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COMUNE DI BRESCIAPROVINCIA DI BRESCIAASSOCIAZIONE ARTISTI BRESCIANI

salone dell’aab - vicolo delle stelle, 4 - Brescia5-19 luglio 2003feriali e festivi 15,30 -19,30lunedì chiuso

mostra ideata daClara Scarampella Lombardia cura di Fausto Lorenzi

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CLARA E GLI AMERICANI 4:AUTORITRATTO: TRACCE DI SÉFausto Lorenzi

Quarto appuntamento biennale di “Clara e gli americani”, nel singolareincontro tra l’artista italiana Clara Scarampella Lombardi e gli artisti, pro-venienti dagli Stati Uniti (ma anche da altri Paesi del mondo) che fre-quentano il Graduate Program della New York University a Venezia, di-retto da Angiola Churchill. La proposta è – di volta in volta – quella dimisurarsi su un tema comune, perché si mischino e si confrontino sguar-di e letture del mondo. Ci sono anche dei premi messi a disposizione dal-l’artista-mecenate Clara Scarampella, assegnati da una giuria.Tutto nacque nel 1996, quando Clara Scarampella – dopo essere stata vi-siting professor al Master di Venezia - provò a sfidare gli americani a met-tersi dal suo punto di vista, proponendo anche agli altri gli ”oggetti tro-vati” che, fotografati, costituivano il punto di partenza del suo lavoro. PerClara, che spesso crea sculture provvisorie con materie effimere (sabbia,zucchero, polistirolo, aria), le fotografa in bianconero e le riproiettaemulsionate su tela, per virarle poi manualmente con vari colori, diven-ta fondamentale il valore del rilievo, che perde ogni plasticità fisica peracquistare l’evidenza di un’immagine mentale, d’un fantasma psichico.Gli americani allora accettarono la sfida e, muovendo ciascuno da quel-le foto di “oggetti trovati” fornite da Clara, ma utilizzando ciascuno leproprie tecniche abituali, misero in forma altri modi di vedere. Ne sca-turì una rete di percorsi imprevedibili, contro ogni immagine data unasola volta per sempre. La sfida richiese a tutti di riconsiderare proprio ilprocesso che porta gli oggetti comuni, le cose trovate, dalla vita quoti-diana all’arte.La seconda volta fu proposto il tema “Presenza/assenza”. Diventò pertutti una riflessione sull’atto stesso del produrre immagini, che è proprioil tentativo di trattenere qualcosa che ci è caro, o che ci ha colpito in ma-niera particolare, nello sguardo. Nell’insieme delle opere emerse un’ela-borazione dell’immagine come forma di rivelazione sospesa tra luce eombra. Il disegno, la pittura sono proprio questo: il voler custodire nel-lo sguardo qualcosa che fugge e trapassa.Risultò così quasi naturale, per la terza edizione, proporre il tema del“Chiaroscuro”: l’occhio, sappiamo, non è innocente, e l’atto di guardaremodifica la realtà: noi vediamo ciò che crediamo di vedere, cioè quelloche ci aspettiamo di vedere. La vita non è che luce che appare e scom-pare. “Chiaroscuro” diventò così un tema minuscolo, quasi banale (il gio-co d’ombre) e insieme molto arduo e profondo, con gli artisti chiamatia riflettere sull’arte ridotta alle sue ragioni estreme di “luogo” generatodalla luce, e che resiste come spazio di memoria della luce, fondendosicol tempo.

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Ed eccoci al quarto appuntamento di “Clara e gli americani”, avviato nel2002 con la proposta del concorso a tema. Si è voluto ancora un temache zampillasse, quasi, da quello precedente, e “Autoritratto: tracce disé” è parso derivare da “Chiaroscuro” come un baluginare enigmatico:esiste una parte chiara, diurna del sentimento, della passione, della ra-gione di sé, e ne esiste una notturna, ambigua, oscura. Si è convenuto co-sì che l’autoritratto non dovesse essere quello classico della figura allospecchio, che rischia di essere accademico, ma che ciascuno dei parteci-panti al NYU Venice Program fosse invitato a raccontarsi in maniera in-diretta, magari più profonda, attraverso oggetti, o luoghi, o spazi, o luci, ocolori e calori. Cioè, che ciascuno si raccontasse attraverso le cose o iluoghi della propria esperienza, aloni, tracce e impronte della propriapresenza e del proprio vissuto, o attraverso umori, sensazioni, aspirazio-ni, passioni. Naturalmente con qualsiasi tecnica, pur sempre in dimensioni contenute.

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Proprio il percorso introspettivo dell’autoritratto caratterizza tutta lacultura occidentale nella ricerca dell’identità: nessun’altra civiltà, fuorid’Europa, ha indagato il volto come “corpo dell’anima”. In questo sensosi può paragonare il viaggio dell’arte d’Occidente all’inabissarsi di unasonda.In alcune culture primitive si temeva che il ritratto, come lo specchio, po-tesse catturare l’anima, o svelare le deformazioni e aberrazioni della per-sonalità. Certo lo specchio – cioè lo sguardo – segna la soglia tra il mon-do dei vivi e l’altro mondo.Dopo che la gabbia prospettica nel Quattrocento, col Rinascimento, s’e-ra imposta come forma simbolica del dominio sul mondo, proprio la rap-presentazione dell’identità umana fu la nuova sfida, e la “gabbia” fu offer-ta dalla fisiognomica che indagava il volto come specchio dell’anima. Lafisiognomica all’origine era «l’arte di giudicare l’indole di un uomo dal-l’aspetto» (magari “animale”).L’autoritratto può essere visto come un coagulo di problemi e d’indagi-ni epistemologiche, tra vissuto interiore e apparenza, a partire da Leo-nardo da Vinci che enuncia (in un foglio del Codice Trivulziano) che «ognicognizione principia dai sentimenti», fino all’individuo che alle soglie delNovecento scopre l’inconscio con la psicoanalisi, fino alle carni maciulla-te di Francis Bacon dove il ritratto è impasto psichico. Alle soglie del ’500, Leonardo fu il primo a porsi il problema dei senti-menti (“i moti dell’animo”, li chiamava) che condizionano le espressionidel corpo («farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostra-re quello che la figura ha nell’animo»). Per qualcuno, era già la prefigura-zione dell’inconscio, ma forse il cortocircuito è fin troppo fulminante:piuttosto, si potrebbe intendere l’energia psichica. Possiamo dire che il genere dell’autoritratto nasca nel Quattrocento, siain area fiamminga sia in area italiana: in quest’ultima, in alcuni affreschi gliartisti (Filippo Lippi, Masaccio, Botticelli…) inserivano il proprio ritratto,

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magari all’interno di una scena sacra, al fine di presentare se stessi peraffermare la nuova coscienza intellettuale del proprio mestiere e delnuovo principio di realtà che metteva al centro l’uomo. In seguito è do-veroso ricordare gli autoritratti di Dürer, che si raffigurò più volte – ad-dirittura anche nelle vesti di Cristo –; quello di Michelangelo, che nel“Giudizio universale” dipinse le sue fattezze sulla pelle scorticata di SanBartolomeo; e ancora Caravaggio, che si ritrasse nella testa di Golia de-capitato da Davide, in una tragica riflessione sul potere di vita e morte;Rembrandt che si rappresentò lungo tutto l’arco della vita, in un’intro-spezione attraverso più di sessanta autoritratti.Spesso l’autoritratto fu meno “intimo”, e fu piuttosto una celebrazionedi valori morali e civili della famiglia, del potere e delle professioni, traimpettita adesione sociale e pragmatica, e invece ordine severo, morali-stico e pedagogico, concentrato sulla figura e pochi oggetti presi dalla vi-ta di tutti i giorni, ravvicinati allo spettatore.L’arte si accompagnò tra ’500 e ’700 anche ai trattati dei fisiognomici, dalLomazzo al Della Porta, dal Cardano al Le Brun (con lui alla corte del ReSole la fisiognomica si impone come selezione sociale); da Cartesio (il“Trattato delle passioni”, come dire un’anatomia dell’anima) al Lavater eda Hogarth (nell’Inghilterra settecentesca del nascente romanzo concor-se alla definizione, nelle peripezie della vita, di personaggi a tutto tondo,dove il carattere è ben distinto dalla caricatura), fino agli antropologi ecriminologi ottocenteschi, ultimo il Lombroso, vittima della sua stessaantropologia criminale nell’autopsia che gli fece un collega che, attingen-do beffardo al suo metodo tassonomico (che faceva anche della devian-za un problema di geometria di indici cranici), lo scoprì nel 1909 «affet-to da cretinismo acuto». Ma ormai, nel 1900, Freud aveva pubblicato“L’interpretazione dei sogni”, testo fondante della psicanalisi. Freud rico-nosceva agli artisti la capacità di averlo preceduto nella conoscenza delmondo psichico: «Probabilmente – diceva – traiamo acqua dalla stessasorgente, lavoriamo sullo stesso materiale, ciascuno di noi con differen-te metodo».Fra gli antesignani del “mostruoso” nutrito di sostanza umana erano giàavanzati, alle soglie dell’Ottocento, Füssli e Goya. Già con loro trovava-no udienza nella pittura le zone oscure della ragione umana. Il primo Ot-tocento si era poi sciolto nella dimensione romantica della genuinità del-l’anima e dei sentimenti, ed esplorava la follia con vocazione quasi dia-gnostica, fino al Van Gogh che si scruta come rattrappito nello spazio, inpostura da malinconico. A questo punto, prima si fugge dalla propria storia e faccia occidentale,cercando di vivere una vita “ingenua e innocente” nei Mari del Sud (co-me Gauguin), poi il Novecento racconta la progressiva dissoluzione del-l’identità, dalla Parigi deragliata di Modigliani, Matisse e Soutine alla Vien-na freudiana (Klimt, Gerstl, Schiele), alla Germania del sarcasmo espres-sionista (Dix, Hubbuch, Grosz, Meidner...).Da questo momento era già impossibile rappresentare un uomo senza

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metterci dentro l’inferno o il paradiso, dalla verità di malinconico, impe-netrabile scacco degli autoritratti camufatti e stravolti di Picasso, che rac-contano quante facce (identità) convivono in un uomo, a quelli febbrili espiritati di Munch, carichi di quello scrutarsi narcisistico, mesto e im-bronciato, che accompagnò tutta la sua vita (anche nell’uso della foto),per poi scavare il dato emozionale e psicanalitico; all’impossibilità di met-tere le mani sul reale nel “ritirarsi indietro” dei volti di Giacometti; al-l’essere al mondo come uno sputo dell’uomo “sfigurato” di Francis Ba-con che si riconosce soltanto in scarti di macelleria, ammassati al centrodella scatola prospettica rinascimentale diventata luogo di prigionia-in-cubo, sicché si percepisce, come già diceva il poeta Rimbaud, che “Io è unaltro”.Le passioni umane non si rivelano più sui tratti cangianti del viso, ma nel-la loro dissoluzione. Ci si inoltra in una zona oscura, anche dolorosa, benoltre ogni pretesa descrittiva e classificatoria. Ecco perché il modo con cui ci si propone di tracciare il proprio auto-ritratto è anche una scienza dell’umano: indaga la consapevolezza chel’uomo ha assunto di se stesso nei secoli, e quella che prefigura davantia un futuro minacciosamente mutante. Nella scuola psicanalista freudia-na ci fu addirittura chi, come il viennese Hans Sachs, futuro maestro al-l’Istituto Psicoanalitico di Berlino, sostenne che bisognasse respingereaspiranti analisti privi di sensibilità e di interessi estetici. La rivoluzioneportata da Freud e dai suoi allievi nello studio psicoanalitico dell’arte fuquella di spostare l’attenzione dall’opera creata all’artista creatore. Apartire dall’opera compiuta, essi ritenevano di poter rintracciare sia labiografia più o meno problematica dell’autore, sia i processi inconsci chequell’opera avevano generato.

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Torniamo alle impronte del corpo e della mente: una esplorazione delletracce, sagome e ombre d’un’identità umana, quando non pare più chesia possibile essere nel corpo e insieme vederlo dall’esterno come se l’a-ria fosse uno specchio che lo circonda. Oggi, nell’età della tecnologia vir-tuale e dei media impalpabili, l’uomo che si specchia è già clonato, sosti-tuito dalla sua immagine riflessa.Si incrociano più nodi tematici: il concetto della fisionomia, la sua inter-pretazione estetica e scientifica; il concetto di individuo, di personalità;l’identità sociale ed il modo in cui viene percepita; il corpo come ogget-to di identificazione, come rappresentazione o come critica; il corpo el’introspezione, scientifica e spirituale.Il poeta, scrittore, drammaturgo Antonin Artaud, “troppo più surrealistadei surrealisti”, autore anche di alcuni autoritratti insani, terremotati,scrisse nel 1947, da poco uscito dal manicomio: “Il viso umano non haancora trovato il suo volto. Dopo mille e mille anni che soffre e respira,il viso dell’uomo è ancora un campo di rovine”. Fino alla soglia del ’900,l’arte si compiaceva della misura della bellezza, nel cercare le proporzio-ni di un viso e di un corpo. Poi sarebbe venuto un combattimento tra re-

