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1 Consiglio Superiore della Magistratura Corso di formazione: “La vittima del reato” Roma 5-7.12.2002 Tutela della vittima, mediazione penale e giustizia riparativa Marco Bouchard 1 1 Dalla vendetta al dono 1.1 La giustizia negoziata e la tutela delle vittime Per avvicinarsi all’idea di mediazione e al concetto polimorfo e ambiguo della giusti- zia riparativa ci sono due strade maestre. Una si percorre seguendo la tappe progressi- ve della differenziazione e della specializzazione dei rimedi anche giuridici ai com- portamenti illeciti. . “La storia delle istituzioni giuridiche è, in fondo, la storia di una progressiva ricerca di forme sempre più specializzate di governare la violenza origi- naria delle relazioni umane assorbendola e minimizzandola mediante leggi e pratiche che si fondino sul consenso preventivo degli associati 2 ”. Una seconda strada ha, invece, certamente a che fare con l’irruzione delle vittime nel- la scena penale. Non sono le vittime o le loro associazioni che hanno imposto all’attenzione della giustizia la necessità di adottare misure riparative o centri di me- diazione, anche se in alcuni casi esse le promuovono e li organizzano. Si vuol dire, però, che già negli ultimi decenni del secolo scorso il soggetto-vittima ha completa- mente modificato il modo di concepire e di percepire la giustizia penale. Le vittime hanno reclamato una considerazione e un posto che non hanno precedenti nella storia dei sistemi penali 3 . I processi per il sangue infetto, per le stragi terroristiche, per l’inquinamento ambientale da produzioni industriali nocive sono state occasioni per la costituzione di associazioni per le vittime che hanno perseguito i loro scopi sociali an- che successivamente alle pronunce definitive dell’autorità giudiziaria. Il mondo asso- ciativo delle vittime e dei loro cari è in continua ebollizione: mentre alcuni gruppi si esauriscono con la conclusione dei processi o per la morte dei loro membri (si pensi alle vicende della cura Di Bella) altri proliferano e – addirittura – si istituzionalizzano. La condizione di vittima è inoltre oggetto di aperte strumentalizzazioni per campagne politiche di tipo securitario-repressivo volte ad ottenere – molto semplicemente – pene più severe per gli autori di reato. Mai come oggi l’immagine della vittima coincide con il cittadino onesto e indifeso alla mercè della criminalità di strada dai connotati extracomunitari, in barba alle statistiche che descrivono ben diverse tipologie quanto agli autori e quanto alle persone offese 4 . E d’altra parte non si può trascurare un dato incontrovertibile: il sentimento d’insicurezza è reale 5 . Certamente dipende dalle percezioni soggettive e dalle sugge- stioni dei mezzi di comunicazione di massa; ciò nondimeno esso è il sintomo di una condizione di profonda solitudine sulla quale si innesta non solo l’esperienza di chi subisce un reato ma anche di chi lo teme. Anche l’imbolsita organizzazione giudizia- 1 Sostituto Procuratore presso il tribunale di Torino 2 Eligio Resta, La certezza e la speranza, Laterza, Bari, 1992 3 Secondo Claus Roxin, Risarcimento del danno e fini della pena, RIDPP, 1987, 9 le ragioni della ri- scoperta dell’interesse per la vittima risiederebbero nella forza esemplare del movimento che in Ameri- ca si batte a favore del risarcimento, nella delusione per gli scarsi risultati ottenuti in sede di trattamen- to risocializzante degli autori dei reati e nell’ascesa della vittimologia a ramo scientifico autonomo. 4 Marzio Barbagli, L’occasione e l’uomo ladro, Il Mulino, Bologna, 1995 5 Livio Pepino, La città insicura e l’impossibile supplenza giudiziaria, in Questione giustizia, 1999, 791

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Consiglio Superiore della Magistratura Corso di formazione: “La vittima del reato”

Roma 5-7.12.2002

Tutela della vittima, mediazione penale e giustizia riparativa

Marco Bouchard1 1 Dalla vendetta al dono 1.1 La giustizia negoziata e la tutela delle vittime Per avvicinarsi all’idea di mediazione e al concetto polimorfo e ambiguo della giusti-zia riparativa ci sono due strade maestre. Una si percorre seguendo la tappe progressi-ve della differenziazione e della specializzazione dei rimedi anche giuridici ai com-portamenti illeciti. . “La storia delle istituzioni giuridiche è, in fondo, la storia di una progressiva ricerca di forme sempre più specializzate di governare la violenza origi-naria delle relazioni umane assorbendola e minimizzandola mediante leggi e pratiche che si fondino sul consenso preventivo degli associati2”. Una seconda strada ha, invece, certamente a che fare con l’irruzione delle vittime nel-la scena penale. Non sono le vittime o le loro associazioni che hanno imposto all’attenzione della giustizia la necessità di adottare misure riparative o centri di me-diazione, anche se in alcuni casi esse le promuovono e li organizzano. Si vuol dire, però, che già negli ultimi decenni del secolo scorso il soggetto-vittima ha completa-mente modificato il modo di concepire e di percepire la giustizia penale. Le vittime hanno reclamato una considerazione e un posto che non hanno precedenti nella storia dei sistemi penali3. I processi per il sangue infetto, per le stragi terroristiche, per l’inquinamento ambientale da produzioni industriali nocive sono state occasioni per la costituzione di associazioni per le vittime che hanno perseguito i loro scopi sociali an-che successivamente alle pronunce definitive dell’autorità giudiziaria. Il mondo asso-ciativo delle vittime e dei loro cari è in continua ebollizione: mentre alcuni gruppi si esauriscono con la conclusione dei processi o per la morte dei loro membri (si pensi alle vicende della cura Di Bella) altri proliferano e – addirittura – si istituzionalizzano. La condizione di vittima è inoltre oggetto di aperte strumentalizzazioni per campagne politiche di tipo securitario-repressivo volte ad ottenere – molto semplicemente – pene più severe per gli autori di reato. Mai come oggi l’immagine della vittima coincide con il cittadino onesto e indifeso alla mercè della criminalità di strada dai connotati extracomunitari, in barba alle statistiche che descrivono ben diverse tipologie quanto agli autori e quanto alle persone offese4. E d’altra parte non si può trascurare un dato incontrovertibile: il sentimento d’insicurezza è reale5. Certamente dipende dalle percezioni soggettive e dalle sugge-stioni dei mezzi di comunicazione di massa; ciò nondimeno esso è il sintomo di una condizione di profonda solitudine sulla quale si innesta non solo l’esperienza di chi subisce un reato ma anche di chi lo teme. Anche l’imbolsita organizzazione giudizia- 1 Sostituto Procuratore presso il tribunale di Torino 2 Eligio Resta, La certezza e la speranza, Laterza, Bari, 1992 3 Secondo Claus Roxin, Risarcimento del danno e fini della pena, RIDPP, 1987, 9 le ragioni della ri-scoperta dell’interesse per la vittima risiederebbero nella forza esemplare del movimento che in Ameri-ca si batte a favore del risarcimento, nella delusione per gli scarsi risultati ottenuti in sede di trattamen-to risocializzante degli autori dei reati e nell’ascesa della vittimologia a ramo scientifico autonomo. 4 Marzio Barbagli, L’occasione e l’uomo ladro, Il Mulino, Bologna, 1995 5 Livio Pepino, La città insicura e l’impossibile supplenza giudiziaria, in Questione giustizia, 1999, 791

