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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Ufficio del Referente per la Formazione Decentrata Magistratura Ordinaria Corte di Appello di Bologna Incontro di studio sul tema: LE CONDOTTE DI STALKING LE NORME E LA PRASSI APPLICATIVA Bologna, 15 aprile 2010 “Il delitto di stalking: questioni interpretative e prassi applicativa”

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Ufficio del Referente per la Formazione Decentrata

Magistratura Ordinaria Corte di Appello di Bologna

Incontro di studio sul tema:

LE CONDOTTE DI STALKING LE NORME E LA

PRASSI APPLICATIVA

Bologna, 15 aprile 2010

“Il delitto di stalking: questioni interpretative e prassi applicativa”

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Relatore

Dott. Roberto Ceroni

Sostituto Procuratore

Procura della Repubblica di Ravenna

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I. PREMESSA

Con l’art. 7 del d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 recante “misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”, e convertito in legge 23 aprile 2009, n. 38, il legislatore italiano ha introdotto nel codice penale una nuova norma incriminatrice (l’art. 612 bis c.p. “Atti persecutori”) in base alla quale:

“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato d’ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.

Con questa nuova norma incriminatrice, il legislatore italiano ha inteso reagire con il fenomeno meglio noto come “stalking” – oggetto in molti ordinamenti stranieri di specifiche discipline sanzionatorie – ritenendo che le fattispecie criminali già presenti nell’ordinamento lasciassero inaccettabili vuoti di tutela. Ma la nuova fattispecie non esaurisce la disciplina “anti-stalking”: il legislatore ha anche potenziato la tutela “preventiva” della “potenziale” vittima degli atti persecutori introducendo l’istituto dell’”ammonimento” (art. 8), ha arricchito il catalogo delle misure cautelari personali prevedendo la nuova misura del “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa” (art. 9 che introduce il nuovo art. 282 ter c.p.p.) e ha prolungato sino ad un anno (rispetto ai precedenti sei mesi) la durata massima dell’”ordine di protezione” del giudice civile (art. 10 che modifica l’art. 343 ter c.c.).

Le disposizioni sullo “stalking” provengono da un testo parlamentare e più precisamente il d.d.l. n. 1440 già approvato – pressoché all’unanimità – da uno dei due rami del Parlamento (la Camera) il 29 gennaio 2009 e gia trasmesso all’altro. Il Governo, pertanto, ha fatto proprio un testo che aveva già trovato il favore di un ramo del Parlamento, con l’unica differenza che nel decreto e nella legge di conversione non ha trovato spazio la previsione dell’estensione, alla nuova fattispecie, dell’uso dello strumento di indagine delle intercettazioni telefoniche, diversamente da quanto era previsto nel d.d.l. C1440 (precisamente all’art. 3, comma 1°, lett. a).

. . .

II. RAGIONI DELL’INTRODUZIONE DELLA NUOVA NORMA INCRIMINATRICE

Per meglio comprendere il fenomeno criminale che il legislatore ha inteso contrastare con la disciplina in esame, è opportuno fare qualche esempio di condotta comunemente considerata “persecutoria”. Lo stalking, infatti, è un fenomeno ormai noto da tempo nel mondo occidentale, il che ci consente di individuarne se non i confini – compito questo ben più arduo – quanto meno alcune pacifiche esemplificazioni:

- una prima variegata tipologia di condotte potenzialmente rientranti nella nozione di stalking sono le comunicazioni indesiderate (lettere, telefonate, sms, eccetera), dirette solitamente alla vittima stessa, ma in certi casi anche a parenti, amici o colleghi di lavoro della vittima;

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- una seconda categoria di atti persecutori sono i contatti indesiderati dello stalker con la sua “preda”, quali i pedinamenti, gli appostamenti sotto casa o al lavoro, la frequentazione degli stessi luoghi della vittima, eccetera;

- vi è poi una variegata tipologia di “comportamenti associati”, come l’ordinazione di beni o servizio a nome della vittima o, viceversa, la cancellazione di ordini precedentemente effettuati dalla vittima, ancora, una forma di persecuzione riconducibile a questa tipologia di casi consiste nella pubblicazione di annunci, a nome della vittima, che inducano terzi a mettersi in contatto con la vittima stessa.

Come può desumersi dagli esempi richiamati, lo stalking può pertanto definirsi come un fenomeno sociologico per cui una persona (c.d. stalker) compie nei confronti di un’altra (la vittima) molestie assillanti/atti persecutori variamente caratterizzati e normalmente diretti ad incidere negativamente sulla qualità della vita di quest’ultima e/o ad instaurare una sorta di sorveglianza, controllo o ingerenza da parte dello stalker sulla vittima.

Questo è dunque il fenomeno che il neo introdotto art. 612 bis c.p. intende sanzionare.

Le ragioni dell’introduzione di una specifica norma incriminatrice per questo tipo di condotte risiedono sostanzialmente nel fatto che, prima della sua entrata in vigore, gran parte delle condotte oggi ricomprese nell’alveo di questa nuova fattispecie non ricevevano un’adeguata risposta sanzionatoria.

Sino all’entrata in vigore del delitto in esame, le principiali norme incriminatici applicabili agli stalker erano quelle di cui agli artt. 660, 612, 594 e, nei casi di maggior gravità, 610 c.p.. Dette norme incriminatici, tuttavia, sia di per sé sole, sia congiuntamente, non risultavano comunque in grado di fornire un’idonea “copertura” a tutte le possibili manifestazioni persecutorie, lasciando così impunite un’ampio spettro di condotte poste in essere dagli stalker:

- l’art. 660 c.p. è risultato inadeguato ed insufficiente in a perseguire le condotte di stalking in quanto indirizzato a reprimere le molestie o i disturbi arrecati ad un determinato soggetto in un luogo pubblico o aperto al pubblico, oppure tramite un mezzo invasivo come il telefono, lasciando così scoperte le molestie avvenute in luoghi diversi da quelli indicati (si pensi all’interno dell’abitazione o dimore private) o con mezzi diversi dal telefono (internet);

- gli artt. 594 e 612 c.p. è di tutta evidenza come, essendo destinati a reprimere le sole condotte di ingiuria e minaccia, ricoprano un raggio di azione alquanto limitato rispetto a tutte le possibili forme di manifestazione del fenomeno dello stalking;

- l’art. 610 c.p., nonostante il ricorso ad interpretazioni particolarmente “estensive”, ha lasciato nel tempo scoperte tutte quelle forme di stalking che si realizzano con condotte diverse dalle minacce e dalle violenze. Non solo. Anche nei casi in cui si è fatto ricorso a questa ipotesi normativa, problematico è sempre stato l’accertamento non solo e non tanto della/e minaccia/e, quanto dell’effettiva costrizione della vittima ad un facere o un non facere “determinato” in rapporto “diretto” con la/e minaccia/e poste in essere dallo stalker. In particolare, se è consentito riconoscere l’ipotesi di cui all’art. 610 c.p. nei casi in cui la persona offesa si sia determinata a non andare ad un concerto in ragione di reiterate minacce ricevute ovvero a cambiare utenza in ragione di assillanti telefonate minatorie, in relazione ad atti persecutori che inducano la vittima a non uscire di casa a certi orari o a modificare l’itinerario dei propri spostamenti, difetta sovente un concreto nesso di strumentalità tra le minacce (molte spesso generiche) ed i suddetti eventi, ai quali non sono normalmente dirette le intimidazioni, non potendosi pertanto parlare di “costrizione” ai sensi dell’art. 610 c.p. se non a mezzo di una chiara forzatura della lettera della norma penale, sconfinante nella vietata analogia in malam partem.

Si evidenzia inoltre come le norme incriminatici applicabili agli stalker sino all’entrata in vigore dell’art. 612 bis c.p., fatta eccezione per la “violenza privata” che però era applicabile – come

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appena visto - solo in pochi casi, erano del tutto insufficienti a tutelare le vittime di questi, sia in sede di misure cautelari (inapplicabili salvo che per le ipotesi di cui all’art. 610 c.p.), sia in sede di applicazione della pena definitiva (del tutto inadeguata a fronteggiare la gravità del fenomeno criminale in questione).

Risulta perciò confermata la grande utilità della nuova norma incriminatrice di “atti persecutori”, inserita all’art. 612 bis c.p., la quale, in ogni caso, al di là di ogni considerazione sulla cornice edittale, consente comunque una valorizzazione delle attività vessatorie e persecutorie nella loro specifica unitarietà, complessità e peculiarità.

. . .

III. ELEMENTI COSTITUTIVI DEL REATO ED OGGETTO DI ACCERTAMENTO

DA PARTE DELL’AUTORITÀ GIUDIZIARIA.

1. La condotta materiale.

L’art. 7, comma 1, del decreto legge introduce dunque nel codice penale, all’art. 612-bis, l’inedita fattispecie di «Atti persecutori», formula con la quale è stato interpretato il termine di estrazione anglosassone stalking (da to stalk, letteralmente “fare la posta alla preda”), utilizzato anche dalla dottrina italiana per definire le condotte di insistita interferenza nella sfera privata altrui.

Si tratta di un delitto doloso inserito tra quelli contro la libertà morale e punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni, la cui fattispecie ha ad oggetto le «condotte reiterate» di minaccia o molestia che determinano nella persona offesa «un perdurante e grave stato di ansia o paura», ovvero ingenerano nella medesima «un fondato timore» per la propria incolumità o per quella di un prossimo congiunto o di altra persona alla stessa legata da un vincolo affettivo, o, ancora, la costringono «ad alterare le proprie abitudini di vita».

La condotta tipica si identifica, in definitiva, in quelle di minaccia e di molestia già contemplate dall’ordinamento penale.

La prima, oltre a costituire elemento costitutivo di diversi reati (si pensi, ad esempio, alla violenza privata, alla rapina o all’estorsione), è oggetto, come noto, della specifica incriminazione di cui all’art. 612 c.p. e nella tradizionale e consolidata interpretazione essa consiste nella prospettazione di un male futuro e ingiusto, la cui verificazione dipende dalla volontà del soggetto attivo (ANTOLISEI);

Molestare significa invece, sempre secondo il senso comune, alterare in modo fastidioso od importuno l’equilibrio psichico di una persona normale. E questo è sostanzialmente il significato evocato nell’art. 660 c.p. (l’unica fattispecie che utilizzi tale terminologia), laddove viene fatto riferimento alla molestia alle persone; di qui il valido aiuto che senz’altro troverà l’interprete, ai fini dell’esegesi della nuova fattispecie, nell’esperienza giurisprudenziale (tra le altre, Cass. 11755/91; Cass. 6905/92 – la cui massima recita: “Il continuo, insistente corteggiamento, chiaramente non gradito, di una donna, che si estrinsechi in ripetuti pedinamenti e in continue telefonate, realizza

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non solo l'elemento materiale del reato di cui all'art. 660 cod. pen., ossia "la molestia", ma altresì la sua componente psicologica in quanto la relativa condotta è rivelatrice di "petulanza" oltreché di "motivo biasimevole" – Cass. 7379/00 – la cui massima recita: “Il fatto di pedinare e attendere un congiunto del presunto debitore sotto casa in ora notturna in compagnia di altre persone, posto in essere successivamente a numerose e insistenti telefonate al debitore stesso, costituisce condotta oggettivamente molesta, caratterizzata sotto il profilo soggettivo dalla petulanza, intesa come volontà specifica di dare fastidio a una persona, idonea ad integrare il reato di cui all'art. 660 cod. pen.” – Cass. 4053/03; Cass. 9619/04; Cass. 19071/04;) maturata in relazione a detta contravvenzione. Va peraltro sottolineato che l’art. 660 c.p. utilizza il concetto non per definire la condotta, bensì il suo risultato e cioè la molestia sofferta dalla vittima di una condotta idonea a produrla. Ciò però non precluderà il ricorso ai risultati giurisprudenziali e dottrinali già raggiunti in ordine alla citata contravvenzione, poiché le condotte riconosciute idonee a concretizzare la molestia certamente potranno costituire esempi di condotte “molesta”.

Quelle di minaccia e – soprattutto – di molestia sono comunque nozioni elastiche, idonee a provocare qualche tensione dei principi di tassatività e determinatezza, ma la selezione da parte del legislatore di una terminologia che vanta una robusta tradizione interpretativa può ritenersi tutto sommato tranquillizzante argine contro pericolose estensioni dell’ambito della norma incriminatrice nella prassi applicativa.

In fondo rinchiudere una realtà criminologia così vasta e complessa, come quella cui intende fare riferimento la nuova incriminazione, in formule di maggior dettaglio, ma anche più rigide, avrebbe rischiato di renderla inefficace e dunque il punto di equilibrio raggiunto, tra principi costituzionali ed esigenze di tutela, pare ragionevole.

Del resto la prospettiva comparatistica dimostra come anche gli ordinamenti stranieri che hanno deciso di dotarsi di incriminazioni analoghe, hanno incontrato simili difficoltà nel confezionare sintesi normative completamente soddisfacenti nella prospettiva segnalata.

Così ad esempio, nel Regno Unito, il Protection from Harrasment Act del 1997 contempla una figura di reato corrispondente a quella dell’art. 612 bis c.p. che consiste in “qualsivoglia condotta che possa costituire molestia per una persona oppure possa indurla a temere una imminente violenza su di sé”.

Analogamente in Germania, l’art. 238 StGB, riformulato nel marzo del 2007, punisce chi “perseguiti illecitamente una persona cercando insistentemente la sua vicinanza, tenti di stabilire con essa un contatto tramite i mezzi di telecomunicazione o l’ausilio di terzi, ordini merci o servizi utilizzando abusivamente i suoi dati personali oppure induca un terzo a mettersi in contatto con esso, minacci con lesioni corporali l’incolumità, la salute e la libertà della vittima o di una persona ad essa vicina, oppure compia azioni simili che rechino grave pregiudizio all’organizzazione di vita di tale persona”.

