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CONTESTI e CONFRONTI Jean Baptiste Greuze, Lo specchio rotto.

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CONTESTI e CONFRONTI

Jean Baptiste Greuze, Lo specchio rotto.

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di Loredana Polezzi

VECCHIE E NUOVE METAFOREDEL TRADURRE E DEL TRADUTTORE

VITTIME O TRADITORI?

Quella tra l’atto del tradurre ed il linguaggio metafo-rico è un’associazione di vecchia data e, come è stato piùvolte osservato, i mutamenti nel linguaggio con cui ci fi-guriamo la traduzione sono indicativi di cambiamenti nelmodo di concepirne sia la natura che la funzione. Che sitratti del proverbiale motto «traduttore traditore» o del-l’etichetta di belles infideles affibbiata alle traduzioni neldiciassettesimo secolo, del detto di Robert Frost per cuila poesia è quello che si perde in traduzione o dell’imma-gine benjaminiana della traduzione come sopravvivenzaoltre la morte del testo, il linguaggio figurato è ricco disuggestioni, sia positive che negative. In un saggio del1985 – incluso in un volume il cui titolo, The Manipula-tion of Literature, ha esso stesso segnato il percorso dellemetafore della traduzione – Theo Hermans tracciava leorigini di molte di queste immagini, riandando al Rina-scimento ed attraverso di esso al periodo classico, e leg-gendo la traduzione (in specie quella letteraria) nel con-testo di termini quali imitatio ed inventio1. Mentre Her-mans sottolineava soprattutto le continuità nelle metafo-re da lui analizzate, dieci anni dopo Susan Bassnett, ri-leggendo quel saggio, si soffermava piuttosto sui muta-menti, indicando momenti chiave (nel diciassettesimo ediciannovesimo secolo) in cui, specie in ambito anglofo-no, emergono nuovi nuclei metaforici, e collegandoli siaalla politica economica che a quella sessuale della fasecentrale e finale dell’età degli imperi2. Vale la pena, aquasi altri dieci anni di distanza, di dare ancora un’occhia-ta nella stessa direzione. In tempi recenti una serie dinuove o rinnovate immagini metaforiche sono emerse siain scritti dedicati alla teoria e pratica della traduzione sia,in una fioritura che pare altrettanto indicativa dell’impor-tanza assunta dal fenomeno, nel lavoro di scrittori con-temporanei. L’intenzione è quella di analizzare questadoppia fioritura di immagini, sottolineandone alcuni puntidi continuità e discontinuità, e cercando di capire che cosaci dicano sul modo in cui concettualizziamo e classifichia-mo sia l’atto del tradurre sia chi lo compie. A questo pri-

mo sdoppiamento, tra traduzione e traduttore, se ne ag-giungono poi altri: quello tra l’atto del tradurre ed il suorisultato (spesso entrambi indicati come «traduzione», manon equivalenti), e tra la traduzione come pratica e cometopos letterario (di nuovo, due nozioni tra loro strettamentelegate, ma non identiche). Quello che abbiamo davanti èdunque una serie di sdoppiamenti multipli – laddove ildoppio, lo specchio segnano ovviamente già un ingressonel linguaggio metaforico.

Metafore ottiche della traduzione

L’immagine forse più significativa (e probabilmentepiù ricorrente) legata alla traduzione negli anni Novantaè quella della sua visibilità e/o invisibilità. A partire dallapubblicazione del testo di Lawrence Venuti intitolato TheTranslator’s Invisibility (Londra e New York, Routledge1995), il tema della visibilità è emerso come centrale perla teoria e la storia della traduzione, anche se la metaforaresta ambigua. Tanto per cominciare, c’è da chiedersi seil riferimento sia alla visibilità del traduttore, del tradur-re, o del prodotto finale, la traduzione. Venuti è chiara-mente favorevole alla visibilità di tutte e tre le dimensio-ni. Il suo testo è dichiaratamente militante nel rivendica-re i diritti dei traduttori, sia dal punto di vista creativo cheda quello professionale: l’immagine che emerge dai testidi Venuti è in fondo quella del traduttore come vittima,di un «traditore tradito», un po’ da tutti, ma soprattuttodall’industria culturale. Ed il suo sostegno per una prati-ca traduttiva basata sull’idea di straniamento, quella cheegli chiama foreignizing translation, è altrettanto marca-to. Il risultato di questo tipo di approccio è un testo espli-citamente segnalato al lettore come traduzione, e che mettein scena, in maniera performativa, l’atto stesso del tradur-re, inteso quale momento (ri)creativo, indipendente e for-temente conscio, frutto di scelte che sono ad un tempo digusto e stile, ma anche politiche e sociali.

Jean Van Eyck, I coniugi Arnolfini(particolare dello specchio).

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I tre livelli, in realtà, non sempre coincidono, almenonon così nettamente. La visibilità del traduttore è ancoroggi controversa, ma il testo di Venuti segna (solo in ap-parenza in modo paradossale) un momento di crescita, incui la figura di chi traduce emerge dall’ombra dell’auto-re più chiaramente del solito. Quanto al tradurre ed allatraduzione, qui siamo davvero davanti ad un paradosso:entrambe le categorie hanno raggiunto livelli di presenzae pregnanza senza precedenti, ma richiedono gradi di in-visibilità altrettanto inusitati. Si pensi all’uso della tradu-zione nel «mercato globale», in cui si cancella addirittu-ra il concetto di originale avvicinandosi ad un’esteticadella clonazione, per cui non sappiamo più in che linguasia stato inizialmente scritto il manuale che accompagnail televisore o la lavatrice, e magari neppure lo spot tele-visivo che li pubblicizza. Nel contempo, in certi ambitispecifici la traduzione si annulla nella spinta verso il glo-bal English, che è però già lingua tradotta, svuotata di con-tenuti culturali «locali», e trasformata il linguaggio-con-tenitore, portemanteau per eccellenza.

È significativo che, in ambito letterario, le immaginiche si associano alla questione della visibilità del tradut-tore e del tradurre emergano soprattutto dalla scritturadella migrazione. È il caso di due testi degli ultimi anni,The Translator (Edimburgo, Polygon 1999) di Leila Abou-lela e Va e non torna (Nardò, Besa 2000) di Ron Kubati,che hanno per protagonista, rispettivamente, una tradut-trice ed un interprete/traduttore. In entrambi la traduzio-ne è sia rifugio anonimo, che nega l’identità, sia momen-to di riscatto e visibilità dello straniero, dell’altro, puntodi contatto attraverso il quale questo diventa partecipe deiprocessi sociali del paese di accoglienza. Nel caso dellaAboulela la traduzione viene poi di fatto negata, in nomedi un riscatto identitario la cui accettazione da parte del-l’altro deve passare per un rovesciamento (geografico eculturale) ed una conversione (in questo caso non sololinguistica ma anche religiosa): la storia d’amore tra Sam-mar, la traduttrice d’origine sudanese trapiantata in Sco-zia, e l’accademico per il quale lavora può raggiungereun lieto fine solo quando quest’ultimo diviene, come lei,musulmano; e la gioia della donna alla notizia si esprimenella decisione di rispondere scrivendo «two letters in twolanguages», le quali «would say the same thing but notbe a translation» (p. 173). La visione che emerge dal te-sto di Kubati è più positiva, anche se non certo uniforme-mente rosea. L’ambigua visibilità/invisibilità del migran-te/traduttore consente al protagonista del libro — un gio-vane profugo albanese che svolge, tra le altre, l’attività diinterprete per la polizia italiana — di assumere un ruolodi mediazione tra la sua comunità d’origine e quella d’ac-coglienza. Tale funzione mette a dura prova le sue sceltepersonali e morali, ma, in ultima analisi, si rivela possi-bile e gli garantisce una certa mobilità, non solo geogra-fica ma anche sociale: la possibilità di continuare a spo-starsi tra diversi spazi di appartenenza, costruendo iden-tità multiple ma collegate, che evitano la frammentazio-ne totale del sé come pure la sua stasi, la pietrificazione

nella figura generica dell’immigrato.In questo contesto, un’altra metafora ottica, quella

della traduzione come rifrazione, emersa negli ultimi de-cenni in ambito teorico e in specie nel lavoro di AndréLefevere3, si rivela altrettanto se non più utile del bino-mio visibilità/invisibilità. Essa propone l’atto del tradur-re come atto trasformativo ed in parte deviante, ma legaentrambi gli aspetti alla natura del mezzo, a quella densi-tà della lingua e della cultura (nei loro molteplici aspetti)che ne determina il peso specifico ed il grado di resisten-za alla luce. E prospetta anche la possibilità di una cate-na di traduzioni, o di effetti di traduzione, che non si ar-resta nel momento in cui si passa dalla lingua di partenzaa quella di arrivo, ma continua a rimbalzare, come la luce,in un gioco di specchi, producendo effetti di ritorno sullacultura d’origine, o diffondendosi in ulteriori direzioni.Molteplicità e mobilità, piuttosto che il solo gioco di ap-parizione/sparizione, sono il segno di questa metafora. Ilche fa del traduttore un giocoliere alle prese con procedi-menti complessi e non interamente controllabili: non ilsolo agente di un meccanismo di trasformazione (del te-sto, della cultura di arrivo, e così via), ma piuttosto parteintegrale di ingranaggi elaborati che includono editori,curatori, adattatori, registi, tutti altrettanto degni, per tor-nare a Venuti, di conquistarsi una zona di luce nei pro-cessi di produzione e fruizione della cultura.

Corporeità del testo – e del traduttore

Il secondo gruppo di metafore (ri)emerse con forzanegli ultimi anni è legato al corpo ed alla sua integrità olabilità. Si tratta spesso di metafore digestive, assimilati-ve, le quali riflettono e scoronano paure e tabù ben radi-cati nella tradizione occidentale che collega autore edautorità, paternità e potere. A livello teorico, l’influenzamaggiore in questo settore viene dal Brasile e dal cosid-detto ‘movimento antropofago’, che ha le sue origini neimanifesti modernisti di Oswald de Andrade negli anniVenti, e riemerge in anni più recenti nella teoria e nellapratica traduttiva di Haroldo de Campos4. La traduzionecome cannibalismo, dunque, in riconoscimento della ca-pacità assimilativa del processo traduttivo e della sua fun-zione nutritiva: materia prima che entra a far parte delcorpo (non sempre di buon grado) e lo nutre, ma al tem-po stesso lo contamina, per cui il risultato è multicultura-le e, in termini bachtiniani, polifonico. E quella polifonia— frutto di appropriazione e riciclaggio — nel negarel’essenzialità, l’integrità di ogni cultura, inizia un viag-gio di ritorno, che va ad arricchire ogni possibile puntod’origine, scoprendone ed esponendone nuovi potenzia-li, trasformandone la voce in un mosaico intertestuale. Il«divorare» del traduttore-cannibale diventa quindi omag-gio luciferino all’altro e trasfusione di nuova vitalità. Enon a caso de Campos parla proprio di «traduzione cometrasfusione. Di sangue», aggiungendo: «ironicamente, sipotrebbe parlare di vampirizzazione, pensando ora al nu-

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trimento del traduttore» (citato in Vieira, come in nota 4,p. 95; traduzione di chi scrive).

L’immagine della traduzione come antropofagia, e deitraduttori come vampiri, rimanda peraltro a Bram Stoker,il cui Dracula di fine Ottocento cerca, dopotutto, non solouna casa a Londra ma un insegnante di lingue, e chiede aJonathan Harker di aiutarlo a perfezionare il suo inglese,perché «Well I know that, did I move and speak in yourLondon, none there are who would not know me for astranger»; e come tutti sanno «a stranger in a strange land,he is no one; men know him not — and to know not is tocare not for. I am content if I am like the rest, so that noman stops if he see me, or pause in his speaking if he hearmy words, to say, ‘Ha, ha! A stranger’» (Londra, Penguin1993; pp. 31-2). Si può pensare la traduzione, allora, come«estetica della fame» (Vieira, p. 100), ma anche, seguen-do Bram Stoker, come potere seduttivo e riproduttivo, cuicorrisponde il terrore della contaminazione. Tradurre intro-duce l’alieno e lo rende, rovesciando la rivendicazione diVenuti, invisibile e perciò tanto più temibile, specie quan-do se ne riconosce, come Stoker fa con Dracula, la para-dossale vitalità, l’incontenibile capacità infettiva.

Questo misto di terrore e fascinazione nei confrontidella traduzione riemerge anche nella letteratura contem-poranea. Ne sono esempio N.P. (1990; trad. italiana di G.Amitrano, Milano, Feltrinelli 1992), forse il più bel ro-manzo di Banana Yoshimoto, e La casa sul lago della luna(Milano, Rizzoli 1984) di Francesca Duranti. Entrambesono storie che devono molto alla tradizione gotica (quellainglese in particolare per la Yoshimoto, quella tedesca eaustriaca per la Duranti). Ed entrambe riprendono la me-tafora della traduzione come vampirismo, sottolineando-ne però l’elemento potenzialmente distruttivo. Nel casodella Duranti assistiamo alla «vampirizzazione» del tra-duttore da parte della discendente dell’ultima amante del-l’autore di un romanzo ignoto, che il traduttore stesso hariscoperto. Il rischio dell’identificazione del traduttore conl’autore è sottolineato fin dall’inizio del procedimento, edil rispecchiamento, una volta raddoppiato sotto forma diattrazione sessuale, diventa vero e proprio assorbimento,un prosciugarsi del corpo e della volontà in cui potenzasessuale e capacità creativa del traduttore vanno a rinvigo-rire il testo e l’amante — entrambi identificati, nelle ulti-me pagine, come femminili, poiché l’originale si scopreesser stato scritto non dal supposto, oscuro romanziereaustriaco, ma dalla sua amante, nonna della «Petra» che staincatenando a sé il traduttore. Il riferimento a Füssli è espli-cito nel testo della Duranti, dove la traduzione diviene rap-porto tra incubo e succubo, ed il rischio corso dal tradutto-re è quello della paralisi isterica, della disintegrazione.

Nel romanzo della Yoshimoto troviamo di nuovo unlibro stregato, che ha già «ucciso» l’autore (egli stesso unautotraduttore: uno scrittore giapponese che viveva inAmerica e scriveva in inglese, ma pensando in giappone-se) e tre traduttori, e che ora «rischia di uccidere» quat-tro giovani: i tre figli dell’autore (tra cui due, fratello esorella solo per parte di padre, stanno vivendo una storia

d’amore incestuoso) e l’ex amante dell’ultimo traduttoreche, in ordine di tempo, ha tentato l’impresa e ha fallito.Al tema della traduzione maledetta, che assorbe le ener-gie e l’identità di chiunque tenti di portarla a termine (eanche in questo caso, come nel libro della Duranti, tro-viamo riferimenti espliciti al pericolo insito nell’identifi-cazione con l’autore, nella perdita di individualità dovu-ta all’incapacità di mantenere una professionale distanzadall’atto del tradurre e dal suo prodotto), si aggiunge quiquello del tabù dell’incesto, che esplora i limiti tra il sé el’altro, tra l’uguale ed il diverso. Nel caso di N.P. però, lasoluzione tragica viene evitata, il cerchio dell’incubo vienerotto — ed il segnale della rottura è il rinnovamento (im-probabile, e non necessariamente desiderabile) portato dalconcepimento di un figlio: un «altro» uguale ma ad untempo diverso, sintomo di una produttività non ripetitivache va oltre il blocco traduttivo.

Due visioni diverse emergono dunque dalla metaforacannibalistica o vampirizzante del tradurre, segnate da duepunti di vista storicamente e culturalmente distinti: da unlato quello della teoria letteraria brasiliana con la suacoscienza post-coloniale, che indica il divorare tipico dellatraduzione come forma di appropriazione (ri)produttiva,arricchente ed il traduttore come elemento vitale, dotatodi potenza e di genio luciferino e creativo; dall’altra la«vecchia Europa» con la sua tradizione gotica, che segnala traduzione come momento di perdita (di identità, vita-lità, potenza) e di apertura indesiderata all’alieno ed iltraduttore come vittima (almeno potenziale) delle propriealchimie linguistiche e culturali. In entrambi i casi l’ac-cento resta comunque sulla traduzione come rottura di tabù(che sono poi, non a caso, insegne di gruppo) e come stru-mento potente di infezione, benefica o malefica che sia.

Contrabbandieri e doppiogiochisti

C’è un’ulteriore serie di immagini che si incontranocon frequenza in testi degli ultimi anni e che, pur conti-nuando il tema dell’ambiguità del tradurre e del tradutto-re, portano però in direzione di una concezione creativa,ludica, ma anche fortemente etica, talvolta ai limiti del-l’oblativo e del sacrificale, della traduzione e di chi vi sidedica. Si tratta di metafore apparentemente più tradizio-nali di quelle appena esaminate, ma che in realtà sonoriapparse, in anni recenti, con senso rinnovato e rinvigo-rito. Sono metafore che sottolineano la mobilità del tra-duttore, e l’interstizialità, la liminalità del tradurre. E sonoimmagini che segnano anche il punto di contatto tra iltradurre ed il viaggiare. Come ha sottolineato MichelSerres in un bellissimo passo, «communiquer, c’est vo-yager, traduire, échanger: passer au site de l’Autre», edErmes è il dio dei messaggeri, dei mercanti, dei ladri, deiviaggiatori e dei traduttori (Hermès I: La communication;Parigi, Éditions de Minuit 1968). Nel corso dei secoli, iltraduttore è stato spesso visto come esploratore, comescopritore e contrabbandiere di ricchezze lontane. Il tra-

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duttore come viaggiatore; il viaggiatore come traduttore.Entrambi sono ambigui, infidi, temuti ed invidiati per laloro natura ibrida, la loro posizione di intermediari sospesitra diversi gruppi, diverse identità, diverse possibili allean-ze. La potenziale doppiezza del traduttore ne fa ad untempo un traditore e una vittima, come nel caso dellaMalinche, l’amante indigena di Cortez (che per di piùporterà il figlio dell’alieno in grembo), incolpata dagli unidi tradimento, dagli altri di doppio gioco, ma riscattatainfine dalla teoria femminista contemporanea come mo-dello di ibridità culturale. In maniera simile, nel suo Elo-gio di Babele (Roma, Meltemi 2000) Paolo Fabbri scrivedella produttività performativa della traduzione, intesacome un incremento «infettivo» di significato (p. 82), maanche del tradurre come atto etico per eccellenza, e deltraduttore — agente doppio, apostata, traditore di tradi-tori — come unico vero eroe della comunicazione, e cen-tro propulsore delle dinamiche interculturali. Il tradutto-re è pronto a tradire un sistema (linguistico, culturale) percreare un nuovo paradigma, passare ad un nuovo model-lo di comunicazione. Sa che l’intraducibilità è, a livelloassoluto, un dato di fatto, ma nella pratica continua im-perterrito a compiere l’atto «impossibile» della traduzio-ne. Fabbri lo paragona al calabrone «che essendo moltopesante, e avendo eliche molto leggere, dice, da un puntodi vista tecnico, di non poter volare. E naturalmente volalo stesso» (p. 86). Il traduttore si trasforma così in un«commensuratore dell’incommensurabile», in un «meta-linguista naturale» (pp. 86-87), ed è il primo a riconosce-re che in realtà le lingue, come le culture, sono sistemisemiotici aperti, infettabili e costantemente infettati dalcambiamento, dalla diversità, di cui il traduttore/apostatadiventa profeta – e spesso profeta burlone.

Un’immagine altrettanto complessa del traduttore e deisuoi «poteri» la si ritrova in Corazón tan blanco (Barcel-lona, Anagrama 1992), il romanzo che ha portato alla ri-balta internazionale lo scrittore spagnolo Xavier Marias.Traduttore egli stesso (e di autori complessi quali Sterne,Hardy, Nabokov), Marias fa del suo protagonista un po-liglotta di professione che si dichiara molteplicementeapostata perché, tra l’altro, si muove tra le caste distinteed esclusive degli interpreti consecutivi, di quelli simul-tanei e persino dei traduttori. In un romanzo la cui prosagioca sui temi della ripetizione e del mosaico e la cui tra-ma fa perno sul sapere e il non sapere, sul rapporto ambi-guo tra innocenza e colpevolezza, e sull’inevitabilità del-le scelte etiche, il traduttore si presenta come un ascolta-tore ossessivo (di tutto e di tutti) ma anche come un deusex machina, un jolly impaziente ed impertinente che nonsi ferma, nella ricerca del senso e nella dedizione all’attodella comunicazione, neppure davanti alla falsificazione– come quando rimette in moto, ripetutamente, il dialogotra «l’alto funzionario spagnolo» e «la statista inglese» conuna serie di interventi mirati che distorcono la conversa-zione ma, in ultima analisi, rendono lo scambio ben piùsincero e rivelatore di quanto non sarebbe mai stato selasciato al suo destino letterale5. È questo il doppio gio-co, eticamente puro e quasi auto-sacrificale, del tradutto-

re-apostata di Fabbri: il tradimento moltiplica la veridi-cità del messaggio, consente l’apertura di nuove rotte,nuove vie di comunicazione. Come ha scritto recentemen-te Michael Cronin, il traduttore, «ritually accused of de-struction, of distorting or betraying the original», è in real-tà intento a quel distruggere creativo di cui sono fatti l’in-venzione ed il rinnovamento6.

