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CONTRATTAZIONE INTEGRATIVA, NULLITÀ DELLA CLAUSOLA DIFFORME E RESPONSABILITÀ E RESPONSABILITÀ DIFFUSA” (*) DI ANTONIO VISCOMI SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il sistema «ordinato» di contrattazione collettiva. – 3. La nullità della clausola «difforme». – 4. Orientamenti recenti della Corte dei Conti. – 5. Dalla competenza contrattuale alle competenze negoziali. 1. Intendo proporre alcune riflessioni sulla questione della nullità, ai sensi dell’art. 40, comma 3, e 40-bis, comma 3, d.lg. 165/2001, delle clausole di un contratto collettivo integrativo. A tal fine, focalizzerò l’attenzione su tre ambiti: il primo è relativo al modello di contrattazione collettiva nel settore pubblico, caratterizzato, com’è noto, da un elevato tasso di formalizzazione legislativa; il secondo riguarda recenti orientamenti di alcune Sezioni Giurisdizionali regionali della Corte dei Conti che hanno affrontato, sia pure ancora in modo embrionale, la questione che qualcuno ha già inteso definire come «danno da contrattazione collettiva» ( 1 ); il terzo, ed ultimo, è dato dalla valutazione in merito alla perdurante idoneità degli strumenti eteronomi di garanzia del coordinamento tra livelli contrattuali e all’impatto, reale o potenziale, degli orientamenti del giudice contabili sul sistema generale di contrattazione collettiva. 2. Credo di poter affermare, senza tema di smentita, che il tratto caratterizzante del sistema contrattuale pubblico sia da individuare nell’attribuzione legislativa a favore del contratto collettivo nazionale non solo di una evidente centralità sistemica, ma di una ancor più pregnante funzione ordinante ( 2 ). In effetti, è il contratto nazionale a: disciplinare i (*) Destinato agli Studi in onore di Edoardo Ghera. 1 Così SCHÜLMERS, Un caso emblematico di danno da contrattazione collettiva: la sentenza n. 372/2006 della Sezione Giurisdizionale per la Lombardia, pubblicato nel sito internet dell’Associazione Magistrati della Corte dei Conti (www.amcorteconti.it/articoli/schulmers_contrattazione.htm). 2 Continuo una traccia di riflessione seguita in occasioni diverse. Mi sia perciò consentito, anche per più puntuali indicazioni bibliografiche, il rinvio ai seguenti testi: VISCOMI, Lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in IRTI (diretto da), Dizionario di diritto privato, Milano, in corso di stampa; BELLARDI- CARABELLI- VISCOMI, Contratti integrativi e flessibilità nel lavoro pubblico riformato, Bari 2007; VISCOMI, La contrattazione integrativa, in F. CARINCI-L. ZOPPOLI (diretto da), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, vol. VI.1, Torino 2004; ID., La contrattazione integrativa, in F. CARINCI- D’ANTONA (a cura di), Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Tomo II, Milano 1999; VISCOMI-L. ZOPPOLI, La contrattazione decentrata, in F. CARINCI (diretto da), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche dal d.lg. 29/1alla

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CONTRATTAZIONE INTEGRATIVA, NULLITÀ DELLA CLAUSOLA DIFFORME E RESPONSABILITÀ E RESPONSABILITÀ “DIFFUSA” (*)

DI ANTONIO VISCOMI

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il sistema «ordinato» di contrattazione collettiva. – 3. La

nullità della clausola «difforme». – 4. Orientamenti recenti della Corte dei Conti. – 5. Dalla competenza contrattuale alle competenze negoziali.

1. Intendo proporre alcune riflessioni sulla questione della nullità, ai

sensi dell’art. 40, comma 3, e 40-bis, comma 3, d.lg. 165/2001, delle clausole di un contratto collettivo integrativo. A tal fine, focalizzerò l’attenzione su tre ambiti: il primo è relativo al modello di contrattazione collettiva nel settore pubblico, caratterizzato, com’è noto, da un elevato tasso di formalizzazione legislativa; il secondo riguarda recenti orientamenti di alcune Sezioni Giurisdizionali regionali della Corte dei Conti che hanno affrontato, sia pure ancora in modo embrionale, la questione che qualcuno ha già inteso definire come «danno da contrattazione collettiva» (1); il terzo, ed ultimo, è dato dalla valutazione in merito alla perdurante idoneità degli strumenti eteronomi di garanzia del coordinamento tra livelli contrattuali e all’impatto, reale o potenziale, degli orientamenti del giudice contabili sul sistema generale di contrattazione collettiva.

2. Credo di poter affermare, senza tema di smentita, che il tratto

caratterizzante del sistema contrattuale pubblico sia da individuare nell’attribuzione legislativa a favore del contratto collettivo nazionale non solo di una evidente centralità sistemica, ma di una ancor più pregnante funzione ordinante (2). In effetti, è il contratto nazionale a: disciplinare i

(*) Destinato agli Studi in onore di Edoardo Ghera. 1 Così SCHÜLMERS, Un caso emblematico di danno da contrattazione collettiva: la

sentenza n. 372/2006 della Sezione Giurisdizionale per la Lombardia, pubblicato nel sito internet dell’Associazione Magistrati della Corte dei Conti (www.amcorteconti.it/articoli/schulmers_contrattazione.htm).

2 Continuo una traccia di riflessione seguita in occasioni diverse. Mi sia perciò consentito, anche per più puntuali indicazioni bibliografiche, il rinvio ai seguenti testi: VISCOMI, Lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in IRTI (diretto da), Dizionario di diritto privato, Milano, in corso di stampa; BELLARDI- CARABELLI- VISCOMI, Contratti integrativi e flessibilità nel lavoro pubblico riformato, Bari 2007; VISCOMI, La contrattazione integrativa, in F. CARINCI-L. ZOPPOLI (diretto da), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, vol. VI.1, Torino 2004; ID., La contrattazione integrativa, in F. CARINCI- D’ANTONA (a cura di), Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Tomo II, Milano 1999; VISCOMI-L. ZOPPOLI, La contrattazione decentrata, in F. CARINCI (diretto da), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche dal d.lg. 29/1alla

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rapporti sindacali e gli istituti di partecipazione (art. 9); a definire materie, limiti, soggetti e procedure del contratto di secondo livello (art. 40, comma 3); a stabilire la composizione degli organismi di rappresentanza unitaria del personale e le specifiche modalità di elezione (art. 42, comma 4); a delineare, infine, le «nuove forme di partecipazione (…) ai fini dell’organizzazione del lavoro» (art. 44).

L’imputazione di tali funzioni all’esclusiva competenza del contratto nazionale consente di individuare in questo la fonte (appunto: ordinante) del sistema contrattuale nel suo complesso, e consente inoltre di proporre una retta interpretazione per due enunciati del legislatore della riforma altrimenti equivoci o, per altri versi, addirittura superflui. Il primo è relativo all’inciso secondo cui la contrattazione collettiva disciplina la durata dei contratti, la struttura contrattuale e i rapporti tra i diversi livelli «in coerenza del settore privato» (art. 40, comma 3, primo periodo). Il secondo riguarda la prevista attivazione, da parte delle amministrazioni, di «autonomi livelli di contrattazione collettiva integrativa» (art. 40, comma 3, secondo periodo).

Inserito in un contesto legislativo che attribuisce centralità sistemica e funzione ordinante al contratto nazionale, il primo enunciato non può certo rinviare ad una coerenza mimetica tra sistema pubblico e sistema privato, dal momento che affermare un necessario isomorfismo strutturale tra l’uno e l’altro settore vorrebbe dire, in ultima istanza, negare lo spazio di autonomia altrimenti riconosciuto dalla legge alla dimensione collettiva. Esso, semmai, sembra da intendere sul piano funzionale, a stregua di adeguato e rafforzato riconoscimento del potere proprio dell’autonomia collettiva di darsi, nel settore pubblico come in quello privato, autonome regole, ferma restando la vincolante centralità legale del livello contrattuale nazionale (3). Che poi, a questo livello, sia preferita una articolazione rigida o una distribuzione flessibile della competenze ovvero un accentramento o un decentramento dei livelli regolativi è scelta da imputare radicalmente all’autonomia decisionale delle parti negoziali.

Ciò considerando, acquista senso e significato anche il secondo enunciato, secondo cui le amministrazioni attivano «autonomi livelli di contrattazione collettiva integrativa», dovendosi escludere fin da subito che l’autonomia sia da riferire al potere, per così dire unilaterale, delle amministrazioni di individuare livelli di contrattazione autonomi rispetto a quanto previsto dal contratto nazionale, e potendosi semmai individuare in

Finanziaria 1995, Commentario, Tomo I, Milano 1995. Ed inoltre VISCOMI, Dal comparto al sistema: appunti per una discussione su sindacato e contrattazione collettiva nelle autonomie locali, RU 2007, 3, 47; ID., Prime riflessioni sulla struttura della contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni nella prospettiva della riforma costituzionale, in questa Rivista 2002, suppl. 1, 165. Alla bibliografia citata nei testi indicati adde ora ALES, Contratti di lavoro e pubbliche amministrazioni, Torino, 2007, part. cap. V.

3 Peraltro, non può negarsi che tale centralità sia caratteristica propria anche del settore privato, come conseguenza delle autonome scelte degli attori negoziali.

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essa l’affermazione di uno spazio di libertà negoziale delle singole amministrazioni non più vincolate né alle direttive di secondo grado dell’Aran in funzione della contrattazione decentrata (4), né all’obbligo di stipulare un contratto di secondo livello, salvo quanto stabilito in tema di retribuzione dagli artt. 2, comma 3, e 45 del d.lg. 165.

In definitiva, è ragionevole affermare che alla funzione ordinante del contratto nazionale si accompagna il carattere ordinato del secondo livello di contrattazione: ordo ordinans il primo, ordo ordinatus il secondo. Le ragioni di questa scelta del legislatore sono del tutto evidenti, e possono essere rappresentate con stringate considerazioni, se solo si considera, per un verso, la spendita di risorse pubbliche e si riflette, per altro verso, sulla omogeneità delle funzioni pubbliche esercitate da amministrazioni pure tra loro autonome sia sul piano giuridico-istituzionale che su quello organizzativo-gestionale.

Riguardata nella prima prospettiva, la funzione ordinante del contratto collettivo acquista senso e pregnanza giustificativa come strumento di gestione e controllo dei flussi finanziari ovvero, più in generale, della spesa pubblica, anche in assenza di derivazione centrale delle risorse. In effetti, com’è ben noto, il controllo della spesa pubblica complessiva «rientra nella funzione di coordinamento finanziario spettante allo Stato per ragioni connesse ad obiettivi nazionali» (5) ed in questa logica ben si comprende l’art. 47, comma 1, del d.lg. 165 che consente al Governo di «esprimere le sue valutazioni per quanto attiene agli aspetti riguardanti la compatibilità con le linee di politica economica e finanziaria nazionale» anche in ordine agli atti di indirizzo delle amministrazioni diverse dallo Stato.

Riguardata nella seconda prospettiva, la funzione ordinante esprime l’ambizione di assicurare al contempo, e cioè di contemperare, mediante l’azione autonoma della contrattazione, il necessario rispetto delle diversità delle pubbliche amministrazioni (troppe volte e per troppo tempo soffocata dall’egemonia normativa e culturale, e quasi antropologica, del modello amministrativo ministeriale) con l’esigenza di impedire o almeno inibire, nell’ambito dei singoli comparti pubblici, differenziazioni dei trattamenti economici e normativi tale da riportare in vita «giungle» (6) di cui certo non si avverte oggi la necessità.