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staurazione della norma fino al totalitarismo e sua eversione, per un cor-po che aveva perduto il senso della sua globalità (già le “macchine celibi”di Duchamp e Picabia preannunciavano l’automa, lo sterminatore a co-mando e la carne da macello voluta dalle dittature). E dopo la guerra, ladisfatta dell’umano, il corpo si sarebbe inabissato nella materia. Ecco chel’autoritratto già si volgeva alla stessa impronta, come nell’impasto dolo-roso degli “Otages” di Fautrier, o alle torture del Crocifisso, come nellaangosciante body-art degli azionisti austriaci degli anni ’60, Rainer, Brus,Nitsch e Schwarzkogler, che cercavano la verità nel “sacrificio” del pro-prio corpo martoriato. Ma alla fine degli anni Sessanta del Novecento, con i movimenti giovani-li in tutto l’Occidente, c’era stato un ritorno fortissimo della “sanità” delcorpo: “L’uomo credeva nell’eguaglianza, nella libera sessualità, nell’elimi-nazione delle malattie, nel progresso illimitato delle tecniche. Aveva fini-to per credersi immortale”, annotava Jean Clair nel 1995 curando la mo-stra del centenario della Biennale di Venezia, intitolata proprio “Identitàe alterità”, su cent’anni di storia del corpo e del volto in arte. Ma subitodopo ci si sarebbe ritrovati a fare i conti con malattie più virulente chemai, manipolazioni biogenetiche, nazionalismi, fondamentalismi religiosi,massacri etnici e tribali, guerre imperialiste, economie precarie, fino aconsiderare il progresso delle tecniche quasi come una sostituzione, lascomparsa dell’umano nell’uomo. Sicché si chiede agli artisti, nel temadell’autoritratto, quale sia la zona segreta, l’intimità e la solitudine in cuiun essere umano si rinchiude come in un rifugio inaccessibile e sacro, difronte ad un apparato tecnico-scientifico-sociale di esasperata raziona-lizzazione, in realtà irrazionale e disumano, che impone all’individuo l’os-sessiva necessità di dimostrare la propria esistenza. L’arte degli ultimi decenni ha imparato ad osservare la vita, l’identitàumana, l’irriducibilità di un uomo a un altro, nei piccoli particolari in cuianche sbadatamente si rivela.Le nuove tendenze ci dicono che vita e ar-te si stanno confondendo: tutti sono in cerca della propria identità bio-logica, psichica, sessuale, culturale, etnica. La riaffermazione dei confinidall’Altro, anche solo in tracce, feticci e secrezioni che testimoniano per-sino ossessioni e fobie psicosomatiche. Oggi non si parla più di identità, ma di “psicosoma”, per segnalare quan-to questa identità sia sfuggente e mutante, sul confine delle situazioni edelle relazioni col mondo. Si è in bilico tra il “già visto” – cioè l’adesionea codici definiti, storici, pubblici e pubblicitari – ed un volto e un corpoche hanno confini mobili ed occasionali.Il tema dell’autoritratto è tornato prepotentemente al centro della sce-na dell’arte negli ultimi anni: prima, sembrava ormai che l’oggetto avessechiesto all’“io” di farsi da parte. Oggi ci si chiede se il ritratto possa an-cora tracciare un precario contorno dell’“io”, prima del suo sfaldamen-to, del suo annullamento nello stereotipo che, quanto più dà risalto, tan-to più assorbe nell’anonimato, nel consumo indifferente. Ecco, oggi, lapresenza ingombrante, esasperata, del corpo come “oggetto di identifi-

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cazione”. O gli artisti come ultimi artigiani, come coloro che stanno sem-pre ai margini della società, a difenderne le differenze, contrapponendoanche elementi vernacolari, gergali o settari alla cultura popolare mas-smediale. Ma affiora un senso di disagio e minaccia, sul piano sia dell’e-cologia e della memoria antropologica, che della dimensione fisica e psi-cologica quotidiana. Certo, nel ritratto contemporaneo, si constata co-me la figura sia ormai offerta come un testo all’interpretazione dellospettatore: l’identità è sottomessa all’immagine.

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La maggior parte dei concorrenti della NYU ha scelto di far prevalerenell’autoritratto l’esperienza del sentire, del flusso di sentimenti che fa lavita. In catalogo, ciascuno ha anche scelto di presentarsi – a volte con po-che parole, a volte con schede più ampie –, spiegando il senso del lavo-ro fatto per la quarta edizione di “Clara e gli americani”. Così poi ha fat-to anche Clara Scarampella Lombardi, che si racconta in un’installazionecome bilancio d’un intero percorso di vita.

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Dominic Albo si proietta come un’ombra fugace su una saracinesca,come se interrogasse lo sprofondamento della propria presenza “attua-le” in una distanza inafferrabile. Ma, fissando l’immagine su legno, cercadavvero di trattenere l’attimo di vissuto, e va chiedendosi che rapportocoi luoghi attraversati e che “ingombro” abbia come persona che passaper strada lasciando una traccia labile. L’uomo non è che il sognod’un’ombra, alla luce assoluta può solo dissolversi.

Ioanna Angelopoulous svolge una ricerca concettuale su tutta unatradizione (di storie di popoli, di culture, di vissuti sessuali e sociali) checoncorre a tessere un’identità individuale: il passato greco dei suoi geni-tori e la modernità dell’America in cui vive si fondono nell’opera che as-sembla in un pendaglio un cerchio di telaio, un tessuto di lino e un filo dinylon sintetico, la carta velina e le puntine che fissano precariamente. L’i-dentità è questo tessere e ritessere il tessuto di un’esistenza individualesul crinale d’una storia eterna di corsi e ricorsi.

Julie Armbruster si identifica con un manichino in cerca di contatto,d’una mano che la vivifichi, le imprima con un vestimento un moto di vi-talità. L’abito, il velo in attesa di rivestire un corpo – come il soffio cheinsuffla il respiro – sottolinea un’incertezza tra identità e simulacro:un’ansia di appartenere al respiro del tutto, all’incessante, metamorficaenergia dell’universo, piuttosto che fossilizzarsi in una forma canonica,sempre identica.

Lori Bauman ci fa inciampare nel suo “ingombro”: una foto di figura ab-battuta (è una statua di partigiano) tra indumenti in una cassetta, comed’una nomade ridotta a fagotto gettato fra i piedi dei passanti. C’è il ri-scatto dell’oggetto più vile e banale nello sguardo dell’artista, un’idea divita come tolleranza e attraversamento della precarietà, contro certe

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voglie totalitarie di certezze e verità tutte d’un pezzo. Spinge verso mar-gini estremi dell’esistenza: il confronto col trash, con una condizione dideriva, è una messa in stato d’allarme e vertigine, nell’insicurezza di chiè privato del senso del futuro.

Josana Blue ci racconta che il prezzo dell’identità “socialmente accet-tata” è oggi l’adeguarsi alla moda, è la banalità d’una presenza senza mi-stero, uguale a tante altre. L’umanità che conserva in pieno l’involucro delcorpo, ma come svuotato dentro. Allora il doppio del suo ritratto è nelrovescio degli stereotipi, nel flusso di scrittura come capacità ancora difar sgorgare una presenza “misteriosa”, lirica e sensuale, attraverso loscorrimento della linea. Se l’immagine è banalizzata, tocca alla parola re-stituirle l’aura.

Susan Kendall Bradford imprigiona invece una figura nuda di primiti-vismo espressionista incidendola in una lastra di rame. Nella donna-to-tem, nella nudità a contatto con la natura, immagina la pienezza in sensoesistenziale, di un’umanità riportata a una vita elementare. Ma lo spazioin cui allontana e stringe la figura, come un’icona sacrale, una divinità pri-mordiale, rivela tutta la distanza che la separa da questa possibilità di ar-rivare alle radici della vita, oltre ogni travestimento.

Josephine Brown fonde esperienza quotidiana e mitologia, immedesi-mando la sua esperienza alla Regata veneziana del Redentore – il ritodello sposalizio con l’acqua – con l’immersione in un’energia senza mi-sura, in un ritmo di metamorfosi. Ritrova se stessa nel sentimento me-tamorfico della realtà, come ritmo che viene dai suoi antenati americanie insieme da tutte le esperienze – anche di tradizioni d’arte – che attra-versano la sua vita. Una rifrazione d’onde psichiche, un’architettura fan-tasmagorica di intensità avvolgente e pervasiva.

Lauren Brown davvero pare risuscitare il ritratto tradizionale allospecchio, di profilo, in una cornice di tasselli e borchie d’alluminio. Ma lospecchio riflette e riverbera la sua fotografia, e la grande cornice metal-lica fa sì che gli spettatori si riflettano a loro volta, in un riverbero spez-zato. L’autoritratto non può che essere frantumato, immesso in una re-te di relazioni, di sguardi anche casuali. Sicché l’artista ritratta assiste aquanto le capita attorno, davanti all’opera, in un rispecchiamento all’infi-nito, l’una negli altri e viceversa.

Kim Celona propone l’autoritratto come ostensione, progressivo di-svelamento, nel volto offerto a metà. L’oro dei capelli sembra ricordarecome ogni vita voglia trascendere nel mito, ma insieme c’è tutta una geo-metria che sembra voler misurare, definire con esattezza – quasi cer-casse di stirare le volute delle chiome – le coordinate di una personalitàche non può che restare enigmatica, protetta dal suo parziale mistero.L’identità non può che essere questa miscela di manifesto e segreto. Cidice che il ritratto resta pur sempre un momento in cui un essere uma-no ha paura ad esporsi ad un giudizio fissato per sempre, nel tempo.

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Yiye Cho si riduce a una donna-massa, una qualunque cittadina identi-ficata da un codice a barre. Dice che la nostra società ci classifica e re-gistra sempre di più, in ogni momento della giornata, ma in realtà ci sper-sonalizza totalmente, indifferente alla nostra realtà profonda, ma anchealla nostra stessa faccia (tanto più che ora anche quella è “intercambia-bile”). La difesa, in Cho, è la mano che simula le linee del codice a barrecome impronta sensitiva, in diretta connessione con la sua identità piùprofonda.

Jill Gogal si identifica totalmente in un universo di simboli e cifre. L’i-dentità è questa convocazione di più destini, questo trovarsi – con gli al-tri – all’incrocio di simboli e cosmologie. Simboli iconici e numeri sonoegualmente le cifre d’un rebus che prova ad azzardare una soluzione alcaos inafferrabile che diciamo identità: un mirino, un occhio, un numero(l’età?) altro non sono che un appiglio per ricordare, per tracciare unastoria. La vita di ciascuno, infatti, si dà come racconto, anche nella sem-plice enumerazione di ore, giorni, anni.

Michelle Kurlan si racconta per metafora, in un volo d’ombrelli in baliadel vento, lei come un magico astro sognante: è come se volesse scartoc-ciarsi da strati di protezione, si schiudesse come un cielo che si sgombradalle nuvole. Una figura-paesaggio, affidata a una linea avvolgente, melodi-ca, che si riconosce nel sogno d’un abbandono languido, molle e mansue-to ad una universale fratellanza, concedendosi agli sguardi degli altri.

Louise Lepore ci consegna un nudo di schiena che volgendoci le spal-le ci dice tutta la gelosa custodia della propria intimità, la pelle come tra-ma che protegge. Gran parte del dorso è in ombra, un raggio di luce neinveste solo una piccola porzione. Ancora una volta, l’identità come unmistero, probabilmente nel mancato incontro con gli altri, che solo quan-do la persona è ormai passata oltre, nel cammino della vita, riescono aintuirne un barlume di verità, o a rimpiangere l’occasione perduta, nel-l’incrocio mancato. Ma c’è anche una verità del vissuto che si depositasul “vissuto” della pelle: bisogna saper interpretare tutti i segni del cor-po, per trovare, come in un disegno o in un colore sottopelle, le traccedell’identità.

Bethany Ann Kitson Maixner imprime un’impronta magmatica – coninchiostro e pigmento su una lastra di rame – come fosse un’immersio-ne nel calore della vita, un bruciarsi nel fuoco dell’esistenza. Ma questocontatto con la vita, ci dice, nasce da una lunga meditazione, da un ritua-le di concentrazione. L’impressione a inchiostro, con le varie ombreggia-ture e densità di stesure per suggerire il campo di profondità, rimanda auna proiezione dello spazio interiore in corrispondenza con il respirocosmico. A cercare, dunque un rapporto armonico con le energie dellanatura.

Janice Martin lavora sul ritratto d’un volto sospeso sul limite dello sve-lamento: anzi, la parte in ombra è più definita, s’approssima alla vista,

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mentre quella investita dalla luce è immersa in una cecità lattea: solo unaluce mescolata di tenebra aiuta a vedere, altrettanto l’identità allo spec-chio non è che un’oscurità rischiarata, una zona fragile da esporre conprudenza. Invita a scivolare con lo sguardo in una coltre nebulosa: senzal’ombra, l’oscurità, senza il mistero che ci attrae, una persona non è piùtale: è pura trasparenza, non più umana, dissolta.

Laura Merage incassa nel legno una fotografia che pare colta duran-te una seduta spiritica, ma è un fantasma interiore, come l’imbriglia-mento di un’energia psichica, di qualche oscura pulsione dell’istinto.Nell’autoritratto, che nel bianconero sembra infiammarsi e crepitare,affiora un’animalità difficilmente controllabile, e l’artista si inserisce inun filone di ricerca affascinata dagli abissi dell’inconscio e dalla scoper-ta della vita moderna come nevrosi. L’impronta fotocinetica è dram-matica e insieme sarcastica, irridente. Rappresentarsi è un riconoscer-si anche nella liberazione di istinti selvaggi e di sogni agitati e grotte-schi, felici e paurosi.

Manola Moretti, d’origine italiana, realizza a collage un’opera su duefacce, in cui racconta la favola d’un mondo femminile come giardino pa-radisiaco, d’innocenza assoluta, con la candida fanciulla, lieve come unafatina, immersa in un nugolo festante di coloratissime farfalle, o vicever-sa una mano maschile come ambiguo segnale di forza e di violazione, inuna fascinazione sospesa tra protezione e minaccia. La donna sospesa traun’educazione di sentimentalismo favolistico civettuolo e cicaleggiante,d’ammicco complice e feticistico, e la scoperta dell’aspra fisicità dell’in-contro con l’altro da sé. Non può che essere un incontro-scontro traforze opposte, quello tra femminile e maschile.

Lori Robinson avvolge un cubo lievissimo, di carta velina trasparente,entro un fiocco di garza, quasi un velo di tulle da sposa. Il cubo racchiu-de simbolicamente, come il corpo che simboleggia, gli elementi primi del-la vita, e nella sua perfezione incarna la sacralità della vita stessa. Con ungesto semplicissimo, ci dice la fragilità miracolosa della vita, e ce la con-segna come una promessa augurale – come in un rito di nozze –, ma an-che come una presenza delicatissima da conservare, un soffio unico e ir-ripetibile da non disperdere.

Anisa Romero dipinge a olio su pannelli di rame uniti da borchie,come cucisse e suturasse delle pezze di vita: è come se il suo corposi dilatasse in una massa fluida e magmatica fino a coincidere col mon-do, nella percezione insieme dolente e gioiosa del sacro della vita, neisuoi elementi primi e primari. L’adesione si fa spasmodica, accompa-gnata com’è dalla costante minaccia della rottura, della morte. Biso-gna accettare anche gli strappi e le frange, in una miscela di paure edi speranze. La natura è qui come una madre sollecita, ricca di linfemedicamentose che rimarginano tutte le ferite dell’esistenza indivi-duale.