Nonostante la presunta morte dell’autore, assistiamodunque oggi ad un rinnovato interesse per il traduttore, avolte vittima sacrificale, altre volte supereroe quasi dafumetto (o ‘cattivo’ altrettanto geniale), dotato di poterispeciali, ora salvifici ora terribili, ed ‘imperterritamente’dedito alla propria improbabile ma possibilissima impre-sa: mantenere viva la comunicazione. Per quanto riguar-da poi la traduzione, si potrebbe forse concludere invitan-do ad altri paralleli, quali quelli che collegano le diversevisioni del processo traduttivo, dei suoi rischi e delle po-ste in gioco, con le moderne teorie dell’identità: il mo-dello essenzialista, quello relazionale, e soprattutto quel-lo performativo, che invita ad una visione dialogica delsé e dell’altro, come pure dei processi di traduzione e delruolo di chi li mette in atto. Tale spostamento esplicitodalla dimensione della lingua a quella dell’identità è, an-cora un volta, rintracciabile anche nella produzione lette-raria contemporanea, ad esempio nel libro autobiografi-co di Eva Hoffman Lost in Translation: Life in a NewLanguage (Londra, Heinemann 1989), che fa slittare ildetto frostiano dalla poesia all’esperienza dello sradica-mento personale, rappresentata dall’emigrazione. Si trat-ta di uno slittamento di significati che sottolinea ulterior-mente la connessione, nel nostro immaginare e concettua-lizzare la traduzione, tra riproducibilità e riproduttività,tra economie di riproduzione industriale (o meccanica perdirla con Benjamin) ed economie di riproduzione sessuale.Il che riapre il discorso sulla metafora in direzione deimarchi di genere sessuale attribuiti alla traduzione ed achi traduce. Ma questa è un’altra storia.

NOTE

1 Si veda T. Hermans, Images of Translation: Metaphor and Ima-gery in the Renaissance Discourse on Translation, in The Manipula-tion of Literature: Studies in Literary Translation, a cura di T. Her-mans, Londra e Sydney, Croom Helm 1985, pp. 103-35.

2 S. Bassnett, Engendering Anew: Translation and Cultural Poli-tics, in The Knowledges of the Translator: From Literary Interpreta-tion to Machine Classification, a cura di M. Coulthard e P. A. Odberde Baubeta, Lampeter, Edwin Mellen 1996, pp. 53-66.

3 Si veda ad es. A. Lefevere, Mother Courage’s Cucumbers: Text,System and Refraction in a Theory of Literature, «Modern Langua-ges Studies», 12 (1982), pp. 3-20.

4 Su tali temi si veda E. Ribeiro Pires Vieira, Liberating Calibans:Readings of Antropofagia and Haroldo de Campos’ Poetics of Tran-screation, in Post-Colonial Translation: Theory and Practice, a curadi S. Bassnett and A. Lefevere, Londra e New York, Routledge 1999,pp. 95-113.

5 Si veda l’edizione italiana, Un cuore così bianco, trad. P. Toma-sinelli, Torino, Einaudi 1999, pp. 65-78.

6 M. Cronin, ‘Thou shalt be with the Birds’: Translation, Connexi-ty and the New Global Order, «Language and Intercultural Commu-nication», 2/2 (2002), pp. 86-95 (p. 94).

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di Valerio Magrelli

L’ASCOLTO PLURALE

Questa mattina, entrando all’università, sono statocolpito da un manifesto che annunciava l’inizio di unconvegno dal titolo: «Comprendersi nelle relazioni dicoppia». Mentre stavo osservandolo, sono stato avvicinatoda uno studente che mi ha chiesto se per caso fossi statoinvitato a quell’incontro. Forse sì, gli ho risposto. In ef-fetti, mi è venuto da pensare, la relazione fra traduttore etradotto non potrebbe trovare una definizione migliore diquella: «Comprendersi nelle relazioni di coppia». Ma cosavuol dire «comprendersi»? cosa significa «relazione»?cosa intendiamo per «coppia»? Nell’impossibilità di im-bastire anche solo una minima risposta a queste doman-de, vorrei lasciare da parte ogni riflessione di taglio teo-rico, per limitarmi ad alcuni rilievi desunti dalle mie espe-rienze di traduttore, insegnante di traduzione, direttore diuna collana di traduzione e infine autore tradotto. A que-ste note sarà dunque completamente estranea ogni teoriadella traduzione. Tutto nasce, cioè, dalla pratica, o meglio,per usare un termine suggerito da Antoine Berman nelsaggio L’auberge du lointain, dall’esperienza.

I. Per quanto riguarda la poesia (tralasciando perciòsaggistica e narrativa), ho tradotto per lo più dal france-se, ma vorrei soffermarmi sul caso di un unico scrittore,ossia Perec. Ho lavorato in particolare sulla traduzione dilipogrammi. Il lipogramma è quel procedimento compo-sitivo in base al quale l’autore decide di sottoporsi volon-tariamente a una contrainte, a un obbligo, a una costri-zione, asportando un elemento del proprio universo ver-bale. Naturalmente tale operazione può risultare più omeno significativa. Potrei dire, ad esempio, che fino aquesto momento tutto il mio discorso è stato un lipogram-ma in «x», visto che non ho ancora mai pronunciato que-sta consonante. Così facendo, però, non avrei realizzatonulla di particolarmente impegnativo. Diverso invece ènotare (come è stato fatto) che nell’opera di Kafka nonesiste l’aggettivo «ebreo». Davanti a una affermazione delgenere, vediamo che la restrizione lipogrammatica diventasenz’altro più interessante. Per effettuare un lipogrammasoddisfacente, si tratterà pertanto di sottrarre dal discor-so un elemento nevralgico.

Perec ha scritto un romanzo di oltre 300 pagine che si

intitola La Disparition, ossia La scomparsa, e raccontauna serie di omicidi. Il libro fu recepito come un gialloed ebbe recensioni, più o meno favorevoli, che facevanonotare la presenza di una lingua un po’ barocca e artifi-ciale, sostenendo che il plot era piuttosto debole. Finchéqualcuno riuscì a cogliere nel segno, e mostrò che la verascomparsa riguardava la lettera «e». In questo testo, in-fatti, non troviamo neanche una volta quella lettera che,nella lingua francese risulta essere la vocale usata conmaggiore frequenza. Ecco perché l’atto del toglierla, sepoi a toglierla è un autore che si chiama Georges Perec,inizia a provocare effetti curiosi e significativi. Ma midevo fermare. Aggiungerò soltanto che questa «e» ha unastoria assai più lunga di quanto potrebbe sembrare.

Ad ogni modo, sul piano della traduzione, come tra-durre un lipogramma? In Italia il traduttore Piero Falchettaè riuscito in quest’opera. Alcuni capitoli dello stesso ro-manzo sono stati tradotti senza la «e» anche da GianniCelati. Io ho lavorato sul loro confronto, notando chementre Celati evita la «e» in una direzione di aulicizza-zione del discorso (che diventa molto alto, molto più col-to e nobile dell’originale), Falchetta trova al contrariosoluzioni in cui possiamo rintracciare forme di plurilin-guismo o colloquialità, magari introducendo marche dioggetti specifici. Perec stesso, del resto, pur di non dire«montre», cioè orologio, dice «swatch», e per evitare«musique» scrive «jazz». Io ho tradotto un sonetto di Pe-rec in italiano. E con il sonetto la questione diventa anco-ra più interessante, perché Perec lo aveva in realtà tradot-to dal francese.

Siamo di fronte a un caso che a me sta molto a cuore:un caso che ho chiamato di ‘tautotraduzione’, cioè la tra-duzione di un testo da una lingua alla stessa lingua. Sem-bra un po’ il Pierre Menard di Borges, che traspone il te-sto del Don Chisciotte dallo spagnolo allo spagnolo. InPerec abbiamo una traduzione vera e propria nella stessalingua. Alcuni sonetti di Baudelaire e di Hugo vengonolipogrammati. Quindi sono di fatto tradotti. Da qui, hocominciato a seguire la parabola del sonetto, scoprendoun’altra lunga serie di peripezie. L’ho trovato ad esempiocitato in Finale di Partita di Beckett, l’ho rintracciato inViaggio al termine della notte di Céline e in una pagina

Bernardo Strozzi, Vecchia allo specchio.

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di Lolita di Nabokov. Per me è diventato una specie diossessione. Forse sono io che finisco per trovarlo un po’da tutte le parti. Questo per spiegare come, a fianco di unsemplice lavoro di traduzione, si possa sviluppare unaspetto inatteso di commento e di caccia al testo.

II. Da quanto ho detto spero si capisca che, da unpunto di vista empirico, ciò che più mi interessa è soprat-tutto la plurivocità del concetto di fedeltà. Non esiste lafedeltà a un testo: ogni volta che traduciamo, e parlo dipoesia, ad esempio di un sonetto, dobbiamo decidere aquali delle non infinte ma numerosissime funzioni di queltesto vogliamo essere fedeli. Mi riferisco ovviamente al-l’espressione che ha accompagnato sin dalla sua nascitail moderno dibattito sulla traduzione: l’endiadi bellezza-infedeltà. «Belle infedeli» è formula coniata in pieno Sei-cento da Gilles Ménage per indicare le traduzioni in gra-do di rispettare la qualità dell’originale, di contro a quel-le che, a causa di un malinteso senso di letteralità, fini-rebbero per sfigurarla. Associando linguaggio ed erotismo,viene in tal modo segnalata l’impossibilità di una versio-ne ideale capace d’essere una moglie-amante tanto devo-ta quanto seducente.

Quella di Ménage, che Georges Mounin prima e Ro-ger Zuber poi scelsero come titolo di due celebri saggi,rappresenta soltanto una tra le diverse similitudini cui siè ricorso per illustrare il meccanismo della traduzione, eindubbiamente non la più riuscita. Pure, col tempo, essaha finito per tramutarsi in un tenace luogo comune. Eb-bene, è appunto contro la sua fortuna irresistibile e insie-me immeritata che mi sono sempre battuto. Il perché èpresto detto: assai di rado un’immagine, scelta in base acriteri paradigmatici, ha maggiormente distorto e frain-teso il modello che intendeva rispecchiare.

«Belle infedeli»: il segreto di questa figura risiede nellasua capacità di collegare fallacia e verità in maniera ine-stricabile. Tra i due termini della coppia, è nel secondoche si cela l’inganno, poiché l’idea di fedeltà finisce perinvestire il testo con una potente ventata antropomorfica.Noi diciamo «fedele a una persona», «fedele a una pro-messa», «fedele alla parola data». In tutti e tre i casi, è lasingolarità del legame ad attestarne la forza. Siamo cioèfedeli a una e soltanto ad una persona, promessa o parola.Da qui l’altra espressione: «Non conosco che una sola pa-rola» – quella appunto che mi impegna in forma assoluta.

L’idea di poter tenere fede alla parola del testo, però,è profondamente ingenua. Infatti, la sua promessa non sirivolge a una semplice parola, bensì a un sistema di rela-zioni composto da parole. Per quanto possa sembrareovvio, chiunque si ostini a parlare di fedeltà ad un testo,opera un’evidente ipostatizzazione, riducendo indebita-mente la varietà a unità. Se l’idea di fedeltà comporta ine-stricabilmente quella di singolarità, come pensare d’es-sere fedeli a qualcosa che si definisce appunto sulla basedella propria pluralità costitutiva, ossia di una moltepli-cità fondante e statutaria? Un testo letterario (tanto più seportato al suo massimo grado di codificazione, come nel

caso della poesia) non è un oggetto statico, ma un pro-cesso dinamico, un concorso di spinte contrapposte, uninsieme di forze in equilibrio. Questa, e nient’altro, è ladantesca «cosa per legame musaico armonizzata».

Ogni poesia si presenta come un nodo di informazio-ni sintattiche, lessicali, metriche, rimiche, retoriche, e cosìvia. Anzi, per meglio dire, corrisponde a quel nodo e nonai vari capi che lo formano, nella stessa maniera in cui unatreccia non preesiste al gesto che la serra, ma in quel ge-sto consiste. Di conseguenza, il traduttore potrà tutt’al piùcercare d’essere «fedele» (posto che questo termine ven-ga poi definito in modo più adeguato) a qualche singoloelemento, non certo al loro insieme. Se il sistema dei versiverrà correttamente considerato come un fascio di funzio-ni coordinate, nel passaggio da una lingua all’altra saràgià molto riuscire a riprodurne alcune. Qualora cercassidi mantenere l’impianto prosodico, per esempio, dovreirinunciare a una perfetta aderenza rispetto all’apparatoterminologico, e così via, dato che l’unico modo di man-tenere immutate tutte le istanze presenti nell’originaleconsisterebbe nella tautologia ipotizzata da Borges nel suoPierre Menard: tradurre un’opera nella sua stessa lingua.

A questo punto, la questione si ribalta: scegliere a cosaessere fedele significa, al contempo, decidere a cosa nonesserlo. Dal che potremmo forse trarre la regola generaleche recita: in ogni traduzione, la fedeltà ad un criteriocompositivo implica sempre almeno un’infedeltà verso unaltro. Ovvero, tradurre vuol dire riorganizzare il testo inbase ad un ristretto numero di priorità.

Alla fine di questo percorso, la generica idea di fedeltàda cui avevamo preso le mosse si ripresenta piuttosto al-terata. Nello sterminato campo gravitazionale del testo dipartenza, il traduttore potrà infatti scegliere unicamentepoche linee di forza cui attenersi. Il problema prelimina-re, quindi, non sarà tanto come tradurre, ma che cosa.

A mo’ di conclusione, vale forse la pena ricordare unbrillante motto dell’abate Galiani. Il noto letterato tentòa lungo di tradurre il linguaggio dei gatti. La nostra cita-zione, tuttavia, non viene dalle testimonianze che egli cilasciò a tale riguardo, bensì da una lettera contenente al-cune osservazioni di natura politica. Siamo nell’orbita diquei Moralisti classici indagata da Giovanni Macchia, edè appunto sulla scia di un pensiero votato alla dissimula-zione e all’arte del buon governo di sé, che Galiani inse-risce questa breve considerazione: «Nel fare una profon-da riverenza a qualcuno, si voltano sempre le spalle aqualche altro».

Ecco a che cosa portano le nostre «belle infedeli».Partiti da un’errata nozione totalizzante, approdiamo a unaconcezione del testo multipla e diversificata, centrata sullanecessità di precisare la sfera di adeguazione da privile-giare. L’immagine iniziale si è infranta definitivamente,il quadro metaforico è cambiato. La maliziosa ma rassi-curante cornice di bienséances tracciata da Ménage, haormai lasciato il passo all’oculato controllo dei poteriraccomandato da Torquato Accetto o Baltasar Gracian. Difronte alla brulicante ricchezza della pagina, il tradutto-

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re-cortigiano non potrà più illudersi di poter praticare unavaga, sommaria professione di fedeltà. Al contrario, nel-lo scegliere a cosa porgere i propri omaggi, egli dovràdecidere, in maniera altrettanto irrevocabile, che cos’al-tro ignorare, offendere, ferire.

III. Ho parlato della traduzione del lipogramma. Trale poesie che ho affrontato, ce n’è una, tradotta dall’ara-bo, che ha a che fare piuttosto con il concetto di calligram-ma. Andiamo con ordine. Anche se mi è capitato di tra-durre dall’inglese, dal tedesco, dallo spagnolo e dal por-toghese, ho avuto solo tre esperienze di traduzione conlingue che conoscevo in modo davvero insoddisfacente:il latino, il greco, l’arabo. In questi casi ho fatto delle tra-duzioni a quattro mani. Con l’arabo, in particolare, si ètrattato di una vera follia, perché per tradurre due poesieho impiegato circa sei mesi. Dopo molti incontri conun’amica orientalista, Francesca Corrao, ho cominciatopraticamente a studiare quella lingua. Mi venne spiegatoil sistema metrico e il frequente ricorso alle annominazio-ni. La teoria della Corrao è che, sin dalla nascita dellapoesia italiana alla corte di Federico II, lo sviluppo di testibasati sul poliptoto (uso di forme differenti della stessaparola), ossia sulla ripresa di un termine e sulla sua va-riazione, fosse un’eredità proveniente dall’arabo.

In questi casi, mi sono trovato proprio come un ciecoportato per mano in terra straniera. Il mio lavoro è statoquello di riunire, di risistemare, di mettere ordine nellenozioni che ricevevo, però sulla base di competenze che itraduttori che mi avevano preceduto evidentemente nonavevano; perché non c’era mai stato un lavoro di ordinemetrico, né c’era stata una riflessione su simili questioni.Basti dire che, nella traduzione, le ripetizioni venivanoregolarmente tralasciate.

Restava però qualcosa di ancor più interessante, poi-ché una fra le poesie tradotte aveva al suo interno un cal-ligramma. Essa cioè giocava sull’aspetto di alcune lette-re arabe (Lam e Nun) che unite fra loro formano la nega-zione «no». Tradotta letteralmente, una composizione si-mile diventa evidentemente incomprensibile. Io ho cerca-to, invece, di riprodurre il suo senso visivo. Non so comesia andata, ma ho almeno tentato di creare un altro calli-gramma dotato di una propria autonomia iconica. Arram-picandomi sugli specchi, ho proposto questa soluzione:«Le tue sopracciglia assomigliano a due n ondulate»(grosso modo, in corsivo, la n ha qualcosa in comune conla lettera araba in questione), «e le tue guance» (non po-tevo certo paragonarle a due «o», perché altrimenti sareb-be venuta fuori l’immagine di un pagliaccio) «assomiglia-no a due parentesi». Da qui il finale: «Quando ti ho chie-sto se mi amavi, mi hai risposto N()». Il gioco consistequindi nel rendere la «o» con le parentesi giustapposte.Nel momento in cui ci troviamo a saltare da un alfabetoall’altro, dobbiamo quindi farci carico non tanto della resaletterale, ma del progetto visivo, complessivo a cui tendeil testo. Il testo voleva dire: arrangiati! L’importante è cheil «N()», in qualunque lingua tu lo dica, possa avere dei

riferimenti grafici tali da suggerire l’aspetto di un voltoumano (uno scherzo su cui lo stesso Dante avrà peraltromodo di tornare).

IV. Ma vorrei terminare con due casi che mi toccanoda vicino. Il primo riguarda un’esperienza di traduzionecollettiva. Parlo di un sistema di collaborazione fra centriculturali avviato in Europa da qualche anno, una speciedi Rete europea (c’è la Grecia, la Francia, l’Irlanda, l’Italiaecc.). Io ho partecipato a due incontri: in Portogallo e inFrancia. Viene invitato un poeta che, per una settimanacirca, incontra altri poeti, una decina grosso modo, con iquali traduce collettivamente i propri testi. È stata un’espe-rienza molto singolare.

Due italianisti facevano da interfaccia, aiutando ilpassaggio con gli altri poeti che non conoscevano linguaitaliana. Con i francesi, anche perché insegno la loro let-teratura, c’era un forte contatto, ma il portoghese per meè una lingua mirabilmente estranea, perché in apparenzavicina all’italiano, ma nel parlato pressoché incompren-sibile. Con il portoghese ho toccato veramente con manoquanto fosse difficile lavorare insieme. Ci mettevamo in-torno a un tavolo e davamo avvio una sorta di seduta spi-ritica. Due conduttori, due medium, nel vero senso dellaparola... La cosa più singolare è che alla fine venivano fuo-ri dei risultati notevolissimi. Da un lato c’era qualcosa dimedianico, dall’altro mi tornava in mente la storia delleéquipe di matematici che firmavano i loro lavori con unnome collettivo (credo fosse Nicholas Bourbaki). Le tra-duzioni collettive escono con il nome della fondazione chele promuove, quindi non c’è un traduttore: c’è l’accordotra voci diverse che talvolta riescono a trovare una sinto-nia, fino ad allinearsi. Un’esperienza esaltante.

Assai diverso fu invece il laboratorio tenuto a Londrada Jamie McKendrick. Anche qui c’era un gruppo di cri-tici, poeti, letterati, più o meno a conoscenza dell’italia-no, chiamati a tradurre i miei testi. Esisteva però la figu-ra di un supervisore che, nella sua doppia veste di poetae traduttore, fungeva allo stesso tempo da regista e diret-tore dei lavori. Ebbene, paragonando le due esperienze,mi è venuto spontaneo rilevare un interessante parados-so. In Portogallo, cioè in un paese profondamente catto-lico, si lavorava senza un officiante autorizzato, vale a direin un clima di scambio orizzontale, di tipo protestante.Come ho spiegato, gli italianisti avevano infatti un ruolomolto sfumato e interlocutorio. In Gran Bretagna, vice-versa, ci si è trovati all’interno di un quadro che potrem-mo definire di matrice cattolica, ossia segnato dalla pre-senza di un «sacerdote» della lingua, padrone delle chia-vi del testo, chiamato a fare da mediatore e guida, anchese estremamente aperto all’ascolto dei «fedeli».

Miracoli e misteri del tradurre. Qui tocchiamo conmano la straordinaria, inquietante ricchezza di questa pra-tica. D’altronde non dobbiamo dimenticare che, comeosservò magistralmente I. A. Richards, la traduzione «mayvery probably be the most complex type of event yet pro-duced in the evolution of the cosmos».

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di Antonella Anedda

TRADURRE JACCOTTETI

È un passaggio della Semaison, aperta a caso negliscaffali di una libreria in casa di un amico, GianlucaManzi. Non sapevo nulla dell’autore1 e il libro non avevache un sobrio sottotitolo: Carnets, 1954-1979. Sembravaun diario, ma non aveva nulla di personale, le date scan-divano ora brevissime note, ora riflessioni più lunghe, laprosa improvvisamente si raggrumava in versi o al con-trario i versi costruivano banchine di prosa. Poi l’epigra-fe, tratta dal dizionario Littré: Semaison, dispersion na-turelle des graines d’une plante, ha detto l’essenziale.Quei taccuini non raccoglievano che la dispersione e lofacevano naturalmente come succede ai semi che volano,cadono, a volte germogliano. Quelle parole traducevanola campagna che si vedeva dalla finestra. Autunno, fuocopiovoso, vecchio fuoco, rogo. Rottami, legno e nebbie.Ruggine, cenere. Il mese era veramente novembre, c’era-no dei fuochi in lontananza, il vapore si sollevava dallecose, le immagini, compresa quella di un rottame di mac-china, scintillavano proprio grazie alla loro precarietà. Ilcanto di quelle prose spezzate da versi e annotazioni nonera un canto a gola spiegata, ma «en sourdine», somigliavaa un mormorio o a un ronzio. Non c’era musicalità, masuoni, rumori, scalpiccii. In quelle pagine entravano i tuo-ni, la pioggia sulla lamiera, il crepitio dei fuochi, il detta-glio più umile era la pietra scartata che costruiva il tempio.