4 Forse è opportuno ricordare che l’art. 50, comma 6, d.lg. 2 febbraio 1993 n. 29, nella versione originaria, prevedeva: «Le pubbliche amministrazioni possono avvalersi, nella contrattazione collettiva decentrata, dell'attività di rappresentanza o di assistenza dell'agenzia, alle cui direttive sono tenute in ogni caso a conformarsi». In considerazione di quanto scrive ALES, Contratti, p. 106 n. 31, mi sia consentito segnalare che proprio a motivo del venir meno di tali direttive esplicitamente parlavo della «inesistenza di vincoli esterni» in VISCOMI, La contrattazione integrativa, in F. CARINCI- D’ANTONA (a cura di), Il lavoro, Milano 1999, 1276.

5 Per tutte Cost. 1 dicembre 2006 n. 399, FA-CDS 2006, 12 3264. 6 Naturalmente, mi riferisco al libro di GORRIERI, La giungla retributiva, Bologna,

1975

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Queste due significative circostanze si riflettono sulla stessa natura della contrattazione collettiva nel settore pubblico che indubbiamente presenta delle specificità (7) non facilmente riconducibili nell’alveo tradizionale e consolidato dell’art. 39 Cost., tant’è che quelle che la Corte Costituzionale definisce «peculiarità del contratto collettivo nel pubblico impiego», che lo rendono «ben diverso da quelli cosiddetti di diritto privato» (8), hanno indotto alcuni ricercatori a dubitare della stessa possibilità di qualificarlo a stregua di attività negoziale privata, suggerendone, invece, una diversa configurazione in termini di fonte di diritto (9). Va però detto, al riguardo, che la Corte Costituzionale (10) ha negato che la regolamentazione della contrattazione collettiva per i rapporti di lavoro pubblici contrasti con l'art. 39 Cost. in quanto nel nuovo sistema la legge non conferisce generale obbligatorietà al contratto collettivo. Questa deriva, piuttosto, dall’effetto sinergico del dovere gravante sulle pubbliche amministrazioni, tutte rappresentate dall'Aran, di conformarsi agli impegni assunti in sede negoziale, e dal rinvio alla disciplina collettiva contenuto nel contratto individuale di lavoro. In tale prospettiva, il contratto collettivo diviene impegnativo per tutti i dipendenti e la relativa forza cogente costituisce garanzia della parità di trattamento e dell'inderogabilità dei livelli minimi da esso fissati. Ciò considerando, può ben dirsi che la centralità sistemica del livello nazionale, in quanto garante di un ordine contrattuale a sua volta destinato a contemperare gli interessi negoziali delle parti con interessi diversi ma pur sempre costituzionalmente radicati, rappresenta la chiave di volta della costruzione giuridico-istituzionale della riforma del lavoro pubblico sul versante della relazioni collettive.

Conferma ulteriore e recente di ciò è data da almeno altri due elementi. Intendo riferirmi all’Intesa sul lavoro pubblico e sulla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, sottoscritta il 6 aprile 2006, nonché, per altro verso, allo schema di disegno di legge recante misure di razionalizzazione delle norme generali sul lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche del 12 settembre 2007. Nell’ambito dell’Intesa, la contrattazione nazionale è considerata a stregua di «livello imprescindibile nel sistema contrattuale pubblico» alla quale risulta affidata «la definizione di regole e criteri che contrastino la dispersione e la frantumazione degli ambiti e delle sedi di contrattazione integrativa». Di questa, d’altro canto, si afferma che non solo «deve svolgersi sulle materie e

7 Cfr. ALES, Contratti, cit., 121. 8 Cost. 5 giugno 2003 n. 199, FI 2003, I, 2232. 9 Sul punto vedi almeno gli atti delle Giornate di Studio del 1996 dell’AIDLASS, Le

trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico e il sistema delle fonti, Milano, 1997 ed ivi le relazioni di MARESCA e RUSCIANO. Adde GHERA, Contratto ed organizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in AA.VV., Produttività, lavoro e modelli di contabilità nelle amministrazioni pubbliche, Soveria Mannelli, 1996.

10 Cost. 16 ottobre 1997 n. 309, questa Rivista 1998, 131.

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nelle modalità definite dai contratti nazionali», ma «deve rispondere a criteri omogenei e cogenti dettati dai contratti collettivi nazionali». Lo schema di disegno di legge, a sua volta, esprime un criterio di delega particolarmente stringente, là dove impone di «rivedere le disposizioni sui rapporti fra i diversi livelli della contrattazione (…), rafforzando il ruolo dei contratti nazionali nella determinazione di strumenti e procedure che evitino l’introduzione nei contratti integrativi di norme estranee o non coerenti con i criteri e gli obiettivi stabiliti nella contrattazione nazionale e con la distinzione tra materie di contrattazione e materie affidate ad istituti di partecipazione (…)» (11).

3. L’attenta lettura dei due documenti da ultimo indicati consente, a

mio avviso, di avere immediata cognizione di alcuni elementi su cui è opportuno focalizzare l’attenzione. Da un lato, appare evidente che la funzione ordinante del livello nazionale è valore condiviso anche dalle organizzazioni sindacali, o almeno di quelle più consapevoli dei rischi connessi alla anarchica disarticolazione del sistema per via di una enfatizzazione esasperata dell’autonomia negoziale in sede decentrata. Quanto poi siffatta funzione ordinante a livello nazionale sia coerente con il sistema di valorizzazione, anche costituzionale, delle autonomie e sia, soprattutto, idonea a sostenere l’implementazione di un modello organizzativo affidato alle capacità manageriali della dirigenza, è questione sulla quale è opportuno tornare in seguito, qui segnalando solo il difficile rapporto tra una (diffusa) retorica dell’autonomia manageriale e le concrete esigenze di controllo dell’attività negoziale in sede decentrata. Dall’altro lato, però, la focalizzazione concettuale ed operativa, tanto dell’Intesa quanto dello schema di disegno di legge, sulla necessaria invenzione di strumenti e procedure in grado di assicurare la coerenza tra livelli non può che evidenziare il risultato non positivo offerto dagli strumenti e dalla procedure fin qui utilizzati. Tali strumenti possono essere qui sinteticamente riassunti in due macro categorie, in relazione alla relativa fonte di disciplina.

A tale stregua, rappresenta strumento autonomo di garanzia del coordinamento tra livelli contrattuali la previsione, diffusa nei contratti nazionali, della necessaria presenza in sede negoziale integrativa dei

11 In paradossale controtendenza si pone l’art. 92 del d.d.l. 1817 (Finanziaria 2008) che si propone di modificare l’art. 36 del d.lg. 165 in materia di rapporti flessibili. Tale articolo, ponendo consistenti limiti alla stipulazione di contratti flessibili, dispone espressamente l’inderogabilità delle norme ivi previste ad opera della contrattazione collettiva: si capovolge così radicalmente la disciplina originaria della riforma, negando la centralità della contrattazione da questa prevista. Giocando un poco con il suggestivo titolo di un saggio di MAINARDI, Piccolo requiem per la flessibilità del lavoro nelle pubbliche amministrazioni. A proposito della. legge 9 marzo 2006, n. 80, questa Rivista 2006, 12, potrebbe dirsi che il legislatore si propone, con impostazione oltremodo ideologica e con scarsa consapevolezza dei reali bisogni organizzativi delle amministrazioni, di celebrare la definitiva scomparsa della flessibilità nel settore pubblico.

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rappresentanti dei soggetti negoziali firmatari del contratto nazionale medesimo. Da questo specifico punto di vista è però facile intuire gli effetti di una sostanziale asimmetria di interessi tra gli stessi soggetti sindacali chiamati a sedersi all’unico tavolo negoziale decentrato, qui affiancandosi e spesso contrapponendosi gli organismi locali e quelli aziendali. Non è certo privo di significato l’aumento della conflittualità intersindacale in sede decentrata, spesso risolta, a motivo di veti reciproci ed incrociati, attraverso un uso improprio dello strumento processuale dell’art. 28 dello Statuto, non frenato ed anzi talvolta alimentato da una giurisprudenza alimentata da una regolamentazione contrattuale delle relazioni sindacali tanto minuta e pedante da risultare quasi un percorso minato per il datore di lavoro pubblico. Tuttavia, proprio per questo motivo, non sembrano da condividere gli orientamenti giurisprudenziali che legittimano la presenza, in quella stessa sede, dei soggetti sindacali non firmatari del contratto nazionale, sul presupposto, con coerente con la legge di riforma, che la titolarità negoziale trovi legittimazione non già nelle previsioni del contratto nazionale ma piuttosto in una non meglio definita «normativa già esistente che riconosce precisi diritti alle sigle sindacali, anche non firmatarie di contratto collettivo nazionale» (12), ovvero sul diverso assunto secondo cui «esiste un'autonoma attività di contrattazione a livello decentrato in riferimento alla quale la legittimazione spetta alle organizzazioni maggiormente rappresentative nello specifico ambito territoriale al quale si riferisce il contratto» (13).

Costituiscono, invece, strumenti eteronomi di garanzia dell’ordine contrattuale, nelle sue implicazioni finanziarie e normative, le previsioni del d.lg. 165 che: (a) vietano alle pubbliche amministrazioni di sottoscrivere contratti integrativi «in contrasto con i vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o che comportano oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennali» (art. 40, comma 3, quarto periodo); (b) sanciscono la nullità delle «clausole difformi» e prevedono che le stesse «non possono essere applicate» (art. 40, comma 3, quinto periodo); (c) dispongono metodologie e criteri di controllo (14) in merito alle implicazioni

12 Tribunale Trani 1 ottobre 2004, LG 2004, 1304. 13 Pretura Roma 22 aprile 1997, questa Rivista 1998, 236. 14 Cfr. Cost. 13 gennaio 2004 n. 13, GC 2004, I, 1847 che ha dichiarato infondate le

questioni di legittimità costituzionale dell'art. 17, comma 2, l. n. 448 del 2001, nella parte in cui prevede verifiche congiunte tra comitati di settore e governo in ordine alle implicazioni finanziarie della contrattazione integrativa di comparto, con la definizione di metodologie e criteri di riscontro sui contratti integrativi delle singole amministrazioni, ed obbliga gli organi di controllo interno delle amministrazioni ad inviare al Ministero dell'economia informazioni sui costi della contrattazione integrativa. A giudizio della Corte, tale disposizione detta regole che, lungi dal costituire normativa di dettaglio, sono strumentali rispetto al fine – legittimamente perseguito dalla legislazione statale in sede di coordinamento della finanza pubblica – di valutare la compatibilità, con i vincoli di bilancio risultanti dagli strumenti di programmazione annuale e pluriennale, della spesa in materia di contrattazione integrativa.

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finanziarie della contrattazione integrativa – sia a livello di comparto (art. 40-bis, comma 1), sia a livello di amministrazione (art. 40-bis, comma 2, ed art. 48, comma 6) – prevedendo, in entrambi i casi, l’applicazione dell’art. 40, comma 3, nell’ipotesi di accertata non compatibilità dei costi della contrattazione integrativa con i vincoli di bilancio.