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ria e quelle più elastiche delle forze dell’ordine cercano di tener conto di queste ten-denze e favoriscono forme di specializzazione all’insegna dei rischi di vittimizzazione degli individui: di qui la nascita di gruppi di lavoro e di reparti per la tutela delle fasce più deboli della popolazione. L’idea di mediazione e il concetto di giustizia riparativa intercettano questa riscoperta della vittima. Anzi esse si incentrano sul principio di soddisfazione della vittima e in-tendono dichiaratamente valorizzare una responsabilizzazione di tutti gli attori (primo fra tutti lo stesso autore del fatto) in funzione delle aspettative della persona offesa. 1.2 L’espropriazione della vittima e la restituzione di un ruolo Queste due strade – la modernizzazione nelle forme di penalità e le istanze delle vit-time – si intrecciano e si accavallano e, insieme, possono aiutarci ad entrare nel cuore delle attività di mediazione e di riparazione. Queste due strade scontano però enormi riserve e limiti culturali che occorre prendere immediatamente in considerazione. La giustizia penale, e a maggior ragione quella contemporanea, si fonda sull’espropriazione dei poteri della vittima nei confronti del suo aggressore. Questa negazione sarebbe il prezzo su cui si è potuta fondare la civiltà della punizione. Senza questo prezzo ogni attentato alla vita o ai beni dell’uomo sarebbe esposto alla spirale infinita della vendetta. L’imposizione con la quale il patto sociale assoggetta la vitti-ma alla giustizia di un terzo crea un limite ed una definitezza all’illecito che, diversa-mente, sarebbe travolto da reazioni a catena senza fine e, soprattutto, senza misura. La pena classica si costruisce sulla base di criteri che non solo assicurano l’applicazione generale delle regole ma consentono anche di contenere la reazione della vittima che sarebbe sempre incommensurabile o, comunque, dettata da emozioni soggettive non controllabili né in eccesso né in difetto. L’espropriazione della vittima dalla risposta penale – per quanto giustificata dalle ra-gioni appena esposte – oggi appare tuttavia insoddisfacente. Si è osservato6 che il re-sponsabile del reato nella maggior parte dei casi non viene neppure identificato e, quando viene individuato e condannato, non è in grado di fronteggiare le richieste ri-sarcitorie. La stessa condanna – tenuto conto che la pena tradizionale prende di mira la sofferenza dell’autore e non si prefigge di alleviare quella della vittima – è in fondo inappagante per le persone offese se non per l’effetto razionale della ricostruzione sto-rica degli accadimenti che hanno dato origine all’illecito. A dire il vero questo effetto non è valutabile solo sotto l’aspetto razionale. Non c’è dubbio che l’accertamento – formale o sostanziale che sia – della verità sui fatti che sono oggetto del procedimento penale si ripercuote anche sul piano emotivo di chi ha patito per il reato commesso. Il reato per chi lo subisce è sempre una prova di debolezza e il processo è sempre un passaggio – esasperante per la sua lunghezza – drammatico per il rischio fisiologico di non restituire alla vittima, attraverso la ricostruzione storica dei fatti, l’esatta perce-zione che essa ha avuto degli avvenimenti. Anzi un’assoluzione, qualunque sia la formula con cui è stato definito il procedimento, costituisce sempre un’attestazione di sfiducia e disistima verso la vittima: il fatto che quell’attestazione sia involontaria (ovvero non fondata su una aperta sconfessione delle sue dichiarazioni perché, ad e-sempio, il reato si è semplicemente prescritto) non diminuisce lo sconforto. Lo sco-raggiamento non deriva tanto da deluse aspettative di vendetta quanto piuttosto dalla consacrazione pubblica dell’inadeguatezza della vittima, dalla mancata riproduzione di una verità ufficiale così come narrata e vissuta dalla vittima. Questo scarto tra la re-altà percepita dalla vittima e la verità scritta dagli oracoli moderni della giustizia è,