Come si vede, dunque, perfino la tecnica legislativa “casistica” utilizzata dal legislatore tedesco (indubbiamente quella che maggiormente consente il rispetto del vincolo di determinatezza) ha richiesto la configurazione di una clausola estensiva indefinita di “chiusura” al fine di garantire che la norma incriminatrice possa aderire alle infinite (e non prevedibili dall’astrazione normativa) sfaccettature che la condotta tipica può assumere nella realtà.

Tornando all’esame dell’art. 612 bis c.p., va evidenziato che la tipicità delle condotte di minaccia o di molestia è caratterizzata, per espressa volontà della norma incriminatrice, dalla loro reiterazione.

Per la sussistenza del reato è dunque necessaria la realizzazione di una pluralità di comportamenti tipici, non importa se omogenei od eterogenei tra loro.

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Alla luce di questo specifico connotato della condotta criminosa, può ritenersi che il neo introdotto delitto di atti persecutori rientri nell’alveo dei c.d. reati “abituali” o a condotta reiterata. Il delitto in esame, tuttavia, a differenza delle comuni figure di reato abituale (vedi ad esempio l’art. 572 c.p.), è caratterizzato, come si vedrà, dalla necessità che le “condotte reiterate” producano determinati eventi. La qualificazione giuridica dell’ipotesi riveste una notevole rilevanza pratica:

- anzitutto, attesa la procedibilità a querela del reato de quo (salve eccezioni), il termine per la presentazione della stessa indubbiamente andrà a decorrere dal compimento dell’ultimo atto persecutorio;

- analogamente, anche il termine di prescrizione del reato de quo dovrà farsi decorrere dalla data di compimento dell’ultimo degli atti persecutori (ovvio che, ad entrambi i fini citati, dovrà farsi riferimento anche al correlativo verificarsi – o aggravarsi – dell’evento del reato);

- la competenza territoriale, in virtù di una consolidata giurisprudenza già pronunciatasi in ordine al reato di maltrattamenti (incontrastata sin da Cass. 3032/87), si radica nel luogo di compimento dell’ultimo degli atti persecutori;

- a differenza del reato permanente, è necessario contestare specificamente in dibattimento i fatti nuovi emergenti ed idonei ad integrare la fattispecie per cui si procede, così aggiornando, per tutti i conseguenti risvolti, la data di perpetrazione del fatto (Cass., Sez. VI, 28 febbraio 1995);

- consentirà di procedere all’arresto tutte le volte in cui il fatto nel quale viene colto in flagranza il responsabile risulti alla P.G. non isolato, ma quale ultimo anello di una catena di comportamenti persecutori (orientamento consolidato sin da Cass., Sez. VI, 22 aprile 1994 e già affermato dalle pronunce di merito). Tuttavia, preme segnalare che per poter rendere effettiva la facoltà di arresto della P.G. in situazioni di stalking e per effettuare comunque un monitoraggio delle situazioni a rischio anche in un’ottica di formazione della prova dell’abitualità della condotta deviante molto proficuo sarebbe estendere la prassi già seguita da alcune Procure (tra cui spicca quella di Milano) proprio nel settore dei maltrattamenti in famiglia ed abusi sessuali, ovverosia l’istituzione di una banca dati centralizzata dove convogliare tutte le segnalazioni redatte da personale di polizia intervenuto in situazioni potenzialmente riconducibili a fenomeni di stalking (liti verbali, denunciati pedinamenti, aggressioni fisiche, eccetera), segnalazioni che normalmente non vengono in alcun modo classificate e che, soprattutto, non vengono messe a disposizione di tutte le forze dell’ordine, ma al massimo di quelle intervenute.

L’utilizzo del verbo “reiterare” sembra suggerire altresì che tali comportamenti debbano necessariamente succedersi nel tempo e non rilevino, invece, qualora realizzati in un unico contesto. Conclusione, peraltro, asseverata proprio dalla natura degli eventi che completano la fattispecie oggettiva e che appare altresì compatibile con le stesse ragioni dell’intervento legislativo.

Come emerge, infatti, dal dibattito parlamentare sul d.d.l. n. 1440 (il cui testo, approvato in prima lettura, come già illustrato, è stato utilizzato dal Governo per la redazione del decreto), la nuova norma incriminatrice intende colmare una lacuna di tutela determinata dall’incapacità delle incriminazioni di minaccia, molestie, e violenza privata a fornire una adeguata risposta repressiva al peculiare profilo criminologico di colui che pone in essere comportamenti consimili in maniera seriale. Mentre le incriminazioni tradizionali sono tendenzialmente calibrate sull’episodio singolo, potendo al più la reiterazione della condotta illecita dare vita ad un ipotesi di reato continuato, quella di nuovo conio elegge proprio la serialità dei comportamenti ad elemento costitutivo, perché è in tale serialità (e non tanto nell’entità delle condotte che la compongono) che individua l’effettiva misura della lesione del bene tutelato, come suggerito dalla stessa rubrica legis.

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Se dunque lo stillicidio persecutorio rappresenta “l’in sé” dell’incriminazione, sembrerebbe inevitabile concludere che i singoli comportamenti, per essere rilevanti, debbano, per l’appunto, succedersi nel tempo.

Comprensibilmente, peraltro, il Governo non ha posto in proposito dei vincoli precisi, atteso che la determinazione di questo “tempo” non è misurabile a priori (dipendendo dalle peculiarità del caso concreto), potendo essere concentrato nell’arco di pochi giorni, come dilatato in quello di molti mesi.

Un problema interpretativo ulteriore e più specifico che potrebbe porsi nella prassi applicativa concerne poi il lasso di tempo che deve trascorrere tra i singoli atti persecutori perché possa dirsi integrato il requisito dell’abitualità-reiterazione. Orbene, se problemi normalmente non si pongono a fronte di condotte moleste e minatorie caratterizzate da notevole frequenza e persistenza (come quelle che si verificano con cadenza quotidiana o settimanale per un lasso di tempo di settimane o mesi), maggiori problemi possono sorgere per quegli atti persecutori connotati sì da persistenza e frequenza, ma caratterizzati da una distanza temporale l’uno dall’altro particolarmente allungata o non particolarmente regolare.

A questo proposito, si ritiene di poter ricorrere alla giurisprudenza consolidatasi in relazione ad un altro reato abituale decisamente analogo, ossia quello di cui all’art. 572 c.p., i cui principi appaiono ampiamente applicabili anche all’ipotesi di specie. Circa il ricorrere dell’elemento dell’abitualità in detta fattispecie, infatti, la Cassazione ha escluso che il decorso di un lasso di tempo più o meno lungo possa di per sé contribuire a fondare o escludere il requisito dell’abitualità; ciò che conta è piuttosto che l’interprete accerti, nel caso di specie, se i singoli atti hanno tratto origine da situazioni contingenti e particolari, ovvero se rientrano in una cornice unitaria, se sono cioè “collegati, sul piano oggettivo, da un nesso di abitualità e, sul piano soggettivo, da un’unica intenzione criminosa” (tra le altre, vedi Cass., Sez. VI, 27 maggio 2003, e Cass., Sez. VI, 12 aprile 2006).

Un’altra notazione in tema di definizione dei confini della condotta del delitto di stalking. Alla luce della lettera della norma, soggetto passivo del reato è la persona che viene reiteratamente minacciata o molestata e che per l’effetto dovrà subire gli eventi-conseguenze che di seguito verranno esaminati. La fattispecie, pertanto, non si realizza nel caso in cui il soggetto minacci o molesti ogni volta una persona diversa, a differenza di quanto espressamente prevede la disciplina anti-stalking britannica (Protection from Harrasment Act1997, section 7, subsection 3).

È però possibile – e nemmeno inconsueto – che lo stalker perseguiti la propria vittima con condotte indirette, ossia minacciando o molestando parenti o amici, ad esempio perché sa che la sua “preda” è particolarmente vulnerabile proprio se viene colpita negli affetti. La fattispecie sarà comunque integrata nel momento in cui le aggressioni ripetute ai danni di una persona cara si traducano in molestie ripetute anche per la vittima “designata” in ragione del rapporto affettivo che lega i due soggetti. In questo caso, peraltro, il reo potrà essere chiamato a rispondere, a titolo di concorso formale, anche della commissione del reato ai danni del terzo, strumento e al contempo vittima della sua persecuzione.

Potrebbe invece integrarsi un’ipotesi di aberratio ictus plurilesiva nel caso in cui l’autore della condotta persecutoria coinvolga involontariamente anche una terza persona. Si pensi al caso dello stalker che ogni notte faccia telefonate mute alla vittima, finendo col terrorizzare anche le altre persone della famiglia con la stessa conviventi.

2. L’evento.

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Il delitto in esame è modellato come reato di evento.

La fattispecie incriminatrice, infatti, richiede, in forma alternativa, la realizzazione di uno tra tre tipi di evento.

Le “condotte reiterate” di minaccia o molestia devono essere poste in essere “in modo da” – alternativamente – (1) cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura nella vittima ovvero (2) ingenerare in lei un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, (3) costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita.

Al riguardo rileviamo come l’espressione “in modo da cagionare (…) ingenerare (…) costringere”, oltre ad essere del tutto singolare per il lessico del legislatore italiano, a prima vista appaia anche piuttosto ambigua, prestandosi ad essere intesa sia come necessaria verificazione dell’evento per l’integrazione della fattispecie, sia come mera idoneità della condotta dell’agente a creare il pericolo di verificazione dell’evento. Tuttavia, ogni incertezza interpretativa può essere superata ove si rivolga l’attenzione ai lavori parlamentari sul d.d.l. C1440, dai quali emerge la chiara volontà del nostro legislatore di costruire la nuova fattispecie di atti persecutori come reato abituale di evento e non come reato di mera condotta1.

Il primo tipo di evento è indubbiamente quello che presenta il profilo più problematico.

Per soddisfare il requisito di determinatezza deve ritenersi che la formula normativa intenda riferirsi a forme patologiche caratterizzate da stress e specificamente riconoscibili proprio come conseguenza del tipo di comportamenti incriminati.

In tal senso, infatti, il legislatore non si è limitato a descrivere la momentanea impressione determinata nel soggetto passivo dai comportamenti tipizzati (alcuni dei quali, si pensi ad esempio alla minaccia, sono per loro stessa natura destinati a suscitare “paura”), ma ha descritto lo stato indotto nella vittima attraverso il ricorso a connotazioni come “grave” e “perdurante”, le quali, per l’appunto, sembrano evocare una situazione di disequilibrio psicologico che assume carattere patologico e dunque obiettivo.

E’ ovvio che un’interpretazione estremamente rigorosa effettuata in questi ultimi termini potrebbe incidere sull’effettività della nuova incriminazione. Di qui, la necessità di escludere la soluzione proposta dai primi commentatori che vedevano nel “perdurante e grave stato d’ansia o di paura” una condizione di vera e propria patologia, soggetta ad accertamento e misurazione oggettivi (accertamenti medico-legali). Al di là, infatti, delle prevedibili difficoltà sul piano medico-psichiatrico di qualificazioni dello stato di ansia o di paura come vera e propria patologia, appare assai improbabile che un giudice possa decidere di disporre una complicata perizia medica sulla vittima, ben potendo valutare da sé se la vittima versi (o versasse all’epoca dei fatti) in stato di ansia o di paura (analizzando accuratamente la tipologia delle condotte persecutorie e le reazioni intraprese dalla vittima a fronte delle stesse).

1 Su questo punto si è registrato un contrasto fra la Commissione Giustizia alla Camera e l’Assemblea nel corso dei lavori. La Commissione, infatti, aveva elaborato un testo che avrebbe fatto del reato di stalking una fattispecie di mera condotta, paventando il rischio che la prova, nel processo, della verificazione dell’evento dannoso e del nesso tra lo stesso e la condotta persecutoria posta in essere dall’agente potesse rivelarsi così problematica da indebolire fortemente l’efficacia della norma incriminatrice. La Camera, tuttavia, approvò l’emendamento dell’on. Pecorella che riportava il d.d.l. C1440 all’originaria versione proposta dal Governo, e che oggi ritroviamo nell’art. 612 bis c.p., per evitare il rischio di dilatare eccessivamente la portata applicativa della norma e così assicurare un maggior grado di conformità della fattispecie al fondamentale principio di offensività.

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Per altro verso, occorre segnalare che il carattere necessariamente “perdurante” dello stato patologico indotto nella vittima ulteriormente conforta le conclusioni assunte in precedenza circa la necessaria dilatazione temporale della condotta.

Più in generale va osservato che questo continuo insistere da parte del legislatore sulla reiterazione della condotta e sulla permanenza nel tempo dei suoi effetti rappresenta l’opportuno rimedio adottato per bilanciare la inevitabile elasticità degli altri requisiti della fattispecie, nonché per distinguere il nuovo reato da quelli eventualmente integrabili attraverso le medesime condotte prese in considerazione dall’art. 612 bis c.p.

Gli altri due eventi presentano un profilo meno impegnativo, tanto che – come peraltro previsto – sono soprattutto questi ad essere oggetto in concreto della contestazione del reato, quantomeno perché risulta più agevole fornirne la necessaria prova. Del resto, sebbene il reato si perfezioni con la consumazione anche solo di uno degli eventi descritti dalla norma incriminatrice, è ben vero che nulla impedisce che gli stessi vengano realizzati congiuntamente (senza, ovviamente, che ciò comporti la configurabilità di più reati) ed, anzi, l’esperienza insegna che quelli selezionati dal legislatore tendono a sovrapporsi nelle dinamiche dello stalking.