La sanzione della nullità della clausola integrativa «difforme» costituisce una evidente peculiarità, soprattutto se riguardata nella prospettiva del lavoro privato. Qui, in effetti, anche a causa della complessità del sistema, i problemi di conflitto o concorso tra fonti trovano modalità risolutive diversificate. Così, ad esempio, è ormai pacifico che i rapporti tra fonti collettive non possano essere immediatamente risolti in virtù del principio di gerarchia ma impongono una più attenta analisi della effettiva volontà delle parti (art. 1362 cod. civ.), che può anche esprimersi (e generalmente si esprime) attraverso vincolanti strumenti di delega o rinvio dall’uno all’altro livello (15). Diversamente, invece, nell’ipotesi di conflitto tra legge inderogabile e fonte contrattuale all’effetto proprio della nullità (artt. 1418, 1419 cod. civ.) si accompagna quello ulteriore ed integrativo della sostituzione legale (art. 1339 cod. civ.). Ancora diversa è la soluzione offerta nell’ipotesi di contrasto tra autonomia individuale e norma inderogabile, collettiva o eteronoma: in tal caso, infatti, il carattere migliorativo della prima costituisce un limite alla regola di sostituzione consacrata nell’art. 2077, che però non riguarda e non può trovare applicazione nella diversa vicenda di successione con effetto peggiorativo di contratti collettivi, il cui limite è segnato dall’esistenza di diritti quesiti (16). A ben vedere, dunque, nel settore privato la nullità è strumento di risoluzione del solo conflitto tra norme inderogabili di legge e norme contrattuali collettive, e il meccanismo di eterointegrazione dell'assetto negoziale previsto dall'art. 1339 cod. civ. opera limitatamente alla sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti, e quindi attraverso l'adeguamento di queste alla disciplina minimale voluta dalla legge.

Viceversa, l’art. 40, comma 3, del d.lg. 165 commina la sanzione della nullità in relazione alle clausole del contratto integrativo segnate dallo stigma della «difformità» e da tale vizio discende la relativa non applicabilità. L’applicazione della medesima regola è ora disposta dall’art. 40-bis (aggiunto dalla l. 28 dicembre 2001 n. 448) nell’ipotesi di non compatibilità dei costi accertata dagli organismi interni, così superandosi, in modo netto, ogni dubbio interpretativo che pure poteva annidarsi nella non chiara formulazione del testo dell’art. 40 e che avrebbe potuto suggerire una limitazione oggettiva dell’ambito di applicazione della nullità alle sole clausole difformi e non anche alle clausole stipulate in violazione dei vincoli di bilancio.

15 Cass. 17 novembre 2003 n. 17377, DL 2004, II, 221. 16 Cass. 5 giugno 2007 n. 13092, GD 2007, 26, 72.

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Sulla base di una prima interpretazione, potrebbe ritenersi che la nullità discenda dal fatto stesso della difformità e cioè dal contrasto tra norme di diverso livello, in guisa tale da ritenere che il contratto nazionale sia assurto a norma di rango superiore (e con natura giuridica differente) rispetto a quella inferiore (17). Interpretazione, questa, che pure potrebbe trovare conferma nella stessa possibilità di denunziare in Cassazione la violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi nazionali (art. 63, comma 5, d.lg. 165). Tuttavia, prescindendo dalla circostanza, pure non poco rilevante, che l’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. (a seguito della novella apportata dall’art. 2 del d.lg. 2 febbraio 2006 n. 40) prevede ora il ricorso in Cassazione per «violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro», indipendentemente dal comparto pubblico o privato di riferimento, vale la pena osservare che la disciplina sanzionatoria non sembra incidere sulla natura giuridica del contratto nazionale: questo è, e rimane, un atto di autonomia privata; quella rappresenta un mero presidio offerto dall’ordinamento al fine di assicurare il rispetto delle autonome decisioni delle parti contraenti, in considerazione della già segnalata rilevanza degli interessi coinvolti nella vicenda negoziale (e delle risorse utilizzate). Da questo punto di vista, la sanzione della nullità non riverbera i suoi effetti sulla qualificazione dell’autonomia negoziale ma si presenta come strumento esterno di tutela dell’ordine contrattuale, definito in concreto dall’autonoma decisione dei soggetti negoziali.

Acquisita più chiara consapevolezza in ordine alla funzione della regola di nullità, è necessario definire il campo oggettivo di applicazione della sanzione; attività, questa, non agevole a motivo delle ambiguità lessicali e testuali insite nella norma. In verità, sufficientemente chiaro e agevolmente definibile appare il concetto di «non compatibilità» dei costi contrattuali con i vincoli di bilancio, in considerazione della duplice circostanza che vede le spese per il personale trovare collocazione in appositi capitoli del bilancio medesimo e la disciplina contrattuale prevedere analiticamente le modalità di composizione dei fondi utilizzabili per il finanziamento degli istituti contrattuali (18).

17 «Poiché il contratto collettivo nazionale di lavoro comparto Ministeri costituisce

una fonte normativa sovraordinata rispetto al contratto nazionale integrativo, che ha l'obbligo (e non la mera facoltà) di attuarne le previsioni, è nullo il contratto nazionale integrativo vigili del fuoco nella parte in cui (…)»: Trib. Vibo Valentia, 16 giugno 2004, GC 2006, 1 208.

18 Sul punto cfr. VOCI, La contrattazione integrativa negli enti locali tra vincoli di finanza pubblica e spinte autonomistiche, questa Rivista 2004, 749, e ivi in particolare il § 4 sulle «criticità» nella gestione dei fondi e nell’utilizzo delle risorse individuate dalla Ragioneria Generale dello Stato. Sul punto cfr il recente parere del Dipartimento della Funzione Pubblica del 21 settembre 2007 in ordine alle «modalità di finanziamento delle posizioni organizzative». Adde il recente rapporto Gli equilibri delle finanze locali tra

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Viceversa, è da considerarsi di più difficile definizione il concetto stesso di «difformità» produttiva di nullità, anche in considerazione del divieto che il quarto periodo dell’art. 40, comma 3, pone in capo alle amministrazioni: quello, cioè, di sottoscrivere contratti integrativi «in contrasto con i vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali». In effetti, è del tutto evidente che diverso e non pienamente coincidente è lo spazio semantico rispettivamente espresso dai significanti «difforme» e «in contrasto con i vincoli». Basti pensare all’ipotesi di disciplina in sede integrativa di materia non trattata dal contratto di primo livello: in tal caso, infatti, non esistendo una clausola nazionale da considerare parametro di conformità, non vi è difformità in senso proprio e non può neppure parlarsi, per lo stesso motivo, di vincolo in senso stretto. D’altra parte, è del tutto evidente che all’attività negoziale in sede decentrata non può attribuirsi una funzione meramente applicativa in concreto delle previsioni statuite a livello nazionale; a maggior ragione ciò non è possibile nel settore pubblico, almeno nella misura in cui l’usurata denominazione di contratti o accordi «decentrata» (introdotta dall’art. 14 della l. 9 marzo 1983 n. 93 e mantenuta in vigore dall’art. 45 del d.lg. 2 febbraio 1993 n. 29) è stata imperativamente sostituita da quella di «contrattazione integrativa», probabilmente volendo il legislatore così segnalare l’integrazione funzionale dei due livelli ai fini della definizione della disciplina applicabile, a preferenza (ed a discapito) della precedente funzione di applicazione in sede aziendale di norme puntualmente dettate altrove. Se così è, ne segue che soltanto a costo di un grave fraintendimento della funzione dell’attività negoziale di secondo livello può ritenersi che questa sia priva della possibilità stessa di operare più o meno estesi e significativi adattamenti ed adeguamenti delle previsioni nazionali.

Ciò considerando, e volendo ridurre al minimo i rischi di possibile interferenza con le dinamiche proprie della negoziazione collettiva, che trovano presidio nella stessa Costituzione, l’interpretazione adeguata della norma può meglio darsi prestando attenzione al sistema nel suo complesso ed alla funzione che ad essa assegna il legislatore. In questa prospettiva, i dati da valorizzare sono essenzialmente due.

In primo luogo, il fatto che materie, oggetto, limiti e procedure della contrattazione integrativa sono preventivamente definiti dal contratto nazionale: a tale stregua, risulta evidente che l’intervento della contrattazione integrativa deve essere esplicitamente previsto (se si vuole: autorizzato o delegato) dal contratto nazionale, in guisa tale da ritenere che alla stessa sia inibito pronunciarsi su materie ad essa non esplicitamente rinviate (19). In altre parole, il “silenzio” del livello nazionale non autorizza autonomia e regole elaborate dal Servizio Studi di Intesa San Paolo, curato da CAMPANINI e GUELPA in www.forumpa.it/forumpanet/2007/10/30/intesasp.pdf

19 «Il ccnl 6 luglio 1995 del comparto regioni ed enti locali disponeva, all'art 4 comma 4, che la contrattazione decentrata doveva riferirsi solo agli istituti contrattuali

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la “voce” aziendale, considerato che il compito di definire materie, soggetti e procedure della contrattazione decentrata è riservato proprio a quel livello e non pare possibile argomentare, allo stato della legislazione, una generale competenza del contratto di secondo livello, banalizzando così il rinvio formale da condizione giuridicamente legittimante a mera indicazione di priorità politica.

In secondo luogo, è da considerare che alle amministrazioni è vietato sottoscrivere contratti integrativi in contrasto con i vincoli previsti dal livello nazionale: in questa prospettiva, sembra poter affermare che non ogni difformità comporta la nullità (prevista dal quinto periodo del terzo comma) ma soltanto quella qualificata dal contrasto con i vincoli (positivi o negativi) recati dal contratto nazionale, in coerenza con quanto disposto dal quarto periodo del medesimo comma. Se così non fosse, si introdurre nel sistema una paradossale contraddizione: il quarto comma consentirebbe (o comunque non impedirebbe) alle amministrazioni di stipulare contratti «difformi» ma non «in contrasto», mentre il quinto comma le obbligherebbe, al contempo, a non darvi applicazione. Questa soluzione non rende certo più agevole l’operato dell’interprete, ma solo più consapevole della necessità di un prudente apprezzamento delle soluzioni negoziali (20): rimessi a tale livello, precisati dal successivo art. 5, tra i quali non era compresa la materia della classificazione del personale, peraltro estranea alle disposizioni del contratto nazionale. Ne consegue la nullità, in forza del comma 3 dell'art. 40 (…) dell'accordo sindacale decentrato (del Comune di Salerno) stipulato in materia da un'amministrazione comunale nella vigenza di tale contratto, essendo stato definito il nuovo sistema di classificazione solo con il ccnl del 31 marzo 1999. Né vale il principio di diritto secondo cui le parti possono stabilire il differimento dell'operatività della regolamentazione al momento di entrata in vigore di una legge sopravvenuta, che rimuova il limite preesistente, poiché nella specie, lungi dal configurarsi un mero limite all’autonomia privata ad opera di norma imperativa, si è in presenza di un'autorizzazione che, in base alla legge, deve essere data specificamente e che è stata data con riferimento esclusivo alla progressione economica all'interno delle categorie»: così Cass. 2 maggio 2007 n. 10099, GC Mass. 2007, 5. Diversamente Trib. Roma 18 gennaio 2007 n. 1023, Banca Dati Pubblico Impiego, Il Sole 24 Ore, 2007, secondo cui la qualificazione della contrattazione come integrativa starebbe a dimostrare «l’evidente finalità di identificarne l’oggetto nelle materie non trattate dal contratto nazionale (salvo un espresso divieto in tal senso) ovvero nel completamento della disciplina dettata dal livello nazionale».