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per la vittima, sempre una sconfitta7. Questa distanza tra l’aspettativa e l’esito del pro-cesso è all’origine di una delle più significative esperienze di cd. vittimizzazione se-condaria. Certo non c’è dubbio che in tutti gli ordinamenti occidentali sono stati fatti degli sfor-zi per riconoscere un ruolo accresciuto e maggiori poteri processuali per le vittime dei reati. Ma le considerazioni appena svolte (la consistenza del cd. numero oscuro, l’incapienza patrimoniale dei responsabili del reato, l’alea del processo) non consen-tono di attribuire al processo penale – e neppure a quello civile – il compito di fornire in via esclusiva gli strumenti di tutela delle vittime. Si tratta cioè di garantire alla vit-tima una tutela piena a prescindere dagli esiti di un procedimento giurisdizionale de-stinato ad accertare la responsabilità dell’aggressore. In questa prospettiva sono, per-tanto, necessarie delle politiche pubbliche per la prevenzione delle situazioni a rischio, per l’intervento psicologico a sostegno delle persone offese e, non da ultimo, per l’indennizzo o il risarcimento dei danni mediante la creazione di apposite casse finan-ziate con l’apporto di tutta la collettività. 1.3 Chi è la vittima? Nella riscoperta del ruolo di vittima non è indifferente una torsione dei sistemi penali segnata dall’esigenza umanitaria di garantire al condannato non solo piena dignità ma anche specifiche (e tendenzialmente individualizzate) opportunità di recupero sociale. E qui rintracciamo una delle tante intersezioni tra la strada della modernizzazione del diritto e quella della tutela della vittima. Infatti una delle utopie del diritto penale mo-derno ha scommesso sulla possibilità di sondare le ragioni che conducono (o costrin-gono) alcuni individui a commettere dei reati così da poter affermare la pretesa di a-dottare delle misure idonee a interrompere la recidiva. L’approccio trattamentale che ha contraddistinto e continua a connotare la costruzione sanzionatoria dei paesi occi-dentali si fonda su questo presupposto: che il responsabile di un reato – a prescindere dalla doverosità di una risposta punitiva – sia innanzitutto una vittima. Non è sempre chiaro chi sia il responsabile di quest’offesa originaria che impedisce alla persona di dare il meglio di sé e di cadere nella trappola dell’illecito: la società, la famiglia, le cattive compagnie? Ma resta il fatto che il “trattamento” intende costruire delle risorse personali che allontanino il condannato dal pericolo di essere nuovamente “vittima” delle parti più censurabili del sé. Anche in un’altra prospettiva – quella che si affida unicamente ad un principio retributivo – si produce un paradosso del tutto sovrappo-nibile. La penalità tradizionale, il carcere, l’esclusione dalla comunità degli uomini li-beri, ancorché privi di qualsiasi valenza o aspirazione rieducativa, segnano l’esperienza della detenzione e la trasfigurano in una esperienza di vittimizzazione. Man mano che si sconta il debito della pena aumenta il prezzo pagato alla società e si alimenta un vissuto che non è traducibile se non in termini che evocano la sofferenza per la deprivazione comunque inferta. E non possiamo trascurare le ripercussioni dei trascorsi carcerari sulla vita libera del condannato, sul pregiudizio sociale che lo ac-compagna, sulla caduta delle opportunità lavorative che contrassegnano una vera e propria esperienza di vittimizzazione, anche questa, secondaria. L’immagine del condannato come vittima è così nota e conosciuta da non richiedere ulteriori approfondimenti. Ma dobbiamo chiederci se a forza di insistere sull’esigenza di riscatto del condannato non sia diventata ancora più insopportabile la negazione di quella della vittima del reato. L’apertura che finalmente si è prodotta sul mondo delle

7 Le ricerche sulla vittimizzazione sia a livello nazionale che internazionale mettono in evidenza come l’istanza primaria delle vittime sia quella di essere informate, innanzitutto. Si veda Anna Alvazzi del Frate, L’indagine internazionale sulla vittimizzazione del 1992 in Europa, in Gianluigi Ponti, Tutela della vittima e mediazione penale, Milano, 1995

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vittime ci consente di ricostruire con maggior precisione e dettaglio il ruolo di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda delittuosa, di comprendere i bisogni e le attese. Ma quest’apertura è anche una fonte preziosa per ridiscutere il senso della pena e in parti-colare delle sofferenze che rischiano di cristallizzarsi nelle prove umane del crimine e della detenzione. 1.4 Un nuovo senso alla pena Se è vero che la pena oggi non è più giustificata dalla pura ragion di Stato, che essa non poggia sulla semplice difesa della collettività e che è diventata largamente insuf-ficiente (se non illusoria) la sua aspirazione a migliorare l’individuo condannato, ci si chiede se possa almeno servire ad eliminare o a ridurre le sofferenze di chi sia stato vittima8. Cerchiamo di essere più precisi. Non c’è dubbio che ancora adesso la legge penale costituisca un ineliminabile impera-tivo nel rispetto degli altri e dei loro beni: negare questa funzione all’autorità statale sarebbe puerile. Tuttavia è definitivamente sepolta l’idea della punizione come affer-mazione del potere sovrano sugli individui-sudditi. Così non c’è dubbio che ancora adesso la legge penale costituisca uno strumento di difesa sociale dagli autori dei crimini (anche prima che una loro responsabilità defini-tiva sia accertata). E, tuttavia, nessuno pensa più al delinquente come ad un malato o come ad un nemico dal quale proteggersi. Anzi, lo stesso termine di delinquente evoca una struttura psichica o morale immodificabile che non ha alcun riscontro nella realtà e che indica un pregiudizio non più tollerato nelle democrazie contemporanee. Infine non c’è dubbio che la legge penale svolga – attraverso la sanzione – una fun-zione rieducativa mediante i molteplici strumenti del lavoro, dello studio e più in ge-nerale del reinserimento del condannato. E, tuttavia, anche in questo caso nessuno s’illude più sull’efficacia – statistiche alla mano – delle misure rieducative quantun-que rappresentino un progresso nella civiltà della pena. Ma il punto è che nessuno di questi paradigmi soddisfa la richiesta crescente delle vit-time di vedere riconosciuta la loro sofferenza. Non si tratta di dividere il mondo in due nuove categorie generali (le vittime e i colpevoli): anzi è frequente che questi ruo-li siano interscambiabili e che spesso si è vittima proprio per ritorsione ad un danno precedentemente inferto al nostro aggressore. La sottolineatura della sofferenza della vittima non sta dunque ad identificare una condizione sociale statica, sinonimo di de-bolezza e di esposizione a rischio. E’ vero che la nozione di vittima evoca più facil-mente l’immagine di una persona che, per età, condizione fisica, psichica o sociale, è più esposta di altri al rischio del crimine. Ma gli addetti ai lavori sanno perfettamente che in realtà i tassi di vittimizzazione si innalzano proprio in considerazione di carat-teristiche opposte: l’essere giovani e maschi ci rende, paradossalmente, più indifesi rispetto alle leggi del crimine. Eppure ciò non fa arretrare di un millimetro l’importanza da attribuire al dolore e alla sofferenza che caratterizza l’esperienza della vittimizzazione se si vuol dare nuovo e diverso senso alla reazione penale. Certamente c’è un modo per paralizzare questa profonda richiesta di riconoscimento da parte delle vittime incanalandola sui registri tradizionali della penalità. In fondo, si potrebbe dire, il rispetto delle vittime risiede proprio nell’infliggere al condannato una sofferenza paragonabile e proporzionata a quella della persona offesa e, tutt’al più, nell’adottare strumenti preventivi e trattamentali per impedire il ripetersi dei reati. In realtà queste argomentazioni definiscono solo una strumentalizzazione delle vittime e lasciano intatto il loro dolore. Non è affatto detto che sia la pena a dover fronteggia- 8 Carlo Emilio Paliero, Metodologia de lege ferenda per una riforma non improbabile del sistema san-zionatorio, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1992, 510

