo modificando il contenuto giuridico del diritto possono mutare gli effetti genetici
patrimoniali. Pertanto, l'art. 9 comma 21 citato opera in un momento successivo alla piena
maturazione del diritto connesso alla progressione di carriera, limitandosi ad espropriare
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gli effetti patrimoniali di un diritto pienamente acquisito dal dipende in ragione di un
immutato rapporto di impiego.
Orbene, se il Legislatore non ha ritenuto di abrogare i diritti connessi alla progressione di
carriera, all'atto della maturazione degli stessi il dipendente acquisisce un diritto soggettivo
perfetto, attribuito da una disposizione vigente, da cui scaturiscono sia effetti "giuridici" che
effetti di natura patrimoniale consequenziali. In ragione della natura paritetica degli effetti
patrimoniali del rapporto di impiego pubblico, ne consegue che la norma, non avendo
abrogato il diritto, si limita a privare il dipendente pubblico del credito vantato dallo stesso
in ragione del raggiungimento dei requisiti disciplinati dal rapporto di impiego.
Più in particolare, l'effetto della norma è di privare nel triennio (ora nel quadriennio) il
dipendente del credito che lo stesso acquisisce all'atto della maturazione del diritto
connesso alla progressione di carriera maturata. In sostanza la norma non elimina il diritto,
ma statuisce semplicemente che il dipendente debba essere privato della
controprestazione che scaturisce dal rapporto sinallagmatico.
Quindi, in questo caso, a differenza del famigerato "contributo di solidarietà già oggetto di
censura da parte della Consulta, il prelievo ablativo non ha per oggetto somme di denaro
già incamerate dal dipendente , ma si limita a privarlo di un credito.
A ben vedere, il credito entra nella titolarità del dipendente all'atto della maturazione del
diritto in ragione "dell'inscindibilità del sinallagma genetico che lega l'effetto giuridico a
quello patrimoniale". Diversamente, qualora il Legislatore avesse disposto l'abrogazione
dei diritti connessi alle progressioni carriera, il dipendente non avendo acquisito alcun
diritto, non vanterebbe alcun credito.
In sintesi, l'art. 9 comma 21 citato, nella parte di cui trattasi, legittima l'inadempimento del
credito che costituisce la controprestazione monetaria legata alla maturazione del diritto.
Tuttavia, la privazione della possibilità di far valere gli effetti del credito maturato,
costituisce una prestazione patrimoniale a carico del dipendente avente importo pari al
credito maturato e reso inesigibile per forza di legge.
La privazione del diritto di esigere un credito costituisce una "deminutio patrimonii" al pari
di un prelievo su delle somme già incamerate, in quanto costituisce per il dipendente
pubblico una "ulteriore ritenuta coattiva alla fonte" su somme che altrimenti entrerebbero
nel proprio patrimonio.
Per tale motivo, il mancato pagamento dei crediti nascenti dalla maturazione dei diritti
connessi alla progressione di carriera costituisce un provvedimento normativo che priva il
dipendente pubblico, con una tassazione speciale, dell'esigibilità di un diritto di credito
maturato in occasione del rapporto di lavoro.
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La possibilità di maturare un diritto "giuridicamente" comporta che lo stesso entri nel
patrimonio del dipendente, e che successivamente, in ragione di una norma espropriativa,
il credito maturato è dichiarato privo di effetti.
Da quanto sopra, si ha ragione per propendere per la natura ablativa e tributaria della
disposizione di cui all'art. 9 comma 21 citato e succ. mod., nella parte in cui dispone che le
progressioni di carriera, nel quadriennio, hanno effetti esclusivamente giuridici e non
economici.
La procedura espropriativa di un credito entrato nella titolarità del dipendente all'atto della
maturazione giuridica del diritto, in quanto avente un preciso contenuto patrimoniale, può
ritenersi legittima solamente se improntata ai principi di proporzionalità, progressività e
uguaglianza imposti dal Legislatore costituente in materia di prelievo tributario.
Tuttavia, ragioni di finanza pubblica hanno portato ad introdurre criteri di prelievo fiscale
piuttosto "bizzarri" rispetto alla cultura giuridica del nostro Paese.
Solo i principi di uguaglianza e proporzionalità possono assicurare un prelievo tributario
che assicuri giustizia sociale e pienezza dello Stato di diritto. Il solo pensare di potere
ovviare all'urgenza di riforme strutturali con misure finanziarie e fiscali estemporanee e
talune volte illogiche, è un atteggiamento che avrà l'effetto di traslare sulle prossime
generazioni il peso di un rinato bisogno di riabilitarsi.
Nelle more, si spera che ognuno venga chiamato di fronte alla proprie responsabilità: "che
ciascuno faccia ciò che gli compete di fare", insegnava un quanto mai attuale Platone.
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