20 Prudenza generalmente auspicabile in quanto il giudice «difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all'assetto degli interessi concordato dalle parti sociali» (Cass. 1 febbraio 2006 n. 2245, GC Mass 2006, 2). Sulla concreta configurazione dei rapporti tra livelli negoziali risultano di estremo interesse le «Osservazioni conclusive» di M. ESPOSITO, La contrattazione collettiva integrativa nei comuni e nelle province italiane nel periodo 1999-2002, LECCESE, La contrattazione collettiva integrativa nel comparto ministeri nel periodo 1999-2003, ROMA, La contrattazione collettiva integrativa nel comparto università nel periodo 2000-2004, tutti in BELLARDI- CARABELLI- VISCOMI, Contratti integrativi e flessibilità, cit., rispettivamente alle pp. 75, 155 e 233. Cfr. pure DELLA ROCCA- RAMPINO, Prima della contrattazione integrativa. Rapporto sul lavoro pubblico e la contrattazione decentrata nel periodo 1995-1998, Soveria Mannelli, 2000; BORDOGNA (a cura di), Contrattazione integrativa e

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a volte, frutto di tendenze centrifughe, destinate a disarticolare il senso stesso delle norme contrattuali di primo livello, con le quali perciò si pongono in contrasto, e a massimizzare i benefici acquisibili in sede locale (21); a volte, invece, espressione della normale ed ordinaria funzione di integrazione e di adeguamento di queste alle specificità del contesto di riferimento (22). In tal caso, non essendo la mera difformità qualificata dal contrasto con le norme di primo livello, né sul piano normativo né su quello della compatibilità finanziaria, ne segue la legittimità della soluzione negoziale.

Resta infine da considerare la questione dell’individuazione della «clausola» nulla. In proposito, può farsi tesoro della riflessione sull’art. 2077 per evidenziare che la «clausola» costituisce l’unità precettiva minima in cui è possibile scomporre un regolamento contrattuale: pertanto, essa non si identifica con l’«istituto» (del quale si parla, ad esempio, nell’art. 41, c. 6, a proposito dei contratti c.d. quadro). Da questa circostanza conseguono due effetti: anzitutto, la non applicazione dell’art. 1419 cod. civ. in relazione alla nullità parziale o di singole clausole essenziali, non derivando dalla nullità

gestione del personale nelle pubbliche amministrazioni. Un’indagine sull’esperienza del quadriennio 1998-2001, Milano, 2002.

21 Come nel caso seguente: «Se è vero che l'accordo aziendale (Azienda USL Bologna) può integrare, cioè aggiungere nuove condizioni o precisare meglio quelle già previste dall'accordo nazionale, è anche vero che il contratto aziendale non può modificare in toto il nazionale, come è avvenuto nel caso di specie, laddove il criterio dell'anzianità maturata nell'Azienda è stato assunto come unico criterio per il passaggio alla fascia retributiva superiore, escludendo quindi l'anzianità maturata in precedenti esperienze lavorative ed omettendo qualsiasi valutazione degli altri criteri indicati dal contratto nazionale. Da ciò l'illegittimità, per questa parte, del contratto integrativo aziendale e l'arbitrarietà di escludere il passaggio alla fascia superiore sulla base di un criterio non conforme alla contrattazione nazionale»: così Trib. Bologna 6 maggio 2004, questa Rivista 2005, 167. Come è stato esattamente notato i parametri nazionali erano «tutti riconducibili a una valorizzazione della qualità della professionalità raggiunta», laddove quelli locali esaltavano il mero dato quantitativo dell’anzianità di servizio (peraltro nella stessa azienda), cfr. FERRETTI, I limiti della contrattazione collettiva integrativa nell’ambito delle progressioni economiche orizzontali¸ questa Rivista 2005, 169. Cfr. ancora Trib. Roma 18 gennaio 2007 n. 1023, cit., in un caso in cui l’amministrazione (Avvocatura Generale dello Stato) aveva realizzato una procedura di progressione non coerente con il contratto integrativo ma rispettosa del contratto nazionale: «la discrezionalità riservata alla integrazione non si è esplicata entro i confini stabiliti dal livello nazionale, ma in contraddizione con le precise coordinate stabilite per i passaggi interni».

22 «L'art. 8, comma 9 del contratto collettivo decentrato integrativo del 19 febbraio 2001 (del Comune di Milano), previsto dal contratto collettivo nazionale per il comparto enti locali del 1° aprile 1999, non è inficiato da nullità per contrasto con i principi generali della validità temporale della contrattazione collettiva, nazionale e integrativa, per aver stabilito la decorrenza dal 1° aprile 1999 e l'applicazione ai soli dipendenti con rapporto in essere al 19 febbraio 2001, data della sua stipulazione, né si pone in contrasto con i due livelli di contrattazione atteso che la contrattazione nazionale autorizzava la contrattazione decentrata a prevedere una diversa decorrenza degli istituti economici non automatici» così Cass. 19 marzo 2007 n. 6435, GC Mass 2007, 3.

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di una di esse, quand’anche essenziale, la nullità dell’intero contratto integrativo (23); in secondo luogo, la riduzione degli spazi reali di autogoverno delle parti sociali in sede integrativa, attesa l’impossibilità legale di una difformità della singola clausola che sia però funzionale, al contempo, ad una diversa disciplina dell’istituto regolato.

E’ stato detto che il sistema così congegnato appare incompatibile sia con la richiesta «coerenza» con il settore privato, sia con la libertà della contrattazione di stabilire il proprio ordinamento (24). In proposito, può dirsi che la peculiare disciplina della nullità della clausola difforme conferma che la coerenza con il sistema privato non deve essere ricercata nei profili strutturali della contrattazione ma piuttosto in quelli funzionali. In altri termini, la norma non impedisce alla contrattazione collettiva di disporre liberamente della propria struttura così come avviene nel settore privato; ma, a differenza di ciò che avviene nel settore privato, ne riconosce e garantisce la stabilità ⎯ nell’ordinamento statuale ⎯ per via della sanzione di nullità delle clausole difformi. Semmai, in tale disciplina trova conferma che il livello nazionale di contrattazione è considerato dal legislatore come il perno del sistema contrattuale nel settore pubblico ed al contempo la cerniera che consente di mettere in relazione l’ordinamento intersindacale con quello statuale.

Trattandosi di nullità è del tutto evidente che la clausola non possa essere applicata, in guisa tale da ritenere che la previsione finale del comma 3 dell’art. 40 sia pleonastica. Tuttavia, è opportuno evidenziare che, se è vero che la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (art. 1421 cod. civ.), è del pari vero che l’esplicita previsione dell’impossibilità di dare applicazione alla clausola difforme appare oltremodo importante se si considerano le prassi reali nell’ambito delle pubbliche amministrazioni. In effetti, richiamando l’attenzione dei soggetti deputati non tanto a stipulare, quanto piuttosto a dare applicazione alla disciplina integrativa sulla responsabilità derivante dall’applicazione di una clausola nulla, esso sembra sollecitare un controllo diffuso all’interno della struttura amministrativa sul medesimo contratto, a carattere complementare e non alternativo rispetto ai controlli previsti dall’art. 48, comma 6. Questi, in effetti, attengono soltanto alla compatibilità economica della contrattazione collettiva con i vincoli di

23 Diversamente che nel settore privato, là dove «quando la nullità investe singole clausole di un contratto collettivo (al quale è applicabile la disciplina della nullità parziale di cui all'art. 1419 c.c.), per il principio della conservazione del contratto, che costituisce la regola nel sistema del cod. civ., l'estensione all'intero contratto degli effetti della nullità deve essere provata rigorosamente dalla parte interessata la quale, all'uopo, è tenuta a dimostrare che la clausola colpita da nullità non ha esistenza autonoma, ma è in correlazione inscindibile con il resto, nel senso che le parti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità» così Cass. 10 novembre 1996 n. 10050, GC Mass 1996, 1532.

24 Sul punto cfr in particolare M. BARBIERI, Problemi costituzionali della contrattazione collettiva nel lavoro pubblico, Bari, 1997, 180.

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bilancio, laddove la «difformità» produttiva di nullità è da intendere come riferita sicuramente ai vincoli derivanti dal contratto nazionale ed agli oneri non previsti negli strumenti di programmazione economico-finanziaria.

Alla dichiarazione di nullità della clausola conseguono gli effetti propri, trovando, ove possibile, applicazione diretta ed immediata la norma di primo livello (25). Nel caso in cui, invece, tale effetto non sia oggettivamente possibile, come si ha nel caso in cui l’implementazione del contratto nazionale richiede o impone una specifica decisione negoziale in sede decentrata (si pensi ai criteri per le selezioni orizzontali), allora non sembra né possibile né ragionevole che il giudice si sostituisca alle parti, dovendosi limitare a dichiarare – anche d’ufficio (26) – la nullità della clausola e la conseguente caducazione degli atti o dei provvedimenti, e più in generale degli effetti, che nell’applicazione della clausola dichiarata nulla hanno trovato fondamento. Peraltro, non può escludersi che dall’applicazione di una clausola nulla possa conseguire anche un obbligo risarcitorio dell’amministrazione in relazione all’esercizio illegittimo (proprio perché fondato su clausola collettiva nulla) di poteri e prerogative datoriali (27), anche per quanto attiene la conoscibilità della causa di invalidità ai sensi dell’art. 1338 ed all’affidamento legittimo nella validità del negozio. Si pensi, in via di mera ipotesi, ad un trasferimento di sede imposto sulla base giuridica offerta da una clausola di secondo livello dichiarata nulla in fase di controversia giudiziaria ovvero ai danni patiti da chi ha optato per lo svolgimento di una attività gravosa confidando, sulla base di un contratto integrativo poi dichiarato nullo, nella positiva valutazione della medesima ai fini di una progressioni di carriera (28).

4. Il sistema fin qui delineato solleva numerosi dubbi in ordine alla sua

idoneità a raggiungere i fini di garanzia dell’ordine contrattuale, dei quali si

25 «Nei rapporti di pubblico impiego privatizzati, allorché il c.c.n.l., ai fini del

passaggio dei dipendenti da una posizione all'altra all'interno di un'area, rinvii alla contrattazione integrativa per la determinazione dei criteri generali per la definizione delle procedure di selezione, fissando tuttavia un criterio generale vincolante, la violazione di tale criterio comporta il diritto a partecipare alla selezione per quei lavoratori che sarebbero stati ammessi sulla base del criterio disatteso»: così Appello Milano, 18 dicembre 2004, LG 2005, 698.Cfr. Tar Campania, sez. III, 10 maggio 2007 n. 7418, reperibile nella banca data di www.giustizia-amministrativa.it

26 «La difformità esistente tra la clausola contenuta in un contratto collettivo di lavoro decentrato e la normativa prevista dai contratti di comparto degli enti pubblici non economici importa la nullità della clausola difforme, per cui il giudice non può, su richiesta delle parti, dare applicazione ad una clausola contrattuale nulla per violazione di norma imperativa e deve rilevare d'ufficio ed in via incidentale la nullità della clausola»: così Trib. Reggio Calabria, 31 marzo 2005, GM 2005, 12, 2785.

27 Cfr. Cass. 5 maggio 1999 n. 704, OGL 1999, I, 716. 28 Ipotesi non irrealistica: cfr., sia pure con specifiche peculiarità, Cost. 26 gennaio

2007 n. 11, GCost 2001, 1, in relazione al riconoscimento di un punteggio aggiuntivo per gli insegnanti delle scuole di montagna.