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Natasha Rubirosa si “pietrifica” sotto uno strato di cera, a dire tuttala sua esuberanza fisica, la sua ansia di comunicazione universale con lapresenza viva del corpo e della sua espressività, ma insieme si distanziae così si pone alle origini del mito, nel potere d’incantamento senza fined’una Medusa, che pietrificava chiunque incontrasse il suo sguardo. Si di-rebbe che s’interroghi sulla possibilità di dare testimonianza – sfidandoil tempo, nell’immagine di sé allo specchio – d’una vivacità e d’un calorepieno d’affetti. Sicché l’immagine ci è consegnata come fosse già dilavatadal tempo, come un’“animula” tremula che reca lo struggimento di unaestrema, vera e calda presenza.

Lisa Solomon si vede irretita in un inestricabile groviglio con elemen-ti organici e inorganici, a legare la propria storia individuale a un senti-mento di forza vitale come “scheletro” che sorregge esseri umani, pian-te, fossili e formazioni geologiche. L’autoritratto è allora come chiuso inun bozzolo di forme naturali avvolgenti, ma a loro volta avvolte dallo spa-zio tracciato da un disegno che cuce, che trama una sorta di tessuto ac-cidentato e spinoso dell’esistenza.

Marcia Stuart brucia tutto, la tela di sacco e il rame che l’accoglie co-me un corpo strappato. Qui la tela grezza non è altro che “materia cheaccade”, che vibra in un ritmo biologico e psichico, agitata dall’energiastessa che trasforma e plasma la vita, che infligge colpi e ferite ad unacarne dolente. Qui la materia povera è trasformata in una struttura este-tica che libera una voce autenticamente umana, come se l’artista agissesu un corpo di pelle, nervi e sangue. E buchi, lacerazioni e bruciature so-no come emozioni, sussulti e imprevisti, delusioni e ultimi miraggi (bastaun semplice luccichio di metallo).

Jaki Sungail si affaccia come da un oblò nel centro di un grande zero.Dice così di essere erede della visione trascendentalista della natura, cheaccompagnò l’America puritana della Frontiera e ancora animò la dram-maticità gestual-esistenziale dell’espressionismo astratto. È come se vo-lesse rinsaldarsi nella Madre Terra, ma in un gusto del reale come cam-mino concreto, verso una Terra Promessa. Traccia un cerchio attorno asé, come in una danza sciamanica, che trattenga la scia energetica dellasua presenza, e insieme la restituisca al Tutto universale.

Champ Taylor si proietta tutto in un luogo, identificando se stesso fi-no in fondo come colui che guarda, o, meglio, identificandosi con un sen-timento visivo. C’è l’idea, nello spazio “con otto angoli” fotografato emesso sotto vetro, d’una storia dell’uomo che cerca e lascia una sua mi-sura entro precise coordinate, e che altrettanto persiste nel dosaggio diluce di un certo spazio. Quella sua esperienza affida a una busta, a co-municare il suo passaggio, il suo già essere “altrove”. In fondo – ci dice –l’artista cerca di uscire dal mondo, per poterlo guardare davvero.

Audra Tolbert sceglie anch’ella di raccontarsi attraverso un luogo fo-tografato, ma non uno spazio vuoto di presenza umana, bensì un interno

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domestico carico d’oggetti accumulati disordinatamente tra il tavolo, lesedie e gli elettrodomestici. L’autoritratto come esperienza, come tran-sito da una situazione all’altra. Alle cose ed agli abiti che si accumulano èdelegata la testimonianza su una condizione di vita casuale e mutevole,in attesa di prendere ordine, stabilità. E forse anche l’idea ogni volta d’uncorpo dismesso, come di farfalla che vola altrove, lasciando tutta la za-vorra del bruco.

Gilbert K. Trent seziona il suo corpo maschile, come lo vedesse splafo-nato in una metamorfosi e moltiplicazione dei punti di vista, ma anche inun corpo a corpo d’urgenza vitale, e insieme lo attraversa con scritte.Rompe l’organizzazione formale in cerca di un’animazione interna, diun’energia arcaica, primordiale. Ecco perché dissalda i volumi, analizza leforme del corpo compenetrate nello spazio. Anatomie di figure eterna-mente quotidiane, condensato di forze solide e primigenie, e di impulsielementari.

Daniel Vernola sceglie una cornice sontuosa, di intaglio sovraccarico,per “schiacciare” un autoritratto fotografico che si sottrae ulteriormen-te, perché compare spiando dietro una colonna, e col viso celato da oc-chialoni scuri riflettenti. Dietro la cerimonia delle convenienze, una so-stanziale reticenza. La cornice così sontuosa rievoca anche la funzionecerimoniale e celebrativa dell’autoritratto nel passato, in cui l’artista adesempio si rappresentava in tutta la sua coscienza del proprio ruolo edella propria abilità: ora l’artista discende da una solenne tradizione, maè come spaesato, prossimo al risucchio nell’anonimato.

*

Clara Scarampella Lombardi ha scelto di invitarci ad un percorsonella sua vita, in una conturbante esplorazione di documenti autobiogra-fici come esperienza percettiva che ci ammette negli stati di autoco-scienza. Clara, anche utilizzando tecnologie digitali, sa conservare unosguardo lento, sottilmente analitico, la memoria visiva come gelosa visi-tazione dei fantasmi dell’anima, piegandosi con sommessa ma ostinata te-nacia – e un pizzico di ironia, dolceamara – a raccogliere la continuitàsfuggente e proteiforme della vita, dei bisogni e degli affetti. Così i suoiautoritratti non stanno più nella pelle, entrano in un gioco di sabbie ed’ombre, e finiscono col dare corpo alle parole. In partenza, è il corpo dell’infanzia, che viene a coincidere col mondo, dareinventare a piacimento, nella bimbetta che addenta il cibo sulla spiag-gia, tra acqua, terra e cielo. Il cuore è rosso, guizzante come un pesce. Al-la fine del percorso, è il dialogo stesso tra fotografia, solo ombra, e pit-tura e scultura, la materia concreta in cui si rapprende la luce e, quindi,l’esistenza, con le sue “voci di dentro”. Clara da molto tempo lavora ad una raffinata raccolta di tracce, di im-pronte di polistirolo, di sabbia, di terra, di neve, di cemento, di catene ar-rugginite, di zucchero, di cortecce: ne fa sculture, creazioni fugaci, ma re-cuperate esclusivamente attraverso la foto emulsionata come un filtro

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del tempo perduto, la pelle delle cose fatta pelle dell’anima. Così, da sem-pre ha posto il problema di come si possa archiviare l’esperienza, il mi-stero del vissuto che fugge e si fa polvere. Ma è proprio da quella polve-re – il granello di sabbia, il pugno di neve, il cucchiaio di zucchero, il fram-mento di visione – che si possono attingere energie vitali. Le foto di alcune tappe della crescita, così come le cose trovate sul cam-mino, acquistano il rilievo di custodi della magia dello sguardo. Basta“ascoltare la vista”, per sentire le voci del cuore, per continuare il giocodi una bambina che costruiva – e disfaceva – sulla sabbia tutti i suoi so-gni. Quella stessa bambina, in un portarolo a trittico, posa in un ritrattocompunto da prima comunione, un gran fiocco in testa virato dall’artistain verde-speranza, mentre le ante rivelano un doppio mascherone o to-tem di sabbia, anch’esso tatuato di verde, come in un rito propiziatorio.Quella bimba poi è diventata donna, posa in un profilo denso di “gla-mour”, lo sguardo carico di stupore davanti alla vita, mentre sullo sfon-do si proietta l’ombra di catene pendenti, che già segnano l’azione in-combente del tempo. La bambina sulla spiaggia, il totem di sabbia – senza più tatuaggi augurali– tornano alternativamente a scandire il percorso: il gioco della vita, ite-rato, dilatato, ingigantito, nel suo costante costruire sulla sabbia, e il suoprogressivo scorticamento. Torna il pesce-cuore, boccheggiante “muto”e spolpato. Vi corrisponde un autoritratto drammatico, sofferente esmunto, nell’elaborazione digitale di un vecchio lavoro a carboncino, or-nato come in vezzosi lavori di ricamo, ma che si rivela un campo di tor-menti aguzzi, nella limatura tagliente d’alluminio. Poi torna la speranza,l’aspirazione a una visione d’assoluto, l’astrazione di un sogno puro: Cla-ra si ritrae in un abbandono quieto, in soffi e aliti di luce di luminescen-za zuccherina. Un doppio cuore “irretito” segna il pulsare parallelo dell’amor sacro edell’amor profano, del cuore puro e della passione dei sensi: la scrittaunisce i due mondi, “Amare è permettere di abusare”. Quella bimba che con un piedino cancellava tutto, sulla sabbia, può in-carnare il destino, ma in una serena accettazione. L’installazione-autori-tratto si compendia nel titolo “Sola”: “Tu sola, vieni qua”, mi richiamavasempre mia madre, racconta l’autrice. Si affronta soli le peripezie della vi-ta, ma con una rinnovata, costante disponibilità ad attingere all’amore, al-l’incontro. Come le creazioni di sabbia e d’aria, anche la vita svapora manon va persa, resiste nella luce donata a chi si è amato e ci ha amato. Lapelle delle cose non si perderà mai, se sarà diventata la membrana del-l’anima.

Le immagini che accompagnano il testo introduttivo sono relative ad alcune operedelle precedenti edizioni di “Clara e gli americani”.

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gli americani

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“l’autoritratto”autoritratto – Veneziafotografia su legno con plexiglascm 50 x 50

Dominic Albo65 Morton Street, Apartment 4L – New York City, New York 10014Tel. (212) 243 [email protected]

CURRICULUM VITAENato a Salt Lake City, Utah.Laureato in Storia dell’Arte ed in Economiaalla Fairfield University nel 1989.Attualmente risiede a New York City.

POETICAUn diario visivo di come mi vedo in questo mondoE dove mi trovo FiguraSimboloMovimentoGestoOmbra

La passione per la vita quotidiana è quello che m’interessaLa mia opera rispecchia il movimento della vita

ColoreEnergiaFrammentoPassioneLuce

L’impatto della presenza ed il movimento

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“l’autoritratto”passi senza titolicerchio del telaio, lino, filo di nylon, carta velina, puntinedimensioni variabili

Ioanna Angelopoulous421 W. Marion – Prospect Hts., Illinois 60070-1423Tel. (847) 670 1833

CURRICULUM VITAENata il 19 gennaio 1976 a Chicago, da genitori greci, Maria e Dimitris. Ha unfratello più giovane che, al contrario di lei, lavora come ingegnere elettrico. Hacompletato i suoi studi alla University of Iowa nel 1999, ricevendo ben tre lau-ree: in Storia dell’Arte, in Pedagogia delle Belle Arti ed in Belle Arti con spe-cializzazione in disegno. Ha incominciato la sua carriera come insegnante discuola elementare a Palatine, Illinois, dove continuerà il prossimo anno acca-demico. Ha celebrato le sue nozze il 22 settembre 2002.

POETICAHo esaminato il tema dell’autoritratto come uno stato dove la presenza cam-bia continuamente, e l’ho relazionata ad un dialogo d’esistenza e di ricordo.Tramite un viaggio di riflessione, normalmente esamino gli aspetti significantidella tradizione e l’impatto della cultura greca su di essa. Le tecniche, i processied i materiali utilizzati vanno oltre i confini della tradizione e sono una speri-mentazione sui concetti in un linguaggio contemporaneo. Ho espresso il temadell’autoritratto utilizzando condizioni minimaliste e monocromatiche, rag-gruppando elementi effimeri come cerchi di telai, filo di nylon e figure a man-dorla. Quest’opera recente contiene uno degli elementi che richiamano la rifles-sione, facendo riferimento alle tradizioni del passato: il cerchio di telaio.Altri elementi sono sistemati dentro e attorno al cerchio per dare sostegnoalla base. Dal fatto che la base non è ricamata e gli elementi hanno funzioneteorica, si traduce un concetto formalmente simbolico in un’articolazione diidee. I materiali e la tecnica sono gli ingredienti che determinano un linguag-gio visivo ed individuale.Il viaggio di riflessione si conclude, tramite un discorso unico e molto perso-nale, in un’esperienza delicata e sensibile, relazionata alla mia presenza e allemie radici.

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“l’autoritratto”autoritratto – Veneziaacrilico, carboncino e matita su telacm 80 x 60

Julie Armbruster19 Calvin Lane – Newburgh, New York 12550Tel. (845) 236 [email protected]

CURRICULUM VITAENata il 30 giugno 1979 a Vorhecs, New Jersey.Cresciuta a Marlboro, New York.Laureata in Pedagogia delle Belle Arti alla SUNY New Paltz nel maggio 2001.Ha insegnato ceramica e pittura presso la Hyde School a Woodstock, Con-necticut.Attualmente risiede a Brooklyn, New York.

POETICALa maggior parte delle mie opere sono ispirate dall’esplorazione dei materialie dallo sviluppo costante di una linea calligrafica. Esiste nelle mie opere una im-mediatezza che cerca di catturare un’aura di energia e di movimento attraver-so la linea. Questo si trasmette dalla mia acuta attenzione alle complessità ealle tortuosità che trovo nei miei soggetti. Tramite un’accurata visione dellequalità che scorgo nella figura, interpreto la mia reazione ed il mio rapportocon la superficie.Individuo le figure che trattengono la mia attenzione, e permetto alle digres-sioni di compiersi nel momento in cui la mia mano ed i miei occhi attraversa-no la figura e la superficie. Cerco di mantenere un dialogo cosciente fra quel-lo che provoco sulla superficie e quello che essa fa a se stessa. Esiste un fortesenso di prossimità sensuale, ed un senso nebuloso dell’identità individuale. Ilcontinuo rapporto fra queste due qualità crea un senso di me stessa, strana-mente, effimero, e sono all’improvviso intrigata dalla scala e dalla varietà dellefigure che riappaiono nel mio lavoro.I disegni più recenti fanno parte di un catalogo di linee ed immagini che sto ela-borando per una ulteriore ricerca.