Quando quello stesso giorno ho letto le poesie di L’ef-fraie et l’ignorant 2, tradotte da Fabio Pusterla, una, tra letante mi ha colpito: Le laveur de vaisselle. Il testo parla-va di una fatica e di una servitù capaci di trasformare lapovertà in pienezza. Anche questa volta la poesia si tra-duceva nella realtà del lavabo poco distante con dentro ipiatti da lavare e faceva corpo con quella gratuità che èindivisibile dalla poesia e si saldava di nuovo a terminicome dispersione, attesa, inutilità.

La scelta di tradurre Jaccottet ha coinciso anche conla possibilità di approfondire una solitudine, di capire ledistanze da modelli italiani più estranei ancora per me diun autore straniero. Forse, per via obliqua ha significato

prendere coscienza di quanto il mio italiano fosse tradot-to e trasformato da altre sonorità che sono in realtà lin-gue: il catalano di Alghero, la limba logudorese, il corsodi Bonifacio così vicino al dialetto gallurese. In realtà, siè trattato di un’esperienza così importante, così fitta diincontri, così prolungata nel tempo che dovrei parlare ditraduzione-trasformazione. Non so con quanto terroreJaccottet abbia guardato questa mia fedeltà (ostinazione?)ma in quel francese finalmente trovavo una lingua cheparlava in un modo inusuale, laterale, attraverso lo spa-vento, il dubbio, il volo cieco degli esseri umani non di-versi in questo dai barbagianni. Quel linguaggio era lon-tanissimo da autori che mi era capitato fino allora di tra-durre, per esempio St. John Perse: non aveva splendore,ma luce, non aveva ricchezza ma profondità, convertivase stesso verso una rotta solo sua, ardua, che saltava isecoli all’indietro e raggiungeva per naturalezza più laprosa che la «poesia», con un tono sommesso, familiare(Madame de Sévigné che scrive a Madame de Grignancon la coincidenza di Jaccottet che vive a Grignan) conun rigore dolente ma non amaro.

L’attachement à soi augmente l’opacité de la vie. Un momentde vrai oubli et tous les écrans, les uns derrière les autres devien-nent transparents, de sorte qu’on voit la clarté jusqu’au fond, aussiloin que la vue porte; et du même coup plus rien ne pèse. Ainsil’âme est vraiment changée en oiseau.

L’attaccamento a sé aumenta l’opacità della vita. Un momen-to di vero oblio e tutti gli schermi, uno dietro l’altro diventanotrasparenti, di modo che noi vediamo la chiarezza fin nel profon-do, tanto lontano quanto consente la vista; e insieme più nullapesa. Così l’anima è davvero trasformata in uccello.

«L’attaccamento a sé aumenta l’opacità della vita»:questa frase che apre il maggio 1954 della Semaison, si ètradotta negli anni in qualche cosa che travalica la sua resain italiano. Anzi negli anni non ha smesso di tradursi e

Novembre. Automne, feu pluvieux, vieux feu, bûcher.Ferraille, bois et brumes. Rouille, cendre...

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rifrangersi in una visione della poesia non separata da quel«Je ne voudrais pas tricher» così spesso ribadito da Jac-cottet. Questo «non barare» è stata anche una lezione peril tradurre: provare (non a caso Jaccottet usa il condizio-nale) ad ascoltare non la propria ma la voce dell’altro,provare a restituire per trasparenza e non per pre-poten-za. In questa disposizione a non cercare ma attendere, inquesta sospensione da se stessi attraverso l’attenzionec’era, tradotto nella stessa sua lingua, il pensiero di Si-mone Weil. E ciò che si traduceva davvero riguardava lavita perché – leggiamo nella Semaison – «la difficultén’est pas d’écrire mais de vivre de telle manière que l’écritnaisse naturellement». E se la scrittura ha un «fuoco» èquello di una luce magra, che il poeta protegge a fatica esi nutre della sua stessa sconfitta, della sua stessa fragili-tà: «comme le bois n’apprend qu’en la défaite à éblouir».

In un capitolo di Philippe Jaccottet, tous feux éteints3

Isabelle Lebrat ne ha definito l’attività di traduttore conle sue stesse parole: à l’écoute de la voix d’un autre, ri-flettendo sulla centralità di questa disposizione a tradur-re l’altro per diversità e non per assimilazione. Attraver-so suggestioni che toccano lo Zohar e la mistica ebraica,fino ai filosofi taoisti, Lebrat rintraccia l’origine di terminicome ritrazione, mancanza, spoliazione. Allo stesso tem-po mostra come tradurre Jaccottet sia tradurre un poeta ilcui «effacement» (parola che da sola pone già problemi:è il «il cancellarsi» così vicino alla preghiera per diven-tare niente di Simone Weil) si scontri con l’uso di formemetriche tradizionali come il sonetto. La sfida è renderequesto gioco di forze, appunto questo istinto di dispersionee di forma, di rigore e abbandono che rodono e muovonole linee della scrittura.

In un altro bel testo dedicato proprio al lavoro di Jac-cottet traduttore, Mathilde Vischer4 ha dimostrato, analiz-zando tra l’altro, la lettura dell’Infinito di Leopardi comeJaccottet intervenga nei confronti dell’originale, con una«presenza» che sembrerebbe più decisa rispetto a altretraduzioni – per esempio quelle da Hölderlin – tanto tra-sparenti da essere addirittura accusate di «platitude». Cosìil verso: «Sempre caro mi fu quest’ermo colle» diventa :«Toujours j’aimai cette hauteur déserte». Ma anche que-sto spostamento del soggetto da «colle» a «je» coincide,paradossalmente, più con una volontà di normalizzazio-ne che di potenza. «Ermo» diventa «déserte», la medita-zione sullo spazio e sul tempo si semplifica attraverso unio, non certo titanico, ma quasi trascurato che usa quieta-mente il verbo «amare».

Se Jaccottet traduce interi mondi che passano per leUpanishad e il Taoismo, la musica di Purcell e le lirichedi Basho e Issa, la Russia di �echov e l’Austria di Musil,allo stesso modo la sua attività di traduttore si riverberasu chi lo traduce. Leggere (e provare a ri-tradurre) le suetraduzioni (da Tasso a Ungaretti, da Hölderlin a Christi-ne Lavant, da Montale a Mandel’štam) nel volume D’unelyre à cinq cordes5, è come avere un doppio specchio che

riflette una scheggia particolare di quei testi e illumina lapoesia di Jaccottet attraverso scelte che non sono mai soloestetiche. Esemplari a questo proposito le traduzioni dalrusso di Mandel’štam, che sono tra le più belle mai letteproprio perché rendono in pieno il nodo luce-suono-sen-so, lo stratificarsi minerale di una poesia in cui si fondo-no grandezza e pudore. «Quando nel 1981» – leggiamoin A partir du mot Russie6– «mi sono arrischiato a tradur-re e a commentare Mandel’štam, ho scritto che la suapoesia mi aveva colpito come una meteora, allo stessotempo dura e brillante, come una cosa venuta da lontano,implacabile, avvertita anche come una prova [...] e comeun modello del resto inimitabile».

Ciò che Jaccottet apprezza in Mandel’štam è la capa-cità di riconciliare prossimità e lontananza, un modelloappunto di poesia fatta di cose, aspra, ma non contratta,dolente ma sobria: «Le poème de Mandelstam, de 1921,qui commence par le vers: Je me suis lavé, de nuit, dansla cour (ou simplement ‘dehors’) représente à mes yeuxun modèle de poésie à opposer à presque toute celle quis’écrit aujourd’hui (et malheureusement à mes propresessais, si irrémédiablement éloignés de ce que je voudraiset que j’admire précisément en un tel poème). Réconci-liant le proche et le lointain à partir des choses les plussimples, rude sans être crispé, douloureux, mais sobre»7.

Così, attraverso la Conversazione su Dante di Man-del’štam, Jaccottet traduce Dante e riprende Simone Weilquando per commentare la poesia già citata: «je me suislavé, de nuit, dans la cour», sceglie una frase della filoso-fa: «Blessures: c’est le métier qui rentre dans le corps. Quetoute souffrance fasse rentrer l’univers dans le corps»8.

Lungo queste costellazioni sono moltissime le imma-gini da Mandel’štam che Jaccottet lascia sedimentare neisuoi versi: il ruminio del poeta nel tempo9, il tema delleradici verso cui la poesia si piega, preferendole alle stel-le, il legame con la terra arata, le api con il loro ronzioluminoso, il verde della vegetazione.

La prosa di Jaccottet obbedisce a un ritmo che è unpaesaggio: la Francia del sud con le sue rocce, i suoi al-beri (lecci, tigli), i suoi venti, e con una dispersione checoincide con una ricerca di verità. Tradurla è provare adare un ritmo naturale alla scrittura, legato al mutamentodelle luci e delle stagioni. Significa però allo stesso tem-po interrogarsi sulla possibilità di un linguaggio essenzia-le, non retorico. Il tentativo era (è) trovare una prosa chenon fosse prosa d’arte, ma rintracciasse un italiano forsedimenticato, una memoria dell’asciuttezza di Guicciardi-ni e di Sarpi, la lingua che avremmo potuto avere e nonabbiamo e che esiste forse solo in margine, in luoghi difrontiera, dove l’etica della lingua è sopravvissuta miste-riosamente e dove il linguaggio è anche suono capace diaccogliere voci diverse, domestiche, minime. Una linguain parte superstite nel dialetto ma che c’è stata e avrebbepotuto resistere contro un’Italia posticcia e che si affac-cia di tanto in tanto, di nuovo, in esperienze eccentriche:i testi e la voce di Paolini in Bestiario italiano, i dialoghidi Olmi in Il mestiere delle armi.

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La prosa di Jaccottet ha il ritmo della sua poesia, af-fonda nella terra. Ha un ritmo biblico che va ricreato concautela evitando qualsiasi enfasi. Rendere questa natura-lezza fatta di passaggi impercettibili, di fruscii che si so-vrappongono ai pensieri, è difficilissimo. Questi suoni, silegano a un «tono» ancora più basso, in cui l’io dell’au-tore parla scomparendo, cancellandosi e restando similea una traccia, a un’orma, a un rombo in lontananza. Latraduzione dovrebbe restituire questo tono, semplifican-dosi il più possibile:

Parler avec ce vide au coeur, contre lui. Pousses d’acaciassur le blanc presque bleu du ciel. Bruler de feuilles mortes, arra-cher de mauvaises herbes, se borner peut-être à cela...

Parlare con questo vuoto al cuore, contro di lui. Germogli diacacia sul bianco quasi blu del cielo. Bruciare foglie morte, estir-pare erbe cattive, forse limitarsi a questo...10

Ma le difficoltà sono anche altre: l’ambiguità di alcu-ni termini che comunicano, passandosi il senso, trascolo-rando l’uno nell’altro: Riprendendo la citazione iniziale«Aube cendreuse, consumée, fête finie, ornements déchi-rés, délavés»: «Alba cinerea, consumata, festa finita, or-namenti strappati, sbiaditi?», ma anche inzuppati, scolo-riti dall’acqua.

Ed ecco – intero – il testo che segue:

Nourri d’ombre je parle,et remâchant maigre pâture de ténèbrespauvre, faible, adossé aux ruines de la pluie,je prends appui sur ce dont je ne puis douter,le doute et habitant l’inhabitable je regardeje recommence à marmonner contre la mortsous sa dictée. En m’effondrant je persévèreà voir, je vois l’effondrement qui brille,et toute la distance de la terre,toute la profondeur de l’âge vaguementilluminée, une douceur insoutenable,une aile sous le couvert sombre des nuées.L’ombre m’ouvre les yeux,et le rapprochement de l’impossible au fond du jourl’invasion de cendre au fond de moi victorieuse,insolente, féroce, ne me font pas taire,me dictent de nouveaux propos en désespoirde cause, et je tâtonne entre les anciens mots,parmi les ruines des anciens vers,ah! Sans que rien ne me soutienne ni me guideque la puissance de l’erreur,qu’une ombre taciturne et ne portant de lampe.11

Nutrito d’ombra, parlo / e ruminando magre pasture di tene-bre / povero, debole, addossato alle rovine della pioggia / mi strin-go a ciò di cui non posso dubitare / il dubbio / e abitando l’inabi-tabile io guardo / io riprendo a biascicare contro la morte / sottosua dettatura. Crollando persevero / a vedere, vedo il crollo chescintilla / e tutta la distanza della terra, / e tutta la profondità degli

anni fiocamente / illuminati, / una dolcezza insostenibile, / un’alasotto la coltre bruna delle nubi. / L’ombra mi schiude gli occhi /e l’avvicinarsi dell’impossibile allo sprofondare del giorno / el’invasione della cenere nel profondo di me stesso, cenere / vit-toriosa, / insolente, feroce, non mi fanno tacere, / mi dettano comeultima risorsa nuovi discorsi / ed io brancolo fra parole antiche /fra rovine di antichi versi, / ah! Senza che nulla mi sostenga némi guidi / tranne la potenza dell’errore, / tranne un’ombra taci-turna / e che non porta lume.

Un esempio di dubbi. A) L’inversione del soggetto: «ioparlo nutrito d’ombra», mi sembrava troppo assertivo eho lasciato intatto il verbo alla fine come nell’originaleanche se alle mie orecchie suona eccessivamente familia-re: l’inversione del soggetto è tipica del sardo tradotto initaliano. B) Il nutrimento d’ombra, il ruminio delle tene-bre nel testo originale è affidato a una nasalizzazione (ge-rundi e avverbi) difficile da mantenere ma che ho prova-to a restituire attraverso un parlare lento, faticoso. C)«marmonner» è brontolare ma forse «biascicare» avreb-be dato risalto alla debolezza, alla senilità del testo, quelprevalere di suoni trattenuti a lungo prima di diventarevoci. In questo senso di freddo e smarrimento rientra an-che la scelta di «mi stringo» per «je prends appui». D) «jetâtonne» che è andare a tentoni, tastando il vuoto, ma chealla fine ho tradotto con «brancolare», privilegiando l’ele-mento di cecità, la notte oscura dell’ombra che tace e «chenon porta lume»: quel dubbio a cui anche chi traduce,continuamente si appoggia.

NOTE

1 Ph. Jaccottet La Semaison, carnets 1954-1979, Gallimard, Paris1984. Notizie su Philippe Jaccottet associate al lavoro di Fabio Pu-sterla mi furono date da Gianluca Manzi, in occasione di altri proget-ti di traduzione. Cfr. Ph. Jaccottet, L’Oscurità, a cura di G. Manzi,Roma, Fazi 1993; Ph. Jaccottet, Elementi di un sogno, a cura di G.Manzi, Cernusco, Hestia, 1994.

2 L’Effraie et l’ignorant, Il barbagianni e l’ignorante, a cura di F.Pusterla, Torino, Einaudi 1992.

3 I. Lebrat, Philippe Jaccottet, Tous feux éteints,Bibliophane, Pa-ris, Daniel Radford 2002.

4 M. Vischer, Philippe Jaccottet traducteur et poète: une esthéti-que de l’effacement, Université de Genéve, mai 1999.

5 Ph. Jaccottet, D’une lyre à cinq cordes, Paris, Gallimard 1997.6 Ph. Jaccottet, A partir du mot Russie, Montpellier, Fata Morgana

2002, p. 51.7 Ph. Jaccottet, La Semaison, op. cit., p. 223.8 Ph. Jaccottet, A partir du mot Russie, op. cit, p. 57 e p. 50 «Feri-

te: è l’esperienza che ri-entra nel corpo. Che ogni sofferenza facciarientrare l’universo nel corpo!».

9 Cfr., per esempio, la lirica di Mandel’štam, Tristia (ispirata a suavolta ai Tristia di Ovidio) in O. Mandel’štam. Cinquanta poesie, acura di R. Faccani, Torino, Einaudi 1998.

10 Ph. Jaccottet, La Semaison op. cit., p. 25.11 Ibidem, pp. 25-6.

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di Fabio Pusterla

TRADURRE JACCOTTETII

1. Il mio primo incontro con la poesia di Jaccottet,avvenuto ormai molti anni fa, ha avuto delle origini sin-golari. Verso la fine degli anni ’80 io ero un giovane au-tore che aveva pubblicato una raccolta di versi, e che na-vigava nei dubbi. Quello che avevo creduto di capire del-la poesia moderna e contemporanea mi pareva insufficien-te rispetto ai cambiamenti che avvertivo in atto ma chetemevo di non cogliere fino in fondo. Non so quanto fos-sero giustificati questi timori, e nel complesso la cosa nonha ora nessuna importanza; fatto sta che avevo pensato diaggirare i presunti ostacoli passando attraverso la poesiafrancese. Avevo più o meno ipotizzato che affrontare al-cuni autori capitali della Francia di quegli anni mi avreb-be aiutato a capire quello che stava accadendo nel linguag-gio poetico italiano. E una simile ipotesi derivava proba-bilmente dalla lettura di quello che in quegli anni, vistodall’Italia, pareva senz’altro uno dei poeti più complessie problematici del panorama francese ed europeo, cioèYves Bonnefoy (da poco apparso nella bianca einaudia-na, con una ricca prefazione di Stefano Agosti), al cuistudio avevo dedicato molte energie, finendo per tradurreuna manciata di suoi testi (il poemetto Anti-Platon) e perscrivere un saggetto. Proprio in questo periodo, duranteil quale stavo riprendendo fiato e facendo il bilancio diquell’immersione nella poesia di Bonnefoy (immersione,dirò di passaggio, che mi parve allora produrre l’effettosperato: tornavo al linguaggio poetico italiano con unadiversa capacità di comprensione, o così almeno mi dice-vo), incontrai per una via di Bellinzona, dove lavoravo,Giorgio Orelli. E Orelli mi parlò a lungo di un certo arti-colo critico, a suo giudizio discutibile e anzi francamente

errato, dedicato a una poesia particolare di Philippe Jac-cottet; io ascoltavo, annuendo ogni tanto. Non ebbi il co-raggio, durante quella lezione sulla pubblica via, di con-fessare la mia totale ignoranza: non avevo mai letto Jac-cottet, e Orelli presumeva troppo da me.

La curiosità e la vergogna prodotte dal dialogo bellin-zonese mi spinsero a cercare qualche libro del poeta fran-cese; capitai subito sull’antologia Poésie 1946-1967, editada Gallimard dieci anni prima, e sul volumetto losanne-se, quasi un quaderno, Chants d’en bas, che proponevaun gruppetto di poesie poi destinate alla più ampia rac-colta A la lumière d’hiver. Iniziando a leggere quelle pa-gine, non potevo sapere che avrei poi passato anni atradurle; né che quei libri, e gli altri che avrei poi impa-rato a conoscere di Jaccottet, sarebbero rimasti quasi co-stantemente fino ad oggi sul mio tavolo o nelle immedia-te vicinanze, a portata di mano e non certo ‘soltanto’ perragioni traduttorie. Ma, anche ignorando i futuri sviluppidi quell’incontro fortunato, mi resi immediatamente con-to di avere scoperto un poeta eccezionale, e a me partico-larmente congeniale; un poeta, per di più, che sviluppavaulteriormente, confondendo le carte che avevo faticosa-mente tentato di mettere in ordine, la mia percezione del-la poesia novecentesca. Rispetto alla luce spigolosa efilosofica di Bonnefoy (del primo Bonnefoy, di Douve), ealla sua sconvolgente geometria sintattica, i versi di Jaccot-tet sembravano proporre qualcosa di diverso, provenire dalbasso di un’esperienza umilmente raccolta e indagata; macosì facendo l’autore rimetteva in discussione moltissimecose, un’intera tradizione nella quale ero cresciuto e mi eroformato. Si trattava di ricominciare daccapo.

Petrus Christus, S. Eligio(particolare dello specchio).

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2. Credo di essere stato subito folgorato da una poe-sia in particolare, anzi dai suoi versi iniziali; che servonoora per mettere subito in evidenza il primo e principaleproblema che avrei dovuto risolvere più tardi in fase ditraduzione. La poesia si intitola Notes pour le petit jour,e appartiene alla raccolta L’Ignorant, del 1958; e i versiin questione sono i seguenti:

Des femmes crient dans la poussière. Car chanter,comment chanterait-on sous ces pierres friables?[...]Et c’est la chose que je voudrais maintenantpouvoir dire, comme si, malgré les apparences,il m’importait qu’elle fût dite, négligeanttoute beauté et toute gloire: qui avancedans la poussière n’a que son souffle pour tout bien,pour toute force qu’un langage peu certain.

In un recentissimo, poderoso saggio critico (PhilippeJaccottet. L’évidence du simple et l’éclat de l’obscur,Paris, José Corti 2003, pp. 415-16; ma si veda tutto ilcapitolo 11, significativamente intitolato Parler, chanter),Jean-Claude Mathieu si sofferma acutamente proprio suquesti versi quasi programmatici. Nel paesaggio di rovi-ne che la poesia tratteggia, le due polarità estreme sonorappresentate da due verbi: crier, che propone la realtàbruta, sofferta e in certo senso pre (o post) poetica, e chan-ter, che designa invece una modalità ormai impossibile,quella del canto. A metà strada, nella polvere dei giorni,si fa strada tenacemente l’unica eventualità ancora pro-ponibile, quella del terzo verbo, dire, collegato sia all’ideadi souffle (respiro, fiato, ma con una connotazione sup-plementare di fatica), sia alla realtà umile di un langagepeu certain.

L’opzione del dire, che altrove prenderà il nome diparler, non corrisponde dunque né a quella del grido né aquella del canto; suggerisce invece una tonalità, un per-corso linguistico e melodico più sommesso, più prossimoal mormorio, e costantemente in cammino.