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parlerà in seguito. Tali dubbi diventano ancora più significativi se si focalizza l’attenzione sulle conseguenze che derivano dalla stipulazione e dall’applicazione di una clausola nulla, anche in considerazione di una recente giurisprudenza della Corte dei Conti che incolpa e condanna per «danno da contrattazione collettiva», così sinteticamente qualificandosi il danno erariale derivante dalla stipulazione ed applicazione di clausole integrative nulle ai sensi delle norme fin qui citate. A dire il vero, potrebbe addirittura parlarsi dell’emergere di un «danno da relazioni sindacali unfair», se si considera che la sezione campana della Corte ha condannato gli amministratori di una Comunità Montana incolpati dalla Procura per «responsabilità amministrativo-contabile sostanziatesi nell’omessa attivazione delle procedure di concertazione sindacale e nella successiva resistenza in giudizio avverso il ricorso ex art. 28 Stat. Lav. promosso dai rappresentanti sindacali» (resistenza considerata dalla Procura, addirittura, «ad esito sfavorevole certo» e dalla Corte valutata «inutile e, se non temeraria, comunque chiaramente dilatoria») per un danno pari all’importo delle spese processuali (29). Ma è anche da dire, sul punto, che tale orientamento è coerente con l’indirizzo consolidato della giurisprudenza contabile sul danno erariale da lite temeraria (30)

Naturalmente, non rientrano nel campo di osservazione prescelto le sentenze che sanzionano, ad esempio: l’indebita erogazione di indennità superiori al limiti massimo del fondo contrattualmente previsto (31); l’erogazione di somme connesse ai risultati produttivi in assenza di adeguati sistemi di rilevazione e verifica (32); l’utilizzazione incentivanti di somme

29 Corte Conti, SG Campania, 17 novembre 2005 n. 1346; tutte le sentenze della Corte sono state reperite nella banca dati della medesima all’indirizzo internet www.corteconti.it

30 Che sia ha, ad esempio, «qualora i membri di una giunta comunale deliberino di resistere in giudizio, conferendo mandato ad un legale esterno, a fronte di un contenzioso che avrebbe visto la sicura soccombenza dell'ente a fronte di un vizio palese (violazione di legge e incompetenza) del provvedimento impugnato dal ricorrente»: Corte Conti, SG Trentino Alto Adige, 3 marzo 2006 n. 21. Più in generale, «è considerata temeraria e quindi foriera di danno erariale la lite intentata o la resistenza in giudizio decisa da un pubblico amministratore, tutte le volte in cui sia evidente che le ragioni dell'ente pubblico sono ictu oculi indifendibili, essendo ravvisabile in ciò una condotta mossa dal solo intento di dilazionare nel tempo il riconoscimento di un credito privato che invece è da ritenersi inconfutabilmente fondato e come tale da soddisfare con tempestività onde evitare gli aggravi di spesa che dalla resistenza in giudizio inevitabilmente deriverebbero. Ne consegue che non è ravvisabile l'elemento psicologico dell'illecito quando la resistenza in giudizio della pubblica amministrazione sia stata sostenuta da elementi ragionevoli, a prescindere dall'esito del giudizio, considerato che non sussiste responsabilità per lite temeraria in ipotesi in cui la resistenza sia stata deliberata dalla pubblica amministrazione nella convinzione del rischio di liquidare un pagamento ingiustificato, la cui rilevanza è da valutare con giudizio ex ante e non con giudizio ex post» così Corte Conti, SG Calabria, 21 febbraio 2006 n. 249.

31 Corte Conti, SG Puglia, 13 novembre 2001 n. 1057. 32 Corte Conti, SG Abruzzo, 26 aprile 2006 n. 239.

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ulteriori rispetto a quelle previste dalla contrattazione collettiva provenienti, nella specie, da fondi regionali erogati per promuovere la qualificazione dei servizi pubblici (33); l’inquadramento disposto in contrasto con il sistema contrattuale (34); l’erogazione di trattamenti economici a beneficio di dirigenti in violazione del principio di onnicomprensività della retribuzione (35); la retroattività degli effetti economici degli incarichi di responsabilità (36). In tutti questi casi, infatti, all’origine del danno erariale non vi è una clausola collettiva nulla ma semmai e solo un atto o provvedimento, spesso unilaterale, produttivo di danno erariale e caratterizzato da «estrema leggerezza e negligenza nella valutazione del quadro normativo di riferimento» (37).

Questione diversa è invece quella del danno correlato alla nullità delle clausole contrattuali; questione però non del tutto nuova e nemmeno imprevista. Basti considerare che essa era già stata sollevata, sia pure in astratto, dalla stessa Aran e analizzata, in modo stringato, dall’Avvocatura Generale dello Stato (38) chiamata ad esprimere il proprio parere in ordine all’individuazione dei «soggetti (che) potrebbero essere chiamati direttamente a rispondere, in sede di giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte dei Conti, dell’eventuale danno derivante all’ente dalla sottoscrizione ed esecuzione di un contratto decentrato integrativo difforme dalle previsioni del contratto collettivo nazionale di lavoro». In verità, prima ancora di stabilire chi possa essere considerato responsabile – e definire eventuali criteri di graduazione della responsabilità ai fini della condanna al risarcimento del danno – è opportuno focalizzare l’attenzione – per quanto complessi possano essere i casi concreti oggetto di giudizio – sulle fattispecie esaminate dalle sezioni giurisdizionali regionali della Corte e quindi, anzitutto, sulla questione centrale della «difformità» produttiva della nullità e della individuazione delle connesse responsabilità.

La sentenze che trattano del «danno da contrattazione» sono, per quanto consta, almeno tre (39). La prima (40), e più risalente, riguarda l’errata

33 Corte Conti, SG Sardegna, 14 marzo 2007 n. 274. 34 Corte Conti, SG Toscana, 15 ottobre 2001 n. 1210. 35 Corte Conti, SG Liguria, 21 maggio 2007 n. 447. 36 Corte Conti, SG Sardegna, 9 agosto 2007 n. 869. 37 Così Corte Conti, SG Liguria, sent. cit. 38 Il parere, in risposta alla nota del 9 settembre 2002 n. 5445/V/gab del Ministero

della Funzione Pubblica, può essere letto in www.pavonerisorse.to.it/dirigenti/parere_avvocatura_contratti_decentrati.rtf

39 Non può essere annoverata in questa classe di sentenze, la decisione della Corte Conti, SG Lazio, 5 settembre 2005 n. 1602, che solo incidentalmente, accertato essere stati «rispettati i vincoli di bilancio, con salvaguardia del precetto di cui all’art. 40, comma 3, del d.lg. 165», afferma poi «in disparte ogni considerazione circa il potere di questa Corte di iusdicere (come preteso dal PM) sulla nullità di clausole contrattuali di diritto privato la cui cognizione appartiene, in via esclusiva, ad altra Autorità Giudiziaria con conseguente vizio di nullità della decisione eventualmente adottata». Alcuni (R. SCHÜLMERS, Un caso emblematico, cit., p. 4) hanno comunque ritenuto che, con tale inciso, la Corte abbia

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imputazione al bilancio dell’ente anziché al fondo contrattuale (di una quota) delle somme destinate a finanziare la retribuzione per le posizioni organizzative, operata dal contratto integrativo (a quanto pare: di una azienda ospedaliera), in difformità da quanto previsto dal contratto nazionale che prevede, all’uopo, un apposito fondo. In tal caso, evidenziato il dannoso disavanzo d’amministrazione conseguente a tale errata imputazione contabile, la Corte ha incolpato, provvedendo a ripartire il danno, i seguenti soggetti: il direttore generale, autore delle delibere di conferimento degli incarichi di posizione organizzativa e responsabile della corretta gestione delle risorse aziendali; il direttore amministrativo, in quanto garante della regolarità degli atti ed autore di pareri favorevoli sulle delibere; i componenti del collegio dei revisori che non avevano rilevato vizi negli accordi negoziali; ed infine il dirigente della «unità operativa trattamento economico e normativo», che – «per la sua specifica preparazione lavoristica», «per la apicale qualifica rivestita e le specifiche mansioni svolte» – «doveva essere a doverosa conoscenza» della non conformità del contratto integrativo a quello nazionale.

E’ ben vero che, in questo specifico caso, la violazione delle elementari regole di bilancio, e quindi delle compatibilità economiche della contrattazione integrativa, costituisce un elemento assorbente, tant’è che il giudice si preoccupa solo marginalmente della difformità della clausola integrativa. Tuttavia, è opportuno richiamare l’attenzione su almeno due elementi. Da un lato, il danno è immediatamente correlato dal giudice non tanto alla clausola difforme ma piuttosto ai provvedimenti di gestione del personale che in quella hanno trovato fondamento. Dall’altro lato, il giudice non identifica una immediata coincidenza di responsabilità tra soggetti che hanno negoziato e stipulato la clausola difforme e soggetti che ne hanno dato applicazione, ad alcuni dei quali, semmai, si addebita di aver dato seguito ad una clausola della cui legittimità, a motivo delle loro specifiche competenze e funzioni professionali, non potevano non essere consapevoli, così escludendo fin da subito la stessa sostenibilità di una linea di difesa incentrata sulla funzione di mera applicazione di una norma da altri

«ventila(to) la fondatezza dell’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice contabile in materia di illegittimità delle clausole contrattuali, riservata al Giudice del lavoro, formulata da una delle difese, senza tuttavia pronunciarsi su di essa in via preliminare». Da una affermazione incidentale è però difficile trarre argomenti significativi ai fini della individuazione dell’orientamento della Corte: in definitiva, la questione è stata risolta riconoscendo la legittimità degli atti amministrativi adottati in applicazione della contrattazione collettiva e questa, a sua volta, era stata ritenuta conforme al quadro regolativo nazionale.

40 Corte Conti, SG Lombardia, 10 marzo 2006 n. 172. La sentenza decide in ordine a tre capi di incolpazione.: il primo relativo all’erogazione di somme per progetti speciali realizzati al di fuori delle regole previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva; il secondo relativo a indennità per direzione di struttura complessa erogate in assenza dei presupposti previsti; il terzo capo di incolpazione è quello indicato nel testo.

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stipulata. La qual cosa, a ben vedere, richiama immediatamente l’attenzione proprio sugli effetti di controllo diffuso (e quindi di responsabilità diffusa), da tempo correlati, almeno da chi scrive (41), alla prevista impossibilità di applicazione della clausola nulla.

Successivamente, con pronuncia più intensamente argomentata, la stessa sezione lombarda della Corte dei Conti (42) ha avviato una più approfondita riflessione sul tema, prendendo spunto dalla pretesa risarcitoria azionata dalla Procura nei confronti degli amministratori del comune di Inzago, del segretario comunale e dei componenti la delegazione trattante (composta da un funzionario e da un assessore), per il danno erariale derivante dalla riduzione generalizzata dell’orario settimanale «in non corretta applicazione di previsioni ostative alla generalizzata restrizione oraria contenute in sovraordinate fonti contrattuali nazionali». In buona sostanza, con un contratto integrativo di ente, l’orario di lavoro era stato ridotto, per tutti i dipendenti, di un’ora settimanale, in applicazione «non corretta» della clausola nazionale che consente la riduzione di orario soltanto a beneficio dei soli dipendenti adibiti a regimi turnazione o di programmazione plurisettimanale.

Al riguardo la Corte si sofferma preliminarmente sulla questione della propria competenza o meno a giudicare della legittimità del contratto integrativo, risolta positivamente in quanto assunta a carattere soltanto incidentale, dovendosi la Corte «limitare a verificare la corretta e ragionevole applicazione» ed «al solo fine di cogliere, in caso di acclarata macroscopica violazione» delle norme di riferimento, «profili di illiceità comportamentale forieri di danni erariali». Secondo la Corte, infatti, come già osservato nel caso precedente, oggetto del giudizio contabile è «il comportamento gestionale dannoso» e non già «l’annullamento o la modifica» della «manifestazione volitiva, pubblicistica o privatistica» che sia. Sta di fatto, secondo la Corte, che il comportamento gestionale dannoso (ed il danno, nella specie, è pari alle ore di lavoro retribuite e non svolte) trova origine in un contratto integrativo stipulato in violazione del «divieto legislativo» di sottoscrivere contratti in contrasto con i vincoli nazionali.