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“l’autoritratto”partigiano del 21° secolotecnica mista: tessuto, legno e trasferimento di foto cm 50 x 60 x 10 circaPremiata.

Lori Bauman9250 North Upper River Road – River Hills, Wisconsin 53217Tel. (414) 351 [email protected]

CURRICULUM VITAENata ed attualmente residente a Milwaukee, Wisconsin.Laureata in Belle Arti e Pedagogia delle Belle Arti all’Alleano College nel 1994.

POETICALa mia ricerca riguarda progetti di installazione multimediale. Recentemente misono concentrata su come ridurre al minimo l’utilizzo dei materiali per cosìdare chiarezza all’emozione essenziale di un’opera. L’aspetto narrativo dei miei lavori nasce da una traduzione della storia, dei mi-ti o dei rituali, e m’interessano i temi della morale e dell’universalità che essipossono contenere.

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“l’autoritratto”la progressiva regressione esterna ed interna di Josana Bluefronte: gesso, nastro adesivo americano, parole retro: gesso, nastro adesivo americano, foto, inchiostro, fotocopiecm 80 x 60Premiata.

Josana Blue85 Taywood Rd. – Auburn, Maine 04120Tel. (207) 782 [email protected]

CURRICULUM VITAENata a Lewiston, Maine nel 1977. Laureata in Belle Arti con specializzazione in pittura ed in danza alla West Vir-ginia University nel 2000.Ha ricevuto il Master in Belle Arti dalla New York University nel dicembre 2002.Dal 1996 ha completato più di dodici opere commissionate privatamente, unadelle quali fa parte di una collezione permanente in quattordici unità. Lavoracome freelance nel mondo della moda e della fotografia, ed ha esposto le sueopere in una decina di gallerie.

POETICANel sostituire, alcune cose vengono aggiunte mentre altre vengono perse. Perquesta poetica, ed in relazione al mio corpo ed al corpo delle mie opere, il lin-guaggio funziona come sostituzione del pensiero visivo e lirico.

Il movimento lirico di una linea, scolpita col colore, e l’essenza sensuale del corpo di una donna.

Non hanno voltiÈ tutto nel corpoNon voglio complicazioni facciali né sguardi indi-rizzati per sbaglioVerso quelle sofisticazioni sexyChe proiettano a riflessoLa voce della mia sconnessione

Innestabile…sì, ma sempre integraPer ogni male esiste un bene in opposizioneNon può essere quello che è senza esserequello che era, nemmeno quello che non fu maiUna contraddizione dopo l’altraComplimenti tra complimentiUna tale come la gente la vedeUna tale come lei vede se stessa

Interno – esternoProgressivo – regressivoFemminino – forzaMascolino – bellezzaModa – artePotenza – serenitàDurezza – sensualità

Colore - umiliazione Sessuale – innocenzaCattivo – corteseSottomesso – presunzioneSconnesso – soliditàSurreale – vitaDispettoso – amoreLibero – formatoMusicale – silenzioRealtà – sogniVisivo – dialogoLirico – pianoDecorativo – casinoSofisticato – giocareEterno – immediatezzaDesolato – disegnoTimido – fiduciosoSecco – lineaFluido – ambiguitàPittorico – oscuritàAllusivo – piattoStanco – energiaChiuso – stiracchiare

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“l’autoritratto”composizione numero 13incisione su rame e pigmenticm 50 x 50

S. Kendall Bradford1909 Pine Rd. – Wyndmoor, Pennsylvania 19038

CURRICULUM VITAEOriginaria di Philadelphia, Susan Kendall Bradford si è laureata presso la Syra-cuse University in Belle Arti con specializzazione in pittura. Ha fatto uno scam-bio universitario di un anno a Firenze ed è tornata a Venezia per completare isuoi studi con un Master in Belle Arti con la New York University.

POETICAOgni giorno nascondiamo i nostri corpi con gli abiti, mascherandoci e sepa-randoci fisicamente da tutti quelli che ci circondano. Mi interessa questo mo-do di isolamento personale, che diventa per me un meccanismo tramite il qua-le posso definire me stessa.

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“l’autoritratto”autoritratto con Sybilleencausto su legno cm 50 x 61

Josephine Brown 2102 Canal Drive – Wilson, North Carolina 27896 - 1318

CURRICULUM VITAEJosephine Brown è nata ed è stata educata in Louisiana. Si è laureata presso laTulane University a New Orleans ed è stata premiata con una borsa di studiopost-laurea per studiare a Firenze. Ha insegnato belle arti nelle scuole, è spo-sata ed ha cresciuto cinque figli. Ha ricevuto un Master in Architettura del pae-saggio dalla North Carolina State University. Attualmente risiede con il mari-to Norman nel North Carolina, dove lavora come architetto del paesaggio ecome artista.

POETICACome il mio DNA mi unisce ai miei antenati, la mia vita creativa mi unisce agliartisti del passato. Quest’estate ho percorso un’odissea e attraverso la miaesperienza alla Festa del Redentore ho raccolto in questo dipinto una parte diquella mitologia personale. Ho scelto i colori nero e terracotta per rappre-sentare il mito come facevano gli etruschi. Il bordo di stelle e strisce esprimela mia provenienza americana.

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“l’autoritratto”riflessionefotografia, specchio, alluminiocm 60 x 60

Lauren Brown1 West Superior, Apt. No. 2212 – Chicago, Illinois 60610Tel. (312) 587 [email protected]

CURRICULUM VITAELauren Goldsmith Brown attualmente risiede nella città del vento: Chicago. Siè laureata presso la University of Kansas in Belle Arti nel 2000 e ha frequen-tato alcuni corsi alla New York University e al Richmond College a Londra. Og-gi lavora per un agente di arte e sta per conseguire un Master in Belle Arti al-la New York University.

POETICAIl fatto di viaggiare da un posto all’altro ha avuto dei riflessi su quello che è ilsenso del trovarsi in più luoghi e contesti. L’effetto di questo su me stessa sipuò intravedere dentro e fuori del mio corpo. Quindi, esso mi ha portato acreare riflessioni sulle persone che mi circondano, riflessioni che si presenta-no in svariate forme.

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“l’autoritratto”fuoriacrilico su telacm 70 x 60

Kim Celona1485 Mineral Spring Avenue – N. Providence, RITel. (401) 353 [email protected]

CURRICULUM VITAEKim Celona è una pittrice ed insegna belle arti a Providence, Rhode Island. La-vora professionalmente come artista in belle arti e illustrazione nel New En-gland ed a New York dal 1991. Di recente ha esposto le sue opere in una mo-stra collettiva alla Caelum Gallery a New York City.

POETICAQuesta opera riguarda i colori monocromatici, la linea, la figura ed i simboli. Lalinea è intensa e lavora all’interno dello spazio negativo in questa composizio-ne. Lo stile è elegante ma allo stesso tempo primitivo, vibrando come energiadentro e fuori dei perimetri del quadro. Il contesto dell’opera è principalmen-te figurativo e suggerisce uno spazio della tradizione, oppure uno spazio sen-za tempo.

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“l’autoritratto”codice a barre. Dobbiamo ridurci a questo?tecnica mistacm 70,5 x 50,1

Yiye Cho5 Carriage Road – Roslyn, NY 11576Tel. (516) 877 [email protected]

CURRICULUM VITAEYiye Cho è insegnante dal 1996 alla Parsons School of Design nelle materie di In-tegrated Design and Technology, Teoria del Colore e Disegno. Si è laureata in Bel-le Arti presso la stessa università ed ha completato studi post-laurea in Pedago-gia di Belle Arti alla School of Visual Arts. Nel 1993 si è certificata in Work SystemAdministration. Attualmente sta completando gli studi con un Master in Belle Ar-ti presso la New York University. Nel 2001 è stata premiata dalla facoltà della Par-sons per condurre un corso di Digital Imaging ed oggi abita a New York.

POETICAIo eseguo le mie opere nel momento in cui dipingo, senza meditare in prece-denza sull’immagine. Trovo il mio segno dentro l’atto puro di dipingere con icolori, mentre sto creando macchie di colori o linee. Creo la mia arte attra-verso circuiti di raccolta, esplorazione ed espressioni personali in diverse tec-niche. L’atto di applicare la pittura e combinare i colori per creare il mio pro-prio colore diventa un’opera in se stessa.Questo autoritratto riguarda la mia consapevolezza della società, che va oltregli schemi di razza e sesso, stato economico sociale, professione e luogo di abi-tazione, che purtroppo ci definiscono. Visto dal punto della scienza e della tec-nologia, ognuno di noi viene identificato come un articolo qualunque: come uncodice a barre da etichettare. È necessario farci ridurre a questo?In un’altra opera ho utilizzato delle linee in ripetizione: 64 quadrati in totale; 8orizzontali, 8 verticali. Queste macchie fatte di linee si spostano da un lato al-l’altro; nessun quadrato è come l’altro, comunque tutti i riquadri lavorano in-sieme, in unità. Quest’idea dell’individualità all’interno della comunità si espri-me anche nella mia scelta dei colori. L’estate scorsa ho fatto una serie di pitture ad encausto su pannelli di legno. Ini-zio i quadri con immagini astratte sui pannelli per dare una base. Poi aggiungo co-lori diversi sopra questa superficie. Poi, ritaglio dalla superficie le mie prove; que-sto per me è un processo unico che coinvolge la scultura e la pittura.Cerco di non spingere me stessa in una sola direzione di lavoro. Mentre sonoin un momento di fervore della creatività – utilizzando le linee – entro in unmio proprio mondo, lontano dalla realtà. Cerco consciamente di non trarregiudizi sul mio lavoro per essere così pronta ad accogliere altre opportunitàcreative che potrebbero arrivare.

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“l’autoritratto”28acrilico su telacm 50 x 70

Jill GogalPO Box 566 – Hoboken, New Jersey 07030-0566Tel. (201) 963 [email protected]

CURRICULUM VITAEJill Gogal è nata in New Jersey ed è cresciuta in New Mexico. Si è laureatapresso la Parsons School of Design in Belle Arti ed attualmente studia per ilconseguimento di un Master in Belle Arti alla New York University.

POETICAIn tutto il mondo esistono simboli comuni ed indipendenti perché qualsiasipersona possa riconoscere in essi quello a cui fa riferimento. Io colloco nellemie opere i simboli che osservo o sento quando mi appaiono negli ambienti onegli stati d’animo e quando sono rilevanti per me. Questi collegamenti per-mettono di affiancare il mondo reale ai pensieri che costantemente ci invado-no. Cerco di proporre al pubblico l’opportunità di trarre una connessione frai due soggetti che si vedono nei miei quadri. Cerco di illustrare l’unicità dellememorie che questi segni comuni producono.

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“l’autoritratto”intuitoacquerello, inchiostro e acrilicocm 37 x 28

Michelle Kurlan19 Grove St., 3E – New York, New York 10014Tel. (212) 989 [email protected]

CURRICULUM VITAEDa quattro anni Michelle Kurlan abita a New York, dove si è trasferita dopoaver preso la laurea in Belle Arti ed in Pedagogia delle Belle Arti alla Universityof Maryland. Attualmente studia alla New York University per il conseguimen-to di un Master in Belle Arti ed è insegnante di belle arti a livello scolasticoelementare e medio dal 1998.

POETICALe mie idee provengono dai pensieri che ho su me stessa ogni giorno e sulmondo che mi circonda. Le mie opere rivelano una accurata ispezione dellemie percezioni. Osservo come gli altri mi vedono. La raffigurazione degli occhirappresenta diversi aspetti della percezione in ogni opera; appartengono aquelli che guardano, a quelli che guardano oltre e a quelli che guardano fisso.Gli ombrelli rappresentano una protezione dal loro esame minuzioso. L’uso dei materiali trasparenti esprime quello che noi non possiamo vedere.Essi suggeriscono un senso di trasparenza. L’utilizzo di strati simbolizza gli stra-ti di pensieri tramite i quali appaiono le immagini. Cerco di sbucciare gli stratidi ambiguità per poi rivelare il nucleo sottostante.

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“l’autoritratto”l’autoritrattotecnica mistacm 27 x 20

Louise Lepore203 Grand St., Apt. 10 – New York City, New York 10013Tel. (212) 625 2444

CURRICULUM VITAELousie Lepore è nata a New York City. Si è laureata in Belle Arti presso laSchool of Visual Arts a New York ed ha continuato i suoi studi alla JohnHopkins University, Hunter College, ed attualmente alla New York Universityper il conseguimento di un Master in Belle Arti. Lavora come artista e giorna-lista nelle arti visive.

POETICANelle mie opere cerco di incorporare idee sui temi dell’essere nascosto, espo-sto, vulnerabile, coraggioso, timido, seducente e composto. Spesso le mie idee nascono da una struttura base non rigida, e da lì cerco diarticolare o indicare l’inevitabilità delle inerzie organiche, della gravità, che cer-cano una via dentro o fuori, laddove i circuiti, la ritualità e l’eterno vengonoevocati.

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“l’autoritratto”viaggio attraverso aprileinchiostro e pigmento su metallocm 28 x 100 x 12 Premiata.

Bethany Ann Kitson Maixner4725 N. Mona Lisa Rd., Apt. 266 – Tucson, Arizona 85741Tel. (520) 297 [email protected]

CURRICULUM VITAEBethany Ann Kitson Maixner è nata a Rhode Island nel 1978 ed è vissuta inmolte città negli Stati Uniti ed in Europa. Si è laureata in Belle Arti presso ilRandolph-Macon Woman’s College nel 2000. Attualmente abita a Tucson, Ari-zona, dove insegna belle arti e lavora come artista.

POETICALe atmosfere ed i paesaggi nelle mie opere spesso assomigliano a vedute ae-ree di paesaggi, anche mille paesaggi dentro lo stesso dipinto. Esercito il con-trollo sui miei lavori attraverso l’inserimento di oggetti trovati, oppure tra-mite una linea di orizzonte per indicare l’esistenza di un paesaggio. I miei ma-teriali reagiscono fra di loro per creare così l’atmosfera che appare nelle mieopere. Mi piace toccare gli oggetti che utilizzo per provocare con dolcezzaun movimento che poi si sviluppa dal loro stesso contatto. Seleziono i ma-teriali che sono preziosi ed intimi per me: oggetti trovati, pigmenti, inchiostri,legno e carta.Le mie opere cambiano mentre proseguo il mio viaggio personale nell’arte, mala creazione dei miei dipinti è costantemente il risultato di un rituale medita-tivo: assumo una posizione abituale su un cuscino che sta davanti ad un tavolotipo altare, e mi inchino sopra il dipinto, così dando inizio ad un rapporto conle mie opere che è privato, e faccia a faccia.