E uno dei testi funebri contenuti in Chants d’en basconferma e approfondisce l’osservazione:

Parler donc est difficile – si c’est chercher... chercher quoi?Une fidélité aux seuls moments, aux seules chosesqui descendent en nous assez bas, qui se dérobent.

Ma una poesia di questo tipo, mormorata, sommessa,volta a registrare quelle emergenze dell’esperienza vissutache salgono dal profondo, è destinata a porre non pochiproblemi al traduttore: problemi di intonazione, proble-mi di ritmo. Ecco dunque delinearsi una difficoltà, maanche una scelta del traduttore, che tra i molti aspetti deltesto deve spesso identificare quello che gli pare centralee irrinunciabile, e sul quale sarà necessario concentraretutti gli sforzi. Traduzione come forma di interpretazio-ne, dunque. La questione dell’intonazione tocca principal-mente il lessico e la sintassi; si trattava, per cercare di tra-

durre quelle poesie, di ritrovare nel linguaggio poeticoitaliano uno strato espressivo similare a quello usato daJaccottet; parole e frasi apparentemente umili, quasi quo-tidiane, eppure leggermente, quasi impercettibilmente piùalte, più solenni; una solennità dissimulata, un’intensitàespressiva che rifugge da ogni effetto speciale, ma chepure si manifesta continuamente. Più complessa la rifles-sione sul ritmo, che non è mai facile definire esattamen-te, in assenza di regole metriche fisse. Se si dicesse che ilritmo della poesia di Jaccottet è spesso ampio e lento,meditativo; che i suoi versi non si esauriscono mai in sestessi, ma fluiscono, come seguendo il mormorio del ri-cordo o della meravigliata osservazione di una scena rea-le o immaginaria; che in quel fluire, in quel passare sen-za bruschi salti da un verso all’altro, o meglio da una partedi verso a una parte del verso successivo, sembra di ascol-tare il respiro profondo del corpo e della mente; se si di-cessero tutte queste cose, si proporrebbe forse un’imma-gine vaga eppure comprensibile della poesia in questio-ne. Ma, per un traduttore, una simile vaghezza è ancoraparalizzante, e non basta. Philippe Jaccottet che, pur es-sendo anche un critico notevolissimo, non ama moltoparlare in termini tradizionalmente critici e tecnici (e menche meno quando è interrogato sulla propria opera), haspesso utilizzato la riflessione su oggetti non letterari perparlare di letteratura. E uno degli oggetti da lui frequen-temente scandagliati è il paesaggio (basterebbe ricorda-re, tra i numerosi altri, il volume di prose Paysages avecfigures absentes: e non sarà poi sorprendente osservareche tradurre quelle prose pone dei problemi in sostanzaidentici a quelli di cui si sta qui ragionando; segno che ilritmo, appunto, si snoda attraverso le parole e le frasi, nonlimitandosi alla dimensione del verso). In una pagina dellaSemaison che risale al 1966, l’autore riflette su un con-cetto a lui particolarmente caro, quello di vrai lieu. Unvero luogo è un centro che riesce a stabilire un rapportocon un insieme; quando ci troviamo, quasi per caso, in unodi questi luoghi, scorgiamo con stupore dei resti: pietrein rovina, piccoli muri crollati, tracce di precedenti inse-diamenti, talvolta antichissimi. Ciò che rimane di un or-dine, o di più ordini, ormai quasi scomparsi, ma non deltutto cancellati; non delle vere rovine, solo degli indizi,dei suggerimenti che permettono al viandante di sentirsia proprio agio, di ricominciare a respirare. Quando ho lettoper la prima volta questa pagina, ho pensato che potesseesistere un’analogia tra i luoghi descritti e l’andamentoritmico dei versi di Jaccottet; anche in quei versi, cosìsolidali con il ritmo del lettore, si possono trovare i restidi un ordine, e i frantumi di una tradizione (quella delcanto, appunto) antica, oggi forse impossibile, eppureancora presente. E presente, si badi bene, non grazie adun montaggio postmoderno, una specie di mixaggio di-vertito di misure canoniche; non in virtù di un progettoarchitettonico che ha preceduto la scrittura; piuttosto per-ché l’eco di quell’ordine risuona ancora dentro di noi, eorienta, vagamente, la scrittura (e la lettura). Da qui l’ipo-tesi di operare nella versione italiana in modo analogo:

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lasciando che l’eco della tradizione ritmica e persinometrica parlasse dal suo passato nei versi, facendo capo-lino a tratti, in forma di frammento, di breve passaggiomelodico che unisce due o più versi. Né la metrica dissi-mulata o allusa ironicamente, né il neometricismo; qual-cosa di più profondo, come una musica indefinita che saledalle macerie di qualcosa.

3. Ciò che ho tentato sin qui di descrivere rappresentatuttavia solo una delle caratteristiche della poesia di Jac-cottet; forse la più visibile, certo quella che prima di ognialtra ha attirato la mia attenzione di lettore e, conseguen-temente, di traduttore. Ma non l’unica, appunto. Anzi,quando ho riletto l’opera di Jaccottet con l’occhio (spa-ventatissimo) del traduttore, mi sono subito accorto che,da semplice lettore, avevo sottovalutato proprio l’aspettoopposto, che pure è ben presente in quei libri. Una venadi rarefazione estrema, di totale concentrazione linguisti-ca e ritmica, attraversa infatti la poesia di Jaccottet, emer-gendo qua e là come una concrezione cristallina, o occu-pando addirittura l’intero paesaggio di un libro come Airs(che non mi sono mai ritenuto in grado di tradurre). Così,se la mia prima esperienza come traduttore mi aveva con-dotto agli Chants d’en bas, accingendomi a un lavoro piùampio (la traduzione per Einaudi de L’Effraie e de L’igno-rant, cioè di due intere raccolte) mi sono subito scontratocon cinque brevi poesie che non sapevo da che parte pren-dere. Si trattava, per la precisione, di cinque sonetti; eappunto questo mi metteva in imbarazzo. Come si devetradurre un sonetto? Non ci avevo mai pensato, e non sa-pevo cosa fare. Ho deciso di chiedere consiglio proprio aGiorgio Orelli, e sono andato a trovarlo con alcune provedi traduzione. «Vedi», mi ha detto più o meno, «un so-netto è come un ciottolo lisciato e polito dall’acqua di unfiume; è perfetto nella sua minuscola lucentezza. Quindi,se devi tradurre un sonetto, devi scrivere un sonetto». Cosìho provato a fare, con tutta l’incertezza del caso; ottenendotalvolta dei risultati che mi parevano soddisfacenti; spes-so dovendomi rassegnare a perdere qualcosa per strada.Un esempio fin troppo facile di traduzione impossibile èdato dalla prima quartina di uno di questi sonetti:

Tu es ici, l’oiseau du vent tournoie,toi ma douceur, ma blessure, mon bien.De vieilles tours de lumière se noientet la tendresse entrouvre ses chemins.

A parte la difficoltà iniziale di mettere a fuoco il si-gnificato di quelle vieilles tours de lumière, che si sareb-be risolta leggendo più attentamente l’intera opera dell’au-tore, in cui la trasposizione in torrioni luminosi degli al-beri di un bosco illuminati dalla luce che filtra attraversoil fogliame ricorre con una certa frequenza, il problemairrisolvibile era determinato dalla scomposizione fonico-semantica che attraversa la quartina: il verbo tournoie sitrasforma scindendosi in tours e noient.

Ecco dunque la povera traduzione italiana:

Sei qui, volteggia l’uccello del vento,tu mia dolcezza e ferita, mio bene.Sfuma la luce di antichi torrioni,la tenerezza schiude i suoi sentieri.

Un caso, spero, felicemente opposto riguarda invecedue versi di un sonetto successivo:

Même quand tu bois à la bouche qui étanchela pire soif [...]

Dicevo poco fa che ero andato a trovare Giorgio Orellicon qualche prova di traduzione; e quella relativa ai dueversi in discussione suonava così:

Anche se bevi alla bocca che toglieogni arsura [...]

Il commento di Orelli mi prese alla sprovvista: rite-neva che si trattasse di un’ottima traduzione, e che si ve-deva che avevo capito. Non sono certo, adesso, di avercipensato coscientemente prima; ma da quel momento sa-rei stato senz’altro più avvertito dell’importanza fonda-mentale dei suoni. Cosa piaceva a Orelli? La libertà ap-parente che mi aveva spinto a trasformare la pire soif inarsura; libertà lessicale che nascondeva una più profon-da fedeltà all’espressione fonosemantica, mantenuta gra-zie al nesso /RS/. Forse, ancora una volta, Orelli mi davafin troppo credito; fatto sta che avevo imparato qualcosadi essenziale.

4. L’ultimo punto che ho rapidamente toccato aprireb-be un discorso vastissimo: quello legato al difficile equi-librio tra libertà espressiva e fedeltà sostanziale che ognitraduttore deve di volta in volta cercare. Ad essi si colle-ga, naturalmente, la doppia partita di perdite e profitti chela traduzione inevitabilmente conosce. Invece di trattarediffusamente l’argomento, propongo un esempio a mio av-viso abbastanza interessante. Qualche tempo fa, ho comin-ciato a tradurre un saggio di Jaccottet intitolato Autriche,e dedicato appunto alla cultura austriaca, soprattutto allaletteratura, al teatro e alla musica. È appena necessarioosservare che Jaccottet, che ha tradotto integralmenteMusil in francese, conosce perfettamente la realtà che nelsaggio descrive. La traduzione di quest’opera non mi sem-brava porre particolari problemi; per una volta, avevo ache fare con una scrittura abbastanza scorrevole, moltodescrittiva, molto comunicativa. L’unica preventivabilefatica era costituita dalla frequentissime citazioni; Jaccot-tet citava in francese, spesso dalle proprie traduzioni, ocomunque da quelle correnti; e io avrei poi dovuto cerca-re nelle edizioni italiane degli scrittori austriaci in que-stione i passi equivalenti. Ma all’inizio di questo lavoro,mentre mi trovavo in vacanza, ho provato a tradurre perconto mio il primo capitolo dell’opera, tanto per farmiun’idea di ciò che mi aspettava; e poiché non avevo sot-tomano le traduzioni italiane necessarie, quando ho incon-

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trato la prima citazione da Musil ho deciso di tradurlaprovvisoriamente io dal francese, ben sapendo di fare unesercizio assolutamente inutile. Nella lunga citazione, trat-ta da L’uomo senza qualità (II, 98), si descrive la fragilesituazione identitaria del cittadino austro-ungarico, chenon sa bene definire se stesso. Un passo del brano ha su-bito attirato la mia attenzione, perché poneva virtualmenteun problema traduttorio non indifferente. Eccolo:

Qu’on se figure un chat-huant qui ne sait pas s’il est chat ouhibou, un être qui n’a aucune idée de lui-même, et l’on compren-dra que ses propres ailes, en certaines circonstances, puissent luiinspirer une angoisse sans remède.

Come tradurrei, mi chiedevo (per una volta in mododel tutto disinteressato), il termine chat-huant, che in ita-liano designa il barbagianni? A quale animale dalla dop-pia natura potrei pensare, in modo da mantenere il giocoproposto dall’immagine francese? Dopo un po’, ho pen-sato al pipistrello, una specie di topo volante (e molti dia-letti italiani danno appunto conto di questa duplicità) chetra l’altro non è un estraneo nella poesia di Jaccottet (unpipistrello svolazza nella notte di Portovenere, splendidotesto de L’Effraie). Un pipistrello, dunque, che non sa seè un topo o un uccello: poteva funzionare.

Tornato a casa, ho ripreso il lavoro più seriamente; eho cercato il passo di Musil nella versione di Anita Rhoofferta da Einaudi. Ma ecco quel che ho trovato:

Ci si immagini un roditore che non sa se è uno scoiattolo oun ghiro, un essere che non ha un chiaro concetto di sé, e si capi-rà che in certe circostanze gli può venire una tremenda paura dellapropria coda.

Incuriosito da questo bestiario così mutevole, ho pro-vato a consultare l’altra grande traduzione italiana, cura-ta da Ada Vigliani per Mondadori:

Ci si immagini uno scoiattolo che non sa se è una lepre o ungatto delle querce, un essere che non ha alcun concetto di sé, e sicapirà che in certi casi può assalirlo una terribile paura della pro-pria coda.

Le ragioni di queste discordanze zoologiche sono sug-

gerite da una nota della stessa Vigliani, che osserva duecose. Prima di tutto, Musil gioca qui con i due possibilinomi tedeschi dello scoiattolo, Eichhörnchen e Eichkat-ze: ci troviamo dunque di fronte a uno di quei passaggiben noti ad ogni traduttore, in cui i nomi della fauna (o inaltri casi della flora) pongono un problema difficilissimo.In secondo luogo, lo stesso gioco di parole è utilizzato inun altro punto del romanzo, durante un famoso monolo-go di Moosbrugger: per questa ragione, la traduttrice hadeciso di segnalare in nota sia il problema sia la conco-mitanza, optando per una traduzione quasi letterale.

Malgrado queste precise spiegazioni, resta al lettorequalche dubbio. Intanto, nelle due traduzioni italiane vapersa la verosimiglianza dell’immagine: perché mai unroditore non dovrebbe sapere se è uno scoiattolo o unghiro? Ancora meno perspicua l’altra versione: unoscoiattolo che non sa se è una lepre o un gatto dellequerce: cosa significa? E, in ambedue i casi: per qualeragione il roditore/scoiattolo dovrebbe temere la propriacoda? Assai più efficace la soluzione di Jaccottet, in cuiil rapporto tra la duplice natura dell’animale (gufo egatto), i dubbi identitari e il terrore di fronte alle ali ri-sulta chiarissimo a prima vista, proprio come nell’origi-nale tedesco.

Eppure, a ben guardare, Jaccottet è, dei tre traduttori,quello che si prende la massima libertà, allontanandosimaggiormente dallo scoiattolo musiliano; ma proprio inquesta libertà di trasformazione è insita la più sottile le-altà nei confronti del significato profondo dell’immagi-ne. Bisogna ancora aggiungere che Jaccottet, di fronteall’analogo gioco di parole utilizzato da Moosbrugger,traduce diversamente, indicando in nota la difficoltà lin-guistica. Ciò significa che egli ha deciso di privilegiare,nel passo testé discusso, il valore espressivo delle parole,considerando secondario o trascurabile l’eventuale richia-mo all’espressione usata da Moosbrugger in un’altra zonadel romanzo.

Non si possono certo giudicare tre traduzioni di que-sta mole a partire da una sola immagine; nel caso specifi-co, tuttavia, la versione francese risulta contemporanea-mente più creativa, più efficace e più fedele. E, per fini-re, questo piccolo esempio mi sembra riassumere bene unlungo discorso teorico sulle difficoltà (e sul fascino) del-la traduzione.

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di Jamie McKendrick

(SULLA TRADUZIONE)

ARAZZI FIAMMINGHI

In Boys for the Blackstuff, vecchia serie televisiva scrittada Alan Bleasdale in cui si racconta di un gruppo di disoc-cupati di Liverpool, il pazzo Yosser cammina accanto a uninserviente che sta imbiancando con del gesso le linee diun campo da calcio. Dopo avere riflettuto in modo penso-so annuncia «Ce la faccio anch’io! Dammi un lavoro!»

Il punto da cui cominciare per tradurre è spesso questasicurezza «yosseresca»: le linee sono già marcate – an-che se nella debolezza di un’altra lingua – e non può esse-re così difficile seguirle con le linee della tua e nella tua.

La prima infelice lezione della traduzione è che unatraduzione letterale è una dead duck (espressione idioma-tica inglese che significa «qualcosa che non potrà maiandare a buon fine). Non è solo che gli idiomi e i giochidi parole di solito resistono alla traduzione, che il ritmo ela rima sfuggono ma che l’intero farsi e l’economia dellapoesia, i suoi tendini più sottili e la sua ossatura internarischiano di essere persi durante il processo.

*Osip Mandel’štam ha scritto da qualche parte che la

scrittura di una poesia è un «lavoro nel buio». Lo stessovale per la traduzione poetica, eccetto che, in questo caso,il buio è illuminato fiocamente dal barlume dell’origina-le. Ma perché una poesia tradotta funzioni, è necessarioche si ripetano le stesse scoperte fortuite di suono e di-sposizione dell’immagine. Dunque, un tipo di riscrittura...Non deriva alcuna garanzia dalla forza dell’originale per

la poesia nuova – e mentre è irresponsabile scaricare l’ori-ginale, scimmiottarlo è solo pigrizia.

*Di solito comincio sforzandomi di essere il più fedele

possibile, e poi mi trovo nella situazione di uno che cercadelle scuse per le proprie infedeltà. Ma quando vedo itradimenti di altri traduttori provo indignazione. Chi hadato loro il permesso?

Le questioni di fedeltà o meno vanno oltre – la solitastoria del ‘tradurre = tradire’ che abbiamo sentito fin trop-po. Tutti sceglierebbero la fedeltà se fosse la condizionepiù felice, se funzionasse. È quando ciò non avviene cheil traduttore comincia a guardare altrove.

*C’è una forma di empirismo crudo nel processo –

Funziona oppure no? C’è qualcosa di superfluo. Se unapoesia esiste già perché condurla alla ri-esistenza? Peraiutare quelli che non possono leggere l’originale o peraiutare la tua lingua con l’inclusione di qualcosa d’oltre(- un tipo di filantropia, allora?) O ad aiutarti (nei due sensidell’inglese: «to help yourself» significa sia aiutarti cherubare una cosa)? Forse l’impulso non riguarda nessunadelle due cose – è più una questione di vedere se la poe-sia può risuonare anche in altre circostanze – culturali elinguistiche – di quelle in cui è nata; di vedere se puòsopravvivere anche a un trasloco così violento. Un espe-

Caravaggio, Narciso.

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rimento sinistro all’interno della lingua: per scoprire seuna qualche tremante essenza può essere sradicata e poitrapiantata: evinta e poi trasferita.

*Aiuta conoscere bene la lingua originale? Almeno

salvaguarda il traduttore dalle «gaffe» e dagli errori evi-tabili. Se non puoi sentire il suono dell’originale (anchese è impossibile riprodurlo nella nuova lingua) come faia sapere di quanto l’hai mancato o che cosa occorre fareper avvicinargli la tua versione?

Anche se paragonata a quella di molti altri traduttorila mia esperienza è poca, ho comunque tradotto poesie siada lingue che conosco sia da lingue che non conosco bene,da poeti vivi e morti e da lingue vive e morte. Alla finedei conti, nessuna combinazione ha facilitato particolar-mente il processo, benché la possibilità di discutere conil poeta di qualche ambiguità sia sempre la benvenuta –per evitare quello che nel tennis si chiamano ‘errori nonforzati’. Nel traduttore la conoscenza della lingua è piùimportante della conoscenza delle lingue.

*Nel tradurre c’è spesso uno squilibrio che danneggia

l’equazione – la triste probabilità che il poeta originalepossieda capacità superiore a quella del suo traduttore. Maquesto dislivello del talento non sempre è disastroso: qual-cosa di buono può essere salvato dal naufragio di una capa-cità inferiore. E non sempre aiuta avere un attitudine di umi-le reverenza verso l’originale. Una cecità provvisoria davantialle ineguaglianze abbaglianti può anche essere di aiuto.

*A tal proposito, noi tutti sappiamo delle perdite ine-

vitabili – quando, per esempio, la sfumatura o il signifi-cato secondario di una parola in una lingua deve esseresacrificato nell’altra lingua. Siamo predisposti a una mag-giore sensibilità a queste perdite nella nostra lingua. Ri-cordo di avere letto una traduzione italiana di An Afterwardsdi Thomas Hardy:

When the Present has latched its postern behind mytremulous stay,

And the May month flaps its glad green leaves like wingsDelicate-filmed as new-spun silk...

in cui il primo verso è stato reso così:

Quando il Presente avrà chiuso la porta dietro il mio tremulosoggiorno...

– che più o meno rende il nocciolo dell’idea ma perde inun colpo solo tutta l’intimità e la tenerezza di «latched» ela qualità un po’ provinciale e antiquata di «postern» –tutto questo danno già prima che i monosillabi del secon-do verso e gli aggettivi ‘composti’ del terzo fossero persidi vista in modo irrecuperabile.

Questo non esclude la possibilità di alcuni guadagni.Anche le poesie eccellenti possono avere dei momenti odei passaggi deboli (anche Omero sonnecchia) dei qualiil traduttore può approfittare, e mi pare legittimo che iltraduttore viri la poesia nella direzione delle proprie for-ze. Se questo sia giusto o meno, non dipenderà dall’as-sunzione di una qualche posizione teorica e aprioristicama dall’efficacia del risultato. La maggioranza dei lettoripreferirebbe una poesia buona nella nuova lingua piutto-sto che una traduzione statica e pedissequa. Detto questo,certi tipi di imprecisioni che derivano da trascuratezzacome la ricerca della maestosità a tutti i costi possono ri-sultare veramente scoraggianti.

*Se ho ragione ad affermare che c’è del superfluo nel-

l’atto di traduzione, si può anche portare la cosa sino infondo. Delle volte, traducendo, mi sono trovato a inserirerime in una poesia non in rima. A prima vista un tale ec-cesso potrebbe apparire ridicolo, ma forse anche questofa parte del gioco delle perdite e dei guadagni. Vedendoquanti effetti acustici (come, per esempio, le rime inter-ne) vanno persi, perché, mi sono chiesto, non cerchi al-meno di rafforzare un po’ la struttura esterna?