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re il dolore delle vittime: ma la sfida che viene lanciata concerne esattamente la possi-bilità di reagire alla commissione di un illecito offrendo, innanzitutto, delle risorse perché la vittima compensi la perdita subita o, quanto meno, allevi la sua sofferenza. In questa prospettiva la compensazione non è esprimibile solo attraverso il riferimento economico-patrimoniale; e, dal suo canto, la sanzione tradizionale non garantisce neppure quell’aspettativa risarcitoria. Di qui le difficoltà di concepire un avvicina-mento alle esigenze della vittima sulla base della strumentazione giuridica tradiziona-le. La detenzione del condannato non ripara il danno vissuto dalla vittima e il risarci-mento economico non esaurisce affatto il complesso delle aspettative di chi ha subito il reato. Ma è una pena che può soddisfare queste attese? 1.5 La vendetta e il diritto Anche chi strumentalizza le aspettative delle vittime – ad esempio con richieste di una maggiore repressione dei reati – diffida profondamente della vittima perché teme che la sua propensione vendicativa, di cui si fa forte nel propugnare soluzioni securitarie, se lasciata alla discrezionalità delle vittima stessa possa degenerare in una barbara spi-rale di violenza infinita. Le politiche securitarie sono sempre odiose per la vittima perché ne raccolgono l’aspirazione vendicativa per sottrargliela ed affidarla ai tutori dell’ordine che – sotto il manto della legalità – la manipolano in direzioni non necessariamente condivise dalla vittima stessa: è, poi possibile, che l’aspirazione vendicativa della vittima si e-sprima con richieste miti, largamente inferiori (se non opposte) alla reazione inflitta dalla pubblica autorità In ogni caso occorre ammettere che la cultura occidentale e il senso comune intendo-no normalmente la vendetta come il contrario negativo della pena. O meglio ritengono che la vendetta appartenga ad un ordine ancestrale nel quale prevalgono gli istinti e soccombono gli inviti alla ragionevolezza. Nella vendetta si consumerebbero le pas-sioni incontrollate suscitate dal sangue versato e dall’offesa intollerabile. Il sangue chiama altro sangue, l’odio reclama altro odio. In questa prospettiva la dinamica della vendetta e della legge del taglione si contrappone ad un sistema punitivo che possa es-sere espressione di una volontà collettiva superiore alla contesa privata. In questo sen-so la vendetta s’inscrive in una dimensione preistorica dove viene soddisfatto un biso-gno unilaterale incompatibile con la struttura di una società civile organizzata che ri-conosca ad una autorità superiore il compito di disciplinare le offese commesse al suo interno o arrecate ai suoi membri da estranei. Questo scarto tra l’inciviltà della vendetta e la civiltà della pena – quasi che la storia della penalità potesse distinguersi tra un caos originario vendicativo e un ordine puni-tivo che scocca all’alba delle organizzazioni sociali complesse – suscita qualche per-plessità. Ci sono stati degli studi che hanno cercato di valorizzare il solidarismo della vendetta piuttosto che i suoi aspetti distruttivi, la sua forza ordinatrice piuttosto che quella di-struttrice, le sue regole e la sua misura piuttosto che la sua tendenza alla cieca violen-za9. A ben studiare le origini e la storia della vendetta scopriremmo che essa è tutt’altro che una reazione istintiva della persona o del gruppo offeso. Anzi si stabilisce con cu-ra il vendicatore, si stabiliscono le modalità della vendetta. La collera prende forma e innesca delle regole. La vendetta è un rito. L’uccisore e la sua famiglia contraggono un debito; la famiglia (o il gruppo) della vittima diventa creditrice. Si crea un obbligo che è regolato dalle leggi dello scambio. L’equilibrio può essere ricostituito solo at-traverso una ripetizione dell’atto che ha alterato e ferito la fiducia in sé stesso della 9 Raymond Verdier e Bernard Courtois, La vengeance, Cujas, Paris (4 vol.) 1981-1986