Il timore per l’incolumità propria o delle persone vicine deve essere “fondato”, requisito che senza dubbio richiama il giudice all’accertamento della necessaria sussistenza ed oggettività del timore suscitato.

Indubbiamente l’inserimento dell’aggettivo in questione mira, ancora una volta, a limitare il potenziale espansivo della fattispecie incriminatrice, ma non può non evidenziarsi come lo stesso aggettivo possa essere foriero di qualche confusione in sede di applicazione della norma, atteso che lo stesso sembra evocare comunque una valutazione sull’idoneità ex ante della condotta a suscitare timore in una persona “normale o ragionevole”.

Una tale valutazione, tuttavia, appare poco compatibile con una fattispecie di danno quale il reato in questione e, oltretutto, risulta in deciso contrasto con la ratio sottesa all’introduzione della norma.

Un’interpretazione più corretta – in quanto conforme alla natura giuridica del reato ed alle ragioni ispiratrici della novella legislativa, nonché ai principi che governano il diritto penale (primi tra tutti quelli di determinatezza ed offensività) – pare dunque quella già sopra succintamente esposta, ossia l’accertamento della “fondatezza” del timore presuppone semplicemente la prova che la vittima del caso di specie abbia realmente provato timore in conseguenza della condotta dell’agente.

Tale interpretazione, inoltre, consentirà di ritenere cagionato l’evento anche in situazioni in cui nessuna persona “normale o ragionevole” avrebbe seriamente temuto per l’incolumità propria o di un proprio caro, ferma restando, naturalmente, la necessità per l’accusa di provare, sul piano dell’elemento soggettivo, che l’agente conosceva la particolare sensibilità della vittima e voleva, pertanto, produrre tale timore (ad es. nessuna persona “ragionevole” si turba alla vista di un paio di forbici, ma se Tizia ha una vera e propria fobia per tale oggetto e Caio, conoscendo tale fobia, le invia per posta ogni settimana un paio di forbici, allora la fattispecie può dirsi integrata per l’ordinamento). D’altra parte non può sfuggire come verosimilmente lo stalker ben informato (si pensi ad ex fidanzati/e respinti/e) ben potrebbe approfittare delle fobie anche del tutto irrazionali della sua vittima per rendere più efficace il proprio progetto persecutorio.

A sostegno poi di questa interpretazione soccorre anche la circostanza aggravante prevista dall’art. 612 bis, comma 3°, c.p. laddove prevede un aumento di pena per il caso in cui il reato sia perpetrato ai danni di un disabile, soggetto nei confronti del quale sicuramente non potrà trovare

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seguito un’impostazione quale quella sopra esposta che legge l’aggettivo “fondato” come sinonimo di “ragionevole”.

Altro problema, indubbiamente più difficile da risolvere, attiene non tanto al significato da attribuire alle persone care della vittima identificate nei prossimi congiunti, atteso che, per costoro, la norma rinvia implicitamente a quella generale contenuta nel quarto comma dell’art. 307 c.p. (che attribuisce la qualifica agli ascendenti, ai discendenti, al coniuge, ai fratelli e alle sorelle, agli affini nello stesso grado – salvo che il coniuge non sia deceduto e non vi sia prole – agli zii e ai nipoti), quanto a coloro quelle ad essa legate da una “relazione affettiva”.

A parte che la non precisa costruzione sintattica della disposizione sembra attribuire rilevanza al vincolo affettivo tra tale persona e il prossimo congiunto della vittima (ovviamente una mera svista, agevolmente rimediabile dall’interprete), la scarsa delimitazione dell’evento sotto questo profilo è indubbiamente deprecabile, giacché l’orizzonte della “relazione affettiva” è potenzialmente indefinito e avrebbe richiesto ben altro sforzo definitorio da parte del legislatore.

Nonostante l’infelice formulazione, un correttivo all’eccessiva portata del concetto di “relazione affettiva” può ricavarsi nel fatto che solo “rapporti” particolarmente “stretti” tra la vittima ed un terza persona (quali possono essere quelli – allo stato riconosciuti – di convivenza more uxorio e fidanzamento) possono giustificare nella prima quel “fondato” timore per l’incolumità della seconda, anche perché, normalmente, lo stalker, in ragione degli obbiettivi perseguiti, indirizza la propria condotta persecutoria se non verso la persona offesa, almeno verso persone a questa avvinte da forti legami sentimentali.

Inoltre, anche l’accostamento in questa sede di tale rapporto a quello di (ex)coniugio sembra consentire di ritenere che per relazione affettiva debba intendersi una relazione di carattere sentimentale, a prescindere dal fatto che vi sia stata o meno convivenza more uxorio.

Quanto all’ultimo degli eventi elencati dalla norma incriminatrice, ovvero la costrizione al mutamento delle abitudini di vita, va segnalato come il decreto legge abbia recepito una delle modifiche apportate nei lavori parlamentari del d.d.l. n. 1440 al progetto originario presentato in Parlamento, il quale prendeva in considerazione non solo le “abitudini”, ma anche le “scelte” di vita.

Si tratta di un evento che, a differenza degli altri due analizzati, ha una consistenza materiale che semplifica indubbiamente il lavoro dell’inquirente. D’altra parte, basta uno sguardo alla casistica per rendersi conto di come molto spesso la conseguenza della persecuzione cui un soggetto è sottoposto lo obblighi di fatto a cambiare numero telefonico, luoghi frequentati abitualmente, se non addirittura luoghi di lavoro o di abitazione.

Devono però effettuarsi alcune puntualizzazioni:

- anzitutto la norma parla di “abitudini”. Non pare che il ricorso al plurale sia casuale, atteso che solo l’abbandono forzato di molteplici normali abitudini può ritenersi in grado di concretizzare un’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma;

- inoltre, il mutamento delle abitudini di vita deve essere “costretto” dalle condotte dell’agente. Tale elemento sposta nuovamente l’attenzione sulle condotte persecutorie poste in essere dallo stalker, che dovranno quindi presentare connotati tali da realizzare effettivamente una “costrizione”;

- infine, parlandosi di mutamento delle abitudini di vita, dovrà emergere la “prova”, oltre che della nuova “forzata” abitudine, anche della pregressa “abitudine” (che di “abitudine” poi doveva avere le caratteristiche).

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3) Elemento Soggettivo.

Il dolo richiesto per il reato in commento è quello generico, che deve necessariamente ricomprendere anche la rappresentazione dell’evento quale conseguenza della condotta reiterata voluta dal suo autore.

Anche in questo caso è possibile attingere all’esperienza giurisprudenziale in materia di maltrattamenti in famiglia, ove la Suprema Corte ha avuto modo di precisare in più occasioni che “il dolo del delitto di maltrattamenti - nel nostro caso di atti persecutori – è senz’altro unitario, esprimendo un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica; ma ciò non significa affatto che l’agente debba rappresentarsi e volere fin dal principio la realizzazione della serie di episodi, ben potendo il dolo del delitto di maltrattamenti realizzarsi in modo graduale ed avere ad oggetto la continuità nel complesso delle singole parti della condotta” (tra le altre, Cass., Sez. VI, 17 ottobre 1994, e Cass, Sez. VI, 12 aprile 2006).

L’accertamento in ordine alla ricorrenza dell’elemento psicologico non crea normalmente particolari problemi. Nelle manifestazioni di stalking più frequenti, ovvero quelle in cui il persecutore agisce proprio al fine di rendere la vita impossibile alla sua vittima, la rappresentazione e volontà delle condotte poste in essere, nonché del relativo evento, lascia spazio a ben pochi dubbi.

Più problematico si è rivelato l’accertamento dell’elemento psicologico nel caso, ad esempio, del corteggiatore insistente che voglia conquistare il cuore dell’amata: in casi di questo genere la difesa può aver buon gioco non solo nel sostenere l’assenza di un dolo intenzionale o diretto, stante il chiaro interesse contrario dell’agente a che l’oggetto delle sue ripetute attenzioni si spaventi o cambi abitudini (con conseguente perdita di chance di successo per la propria intensa attività di corteggiamento), ma anche nel cercare di insinuare un ragionevole dubbio circa la sussistenza di un dolo eventuale, posto che potrebbe apparire verosimile che un uomo “spinto dalla passione” non metta minimamente in conto di sortire, con il proprio corteggiamento… proprio l’effetto contrario.

La peculiare struttura del delitto in commento non appare incompatibile con la figura del tentativo, purché venga raggiunta la prova della ripetuta realizzazione di atti sufficienti ad integrare un numero di condotte in grado di soddisfare il requisito della serialità posto dalla norma incriminatrice.

4) Modalità di raccolta degli elementi probatori.

La formazione del materiale probatorio presenta la caratteristica di qualificarsi essenzialmente per la narrazione del soggetto passivo del reato che deve necessariamente essere:

- analitica e descrittiva di fatti e situazioni riscontrabili; - reiterata in più momenti procedimentali; - qualificata dalla ricerca di riscontri esterni. In particolare una indagine intelligente, soprattutto per le problematiche sovente sottese e derivanti da questo tipo di reati, dovrebbe cercare di deresponsabilizzare processualmente il soggetto passivo del reato con l’acquisizione di numerosi dati di prova di riscontro alla sua narrazione ed anche rappresentativi di fatti diretti.

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In tale ottica appare essenziale procedere ad un’attenta attività investigativa di riscontro realizzata mediante:

- il sopralluogo/ispezione condotto da personale di polizia giudiziaria specializzato ai sensi dell’art. 354 c.p.p. o su decreto del Pubblico Ministero ex artt. 244, 246 c.p.p. – con eventuale ricorso all’omissione dell’avviso ex art. 364 co. 5 c.p.p. qualora sussista il pericolo di alterazione degli effetti del reato – nei luoghi di perpetrazione di alcune delle ipotesi di reato, ovvero sulla persona offesa o sull’indagato che consentono di visualizzare dei dati che potrebbero effettivamente dimostrare o concorrere a dimostrare le ipotesi oggetto di denuncia;

- la ricerca e l'acquisizione di elementi di natura documentale (certificati medici, diari tenuti dalla persona offesa – è molto utile consigliare a quest’ultima di tenere un’agenda in cui indicare giorno ed orari di ogni episodio persecutorio subito – registrazioni di conversazioni, messaggi sms, lettere o e-mail ricevuti e conservati da quest’ultima, tabulati telefonici);

- l'esame di tutte le persone che a qualsiasi titolo (prossimi congiunti, amici, colleghi di lavoro, vicini di casa) siano venute a contatto con il soggetto perseguitato durante e dopo gli episodi di minaccia e molestia ed anche nel corso dell'attività di indagine e ciò perchè le stesse potrebbero diventare testimoni diretti sulla osservazione di segni e di comportamenti della parte lesa ed anche testimoni indiretti su particolari a loro riferiti dal soggetto passivo del reato;

- l’esame di tutti i soggetti che avrebbero potuto osservare segni di violenza psicologica e fisica sulla parte lesa a causa dei particolari rapporti intrattenuti con la medesima (medici, amici, colleghi di lavoro, istruttori sportivi, parrucchieri);

- il ricorso all’intercettazione telefonica, sicuramente proficuo considerato che spesso e volentieri proprio il mezzo del telefono è utilizzato per la perpetrazione dell’illecito. Occorre considerare però che per l’ipotesi base, il ricorso a tale mezzo di ricerca della prova non risulta consentito, risultando possibile soltanto a fronte delle circostanze aggravanti ad effetto speciale previste nel secondo capoverso della norma. La mancata previsione è frutto di una scelta precisa del legislatore, in quanto, nel testo originario del d.d.l. era espressamente prevista la modifica all’art. 266 c.p.p. e l’inserimento nell’elenco di reati in esso contenuti anche del reato in questione, ma, in sede di approvazione del decreto legge, il Governo ha espunto tale previsione e la determinazione è rimasta inalterata in sede di conversione legislativa. Non può che evidenziarsi il paradosso: l’intercettazione è possibile per reati presupposto dello stalking (minacce e molestie alle persone) e non per il reato di stalking. Atteso dunque l’impianto normativo, in casi in cui l’effettiva dimostrazione del reato di atti persecutori può apparire particolarmente problematica e dove il ricorso al mezzo intercettettivo potrebbe effettivamente rivelarsi dirimente, è consigliabile una particolare attenzione alla qualificazione giuridica da attribuire all’ipotesi di reato per cui si procede, magari propendendo, di fronte ad ipotesi dubbie, per l’iscrizione di reati quali quelli previsti agli artt. 660 e 612 c.p.;

- in occasione di ogni intervento di P.G. effettuato in seguito a richiesta di aiuto di una persona offesa da reato di stalking (e comunque in genere ogni volta che la P.G. è chiamata ad intervenire in un potenziale caso di stalking), la relativa annotazione di servizio dovrà contemplare una ricostruzione dettagliata di quanto complessivamente riscontrato, dai segni sul corpo o sui vestiti delle persone coinvolte, alle dichiarazioni rese da costoro e da altri presenti anche solo informalmente (in alcuni protocolli di indagine si consiglia addirittura di attendere prima di accedere ai luoghi e di ascoltare i rumori e le grida che provengono dagli stessi, per poi annotarli in dettaglio);

- utile è inoltre la videoripresa e fonoregistrazione integrale della prima escussione della persona offesa, potendo queste forme di documentazione acquisire rilevanza al fine di dar conto di quel linguaggio del corpo, di quei gesti e comportamenti potenzialmente indicatori non tanto e non solo delle persecuzioni subite, quanto soprattutto del forte stress e dello stato d’animo in cui versa la vittima al momento del primo racconto e dell’immediatezza dei fatti. In ogni caso è poi utile nel corso della verbalizzazione, anche se in forma riassuntiva, dare atto di tali comportamenti e gesti;