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“l’autoritratto”autoritratto, estate 2002acrilico su telacm 69,5 x 60

Janice Martin4431 Hunt Club Dr. #1B – Yosilanti, Michigan 48197 Tel. (734) 528 [email protected]

CURRICULUM VITAEJanice Martin è nata e cresciuta a Pontiac, Michigan. Ora risiede a Yosilanti, Mi-chigan, a 15 chilometri di Detroit. Ha una laurea in Belle Arti con la specializ-zazione in Disegno e Pedagogia ed un Master in Disegno, entrambi presso laEastern Michigan University. Insegna belle arti nelle scuole pubbliche da undicianni. Attualmente insegna in terza media a Saline, Michigan, e studia per il con-seguimento del secondo Master in Belle Arti con la specializzazione in Pitturaalla New York University.

POETICACredo che i pensieri ed i sentimenti non si possano separare durante il pro-cesso creativo. L’arte è la crescita di un’idea che coinvolge il mescolarsi deipensieri e dei sentimenti. Man mano che i pensieri ed i sentimenti cambiano,cambia anche l’immagine. Di conseguenza, ci sono nuove scoperte su me stes-sa che non conoscevo nella fase iniziale e che vengono rivelate successiva-mente. Quello che era intangibile diventa tangibile.Le immagini che creo sono metafore delle lotte interne che ho avuto. Esseesprimono idee di perdita e di vulnerabilità agli eventi casuali inerenti a tutti gliesseri umani. I gesti nei miei dipinti sono un’estensione delle mie esperienzeinterne e riflettono i miei sentimenti e la mia risposta agli eventi ed agli atticaotici. L’atto di dipingere diventa per me un modo di creare ordine dal caos.

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“l’autoritratto”senza titolofoto in bianco e nero, legnocm 56 x 72 x 18 Premiata.

Laura Merage73 Glenmoor Drive – Englewood, Colorado 80116Tel. (303) 789 [email protected]

CURRICULUM VITAELaura Merage è nata nella ricca cultura di Teheran. Si è trasferita a Los Ange-les all’età di quindici anni ed ha ricevuto la laurea in Belle Arti alla Universityof Southern California nel 1981. Laura ha studiato pittura con Ron Ritzk, fo-tografia con Robert Flick e scultura con John Gordon. Attualmente studia peril conseguimento di un Master in Belle Arti alla New York University. Le sueopere appartengono a collezioni private e pubbliche degli Stati Uniti. Oggi abi-ta a Denver con il marito ed i loro due figli.

POETICAI molti e complessi strati della mia cultura forniscono uno scenario prolificoper le mie opere. La mia ricerca si inquadra sul vedere, vedere sul serio. L’in-congruenza e l’ambiguità sono presenti nella mia vita e nel mio lavoro e spes-so esprimo le situazioni più emotive con linee che accompagnano il gesto esgocciolature a cascata. Mentre cerco di conoscere più informazioni e vadoalla ricerca di un legame comune che unisca una esperienza all’altra, le mul-tiple complicazioni nell’arte e nella vita diventano più semplici. Nelle mieopere provo a comunicare le confusioni della vita, quelle belle come quelleorrende. Credo che l’imporsi autodisciplina tramite la sperimentazione siafondamentale. Traggo un’ispirazione infinita dal corpo e dalla psiche umana econtinuerò la mia impresa in questo territorio attraverso la pittura, la scul-tura e la fotografia.

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“l’autoritratto”senza titolotecnica mista su legnocm 36 x 36

Manola Moretti19 East 73rd Street, Apt. 4 – New York, New York 10021Tel. (212) 249 [email protected]

CURRICULUM VITAEManola Moretti è nata nel 1974 a Roma, dove è vissuta la maggior parte dellasua vita. Ha ricevuto la laurea in Scienze e Biologia Marina nel 1996. Durante isuoi anni all’università ha superato diversi esami in Storia dell’Arte e Belle Ar-ti, ma soltanto dopo ha incominciato con assiduità a seguire la professione diartista. Attualmente studia alla New York University per il conseguimento di unMaster in Belle Arti.

POETICA“Il fine giustifica i mezzi”. Questa filosofia machiavellica è alla base della mia ar-te. La concentrazione sul risultato finale, ossia l’oggetto o la mia visione del-l’oggetto, mi permette di vivere una autonomia che trascende tutte le costri-zioni formali. Questa libertà mi spinge ad esplorare le innumerevoli possibilitàdisponibili quando uno crea l’opera d’arte. Quindi, la mia ricerca gira attornoall’utilizzo di diversi mezzi per creare l’oggetto finale. Personalmente, ho adottato la tecnica del collage come metodo per fare arte,date la libertà e la spontaneità coinvolte in essa e non in altre tecniche che so-no oppresse dalle regole. L’utilizzo del collage mi permette di usare tecnichemiste e lascia spazio all’opera di evolversi mentre viene creata. Tutti gli ogget-ti che propongo hanno elementi scultorei e la “tessitura” o giustapposizionediventa la loro caratteristica prevalente. L’arte che creo è esponenziale. Dipingo quello che sento, quindi la mia fonte diispirazione è interiore e non esterna a me. Comunque, tutte le mie opere han-no un tema ricorrente: la dicotomia tra l’uomo e la donna. Io sono nata in unafamiglia matriarcale dove gli uomini erano poco presenti. La mia visione dellafigura maschile ed il mistero che essa contiene sono intrinseci alla mia arte.

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“l’autoritratto”mente semplicecarta velina ed acrilicocm 7,5 x 7,5 x 7,5 (3 x 3 x 3 pollici)

Lori Robinson2640 Stuart St. – Berkeley, California 94705Tel. (510) 665 [email protected]

CURRICULUM VITAELori Robinson è nata a Savannah, Georgia nel 1969. Nel 1991 ha ottenuto lalaurea in Lingua e Letteratura Inglese alla University of Colorado at Boulder.Attualmente studia per il conseguimento di due Master in Belle Arti presso laJohn F. Kennedy University e la New York University.

POETICALa mia opera è una scultura a forma di cubo con le misure 3 x 3 x 3 pollici.Queste misure sono specifiche perché alludono alla Trinità come viene utiliz-zata nella geometria sacra. I sei lati del cubo perpetuano l’armonia perfetta co-me un esponente del numero 3. Il cubo rappresenta la figura del mio corpomateriale, che è stato creato tramite la Sacra Trinità: serve da contenitore pergli elementi base, componenti della vita.Ho utilizzato un materiale traslucido, permeabile e delicato per il cubo comese fosse una pelle che contiene il mio corpo fisico ed immateriale. La fisicitàdel corpo materiale copre come un velo quella invisibile, cioè l’ossigeno, l’os-sido di carbonio e l’idrogeno che risiedono all’interno del cubo.Insieme, i componenti esterni ed interni del cubo riflettono un autoritratto, al-l’interno del quale si perpetua, incapsula e permea tutto il mio essere con laforza divina.

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Anisa RomeroPO Box 737 – Peter Stuyvesant Station – New York, New York 10009Tel. (212) 665 [email protected]

CURRICULUM VITAEAnisa Romero è nata nello stato di Washington. Si è laureata in Belle Arti con laspecializzazione in pittura alla University of Washington a Seattle nel 1992 cononori Phi Beta Kappa. Durante i suoi studi universitari, Anisa ha studiato BelleArti e Storia dell’arte a Firenze ed ha fatto uno stage ad Oxford al Museum ofModern Art. Ha partecipato a diverse mostre, tra le quali alla Henry Art Gallerydi Seattle, alla LACE Gallery di Los Angeles ed a Seattle. È stata recensita comeartista e come musicista. Ha scritto e si è esibita come cantante principale in duegruppi musicali: Sky Cries Mary e Hana. Il suo lavoro come musicista include uncatalogo di otto album registrati da World Domination/Capitol Records, WarnerBrothers Records e First World Records. Attualmente studia per il consegui-mento di un Master in Belle Arti alla New York University.

POETICAHo fatto una promessa all’arte dopo che mi era stato diagnosticato un cancrodurante il mio primo anno all’università. L’arte è diventata per me una forzaper riprendermi da questa malattia. Vedo la mia malattia come una grazia, poi-ché mi ha aiutato ad indirizzare la mia vita da una giovane età. La confusionefiorita dalla malattia espanse il mio bisogno di discernere la verità. Credo chel’arte abbia il potenziale di sorpassare la temporaneità, oltre le nostre perce-zioni limitate della realtà.Ho esplorato le diverse facce dell’espressione artistica ed ho trovato che con-tinuamente la pittura è una tecnica stabile per me. La resistenza che esiste nel-la pittura, storicamente e personalmente, rappresenta la trascendenza dellamorte, un registro del presente fra l’incertezza della vita.Il soggetto in questa opera è il risultato di una ricerca sui simbolismi personali. Fac-cio ricerche di iconografie riconosciute ma poco conosciute veramente, così fac-cio riferimento ad uno strato subconscio d’immagini collettive. I miei dipinti in-corporano immagini figurative ed ambientali. M’interessa il rapporto tra campo esoggetto. Talvolta rimuovo ed isolo le figure dai loro mondi, oppure le faccio disin-tegrare negli ambienti che li circondano. Alcuni elementi, da origini sconosciute, po-trebbero apparire, portando una rottura nell’armonia presente. I loro rapportisimboleggiano quello che mi è rivelato durante gli stati fisici ed emotivi estremicausati dalla mia malattia e riflettono la mia conoscenza dell’incertezza della vita.Le figure-archetipo possono rappresentare una religione autonoma, ed esem-plificano un femminismo personale. L’ambiente è in un fluire continuo; noi sia-mo soltanto partecipanti di passaggio. M’interessa molto il ciclo insondabiledella vita e della morte. I miei mezzi d’investigazione sono la figura femminilee la natura. Esiste una forza nella bellezza, in tutte le sue percezioni.Noi siamo tutto quello che viviamo. La creazione dell’arte è una riflessionesottile di quello che è misterioso e insolito. L’arte riesce a intravedere i regnimistici della natura e rispecchiarla. La forza che noi come artisti abbiamo re-sta nella nostra capacità ad essere aperti e disponibili alla trasformazione inuna forma sublime di quello che è mondano.

“l’autoritratto”ancora un’opportunitàolio su ramecm 51 x 20,5

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“l’autoritratto”pietrificata in ceracera su pannello cm 60 x 51Premiata.

Natasha Rubirosa235 Adams St., Apt. 12G – Brooklyn, New York 11201Tel. (718) 852 [email protected]

CURRICULUM VITAENatasha Rubirosa è nata nel 1970 nella Repubblica Dominicana ed è immigra-ta negli Stati Uniti nel 1980. Attualmente è residente a New York. Ha studiatoalla Parsons School of Design, School of Visual Arts, New York Academy of Arted alla New York University. Ha esposto in mostre collettive e personali a Ro-ma, New York e Cuba.

POETICALe mie opere comprendono l’indescrivibile, quindi chiedono che il pubblico ag-giunga la propria interpretazione. La mia ispirazione non proviene dal linguag-gio verbale, invece nasce dalla comunicazione fisica e dalla sua gamma infinitadi espressioni e gesti fisici. Il linguaggio umano è, per sua natura, limitato a cul-ture specifiche, mentre la comunicazione fisica è universale. Io provo ad inter-pretare nelle mie opere questa universalità dell’esperienza umana. La mia arteè il medium tra la sostanza e l’effimero.Fonte d’ispirazione in quest’opera intitolata “Pietrificata in cera” è stato il miodesiderio di rifiutare gli schemi di una mostra “a tema”. L’opera è partita in fun-zione del tema (l’autoritratto) e comunque rimane dentro i confini verbali diquesto tema. Infatti, è il mio autoritratto pietrificato in cera.

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“l’autoritratto”genesi del mio essere culturaletecnica mistacm 41 x 27 x 14

Lisa Solomon157 Summer St., 2R – Somerville, Massachusetts 02143Tel. (617) 666 [email protected]

CURRICULUM VITAEDopo la sua infanzia in Colorado, Lisa Solomon è vissuta prevalentemente nel-l’East Coast a New York, Martha’s Vineyard, e a Boston, dove attualmente ri-siede. Si è laureata in Business e Marketing alla University of Colorado a Boul-der ed ha ricevuto una seconda laurea in Belle Arti e Pedagogia delle Belle Ar-ti presso l’Hunter College a New York. Nel 2003 completerà i suoi studi Ma-ster in Belle Arti presso la New York University. Ora lavora come insegnantedi belle arti nel sistema pubblico a Boston e nel suo tempo libero si dedica ascrivere ed a creare opere d’arte.

POETICAIl punto focale di questa opera incomincia con una ricerca di collegamento nelmondo naturale. I componenti funzionano come sonde che cercano evidenzedi rapporti fra gli oggetti. Man mano che si identificano i ganci, un movimentoaccade nell’opera verso la conservazione dei motivi e delle figure scoperte ri-correnti. Oggetti naturali come piante, conchiglie e pietre fanno uno sforzo per tratte-nere rapporti diretti con le origini dei disegni. Materiali fatti dall’uomo, insiemeo indipendentemente da elementi naturali, vogliono creare nuove figure trami-te le quali questi motivi fondamentali mantengono una longevità superiore.Spesso vengono utilizzate cuciture per unire gli elementi. Esse ricordano laconservazione di motivi che vediamo in lavori manuali di cucitura, come il piz-zo, il ricamo o la trapunta. L’obiettivo finale non è soltanto il raggiungimento di un registro continuo, maanche la sperimentazione con la metamorfosi che queste figure subiranno tra-mite la manipolazione continua ed intuitiva dei materiali. Queste figure rap-presentano la sorgente di tutta la cultura, e come tali hanno un rapporto stret-to con la mia propria storia personale.