Per quanto riguarda poi il profilo della individuazione delle responsabilità e della quantificazione in termini risarcitori della relativa partecipazione causale, la Corte precisa che la quota maggiore (60%) della responsabilità (e dunque del danno) è da ascriversi ai firmatari dell’accordo integrativo. Al riguardo, rispondendo ad una precisa obiezione delle parti incolpate, la Corte afferma che «un evidente contributo etiologico è stato dato anche dai componenti della controparte sindacale che ebbero a

41 Cfr. VISCOMI, La contrattazione integrativa, in F. CARINCI- D’ANTONA (a cura di), Il lavoro, cit., p. 1282.

42 Corte Conti, SG Lombardia, 14 giugno 2006 n. 372, di cui è relatore, come nella precedente, Vito Tenore (noto agli studiosi di pubblico impiego: mi limito a ricordare F. CARINCI- TENORE (a cura di), Il pubblico impiego non privatizzato, Milano, 2007).

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sottoscrivere tale accordo, atto bilaterale e non unilaterale» (43); conseguentemente, scomputa dal danno ipotizzato la «quota addebitabile ai componenti della RSU», non convenuti in giudizio dalla Procura. La quota minore (40%) è fatta gravare sui componenti della Giunta e sul segretario comunale. Giova precisare che la responsabilità della Giunta non è innervata nell’autorizzazione alla sottoscrizione del contratto integrativo, come pure ci si sarebbe potuto ragionevolmente aspettare, ma piuttosto nell’adozione di una successiva delibera recante un atto di indirizzo «volto a pungolare i responsabili dei servizi dell’ente a dare attuazione» alla previsione negoziata (44).

La terza sentenza è stata più recentemente emessa dalla sezione trentina della Corte (45). Nel caso di specie, il contratto integrativo di ente (Autorità di Bacino Nazionale del Fiume Adige) aveva individuato come criterio di quantificazione della dotazione finanziaria del Fondo per le politiche di sviluppo del personale non quello del numero dei dipendenti in servizio (all’epoca solo quattordici) ma quello dei dipendenti previsti in organico (sessanta unità). In particolare, la Corte rimprovera agli incolpati: a) la «illegittimità finanziaria» del criterio adottato in sede integrativa, che ha prodotto un «maggiore e ingiustificato aggravio per l’ente» non rispettando le modalità di costituzione del Fondo previste dal contratto nazionale ancora, secondo la Corte, al personale in servizio; b) «il mancato apprestamento di talune indispensabili misure di accorta cautela, quale, prima fra tutte la espressa richiesta all’Aran di fruire di assistenza alla contrattazione decentrata integrativa, ai sensi dell’art. 46, comma 1, d.lg. 165».

Dalla lettura delle sentenze emergono alcune questioni sulle quali vale la pena soffermare l’attenzione.

43 E continua: «quale che sia la natura, pubblica o privata, di tale rappresentanza

sindacale (…) è innegabile che se da un atto negoziale derivi un danno, del relativo risarcimento debbano rispondere in modo paritetico tutte le parti contraenti».

44 Semmai, a giudizio della Corte, la Giunta avrebbe dovuto «stimolare le parti contrattuali ad un intervento di rettifica o revoca della clausola de qua, o almeno di indirizzare i capi struttura alla non applicazione dell’illegittimo atto negoziale». In proposito, la Corte afferma che «l’assunzione della carica di membro di una Giunta comunale impone, anche per soggetti privi di adeguata cultura giuridica o tecnica e anche in piccoli comuni ove l’attività politica non è svolta professionalmente, la doverosa conoscenza del minimale quadro normativo di riferimento che regolamenta la materia oggetto di deliberazione e non può delegarsi tale obbligo di doveroso riscontro normativo a soggetti terzi, risultando altrimenti deresponsabilizzabile, con tale delega, ogni scelta operata dall’organo comunale». Affermazione, questa, che però pone problemi significativi in relazione alla presenza ed alla funzione stessa del segretario comunale, soprattutto nei comuni di più ridotte dimensioni. Perciò forse la Corte avrebbe potuto meglio analizzare la portata dell’affidamento dell’organo politico nella valutazione dell’organo tecnico, tanto ai fini della misurazione del grado di colpa quanto per la distribuzione della responsabilità e quindi del danno.

45 Corte Conti, SG Trentino Alto Adige 12 febbraio 2007 n. 6.

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La prima è che la linea causale degli atti e delle attività produttive di danno trova origine nella clausola collettiva difforme, e quindi nulla, tanto da giustificare una imputazione di responsabilità maggiore proprio agli attori negoziali. Che poi questi siano stati concretamente identificati nei soli negoziatori di parte pubblica è forse da addebitare alle peculiarità del processo contabile, che attribuiscono alla Procura il potere di convenire in giudizio i soggetti ritenuti meritevoli della condanna risarcitoria ed alla Corte di determinare il danno da imputare «anche in considerazione delle condotte casualmente rilevanti di soggetti estranei al processo», perché non convenuti o perché neppure evocabili in giudizio. Di talché, le sentenze citate, pur accennandolo, non risolvono espressamente il problema della possibile incolpazione anche dei rappresentanti sindacali, limitandosi la chiamata in corresponsabilità operata dalla Corte lombarda ad incidere proprio e soltanto sulla modulazione del quantum debeatur. Naturalmente, se sia possibile una incolpazione dei rappresentanti sindacali è questione non facile da risolvere, non solo per le conseguenze in termini di politica del diritto ma anche, e forse soprattutto, perché connessa alla più ampia e diversa problematica dell’ambito soggettivo della giurisdizione contabile. E’ indubbio, però, che tale materia è oggi in fase di profonda e radicale rielaborazione, da più parti auspicandosi il superamento del criterio di incardinamento della giurisdizione contabile basato sulla sussistenza di un rapporto di servizio a favore del diverso criterio innervato sulla natura pubblica delle risorse finanziarie in relazione alle quali si configura il danno di cui alla pretesa risarcitoria (46). Al riguardo, è noto che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno tracciato la linea discretiva tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione contabile in tema di danno erariale, affermando espressamente che «il baricentro per discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile si è spostato dalla qualità del soggetto (che può ben essere un privato od un ente pubblico non economico) alla natura del danno e degli scopi perseguiti» (47). E’ facile intuire le conseguenze di tale giurisprudenza se riferita anche ai componenti di parte sindacale della delegazione trattante, soprattutto se si considera il senso e la ragione stessa della presenza in quella sede, a fianco dei delegati delle RSU, dei rappresenti delle organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto il contratto nazionale, tutori, in qualche modo, della stessa coerenza di sistema.

46 Cfr. MIELE, Lo stato della giurisprudenza in materia di responsabilità

amministrativa e contabile nei confronti degli amministratori, dipendenti ed agenti degli enti economici e delle società pubbliche, www.corteconti.it

47 Cass. SU 1 marzo 2006 n. 4511, FI 2006, 6 1734: «cosicché sussiste la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti di società privata che abbia beneficiato di fondi pubblici nazionali e comunitari nell’ambito di un programma operativo multiregionale diretto alla promozione dello sviluppo imprenditoriale e abbia realizzato uno sviamento dalle finalità perseguite dalla pubblica amministrazione così determinando un danno erariale».

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La seconda considerazione riguarda la delimitazione concettuale della «difformità» rilevante, dal momento che è solo l’accertata esistenza di tale difformità, ai sensi dell’art. 40, comma 3, a trasformare l’erogazione (altrimenti dovuta) in indebita e quindi ad originare il danno erariale. Fermo restando che non ogni difformità costituisce ragione di nullità, e che quindi non ogni spesa giustificata sulla base di una norma difforme può per ciò stesso considerarsi non dovuta e quindi dannosa, dalla lettura delle sentenze colpisce in modo particolare la cautela del giudice di Milano che parla, e forse non a caso, di «acclarata macroscopica violazione». Siffatto self-restraint del giudice meglio si comprende, a mio avviso, non solo e neppure tanto in virtù del carattere incidentale del controllo di legittimità della Corte (48), quanto piuttosto considerando due ulteriori e diversi elementi.

Per un verso, nel percorso logico-giuridico seguito dalla Corte, la difformità della clausola è funzionale soltanto all’accertamento della illegittimità del conseguente «comportamento gestionale» e cioè degli atti o provvedimenti di gestione delle relazioni di lavoro produttivi di danno erariale, quand’anche rispettosi di una norma formalmente segnata dal crisma della validità ma giuridicamente nulla perché difforme dall’ordito regolativo di riferimento. A ben vedere, infatti, la prevista nullità introduce nel sistema un cortocircuito logico, dal momento che la norma, fin quando non dichiarata nulla, deve essere rispettata, anche al fine di evitare procedimenti per condotta antisindacale o controversie individuali per inadempimento contrattuale, ma nel momento in cui è dichiarata nulla il suo pregresso rispetto origina una responsabilità per danno. Ed è evidente che la nullità non sempre emerge ad una prima analisi e neppure è facilmente percepibile anche da chi possiede, per usare le parole della Corte, la «doverosa conoscenza del minimale quadro normativo di riferimento che regolamenta la materia oggetto di deliberazione».

Per altro verso, la cautela del giudice di Milano trova ragione nel fatto che il fondamento della pretesa risarcitoria contabile è dato dall’accertamento almeno della colpa grave dell’agente (49); e sarebbe certo difficile argomentarne l’esistenza se le violazioni regolative non fossero significativamente evidenti. Infatti, come usa dire la Corte, la colpa grave «consiste nella evidente e marcata trasgressione degli obblighi di servizio o di regole di condotta che siano ex ante ravvisabili e riconoscibili per dovere professionale d'ufficio, e che, in assenza di oggettive ed eccezionali difficoltà, si concretizzano nell'inosservanza di quel minimo di diligenza imposto dalle circostanze del caso concreto ovvero in una evidente imperizia o in un irrazionale imprudenza» (50), considerando, ai fini

48 Ma sulla relativa ampiezza cfr. Cass. SU 3 novembre 2005, n. 21291, GC Mass. 2005, 11.

49 Cfr. Cass., SU, 12 giugno 1999 n. 326, GC Mass. 1999, 1340. 50 Corte Conti, SG Calabria, 10 febbraio 2006 n. 206: «non ogni condotta in ipotesi

censurabile può integrare gli estremi della colpa grave, ma solo quella connotata da precisi

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dell’accertamento, anche «il fattuale e concreto atteggiarsi dell'organizzazione amministrativa in cui opera l'agente» (51). Per questo motivo, la colpa «va intesa non già come inosservanza della normale diligenza che può pretendersi dal bonus pater familias, ossia dall'uomo medio, bensì di quella particolare diligenza e di quel particolare grado di perizia occorrente riguardo alla natura ed alle caratteristiche di una specifica attività esercitata, secondo i parametri delineati, con riferimento alla nozione di colpa professionale, dall'art. 1176 comma 2, cod. civ.» (52). Ciò considerando, è dunque la stessa nozione di colpa che fonda la pretesa punitiva ad impedire che possa azionarsi la pretesa risarcitoria nell’ipotesi di non «acclarata macroscopica violazione». Ed è indubbio che la disciplina giuridica che governa il sistema contrattuale nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, per la sua complessità stratificata ed alluvionale, non può considerasi a stregua di «minimale quadro normativo di riferimento» facilmente conoscibile da soggetti professionalmente non qualificati.

La terza questione riguarda la responsabilità “diffusa” connessa all’applicazione della clausola nulla. Si tratta del profilo più delicato, dal momento che travolge soggetti chiamati ad applicare una norma formalmente valida ed efficace (al momento stesso dell’applicazione); rispetto a tale profilo è pertanto auspicabile un forte controllo logico-giuridico dell’argomentazione giurisprudenziale (53). Al riguardo, la Corte elementi qualificanti, che - in mancanza di un criterio generale - vanno accertati di volta in volta dal giudice in relazione alle caratteristiche del fatto, all'atteggiamento soggettivo dell'autore, nonché al rapporto tra tale atteggiamento e l'evento dannoso».