La necessità di deresponsabilizzazione processuale del (normalmente unico) testimone persona offesa costituisce un obiettivo cui l’inquirente deve mirare per un duplice ordine di ragioni:

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- se è vero che la giurisprudenza costante (cfr., ex plurimis, Cass. Cass. 17/5/2007, Salvi; Cass. 11/10/2007, Marchesini; Cass. 1/4/2008, Scagnolato e altro; Cass. 8/4/2008, Capomolla; Cass. 14/4/2008, De Ritis e altri; Cass. 23/10/2008, Amdouni) ha ormai riconosciuto la sufficienza della sola testimonianza della persona offesa per giungere ad una sentenza di condanna – non ritenendo necessari elementi di riscontro esterno a quanto dalla stessa asserito, ma limitandosi a richiedere al Giudice una rigorosa valutazione delle dichiarazioni della stessa sotto il duplice profilo della credibilità ed attendibilità – è altrettanto vero che non sempre si tratta di un testimone particolarmente “forte” e che per certo verrà sottoposta ad un “pesante” controesame della difesa dell’imputato, circostanze queste che lasciano ben intuire i relativi rischi cui può andare incontro la deposizione della vittima (contraddizioni, illogicità, reticenze, eccetera). Da qui l’assoluta necessità di raccogliere quanto più materiale probatorio possibile, così potendo, da un lato, indurre le difese ad accedere a riti alternativi evitando nuove escussioni della persona offesa, dall’altro (e comunque), dar maggior peso alle dichiarazioni accusatorie di quest’ultima, “alleggerendo” senza dubbio l’escussione testimoniale;

- la persona offesa, proprio in ragione di quanto subito, si trova ad attraversare anche con la vicenda processuale un ulteriore “calvario”. Anche dunque al fine di rendere questo “viaggio” il più breve e meno doloroso possibile, è necessario cercare elementi di prova a riscontro di quanto dichiarato dalla vittima, così assicurando quegli obbiettivi processuali sopra esposti che certamente aiutano anche quest’ultima a “subire” in modo meno traumatico la vicenda giudiziaria.

. . .

IV. IL CONCORSO CON ALTRE IPOTESI DI REATO

ED I CASI DI CONCORSO APPARENTE DI NORME

L’art. 612 bis c.p., prevede una clausola espressa di sussidiarietà (“Salvo che il fatto non costituisca più grave reato”) che è stata oggetto di intenso dibattito nel corso dei lavori parlamentari del d.d.l. n. 1440.

La clausola, presente nell’originario progetto, era stata infatti soppressa dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e successivamente reintrodotta dall’Aula in sede di approvazione del disegno di legge, accogliendo il parere in tal senso espresso dalla Commissione affari costituzionali.

La preoccupazione manifestata dalla Commissione Giustizia era quella di vanificare l’intento di introdurre una specifica e differenziata repressione dello stalking, destinando la nuova incriminazione al costante assorbimento in quelle più gravi eventualmente realizzate attraverso le medesime condotte oggetto dell’art. 612-bis cod. pen..

La Camera si è dimostrata invece maggiormente sensibile alle esigenze di proporzionalità e ragionevolezza della risposta sanzionatoria, impostazione poi seguita in via definitiva dal legislatore.

Peraltro va sottolineato che potrebbe non doversi escludere il concorso tra gli atti persecutori ed altri reati più gravi, nonostante l’espressa clausola di sussidiarietà.

Quello previsto dall’art. 612 bis c.p. è reato che può essere integrato da una serie di condotte tanto omogenee, quanto eterogenee tra loro.

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E’ dunque ipotizzabile che l’eventuale fattispecie più grave dinanzi al quale il nuovo delitto dovrebbe soccombere possa identificarsi solo con una frazione delle condotte poste in essere dall’agente e sussumibili nella nuova incriminazione.

Sorge a questo punto la necessità di determinare in quale modo la menzionata clausola di sussidiarietà si coniughi con la struttura della fattispecie incriminatrice.

Si è evidenziato come il nuovo reato sia stato inserito nella sezione terza del Titolo dodicesimo del codice penale dedicata ai delitti contro la libertà morale.

Collocazione probabilmente condizionata dalla selezione della minaccia come forma di manifestazione tipica della condotta materiale.

Del resto non v’è dubbio che almeno uno degli eventi alternativi del reato risulti effettivamente compatibile con il bene giuridico della categoria. Infatti, il costringimento all’alterazione delle abitudini di vita sembra caratterizzare la nuova fattispecie come una sorta di ipotesi speciale di violenza privata.

Non vi è dubbio però che gli altri eventi considerati dalla norma incriminatrice siano connessi alla tutela di beni giuridici ulteriori rispetto alla libertà di autodeterminazione dell’individuo.

Così ad esempio la causazione di un grave e perdurante stato d’ansia o di paura può certamente avere risvolti negativi sulla sfera della salute e, dunque, in tal senso l’interesse tutelato sembra potersi identificare anche con l’incolumità individuale.

Più in generale sembra doversi riconoscere che l’incriminazione in commento cerca di tutelare nel suo complesso una fascia composita di interessi individuali, non necessariamente omogenei.

Quello di atti persecutori sembra dunque essere un reato (eventualmente) plurioffensivo.

In tal senso il reato più grave destinato ad assorbire, attraverso il meccanismo della sussidiarietà, quello in esame, non solo potrebbe non “contenere” porzioni del suo elemento materiale, ma soprattutto potrebbe non esaurire il disvalore specificamente connesso al suo evento tipico.

La clausola di sussidiarietà, in quanto relativamente indeterminata, non dovrebbe dunque trovare una indiscriminata ed aprioristica applicazione, che risulterebbe in definitiva irragionevole.

In tal senso, in accordo con le regole generali del concorso apparente di norme, la stessa dovrebbe paralizzare l’operatività dell’art. 612 bis c.p. solo in quei casi in cui il reato più grave richiamato dalla clausola risulti in grado di assorbire effettivamente il disvalore dell’evento di quello di atti persecutori.

E ciò dovrebbe avvenire solo quando l’offesa arrecata riguardi il medesimo bene giuridico o, quantomeno, beni giuridici omogenei.

In tutti gli altri casi la clausola in questione non dovrebbe pertanto ritenersi idonea ad impedire il concorso tra il reato di nuovo conio e i reati anche più gravi consumati attraverso le condotte persecutorie.

Alla luce di tali considerazioni, pertanto, può ritenersi che il più grave reato di maltrattamenti in famiglia assorbe in sé il reato di stalking, ogni volta in cui le condotte persecutorie si concretizzino in contesti e tra soggetti quali quelli descritti dall’art. 572 c.p.. L’ampio spettro di condotte ritenute dalla giurisprudenza – “serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed

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incompatibile con normali condizioni di vita” (tra le quali Cass. 7192/03; Cass. 3570/99, Cass. 8193/99, Cass. 55/03) – riconducibili al concetto di “maltrattamenti” fa sì che questi ultimi ben possano ricomprendere anche tutte le possibili forme dello stalking; inoltre, quest’ultima ipotesi risulta in grado di garantire tutela agli stessi beni giuridici salvaguardati dall’art. 612 bis c.p. e prende in considerazione una “speciali” tipi di rapporti tra i soggetti coinvolti.

Se in linea di massima i rapporti tra i due reati in questione non daranno luogo a problematiche applicative, occorre tuttavia effettuare alcune precisazioni in merito al riconosciuto raggio d’azione dell’art. 572 c.p. in contesti familiari di fatto e, nei casi di famiglia legittima, a prescindere dal rapporto di convivenza.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, evidenziando una interpretazione evolutiva della fattispecie di cui all’art. 572 c.p. correttamente correlata alla maturata sensibilità sociale circa la gravità del reato per gli effetti indotti sugli equilibri personali, ha ritenuto di fissare alcuni punti fermi: - il reato di maltrattamenti in famiglia può integrarsi, sulla scorta di un’ampia e costituzionalmente

orientata nozione di famiglia, a fronte di convivenza non fondata sul matrimonio caratterizzata da “stabilità e consolidati rapporti di mutuo ausilio e solidarietà” (tra le altre, Cass. 21329/07 e 20647/08);

- possibilità di applicazione della fattispecie anche in caso di cessazione della convivenza qualora sussistano comunque vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione. In particolare, la Suprema Corte (tra le altre, Cass, Sez. VI, 1 febbraio – 18 marzo 1999, n. 3570; Cass., Sez. VI, 7 ottobre 1996; Cass., Sez. VI, 12 ottobre 1989) ha avuto modo di affermare che questa fattispecie delittuosa si può configurare anche in assenza dell’attualità di un rapporto di convivenza, e cioè quando, ad esempio, questa sia cessata a seguito di separazione legale o di fatto, restando integri anche in tal caso i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà, che nascono dal rapporto coniugale o dal rapporti di filiazione. Tale interpretazione è confortata dal tenore letterale della norma, che prevede e riunisce il fatto di chi sottopone a maltrattamenti “una persona della famiglia”, senza richiedere che il vincolo familiare si accompagni necessariamente ad un rapporto di convivenza o di coabitazione. Ciò posto – sempre secondo la citata giurisprudenza – “deve ritenersi che integri gli estremi del delitto in esame la sottoposizione dei familiari, ancorché non conviventi, ad atti di vessazione continui e tali da cagionare agli stessi sofferenze, privazioni, umiliazioni che costituiscano fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza. Quando comportamenti del genere presentino il connotato dell’abitualità e si estrinsechino in una serie indeterminata di atti di molestia, di ingiuria, di minaccia e di violenze di ogni genere, non sembra darsi spazio a ragionevole dubbio circa l’esistenza di un programma criminoso di cui i singoli episodi considerati costituiscono espressione; e perciò sulla necessità della valutazione unitaria degli episodi stessi e sulla connessa configurabilità del dolo, inteso come volontà comprendente il complesso dei fatti e coincidente col fine di rendere disagevole in sommo grado e per quanto possibile penosa l’esistenza dei familiari dell’agente”. L’interpretazione del quadro sarà poi facilitata nel caso in cui gli atti vessatori si fossero già manifestati prima della cessazione della convivenza o, addirittura, costituissero il motivo di tale cessazione.

Rimaneva e rimane comunque irrisolta la questione relativa alla configurabilità o meno del reato di maltrattamenti nel caso di atti vessatori posti in essere ai danni dell’ex convivente more uxorio. Sul punto non risultano allo scrivente prese di posizione della Suprema Corte edite e, a fronte di tale situazione, si possono registratare nella prassi due opposti orientamenti: - il primo tende a ritenere applicabili all’ipotesi in questione i principi sanciti in ordine ai

maltrattamenti perpetrati dopo la cessazione della convivenza tra coniugi, sulla base del fatto che, una volta ricompresa nella nozione di famiglia ai sensi dell’art. 572 c.p. anche la famiglia di fatto, non possono non ritenersi applicabili i risultati interpretativi conseguenti (evidenziando altrimenti le aberranti conseguenze: famiglie di fatto con figli e protratte per anni, trattate distintamente rispetto a nuclei privi di prole e magari durati per alcuni mesi soltanto);

- il secondo orientamento – decisamente maggioritario in quanto più aderente al dettato normativo e seguito anche dal Tribunale distrettuale delle libertà di Bologna (tra cui ord. 10

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gennaio 2008) – ritiene che i comportamenti vessatori, umilianti o comunque lesivi tenuti in epoca posteriore alla cessazione del legame, andranno ad incidere su un diverso substrato, che non è più caratterizzato da quella coesione personale, dalla spontanea osservanza di quegli stessi doveri di carattere quantomeno morale ed etico che costituiscono l’in sé del rapporto di convivenza more uxorio, o che dir si voglia della famiglia naturale. La ragione per cui, eccezionalmente, la giurisprudenza ritiene rilevanti penalmente i maltrattamenti avvenuti in costanza di separazione tra soggetti già avvinti dal vincolo del matrimonio risiede proprio nel fatto che, anche durante suddetto periodo, rimangono vigenti, sebbene in forma affievolita, i doveri scaturenti dal matrimonio. Ma ciò non ha ragion d’essere dopo che è cessato un rapporto di mera convivenza: dopo tale momento, nessun vincolo di solidarietà, nessun dovere di reciproca assistenza morale e materiale, lega i due ex conviventi, ed il loro modo di rapportarsi dovrà essere valutato e riguardato – ove si traduca in lesioni di valori fondamentali – alla stregua di norme appartenenti a diverso settore dell’ordinamento penale, non già quello dedicato alla tutela della famiglia.

In un tale contesto, l’introduzione dell’art. 612 bis c.p. ed il conseguente superamento del vuoto di tutela a fronte di maltrattamenti ai danni dell’ex convivente more uxorio, indubbiamente contribuirà a superare i contrasti esistenti, favorendo, verosimilmente l’affermarsi dell’indirizzo interpretativo da ultimo indicato. Dunque, in sintesi, può ritenersi che a fronte del neo introdotto delitto di atti persecutori i rapporti che verranno a crearsi con l’art. 572 c.p. saranno i seguenti: - le vessazioni in ambito familiare (di fatto o legittimo) in costanza di convivenza ai danni

del partner rientreranno nel raggio d’azione del solo art. 572 c.p.; - le vessazioni ai danni del coniuge separato di fatto e non più convivente rientreranno

nell’ambito dei maltrattamenti in famiglia; - le vessazioni ai danni del coniuge separato legalmente e non più convivente, aderendo

all’indirizzo interpretativo sinora seguito, rientreranno nell’ambito dei maltrattamenti in famiglia. In questa ipotesi, tuttavia, non può escludersi un mutamento di indirizzo della giurisprudenza che riporti le condotte vessatorie post separazione legale nell’alveo dell’art. 612 bis c.p.. Si noti, infatti, che questa circostanza è presa in considerazione proprio come aggravante per il reato di atti persecutori, così chiaramente ammettendosi la possibilità di perpetrazione del reato in esame da parte del coniuge separato (è pur vero, comunque, che il riconoscimento di un aggravante ad effetto comune quale quella in esame, da un lato, non esclude la maggior gravità del reato di maltrattamenti e quindi l’operatività della clausola di sussidierietà, dall’altro, sempre e comunque a prescindere dalla stessa si riscontra una sostanziale sovrapponibilità delle condotte di maltrattamenti con quelle di atti persecutori ma, in ragione appunto di quanto sopra esposto, si riconosce prevalenza alle prime);

- le vessazioni ai danni dell’ex convivente more uxorio rientreranno invece nell’ambito di operatività dell’art. 612 bis c.p..