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“l’autoritratto”una briciola di speranza tela e rame bruciaticm 72 x 43

Marcia Stuart8 Alta Mesa Circle – Monterrey, California 93940Tel. (813) 646 [email protected]

CURRICULUM VITAEMarcia Stuart è nata a Berkeley, California, ed attualmente è residente a Mon-terrey, California, insieme ai suoi cinque figli. Ha studiato alla Arizona State Uni-versity ed alla Art Center College of Design a Pasadena, California. Ora è in-segnante di belle arti alla Stevenson Lower and Middle School a Carmel.

POETICALa mia opera tratta l’idea del conflitto, tra nascondere e rivelare quello che sitrova sotto la superficie della figura umana. Io lavoro su tela per la sua forza eflessibilità, ma anche per la sua leggerezza e fragilità. Quest’opera esprime lamia ricerca su come arrivare alla franchezza, alla chiarezza e all’onestà con mestessa; questo si rivela nell’atto di tagliare, strappare, bruciare e smembrare latela. L’opera scopre come una tela – nuova e pulita, pronta per le sue innume-revoli possibilità – venga trasformata dalla vita, tanto quanto può esserlo unapersona. La maggioranza dei buchi non svela niente; questo rappresenta la per-dita ed il vuoto. Invece, uno dei buchi luccica forte, manifestando quello cheuno è capace di raggiungere.

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“l’autoritratto”in cerca dello zerotecnica mistacm 70 x 50

Jaki SungailAspen Leaf Studios, 10303 Redwood Dr. – Felton, California 95018

CURRICULUM VITAEDa piccola, Jaki Sungail sapeva di voler dipingere ed insegnare. Nonostante ilsuo impegno nel crescere suo figlio e dedicare il suo tempo alla professione diinsegnante (anche nelle foreste dell’Alaska!), ha sempre trovato tempo per di-pingere. Nel futuro spera di poter dedicare ancora più tempo al suo atelier.

POETICAA me piace dipingere le cose che sono selvatiche e libere. Inoltre, sono sem-pre alla ricerca “dello zero”. Queste sono ideologie filosofiche prese dal tra-scendentalismo. Sono stata fortunata ad essere sempre vissuta vicino alla na-tura e ho preso ispirazione da Henry David Thoreau e da molti artisti dell’e-spressionismo astratto. Le mie opere nascono così: prima stendo la pittura o le parole sulla tela conmolta energia; dopo, mi coinvolgo in un gioco con linee, figure e colori. Den-tro questa azione di dipingere e costruire strati di trasparenze e riflessioni tro-vo la magia.Spero che le mie opere possano elevare lo spirito e che il ricorso alla naturacome soggetto possa servire da antidoto alla frenetica vita urbana.

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“l’autoritratto”autoritratto con otto angoli: ottagonostampa a colore, busta fatta a mano e angoli fotocm 9 x 28 (foto) e cm 13,5 x 30,5 (busta)

Champ Taylor67 Long Point Drive – Amelia Island, Florida 32034Tel: (904) 277 [email protected]

CURRICULUM VITAEChamp Taylor è nato a Jacksonville, Florida, negli ultimi anni del “baby boom”.Ha studiato disegno e pittura alla University of North Florida. Dal 1998 Taylorabita a Washington, D.C., dove lavora come addetto alla sicurezza presso laPhillips Collection ed alla Decatur Blue, un’entità spaziale senza designazionespecifica né località permanente.

POETICASono un pittore. Vedo il mondo attraverso gli occhi di un pittore, il gesto di unpennello, lo strofinare dei tergicristalli, il tiraggio di una stampa fotografica, ipentimenti-impasto-chiaroscuro, l’alzare del sipario e la colata. Con un pen-nello secco dipingo il mio video, scrivo la mia tavolozza, costruisco la prospet-tiva piatta dei miei quadri. Ieri notte ho pattinato con tacchi alti rossi sulle pietre d’acqua alta coperte dialghe, e qualche volta faccio buste di carta piegata e colla.

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“l’autoritratto”prendendo controllo della mia vitafoto digitale, stampa a getto d’inchiostrocm 17,5 x 24,5

Audra Tolbert1217 W. Munson – Denison, Texas 75020

CURRICULUM VITAEAudra Tolbert è nata e cresciuta nel Texas, dove ora risiede. Si è laureata inScienze alla University of North Texas. Ha studiato al Brookhaven College aDallas, Texas. Attualmente studia Belle Arti alla New York University per il con-seguimento di un Master.

POETICACerco di ammassare e proiettare fuori tutto quello che fa parte della mia esi-stenza.

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Gilbert K. Trent1250 Fourth Street, SW, #W209 – Washington, D.C. [email protected]

CURRICULUM VITAEGilbert Trent risiede a Washington, D.C. Si è laureato in Pedagogia delle Belle Ar-ti presso la Virginia State University a Petersburg, Virginia. Ha iniziato la sua car-riera come insegnante nel 1988 ed attualmente insegna belle arti e computergraphics alla Foundation School di Montgomery County a Rockville, Maryland.

POETICALe mie opere esprimono il mio interesse per la figura maschile e le mie espe-rienze attuali create tramite i pensieri consci e subconsci. Cerco di seguire lemie intuizioni e di abbandonarmi ai miei pensieri, così dando spazio ad unaespressione disinibita di me. Traggo forza ed ispirazione dal carattere delle linee; impiego le linee per arti-colare il movimento ed il volume dentro le mie figure. Queste linee spesso de-finiscono le figure ed evolvono naturalmente dappertutto nei dipinti. Il colore è diventato la mia nuova impresa e vorrei approfondire la mia cono-scenza su come articolare meglio le dimensioni e ottenere esperienze di tat-to tramite il colore. Rimango molto impegnato ad incorporare concetti filosofici orientali nelle mieopere. Secondo me esiste un forte legame tra l’essere se stesso e l’ambiente,idee che vorrei portare a conoscenza.

“l’autoritratto”io e me stessoacrilico su cartacm 80 x 60

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Daniel Vernola416 East 65th Street, Apt. 5H – New York City, New York 10021Tel: (212) 585 [email protected]

CURRICULUM VITAEDaniel Vernola è un artista emergente che abita a New York. Inoltre è inse-gnante di belle arti ai bambini appartenenti a minoranze non privilegiate. Da-niel afferma: “Faccio quello che mi piace e mi piace quello che faccio.”

POETICAQuest’opera riguarda la sua cornice: una cornice ornata, vistosa, un po’ esage-rata. Nonostante ciò, c’è qualcosa di irraggiungibile, che rimane nascosto. Cioè,io come artista non sono ancora arrivato, sono in “emergenza” forse. L’operami rispecchia perfettamente: furbo e affascinante, e un po’ ingenuo.

“l’autoritratto”autoritratto a 25 annifoto e cornice in legnocm 29 x 22

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e Clara

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CLARA SCARAMPELLA LOMBARDIClara Scarampella è nata a Brescia e vive e lavora a Rezzato in Via Scalabrini n. 4;telefono 030.2791132 e fax 030.2593603.Pierre Restany ha scritto per lei: “Immagini delle natura” e “Natura delle immagini”Si sono interessati del suo lavoro: G. Ballo, M. Corradini, G. Cortenova, F. Loren-zi, G.F. Marchiori, L. Meneghelli, A. Verdè.Ha esposto a New York, S. Francisco, Vienna, Parigi, Bruxelles, Nizza, Tokyo, S. Paulde Vence (Museo), Ferrara (Palazzo dei Diamanti), Lugano (Malpensata), Milano,Bari, Padova, Verona, Mantova, Bergamo, Como e Savona.

Ho sempre pensato all’autoritratto come ad un’idea che mi appare incontinuo mutamento: sono gli eventi della nostra esistenza, il trascorre-re del tempo e l’usura che la trasformano.Ho creato qui alcune opere che rappresentano i momenti più significa-tivi della mia vita.Da sempre rappresento la mia poetica dell’effimero narrandola con ma-teriali fragili, caduchi, evanescenti: polveri, sabbie, zuccheri, neve, luce…Nel descrivere il fugace provo una sorta di piacere infinito…È un piacere che mi permette di giocare con lui: è il gioco più eccitantee stimolante che abbia mai provato.È la tensione tra l’essere e il nulla.C’è…… ma ecco che subito scompare: un soffio di vento, il piede di un bimbo locancellano e…… io lo ricostruisco e con più entusiasmo di prima…Il divertimento continua a ripetersi…Sarà sempre comunque il gioco di un bambino che costruisce sulla sab-bia tutti i suoi sogni!

Agire sulla sabbia, la terra, la nebbia, l’aria, l’acqua, potrebbe rivelarsi comeun gesto patetico; ma questo implicare le varie componenti nella loro tota-lità, e il fatto di insistere, il fatto di permanere in questo campo auto-limita-to crea una moralità, crea una logica e anche una solida forza di coesione.La Clara è un’artista del tempo, della verità del tempo che acquista la suadignità attraverso la spinta di questa costanza che diventa una verità im-manente.A forza di insistere nel gioco, l’immagine diventa nello stesso tempo labilee universale nella sua dimensione di comunicazione e di verità.C’è dunque nel lavoro di Clara come un gran vezzo di poesia elastica.

Pierre Restany

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Solafotografiacm 8 x 5

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Autoritrattobitume di giudea e carboncinocm 70 x 501975

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Catenefotoincisione su zinco

cm 70 x 501984

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Tritticotecnica mistacm 80 x 602003

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Autoritratto con catenetecnica mistacm 80 x 1202003

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Solafotografia digitalecm 160 x 1102003

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Pescecm 59 x 59

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Autoritrattotela emulsionatacm 80 x 602003

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Autoritrattofoto digitale con limatura d’alluminiocm 80 x 602003

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Autoritrattofotografia digitalecm 80 x 602003

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Amare significa permettere di abusaretecnica mistacm 55 x 602003

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Ringrazio di cuoreAngiola Churchill, Avy, Angelo, Elena, Fausto, Gigi, Martino e Virginia.

Voglio ricordare con dolce e riconoscente affetto Pierre Restany,da poco scomparso, che mi ha sempre strapazzata perché imparassi davveroa giocare con l’arte come con la vita.

CLARA SCARAMPELLA

Principali mostre personali1974 Milano, “Teatro Uomo”1975 Bari, “Arte e Spazio”1976 Vienna, “Kunstlerhaus”1977 Milano, “Palmieri”

Padova, “La Cupola”1979 Verona, “La Quaglia”

Bari, “Arte e Spazio”1980 “Musée Municipal de Saint Paul de Vence”

Trento, “9 Colonne”1982 Bruxelles, “Galérie Montjfoie”

Nizza, “Galleria Sapone”1983 Ferrara, “Palazzo dei Diamanti”

Tokio, “Galleria Ginza”Savona, “Il Brandale”

1985 Giappone, Fukuoaka, “Area Deux Gallery”1986 Como, “Il Salotto”1988 Giappone, “Museo d’Arte moderna di Kitalkyusbu”

Giappone, “Soko Bank di Fukuoaka”1989 Nizza, “Galleria Sapone”1990 Bari, “Arte e Spazio”1991 Bergamo, “Galleria Diade”1993 Capri, “Galleria Miniaci”1994-95 “Musée Municipal de Saint Paul de Vence”1995 New York, “Scuola di N.Y.” Leoni da Venezia1997 Modena, Castello Montese, “Antologica”

Brescia, A.A.B., “Clara e gli americani”Roma EXPO, “Arte Roma”

1998 Brescia, Galleria “Armando Ciferri”Roma EXPO, “Arte Roma”

1999 Roma EXPO, “Arte Roma”Brescia, A.A.B., “Clara e gli americani 2”

2000 Rezzato (BS), Bottega Alta, “Colore Viola”2000-01 “Musée Municipal de Saint Paul de Vence”, “Clara e gli americani”2001 Brescia, A.A.B., “Clara e gli americani 3”2002 Villa Carcina, “Luogo comune”2003 Brescia, A.A.B., “Clara e gli americani 4”

New York, Monique Goldstrom Gallery Vetrin (Galassie)

Saloni e fiere1980-81-82 XXVI e XXVII “Salon de Mai”, Parigi - Premio per il miglior artista straniero

“Expo Arte Bari 1981” con la Galleria Sapone“Arte 81” di Basilea

1989 Premio per la grafica “Tavolozza d’argento”, Comune di Milano1994 Venezia, “Conferenze alla Collezione Peggy Guggenheim”1996 Premio Padova, Concorso nazionale per opere d’arte per il nuovo Palazzo

di Giustizia di Padova1997-98-99 Expo Arte Roma

RiferimentoGalleria Sapone, Nice - tel. 0033.93.885427Galleria Ginza, Tokio - tel. 571.1000Studio dell’artista - Rezzato (BS) - tel. 030.2791132 - fax 030.2593603

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Contemporanea - 16Clara e gli americani 4 - Autoritratto5-19 luglio 2003Mostra ideata da Clara Scarampella Lombardi

Cura della mostra e del catalogoFausto Lorenzi

Progetto graficoMartino Gerevini

Allestimento della mostraLuigi Paracchini

Referenze fotograficheAngelo Furia

Direzione dell’AABGiuseppina Ragusini

Segreteria dell’AABSimona Di Cio e Dario Moretta

Fotocomposizione e stampa:Arti Grafiche Apollonio - BresciaFinito di stampare nel mese di luglio 2003.Di questo catalogo sono state tirate 1500 copie.

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LOMBARDI S.R.L.