*Tutto il processo comincia dalla fine (cioè dalla poe-

sia già formata). Si comincia, per così dire, dal lato op-posto, andando controsenso (forse in tutti sensi). Dopoaver riflettuto che la traduzione è come «guardare degliarazzi fiamminghi dal lato sbagliato, quando, benché sipossano scorgere le figure, esse sono coperte da fili chele oscurano e non è possibile apprezzare l’effetto soavedel lato corretto», Don Chisciotte cerca di consolare iltraduttore che ha incontrato dicendogli che «ci sono del-le cose peggiori e meno vantaggiose che un uomo puòfare». Beh, si può cominciare ad apprezzare il lato sba-gliato delle cose...

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di Luca Guerneri

TRADURRE CONVERSANDO (CON) JAMIE McKENDRICK

La traduzione è divenire, pratica che abita la fessurache si apre nel pensiero tra il riconoscimento dell’origi-nale e la sua ricreazione in una lingua di arrivo. Di fattonon abita nessun luogo, diviene, si crea, sfugge e si fissain modo simile al fotogramma di un film, alla nota legataa quella successiva. La conosciamo, come diceva Agosti-no, solo nisi quia tendit non esse.

Occorre dunque pensare la traduzione esattamente inquesto divenire di tensioni, struttura liquida che prendela forma del contenitore, ripensarla come territorio di fron-tiera che si presta a riflessioni molteplici, che si apre den-tro allo spazio di quella riflessione.

Un pugno di citazioni di cui riprendere le fila poi:

Empson colloca i sette tipi di ambiguità che crede di poterericonoscere secondo una serie indicante nei suoi vari stadi ‘unprogressivo disordine logico’ vale a dire una rinuncia sempre piùradicale ad aver rapporto con il discorso verificabile della razio-nalità. (Giorgio Manganelli, Incorporei felini)

«Si potrebbe affermare che le culture riproducono, con stra-tegie e modalità diverse, lo sforzo per tenere gli individui anco-rati a una realtà comune e per distribuire in diverse zone di com-pensazione consentita extra-vaganze, deliri». E poco dopo «Lesocietà, i linguaggi creano un’ortodossia della realtà». (RemoBodei, Le logiche del delirio)

Si tratterebbe di cominciare a pensare con l’aiuto di una lo-gica ‘paradossale’, e sembra poi che un aiuto di questo genere lo

abbiamo proprio dalla pratica delle cornici, se riusciamo in qual-che modo a farla nostra rubando un poco del loro mestiere alcomico e allo psicotico». (Pier Aldo Rovatti, Il Paiolo Bucato)

La poesia è nelle parole di Empson ambiguità, tenta-tivo di forzare il linguaggio, di portarlo a indicare unaqualche zona d’ombra dove il castello di vetro che essostesso ha contribuito a costruire frange la luce in millecomponenti. Disancorato il linguaggio dalla sua necessi-tà di dire, eccolo trasformarsi in un non luogo di gioco(serissimo gioco), gioco di riflessi, allusioni e illusioni.La poesia nasce da questa pratica e la traduzione che vo-glia in qualche modo seguirla deve porsi in ascolto. Comescrive Nancy: «Essere all’ascolto è essere allo stesso tem-po fuori e dentro, essere aperti dal di fuori e dal di den-tro, dall’uno all’altro e dall’altro nell’altro». La traduzioneè una contemplazione di rovine, le parole del poeta riman-gono sepolte pronte a farsi ricordo del traduttore. «Ricordo– nelle parole di Marc Augé – che per quanto esatto neisuoi particolari, non è mai stato la verità di nessuno: nédi colui che scrive, perché egli ha bisogno di un tempora-neo arretramento per riuscire a vederlo, né di coloro cheegli descrive, perché quel ricordo è tutt’al più il disegnoinconscio della loro evoluzione, l’architettura segreta cheviene scoperta solo a distanza».

È esattamente questa «architettura segreta» ciò cheinteressa il traduttore posto di fronte a un testo poetico.Un’eco di «ricordo» e «rovina» da intercettare con altrestrutture in movimento per raccontarne, in empatia, un’ipo-

nisi quia tendit non esse

Agostino, Confessioni

Caravaggio, La conversione della Maddalena.

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tesi, una suggestione. Occorre evitare con cura alloraquell’ortodossia della realtà cui fa riferimento Bodei nel-la citazione poco sopra. Quella patina di cliché, di giàdetto che imbelletta il cadavere prima della sepoltura de-finitiva. O, per seguire Rovatti, ecco il traduttore che rubail mestiere al comico e allo psicotico, inventando un nuo-vo linguaggio, ricreando, a modo suo, il linguaggio. Sela traduzione possiede un valore dovrebbe trovare dimo-ra da queste parti, nel racconto di un atto creativo.

E, come si sa, ci sono cose che possono essere sola-mente raccontate. Il racconto può infatti astenersi dal dire,o anche permettersi di dire troppo salvo poi portare unamano al viso e dovere nascondere il sorriso imbarazzatoche ne consegue. Il racconto nasce come valenza non sa-turata, abita con agio la creazione di quel continuum sfug-gente su cui l’ansia da classificazione tipica dell’ento-mologo si incaponisce con pazienza certosina senza tro-vare un limite, senza riuscire a fare cemento dello stranonulla che agisce e mutarlo in detto da sezionare sotto lalente del microscopio. Sarebbe come voler cristallizzarele conversazioni che intratteniamo al telefono nel resocon-to che ci manda la compagnia telefonica con il riepilogodi minuti e costi. Pensare di ricavarci qualcosa che defi-nisca o valga per la nostra esperienza quotidiana.

Conosco Jamie McKendrick da diversi anni ormai;credo di poterlo dire, lo considero uno dei miei amici piùcari, non c’è stata volta in cui io abbia parlato con lui senzache poi me ne tornassi a casa (anche metaforicamente,nella mia lingua) con qualcosa su cui ragionare, riflette-re, fosse anche qualcosa da rubacchiare in termini di idee.La nostra è nata come amicizia telefonica, lui sta a Oxforde io a qualche migliaia di chilometri di distanza, tra la pia-nura e il mare. Ci siamo incontrati, di persona, un belnumero di volte in questi anni, qualche volta in Italia,qualche volta in Inghilterra e una volta pure in territorioneutro, in Spagna. Ciò non toglie che la maggiore partedella nostra amicizia noi, per ovvi motivi, l’abbiamo co-struita al telefono. Si sa, il telefono economizza sulle ondesonore, taglia il superfluo, crea un costrutto vocale utilealla comunicazione senza sperperare energie in sfumatu-re non strettamente necessarie. Mi sembra che anche diquesto abbiamo fatto un motivo di ricchezza e non dimancanza: condividiamo il piacere dell’essenziale, dellospazio bianco della pagina quando la parola non può ar-rivare oltre. E tutto questo senza che vada perduto un certogusto per il tirato in lungo, per tutto ciò che è umoristica-mente fuorviante, antieconomico. La British Telecom e laTelecom prendono atto, registrano e ci inviano periodi-camente il resoconto di tanto sperperare; non sanno infattiche dietro a quei numeretti pretenziosi si costruiscono lemappe essenziali (almeno per me) di un universo poetico.

Appare chiaro dunque che tradurre la poesia di JamieMcKendrick (in un volume dal titolo Chiodi di Cielo,uscito per l’editore Donzelli nel 2003) è stato qualcosa piùdi un semplice rapporto a tre, autore, testo, traduttore. Latraduzione, infatti, ha assunto quella dimensione conver-sazionale e quasi mai strettamente comunicativa di cui

parla Rocco Ronchi in Teoria Critica della Comunicazio-ne. Scrive:

Conversazione sarà dunque per noi sinonimo di quella co-municazione maggiore di cui parlava George Bataille in opposi-zione alla comunicazione minore che è fatta oggetto della comu-nicazione. Essa implicherà anche un’altra economia dei beni di-scorsivi, non riducibile alla dimensione asfittica e avara delloscambio, una economia generale che ha nello squilibrio di un donoasimmetrico il suo primo motore.

Squilibrio, asimmetria e dono sono parole che desi-gnano un universo semantico intertestuale ricchissimo perchi si occupa di traduzione poetica.

Devo dire la verità: mi si sono aperti gli occhi. Rara-mente mi era capitato di trovare definito in maniera mi-gliore lo «scambio di doni» che avviene costantementenella traduzione. Quel dare e ricevere continuo e mai ter-minato (la pagina stampata quasi mai evita che il tradut-tore torni sui propri passi e ripensi che un verso qua e unaltro là potevano essere resi diversamente) tipico del con-versare, il prendere la parola (il proprio turno) basandosisu quanto è stato detto, quanto ci si aspetta verrà detto,quanto non è detto ma rimane sottinteso. Mi sembra dav-vero un discorrere in grado di sganciare la traduzione daquel perenne affanno di rincorrere teoria e prassi, fedeltàe infedeltà, le categorie classiche, insomma, ma anchelogore come lo zerbino all’ingresso di un condominiomolto frequentato. Portare la discussione fuori, oltre, sualtre dimensioni. Gioisco quando leggo: «La struttura delturno in atto è estatica: nel suo presente convergono, ago-stinianamente, la presenza del passato e la presenza delfuturo. Ogni turno continua il turno precedente in sensomeramente cronologico perché lo rielabora a un altro li-vello». L’eco della trilogia di Agostino, tra attenzione,memoria e attesa. Tradurre come protendersi? Tradurrecome extensio animae?

L’idea insomma è quella di un andare e venire del lin-guaggio senza grandi punti fissi, un gioire di sensi in pe-renne ricostruzione all’interno però di competenze ricche,nebulose di conoscenze costruite in anni di letture e pra-tica. Giustamente Ronchi evoca la figura del jazzista checonosce il momento in cui intervenire sovrapponendo soloper un attimo la sua parola musicale a quella dell’altro perpoi lanciarsi a esplorare l’argomento della conversazio-ne, fletterlo sino quasi a spezzarlo e poi tornare a casanella ripetizione comune del tema. Abita un’etica del-l’ascolto da quelle parti che sa di civiltà e comunità, unfile sharing di idee che scavalca la multinazionale lingui-stica e costruisce una rete di rapporti e corrispondenze.Nebulose di conoscenze si è detto, ma non per mancanzadi definizione, bensì per ricchezza di confini mobili, elet-troni capaci di muoversi in salti quantici tra le mille deri-ve dei significati. Il jazzista capace ha elaborato la pro-pria libertà su una disciplina ferrea di esercizi ripetitivi,la tecnica di base non deve avere per lui segreto alcuno.E non è la vecchia questione dell’innatismo, altra peren-

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ne diatriba romantica sulle qualità che non si possonoapprendere dell’ispirazione e della creatività. È chiaro chenon tutti possono arrivare sul K2 senza ossigeno, altret-tanto chiaro è però che l’abitudine all’alta quota la si ap-prende solo frequentandola con assiduità.

La conversazione rappresenta la cifra stilistica ricor-rente di tutto il cinema di Abbas Kiarostami. Celebri poi,sono i dialoghi all’interno dell’abitacolo di un’auto. Sono«luoghi» spesso disturbati dove la povertà degli strumen-ti tecnici a disposizione del cineasta iraniano traballa emanca un colpo (un po’ come i walkman prima dell’in-troduzione dell’anti-shock); conversazioni che riecheggia-no continuamente nella speranza mai tramontata di co-struire un rapporto. Interlocutori più forti e risoluti del«rumore» di fondo della vita che non si lasciano scorag-giare dall’irruzione del non detto e proseguono nella ri-creazione. Nel 1990 un terremoto fortissimo colpisce laregione del Gilan causando la morte di cinquantamilapersone. Kiarostami convoca la sua troupe e parte verso iluoghi dove cinque anni prima aveva girato Dov’è la casadel mio amico? La trama del film diventa la quest del re-gista alla ricerca dei due ragazzini che avevano fatto par-te del cast di Dov’è la casa del mio amico? Nasce così Ela vita continua che instaura con il film precedente unaconversazione fatta di riferimenti, ricostruzioni non solometaforiche, immagini che aiutano, o cercano di farlo, unpaese che vuole tornare a vivere. Nelle parole di MarcoDalla Gassa, la spiegazione di un metodo di lavoro (an-che la traduzione, mi sembra, si muove da quelle parti):«Il regista si avvicina agli argomenti trattati non attraver-so l’improvvisazione o le facili emozioni. Lavorando conuna sceneggiatura flessibile, è costretto a misurare sulcampo le forze divergenti della sua ispirazione, affrontan-do un’operazione intellettuale non di poco conto... Piùvolte assistiamo a scene dove l’automobile sbaglia stra-da, torna indietro, si ferma, riprende. L’itinerario non èrazionale».

Aggiungiamo un altro tassello: Jamie conosce benis-simo l’italiano. È perfettamente in grado di cogliere mi-nimali variazioni di significato e ritmo. La consueta pra-tica che vede il traduttore sovrano della lingua d’arrivoin questo caso non vale; e allora funziona così: traduco itesti, glieli spedisco, ne discutiamo al telefono.

Risaltano fuori le bollette.Jamie suggerisce, abbozza, disegna possibili percorsi

semantici che sta a me cogliere, variare, riconoscere odisconoscere. Riesco spesso a intuire la direzione delle sueosservazioni, rielaboro, ritorno sulla conversazione, laricostruisco, ridisegno il passato che abbiamo appena trat-teggiato. Le conversazioni scivolano dall’italiano all’in-glese, dall’inglese all’italiano. L’osmosi avviene contem-poraneamente nella lingua d’arrivo e in quella di parten-za, salvo che in questo caso partire significa talvolta arri-vare e, ovviamente, viceversa.

Qualche esempio a caso: da Lock, l’inglese di At thecrank of the windlass in the racks, passa all’italiano diCigola l’argano sulla cremagliera che rigenera il testo in

chiave montaliana, descrive la passione (conosciuta e di-scussa di Jamie per Montale), la mia personale visionedella poesia, l’eco di un ritmo. A un certo punto di Gain-ful Employment si parla di four angelic wing-nuts che tra-duco con quattro angelici dadi ad alette, qui traduzionetecnica e tentativo di rendere l’immagine si rincorrono, èin ballo la movable beast, la bestia mobile di qualche versopoco oltre, la scrivania di Jamie (di cui si parla nel testo),il mio ricordo di quella scrivania (credo di averla vista,non sono sicuro), gli anni venti a Parigi tra Hemingway eFitzgerald (quelli di A movable feast), un certo modo diprendere la vita (descritto in quel libro), ecc. ecc. Pensa-re che si possa rendere conto delle mille scosse telluricheche agitano anche il più banale dei versi (e dunque suarelativa traduzione) sembra davvero impossibile. Megliotornare allora in direzione di quel campo instabile madefinito conversazione, quella calibratissima mosca cie-ca del senso dagli opposti poli: mani brancolanti e bendasugli occhi da una parte, le regole ferree del gioco dal-l’altra.

Mi sembra che ci si muova, come dondolando, tra duedelle folgoranti definizioni che trovo in uno dei più beilibri sulla traduzione che mi sia capitato di leggere. Il li-bro è quello di Antoine Berman, La traduzione e la lette-ra o l’albergo nella lontananza; le due definizioni riguar-dano la traduzione come esitazione tra suono e senso etraduzione come educazione alla stranezza.

È la parola esitazione a risultare vincente, perché miracconta di un’etica del sentire, dell’andare con i piedi dipiombo, dell’esitazione pensante che precede l’afferma-zione rivestendola dell’incertezza dell’ora e adesso. Per-ché esitazione è quella sensazione che ci coglie davantiall’abisso, abisso anche etimologico come caduta del si-gnificato dentro al significato. L’esitazione di Jamie pri-ma di proporre una sua soluzione, l’esitazione del ‘pani-co controllato’ di cui avevo scritto proprio a propositodella poesia di McKendrick – «Spingersi al limitare di unostrapiombo, di un abisso genera la vertigine della fine: siaesso visto dall’alto (Sul Vulcano), dal basso (Sotto il Vul-cano), verso l’interno (I Ricordi Prenatali di Franken-stein), nel gioco di specchi delle citazioni (Voi Ch’Entra-te). Quello che incontriamo in queste pagine è un McKen-drick che tesse la trama intertestuale di fitti rimandi let-terari. Senza che questo ne faccia un poeta necessariamen-te «letterario». Sono alcuni tra i campioni dell’abisso: lavertigine ubriaca di stanchezza e male di vivere di Mal-com Lowry, lo sberleffo cinicamente e dogmaticamenteinterpretato di Dante, la stolta tenerezza di Shakespeare-Gloucester-King Lear intrappolato nell’impudicizia del-la vecchiaia e della follia». Lo squadernarsi di riferimen-ti e mondi, di aperture. L’esitazione prevede uno sguardoche contempla allo stesso tempo andate e ritorni, pensie-ri e ripensamenti. L’esitazione è quella del traduttore cherilegge il proprio lavoro e vorrebbe cambiarlo ogni volta,limare quella filettatura che impedisce alla vite, al chio-do per dirla con Jamie di «unire qualunque cosa al nullae farcelo stare».

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E poi, l’educazione alla stranezza. Scrive Berman:

Ebbene, la traduzione, appartiene originariamente alla dimen-sione etica. Essa è, nella sua stessa essenza, animata dal deside-rio di aprire l’Estraneo in quanto Estraneo al proprio spazio dilingua. Il che non vuol dire affatto che storicamente sia andataspesso così. Al contrario, l’obiettivo appropriatore e annessioni-sta che caratterizza l’Occidente ha quasi sempre soffocato lavocazione etica della traduzione. La «logica dello stesso» ha quasisempre prevalso». Come si direbbe con una fascetta adesiva suun cd postumo del vostro cantante preferito: the ultimate fan expe-rience. Cos’è la poesia se non questo? E di conseguenza, cos’èla traduzione se non questo alla seconda?

Apertura all’estraneo del linguaggio (e non solo dellalingua) del poeta che sperimenta lo spazio bianco viola-to, l’atto di nominare e del traduttore che apre la pro-pria lingua all’altra in una collisione che crea disagio espaesamento (e quanto ci sarebbe da dire, invece, sulletraduzioni omologanti che non disturbano e non interfe-riscono, che scivolano via come le didascalie delle pagi-ne di un settimanale con le foto dell’ultimo flirt allamoda).

Verrebbe dunque da chiedere al traduttore (oltre adavere condotto l’analisi della traduzione, dovrebbe avereanche analizzato se stesso) quell’atteggiamento che, in uncontesto completamente diverso, Fabio Giommi definiscecome mindfulness: «il prestare attenzione attraverso unamodalità particolare, con intenzione, nel momento presen-te e in modo non giudicante». Nella definizione che Car-tier-Bresson (anche lui un campione della traduzione fo-

tografica dell’esistente in divenire) dava di se stesso, «unbuddista agitato», mi sembra di trovare un corrispettivoideale di questa immagine. Viene da pensare alla tecnicacompositiva di un Morton Feldman che reitera per ore eore la stessa frase musicale, variandola di un minimo ognivolta; scrive una frase, poi la riscrive senza tornare a con-trollare quanto già fatto e così via in un gioco di sovrap-posizioni, ritorni, leggere modificazioni. Per ritornare aBerman si potrebbe dire che non c’è bisogno di andarlo acercare troppo lontano l’estraneo, può stare davanti allospecchio o all’altro capo della linea telefonica.

I LIBRI DI CUI SI PARLA:

Marc Augé, Rovine e Macerie, Torino, Bollati Boringhieri 2004Antoine Berman, La Traduzione e la Lettera o l’Albergo nella

Lontananza, Macerata, Quodlibet 2003Remo Bodei, Le logiche del delirio, Bari, Laterza 2000Marco Dalla Gassa, Abbas Kiarostami, Genova, Le Mani 2000Mario Gamba, Questa Sera o Mai – Storie di Musica Contempo-

ranea, Roma, Fazi 2003Jamie McKendrick, Chiodi di Cielo, traduzione e cura di Luca

Guerneri, con sette poesie tradotte da Antonella Anedda,Roma, Donzelli 2003

Giorgio Manganelli, Incorporei Felini, Roma, Edizioni di Storiae Letteratura 2002

Jean-Luc Nancy, All’ascolto, Milano, Cortina 2004Rocco Ronchi, Teoria Critica della Comunicazione, Milano,

Bruno Mondadori 2003Pier Aldo Rovatti, Il paiolo bucato, Milano, Cortina 1998Vision (a cura di), Il sonno della Ragione, Milano, Reset 2004

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di Gioachino Chiarini

L’EMULAZIONE COME MODELLO.A PROPOSITO DI OVIDIO

La mia prima esperienza di traduttore risaleall’Orosio della Lorenzo Valla uscito nel 1976.Fui incaricato da Citati di tradurre, oltre al com-mento tedesco di Lippold, la seconda parte del-le Storie contro i Pagani (libri V-VII). Ricordo quest’espe-rienza perché fu di fatto decisiva. Orosio è un autore dif-ficile, ridondante di retorica votata ad maiorem Dei glo-riam, fitto di ogni sorta di figure di pensiero e di suono,vero campionario di rotondità oratorie. Basterebbe l’abi-lità con cui maneggia – e lo fa di frequente – l’antitesi esoprattutto il poliptoto (una variante complessa del paral-lelismo), a definirne questa sua sorta tutta devota di com-plessità formale e sostanziale. La prova, per me alquantosevera, ebbe esito soddisfacente, credo, grazie a mio pa-dre Eugenio. Avendo dedicato tutta la vita a Dante, al suostile mirabilmente essenziale, aveva maturato lui stessouna scrittura asciutta, concisa, di massima ‘economia’;quando gli passavo i miei tentativi orosiani per sentire cheeffetto gli facevano, me li restituiva (con mio iniziale scon-certo) poco meno che dimezzati, ridotti all’osso: capii cheil mio tradurre era zeppo di perifrasi e di parafrasi, dun-que pessimo, privo di ritmo, corretto nella sostanza delpensiero, lontanissimo dalla pia enfasi del testo latino.Dietro questo stimolo, lavorai per giorni dietro i primicinque paragrafi del I capitolo del libro V, vale a dire die-tro all’esordio della parte delle Storie a me assegnata.Questo fu poi il risultato:

So che non pochi resteranno colpiti, d’ora in avanti, dall’in-fittirsi delle vittorie di Roma fra tanta strage di popoli e città.Anche se, a un attento bilancio, troverebbero che le perdite sonostate superiori ai guadagni. Non sono, infatti, di poco peso tanteguerre servili, sociali, civili, di schiavi fuggiaschi [fugitivorum:qui la perifrasi è d’obbligo], che suscitarono grandi sventure senzaapportare alcun giovamento. Ma voglio ammettere che le cosesiano andate realmente come costoro pretendono: «Vi fu maiun’epoca», essi diranno, «più felice di questa, che vide sfilarecontinui trionfi, memorabili vittorie, ricche prede, processionisolenni, grandi re davanti al carro del vincitore e popoli vinti inlunga schiera?». Risponderemo loro brevemente che, mentr’essidel passato non sanno che parlare a vuoto, noi, su questo stessopassato, abbiamo intrapreso una ricerca obiettiva, tenendo contodel fatto che la storia non è patrimonio esclusivo di una sola cit-

tà, ma appartiene a tutto il genere umano. Ecco dun-que che se Roma vince felicemente, infelicemente èvinto tutto ciò che è al di fuori di Roma. Ma, se è così,qual peso dovremo attribuire a questa goccia di trava-

gliata felicità, cui è legata la fortuna di una città sola, sullo sfon-do immane di un’infelicità che accompagna l’annientamento del-l’intero universo? Oppure, se si vuole comunque considerarlieventi felici in quanto favorirono l’ascesa di un’unica potenza,perché non giudicarli piuttosto infelicissimi, dal momento cheper essi caddero con miserevole strazio regni potentissimi di na-zioni grandi e civili? O non parvero forse tali a Cartagine quan-do, dopo centoventi anni trascorsi nell’orrore ora degli eccidi dellaguerra ora delle condizioni di pace, e nei quali, ora ribelle orasupplice, passava continuamente dalla pace alla guerra e dallaguerra alla pace, alla fine, mentre i miseri cittadini in preda al-l’ultima disperazione si gettavano confusamente tra le fiamme,la città fu un unico grande rogo? Cartagine che, ancor oggi, ri-dotta in poca terra e spoglia delle mura, sconta la sua parte didolore al racconto di quello che fu (VII 1, 1-5).