Diversamente dal reato di maltrattamenti, concorreranno con il delitto di atti persecutori, nonostante la clausola di sussidiarietà, i reati di lesioni personali aggravate e di violenza sessuale (considerata la diversità dei beni giuridici tutelati e, oltretutto, delle possibili condotte, che possono richiedere il ricorso alla violenza).

Nonostante l’ontologica diversità tra beni giuridici tutelati e, oltretutto, delle condotte integranti le rispettive fattispecie, deve escludersi il concorso tra l’omicidio (575 c.p.) ed il reato di stalking perpetrati ai danni della stessa persona offesa. Ciò in quanto il delitto di atti persecutori costituisce una nuova circostanza aggravante speciale del reato di omicidio (art. 576, comma 1°, n. 5.1, c.p.), con conseguente applicazione della disciplina di cui all’art. 84 c.p. (sul punto, la costante giurisprudenza – tra le altre, Cass. 12680/08; Cass. 6775/05; Cass. 4690/92 – relativa all’ipotesi del reato di omicidio consumato nel contesto di reato di violenza sessuale ai danni della stessa vittima, ove è stato statuito che, ricorrendo un’aggravante ad effetto speciale proprio in ordine a questa specifica ipotesi, gli eventuali reati di violenza sessuale non concorrono con l’ipotesi omicidiaria rimanendone assorbiti).

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Per altro verso, vanno a questo punto analizzati anche i rapporti tra la nuova fattispecie e quelle di pari o minore gravità (e dunque per questo comunque estranee al fuoco della clausola di sussidiarietà menzionata) che eventualmente concorrano con la stessa:

Quanto al delitto di minaccia di cui all’art. 612 c.p., è agevole riconoscerne l’assorbimento, secondo lo schema del reato complesso, nell’elemento materiale di quello di atti persecutori. La norma che incrimina la minaccia appare già sul piano strutturale elemento costitutivo del delitto di atti persecutori.

Con riguardo invece al reato di molestie o disturbo alle persone, posta un’evidente relazione di specialità reciproca, sembra comunque potersi ricorrere al criterio di sussidiarietà per affermarne l’assorbimento nel reato di atti persecutori. Quantunque la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p. sembri posta a tutela di un bene giuridico (la tranquillità pubblica) diverso da quello tutelato dalla norma incriminatrice degli atti persecutori (la tranquillità individuale), correttamente si ritiene oggi che anche la tranquillità individuale costituisca l’oggetto giuridico di detta contravvenzione, se non altro in forma mediata o indiretta (MANZINI, Trattato di diritto penale italiano; DOLCINI e MARINUCCI, Codice Penale Commentato; FLICK, Molestia o disturbo alle persone). Le due norme, pertanto, finiscono con il garantire tutela ad analoghi beni giuridici, ma ne sanzionano gradi diversi di lesione, sicché – ricorrendone tutti i requisiti di fattispecie – dovrà farsi applicazione solo della norma incriminatrice che prevede la pena più grave.

Infine, per quanto concerne il reato di violenza privata, si ritiene che tale ultima fattispecie concorra con il reato di atti persecutori ogni volta che una delle condotte poste in essere dallo stalker integri gli estremi della violenza e realizzi l’evento specifico previsto dall’art. 610 c.p.. Non solo. In determinati casi potrebbe altresì ipotizzarsi il concorso tra il reato di violenza privata e quello di atti persecutori anche a fronte di condotte di semplice minaccia. Si pensi allo stalker che durante uno dei ripetuti appostamenti decida di avvicinare la vittima per poterle parlare e, per far ciò, la costringa con la minaccia a salire sulla propria auto, così commettendo anche un fatto di violenza privata: in tal caso, sul piano della condotta vi è coincidenza fra reato di stalking e violenza privata, posto che la minaccia è al contempo elemento di entrambe le fattispecie, ma il fatto realizzato in quel preciso momento costituisce di per sé concretizzazione dell’evento previsto dall’art. 610 c.p. – in quanto la vittima viene immediatamente costretta ad un facere specifico – che è diverso ed ulteriore rispetto ad uno dei tre possibili eventi previsti dall’art. 612 bis c.p..

. . .

V. IL REGIME DI PROCEDIBILITA’ DEL REATO

Il quarto comma dell’art. 612 bis c.p. richiede per gli atti persecutori la querela della persona offesa, con l’eccezione delle ipotesi in cui il reato sia commesso ai danni di un minore o di un disabile, quando il fatto sia connesso con altro delitto procedibile d’ufficio ovvero quando il responsabile è già stato raggiunto da ammonimento del Questore.

Il termine per la presentazione della querela non è tuttavia quello ordinario di cui all’art. 124 cod. pen., bensì quello di sei mesi, analogamente a quanto previsto per i reati sessuali dall’art. 609 septies c.p.. Il legislatore non ha invece replicato la disposizione contenuta nell’articolo da ultimo citato sull’irrevocabilità della querela, che può dunque essere rimessa secondo le regole generali.

La possibilità di remissione può dar luogo almeno ad un duplice ordine di problemi:

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- anzitutto, possono verificarsi ipotesi in cui la persona offesa si determini alla remissione proprio in ragione di un protrarsi del comportamento persecutorio nei suoi riguardi, magari fatto di espresse o anche solo velate minacce di ritorsioni proprio per il procedimento penale instaurato. Atteso il contesto oggetto di indagine, l’Autorità Giudiziaria e, più in particolare, la polizia giudiziaria dovranno prestare una particolare attenzione nel raccogliere la remissione avanzata per cercare di “sondare” quali siano le motivazioni reali poste a fondamento della stessa. Una remissione estorta con minacce e violenze, oltre a non potersi considerare validamente manifestata, integra ex se un’ulteriore ipotesi di reato (se non altro l’ipotesi di pari gravità di cui all’art. 610 c.p.);

- inoltre, a fronte della remissione occorrerà valutare attentamente quali siano state le condotte persecutorie poste in essere dallo stalker e già raccolte nell’alveo della contestazione di cui all’art. 612 bis c.p.. Se, infatti, una o alcune di esse integrano anche di per sé sole ipotesi di reato procedibili d’ufficio, allora in relazione alle stesse occorrerà procedere comunque nei confronti del soggetto responsabile. Tale assunto trova conforto anche nell’art. 170 c.p., il quale, sebbene concernente un’ipotesi non perfettamente identica, statuisce che l’estinzione di un reato presupposto (comma I°: “quando un reato è il presupposto di un altro reato, la causa che lo estingue non si estende all’altro reato”) ovvero di un reato assorbito quale elemento costitutivo o circostanza aggravante di un'altra distinta fattispecie (comma II°: “la causa estintiva di un reato, che è elemento costitutivo o circostanza aggravante di un reato complesso, non si estende al reato complesso”), non si estende nei confronti di quest’ultima. Nel caso in esame la situazione è sostanzialmente rovesciata, in quanto ciò che si estingue è il reato complesso e ciò che tornerebbe in vita sono i reati costituenti i suoi elementi costitutivi, tuttavia, la reviviscenza di questi ultimi appare ampiamente conforme ai principi che governano il nostro ordinamento, non risultando alcuna violazione del principio di legalità, e, proprio in ragione della perfetta coerenza, neppure abbisogna, a differenza delle due ipotesi contemplate (in cui vengono meno per estinzione i presupposti o gli elementi costitutivi di una diversa fattispecie), di un’espressa previsione normativa.

Non possono poi sottacersi, soprattutto per i fenomeni di stalking denunciati dalla persona offesa in un momento successivo alla desistenza da parte del persecutore, i possibili problemi derivanti dal regime di procedibilità prescelto dal legislatore quale regola generale. Risulterà infatti non certo agevole nei citati casi l’esatta individuazione del dies a quo da cui far decorrere il termine per la presentazione della denuncia querela, attese le tipologie degli eventi in questione, due dei quali costituiti da veri e propri stati psicologici (come tali non sempre di facile e rasserenante prova, sia nel loro effettivo accadere sia nella loro consistenza, sia perché legati, nella loro emersione, a circostanze sintomatiche esteriori le quali ben possono essere influenzate ex post da risentimenti e pregiudizi dei dichiaranti), ed uno correlato al cambiamento del proprio modus agendi (che è categoria più sociologica che giuridica e la sua identificazione, così come la sua collocazione temporale, non appare di facile determinazione, potendo essere concausata da altri fattori esterni al reato; per non considerare che l’alterazione potrebbe, a sua volta, essere il frutto di un itinerario progressivo).

Gli atti persecutori se commessi in danno di minore non richiedono la querela. Cosa succede però se alcune delle condotte lesive vengono commesse quando la vittima ha meno di diciotto anni e altre quando invece è diventata maggiorenne, e semmai non sporge la querela? Ancora una volta occorrerà accertare quando in realtà si è verificato l’evento criminoso dell’indotta paura, dell’occorso timore o della modifica delle proprie abitudini di vita. Se accade quando la persona offesa è ancora minore, il delitto sarà procedibile d’ufficio, in caso contrario sarà necessaria la querela. Se è apprezzabile l’intento tutorio con cui si è mosso il legislatore nel prevedere la procedibilità ex officio per fatti commessi in danno di persona disabile, il richiamo all’art. 3, l. 104/92, pone

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tuttavia un dubbio collaterale. Siccome la previsione della legge quadro sulla disabilità esige un accertamento specialistico previdenziale, la superfluità della querela sarà subordinata all’esistenza dell’atto amministrativo? Da un lato condizionare l’inizio del procedimento penale ad un provvedimento o ad una certificazione esterni allo stesso sembra davvero ultroneo e tale da frustrare gli intenti della legge medesima, tanto più che il procedimento amministrativo potrebbe, a sua volta, essere influenzato dalla maggiore o minore diligenza dei tutori o di coloro che sono tenuti a provvedere al disabile, quando non anche alle lungaggini burocratiche. È dunque preferibile interpretare la disposizione nel senso che sia sufficiente l’accertamento delle condizioni di disabilità previste dalla l. 104/92, a prescindere da un atto amministrativo che certifichi l’esistenza delle stesse. Non ci si può nascondere peraltro che la presenza di un atto amministrativo, valido e attuale, semplifichi enormemente il processo. Anche se la prova delle condizioni di minorità potrebbe essere fornita da qualunque elemento, in caso di contestazioni, ivi comprese defatiganti consulenze. La sostanziale trasposizione dell’ipotesi ex art. 609 septies, comma 4°, n. 4), c.p. – ossia la procedibilità d’ufficio in caso di connessione con altro reato procedibile d’ufficio –, nel delitto di atti persecutori consente di ritenere che saranno anche qui applicabili gli esiti estensivi che ha fornito la Corte di Cassazione sul modello originario. In particolare va ricordato come la connessione in tali casi non è stata intesa solo nel senso processuale, come descritta dall’art. 12 c.p.p., ma anche come quella investigativa ex art. 371 c.p.p., anzi latamente intesa (tra le altre, Cass., Sez. III, 20 maggio 2008, e Cass.,Sez. III, 29 gennaio 2008). Vi è peraltro un contrasto in giurisprudenza tra gli arresti che ritengono permanente la procedibilità anche nel caso in cui l’imputato venga poi prosciolto dal delitto autonomamente procedibile in via officiosa e quelli che sono di contrario avviso (per le opposte tesi vedi Cass., Sez. III, 29 gennaio 2008, e Cass., Sez. III, 7 luglio 2007). Tra le più recenti può citarsi Cass. Sez. 3, n. 17846 del 19 marzo 28 aprile 2009, secondo cui “L'estensione del regime della perseguibilità di ufficio ai delitti di violenza sessuale viene meno solo a seguito dell'accertamento della insussistenza del fatto di cui alla imputazione per il reato connesso, mentre ogni altra formula di proscioglimento (nella specie di improcedibilità per estinzione del reato a seguito di prescrizione) non fa venire meno la perseguibilità di ufficio del reato sessuale”.

. . .

VI. LA PROCEDURA DELL’AMMONIMENTO

L’art. 8 l. 38/09 disciplina una misura che, nell’economia della prevenzione e della repressione dello stalking, assume grande rilievo. Si tratta della inedita procedura di ammonimento dell’autore di atti persecutori.

I primi due commi dell’articolo in commento prevedono che, fino a quando non sia stata proposta querela, la vittima possa rivolgersi all’autorità di pubblica sicurezza con un esposto nel quale richiede l’adozione da parte del Questore di un provvedimento formale di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta.

Il questore, se ritiene fondata l’istanza (anche eventualmente alla luce dell’esercizio dei poteri istruttori che la norma gli conferisce, tra i quali si segnala la facoltà di assumere sommarie informazioni dalle persone informate sui fatti), ammonisce oralmente il soggetto invitandolo a tenere una condotta “conforme alla legge”.

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Dell’ammonimento orale va redatto processo verbale, del quale copia deve essere rilasciata all’istante e all’ammonito, mentre al Questore è altresì demandata la valutazione dell’eventuale necessità di adottare ulteriori provvedimenti preventivi ai sensi della normativa in materia di armi e munizioni.