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vittima e del suo gruppo di appartenenza. L’unica alternativa alla ripetizione dell’atto è il pagamento di un equivalente del dolore. Il prezzo per la perdita causata (o, in un’altra prospettiva, per la rinuncia alla vendetta) viene fissato dal gruppo di apparte-nenza della vittima; più tardi provvederà a fissarlo la consuetudine e, infine, l’autorità statale. Ciò che va colto in questo sistema è la necessità di recuperare una integrità infranta attraverso la restituzione (specifica o per equivalente) di quanto è andato perso. “Il recupero di un vera integrità non è possibile se non a partire dal ripristino di un equi-librio tra due parti: ritornare sé stessi significa ristabilire un equilibrio spezzato tra sé e l’altro; tra un “noi” e un “loro”. D’altra parte, prima dell’offesa, l’integrità del gruppo non era certo statica ma dinamica; essa dipendeva da un equilibrio di forze, da uno scambio regolato e sorretto da riconoscimenti ed è esso che viene rotto dall’offesa”10. L’idea dello scambio è alla base non solo della vendetta che costituisce la reazione all’inosservanza delle regole interfamigliari (cioè che disciplinano i rapporti tra gruppi famigliari diversi) ma anche del sacrificio e del supplizio che costituiscono la reazione all’inosservanza delle regole infrafamigliari che mettono a repentaglio la collettività nel suo interno. Questa distinzione è ben visibile nella legge delle dodici tavole che nel 450 a.c. costituisce il punto di partenza del diritto romano codificato: mentre i crimina tutelano l’interesse pubblico i delicta (il furtum, la vis, l’iniuria e il damnum iniuria datum) tutelano interessi privati e possono essere regolati nelle forme del pro-cesso privato in una prospettiva eminentemente risarcitoria. Questa distinzione corri-sponde, peraltro, alle due forme classiche della giustizia che la tradizione mitologica ci ha tramandato: Temi e Dike11. La violazione delle regole intrafamigliari rappresen-ta l’infrazione di un interdetto famigliare (il tabù) ed esige un sacrificio, un atto di ri-conciliazione con la divinità. Il termine sacrificio deriva proprio dalla sacralità che de-riva dalla condanna dell’autorità del gruppo: il condannato diventa homo sacer così che chiunque poteva sacrificarlo. Questa uccisione sacrificale prende anche il nome di supplizio perché nell’infliggere la morte il popolo pregava affinché dall’espiazione derivasse la purificazione12. Che si tratti di sacrificio o di supplizio, la preoccupazione principale resta la conservazione del legame con la divinità di cui il popolo teme la vendetta perché nella sua rappresentazione è la vera vittima colpita dall’azione sacri-lega del condannato. Quest’ultimo non è, dunque, altri che il garante del mantenimen-to del ponte che assicura il collegamento tra la collettività e gli dei offesi. Ma ancora una volta si conferma la necessità di ricostruire, sia nella dimensione sacra sia in quel-la “privata” della penalità, non un equilibrio astratto ma il legame concreto che unisce gli uomini tra loro e con la divinità che li protegge. Dunque, vendicarsi significa innanzitutto restituire. Certo la vendetta può comportare una serie di ripetizioni infinite dello stesso gesto offensivo: ma occorre cogliere, anco-ra una volta, l’elemento dello scambio che supera l’effetto apparentemente distruttivo della restituzione dell’offesa. Si tratta di uno scambio dettato dall’obbligatorietà dei comportamenti: si è tenuti a rispondere all’offesa, non ci si può sottrarre. Ma proprio per questo il crimine e la pena rivelano la loro dimensione comunicativa tanto 10 Antoine Garapon, Frédéric Gros et Thierry Pech, Et se sera justice – punir en démocratie, Edition Odile Jacob, Paris, 2001, 120 11 Temi è la figlia di Urano e di Gea, è la personificazione dell’ordine legale e della giustizia eterna; seduta sui gradini del trono di Zeus gli consigliava prudenza ed equità nelle decisioni da prendere. Di-ke, invece, è solo una delle figlie che Temi ebbe da Zeus e personifica il diritto. Vedi Fernando Palazzi, Rileggendo i miti, Loescher Editore, Torino, 1988, 32 e lo specifico passaggio tratto da Esiodo, Teogo-nia, BUR, Milano, settima edizione, 1997, 121: “Per seconda (Zeus) poi sposò la splendida Temi, che fu madre dell’Ore, Eunomia, Dike e Eirene fiorente”. 12 Fabrizio Ramacci, Reo e vittima, Indice penale, 2001, 524