La fatica per arrivare ad un risultato decente fu dovu-ta anche all’adesione immediata, da parte mia, ad un prin-cipio ispiratore fondamentale, come ancor oggi credo,dell’atto del tradurre: il principio dell’emulazione. Nonpuò esservi buona traduzione se si aggirano i problemiimposti dal testo anziché affrontarli e, nei limiti del pos-sibile, risolverli. Il rispetto abbastanza fedele di tale prin-cipio mi valse poi l’opportunità di tradurre, sempre perla Lorenzo Valla, le Confessioni di Agostino (Milano, 5voll., 1992-1997). Orosio aveva preso il pensiero dallaCittà di Dio, l’empito retorico dalle Confessioni, ma que-ste ultime, come ben si sa, vanno oltre la retorica. Il flus-so liberatorio e intimamente ‘biblico’ di parole, pensieri,sentimenti ora scorre sotto controllo, ora accelera, incal-za, straborda e dilaga, mutando via via direzione e strut-tura sintattica, ritrovando poi a fatica, ma senza che ciòcostituisca il minimo problema per l’autore, un punto fer-mo: la confessione, la testimonianza, il dialogo in formamonologica con Dio per Agostino è fatto di questo, èquesto. E, di fronte a questo, la pratica più diffusa tra itraduttori delle Confessioni è quella che rallenta questoflusso, spezzandolo in tratti più brevi, facendo punto eripartendo ogni volta che la virata rischierebbe di uscire

Miniatura dalRoman de la Rose.

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di controllo. La mia traduzione delle Confessioni mirainvece tutta alla ‘sovrapposizione’, e di regola non chiu-de se non dove chiude l’autore. Fornire esempi di ciò sa-rebbe troppo lungo e mi porterebbe fuori tema. Mi limi-terò a questa breve citazione:

Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi tiho amato! Ed ecco, tu eri dentro e io fuori, e lì ti cercavo e, brut-to com’ero, mi gettavo sulle bellezze da te create. Eri con me,ma io non ero con te. Da te mi tenevano lontano cose che, se nonfossero in te, non sarebbero. Gridasti e chiamasti e spezzasti lamia sordità, balenasti, splendesti e scacciasti la mia cecità, schiu-desti il tuo profumo, ne respirai e a te anelo, ne gustai e di te hofame e sete, mi toccasti, e m’infiammai della tua pace (Conf., X,XXVII 38).

Questa fedeltà anche ‘spaziale’ alle dimensioni e allescansioni e suddivisioni dell’originale era destinata amisurarsi con qualcosa di assai diverso ma di non menocomplicato – anche a dispetto, o forse proprio a causa,della sua inarrivabile fluidità e concisa efficacia: il testoesametrico delle Metamorfosi di Ovidio. Anche questavolta il committente è Citati per la Lorenzo Valla, che michiede la versione dei libri dal V al XV. La compiantaLudovica Koch, cui all’inizio era stata affidata l’interatraduzione, aveva fatto in tempo a portare a termine com-piutamente il lavoro per i primi quattro libri. Io accettaila difficile successione, ma per entrare meglio dentro iltesto mi imposi di tradurre per me anche i libri che nonerano toccati a me e che non sarebbero stati accompagnatidalla mia traduzione nella prestigiosa collana. Per miafortuna, non disponevo della versione della Koch: effica-ce e riuscita com’è, adesso che ho potuto prenderne vi-sione grazie ad Alessandro Barchiesi, mi accorgo che miavrebbe condizionato, frenato, costretto a sotterfugi pocogenuini per differenziarmi. Invece così, ignorandola, hopotuto costruire la mia traduzione per conto mio. Checomunque ha in comune con quella della Koch la fedeltàal principio della ‘sovrapposizione’: entrambe non han-no preso nemmeno per un attimo in considerazione lapossibilità di una soluzione in prosa, entrambe cercano direstare entro i confini del periodo, tendenzialmente, ap-punto, del verso – un impegno reso gravoso dalla mag-giore prolissità intrinseca della lingua italiana rispetto allabrevitas latina. Per reggere il ritmo, che in Ovidio è ge-neralmente accelerato, a dispetto dei molti giochi retoricidi cui il suo narrare si compiace, è necessario emularel’originale. E ciò vale anche quando, ad esempio nelmovimento proemiale del poema (con l’invocazione aglidèi), la solennità della circostanza, la lentezza dell’uscitadal silenzio indistinto che precede impongono una mag-giore compostezza. Sembra un paradosso, ma Ovidio èveloce anche quando sta fermo.

In nova fert animus mutatas dicere formascorpora. Di, coeptis, nam vos mutastis et illas,aspirate meis primaque ab origine mundi

ad mea perpetuum deducite tempora carmen. (I 1-4)

Questa è la ‘lettura’ di Mario Ramous1:

A narrare il mutare delle forme in corpi nuovimi spinge l’estro. O dei, se vostre sono queste metamorfosi,ispirate il mio disegno, così che il canto dalle originidel mondo si snodi ininterrotto sino ai miei giorni.

La connessione tra argomento e titolo generale delpoema è esplicitata («metamorfosi»).

Questa invece la ‘lettura’ della Koch:

A narrare di forme cambiate in corpi stranierimi spinge l’ingegno: al disegno, dèi, date respiro(siete voi che le avete cambiate) e guidate i miei versi a

discenderedal primo principio del mondo di seguito fino ai miei giorni.

Più forte, leggermente meno fedele al testo (in novacorpora > «in corpi stranieri»), ma più ariosa (anche insenso letterale: «al disegno... date respiro», veramente az-zeccato) come esige un movimento iniziale, e molto ovi-diana nell’accelerazione finale: «a discendere / dal primoprincipio del mondo di seguito fino ai miei giorni».

Io, a mia volta, ho cercato di tenere un tono medio piùvicino al testo (e, quanto al contenuto, più vicino al sen-so del testo):

A dire di forme mutate in corpi diversi l’animopreme. Gonfiate, o dèi, le vele all’impresae guidate il mio canto dalla nascita prima del mondo– anche questa fu opera vostra – fino ai tempi di oggi.

Dopo questo breve proemio, si passa subito alla na-scita del mondo e si respira per un po’ un clima da filoso-fia naturale che fa pensare a Lucrezio, non molto distan-te da quello che ritroveremo alla fine del poema nella le-zione di Pitagora a Re Numa sulla natura delle cose, lamutazione continua, la metempsicosi (XV 75-478):

Ante mare et terra et, quod tegit omnia, caelum,unus erat toto naturae vultus in orbe,quem dixere Chaos [...]. (I 5-8)

La Koch interpreta (I 5-31):

Prima del mare, dei campi, del cielo a coprire ogni cosa,per l’universo mostrava la natura un’identica faccia,il caos, come l’hanno chiamata: una massa informe e confusa,nient’altro che un torpido peso e dentro, ammucchiati e

discordi,i germi di cose sconnesse. Non c’era il Titano a elargireal mondo la luce, né Febe rinnovava la falce crescente;non stava sospesa, la terra, con l’atmosfera a recingerla,per proprio equilibrio, e Anfitrite non aveva disteso le braccia

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lungo le sponde. C’erano il mare, l’aria e la terra,la terra era instabile, l’onda innavigabile, l’ariasenza luce: niente riusciva a serbare la stessa figurae ogni cosa cozzava con l’altra: in un unico corpocombattevano il gelo col caldo, il bagnato con l’arido,il morbido insieme col duro, il greve con l’imponderabile.Questo conflitto appianarono un dio e una natura migliore;prese a staccare le terre dal cielo, e dal mare le terre,divise il limpido cielo dall’atmosfera più fitta.Sbrogliate le cose e strappatele al fosco groviglio, assegnavaun posto a ciascuna, stringendole in lacci concordi di pace.Nel cavo del cielo s’accese, senza peso, l’essenza di fuocofacendosi largo nei vertici supremi. A lei subito sottoper leggerezza e per sede sta l’aria; più densa di loroattrasse la terra, schiacciandoli sotto il suo peso,i materiali massicci; l’acqua, versandosi in giro,invase gli estremi confini e chiuse il mondo dei solidi.

Anche qui, la personalità della traduttrice è esaltatadalla secchezza e da una terminologia appena forzata, maassai poetica anche in questo contesto ‘scientifico’ («Nelcavo del cielo s’accese, senza peso, l’essenza del fuoco»).Ed ecco la mia versione, sempre un po’ meno accesa, piùnarrata, più anche aderente al modello (I 5-31):

Prima del mare, delle terre e del cielo che tutto ricopre,un unico volto aveva Natura nell’intero universo:lo dissero Caos, massa grezza e indistinta,nient’altro che peso inerte, ammasso confusodi semi discordi di cose male assortite.Nessun Titano ancora donava al mondo la luce,né nuove corna approntava Febe crescendo,né sospesa nell’aria d’intorno stava la terrain perfetto equilibrio, né le braccia Anfitriteaveva proteso ad orlare le lunghe terre emergenti.C’era sì la terra, e il mare, e l’aria,ma instabile era la terra, non navigabile l’onda,priva l’aria di luce: nulla conservava la forma,ogni cosa contrastava le altre, nel medesimo corpoil freddo lottava col caldo, l’umido col secco,il molle col duro, il peso con l’assenza di peso.Un dio, o più benigna natura, sanò i contrasti:separò dal cielo la terra, dalla terra le ondee dall’aria spessa distinse il limpido cielo.E dopo che tali cose ebbe sciolto dalla massa indistinta,assegnò a ciascuna il suo posto legandole in pace concorde.La forza ignea del cielo convesso scaturì e, privadi peso, fissò la sua sede negli spazi più alti:subito sotto si pose, per ordine e peso, l’aria.Di entrambi più densa, la terra attirò gli elementi più grevie rimase premuta dalla sua stessa mole; l’agile acquaoccupò il posto estremo e avvolse il solido mondo.

Nelle Metamorfosi, com’è noto, il cielo ha una suaparte importante, soggetto com’è a continui via vai dipersonaggi, a volte autorizzati, a volte no. Ai primi ap-partengono gli dèi, com’è ovvio. E gli dèi sembrano ave-

re un certo senso di responsabilità nei loro spostamenti,specialmente quando si tratta di usare la strada più larga,più importante, più battuta, alla quale si affacciano le vil-le più o meno lussuose di quelli tra loro che sono più invista: la Via Lattea. Inorridito dal mostruoso banchetto diLicaone, Giove convoca un concilio nella sua regale di-mora: urgono drastici provvedimenti contro la razza uma-na. Gli dèi maggiori si avviano e si riuniscono. Ma l’epi-sodio necessita di una determinazione spaziale, alla qua-le il poeta si accinge con un movimento modellato sul bennoto Locus est (caro poi anche a Dante: «Luogo è in In-ferno, detto Malebolge»):

Est via sublimis caelo manifesta sereno:Lactea nomen habet, candore notabilis ipso... (I 168 sg.)

La Koch (I 168-180):

Esiste una via nell’empireo, visibile a cielo sereno:si chiama Via Lattea e s’impone per bianco fulgore.È il cammino che fanno gli dèi per recarsi alla regia dimora,alla casa del grande Tonante. A destra e a sinistra, ospitali,spalancano le porte i palazzi dei nobili dèi.Altrove, disperse, le case del popolo; ma i loro penatili hanno messi, i Celesti potenti, sul davanti e nel giro dei lati.Se la battuta non fosse temeraria, non esitereia definire il quartiere il Palatino del cielo supremo.E dunque, una volta sedutisi gli dèi nel santuario di marmo,e lui sistemato più in alto, appoggiato allo scettro d’avorio,squassò con la testa tre e quattro volte i tremendi capellifacendone sobbalzare la terra, l’oceano, le stelle.

Non mi è del tutto chiara la ragione di questo «suldavanti e nel giro dei lati»: «nel giro dei lati» non è brut-to (un tocco descrittivo efficace), ma in Ovidio non c’è.Mario Ramous è più fedele («sul davanti»), pur spiegan-do cosa significa «suous postere Penates»: «Quelli più il-lustri/e potenti hanno invece qui, sul davanti, dimora».

Questa la mia versione (I 168-180):

C’è lassù una via che si vede a cielo sereno:Lattea si chiama, dichiarata dal suo stesso candore.Di lì vanno i celesti alla casa del grande Tonante,alla reggia. A destra e a sinistra stanno gli atriidei nobili dèi, con le porte aperte, sempre affollati;la plebe, sparsa, abita altrove: sul davanti i potentie famosi inquilini del cielo han posto i loro penati.È questo un luogo che, se le parole non suonasseroardite, oserei definire il Palatino del cielo.Quando i celesti furono assisi nella sala di marmo, lui,Giove, più in alto e appoggiato allo scettro d’avorio,tre quattro volte squassò la terrifica chioma,con cui fa tremare la terra, il mare, le stelle.

Dunque il concilio può avere luogo, nessun incidentestradale funesta la convocazione. Ma non tutti i viandantidel cielo sono così pacificamente rispettosi delle norme

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stradali. Quel pazzo di Fetonte si lancia senza patente sulcocchio del Sole, e succede un mezzo finimondo (in sen-so letterale). Della prolungata catastrofe mi limiterò adiscutere un segmento. Il carro del Sole, privo di control-lo, precipita a sfiorare la terra e il mare: l’acqua riarsa siritira nel ventre della terra, la superficie del mare si ab-bassa, i pesci cercano il fondo, i delfini non osano proce-dere a balzi, le divinità marine si acquattano nelle grotte.L’ultima a rischiare di soffocare è la Terra stessa (leggodirettamente la mia traduzione, II 272-300):

Alfine la Terra nutrice, che prima era avvolta dall’acqua,con le onde del mare e le fonti da ogni parte contratteche s’eran nascoste nelle viscere oscure materne,tutta riarsa levò il volto a fatica, fino al collo,portò una mano alla fronte e, con grande sussultoogni cosa squassando, si assestò un poco più in bassodi quanto soleva e con voce arrochita parlò:«Se così è deciso ed è giusto che sia, perché tardanoi fulmini tuoi, o dio sommo? Se di fuoco devo morire,del tuo fuoco io muoia: allevia in tal modo la fine!Posso appena aprire la bocca per dir questo poco»(una vampa la soffocava). «Ecco, guarda i capelli bruciati,e quanta cenere negli occhi, quanta su tutto il viso!Questo è il premio, così ricompensi il mio grembo fecondo,i miei servigi, io che m’affatico e per tutto l’annopatisco ferite dal rastrello, dal vomere adunco,io che procuro le fronde alle bestie, messi e dolcialimenti al genere umano, a voi persino l’incenso?E ammesso ch’io meriti il castigo, che colpa hannole acque? tuo fratello, che colpa? Perché il mare, che hain sorte, si abbassa e più e più dal cielo si scosta?E se non ti tocca il mio di destino, né di tuo fratello,abbi almeno pietà del cielo che è tuo! Guardati intorno:i poli fumano entrambi. Se il fuoco li intacca,la vostra reggia crolla! Atlante stesso faticae con le spalle a stento sorregge l’asse infuocato.Se il mare, se la terra perisce, se la reggia del cielo,si ritorna al caos primordiale. Salvalo dalle fiamme,quel poco ancora che resta, pensa al destino del mondo!»

Ma il ‘pezzo forte’ delle Metamorfosi, in cui pure èdescritto il descrivibile e l’indescrivibile, è, appunto, ladescrizione delle metamorfosi. E il traduttore è chiamatoa risostenere ogni volta la prova. Particolarmente attraentesi fa il cimento nei casi in cui, come nell’episodio diApollo e Dafne, la metamorfosi è preceduta da una fugae da un inseguimento: la fuga è della ninfa, i virtuosismimetamorfici sono preceduti da una straordinaria prova dileggerezza narrativa. Utilizzo direttamente la mia versio-ne (I 490-567):

Febo è innamorato, ha visto Dafne e vuol farla sua,e quel che vuole spera, ma la speranza lo inganna.Come, colte le spighe, bruciano leste le stoppie,o come s’incendian le siepi se un passante accostatroppo una torcia o la scorda al fare del giorno,

così il dio prende fuoco, così nel petto tuttodivampa, e spera, e alimenta uno sterile amore.Contempla i capelli che selvaggi le coprono il colloe pensa: ‘Perché non pettinarli?’; vede gli occhiche sfavillano simili a stelle, la boccuccia vede,e mai d’ammirare si sazia; loda le dita, le mani,le braccia, e le spalle nude in gran parte:quel ch’è nascosto, lo immagina ancora migliore. Lei fuggepiù leggera d’un soffio e non si ferma al richiamo:‘Ninfa, ti prego, figlia di Peneo, rimani! Non ho cattiveintenzioni, rimani! Così dal lupo fugge l’agnella,dal leone la cerva, dall’aquila la colomba con alaatterrita, dal nemico ciascuna: ma io per amore t’inseguo!Me infelice! Ho paura che tu cada distesa e i rovi lascinoil segno su quegli arti perfetti e per mia causa tu soffra!Ti affretti per luoghi selvaggi: corri più piano, ti prego,rallenta la fuga! T’inseguirò a mia volta più piano.Ma tu chiediti almeno a chi piaci. Non sono un montanaro,non sono un pastore, né un rozzo custode di mandriedi pecore o buoi. Non sai, sfrontata, non sai da chifuggi: è solo per questo che fuggi. Io sono il signoredi Delfi, di Claro, di Tenedo, di Patara regale:Giove è mio padre. Grazie a me si sa ciò che fu, ciò che èe ciò che sarà; grazie a me il canto s’accorda alla cetra.La mia freccia non sbaglia, ma ancor meno sbagliala freccia che mi ha colto nel mezzo del cuore indifeso.La medicina è mia invenzione, dovunque nel mondo ho famadi guaritore, il potere delle erbe è tutto in mia mano:ma, ahimè, non c’è erba che guarisca l’amore,la scienza che giova a tutti al suo signore non giova!’Voleva dire di più, ma la figlia di Peneo fuggendocon piede impaurito, lo lasciò col discorso incompiuto.E sempre bella appariva: i venti le spogliavano il corpo,i soffi leggeri le andavano incontro gonfiando le vesti,un refolo lieve le spingeva indietro i capelli,la fuga la faceva più bella. Ma il giovane dio più oltrenon soffre di perdersi in vane lusinghe e, come amorelo sprona, la incalza seguendone l’orme d’appresso.Come quando un cane di Gallia scorge una lepre in apertocampo e l’uno brama correndo la preda, l’altra la vita:lui l’incalza via via più dappresso e già creded’averla, e col muso proteso la stringe;lei non sa se è già presa, e si salva dai morsivibrati sfuggendo al muso che quasi la sfiora: cosìdio e fanciulla, lui più svelto per brama, lei per paura.Ma chi insegue, soccorso dalle ali d’amore,è più svelto, non molla, già è sopra a chi fugge,ansimando le bagna i capelli scomposti sul collo.Lei, perdute le forze, sbiancò, vinta da fugainesausta, e rivolta alle acque del fiume Peneo«Aiutami, padre!» disse, «Se i fiumi han qualche potere,questa forma, che troppo è piaciuta, muta e distruggi!».Non ha ancora finito e un grave torpore pervade le membra:il tenero petto è rinchiuso in fibra sottile,i capelli s’allungano in fronde, in rami le braccia;i piedi, or ora tanto veloci, s’arrestano in pigre radici,il volto si fa chioma: resta solo il suo antico splendore.