L’ammonimento può essere classificato tra le misure di prevenzione.

Lo strumento mutua, del resto, contenuti e finalità dall’avviso orale di cui all’art. 4 legge n. 1423 del 1956.

Peraltro va subito evidenziato che la disciplina contenuta nell’art. 8 è autosufficiente e dunque è esclusivamente ad essa che deve guardarsi per ricostruire il profilo della nuova misura.

Scopo dell’ammonimento è all’evidenza quella di prevenire la consumazione di atti persecutori e il suo contenuto consiste non tanto in un generico invito al rispetto della legge, quanto, come sembra doversi dedurre dall’interpretazione sistematica di tutte le disposizioni contenute nello stesso articolo, uno specifico invito ad interrompere qualsiasi interferenza nella vita del richiedente in adesione al precetto contenuto nell’art. 612-bis cod. pen..

Come si è visto, l’intervento del Questore può essere richiesto dall’interessato solo fino al momento in cui lo stesso non decida di presentare la querela.

La preoccupazione che ha ispirato in tal senso il legislatore sembra quella di evitare interferenze – anche alla luce dell’attribuzione di autonomi poteri istruttori all’autorità di polizia - tra procedimento penale e procedimento amministrativo di prevenzione.

In tal modo il legislatore sembra però voler escludere da questa ulteriore tutela tutti quei soggetti protagonisti passivi di fatti per cui è prevista la procedibilità d’ufficio, non sembrando praticabile una interpretazione secondo cui, al contrario, l’ammonimento possa essere sempre richiesto in caso di procedibilità officiosa, proprio perché in contrasto con la ratio che ispira la disposizione.

Come accennato, con l’istanza di ammonimento la persona offesa espone i “fatti” di cui è stata vittima.

Tali fatti sono dunque l’oggetto della valutazione compiuta dal Questore sulla fondatezza dell’istanza.

La norma in realtà non sembra richiedere che l’istante denunzi un reato già comunque perfezionatosi.

Conclusione che trova innanzi tutto conforto nella previsione del particolare limite temporale fissato per l’ammissibilità dell’istanza, nonché nella stessa terminologia utilizzata dal legislatore.

Infatti, alla vittima non viene richiesto di denunziare una notizia di reato, ma di esporre dei “fatti” per i quali ancora non è stata proposta querela per il reato di cui all’art. 612 bis c.p.. Lo scopo dell’intervento legislativo sembra dunque quello di assicurare a chi sia stato oggetto di condotte di stalking una forma di tutela, anche quando tali condotte non abbiano ancora raggiunto il livello di reiterazione ritenuto necessario per la sussistenza del delitto di atti persecutori.

In tal senso si esalta la natura eminentemente preventiva dello strumento creato dal legislatore e si spiega anche il suo profilo scarsamente invasivo della libertà dell’ammonito.

In definitiva con l’ammonimento il Questore non invita il soggetto a desistere dalla ulteriore consumazione di un reato già perfetto, bensì lo avverte di come la reiterazione delle condotte denunziate dalla persona offesa possa sospingere il suo comportamento oltre la soglia della rilevanza penale.

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L’ammonimento è adottato attraverso un provvedimento dell’autorità amministrativa, avverso il quale non è specificamente disciplinato nell’art. 8 alcun possibile rimedio esperibile dal suo destinatario. Se dunque, in via generale, lo stesso sembra ricorribile dinanzi al giudice amministrativo, deve evidenziarsi che quello penale, ai fini del riconoscimento dell’aggravante, deve certamente valutarne la legittimità.

Il quarto comma dell’art. 8 prevede, infine, che il delitto di atti persecutori diventi procedibile d’ufficio se commesso da soggetto in precedenza ammonito.

La genericità del dettato normativo propone il dubbio sulla necessaria identità dei fatti per cui è intervenuta l’istanza di ammonimento e quelli oggetto della contestazione mossa in sede penale (ossia se l’aggravante ed il regime di procedibilità per l’ammonito riguardino anche ipotesi di stalking dal medesimo perpetrate ai danni di persona diversa da quella per la quale aveva ricevuto l’ammonimento. Dubbio ragionevolmente risolvibile in senso positivo alla luce di una interpretazione sistematica di tutte le disposizioni contenute nell’art. 8.

Semmai qualche perplessità la disposizione in oggetto ha suscitato tra i primi commentatori della legge sotto il profilo dell’opportunità, perché la prospettiva di perdere la possibilità di condizionare la procedibilità del reato potrebbe costituire un disincentivo per la vittima a rivolgersi al Questore.

. . .

VII. LE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI DEL REATO DI STALKING

Il secondo e terzo comma dell’art. 612-bis c.p. contemplano alcune circostanze aggravanti del reato di atti persecutori, rispettivamente, ad effetto comune e ad effetto speciale.

La prima riguarda la natura del rapporto intercorrente tra autore e vittima del reato e prevede l’aumento ordinario fino ad un terzo della pena nel caso in cui il soggetto agente sia il coniuge legalmente separato o divorziato della persona offesa ovvero sia stato legato alla stessa da relazione affettiva.

Si ripropongono pertanto i dubbi relativi alla scarsamente impegnativa definizione di “relazione affettiva”, alla cui nozione potrebbero essere riconducibili una pluralità di rapporti assai eterogenei. Anche in questo caso, tuttavia, l’accostamento in questa sede di tale rapporto a quello di coniugio sembra consentire di ritenere che per relazione affettiva debba intendersi una relazione di carattere sentimentale, a prescindere dal fatto che vi sia stata o meno convivenza more uxorio.

Ma la previsione normativa pone anche altre perplessità:

- Innanzi tutto non si comprende perché il legislatore abbia incluso nel fuoco dell’aggravante colui che in passato abbia intrattenuto una relazione affettiva con la vittima, ma abbia invece escluso il coniuge separato solo di fatto.

- Per altro verso discutibile appare anche la scelta di ritenere più grave solo la posizione di colui che ha in passato intrattenuto una relazione coniugale o affettiva con il soggetto passivo del reato, ma non anche chi tale tipo di relazione intrattenga al momento della consumazione dello stesso.

In proposito, sempre nel corso dei lavori parlamentari del d.d.l. n. 1440, la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati aveva infatti modificato in chiave estensiva il testo dello schema

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originario del progetto, ma ancora una volta l’Assemblea lo ha ripristinato e dal relativo dibattito emerge che la ratio dell’aggravante si identificherebbe con il maggior disvalore conseguente alla mancata accettazione, da parte dell’autore del reato, della rottura della relazione.

Giustificazione che, in realtà, da un lato, non sembra riflettersi direttamente nella fattispecie tipizzata, per il cui perfezionamento è sufficiente che il reo sia stato in passato il coniuge o comunque il partner della vittima, senza che in qualche modo venga attribuito rilievo ai motivi che lo hanno indotto a commettere il reato; dall’altro lato, se la ratio dell’aggravante sta davvero nel disvalore rappresentato dalla mancata accettazione della fine del rapporto sentimentale, allora non si comprende per quale motivo la sanzione per tale disvalore “aggiuntivo” del fatto, nei casi di precedente coniugio, debba essere fatta dipendere da un provvedimento giudiziario, che potrebbe anche tardare, e non, piuttosto, dalla semplice manifestazione di volontà della vittima.

In realtà l’apparente discriminazione tra le statuizioni della prima e della seconda parte dell’aggravante in questione, potrebbe superarsi considerando l’orientamento giurisprudenziale sinora seguito in tema di maltrattamenti in famiglia che ritiene la sussistenza del reato di cui all’art. 572 c.p. anche a fronte di condotte vessatorie poste in essere ai danni del “coniuge” in momento successivo alla cessazione della convivenza e, quindi, in seguito ad una separazione di fatto. Tale orientamento, consentirebbe di ricondurre nell’alveo di quest’ultimo reato gli atti persecutori posti in essere dal coniuge non legalmente separato e, quindi, non potrebbe comunque trovare applicazione il reato di cui all’art. 612 bis c.p..

L’aggravante prevista dal terzo comma comporta, invece, un aumento fino alla metà delle pene previste per il reato di atti persecutori nel caso in cui il fatto è commesso ai danni di un minore, di una donna in stato di gravidanza, di un disabile (così come individuato dall’art. 3 della legge n. 104/1992), ovvero con armi o da persona travisata.

Anche in questa sede deve ritenersi valga quanto esposto in ordine alla definizione di “disabile” in merito al regime di procedibilità, ossia che è sufficiente l’accertamento delle condizioni di disabilità previste dalla l. 104/92 per ritenere integrata l’aggravante in esame, a prescindere da un atto amministrativo che certifichi l’esistenza delle stesse.

Il terzo comma dell’art. 8 del decreto configura poi un’ulteriore aggravante ad effetto comune del delitto di atti persecutori, per il caso che il suo autore sia stato in precedenza raggiunto dall’ammonimento.

Il testo normativo, anche in questo caso (ossia come per la procedibilità), è formulato in modo tale da consentire l’applicazione dell’aggravante anche nel caso in cui la vittima dello stalking sia persona diversa da quella che aveva precedentemente ottenuto dal Questore l’adozione del provvedimento di ammonimento nei confronti del persecutore. Sicché l’aggravante sembra rivolta a stigmatizzare l’indole criminale del persecutore, piuttosto che l’oggettivo disvalore del fatto. V’è da chiedersi se fosse proprio questa l’intenzione del legislatore ovvero se anche in questo caso – come già nella prima formulazione della nuova aggravante speciale dell’omicidio volontario di cui all’art. 576, comma 1°, n. 5.1, c.p. – il legislatore, in realtà, minus dixit quam voluit, dovendosi dunque riconoscere, ai fini dell’applicabilità dell’aggravante, la necessità del ricorrere del requisito dell’identità della vittima del fatto oggetto di ammonimento e del successivo fatto di stalking (soluzione preferibile anche alla luce del contenuto dell’ammonimento).

La disposizione chiarisce implicitamente, come si è già detto, che oggetto dell’ammonimento non può che essere l’invito a conformarsi al precetto dell’art. 612-bis c.p.. Ciò che invece non chiarisce è se le condotte oggetto dell’esposto che ha dato luogo all’ammonimento (potenzialmente, come detto, non idonee a ritenere già avvenuta la consumazione del reato) possano essere “sommate” a quelle commesse dopo la sua somministrazione ai fini della configurabilità dell’aggravante.

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In altri termini non è chiaro se l’aggravante si applichi anche quando il reato si è perfezionato effettivamente dopo l’ammonimento, perché solo dopo l’adozione del relativo provvedimento è stata reiterata la condotta persecutoria, ma la condotta antecedente risulti comunque essenziale per la sua configurabilità in concreto.

Infine, la commissione del reato di atti persecutori è essa stessa aggravante speciale del delitto di omicidio volontario commesso dallo stalker ai danni della vittima della persecuzione (art. 576, comma 1°, n. 5.1), c.p.).

La norma, a dire il vero, non precisa che l’omicidio debba porsi come esito di un’escalation di violenza che abbia preso le mosse dalla condotta persecutoria del soggetto; sicché parrebbe che l’aggravante in questione possa applicarsi anche nel caso in cui l’omicidio non presenti alcun collegamento oggettivo col delitto di stalking (ossia nell’ipotesi in cui l’omicidio non si presenti come l’atto persecutorio definitivo ai danni della vittima, ma il frutto di una scelta occasionale del tutto avulsa dalla precedente vicenda che aveva interessato gli stessi protagonisti).

È stato, tuttavia, rilevato che sarà possibile correggere in via interpretativa la norma dando opportuno rilievo alla volontà del legislatore di subordinare l’applicabilità dell’aggravante proprio all’esistenza di un simile collegamento oggettivo tra stalking ed omicidio. Il senso dell’aggravante voleva essere infatti quello di punire più severamente l’omicidio che costituisse il tragico culmine di una sequenza persecutoria, in quanto ritenuto di maggior gravità oggettiva.

Detta configurazione dell’aggravante emergeva nei diversi progetti di legge che sono poi confluiti nel d.d.l. n. 1440 approvato dalla Camera il 29 gennaio scorso. In alcuni casi si è cercato di tipizzare anche un vero e proprio collegamento causale tra gli atti persecutori e l’evento omicidiario, in altri di collegare quest’ultimo al pregresso stalking attraverso la formula “in occasione di…”, in altri ancora di qualificare il collegamento secondo il paradigma della continuazione valorizzando l’identità del disegno criminoso. Ma in ogni caso la necessità di una connessione tra i due fatti, al fine di giustificare l’aggravamento della pena (e in particolar modo la comminatoria dell’ergastolo), è stata unanimemente riconosciuta nel corso del dibattito tenutosi alla Camera, tanto in Commissione, quanto in Assemblea.

. . .

VIII. RISVOLTI APPLICATIVI: MOBBING E PROBLEMI DI DIRITTO INTERTEMPORALE

1) Il mobbing. Un problema di particolare complessità che – sebbene in queste sede non possa essere oggetto di adeguata trattazione – merita di essere segnalato è quello relativo al fenomeno c.d. del mobbing. Con la nozione di mobbing (delineatasi nella esperienza giudiziale giuslavoristica) si individua la fattispecie relativa ad una condotta che si protragga nel tempo con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavoratore, onde configurare una vera propria condotta persecutoria posta in essere dal preposto sul luogo di lavoro. “La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro” (Cass., Sez. V, 29 agosto 2007, n. 33624).