51 Corte Conti , sez. I, 27 gennaio 2006, n. 26: «con la conseguenza che non è gravemente censurabile un comportamento dettato da incertezza operativa ed interpretativa della normativa ad opera della struttura in cui il soggetto si trova ad agire»: in effetti, basti pensare alla diversa situazione del piccolo comune privo di apparati di consulenza tecnico-legale (e di maturità organizzativa) e del comune caratterizzato, invece, dalla presenza di uffici dedicati alla gestione delle relazioni sindacali e del lavoro.

52 Corte Conti, SG Veneto, 6 giugno 2005 n. 896. 53 Anche per evitare esiti paradossali e discutibili; cfr. infatti Corte Conti, SG

Calabria, 25 luglio 2007 n. 677: in presenza di una legge regionale che delega al sindaco tutte le competenze in materia di espropriazione (che, in quanto delegate, non possono costituire oggetto di ulteriore delega), incolpa e condanna anche l’assessore ai lavori pubblici per non essersi comunque reso «fautore di atti di impulso nei confronti dei competenti uffici per un più tempestivo perfezionamento delle procedure in sospeso». Atti di impulso che, per la verità, non si comprende bene in che cosa possano consistere sul piano giuridico, potendo anzi costituire forme di ingerenza nella sfera di potere altrui, in considerazione della esplicita delega attribuita dalla legge regionale al sindaco e solo a questo. Nel caso, la Corte ha attribuito al sindaco una quota pari al 60% ed all’assessore una quota addirittura pari al 40% del risarcimento, quest’ultima evidentemente eccessiva rispetto alla negligenza a lui addebitata, consistente, si ripete, nel non avere realizzato «atti di impulso» su materia non di propria competenza. Tranne che non si voglia imputare all’organo politico una non efficiente gestione della struttura amministrativa, così definitivamente accantonando i principi generali della riforma del lavoro pubblico che tale responsabilità di gestione affidano al dirigente, è difficile sfuggire all’impressione di una ricerca esasperata del colpevole da condannare, soprattutto se rappresentante politico; ma

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sembra orientata ad incolpare tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nella fase di attuazione della norma contrattuale nulla, trascurando di analizzare preliminarmente (o dando per scontato) il diverso aspetto relativo alla possibilità stessa di incolpare per colpa grave soggetti estranei tanto alla fase negoziale in senso stretto (che si conclude con la formulazione dell’ipotesi di accordo) quanto alla fase procedurale con finalità di controllo e autorizzazione alla stipula del contratto (che si conclude con la formale sottoscrizione del contratto). Tale circostanza può forse considerarsi effetto necessario rispetto all’assunzione, come oggetto principale del giudizio, del comportamento gestionale: da qui, in definitiva, la conseguente svalutazione del fatto (giuridicamente rilevante) dal quale quello stesso comportamento gestionale trae origine (e cioè la difformità della clausola e la conseguente dichiarazione di nullità). Tuttavia, l’asimmetria così introdotta tra contratto (nullo) e comportamento (dannoso), produce l’effetto paradossale di addebitare, in capo ad alcuni soggetti, un comportamento gestionale messo in atto sulla base di una norma (almeno apparentemente) valida ed efficace ma qualificabile (e qualificato) come dannoso solo sulla base di una successiva dichiarazione di nullità della medesima norma, sul presupposto che il vizio di questa era da costoro in qualche modo conoscibile nonostante il silenzio degli organi di controllo.

Tuttavia, se è vero che, sul piano giuridico, siffatto effetto di responsabilità diffusa può considerarsi conseguenza indiretta della clausola di nullità (in quanto questa condiziona negativamente la legittimità del conseguente comportamento gestionale), è però del pari vero che, in questo caso, occorre tenere in considerazione almeno tre elementi. Anzitutto, occorre considerare che, prima della sentenza dichiarativa della nullità, l’individuazione del vizio della clausola integrativa è affidata all’attività di valutazione ed interpretazione dei soggetti chiamati a darne applicazione; poiché tale attività non può considerarsi alla stregua dell’applicazione di una formula automatica, ne segue, come ovvia conseguenza, l’impossibilità di escludere interpretazioni difformi, più o meno ragionevoli e argomentate, con ovvie conseguenze sul piano dell’azione amministrativa. In secondo luogo, e proprio per tale motivo, l’esistenza della colpa grave degli interessati non può essere presunta né apoditticamante affermata, ma deve essere individuata sulla base di una attenta analisi degli elementi soggettivi e del contesto oggettivo, cioè organizzativo e professionale, in cui gli attori si trovano ad operare. Infine, la responsabilità risarcitoria, e la relativa graduazione quantitativa, deve essere adeguatamente (e motivatamente) correlata alla situazione concreta, caratterizzata – si ripete – dall’applicazione di una clausola avente tutta l’apparenza di legittimità. Si tratta di cautele minime, da considerare ancora più doverose nel momento gli effetti sociali di siffatti orientamenti rischiano di essere dirompenti, definitivamente allontanando dalla gestione della cosa pubblica persone animate altrimenti dalle migliori attenzioni.

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stesso in cui la Corte giudica dalla legittimità di una clausola collettiva in via incidentale (54).

La quarta questione riguarda il fatto che la responsabilità contabile non esclude, anzi si affianca, ferma restando la relativa autonomia (55), alla responsabilità del dirigente che abbia partecipato alla stipulazione o abbia dato all’applicazione alla clausola del contratto integrativo viziata da nullità. Com’è noto, a costoro è attribuita specifica ed originaria competenza in relazione alle «attività di organizzazione e gestione del personale e di gestione dei rapporti sindacali e di lavoro» (art. 16 d.lg. 165). Le misure concrete relative alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dai dirigenti con i poteri e le capacità del privato datore di lavoro (art. 5, comma 2, d.lg. 165). In relazione a tali attività, ai dirigenti è addebitata una specifica sfera responsabilità, connessa al raggiungimento degli obiettivi ed all’osservanza delle direttive (56) impartite dall’organo politico (art. 21, d.lg.

54 E il punto non è da sottovalutare. Si consideri, ad esempio, che la Corte, nell'esercizio della giurisdizione esclusiva in materia pensionistica, ha soltanto il potere di giudicare su ogni questione che inerisce il diritto, la misura e la decorrenza della pensione, mentre esula dal suo potere giurisdizionale la cognizione dei provvedimenti amministrativi incidenti sul rapporto d'impiego negli aspetti dell'attività di servizio, i quali non sono neppure disapplicabili, né conoscibili, in via incidentale, da parte della Corte medesima: «in tali termini la eventuale dedotta illegittimità dell'atto si pone come questione pregiudiziale conoscibile solo dal giudice competente, con la conseguenza che il giudice adìto per causa conseguente, al di là di una mera delibazione degli effetti, non potrebbe né disapplicarlo né statuire incidenter tantum sulla sua illegittimità, dovendo il giudice adìto prendere atto della situazione provvedimentale esistente, rimanendone giuridicamente vincolato quoad effectum, finché i relativi atti, anche se viziati, restano validi ed efficaci»: così Corte Conti, SG Lombardia, 20 novembre 2006, n. 649.

55 Infatti, «va escluso ogni rapporto di automaticità tra responsabilità dirigenziale (per mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati) e responsabilità amministrativo-contabile, atteso che quest'ultima deriva dalla violazione di specifiche disposizioni normative dalle quali possa farsi discendere un concreto effetto lesivo in termini patrimoniali o, quanto meno, di economica valutabilità», così Corte Conti , sez. III, 25 gennaio 2006 n. 34. In particolare, va rimarcato che la responsabilità amministrativa. presuppone un comportamento che si discosta dalle regole giuridiche che presiedono alla attività del dipendente; inoltre, si tratta di responsabilità per colpa (o per dolo). La responsabilità dirigenziale, invece, non sorge dalla violazione di canoni normativi di comportamento ed, anzi, trascende il comportamento personale del dipendente: essa si ricollega ai risultati complessivi prodotti dalla organizzazione cui il dirigente è preposto ed implica, in caso di giudizio negativo, più che una colpa del dirigente, la sua inidoneità alla funzione.

56 E’ bene ricordare che, «stante la distinzione tra politica e amministrazione, il potere ministeriale di impartire direttive generali deve concretarsi in direttive aventi la funzione di alta direzione e coordinamento, senza vincolare le scelte semplicemente gestionali; di conseguenza, è illegittima una direttiva in materia di conferimenti ed autorizzazioni di incarichi del personale ministeriale che si traduca in veri e propri ordini, fissando soglie quantitative, vincoli assoluti per l'accertamento demandato alla direzione generale e poteri di avocazione ministeriale in deroga ai cennati limiti, senza riconoscere alcun potere ai dirigenti che conferiscono l'incarico», così TAR Lazio, sez. III, 3 aprile 2001, LPA 2002, 1169.

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65), ferma restando l’eventuale responsabilità disciplinare se prevista dal contratto collettivo (57). In questo contesto, è del tutto evidente che il dirigente che stipula un contratto collettivo viziato o che applica la clausola nulla potrà essere chiamato a rispondere per responsabilità dirigenziale in senso stretto, intesa, cioè, intesa come «complessiva idoneità di gestire con capacità il suo ruolo, di perseguire gli obiettivi fissati dall'Amministrazione, di attuarne le decisioni e quindi, in buona sostanza, di far funzionare strutture e settori di sua competenza in maniera efficace ed efficiente, ottimizzando le risorse e con risultati positivi per l'Amministrazione datrice di lavoro» (58). Problema, semmai, potrebbe porsi nell’ipotesi in cui siano la direttiva stessa o l’obiettivo assegnato a conformare negativamente l’azione del dirigente (si pensi, ad esempio, alla direttiva dell’amministrazione che individui come scelta negoziale la riduzione generalizzata contra legem dell’orario di lavoro). Anche in questa specifica ipotesi, entra però in gioco la responsabilità del dirigente, non potendosi lo stesso esimere dall’evidenziare l’illegittimità dell’azione richiesta e dal rifiutarsi di metterla in atto, apprestando l’ordinamento adeguate garanzie in caso di abnorme reazione provocata dal rifiuto, come ricorda anche la recente sentenza n. 107 della Corte Costituzionale (59).

La quinta ed ultima questione – suggerita, ma non trattata dalle sentenze in esame, e qui accennata soltanto in via di mera ipotesi – riguarda

57 Vale la pena ricordare che la Corte costituzionale, ord. 30 gennaio 2002 n. 11,

RIDL 2002, II, 479 ha sinteticamente riassunto il suo orientamento, segnalando «che la disciplina del rapporto di lavoro dirigenziale nei suoi aspetti qualificanti - in particolare il conferimento degli incarichi dirigenziali (assegnati tenendo conto, tra l’altro, delle attitudini e delle capacità professionali del dirigente) e la loro eventuale revoca (per responsabilità dirigenziale), nonché la procedimentalizzazione dell’accertamento di tale responsabilità (artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 29 del 1993, ed ora artt. 19, 21 e 22 del d.lgs. n. 165 del 2001) - è connotata da specifiche garanzie, mirate a presidiare il rapporto di impiego dei dirigenti generali, la cui stabilità non implica necessariamente anche stabilità dell'incarico, che, proprio al fine di assicurare il buon andamento e l'efficienza dell'amministrazione pubblica, può essere soggetto alla verifica dell'azione svolta e dei risultati perseguiti» ed inoltre «che i dirigenti generali sono quindi posti in condizione di svolgere le loro funzioni nel rispetto del principio di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, tanto più che il legislatore delegato - nel riformulare gli artt. 3 e 14 del d.lgs. n. 29 del 1993, con gli artt. 3 e 9 del d.lgs. n. 80 del 1998, trasfusi ora negli artt. 4 e 14 del d.lgs. n. 165 del 2001 - ha accentuato il principio della distinzione tra funzione di indirizzo politico-amministrativo degli organi di governo e funzione di gestione e attuazione amministrativa dei dirigenti, escludendo, tra l’altro, che il Ministro possa revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti».