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Pur così Apollo la ama: appoggiata al tronco la mano,sente il petto che trepida ancor sotto nuova corteccia,e, stretti tra le braccia quei rami come fossero membra,bacia il legno: ma anche il legno si sottrae ai suoi baci.«Poiché», dice il dio, «non puoi esser mia sposa,il mio albero sempre sarai. Sempre di te si orneranno,o alloro, la mia chioma, e la cetra, e la faretra.Tu coi capi Latini sarai quando lieta voce intoneràil trionfo e di lunghi cortei stupirà il Campidoglio.Ai battenti della porta di Augusto fido custodestarai, lì sul davanti, a difesa della quercia nel mezzo,e come il mio capo è giovane sempre di intonsi capelli,tu pure sempre godrai dell’onore di fronde perenni!»Così disse. L’alloro annuì coi suoi rami appenaformati e sembrò agitare la chioma in segno di assenso.

Inutile ricordare che proprio da queste descrizioni dininfe scomposte nella corsa, di veli fluttuanti, di capelliagitati dal vento partì Aby Warburg per la sua ricerca suldiffondersi del ‘modo all’antica’ nel primo Rinascimentoitaliano. Ma è ora di concludere, e vorrei farlo col mitodi Narciso (III libro). Non tutto. Ecco la versione del ris-pecchiamento e dell’autoinnamoramento nelle parole dellaKoch (III 407-40):

C’era una chiara sorgente, dai limpidi flutti d’argento,mai sfiorata neppure da pastori o da capre sui montial pascolo, o da altro bestiame, né mai intorbidata da uccelli,da fiere o da rami caduti dagli alberi, cinta d’un’erbanutrita dall’acqua vicina, e di un bosco che sbarra ogni sole,qualsiasi calore. Il ragazzo si getta disteso sull’erba,attratto dal fonte e dal luogo stupendo, spossato dal caldoe più dalla caccia bruciante. Si prova a calmare la setee cresce una sete diversa. Gli appare un riflesso bellissimo,bevendo, e ne perde la testa: lo coglie l’amore di un’ombrache è spoglia del corpo. La prende per corpo, ma è acqua

soltanto.Appare a se stesso un miracolo, e immobile fissa la facciache è sua, e che somiglia a una statua scolpita nel marmo di Paro.Sdraiato per terra contempla le stelle gemelle degli occhi,i capelli, degni di Bacco, degni di Apollo, le guance infantili,il collo d’avorio, la grazia del volto, il rossore mischiato alla neve,e ammira ogni singolo tratto che rende lui stesso mirabile.Si illude, e vagheggia se stesso; è attratto dall’altro e lo attrae;si cerca, e il se stesso lo cerca: si infiamma del fuoco che ha

acceso.Con mille inutili baci ribacia la fonte ingannevole,immerge le braccia nell’acqua per mille volte, e gli paredi stringerle al collo dell’altro, che è lui, ma non giunge a

toccarsi.Che cosa abbia visto non sa, ma brucia per quello che ha visto:un unico inganno gli illude e gli attizza lo sguardo.Ingenuo, a che scopo inseguire invano fantasmi fuggevoli?Quello che cerchi non c’è: quello che ami, lo perdisolo a voltarti. Non è che un riflesso, quest’ombra che vedi.Di suo non ha nulla: ti segue e si ferma con te,con te si allontana, se mai riuscirai a allontanarti.

Di lì non riesce a distoglierlo né fame né voglia di sonno:sdraiato sull’ombra dell’erba contempla il bellissimo inganno,ma senza appagarsi lo sguardo: per gli occhi gli passa la morte.

E questa è la mia del finale (Narciso, colui che ha re-spinto la ninfa Eco e mille altre e altri, ora, credendosirespinto, è alla disperazione, III 469-510):

«Il dolore mi toglie le forze, non mi restapiù ormai tanto tempo, muoio nel fiore degli anni.Non la morte mi è dura, con la morte lascerò ogni pena:ma è lui che vorrei vivesse più a lungo, il mio amato!Ma ora, due cuori in un’anima sola, entrambi morremo».Disse, e in preda al delirio tornò a fissare lo sguardo,con le lacrime smosse l’acqua, la superficie increspatarimandò un’immagine confusa. Vedendola svanire«Dove scappi?», gridò, «Resta, non lasciarmi, o crudele,io t’amo! Se non vuoi che ti tocchi, almeno ch’iopossa guardarti e nutrire così la mia folle passione!»Tra i lamenti, si strappa in alto la veste e il nudopetto percuote con le palme bianche che sembrano marmo.Il petto percosso si tinge di tenue rossore, come,sai, quelle mele che son bianche da una parte, rossedall’altra, o come l’uva che suole via via arrossirenei suoi grappoli variopinti quando sta maturando.Tornando a vedersi nell’onda nuovamente placata,non regge più lungo ma, come bionda cera si sciogliea timida fiamma o la brina al mattino sotto i raggid’un tiepido sole, così annientato dalla forza d’amoresi scioglie e pian piano è consunto da fiamma nascosta.Già di rossore misto a candore più non v’è ombra,né di tempra, né di forza, né di ciò che or ora piacevaalla vista, e neppure il corpo amato un tempo da Eco.Ma quando lei lo vide, pur adirata al ricordo, assai se nedolse, e ogni volta che lui infelice «Ahimé» mormorava,a sua volta «Ahimé» di rimando diceva. E quandoil giovane si dava dei pugni alle braccia,questo identico suono di colpi lei ripeteva. Lui,fissando l’onda per l’ultima volta, «Ahimé», disse,«fanciullo invano diletto!» e il luogo ripetè questestesse parole, e al suo «Addio!» «Addio!» Eco rispose.Egli abbassò il capo spossato nel verde dell’erba, la nottechiuse gli occhi incantati a fissare il proprio padrone.E dopo che fu accolto nelle sedi dell’Ade, lì sempresi specchiava nello Stige. Un lamento levaron le sorelleNaiadi offrendo al fratello chiome recise, un lamentolevaron le Driadi: al loro, Eco unì il proprio.Già approntavano il rogo, le fiaccole agitate,il feretro: ma il corpo non c’era. Al suo posto trovanoun fiore, giallo nel mezzo contornato di petali bianchi.

NOTE

1 Ovidio, Metamorfosi, Introduzione e traduzione di M. Ramous,Note di L. Biondetti e M. Ramous, I e II, Milano, Garzanti 1995.

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di Haim Burstin

TRADURRE INSIEME DALLO YIDDISH - ISULLE TRACCE DELLA LINGUA

L’esperienza che si vorrebbe qui brevemente presen-tare ha un suo carattere del tutto particolare e atipico nel-l’ambito del consueto lavoro di traduzione. E questo dadiversi punti di vista che conviene innanzitutto enunciareper definire il campo specifico in cui ci situiamo. Atipicaè essenzialmente la lingua che fa oggetto della traduzio-ne, lo yiddish. Si tratta, come è noto, del linguaggio dellecomunità ebraiche d’Europa centro-orientale, parlato finoall’ultima guerra mondiale da circa tredici milioni di per-sone, ma ora praticamente scomparso. Atipica è la perso-nale posizione di chi traduce rispetto a questa lingua.Atipico è l’esperimento che alla traduzione ha dato ori-gine: si tratta infatti, come rivela già il titolo di questointervento, di un lavoro collettivo svolto da tre traduttoridi cui nessuno è di madre lingua yiddish1.

Conviene ricordare, a questo proposito, che coloro iquali parlavano correntemente lo yiddish prima della guer-ra vivevano in una condizione di effettivo, o quanto menotendenziale, bilinguismo. Da un lato c’era appunto lo yid-dish, lingua della tradizione e della vita familiare, che siaccompagnava però alla lingua ufficiale dello stato o del-la regione in cui ogni individuo si trovava a vivere. Inorigine però, questa condizione di bilinguismo, negliambienti intellettuali, non era messa tanto al servizio dellatraduzione di opere dallo yiddish, la cui letteratura solodagli ultimi decenni dall’Ottocento aveva conosciuto unsuo grande sviluppo; più facilmente ci si dedicava a tra-durre in yiddish i tesori della letteratura europea. Questavasta operazione culturale si situava nel più ampio pro-getto che si era andato progressivamente definendo attor-no alla fine del secolo, rivolto a un’acculturazione dellemasse ebraiche d’Europa centrale: quei ceti cioè che,impossibilitati per condizione economica e sociale a in-traprendere studi superiori, rimanevano all’oscuro dei te-sori della letteratura europea. Si tratta di un vasto proget-

to pedagogico, legato all’impegno militante dei primipartiti o gruppi di ispirazione socialista nati in ambitoebraico.

Oggi la situazione si è paradossalmente e drammati-camente invertita. La lingua yiddish è stata praticamenteannientata in seguito allo sterminio da parte della Germa-nia hitleriana degli ebrei d’Europa centro-orientale; cu-riosamente, infatti, se un’operazione è riuscita nel quadrodel disegno di annientamento della popolazione ebraicaeuropea, è proprio sul piano linguistico che essa si situa.Attualmente infatti il numero di individui di lingua ma-dre yiddish si riduce all’esiguo gruppo degli ultimi soprav-vissuti: una generazione di settanta-ottantenni, cui solo inpochi casi si aggiungono i figli. Ma anche il numero diquanti parlano correntemente questa lingua, pur non comelingua madre, si è impressionantemente assottigliato. Eciò, malgrado la straordinaria ripresa di interesse che inquesti ultimi anni si sta registrando attorno allo yiddish ealla sua cultura in generale.

Oggi quindi il problema si pone diversamente ed èdivenuto essenzialmente quello di riportare alla luce i te-sori della letteratura yiddish e di tradurli per renderli di-sponibili e sottrarli in tal modo all’oblio. Estinguendosiperò, con lo yiddish, anche quella particolare condizionedi bilinguismo cui esso naturalmente si associava, il pro-blema del tradurre si complica. In linea di principio nonci sarebbe niente di strano che a tradurre dallo yiddish nonsiano persone di lingua madre. È quanto accade abitual-mente anche nel caso di altre lingue; ad essere comune-mente richiesta come lingua madre è semmai quella didestinazione piuttosto che quella di origine. Appare quindidel tutto normale che uno traduca dall’inglese senza es-sere di lingua madre inglese. Ma tra l’esperienza del tra-durre dall’inglese e quella del tradurre dallo yiddish ladistanza è profonda, essenzialmente per il fatto che lo

Picasso, La ragazza e lo specchio.

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statuto dello yiddish è stato bruscamente trasformato,nello spazio di pochissimi anni, da quello di una linguaviva a quello di una lingua morta.

Non è il caso di riaprire qui il dibattito su questa tesiche, più che esprimere un giudizio, si limita a un’amaraconstatazione; malgrado tale argomento possa sembraresmentito dalla straordinaria vitalità che dimostrano i varicircoli di cultura yiddish ancora esistenti e disseminati nelmondo, come pure dalla larga ripresa di interesse che lasua letteratura suscita e dalle prospettive del tutto inatte-se e talvolta paradossali che ciò comporta, questa defini-zione di lingua morta ci sembra difficilmente controver-tibile. Ai nostri effetti ciò ha una conseguenza immedia-ta: il fatto di non essere di lingua madre, per chi è chia-mato a tradurre una lingua non più in vita, significa do-ver fare a meno di un ancoraggio importante e di una fonteconcreta per risolvere i grandi problemi posti da un idio-ma, come già si è detto, strutturalmente atipico e che soloil bilinguismo era tradizionalmente chiamato a risolvere.

Originariamente dialetto tedesco medievale, lo yiddishsi fonda, come è noto, su una sorta di plurilinguismo in-terno che incorpora sistematicamente elementi derivatidall’ebraico e dall’aramaico, oltre che da diverse lingueslave (polacco, lituano, bielorusso, ukraino); numerosisono tuttavia anche i termini di derivazione latina checompaiono a pieno titolo, come pure, più di recente, quellidi origine anglosassone. Una lingua spugnosa, dunque,che si è rivelata nei secoli in continuo movimento, asso-ciata a un progressivo e inarrestabile processo di conta-minazione. È proprio questo multilinguismo che metteall’arco dello scrittore yiddish una molteplicità di frecce:egli può esprimere un medesimo concetto con forme evocaboli diversi, attinti di volta in volta da lingue diversea seconda del sapore particolare che vuole conferire allasua frase. Il senso di tale scelta e dell’effetto che si vole-va raggiungere era immediatamente chiaro al lettore, al-lorché questa lingua veniva comunemente e largamenteparlata, ma è estremamente difficile oggi da rendere in unatraduzione.

L’insieme di questi aspetti particolari giustifica oggiapprocci diversificati e comunque atipici o inconsueti, tracui il nostro: quello di affrontare cioè la letteratura yid-dish nel quadro di un circolo di lettura. È evidente comela pratica della lettura collettiva sia divenuta un fatto or-mai desueto: se uno deve leggere un libro, certamentepreferisce leggerlo da solo. Tuttavia la sfida rappresenta-ta oggi dallo yiddish spiega una strategia diversa, fonda-ta sul lavoro d’équipe. Dalla moltiplicazione delle chiavidi lettura, infatti, e dall’ampiezza del bagaglio culturaleche si è in grado di mobilitare, dipende spesso la possibi-lità di ricostruire un testo. Questo, almeno per quantiquesta lingua non l’hanno mai parlata correntemente, nédispongono di una fonte originale di riferimento in unasituazione in cui, come si è detto, il rapporto tra lettera-tura e lingua parlata ha subito ormai un ‘corto-circuito’.

Si tratta dunque di una procedura d’eccezione che ri-chiama in un certo senso il metodo filologico. I testi in-

fatti, specie se usciti dalla letteratura tardo ottocentesca –come nel caso dei racconti di Sholem Aleykhem – obbli-gano spesso a un’autentica microesegesi per decodifica-re parole ed espressioni idiomatiche. Questo tipo di inda-gine, che si concentra il più delle volte attorno ad espres-sioni e costruzioni particolari, necessita di una disponibi-lità ampia di saperi. Quanto più siamo lontani dalla lin-gua parlata, tanto maggiore è la quantità e la qualità dicompetenze che è indispensabile convocare per compen-sare questa distanza.

Competenze innanzitutto di tipo linguistico: il tedescocerto, ma anche l’ebraico e in particolare l’ebraico bibli-co, oltre ovviamente alle lingue slave. Ma per ovviare aun certo numero di difficoltà di interpretazione, decodi-ficazione o traduzione è utile anche poter accedere ad altrelingue in cui lo stesso testo è stato tradotto, per un indi-spensabile lavoro di collazione. È noto ad esempio comein certi casi sia stato l’autore stesso a tradurre una suaopera dallo yiddish in altra lingua, una volta trovatosi aoperare in una realtà molto diversa da quella in cui il li-bro era stato concepito e prodotto. In casi del genere, citroviamo a disporre di due versioni d’autore dello stessotesto che spesso non solo non coincidono, ma anche pos-sono divergere. Il caso più conosciuto è quello di IsaacBashevis Singer che, una volta emigrato negli Stati Uni-ti, inizia una delicata operazione editoriale, autotraducen-do, con la collaborazione di alcuni esperti, i suoi roman-zi dallo yiddish all’inglese, ma nello stesso tempo espur-gandoli e modificandoli per renderli più accessibili a unpubblico più vasto e ormai molto diverso da quello cuierano originariamente rivolti. Operazioni di questo tiposottolineano non solo la necessità, nel caso dello yiddish,di adattare un linguaggio e una cultura a un pubblico ingrado di condividerli ormai solo parzialmente, ma anchel’intraducibilità stessa di alcune forme, locuzioni e espres-sioni tipiche. I testi americani di Singer sono spesso bendiversi dall’originale: filtrati e rimaneggiati nella forma,come pure talvolta nella sostanza, per adeguarsi a un pub-blico più largo e essenzialmente americano. Questa ope-razione conferma la presenza nello yiddish di elementiche, se non analizzati, interpretati e riadattati, rischianodi rivelarsi improponibili in altra lingua, specie per quantoriguarda le forme idiomatiche di cui lo yiddish trabocca.

Anche di fronte a questo tipo di asperità del testo èpossibile rispondere solo a condizione di potenziare eestendere l’arco delle competenze: non più esclusivamentein campo linguistico, ma anche etnologico. La letteraturayiddish incorpora infatti sistematicamente richiami e al-lusioni a usi e costumi di una collettività ben connotatache produce senza sosta un suo lessico – familiare o co-munitario – che va pazientemente decifrato, ricostruito einterpretato. Si tenga conto per giunta che la letteraturayiddish, specie per quanto riguarda alcuni dei suoi prin-cipali autori, è in continua relazione con la lingua parlatae con un sistema di riferimenti tipico del linguaggio po-polare. Così, leggere insieme nell’ambito di un circolo dilettura, grazie appunto alla somma dei diversi contributi

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specifici, consente di dilatare le potenzialità ermeneuti-che in vista della traduzione.

Questo approccio collettivo e in un certo senso ama-toriale ci ha concesso inoltre di stabilire con il testo unrapporto molto diverso rispetto a quello consueto del tra-duttore professionale. Dilatando i tempi di lettura e dianalisi, senza inizialmente lo stimolo di una committen-za, si è creata una felice condizione per cui è stato possi-bile tradurre semplicemente per il piacere di farlo. Unatale opportunità ha reso il nostro lavoro più simile all’eser-cizio filologico che non alla traduzione tipica. Il fatto dipoter dedicare all’occorrenza un tempo illimitato allacomprensione di alcune frasi o espressioni è un lussoappunto che può concedersi la filologia, esente da ogniriscontro o tornaconto di mercato. Ma dilatare i tempi adisposizione consente anche una qualità di lettura moltodiversa, una lettura che d’abitudine non viene rivolta allaprosa e che ha il potere di far emergere dettagli ancheminimi e pur significativi, come accade a chi guarda unquadro con la lente di ingrandimento. Una tale procedu-ra, possibile certo solo per opere brevi, consente di en-trare nel testo in maniera quasi esegetica e di appropriar-sene a un livello che nessun lettore ordinario riesce abi-tualmente a fare.

Questo sforzo, rivolto in prima istanza a tradurre col-lettivamente e essenzialmente per il gusto di farlo, oltre aconsentirci di moltiplicare le competenze e di dilatare itempi, ha caratterizzato il nostro lavoro da un altro puntodi vista: ha consentito l’incontro di sensibilità individualidiverse attorno a una lingua ricca di una forte carica emo-zionale. Proprio a causa del suo statuto di lingua annien-tata, lo yiddish implica infatti per sua natura un coinvol-gimento emotivo del tutto particolare e consente, da que-sto punto di vista, meno ancora di altre lingue, una posi-zione di neutralità. Il vantaggio che si ricava da un approc-cio collettivo, dalla convergenza cioè di sensibilità diver-se e complementari, non è puramente casuale, ma si mi-sura soprattutto nella condivisione di responsabilità rispet-to ad alcune scelte di traduzione. Il multilinguismo cheemerge con forza, come si è visto, in ogni testo yiddish,non può essere rimosso senza snaturarne in qualche mi-sura il senso. Il testo rischia però, senza un adattamento,di essere impresentabile e inintelligibile a un pubblico chelo legge in traduzione. Che cosa quindi salvare e che cosainvece sacrificare rispetto all’originale?

Tradurre dallo yiddish obbliga molto più che in ognialtra lingua a un continuo, sofferto lavoro di compromes-so su questo piano: l’incontro di sensibilità diverse puòinvece rendere questo compromesso in parte meno arduo.Ciò è vero a maggior ragione se si tiene conto del carat-tere un po’ ‘sacrale’ di una lingua morta, che in quantotale non può più protestare contro gli errori dei suoi tra-duttori. Come ha opportunamente ricordato Rachel Ertel,in un libro dedicato di recente a questo argomento2, lostatuto stesso di sacralità che circonda ormai lo yiddishpresso i suoi cultori, e la conseguente reverenza che talesacralizzazione inevitabilmente comporta, può rischiare

in molti casi di paralizzare il traduttore, ridotto in un cer-to senso al ruolo di conservatore di icone.

Nel nostro impegno comune, invece, abbiamo scopertol’importanza di un costante e appassionato dibattito a piùvoci, attorno ad ogni frase da tradurre; è questo dibattitoinfatti che ci ha consentito di creare tra noi quella chepotremmo definire una sensibilità media condivisa, ingrado di rendere i tagli o i rimaneggiamenti meno arbi-trari, meno dolorosi e più ragionati. Tale dibattito è statoguidato dalla consapevolezza comune della responsabili-tà inerente al compito di rendere questa letteratura acces-sibile e comprensibile a un largo pubblico, prevenendotuttavia la cesoia necessariamente più affrettata e burocra-tica dell’editore.

Quanto al piano propriamente emotivo cui si alludeva– come ha osservato Rachel Ertel in un capitolo moltobello del suo libro – tradurre lo yiddish comporta unascissione implicita tra due lingue, quella della morte equella della vita: tra queste due lingue, l’asimmetria èassoluta. Chi traduce dallo yiddish si aggira appunto travita e morte e il suo è anche e soprattutto un paziente la-voro di pietas verso ciò che ormai non c’è più. L’atto ditradurre dallo yiddish – scrive sempre Rachel Ertel – hadi unico il fatto che esso si confonde con la celebrazionedi un lutto e con un atto di testimonianza, testimonianzadell’Annientamento3; il traduttore viene quindi a trovarsial cospetto della lingua annientata ovverosia, potremmoanche dire per allusione, della lingua ‘non salvata’.

Da questo punto di vista la lettura e il lavoro coralecontribuiscono a ricomporre parzialmente questa scissio-ne, grazie alla tensione a ricreare fra noi un’atmosferayiddish ormai estinta, che risulta però funzionale all’attostesso del tradurre. Ciò significa poter convivere con quan-to resta di una lingua che ci è stata brutalmente sottratta,con maggiore serenità e, di conseguenza, lavorare sui te-sti con maggiore disinvoltura. Traducendo insieme – pen-so di poter dire anche a nome dei miei compagni di lettu-ra e di avventura – il silenzio assordante dei morti puòtornare a essere voce: il testo scritto ritrova nella letturacollettiva e nel commento i suoni che gli sono stati strap-pati.