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Da questa puntuale linea argomentativi emerge chiaramente il seguente schema delle condizioni essenziali alla caratterizzazione criminologia del fenomeno mobbing: a) necessaria pluralità di condotte attive od omissive, qualificate da una comune natura

aggressiva e persecutoria e, in quanto tali, oggetto di riprovazione in seno alla coscienza sociale (trattasi, in pratica, di singoli fatti ed episodi che si devono concretizzare in progressivi e graduali atti di disprezzo, umiliazione e asservimento, tali da cagionare sensazioni di depressione, privazione e degradazione dell’animo, le quali devono costituire nel loro insieme una fonte di disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni divita;

b) necessaria reiterazione, frequenza e perduranza delle medesime condotte, per un periodo di tempo sufficiente a cagionare alla vittima un pregiudizio casualmente riconducibile alla strategia vessatoria del mobber (ciò che rileva, infatti, non è tanto l’offesa alla personalità del soggetto passivo – che potrebbe essere realizzata anche con un solo atto – ma il ripetuto pregiudizio di tale bene, dal momento ce è proprio nella moltiplicazione di comportamenti già sarebbero offensivi, perla natura del rapporto tra le parti in causa, che l’offesa diviene intollerabile;

c) necessaria connessione teleologica delle singole condotte in predicato, nel senso di una loro stretta strumentalità rispetto al riprovevole obiettivo di una sistematica persecuzione sul luogo di lavoro;

d) necessaria intenzionalità delle condotte emulative attuate, ossia consapevolezza del portato di oggettiva offensività propria delle stesse.

Prima dell’entrata in vigore del nuovo reato di atti persecutori, la Suprema Corte riteneva che la figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il cd. mobbing fosse quella descritta dall’art. 572 c.p., commessa da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione (tra le altre, Cass., Sez. VI, 22 gennaio 2001, e Cass., Sez. V, 29 agosto 2007, n. 33624). Due le ragioni a sostegno di questo convinzione: - l’una di carattere generale, che riguarda l’unitaria fisionomia delle fattispecie poste a confronto

tanto sul piano dell’elemento oggettivo (la nozione di maltrattamenti costituisce indubbiamente un genus in grado di raccogliere anche la realtà fenomenica dei comportamenti mobbizzanti, condividendo oltretutto il dato della abituale serialità e strumentalità delle condotte), quanto su quello dell’elemento psicologico;

- l’altra di carattere particolare, che guarda al comune contesto applicativo delle medesime, nonché alla specificità dell’oggetto giuridico in concreto tutelato. L’art. 572 c.p. sanziona condotte reiteratamente emulative che, andando ad incidere nell’ambito di varie e distinte situazioni cornice (vincoli familiari, vincoli gerarchici, rapporti di affidamento ed età dell’offeso), colpiscono comunque un particolare contesto che si può definire “socialmente protetto” (nel quale rientrerebbe pure quello lavorativo), e dunque tutela uno specifico bene giuridico identico in ogni caso, ossia la personalità del soggetto passivo – quale patrimonio morale costituito dagli aspetti fisiopsichici della persona – che si afferma e si sviluppa nello svolgimento di una generica e continuativa relazione di vita col soggetto attivo.

In ogni caso, l’astratta sovrapponibilità del mobbing al reato di maltrattamenti non andava certo esente da critiche: infatti, il delitto di cui all’art. 572 c.p. è in realtà ascrivibile a quelle sole pratiche vessatorie che, fondandosi sull’imprescindibile presupposto della posizione di subalternità, propria di colui che sia fatto destinatario delle odiose condotte, configurano il c.d. mobbing verticale discendente (o bossing), mentre rimarrebbero inevitabilmente escluse dal suo spettro applicativo le non meno frequenti ipotesi di mobbing orizzontale (perpetrato da colleghi di lavoro di pari “livello”) e di mobbing verticale ascendente (posto in essere da parte del subordinato). A fronte di tale specifico vuoto di tutela, ove non ricorressero gli estremi per incriminare le singole condotte componenti il fenomeno del mobbing attraverso il ricorso ad ipotesi quali quelle di cui agli artt. 594, 595 e 612 c.p. (di per sé insufficienti a sanzionare il fenomeno nel suo complesso ed oltretutto caratterizzati da sanzioni non certo di rigore), il Supremo Collegio (Cass., Sez. VI, 31413/06) aveva avanzato l’opzione della violenza privata ex art. 610 c.p. e ciò non solo spinto dalla ferma convinzione che lo spazio protetto dalla norma in parola riguardi in modo precipuo quella capacità (o meglio quella libertà) di autodeterminazione della persona, che ben può essere egualmente coartata anche attraverso i classici e subdoli atti di mobbing, ma anche dall’assenza di qualsivoglia tipica e presupposta relazione interpersonale tra il soggetto attivo ed il soggetto

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passivo (si può pensare al caso del lavoratore che, a fronte di minacce reiterate – quali quelle ad esempio di ingiustificati trasferimenti d’ufficio – si trovi costretto a rassegnare le dimissioni). Tuttavia, ad un’attenta analisi del disposto normativo, è agevole notare come anche ricorrendo al delitto di violenza privata (in aggiunta a quello di maltrattamenti) comunque il fenomeno del mobbing non riceveva – prima dell’art. 612 bis c.p. – adeguata copertura sanzionatoria, e ciò per almeno tre valide ragioni: - l’art. 610 c.p. postula l’assunzione di soli contegni illeciti da parte dell’agente, mentre il mobbing

può constare anche ed esclusivamente di condotte in sé astrattamente conformi all’ordinamento;

- sotto il profilo dell’elemento psicologico, mentre l’art. 610 c.p. orienta il dolo alla mera coercizione della libertà morale (nella forma di un fare, omettere o tollerare qualcosa), il mobbing indirizza il medesimo all’ulteriore obbiettivo della mortificazione e dell’isolamento del soggetto bersaglio nell’ambiente di lavoro;

- come si desume dal testo dell’art. 610 c.p., la condotta alla quale l’agente intende costringere il soggetto passivo deve essere determinata, dovendosi conseguentemente escludere il delitto di violenza privata in tutte quelle ipotesi in cui il reo sottoponga la propria vittima – offendendone la personalità – ad una serie indefinita e generica di comportamenti illeciti.

Questa dunque era la situazione al momento dell’entrata in vigore dell’art. 612 bis c.p.. Orbene, come si evince da quanto sopra esposto, la situazione di vuoto normativo concerneva principalmente proprio quella serie di condotte mobbizzanti caratterizzate dalla mancanza di quel vincolo di subordinazione gerarchica della vittima rispetto all’agente. Stante la nozione offerta del mobbing e, in particolare, la tipologia delle condotte vessatorie attraverso le quali si realizza, non sorgono dubbi che tale vuoto di tutela costituisce terreno fertile per l’applicazione della nuova ipotesi di reato. Il concetto di minaccia, ma ancor più quello di molestia, si prestano senza dubbio a raccogliere proprio quelle vessazioni tipiche del fenomeno in esame e ben potranno venire sanzionate ai sensi dell’art. 612 bis c.p. ogni volta che risulterà essersi verificato in conseguenza delle stesse uno dei tre eventi contemplati dalla norma. Non solo. L’introduzione del reato di atti persecutori consente altresì di risolvere un ulteriore problema emerso in seguito ad un recente arresto della Suprema Corte (Cass., Sez. VI, 26 giugno 2009, n. 26594). Secondo la Cassazione, infatti, “nel quadro del delitto di maltrattamenti in famiglia il rapporto di autorità richiesto dall’art. 572 c.p., avuto riguardo alla ratio della richiamata norma, deve comunque essere caratterizzato da familiarità, deve comportare relazioni abituali ed intense, consuetudini di vita tra i soggetti, la soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia-soggezione), la fiducia riposta dal soggetto passivo nel soggetto attivo, destinatario quest’ultimo di obblighi di assistenza verso il primo, perché parte più debole. È soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura “para-familiare” che può configurarsi, ove si verifichi l’alterazione della funzione del medesimo rapporto attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti” (che la Corte, esemplificando, individua nel rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui lavora e quello del maestro d’arte e l’apprendista). La Corte concludeva escludendo “nel caso in esame, considerato che Pa. era inserita in una realtà aziendale complessa (la AZIMUT S.p.A. aveva centinaia di dipendenti), la cui articolata organizzazione (v’erano i cd. “quadri intermedi”) non implicava una stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente, sì da determinare una comunanzadi vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare, e inevitabilmente marginalizzava i rapporti intersoggettivi, nel senso che non ne esaltava quell’aspetto personalistico connesso alla “supremazia soggezione” tra soggetti operanti su piani diversi. Conseguentemente non è apprezzabile, in una simile realtà,la riduzione del soggetto più debole in una condizione esistenziale dolorosa e intollerabile a causa della sopraffazione sistematica di cui sarebbe rimasto vittima”. Orbene, un tale orientamento avrebbe, prima dell’entrata in vigore dell’art. 612 bis c.p., ampliato notevolmente il vuoto di tutela già sopra evidenziato relativo al fenomeno in esame. In seguito però all’introduzione della nuova fattispecie di atti persecutori, questa ulteriore circoscrizione dell’area di operatività dell’art. 572 c.p. potrà chiaramente essere colmata attraverso il ricorso – sempre che ricorrano i requisiti oggettivi e soggettivi previsti – all’art. 612 bis c.p..

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2) I problemi di diritto intertemporale. Un problema particolarmente sentito nella prima fase di applicazione dell’art. 612 bis c.p. è stato quello relativo alla valenza da attribuire alle condotte persecutorie poste in essere prima della sua entrata in vigore e, in particolare, se, a fronte delle stesse, il compimento anche di un solo ulteriore atto persecutorio, avvenuto dopo l’introduzione del reato in esame, poteva ritenersi sufficiente per integrazione la fattispecie. Il tema dell’individuazione del tempus commissi delicti in relazione alla disciplina della successione di leggi penali nel tempo è tanto intrigante per il giurista, quanto complesso e privo di risposte certe, soprattutto quando si abbia a che fare con la particolare tipologia dei reati abituali, cui senz’altro appartiene il nuovo delitto di atti persecutori. Innanzitutto, si ritiene preferibile affrontare il problema dell’individuazione del tempus commissi delicti facendo applicazione della c.d. “teoria della condotta”, che si presenta come la più coerente con la funzione general-preventiva delle norme incriminatici. L’interprete deve dunque rivolgere l’attenzione al momento di realizzazione della condotta descritta dalla fattispecie, a nulla rilevando, invece, il momento di verificazione dell’evento tipico. In secondo luogo, si ritiene altresì decisivo operare una distinzione tra il momento di perfezionamento del delitto e il momento di consumazione dello stesso. Il reato, infatti, si perfeziona nel momento in cui l’agente ha realizzato tutti gli elementi del fatto tipico, mentre si consuma nel momento in cui oltre alla compiuta realizzazione di tali elementi si verifica e conclude la compromissione del bene giuridico tutelato dalla norma. Orbene se perfezionamento e consumazione possono integralmente coincidere (la consumazione sovente si realizza e conclude proprio con il perfezionamento della fattispecie, si pensi ai reati istantanei), può però accadere anche che la consumazione non si esaurisca nel perfezionamento della fattispecie: è quanto accade con i reati permanenti e, appunto, con i reati abituali. Il reato abituale si perfeziona nel momento in cui l’agente ha compiuto quella condotta che, unitamente alle precedenti, integra il fatto tipico descritto dalla norma; l’agente, però, potrebbe persistere nella propria condotta, continuando a porre in essere ulteriori analoghe condotte: la consumazione del delitto, pertanto, si protrarrà fino al momento di interruzione della condotta dell’agente, momento in cui il delitto potrà dirsi commesso anche nel senso che ne è cessata la consumazione. In conclusione, quindi, in un reato abituale quale quello di stalking il tempo del suo perfezionamento e quello della sua consumazione possono non coincidere. Orbene, alla luce delle premesse effettuate, deve ritenersi che proprio nell’ipotesi che ci riguarda, ossia l’introduzione ex novo del reato di stalking, l’agente è stato messo nelle condizioni di orientare le proprie azioni per il futuro solo al momento dell’entrata in vigore della nuova norma incriminatrice. Sicché se si fondasse una condanna ai sensi della nuova norma sulle condotte commesse prima dell’entrata in vigore della norma stessa, la violazione del principio di irretroattività della legge penale sarebbe palese, perché la nuova norma penale non avrebbe potuto svolgere alcuna funzione di orientamento delle scelte dell’individuo; mentre dovrebbe registrarsi una violazione del principio di legalità ove si chiamasse a rispondere del nuovo delitto abituale un soggetto che avesse posto in essere, dopo l’introduzione dell’art. 612 bis c.p., solo una condotta di minaccia o di molestia, mancando in tal caso l’integrazione di un ben preciso elemento della fattispecie, ossia la reiterazione delle condotte (non convince, pertanto, quanto diversamente affermato in una recente ordinanza, dal Tribunale distrettuale delle libertà di Milano – Sez. XI, ord. 17 aprile 2009 – e cioè che “analogamente a quanto accade per il reato di maltrattamenti in famiglia, il reato di stalking deve ritenersi commesso nel suo complesso dopo l’entrata in vigore della legge se anche un solo atto è compiuto dopo l’entrata in vigore della legge stessa – e sempre che vi siano tutti gli elementi costitutivi previsti – anche grazie ad atti precedenti con l’ultimo legati da un vincolo di abitualità e di volontà”, né pare possa richiamarsi in proposito l’analogo principio sancito da Cass., Sez. I, 11 maggio 2006, in quanto in tale caso la Suprema Corte era chiamata a pronunciarsi non in un caso di nuova incriminazione – ossia di una legge che puniva ex novo un fatto prima lecito – bensì in

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un’ipotesi di aggravamento del trattamento sanzionatorio di un fatto già considerato dalla legge come reato – nella specie l’art. 9, l. 1423/56). Sempre sul piano dei probemi che si sono posti al giudice riguardo all’applicazione della nuova norma incriminatrice dello stalking, viene in rilievo il caso in cui la condotta dell’agente avesse già cagionato nella vittima, prima dell’entrata in vigore dell’art. 612 bis c.p., uno degli eventi descritti dalla fattispecie. È ovvio, infatti, che l’agente potrà essere chiamato a rispondere del delitto di stalking solo se la condotta persecutoria posta in essere dopo l’entrata in vigore della norma abbia cagionato o concorso a cagionare l’evento. È possibile che ciò si verifichi ove la vittima sia già stata terrorizzata dalla condotta pregressa dello stalker? La risposta sembrano fornirla le prime pronunce (Tribunale distrettuale delle libertà di Milano, Sezione XI, ord. 31 marzo 2009 e ord. 17 aprile 2009) con cui si è data applicazione alla nuova norma: in tutti i casi, infatti, si trattava di situazioni in cui la vittima era già stata oggetto di atti persecutori da mesi e a volte da anni prima dell’introduzione del nuovo delitto, ma i giudici hanno ritenuto applicabile la nuova norma ritenendo che le ulteriori condotte poste in essere dall’agente, sommandosi alle pregresse, avessero contribuito a ingenerare, o anche semplicemente ad aggravare, nella vittima uno stato di fondato timore per la propria incolumità. Tale evento, d’altra parte, lungi dall’apparire come una condizione statica, è certamente esposto a una costante esacerbazione quanto più il persecutore insista nel molestare la sua vittima.