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all’interno del gruppo ferito quanto nel rapporto con l’aggressore. La struttura ritua-lizzata della vendetta consente dunque di recuperare una integrità perduta quale unico sistema per archiviare nel passato e così dimenticare l’offesa compiuta. Anche la pena classica persegue lo stesso obiettivo: in questo caso però la ferita viene rimarginata separando e allontanando le vittime dagli aggressori attraverso una opera di interposi-zione di un’autorità terza che anestetizza la comunicazione. Anzi la teme perché non vuole correre il pericolo che dal contatto comunicativo riemerga l’energia distruttiva che ha scatenato l’offesa. Si può comprendere, a questo punto, come la vendetta contenga un principio che, lun-gi dal dover essere demonizzato, merita un fecondo recupero: il crimine e la pena sen-za la vittima espongono dei corpi avulsi dalle relazioni umane che, al contrario, pos-sono spiegare l’illecito e fondare un senso più compiuto della penalità. In conclusione: è solo attraverso la storia della vendetta che possiamo recuperare il profondo significato relazionale insito nella commissione del crimine e, al tempo stes-so, recuperare l’importanza di una reazione al crimine che non soffochi il carattere re-lazionale della pena. Questo significa che nel ricostruire una dimensione attuale della pena, se si vuol co-gliere il ritorno sulla scena delle vittime dei reati, non si può prescindere dalla loro e-sigenza di ritornare “come prima” del crimine, di recuperare la stima, la fiducia, la di-gnità. Ci di deve chiedere, insomma, se la pena attuale deve confermare la sua estra-neità alla vittima o deve contemplare un percorso per la ricostituzione delle integrità personali. Il punto delicato da approfondire, ancora una volta, sta nell’evidenziare lo strettissimo nesso che corre tra la vendetta, come forma pura di violenza e la giustizia moderna. Il passaggio alla civiltà non sta infatti nella rinuncia alla violenza come metodo di riso-luzione del conflitto ma nell’amministrazione (nella somministrazione amministrata) della violenza. “Il sistema giudiziario – dice Girard13 – razionalizza la vendetta … ne fa una tecnica estremamente efficace di guarigione e, secondariamente, di prevenzio-ne della violenza”. La giustizia non si salvaguarda dunque disconoscendo il suo fondamento violento bensì disvelandolo costantemente perché nella riscoperta della violenza come valore fondante il diritto sta la possibilità di riconoscere la forza del legame sociale che la sottende. In questa prospettiva, dunque, il diritto non si contrappone alla violenza ma è il diritto che può contrapporre alla violenza la possibilità di superarla attraverso un atto o un fatto ricompositivo, riparativo. In questo sta l’ambiguità del diritto. Non solo – come osserva Benjamin14 – perché “la violenza come mezzo partecipa, anche nel caso più favorevole, alla problematicità del diritto in generale” ma anche perché il diritto è ad un tempo separazione e ricomposi-zione, violenza e riconciliazione. In conclusione: a) in questo momento storico si ripropone un’esigenza di soddisfazione delle vittime dei reati che non sono ripagate da un modello penale che affida alla detenzione e alla riabilitazione del condannato le forme della penalità b) le richieste delle vittime sono molteplici (risarcitorie, vendicative, partecipative, in-formative) ma hanno una radice comune: esse contestano l’attuale estraneità della pe-na ad un loro ruolo effettivo c) la ricostruzione dei modelli arcaici di reazione all’offesa comprovano l’esistenza di una struttura della penalità nella quale l’esigenza vendicativa non significava necessa-riamente brutalità e violenza gratuita 13 René Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980, 39 14 Walter Benjamin, Angelus novus, Einaudi, Torino, 1981, 16

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d) il modello della vendetta propone un aspetto relazionale che si esprime anche attra-verso forme compensative e restitutorie che confermano l’importanza annessa alla conservazione del legame sociale e delle alleanze tra gruppi e) questo tipo di penalità “vendicativa” è riconducibile a dei principi regolativi della convivenza che si fondano su degli obblighi generali di donare, ricevere e restituire che costituiscono spiegazioni delle condotte umane altrettanto convincenti quanto quelle illustrate dal paradigma utilitaristico o da quello “olistico” f) oggi pertanto l’esigenza di soddisfazione delle vittime deve trovare un supporto nel recupero degli aspetti relazionali che contraddistinguono l’esperienza del delitto come quella dei rimedi alla commissione degli illeciti e delle loro conseguenze: in questo senso la mediazione e la riparazione non rappresentano un percorso perdonista o in-dulgenziale ma comportano una attivazione delle energie che solo le relazioni umane dirette sono in grado di produrre (nel bene come nel male). 2 La tutela delle vittime 2.1 La molteplicità delle forme di tutela L’individuazione della vittima del reato come una categoria fondante una moderna giustizia penale non significa imporre una catalogazione statica destinata a identifica-re un nuovo soggetto “debole” generale da tutelare (non più di quanto già non faccia ogni norma penale stabilita) né prescrivere un favor contrapposto a quello assicurato agli accusati mediante le garanzia procedurali nell’ambito dei sistemi penali. La centralità della vittima nella concezione riparatoria del diritto penale significa semplicemente fondare una costruzione complessa che ne assicuri la completa prote-zione. La difesa delle vittime di un reato non si esaurisce certo nell’azione giudiziaria quand’anche essa sia informata ad obbiettivi di natura riparatoria. Sono almeno cin-que i piani che debbono essere tenuti presenti per delineare un sistema di protezione vittimologico:

a) la descrizione di fattispecie incriminatici che premino i comportamenti “vir-tuosi” del responsabile del fatto15

b) l’individuazione di sanzioni orientate a favore della vittima sia essa un singolo individuo od una collettività di persone più o meno estesa16

c) il riconoscimento di poteri processuali incisivi tanto a favore del danneggiato dal reato quanto alla persona offesa che non si sia costituita parte civile

d) la creazione di interventi assistenziali d’urgenza nell’immediatezza della con-sumazione dei reati soprattutto per le categorie maggiormente esposte alle conseguenze traumatiche dei reati (con particolare riferimento alle cd. fasce deboli)

e) la creazione di un sistema di sicurezza sociale che assuma il reato come rischio sociale anche a garanzia degli obblighi risarcitori derivanti dal reato stesso

Mentre la valorizzazione dello sforzo riparatorio dell’autore del reato verrà trattato nel capitolo dedicato alla riparazione, qui si tratta di accennare alla necessità di una vera e propria strategia nelle politiche pubbliche di protezione ed assistenza per le vittime dei reati. La decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea del 15 marzo 200117 riprende delle direttive già abbozzate nella raccomandazione n° R (85) 11 adottata dal Comita- 15 Sul punto si rinvia al terzo capitolo sulla riparazione 16 Si rinvia alle considerazioni di Carlo Enrico Paliero, Metodologie de lege ferenda…, 541 17 sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee del 22.3.2001 L. 82/1