MARMI E GRANITI

25086 REZZATO (BS) - Via Disciplina, 88 - 20122 MILANO - Via Durini, 26Tel. 030.2596288 - Fax 030.2593603

www. lombardimarmi.it - e-mail: [email protected]

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The fourth biannual exhibition of “Clara e gliamericani” opens this year with works by theItalian artist Clara Scarampella Lombardi andartists attending New York University’s Mastersin Studio Arts program in Venice directed byAngiola Churchill. Students participating aremostly from the United States, although someare from other countries, as well. A commontheme for the exhibit is proposed at eachevent in order to confront and compare differ-ent ways of seeing and reading from around theworld. The event is also a juried competitionand five prizes sponsored by Clara Scarampellaare awarded.The first competition took place in 1996 follow-ing Clara Scarampella’s collaboration as a visitingprofessor at the Masters program. Clara Scaram-pella challenged the artists to look at art fromher perspective by proposing a project based onthe found objects that, in the from of a photo-graph, were the starting point of her own art-work.The second exhibition was entitled “Presence/Ab-sence”. The results revealed how the artists in-volved approached the theme as a reproduc-tion of images through different ways of see-ing, which in fact is an attempt to preservesomething that is dear to us or that has affect-ed us personally. The works as a whole showedan inclination towards images that seemed sus-pended between light and darkness. In fact,drawing and painting are seen as attempts atwithholding something elusive through the re-production of an image. Therefore, the third edition entitled “Light andDarkness” was a natural consequence to the

second show. It is well-acknowledge fact thatthe eye is not innocent and that the act of see-ing changes reality as it is. We see what wethink we are seeing, or what we would like tosee. Life itself is nothing more than light thatappears and disappears. In this respect “Lightand Darkness” became a show that had atheme that seemed insignificant, almost banal (astudy on shadows, for example). However, itexamined more deep and demanding aspects,and challenged the artists to consider how artmay be defined as a place that is generated bylight, a place that resists as a memory of lightand blends into time. “Clara e gli americani” this year presents worksfrom the 2002 competition based on a newtheme that connects it to the previous edition:“The Self-Portrait: Personal traces”. The choiceof this title following “Light and Darkness” wasa natural result. Each one of us has a side toourselves that is made up of feelings and pas-sions that are clear and distinct; we also possesa side that is nocturnal, ambiguous, and dark.We came to the conclusion that the self-por-trait should not simply be a classic rendering ofoneself in the mirror, but that each NYU par-ticipant should approach the theme in an indi-rect, hopefully deeper, fashion, through the useof objects, places, spaces, lights and colors. Wehoped each participant would “render” himselfor herself using the objects or places that be-longed to their personal experience, memory,or trace, and through the emotions, sensations,aspirations and passions that each student had.All mediums were acceptable within specific di-mensions.

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The search for identity in Western culture ischaracterized by the introspective journey ofthe self-portrait. No other civilization outside ofEurope has probed the human face as “the eyesto one’s soul”. Some primitive cultures feared that the self-por-trait, and similarly mirrors, could capture one’ssoul or reveal deformations and aberrations ofone’s personality. The mirror, of course, and theway of looking delineated the boundary betweenthe world of the living and the world of thedead. After the perspective cage of the 15th

Century Renaissance the new challenge becamethe depiction of human identity as a symbol ofworld domination. The “cage” became physiog-nomy, an endeavor to reproduce facial featuresthat mirrored the soul. Originally, physiognomywas defined as “the art of judging a man’s naturefrom his physical (might we add “animal”) fea-tures”. The self-portrait can be seen as a combinationof epistemological problems and investigationsbetween interior experience and outer appear-ance. Leonardo Da Vinci stated in one of theCodex Trivulzianus that “cognition starts withfeelings”. Then, the early 20th Century experi-enced the individual and the discovery of hissubconscious through psychoanalysis and, laterstill, the mangled flesh in Francis Bacon’s paint-ings where portraits were made of psychicpaste. At the turn of the 16th Century, Leonardo DaVinci was the first artist to pose the question offeelings, “the motions of the soul” as he termedthem. He believed that feelings conditioned ges-ture and facial expression. He wrote, “Youshould draw the figures while they act out themotion you want to express, so that they rightlyreflect what the body has within its soul.” Somesay that this is an early case of studies of thesubconscious, however it is more likely that itwas regarded as psychic energy. We can say that the genre of the self-portraitbegan in the 1500’s in Flemish and Italian art. InItaly, some artists such as Filippo Lippi, Masaccioand Botticelli placed their own portrait in scenesin their frescoes, usually sacred scenes, in orderto affirm the new stance towards the artist as anintellectual, and as acknowledgment of the newconcept that put man at the center of the world.

We cannot dismiss Dürer’s numerous self-por-traits, particularly those as Christ, and Michelan-gelo’s self-portrait transfigured as SaintBartholomew in the “Last Judgment”. In addition,we should not forget to mention Caravaggiowho painted his portrait as Goliath beheaded byDavid, in a tragic reflection of the power of lifeand death, and Rembrandt, who studied himselfin over 60 self-portraits over his lifetime.Often the self-portrait was not as “intimate” asthis, instead it celebrated the moral and socialvalues of the family, of power and of profession,and represented both the stiff and pragmatic so-cial class or the severe, moralistic and pedagogicorder of the time. It concentrated on the figureand on the objects which belonged to his or herdaily life, placing them in the foreground to beappreciated by the viewer.During the 1500’s and 1700’s physiognomic trea-tises accompanied this development in art. Lo-mazzo and Della Porta, Cardano and Le Brunwere all expert writers on the topic. The Courtof Louis IVX employed Le Brun’s treatise to es-tablish physiognomy as a method for social se-lection. Cartesio wrote on the anatomy of thesoul in his “Treatise of Passions”. Others wereLaveter and then Hogarth, who in 18th Century-England contributed to refining the vocabularyof physiognomy. He called his representations ofpeople characters rather than caricatures, seek-ing to reveal the true nature of his subjectsrather than mocking them.In the 1800s we experienced anthropologistsand criminologists, among them Lombroso, whobecame a victim of his very own criminal an-thropology. Mocking his taxonomic methodsthat considered abnormal certain geometricproportions of the human cranium, a colleaguecarried out an autopsy of Lombroso himself in1909 and discovered he was “affected by acuteidiocy”. By that time Freud had already publishedthe foundation text of psychoanalysis, “The In-terpretation of Dreams”, in 1900. Freud ac-knowledged artists as having preceded him inunderstanding the psychic world. He said, “Weboth probably drink water from the samesource. We work on the same medium, but weeach use a different method.”Füssli and Goya were among the forerunners inthe art of monstrosity in human nature back inthe 1800s. Their work revealed the obscure re-

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gions of human reason. By the mid 1800s, how-ever, a romanticist outlook on the authenticityof the soul and of feelings predominated, and fol-ly was investigated with somewhat diagnosticvocation, up until Van Gogh who scrutinizedhimself and portrayed, a melancholic, numb fig-ure in space.At this point, the western artist tried to flee hisown history and façade, trying to live a naive andinnocent life in the Southern Seas, like Gaugin.The 1900s witnessed the dissolution of identity:Modigliani, Matisse and Soutine in one-of-a-kindParis; Klimt, Gerstl, and Schiele in Freudian Vien-na; Dix, Hubbuch, Grosz, and Meidner and theexpressionist sarcasm of Germany. By now itwas impossible to represent man without put-ting him through hell or heaven in order to ex-trapolate the necessary emotional and psycho-analytic character in a self-portrait. Picasso haddepicted the numerous faces (identities) withinthe same person through an impenetrablecheckerboard of camouflaged and contortedself-portraits. Munch had presented feverishportraits of himself possessed by demons,loaded with the narcissist scrutiny, both dismaland sulky, that accompanied him for all his life,even in his photographs. Giacometti’s faces thatexplored “retreating” expressed the impossibili-ty of capturing truth. Francis Bacon representedman as disfigured scum that could only find hisreflection in the cutup leftovers of a butchershop, collected in Renaissance’s perspective cagethat had become a prison of nightmares whereone came face to face with the idea that, as thepoet Rimbaud once said, “I is somebody else”.Human passions are no longer revealed on theshifting features of the face, but in their dissolu-tion. We find ourselves in a dark, painful place,well beyond definition or classification. This iswhy the way in which one attempts to trace aself-portrait is also human science. It looks intothe understanding man has of himself over thecenturies and the understanding that appearsbefore a future that is menacingly mutant. TheFreudian school of psychoanalysis promptedsome, such as Viennese Hans Sachs who laterbecame Headmaster at Berlin’s Institute of Psy-choanalysis, to sustain that it was necessary torefuse entry to aspiring analysts who lacked aes-thetic sensibilities and interests. The revolutionbrought about by Freud and his students within

the psychoanalytic studies of art shifted the at-tention from the artwork to the artist. Theythought that by starting from the finished workof art they would be able to more or less traceboth the author’s problematic history and thesubconscious processes that had generated thework of art.

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Returning to traces left by the body and themind, let’s look at the traces, outlines and shad-ows of human identity, in representations whereit no longer seems that identity can possibly staywithin the body and be seen from the outside. Inthe age of virtual technology and intangible me-dia, the man within the mirror has already beencloned and he has been substituted by his ownreflected image. Several concepts emerge fromthese events: the concept of physiognomy, itsaesthetic and scientific interpretation; the con-cept of the individual, of personality; social iden-tity and the way it is perceived; the body as anobject of identification, as representation or ascriticism; the body and introspection, both scien-tific and spiritual.The poet, writer, and playwright Antonin Artaud,who was “more surrealist than the surrealiststhemselves”, and author of some insane, shock-ing self-portraits, wrote the following in 1947just after leaving the insane asylum: “‘The humanface is an empty power, a field of death ... aftercountless thousands of years that the humanface has spoken and breathed, one still has theimpression that it hasn’t even begun to say whatit is and what it knows.” Up until the 1900s, artdelighted in beauty, in finding the proportions ofthe face and of the body. A conflict betweenrestoring the norm, totalitarianism and its aver-sion was soon to come, a fight for a body thathad lost sense of its totality. Duchamp and Pi-cabia’s “celibate machines” announced the au-tomaton, the command-control exterminatorand the mincemeat that the dictatorships wouldcreate. Following the war, mankind was de-stroyed, and its body was destined to be swal-lowed up by matter. This is when the self-portrait started looking at it-self, towards the painful paste of Fautrier’s“Otages” or the tortures of the Crucifix. The an-guished body-art by the Austrian actionists of the‘60s such as Rainer, Brus and Shwarzkogler,searched for truth in the “sacrifice” of their own

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tortured body. However, the youth movements inall the West at the end of the 1960’s breathed“health” back into the body with strength. “…peo-ple believed in socialism, sexual freedom, the erad-ication of disease and unlimited technologicalprogress. They had come to look upon themselvesas immortal,” wrote Jean Clair in 1995 in the cata-logue of the Venice Biennale’s Centenary exhibi-tion, which was aptly entitled, “Identity and alteri-ty” and covered 100 years of the history of thebody and the portrait in art. Immediately after,however, we have found ourselves subject to dis-eases of previously unknown virulence, biogeneticmanipulations, nationalist tendencies, religious fun-damentalists, ethnic and tribal massacres, imperial-istic wars, and precarious economies, and to tech-nological progress which has become synonymouswith the obliteration of humanity.Therefore, taking into account the theme of theself-portrait, we have asked the artists what isthe secret, sacred and inaccessible place inwhich a human being hides to protect himselffrom a technological-scientific-social apparatuswith its exasperated rationalization, within an ir-rational and inhumane reality, that prompts an ob-sessive need in the individual to demonstrate hisown existence.During the last decade, art has learned to ob-serve life, human identity and the unshakeable na-ture of man when confronted with another, evendown to the minute details he carelessly reveals.Today’s tendencies tell us that life and art areblending. Everyone is searching for his own bio-logic, psychic, sexual, cultural or ethnic identity.We are trying to reaffirm the boundaries be-tween ourselves and the Other, even if onlythrough traces, fetishes and secretions that testifyour psychosomatic obsessions and phobias. Weno longer speak today of identity, but of “psychosoma”, in order to indicate how identity eludes usand mutates along the boundary between situa-tions and connections with the world. We are in aprecarious position between “what has beenseen” –according to defined, historical, public andadvertised codes—and a face and a body thathave mobile and temporary boundaries. The theme of the self-portrait has once againreturned front and center in art in the last fewyears. Previously it seemed as if the object hadasked the “self” to step aside. Today we ask our-selves if the portrait can still trace a precarious

border around “self” before it disintegrates, be-fore it is erased by a stereotype that the more itis highlighted the more it is absorbed byanonymity and by indifferent consumption. Thisis why the cumbersome, exasperated presenceof the body as “an object of identification” ap-pears today in art. Artists, the last artisans, arethose who stand outside on the fringes of socie-ty to defend differences, setting vernacular, slangor sectarian elements against the popular, massmedia culture. Nevertheless, a sense of uneaseand threat surfaces as regards ecology, our an-thropological memory, and our daily physical andpsychological dimension. The contemporary self-portrait shows how the figure today is a text tobe interpreted by the viewer: identity is subjectto the image.

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Most of the participants in the NYU programchose to approach the self-portrait through theexperience of the feelings that make up life. Inthe catalogue each student also chose to pres-ent, through few or more words, the work he orshe had completed for the fourth edition of“Clara e gli americani”. Clara Scarampella Lom-bardi did so as well, and tells her story throughan installation that spans her entire lifetime.

Dominic Albo projects himself as a fleetingshadow on window shutters. He seems to won-der at how his own “real” presence drowns intothe elusive distance. Yet, by setting his image onwood, he truly tries to withhold the momentthat has been lived. He asks himself what rela-tionship exists with the places one has passedand what “area” does a person have as he passesthe street leaving an ephemeral trace of himself.Man is not but a dream of his own shadow thatdissolves when hit by absolute light.

Ioanna Angelopoulous develops a conceptualinvestigation around a tradition (of the historyof a people, of cultures, sexual and social experi-ences) that construct individual identity. TheGreek past of her parents and the Americanmodernity she lives in blend within a work thatassembles an embroidery frame within a pen-dant, linen fabric, synthetic nylon thread, andtracing paper, all held precariously by tiny pins.Identity in this work becomes the weaving andre-weaving of personal existence on the crest ofeternal history.

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Julie Ambruster identifies herself with a man-nequin in search of contact, yearning for a handthat might bring her to life or, with a garment,give her life. Like a deep breath that breaths inlife, the dress is a veil waiting to clothe the bodyand it underlines uncertainty between identityand simulacra. There is anxiety to breathe in theincessant, metamorphic energy of the universe,rather than become a fossil characterized bycanonic, identical form.

Lori Bauman makes us trip over her “cumber-some” self. A downtrodden body in a photo-graph —the statue of a partisan—is placedamong drapes of cloth in a wooden box as if itwere a nomad reduced to rags and thrown atthe feet of passersby. Bauman has taken themost vile and banal object that an artist mightsee and given it life. The work echoes ideas oftolerance and precariousness, and a distinct re-fusal of totalitarian certainties and truths. Itpushes towards the extreme margins of exis-tence, confronting itself with trash art and con-ditions of destabilization. It presents a state ofalarm and bewilderment that makes one feel in-secure of what the future may bring.