. . .

IV. CENNI IN MERITO ALLE NOVITA’ PROCESSUALI INTRODOTTE CON IL NUOVO REATO DI STALKING

La nuova fattispecie di “Atti persecutori” (che si prescrive in sei anni ed è di competenza del tribunale monocratico) e le esigenze dalla stessa generate hanno suggerito al legislatore alcuni interventi su istituti del diritto processuale.

Premesso che, per la nuova fattispecie, è facoltativo l’arresto in flagranza, non è consentito il fermo di cui all’articolo 384 c.p. e sono applicabili tutte le misure coercitive, il legislatore ha inteso delineare una nuova misura coercitiva.

In particolare, l’art. 9, comma 1, lettera a) del decreto legge ha introdotto, in una prospettiva di repressione degli atti persecutori (ma, naturalmente, non solo di essi), la misura coercitiva del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.

Collocata nell’art. 282 ter c.p.p., essa consiste:

- nella prescrizione rivolta all’indiziato di non avvicinarsi a luoghi determinati che siano abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa (comma 1);

- nell’eventuale (“qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela”) identica prescrizione riferita però a luoghi determinati che siano abitualmente frequentati “da prossimi congiunti della persona offesa o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione affettiva” (comma 2);

- nell’eventuale divieto all’indiziato di comunicare, attraverso qualsiasi mezzo, con le persone anzidette (comma 3);

- nella prescrizione di modalità e nell’imposizione di limitazioni qualora la frequentazione dei luoghi sopra indicati sia necessaria per motivi di lavoro ovvero per esigenze abitative (comma 4).

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Si tratta di misura che evoca i contenuti, specificandoli in funzione delle esigenze dettate dalla repressione di crimini come quello in esame, di altre già tipizzate misure, quali in particolare il divieto e l’obbligo di dimorare previsti dall’articolo 283 c.p.p..

Questa nuova misura coercitiva, adottabile in generale per qualsiasi delitto che preveda una pena superiore ai tre anni di reclusione, può dar luogo ad una serie di problemi in sede di applicazione proprio per il ricorso effettuato dal legislatore a locuzioni alquanto generiche e non particolarmente determinate.

Anzitutto, cosa debba intendersi per luogo abitualmente frequentato può essere oggetto di controversia: ci si interroga insomma se debba trattarsi necessariamente di uno spazio fisico o ci si possa anche riferire ad uno spazio virtuale. Oggi, attraverso la comunicazione telematica, vi sono mille possibilità di scambio comunicativo via web. La persona offesa potrebbe far parte di gruppi mediatici, ovvero abitualmente accedervi e l’indagato potrebbe anche lì cercarla e molestarla. Non ci sembra peraltro che ci siano ostacoli letterali o sistematici a che il giudice possa estendere anche ai luoghi virtuali la misura in questione. In ogni caso il problema pare altrimenti superabile proprio attraverso il ricorso all’ulteriore e possibile prescrizione del divieto di “comunicazione con qualsiasi mezzo” che il Giudice può applicare nel caso concreto.

Anche l’avverbio “abitualmente” è di disagevole delimitazione e non circoscrive più di tanto la possibilità di imporre un divieto, senza considerare che ci possono essere periodi della nostra vita in cui, con frequenza, ci rechiamo in un certo luogo ed altri in cui, per mille contingenze, ciò non accade più. È difficile fare carico alla P.G. di raccogliere anche informazioni sul tipo di vita e sui luoghi di frequentazione della persona offesa e dei suoi prossimi congiunti. Quindi, al di là dei luoghi tipici come quello di dimora e di lavoro, sarà alquanto complicato per il giudice stabilire, con la necessaria attendibilità, quali siano gli altri luoghi in cui vietare l’accesso al molestatore. Inevitabile sarà il rinvio pedissequo alle indicazioni fornite dalla vittima e dal suo difensore.

Cosa poi deve intendersi per “relazione affettiva” è evocato più che chiarito dalla legge: anche una semplice amicizia implica un legame di affetto e particolari sentimenti di solidarietà umana. Potrà ciò bastare ad imporre un divieto? E se la relazione affettiva è cessata, chi lo dovrà comunicare al G.I.P. o all’indagato? Potrà poi questo bastare a far revocare la misura se l’indagato è un tipo violento e vuole comunque vendicarsi, anche trasversalmente, del torto subito dalla persona offesa? La soluzione dei dubbi non è dato evincerla dal sistema. In ogni caso, trattandosi di termini esattamente analoghi a quelli già analizzati in sede di valutazione dell’evento e dell’aggravante specifica, non può che rinviarsi a quanto sopra esposto.

Con il nuovo art. 282 quater c.p.p. si prevede, inoltre, che i provvedimenti applicativi dell’anzidetta misura coercitiva, oltre che di quella contemplata dall’art. 282-bis (Allontanamento dalla casa familiare), siano comunicati all’autorità di pubblica sicurezza, ai fini dell’eventuale adozione di provvedimenti in materia di armi e munizioni, alla persona offesa dal reato (curiosamente denominata “parte offesa”) ed ai servizi socio-assistenziali del territorio.

La comunicazione alla persona offesa è fondamentale perché consente alla stessa di conoscere nel dettaglio i limiti e le prescrizioni stabilite dal giudice, le consente di vigilare sul rispetto della stessa e di denunciarne le eventuali violazioni. È da segnalare che è prevista solo la comunicazione e non la consegna di copia del provvedimento che, invece, è fondamentale avere in mano ogni volta che si ha bisogno di chiamare le forze dell’ordine (a Ravenna, offriamo un’interpretazione estensiva alla norma e riteniamo di dover allegare in toto il provvedimento).

Altro possibile problema – sollevato questo soprattutto dalla associazioni a tutela delle vittime – è quello relativo alla mancata comunicazione della revoca della misura cautelare. Se la persona offesa non ne è a conoscenza, confidando semmai nel permanere della misura della custodia in carcere, può sentirsi tranquilla ed omettere anche quelle normali precauzioni che avrebbe

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altrimenti adottato e ciò può metterla in situazioni di grave pericolo (considerato l’elevato pericolo di recidiva accertato).

Infine ulteriori modifiche processuali hanno avuto ad oggetto la materia dell’incidente probatorio e dell’assunzione della prova in caso di persona minorenne.

Come è noto, l’art. 392, comma 1° bis, c.p.p. disciplinava la testimonianza in incidente probatorio del minore infrasedicenne (non necessariamente persona offesa) nei procedimenti per le violenze sessuali, per gli atti sessuali con minorenni, per la corruzione di minorenni, per i delitti di pedofilia e di pornografia virtuale, nonché per quelli legati al fenomeno della tratta di esseri umani, ammettendola anche in assenza dei requisiti di ammissibilità (non rinviabilità presunta ex lege) di cui all'art. 392, comma 1, lettere a) e b) (rispettivamente, fondato motivo di ritenere che la persona non potrà essere esaminata nel dibattimento per infermità o altro grave impedimento e fondato motivo di ritenere che la persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché non deponga o deponga il falso).

Ora la legge antistalking (art. 9, comma 1, lettera b) ha modificato detta disposizione estendendola ai procedimenti per il nuovo delitto di atti persecutori e per il delitto di maltrattamenti di cui all’articolo 572 cod. pen. (incomprensibilmente escluso in passato dall’ambito di operatività dell’incidente probatorio “speciale”) e riferendola anche al minorenne che abbia compiuto i sedici anni (soltanto all’infrasedicenne continua, peraltro, a riferirsi l’articolo 190-bis, comma 2, cod. proc. pen.) ed alla persona offesa dal reato maggiorenne.

Anche alle vittime maggiorenni di questi odiosi crimini il legislatore ha, dunque, inteso evitare il trauma di essere costrette a far rivivere in dibattimento vicende colme di gravi implicazioni psicologiche. Alla persona offesa è, inoltre, conferita espressamente la possibilità di sollecitare il pubblico ministero affinché chieda di procedere con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza.

Questa modifica se in astratto indubbiamente risulta idonea a realizzare gli obbiettivi che si era prefissata (liberare immediatamente la persona offesa ed i minori in genere dal “fardello” di una testimonianza processuale proprio in un settore di reati particolarmente complessi), deve tuttavia fare i conti, in concreto, con la situazione in cui complessivamente versano gli Uffici G.I.P./G.U.P. e, soprattutto, con i rigorosi termini di indagine e di fase per le misure cautelari previsti dall’ordinamento.

In particolare, la previsione in esame, se applicata regolarmente ed alla lettera, rischia di far transitare proprio innanzi agli Uffici G.I.P./G.U.P. gran parte dell’istruttoria processuale, con notevole aggravio del carico di lavoro, già particolarmente elevato, di questi Uffici. Tale aggravio, ovviamente, non potrà non ripercuotersi sugli stessi tempi di esecuzione dell’atto istruttorio e proprio i tempi, nei casi in esame assumono una primaria rilevanza.

Anzitutto, infatti, occorre considerare i termini previsti per lo svolgimento delle indagini preliminari, nel caso di richiesta di incidente probatorio avanzata in questa fase. Il superamento dei termini in questione rende inutilizzabile in sede dibattimentale tutta l’attività compiuta dopo la scadenza, ivi compresi gli esiti dell’incidente probatorio.

Inoltre, problemi tutt’altro che risolvibili, si hanno nei casi in cui la richiesta di incidente probatorio riguardi procedimenti nel cui contesto è stata applicata una misura cautelare coercitiva nei confronti dell’indagato. I rigorosi termini di fase previsti per le diverse misure cautelari, impongono, pena la liberazione o l’attenuazione delle stesse, che il compimento dell’atto in questione avvenga in modo tale consentire la conclusione delle attività richieste prima della scadenza degli stessi (tutt’altro che facile anche nel caso si ometta il passaggio dall’incidente probatorio in reati come quello di cui all’art. 612 bis c.p.p., attesa la brevità dei termini di fase e l’impossibilità di procedere con rito immediato – salvo interpretare la portata dell’art. 453 c.p.p. in modo diverso rispetto al

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passato, facendo leva, come parte della prassi, sulle recenti modifiche apportate con l. 125/08 che sembrano “imporre” al P.M. il ricorso a questo rito). Proprio per cercare di attenuare la portata di questo problema, è buona prassi nei reati a “breve termine di fase” richiedere l’applicazione della misura soltanto una volta esaurita interamente l’attività di indagine. Ciò, tuttavia, non sempre risulta possibile, anzi è spesso più complesso proprio nelle ipotesi di maggiore gravità, dove l’urgenza di intervenire per salvaguardare la vittima e prevenire la reiterazione di nuovi illeciti non consente di attendere la conclusione dell’iter investigativo.

Intervenendo sul comma 5° bis dell’art. 398 c.p.p., il legislatore (art. 9, comma 1, lettera c) ha previsto inoltre che, anche nel caso di indagini che riguardano il reato di cui all’art. 612 bis c.p., il giudice dell’incidente probatorio, ove fra le persone interessate all’assunzione della prova (non soltanto, dunque, una testimonianza, ma anche, ad esempio, una perizia, una ricognizione di persona, ecc.) vi siano minorenni (ovvero un maggiorenne infermo di mente, come stabilito da Corte cost. 29 gennaio 2005, n. 63), stabilisca il luogo, il tempo e le modalità particolari attraverso cui procedere all’incidente probatorio, quando le esigenze di tutela delle persone (e non soltanto del minore) lo rendono necessario od opportuno. A tal fine, l’udienza può svolgersi anche in luogo diverso dal tribunale, avvalendosi il giudice, ove esistano, di strutture specializzate di assistenza o, in mancanza, presso “l’abitazione della persona interessata all’assunzione della prova” (non necessariamente, quindi, del minore).

Infine, modificando il comma 4° ter dell’articolo 498 c.p.p., la l. 38/09 (articolo 9, comma 1, lettera d) ha esteso anche ai procedimenti per il citato reato l’obbligo di effettuare l’esame del minorenne o del maggiorenne infermo di mente (in relazione al quale era già intervenuta la sopra citata pronuncia di parziale illegittimità costituzionale) vittime del reato, sempre che vi sia richiesta degli stessi o del loro difensore, mediante le modalità protette rappresentate dall’“uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico”.