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to dei Ministri dell’Unione Europea nel 198518 sulla posizione della vittima nel qua-dro del diritto penale e della procedura penale. Mentre la raccomandazione del 1985 si limitava a riconoscere alcuni specifici diritti della vittima del reato nei vari segmenti del procedimento penale (dalla fase dell’intervento di polizia al momento dell’esecuzione della condanna), nella decisione quadro del 2001 il ruolo “processua-le” della vittima si integra necessariamente con alcuni diritti sostanziali collaterali: fra tutti quello all’assistenza, alla protezione, al risarcimento dei danni. In effetti la posizione nel processo della vittima del reato è destinata a variare profon-damente a seconda del modello processuale adottato da ciascuno stato e, soprattutto, in relazione alle possibilità date alla vittima di costituirsi parte civile nel processo pe-nale o di esercitare, anche in quanto semplice persona offesa, poteri processuali più o meno incisivi. Di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo si è chiarito, lentamente e ancora ti-midamente, che anche la vittima del reato deve godere delle garanzie che assicurano un “giusto processo” almeno quando ci sia “connessione tra l’azione per danno e le iniziative intraprese dalla vittima stessa proprio in vista dell’attivazione o dello svol-gimento del processo penale contro il supposto offensore e in vario modo riconosciute dai diversi ordinamenti statali”19. Il diritto al processo della vittima viene infatti preso in considerazione nella prospettiva del risarcimento del danno e non per soddisfare la sua aspettativa punitiva nei confronti dell’autore del reato. Sotto questa luce la Con-venzione europea dei diritti dell’uomo – nonostante la mancanza di espliciti riferimen-ti normativi – è stata utilizzata per censurare, ai sensi dell’art. 6, l’irragionevole durata del processo penale nel quale, appunto, la vittima aveva avanzato pretese civilistiche. 2.2 Vittima e diritto pubblico al risarcimento e assistenza Ma, come emerge chiaramente dalla ricordata decisione quadro, il tema centrale in una strategia di protezione della vittima sta nel riconoscere o meno un diritto soggetti-vo pubblico al risarcimento del danno quando non sia possibile l’adempimento dell’obbligazione civile per i danni causati dal reato da parte del responsabile20. L’idea di una riparazione piena delle vittime dei reati mediante la costituzione di un sistema di sicurezza sociale non è mai stato accolto in Italia. Non si è accettato che la pretesa della vittima alla riparazione potesse diventare l’oggetto di un vero e proprio diritto soggettivo pubblico – quanto meno per i reati violenti o comunque lesivi dell’incolumità personale – così come era stato individuato da uno schema di disegno di legge negli anni ’70 a cura di una commissione di studiosi21. Si è preferito un mo-dello puramente assistenziale per beneficiare, di volta in volte, le vittime di una cer-chia determinata di reati (in particolare i reati di banditismo, di terrorismo e della cri-minalità organizzata) e sul presupposto indefettibile del loro stato di bisogno.

18 La raccomandazione è pubblicata in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1987, 636 con un commento di Guido Casaroli, Un altro passo europeo in favore della vittima del reato: la raccomanda-zione n° R (85) 11 sulla posizione della vittima nel diritto e nella procedura penale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1987, 623 19 Mario Chiavario, Il “diritto al processo” delle vittime dei reati e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in Rivista di diritto processuale, 2001, 943 20 In questo secondo senso si era già espressa una commissione di noti giuristi nel 1974 sotto il patro-cinio del Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale il cui elaborato è rintracciabile in AA.VV., Vittime del delitto e solidarietà sociale, Giuffré, Milano, 1975; per una disamina attualizzata della natu-ra del diritto alla riparazione delle vittime da reato si legga Giuseppe Bellantoni, La riparazione alle vittime del reato tra istanze “risarcitorie” e politica “assistenziale”, in Indice penale, 1985, pp. 535-561 21 Si veda la ricostruzione fatta da Giuseppe Bellantoni, La riparazione alle vittime del reato tra istanze “risarcitorie” e politica “assistenziale”, in Indice penale, 1985, 535