NOTE

1 S. Aleychem, Un consiglio avveduto, a cura di A. L. Callow (trad.di F. Bezza, H. Burstin, A.L. Callow), Milano, Adelphi 2003.

2 R. Ertel, Brasier de mots, Paris, Liana Levi 2003.3 Ivi, p. 243.

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di Franco Bezza e Anna Linda Callow

TRADURRE INSIEME DALLO YIDDISH - IICOSA FARE CON SHAYLE?

Rebe! Ikh vil aykh fregn a shayle vil ikh ayk. Rebbe!Voglio chiedervi un parere.

Così si apre il secondo dei racconti contenuti nel li-bro Un consiglio avveduto (Adelphi, 2003), il primo concui si cominciò l’avventura del nostro leyenkrayz. Il ter-mine che abbiamo tradotto con «parere» è nell’originaleuna parola ebraica che significa domanda e che in yiddishassume il significato di «parere rabbinico riguardo a que-stioni rituali». La presenza di un simile termine pone dueproblemi tipici per chi traduce da questa lingua: in qualemisura e in quale modo è possibile rendere in italiano ledifferenti origini linguistiche dello yiddish? E inoltre,come offrire alla comprensione del lettore italiano il com-plesso mondo rituale ebraico?

Per quanto riguarda la prima questione è necessariopremettere alcune considerazioni. Come si è detto, nellessico yiddish compaiono vocaboli di origine non germa-nica, in misura rispettivamente decrescente: semitici, slavie latini.

Vi sono però almeno due differenti modalità in cui lalingua yiddish si comporta nei confronti di questi voca-boli. Un primo caso è dato dal «prestito» per così dire«inconsapevole»: shokhn per «vicino (di casa)», zshurnalper «rivista», «periodico», ad esempio. Qui il termine diorigne non germanica è l’unico disponibile e il problemadella sua origine è dunque sostanzialmente dissolto nellaquotidianità dell’uso. Un secondo caso, che riguarda so-prattutto e in notevole misura la componente semiticadello yiddish, si riferisce invece a quei vocaboli e a quel-

le espressioni per cui la lingua dispone di più versioni diorigini differenti: «eccesso» può rendersi con ibermos ocon oydef, «in effetti» può esssere faktish, eygntlekh, maanche leoylem; «migliorare» può corrispondere a beserno a mesakn zayn; in questi e in moltissimi altri casi, lascelta incide sul registro, talvolta impercettibilmente, tal-volta in modo clamoroso e la traduzione deve cercare didarne conto. D’altro canto lo spostamento di registro nonè a senso unico, l’assunzione di una versione semitica alposto di quella germanica può dar ragione di una sfuma-tura dotta o umoristicamente pretenziosa oppure, al con-trario, di un moto dell’animo più intenso e più immedia-to. Traducendo in una lingua che naturalmente non pos-siede questo tipo di risorsa è necessario, ovunque sia pos-sibile, rendere di volta in volta, con mezzi diversi –un’espressione colta, un termine inusuale o fuori registrooppure un’espressione popolare o altro ancora – le sceltedell’originale.

In ogni caso, se è vero che la felicità della traduzionerisiede soprattutto nell’equilibrio tra fedeltà e scorrevo-lezza, il ricorso a espedienti tipografici e redazionali (noteal testo e corsivi con rimando a un glossario) va dovero-samente contenuto, così come le soluzioni eccessivamentelunghe, che avrebbero forse diritto di residenza in un sag-gio, ma certo non in letteratura, anche se ciò comportasovente un’inevitabile perdita di complessità e di densitàsemantica.

Se dunque nel suo insieme il problema delle differen-ti origini linguistiche dello yiddish può essere affrontato

Angelo Vadalà, Venere allo specchio.

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con una certa adeguatezza, sia pure non priva di perdite edi sacrifici, la seconda questione a cui abbiamo accenna-to, la restituzione, cioè, dei riferimenti al complesso e ar-ticolato ambito rituale ebraico, rimane assai più aperta. Ladisposizione rituale dell’ebraismo orientale oppone infattialla comprensione da parte del lettore non ebreo e più ingenerale al lettore «occidentale» degli ostacoli non facil-mente sormontabili. La ragione risiede in gran parte nelrapporto tenacemente osmotico tra religione, ritualità equotidianità domestica della tradizione yiddish (rapportoche non sembra risolversi o quanto meno sciogliersi com-pletamente nemmeno nei casi di scrittori laici). Un’im-plicazione religiosa, che nel testo originale appare ovvia,può comportare problemi di comprensione se non vienesciolta nella traduzione, ma può altrimenti indurre soffe-renza nel lettore obbligato a sorbirsi nel testo un brevesaggio di esegesi dell’ebraismo. Si pensi all’uso del ter-mine kaddishim per «figli maschi»: il riferimento è alkaddish, la preghiera che (in primo luogo) il figlio ma-schio è tenuto a recitare in onore del genitore defuntodurante il primo anno dalla sua morte e a ogni anniversa-rio (la desinenza im indica il plurale). Appare chiaro cheuna traduzione letterale è impossibile e che un’improba-bile traslazione su un parallelo piano culturale potrebbesolo produrre confusione. In questo caso la scelta possi-bile è tra la censura del termine in traduzione e il mante-

nimento della parola originale non tradotta, con conse-guente rimando a una nota o al glossario.

Quale criterio adottare nella scelta? Pragmaticamentesembra opportuno valutare il contesto in cui il terminevenga utilizzato. Se il tenore espressivo è di medio livel-lo, se cioè si può convenientemente supporre che l’utiliz-zazione sia relativamente neutra rispetto al registro comu-nicativo, è probabilmente lecito operare una «normaliz-zazione» traducendo – nel caso – con «figli maschi»; seinvece il termine appare con una valenza in qualche modoaggressiva nel discorso, per un rimando umoristico o sar-castico, per esempio, alla tradizione, allora può essere piùopportuno restituire almeno in parte, con il vocabolo ori-ginale, il colore dell’espressione, varcando la soglia – esoprattutto imponendo di farlo al lettore – del famigeratoglossario.

Vi è poi un’ultima considerazione, che appare di nonpoca importanza e che potremmo definire «didattica». Segiusto il testo lo consente può convenire alla felicità del-la traduzione una certa disposizione all’accoglienza dellettore. Lo si lasci entrare un poco nell’ambiente e comin-ciare a familiarizzarsi con le stranezze di un mondo a luiestraneo, porgendoglielo con il minimo di difficoltà pos-sibile, sarà l’autore il miglior complice della traduzione,in un percorso che potrà farsi via via tanto più impegna-tivo quanto affascinante.

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di Julio Pérez-Ugena

JOSÉ ÁNGEL VALENTE A QUATTRO MANI:I FRAMMENTI VERSO LA LINGUA

L’idea di tradurre insieme con Gianni Scalia Fragmen-tos de un libro futuro per i Quaderni de «In forma di pa-role» è nata dopo aver tradotto, sempre a quattro mani,alcune poesie di Valente per il quarto numero del 1999della rivista, un monografico dedicato agli angeli.

Quando abbiamo letto il libro, volutamente postumo(l’autore è morto il 18 luglio del 2000, e l’edizione spa-gnola è apparsa nel dicembre di quell’anno)1, ci ha colpi-to, oltre alla bellezza di alcune poesie, il ruolo centraleche in esso ricopriva la traduzione: fin nel titolo (se pen-siamo che una teoria del frammento spiegherebbe, più cheuna teoria della replica o dell’equivalenza, la natura diquel particolare linguaggio, strappato alla propria matri-ce, che è proprio della traduzione) l’opera rimanda a essa.Ancora nel titolo è esposta la condizione di ‘resto’ dellepoesie che la raccolta contiene. Condizione questa di ognipoesia, ma che forse è più facilmente percepibile nellapoesia della poesia, nella poesia tradotta, che entra in unanuova lingua privata non solo delle parole originali in cuiè stata scritta, ma anche del fondo della propria lingua edella propria cultura, con gli echi e i silenzi relativi2.

Diario-itinerario, questo libro comprende anche dellecitazioni e delle traduzioni che più che affiancare il testo,ne fanno parte – come in altri libri suoi – collocati sullostesso piano delle poesie. L’irradiazione di questi braniall’interno di una nuova opera è in grado di donarle ori-ginalità, ma solo a patto che gli autori scompaiano, che siistauri l’anonimato nella poesia anche nell’esperienza più

strettamente biografica. Così troviamo delle versioni di LiPo, di Wang Wei, di Takuboku3, oltre a dei testi scritti dallostesso Valente che figurano come versioni di un anonimo:

CITTÀ del sud annegata nella pioggia.

Angeli di tristezzacalano i sipari.Nessuno.Il nulla.Improvviso nell’ombrail ricordo acceso dei tuoi seni.

(Anonimo, versione)

L’anonimato a vantaggio della poesia e della lingua ècoerente con la scelta di lasciare che sia la morte a met-tere la parola fine, come atto supremo della creazione,ultimo anello della catena delle prestazioni creative4. E latrascendenza della morte personale nell’opera o nellamemoria è anche evocata nelle elegie di alcuni numi tu-telari di Valente: così, nel caso di quella dedicata a PaulCelan e alla moglie Giselle, nella fusione con il loro de-stino e la loro parola, scrive: «Il giorno in cui questo gio-co senza fine con le parole finirà saremo morti» (Memo-ria di Paul Celan, nella morte di Giselle Celan-Lestran-ge, fine del 1991). E in quella dedicata a Federico GarcíaLorca scrive: «–Lo uccisero, diceva la donna, ma qui uc-

Je viens avant la rumeur des fontaines,au final du tailleur de pierre.

René Char

Tiziano, Ritratto di giovane donna allo specchio.

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cisero anche molti altri, tanti, quelli che adesso nessunopiù ricorda. –Lui non è più lui, le dissi. È il nome che pren-de la memoria, non estinguibile, di tutti» (Víznar, 1988).E, infine, nell’elegia a Giordano Bruno, leggiamo: «Ma tuancora ardi luminoso» (Campo dei Fiori, 1600). È chiaroche non si allude a una soppravvivenza dell’opera comemonumento, ma come frammento nella composizione diuna lingua più alta, non nostra: il poeta serve il linguag-gio, assiste alla generazione dei frammenti e del libro.

Tornando al titolo, certamente ispirato – come alcunepoesie e l’intero sottofondo dell’opera – al Livre di Mal-larmé e a Le livre à venir di Blanchot5, non credo che siapossibile definire se è il libro che forma i frammenti (Va-lente era ammirato della credenza ebraica secondo la qualeDio creò il mondo leggendo o guardando la Torà), oppu-re se i frammenti generano il libro, come il senso comu-ne consiglierebbe, soprattutto tenendo conto dell’agget-tivo «futuro» (che non deve essere interpretato come unaindicazione del tempo lineare, ma come un’apertura in-trinseca al tempo della poesia)6. La generazione, comun-que, non sarebbe conclusa dalla scrittura, e a mio avvisodovrebbe portare nel desiderio dell’autore (dai contornisempre più ambigui) verso la lingua pura, e cioè verso lapossibilità di contenere la morte, di stare anche con lamorte e i morti (non solo di essere relativamente allamorte)7. Questo desiderio appare in una lingua volta ver-so il silenzio, verso una materia non signata, depositariadella memoria universale («lo spirito è la metafora del-l’infinità della materia», ha scritto Valente) nella qualepotremmo finalmente ‘stare’, in una totale attualità, libe-ri dalla lacerazione dell’‘essere’, del senso e del tempo,in uno spazio anteriore a quello frammentato dalla paro-la umana.

Valente non distingueva nella sua scrittura, come altripoeti della modernità, tra prosa e poesia. La lingua diFragmentos de un libro futuro, disadorna, bianca, espo-sta per accogliere in molte poesie i morti (il figlio Anto-nio, i morti delle guerre, dei massacri, dei campi di ster-minio, poeti e filosofi), è esposta anche per accogliere dio,la sua memoria o la sua assenza, o gli uomini vivi:

SOLO la solitudine risuona lungauguale a coda o vento.Vengonodal vuoto le parole,ci possiedono nudi nel loro centro arsoe in esso ci disgeneranoper farci nascere.Ascoltacome nella solitudine sveglia,inudibile, la pura radice dell’aria.

(Seconda ode alla solitudine, frammento)

Come nella traduzione, momento «disgeneratore» emomento «generatore» del linguaggio si coappartengono.La lingua ci possiede, ci distrugge e ci fa nascere, infini-

tamente aperta, da questo punto zero (non a caso è que-sto il titolo che ha dato Valente a un ciclo della sua poe-sia)8, da questa pura radice dell’aria.

La radice dichiarata del libro che abbiamo tradotto èuna poesia di un altro pubblicato nel 1972, dal titolo Trein-ta y siete fragmentos:

SEPPE,dopo molto tempo nell’attesa metodicadi chi aspetta un giornoil secco colpo del caso,che solo nella sua omissione o nel suo vuotol’ultimo frammento sarebbe arrivato a esistere.

(Radice di Frammenti di un libro futuro.Frammento XXXVII di Trentasette frammenti)

In questa poesia, contro ogni logica, come ha osser-vato José Manuel Cuesta, «lui» e il frammento designa-no la stessa entità: solo là, nell’omissione e nel vuoto cheformano il frammento, questo (o quello) sarà arrivato earriverà a esistere come cosa ultima. Cuesta sostiene chel’io non può costituirsi in soggetto elegiaco perché il pro-prio duello è dapprima la sua spossessione di sé o la suamorte impossibile. Colui al quale e del quale risponde illinguaggio elegiaco della poesia è altro da un io, senzanome proprio, senza morte propria: tu. Nel tempo dellasua omissione o del suo vuoto, un libro futuro è la poesiache sarà scritta prima e sarà stata scritta dopo l’ultimoframmento. E nel tempo dell’ultimo frammento, la pre-senza della poesia è quella di un futuro anteriore che avràsaputo chi dice di aver saputo qualcosa. Tu. Valente, chiscrive, lui stesso, chiunque e nessuno seppe. La sua as-senza continua, venuta e da venire. La sua ultima poesianon sarà stata scritta. Ma resta quello che dicono e nondicono le loro parole. La radice del frammento9.

Credo comunque che questa poesia in questo conte-sto alluda a un’altra esistenza, già senza memoria propria,nell’assenza di ogni segno. «Sólo en la ausencia de todosigno / se posa el dios», ha scritto Valente in una poesiadi Al dios del lugar10. La parola frammentaria è legata allanostra mortalità11, non possiamo parlare la vera lingua ola lingua pura. Nel nono dei dieci asserti astorici sullaQabbalah, Scholem dice: «Le totalità sono tramandabilisolo in modo occulto. Il nome di Dio può essere invoca-to, ma non pronunciato. Infatti solo ciò che vi è di fram-mentario in esso rende il linguaggio predicabile. La ‘vera’lingua non può essere parlata, cosí come l’assolutamenteconcreto non può venire compiuto»12.

Sempre in una lingua umana, frammentaria, l’ultimapoesia del nostro libro recita:

CIMA del canto.L’usignolo e tegià siete uno.

(Anonimo: versione)

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Questa poesia, secondo Andrés Sánchez Robayna13, èla versione di un haiku anonimo. Nelle antologie di haikuche ho consultato non l’ho trovato. Sia che si tratti di unhaiku anonimo in una versione di Valente, o di un anoni-mo scritto da Valente come versione, chiude la sua operariuscendo, come aveva desiderato, a dire il massimo conil minimo dei mezzi, e anche a far ascoltare, prima che laparola, il silenzio. Molte caratteristiche di questo libro,come il valore dell’anonimia, il distacco al di là dell’og-getto e del soggetto, la sospensione temporale, la sobrie-tà espressiva, il silenzio, l’incompletezza, la presenza diuna stagione (nel nostro caso l’autunno), sono anche ca-ratteristiche tradizionali degli haiku.

Il canto degli uccelli è stato un argomento trattato daValente a più riprese in saggi come Le condizioni dell’uc-cello solitario, o Sulla lingua degli uccelli, dove tra l’al-tro si legge: «si ricordi che forme poetiche come l’haikuhanno, secondo Barthes, come finalità sostanziale nongenerare o provocare linguaggio, ma sospenderlo»14. Nellapoesia, scrive Valente, «si compie la nostalgia della dis-soluzione della forma, dove il linguaggio rimane sospeso(un no sé qué que quedan balbuciendo), fermo o abba-gliato da quello che in esso si manifesta, e dove, insiemeal linguaggio, entrano nella sua dissoluzione o nella suafana le nozioni di spazio e di tempo o la nozione del séstesso o dell’io». La lingua poetica – conclude – è statala lingua originaria del sacro in tutte le tradizioni, e «laparola poetica corrisponderebbe, nelle forme di esperienzaestrema [...] a quello che nel Corano si chiama la linguadegli uccelli. ‘E Salomone fu l’erede di Davide e disse:Oh uomini, ci è stata insegnata la lingua degli uccelli etutte le grazie si sono sparse su di noi’. Lingua nella qua-le è stata operata la distruzione del senso e la sospensio-ne del tempo: quella dell’uccello inestinguibile della can-tiga CIII di Alfonso X il saggio»15, nella quale un monacoche ascolta il suo canto rimane, incurante di tutto, a sentir-lo per 300 anni pensando che sia trascorso un momento.

Pur nella consapevolezza che la nostra specie non tro-verà mai il suo regno, c’è una tensione messianica nellapoesia di Valente, che credo sia visibile in tante poesie.L’ultima non dice certo la propria morte e possiamo leg-gerla come la testimonianza di chi crede di aver raggiun-to la vetta dell’arte poetica quasi al termine della propriaagonia, in una mimesis delle esperienze e delle teoriemistiche della lingua che tanto ha amato. Valente non èstato un mistico. Tuttavia, penso che nella specularità alla«Radice di Fragmentos de un libro futuro» esprima il de-siderio per lui-non-più-lui, e quindi per chiunque, per lasua poesia-non-più-sua, di accedere alla lingua pura, dal-l’ultimo frammento che noi abbiamo potuto leggere e tra-durre solamente come tale.

NOTE

1 J. Á. Valente, Fragmentos de un libro futuro, Barcelona, GalaxiaGutemberg-Círculo de Lectores 2000. La nostra traduzione sarà pub-blicata entro la fine del 2004 a cura dell’Associazione «In forma diparole» di Bologna. Alcune poesie erano state pubblicate in un volu-me dal significativo titolo Nadie (Nessuno) nel 1996, e altre in diver-se riviste e giornali. Ringrazio Antonella Anedda, Juan Barja, che miha permesso di leggere le sue riflessioni inedite sul libro, Julián Ji-ménez Heffernan, Fabio Scotto, e, ovviamente, Gianni Scalia. Nes-suno di loro ha letto la versione finale dell’articolo. I possibili errori,quindi, sono solo miei.

2 Vedi A. Duque Amusco, La muralla oblicua (poesía y traduc-ción), in Franco Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico,Guerini e Associati, Milano 1989, p. 263. Vedi anche Walter Benja-min, Il compito del traduttore, in Id., Angelus novus, p. 49, dal qualeè stato certamente ispirato Duque Amusco.

3 Valente non conosceva il giapponese né il cinese. Ignoro il pro-cesso di queste versioni. Molti anni prima aveva pubblicato una ver-sione di alcune poesie di Kavafis, senza conoscere il greco, consul-tando delle traduzioni e commenti in altre lingue e facendosi aiutareda Elena Vidal e da un’altra persona.

4 Così si esprime Mandel’štam a proposito di Skriabin in un fram-mento su «Puschkin e Skriabin» scritto nel 1915. Citato da G. Bevi-lacqua nell’introduzione a Paul Celan, La verità della poesia, Tori-no, Einaudi 1993, p. XXIX.

5 Vedi M. Blanchot, Il libro a venire, Torino, Einaudi 1965, pp.224-244.

6 Due citazioni precedono Fragmentos..., una delle quali, di JuanRamón Jiménez, recita: «Dio del venire, ti sento tra le mie mani». Inquesto libro Valente riprende temi e motivi di tutta la sua opera, evo-ca il figlio morto, medita sull’assenza, in una continua rammemora-zione. Tanquam centrum circuli, una poesia che narra una discesa allaricerca di dio, in minuscolo, inizia «La memoria ci apre luminosi /corridoi d’ombra». Credo che la dimensione futura possa interpre-tarsi, analogamente a quella dell’ebraismo, ma indipendente da ognidottrina, come la dimensione in cui «ogni secondo [è] la piccola por-ta attraverso la quale [può] entrare il messia». Vedi W. Benjamin, Sulconcetto di storia, trad. it. di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Ei-naudi 1997, pp. 57 e 160-1.

7 «Forse – ha scritto Antonella Anedda – noi non esistiamo cheper imparare l’alfabeto dei morti e per raggiungerli non appena sare-mo in grado di parlare la loro lingua. Forse chi è scomparso è soloassorto e basterebbe una parola non difficile, ma ancora sconosciuta,per farlo voltare verso di noi»: A. Anedda, Cosa sono gli anni, Roma,Fazi 1997, citata da V. Bonito, La culla aldilà. Su Giovanni Pascoli,in «Versodove» 11, Bologna 2000, p. 40.

8 Vedi J. Á. Valente, Obra poética, Madrid, Alianza Editorial 1999,I vol.

9 J. M. Cuesta Abad, La raíz del fragmento, in «La alegría de losnaufragios» 5 e 6, Madrid 2001, pp. 27-32.

10 J. A. Valente, Al dios del lugar, in Id., Material memoria, Alian-za Editorial, Madrid 1995, p. 192.

11 Vedi M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi1977, pp. 213 e ss.

12 Vedi W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 310.13 A. Sánchez Robayna, Premio funerario a un diario de vida,

«ABC», Madrid, 15.10.2001.14 J. Á. Valente, Sobre la lengua de los pájaros, in Id., Variaciones

sobre el pájaro y la red, Madrid, Tusquets 1991, p. 242.15 Ivi, pp. 241-3.

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