58 T.A.R. Lombardia Milano, sez. II, 23 giugno 2004, n. 2656, FA-TAR 2044, 1644. 59 Corte Cost. 23 marzo 2007 n. 103, GCost 2007, 2: «è, dunque, indispensabile,

come questa Corte ha già avuto modo di affermare (sentenza n. 193 del 2002 e ordinanza n. 11 del 2002), che siano previste adeguate garanzie procedimentali nella valutazione dei risultati e dell'osservanza delle direttive ministeriali finalizzate alla adozione di un eventuale provvedimento di revoca dell'incarico per accertata responsabilità dirigenziale».

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le conseguenze connesse all’applicazione, produttiva di danno erariale, della clausola del contratto nazionale che sia da considerare nulla per contrarietà a norma imperativa. Al riguardo è stato affermato (60) che l’obbligo dell’amministrazione di non dare seguito «e quindi di non applicare quelle parti dei contratti collettivi nazionali che si pongano in contrasto con norme imperative di legge» prevale sul «concorrente dovere da parte dell’amministrazione di necessaria conformazione agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali», conseguente gravando «un rilevante carico di responsabilità in capo agli amministratori di qualsiasi pubblica amministrazione». Forse corretta sul piano formale, la costruzione giuridica delineata deve però essere adeguatamente corretta sul piano sostanziale, non potendosi certo imputare «agli amministratori di qualsiasi pubblica amministrazione» l’affidamento da essi riposto in un contratto nazionale il cui procedimento di formazione non solo è particolarmente complesso, ma prevede specifici momenti e luoghi di verifica sia sul piano normativo che su quello finanziario, tanto da poter ritenere che non può proprio esservi colpa grave negli «amministratori di qualsiasi pubblica amministrazione» nella fase di applicazione e conseguentemente da poter escludere il fondamento della pretesa risarcitoria della magistratura contabile.

5. Le sentenze della Corte dei Conti rappresentano una logica

conseguenza, sul punto, della conformazione tecnica della riforma. Si può certo discutere sui confini della difformità produttiva di danno o sull’ambito dei soggetti che possono essere chiamati a risponderne ovvero, ancora, sull’identificazione dei parametri di commisurazione in concreto della colpa grave. Tuttavia, è indubbio che quelle sentenze stiano a dimostrare gli evidenti limiti dell’azione giudiziaria della Corte, connessi al carattere, eventuale e successivo, della medesima, in guisa tale da indurre a ritenere (e a temere) che proprio tali circostanze concorrano ad attribuire alla stessa più che altro una funzione esemplarmente simbolica. Per converso, però, quelle stesse sentenze suggeriscono di focalizzare l’attenzione sulla coerenza intrinseca degli strumenti utilizzati (nullità della clausola integrativa e controllo preventivo interno) rispetto agli obiettivi che il legislatore intende raggiungere (stabilità dell’ordine contrattuale e compatibilità dei costi), anche a motivo dell’intrinseca ambivalenza di un sistema negoziale che riguarda la contrattazione ora come fonte di produzione di regole di condotta ora, invece, come sorgente di costi gravanti sulle finanze pubbliche.

E’ da questa originaria ambivalenza che deriva la struttura binaria dei controlli apprestati dal legislatore, che ha esplicitamente rimesso il controllo preventivo sulla compatibilità dei costi (61) agli organi interni di natura

60 SCHÜLMERS, Un caso emblematico, p. 3. 61 Il ruolo dei soggetti di cui all’art. 48, comma 6, d.lg. 165 è ulteriormente esaltato

dall’art. 1, comma 196, della l. 23 dicembre 2005 n. 266 che affida loro il compito di

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tecnica (revisori, nucleo o servizi: art. 48, comma 6, d.lg. 165) ed ha affidato, invece, al contratto nazionale la definizione delle procedure di contrattazione, generalmente caratterizzate dall’autorizzazione alla sottoscrizione dell’organo di vertice a seguito dell’avvenuta certificazione degli organismi di controllo. Ond’è che, già in via di prima approssimazione, non può che evidenziarsi la centralità del controllo economico-finanziario – affidato ex ante ad organismi tecnici e la cui inefficacia non può che originare il controllo ex post della Corte – rispetto a quello di carattere propriamente normativo, imputato, invece, alla valutazione tecnico-politica dell’organo di governo, a sua volta assicurato, in una prospettiva ottimale, in virtù di una relazione cooperativa e positiva con i vertici burocratici, e quindi condizionato dalle diversificate situazioni di maturità organizzativa proprie delle singole amministrazioni.

A giudicare dai casi riferiti, tuttavia, la configurazione binaria dei controlli preventivi, finalizzati all’adozione dell’atto di autorizzazione alla sottoscrizione del contratto integrativo, non appare particolarmente efficace nell’impedire o nel limitare fenomeni di abusi negoziali. Per un verso, verificata l’esistenza e l’integrità del fondo contrattuale, agli organi di controllo contabile potrebbe non interessare e forse neppure apparire evidente una violazione dell’ordine contrattuale. Per altro verso, all’organo politico, soprattutto in presenza di adeguate disponibilità finanziarie, potrebbe risultare di difficile gestione una piattaforma negoziale non pienamente coerente con i vincoli normativi del contratto nazionale.

A fronte di ciò, è dubbio che lo strumento per rendere più efficiente la garanzia del coordinamento tra i livelli contrattuali, e più stabile lo stesso ordine contrattuale, possa essere ancora, e soltanto, la sanzione della nullità, così risolvendo o semplicemente trasferendosi sul piano della tecnica giuridica ciò che realmente appare come problema di politiche contrattuali. In effetti, è ragionevole ritenere che la minacciata sanzione possa costituire un utile strumento in mano ad attori negoziali consapevoli, anche al fine di impedire o inibire inevitabili spinte centrifughe (62). E’ però del pari

«vigilare sulla corretta applicazione della normativa» ivi prevista, in materia di fondi per i finanziamento della contrattazione collettiva, «in ordine alla nullità ed inapplicabilità delle clausole contrattuali difformi».

62 Spinte centrifughe che possono avere anche carattere positivo se si considerano alcuni irrazionali vincoli contrattuali: basti pensare alla previsione del limite di un unico livello di contrattazione integrativa negli enti locali a prescindere dalla relativa dimensione organizzativa. A dire il vero, è ragionevole ritenere che a volte i problemi reali non nascano dalla clausola di nullità, ma dalle clausole contrattuali che quella sanzione dovrebbe presidiare. In effetti, una delle diversità più significative tra settore pubblico e privato sta in ciò: in questo, il contratto collettivo è calibrato sui bisogni delle aziende più deboli; in quello, invece, delle amministrazioni più rappresentative, con la conseguenza di introdurre rigidi meccanismi regolativi non coerenti, per eccesso o per difetto, con le effettive condizioni di maturità organizzativa degli enti. Ma evidentemente si tratta di un problema di adeguatezza delle scelte degli attori negoziali.

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necessario segnalare che la clausola di nullità, che pure appare giustificata da argomenti del tutto ragionevoli e condivisibili, possa risolversi, in assenza di adeguati, effettivi, tempestivi e generalizzati strumenti di controllo, in una lodevole intenzione, in guisa tale da concorrere, semmai, a rafforzare il costume nazionale, uso a ricorrere ad espedienti formali di vario genere e in definitiva a non prendere più sul serio alcuna sanzione ovvero, per altro verso, a subire l’effetto di condanna esemplare o peggio di uso strumentale della norma.

Inoltre, le segnalate conseguenze in termini di “responsabilità diffusa”, che derivano da un controllo di legittimità parimenti diffuso e che inevitabilmente coinvolgono in fase applicativa soggetti estranei alla stipulazione della norma ma a questa vincolati dalla sua apparente validità ed efficacia, probabilmente non sono tali da conseguire gli effetti inibitori propri di una imputazione di responsabilità che sia al contempo oggettivamente individuata e soggettivamente individualizzata. In effetti, se una classe di soggetti, genericamente individuati, è chiamata ad esercitare una funzione di controllo, alla fine è ragionevole aspettarsi una riduzione dell’attenzione di ciascun soggetto appartenente a quella stessa classe. Allo stesso tempo, se uno dei soggetti di quella classe è incolpato per non aver esercitato la funzione di controllo, è forse ragionevole attendersi un effetto positivo di generale incremento dell’attenzione in capo a tutti gli interessati, ma non può però escludersi un effetto perverso connesso, sul piano gestionale, al carattere parziale ed occasionale dell’incolpazione, e, sul piano organizzativo, alla perdita di credibilità dei sistemi di controllo. Peraltro, e la circostanza è ancora più significativa, forme di “responsabilità diffusa” in fase di applicazione potrebbero essere tali da determinare conflitti interpretativi tra uffici, con esiti negativi sul piano della certezza del comune quadro normativo di riferimento e quindi sulla stessa efficienza dell’organizzazione: al riguardo, è sufficiente ipotizzare un conflitto interpretativo che contrapponga l’area finanziaria e l’area gestione del personale di un ente locale in fase di applicazione di una norma contrattuale.

Da quanto sin qui detto, appare ragionevole segnalare l’urgente necessità di inventare nuovi e diversi strumenti di garanzia della coerenza tra livelli contrattuali, tenendo conto delle specificità dei singoli comparti. Al riguardo, non è privo di significato che lo schema di disegno di legge recante misure di razionalizzazione delle norme generali sul lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, del 12 settembre 2007, esprima, come criterio di delega, di «rivedere le disposizioni sui rapporti fra i diversi livelli della contrattazione» e di «rafforza(re) il ruolo dei contratti nazionali nella determinazione di strumenti e procedure che evitino l’introduzione nei contratti integrativi di norme estranee o non coerenti con i criteri e gli obiettivi stabiliti nella contrattazione nazionale».

E tuttavia, se qualche elemento di insegnamento può trarsi dall’esperienza fin qui maturata, allora può dirsi fin da subito dell’inutilità

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della proposizione di modelli normativi non coerenti con le diverse condizioni di maturità organizzativa delle pubbliche amministrazioni, e, per converso, della necessità di intervenire sulle stesse condizioni di contesto, sia sul piano organizzativo che su quello professionale, anche affiancando, agli strumenti vincolistici e negativi, azioni promozionali e positive. Ciò può farsi, ad esempio, riorganizzando ed incentivando i livelli territoriali di contrattazione per enti omogenei ovvero promuovendo l’accompagnamento dei negoziatori pubblici, in sede decentrata, con strutture tecniche di riferimento, anche territorialmente accorpate, valorizzando ed aggiornando ciò che il legislatore riformatore pure aveva già intuito disciplinando la possibilità di istituire «delegazioni dell’Aran su base regionale o pluriregionale» (art. 46, comma 2, d.lg. 165). In effetti, un sistema ordinato di relazioni negoziali presuppone non solo una equilibrata distribuzione, rilevante sul piano normativo, delle sfere di competenza contrattuale, ma anche una adeguata valorizzazione, significativa sul piano organizzativo, delle competenze negoziali, e cioè, in definitiva, la promozione di adeguate abilità di negoziazione e l’accrescimento delle necessarie conoscenze tecniche.

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