Josana Blue tells us that the price to pay for a“socially acceptable” identity is to follow fashion,to create a banal persona devoid of mystery thatis a copy of another. Her work illustrates howmankind has completely maintained its outerbody, but has left its inside devoid of content.Her self-portrait is two sided and her double ison the backside of the stereotypes, where shewrites freely trying to pour out a “mysterious”,lyrical and sensual presence through the line. Ifthe images appear banal, it is the writing that re-stores them their aura.

Susan Kendall Bradford takes a nude femalefigure and etches her in the expressionist-primi-tive style onto copper. Imprisoned within hercage, the woman-totem comes in contact withnature and is complete in existential terms;mankind has returned to its simple origins. Yet,the space that separates and closes in on the sa-cred-icon figure, the primordial divinity, alsoshows us blatantly how far we are from reachingthese roots.

Josephine Brown unites daily experience withmythology and identifies her personal experi-ence with the Venetian Regatta of the Reden-

tore, a ritual that narrates Venice’s marriage tothe sea. Immersed in boundless energy followinga rhythm of metamorphosis, Brown finds herselfwithin the metaphoric feelings of reality. Thepace is set by her American ancestors and thewhole of her experiences, including those withinthe artistic tradition, that span her life. The workappears as a refraction of psychic waves, a phan-tasmagoric construction of encompassing andomnipresent intensity.

Lauren Brown appears to have presented herprofile according to the traditional style of theself-portrait within the mirror, with a framethat is covered with entwined aluminum bandsand metal pins. Upon closer look, however, themirror reflects a photograph of herself on thebackside and the metallic frame reflects theviewer’s face in a kaleidoscope of broken parts.The self-portrait can only exist in broken partsthat are connected by a network of relation-ships and casual glances. The artist within thepiece observes what occurs around her andwhat happens in front of her, creating an infinityof reflections of herself within others and viceversa.

Kim Celona has approached the self-portraitas a revelation in progress, using the partial im-age of a face. The golden locks seem to remindus of how we all would like to live forever, butthe geometric approach in style seems to wantto define and measure the coordinates of a per-son who cannot but be enigmatic, protected bythe mystery in the half that is hidden. Identity isa combination of what is revealed and what re-mains secret. It has been said that the self-por-trait will always reflect a human being that isafraid to expose himself to judgment that couldlast a lifetime.

Yiye Cho reduces herself to the “mass-woman”, the common citizen identified by a barcode. She writes that our society classifies usand registers us more each day, at every time ofday, depersonalizing us completely, ignorant ofthe deep truths within each one of us and clue-less even of our own faces, faces that can be ex-changed for one another. Cho’s defense to thesystem is the hand that simulates the bar codelines, with her sensitive approach that is in directcontact with the identity within her.

Jill Gogal identifies herself within a universe of

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symbols and numbers. Identity for her is a sum-moning of various destinies, an encounter withothers at the crossroads between symbols andcosmology. The iconic symbols and numbers arelike a rebus that tries to find an answer to thechaos we call identity: a viewfinder, an eye, anumber (her age?)…these are all the objects shecan grip to in order to remember and trace apersonal history. The lives of each one of us can,in fact, also be counted by simply listing thehours, days, and years.

Michele Kurlan describes herself throughmetaphor. She is reflected in the flying umbrellaslike a magical star. It’s as if she would like to re-move the layers that protect her, revealing aclear, blue sky after the storm. She is both figureand landscape, melodiously surrounding herselfin a languid, yielding and gentle dream that leadsher towards universal brotherhood, allowingherself to be looked at by others.

Louise Lepore’s female nude seen from theback jealously guards her own intimacy and usesher skin as a layer of protection. Most of herback is in shadow and a ray of light reaches avery small area. Once again, identity is viewed asmystery, probably by lack of contact with others.Only after time has passed and one has reachedold age, perhaps, does one regret a lost oppor-tunity, a road not taken. However, life leaves itsmarks on the skin and we must learn to inter-pret all the signs of the body in order to findtraces of identity.

Bethany Ann Kitson Maixner places a mag-matic print of ink and pigment on copper plate.The effect is an immersion into the warmth oflife, a burning flame of existence. This contactwith life, she writes, comes from prolongedmeditation and concentration through ritual. Theritual depicts the nature it tries to represent andit is a place for her own spiritual retreat. The inkreveals a variety of shadows in varying thicknessthat suggest depth within the space and it makesus think of a cosmic place within ourselves.Maixner challenges us to search for harmonywith the energies of nature.

Janice Martin’s self-portrait is suspended onthe brink of revelation. The part in shadow is ac-tually more defined and is closer to the eyewhile the part that is lighted is immersed inmilky blindness. When we add shadow to light

our vision is clearer; if we do the contrary andadd light to shadow, the vision in the mirror sim-ply reflects darkness with a touch of light, ex-posing a fragile side of us to be uncovered withcaution. Martin invites us to move the eyearound a nebulous blanket. A person withoutshadow and darkness, without a touch of mys-tery to attracts us, is no longer a person; she ispure transparency, devoid of humanity, dissolved.

Laura Merage uses wood to box a photographthat appears to have been taken from a séance.However, the image is perhaps an inner ghost, anattempt to harness psychic energies or dark in-stinctive vibrations. The black and white self-por-trait appears to burn and crackle in flames andan unmanageable being emerges. The artistseems to study the abysses of the subconsciousand reflect modern life as neurosis. The photosy-netic print is dramatic and at the same time, sar-castic and mocking. Acknowledgement of thesavage instincts and the grotesque, unnerving,and frightening dreams we have also allows us todepict ourselves truthfully.

Manola Moretti, of Italian origin, presents acollage made of two sides that tells the tale of afemale world as an idyllic paradise. On one side,a pure, innocent young girl, light as a fairy, is im-mersed in a swarm of multicolored butterflies.On the opposite, a male hand represents an am-biguous sign of power and violation, hoveringbetween protection and threat. The female figureis suspended between coquettish and chatteringfairytale sentimentality and the harsh physicalitythat is faced when you discover the other sideof yourself. The work displays a confrontationbetween opposing forces, between female andmale.

Lori Robinson covers an extremely lightweightcube with gauze, as if it were tulle for a weddingveil. The cube, and the body it symbolizes, con-tains the main elements of life. Its perfection in-carnates the sacred qualities of life. With a sim-ple gesture life reveals its miraculous fragilityand it hands it to us as a promise, like a weddingvow, that must be guarded and cared for. Its deli-cate presence is given only once and should notbe misplaced.

Anisa Romero sews together pieces of copperthat have been painted in oil, as if she weresewing together the pieces of life. It seems as if

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her body were dilating in a fluid mass of magmathat touches upon the world to then delight andsuffer in life. The connections that bind the bodyare not completely stable and they constantlymenace death or rupture. Life must be acceptedin all its features, including its cracks and splin-ters, its fears and hopes. Nature is a caringmother that heals the wounds of our existence.

Natasha Rubirosa petrifies herself beneath alayer of wax. Gone are her exuberant physicality,her need to communicate with her body andher expressions. She distances herself and placesherself within the context of mythology, with thepower to petrify those who look upon her asMedusa once did. By painting a self-portrait ofherself she challenges time and in this particularpiece she seems to ask herself whether it is pos-sible to reflect liveliness and a life full of affec-tion. Therefore, the image we see is washedaway by time, like a fleeting ghost that yearns forthe other extreme: a true, warm being.

Lisa Solomon is caught within a tangled massof organic and inorganic elements. A vital forceforms the backbone of her own history, con-necting humans, plants, fossils and geological for-mation. Her self-portrait is closed in like a co-coon by the nature that surrounds her. Nature,in turn, is also constrained by a drawing that sheembroiders around it, like an accidental, thornythread of life.

Marcia Stuart burns it all: the canvas and thecopper that make up her torn body. The roughcanvas is no more than a “found object”, vibrat-ing with biologic and psychic rhythm, agitated byenergies that transform and mould life, a life thatstrikes and cuts into a suffering body. A simplepiece of cloth is transformed into an aestheticobject that liberates an authentically humanvoice. Stuart treats her “body” as a real bodywith skin, nerves and blood. The holes, lacera-tions and burns are like emotions, shocking rev-elations, and delusions, yet a last ray of hope re-mains, reflected in the shimmering light of asmall piece of metal.

Jaki Sungail faces the world through a port-hole at the center of the big zero. She writesthat she is a follower of transcendentalism, a vi-sion that accompanied Puritan America into thewild frontier and gave life to the gestural-exis-tential theater of abstract expressionism. It is as

if she would like to get back in touch with Moth-er Earth, but following a path that is immersedin reality and in things concrete and which leadstowards the Promised Land. She draws a circlearound herself, as if in preparation for a shaman-ic dance, that can contain the energy of herpresence and at the same time bring back uni-versal togetherness.

Champ Taylor projects himself altogether in aplace and identifies himself as the viewer, or bet-ter yet, identifies himself with a visual feeling. Hisphotograph with eight corners, placed behindglass, transmits the idea of a man that looks forand leaves behind the outline of himself at spe-cific coordinates, an outline revealed by thequantity of light within that space. He uses anenvelope to encase this experience, telling usthat he is already “somewhere else”, trying, as anartist should, to leave the world in order to tru-ly see it as it is.

Audra Tolbert also chooses to photograph aplace to tell us something about herself. Howev-er, her space is not void of human presence.Quite the contrary, it is a room inside a homecluttered with objects that have accumulatedhaphazardly on the table, chairs and electricalappliances. She approaches the self-portrait as anexperience, as a moment of transition betweenone situation and another. Each object and gar-ment accumulated reveals the condition of a ca-sual and changing lifestyle. They are awaiting or-ganization and stability. It leaves us thinking of abody that has been set aside, like the cocoonthat has been left behind by a butterfly in flight.

Gilbert K. Trent breaks down his male bodyinto pieces. The effect is a body that seems to beundergoing metamorphosis, in a vital hand-to-hand fight that is seen from various angles. Hebreaks away from formal composition to searchfor animation and archaic energies within by tak-ing the body apart, and he analyses the bodilyforms within space. They are eternally everydayanatomies, condensed into solid, primitive forcescomposed of basal impulses.

Daniel Vernola has chosen a presuming, overlydecorated frame to “flatten” his photographicself-portrait. The portrait is further suppressedby the reflective sunglasses that he wears andhis position slightly hidden by a column. Behindthis ceremony of convenience lies a well-studied

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reserve . The audacious frame evokes the cere-monial and celebrative functions that the self-portrait had in the past: the artist, for example,rendered himself in a manner that demonstratedhe was fully aware of his role in society and ofhis talent. Today the artist follows in the solemntradition, but he is represented as if lost, soon tobe swallowed up by anonymity.

*

Clara Scarampella Lombardi invites us tofollow in the footsteps of her past. She gathersautobiographical documents in a disturbing in-vestigation of her states of self-awareness. Claraalso uses digital technology while maintaining ananalytical, patient way of seeing. Her visual mem-ory is like the ghosts of the soul, that bow withmeek, yet stubborn determination and a touchof bitter-sweet irony. She gathers the fleetingand protean continuity of life, our needs and ouraffections. Her self-portraits are no longer con-tained by their physical self. They disappearamong the sands and the shadows, and becomewords.At the beginning we see the body of a child thatenters the world and tries to reinvent it accord-ing to her taste. We see her eating something onthe beach, between water, earth and sky. Herheart is red, flickering with brightness like a fish.At the end of the journey the dialogue changesto a conversation among photographs (shad-ows), painting and sculpture, a concrete mediumthat captures light and, as a consequence, exis-tence with its “voices from within”. For many years Clara worked on gatheringtraces and prints on polystyrene, sand, earth,snow, cement, rusty chains, sugar, and tree bark.She created temporary sculptures that werecaptured momentarily on emulsified paperthrough photography. This process functioned asa filter for time that has passed away and it wasan attempt to keep the skin of the objects thathad gone away. Therefore, she has always dealtwith the concept of how to hold on to experi-ence and to the mystery of what has been livedand has then become ashes. It is precisely fromthe ashes, the grains of sand, the handfuls ofsnow, the teaspoons of sugar and the fragmentsof a moment that vital energies can be withheld. Some of the photographs that follow Clara asshe grows up acquire importance as guardians ofthe magic of seeing. It would be enough to “lis-

ten to our sight” in order to hear the voicesthat whisper from our heart and to continueplaying as a child, in a game construction and de-struction of dreams drawn out in the sand. Thatsame child appears behind a triptych and posesfor a portrait at her first communion with alarge green bow on her head, full of hope. Theshutters reveal a dual mask or totem pole madeof sand, also tattooed in green as a propitiatoryritual. That little girl then became a woman andshe poses side-glance with “glamour”, her eyesfull of surprise at the marvels of life. Chains hangin the background of this photograph, forewarn-ing what time will bring.The child on the beach and the totem polemade of sand without its propitious tattoosreappear later on. The game of life now en-larged, dilated and repeated appears in the sand;it is built and then, piece by piece, taken apart.We see the fish-heart once again. This time itsmouth is gaping, “speechless”, and stripped of itsflesh. A dramatic self-portrait accompanies it: itis a digital print of another, older work done incharcoal, that has been revisited and decoratedlike charming embroidery. However, the cuttingaluminum reveals acute torment. Further aheadwe see hope return in the aspirations of a puredream: Clara renders herself in calm abandon-ment within the veils of sugary light. A trapped, double heart signs the parallel courseof sacred and profane love, of pure love and pas-sions. Writing unites both worlds with thephrase: “To love is to allow yourself to be takenadvantage of.”The little girl that was able to erase it all in thesand with her tiny foot may incarnate destiny,but only if it is welcomed with serene accept-ance. The self-portrait installation is entitled:“Alone”. “You alone, come here,” was a phraseClara’s mother used to call her with. She facesthe vicissitudes of life alone, but there is a re-newed, constant disposition to welcome loveand to welcome others. Life, like the castles inthe sand and in the sky, evaporates but does notwholly disappear. It remains within the light thathas created through giving to those that youhave loved and that have loved you back. Theshell of the objects and experiences that havebeen ours will never be lost if they have beenused as blocks to construct the membrane ofour soul.