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Dall’introduzione dell’art. 23 DPR 1977 n. 616 - con il quale si è specificato che tra le funzioni amministrative comprese nella ‘beneficenza pubblica’, trasferite alle regioni e agli enti locali, v’è “l’assistenza economica in favore delle famiglie bisognose dei detenuti e delle vittime del delitto” - la legislazione statale e regionale hanno persegui-to finalità puramente assistenziali a volte, addirittura, con provvedimenti normativi ad personam22. In altri termini, mentre in diversi paesi europei23 e negli stessi atti norma-tivi internazionali24 è stata perfezionata una prospettiva solidaristica e risarcitoria che consentisse il riconoscimento a favore della vittima di un diritto pubblico al risarci-mento del danno, quale risposta “normale” all’evento illecito, la legislazione italiana ha insistito nel limitarsi ad alleviare la condizione di bisogno delle vittime - o dei loro parenti più stretti - colpite dai più vistosi fenomeni criminali della nostra penisola (le stragi, il terrorismo e la grande criminalità organizzata). Anche la tutela della vittima nel nostro paese è stata dunque condizionata dal clima di straordinarietà e di emergen-za fino al punto da prevedere prestazioni in denaro non solo a titolo di indennizzo ex post facto ma, ad esempio, per rafforzare in linea preventiva la sua capacità di resi-stenza alle pretese estorsive delle organizzazioni del crimine25. Ma è evidente che la strumentalizzazione delle vittime in funzione prevalentemente repressiva esaspera il conflitto autore/vittima e polarizza le due figure in un rapporto di rigido antagonismo. Questo tratto caratteristico della situazione italiana ha perciò finito con l’allontanarci ulteriormente da una concezione della protezione della vittima come segmento, tra gli altri, di una nuova risposta alla criminalità diffusa. Anche se vi fosse stata la volontà politica di conformarci alla Convenzione europea del 24 novembre 198326 – che ri-mane non firmata né ratificata – il deficit strutturale del nostro bilancio continua a 22 Sulla questione non c’è una consistente letteratura: oltre all’articolo di Bellantoni, citato nella nota precedente, si consiglia la lettura di Francesco Peroni, Legislazione regionale e solidarietà per le vitti-me di atti criminosi: il caso Lombardia, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1986, pp. 264-276; Marco Bouchard, La mediazione: una terza via per la giustizia penale?, in Questione Giustizia, nn. 3-4, 1992, pp. 757-783; Valeria del Tufo, Vittima del reato, Enciclopedia del diritto, XLVI, 1993, pp. 996-1008 23 Sono paradigmatici, a questo proposito, l’ente francese I.N.A.V.E.M. e l’inglese Victim National Support. Il primo (Institut National d’Aide aux Vitimes et Médiation), fondato nel 1986 e organizzato su un fitta rete di associazioni locali ma con bilanci controllati dal Ministero della Giustizia, nel 1993 aveva ormai 450 punti di accoglienza e ricevuto 75.000 vittime. Il secondo, nato nel 1974 a Bristol, di-spone ormai di 300 progetti locali e soddisfa un fabbisogno di ormai un milione di domande l’anno di aiuto da parte delle vittima da reato. 24 Si ricorda, in particolare, la risoluzione del Consiglio d’Europa del 28 settembre n. (77) 27 sul risar-cimento alle vittime del reato ma, sopratutto, la Convenzione europea del 24 novembre 1983 sul risar-cimento alle vittime dei reati violenti il cui commento più dettagliato è di Guido Casaroli, La conven-zione europea sul risarcimento alle vittime dei reati violenti: verso la riscoperta della vittima del reato, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1986, pp. 560-583. Il Consiglio d’Europa è ancora in-tervenuto con la raccomandazione n. R (87) 21 sull’assistenza alle vittime e alla prevenzione della vit-timizzazione il cui testo è contenuto in Michele M. Correra, Danilo Riponti, La vittima nel sistema ita-liano della giustizia penale. Un approccio criminologico, Cedam, Padova, 1990. 25 Come è avvenuto con il d.l. 31 dicembre 1991 n. 419 convertito con modificazioni dalla l. 18 feb-braio 1992 n. 172. Sull’istituzione del Fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive, da ultimo, Guido Casaroli, La tutela delle vittime di fatti estorsivi, in Diritto e processo penale, n. 3, 1995, pp. 315-321 ma anche più recentemente con il d.l. 13 settembre 1999, n. 317 contenente disposizioni ur-genti a tutela delle vittime delle richieste estorsive e dell’usura conv., con modificazioni, in l. 12 no-vembre 1999, n. 414 e con l’istituzione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso per mezzo della l. 22 dicembre 1999, n. 512. Il soggetto passivo, osserva Mariavaleria del Tufo, La tutela della vittima in una prospettiva europea, Diritto penale e processo, 1999, 890, viene in tale prospettiva ‘utilizzato’ come attore di una strategia repressiva. 26 Secondo la Convenzione lo Stato deve contribuire al ristoro finanziario di coloro che hanno subito pregiudizi gravi all’integrità fisica o alla salute come diretta conseguenza di un reato violento intenzio-nale. Il risarcimento deve essere accordato anche se l’autore non può essere perseguito o punito e deve coprire la perdita dei redditi, le spese mediche, ospedaliere e funerarie.

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rappresentare un serio ostacolo alla realizzazione di una concezione che richiede, in-dubbiamente, un consistente finanziamento pubblico ed una complessa relazione tra organismi pubblici e servizi anche privati. Si è ancora osservato che la solidarietà dello Stato si dovrebbe dimostrare non solo sul piano della tutela risarcitoria pubblica ma innanzitutto in termini di assistenza, gratui-ta e immediata alle vittime di tutti i reati violenti e ai loro famigliari per quanto ri-guarda l’aiuto sanitario, il pronto soccorso psicologico e la consulenza legale27. Que-sta strategia sarebbe, inoltre, perfettamente conforme alle disposizioni della Racco-mandazione n. R (87) 21 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sull’assistenza alle vittime e la prevenzione della vittimizzazione. I limiti della legislazione italiana non devono tuttavia nascondere i molteplici disposi-tivi diffusi a protezione di ben precisate vittime di reati. Spesso gli enti territoriali, as-sociazioni e fondazioni private hanno finanziato iniziative di tutto rispetto a favore di alcune fasce deboli della popolazione. Ad esempio il prolungamento dell’età della vita e la disarticolazione dei legami famigliari espongono l’anziano ad una solitudine che, da un lato, alimenta il suo sentimento d’insicurezza e, dall’altro, offre alla piccola criminalità occasioni frequenti per realizzare con successo azioni illecite, soprattutto di natura truffaldina28. Proprio per contenere i danni da reato – soprattutto psichici – che subiscono gli anziani vanno apprezzati e moltiplicati i progetti di pronto interven-to (come quello del Comune di Torino) per assicurare loro una immediata assistenza materiale e morale: anche il tempestivo cambiamento di una serratura può significare moltissimo nel contenimento dell’ansia e nel ridurre il senso di smarrimento che deri-va dalla caduta delle difese anche materiali. Ancora più considerevoli sono stati in questi anni gli sforzi delle strutture pubbliche per garantire protezione ai bambini e alle bambine vittima di abusi sessuali. Si è fatta largo una cultura specifica nella tutela preventiva e post-traumatica in materia di abu-si sessuali che ha segnato, innanzitutto, riforme d’avanguardia sia nel diritto che nel processo penale. Qui, più che altrove, sono state individuate strategie complesse che uniscono la prevenzione, soprattutto nelle scuole, alla formazione del personale medi-co, psicologico, giudiziario fino alla costituzione di strutture che garantiscano un rapi-do flusso di informazioni tra operatori. 2.3 Vittima e processo Quanto alla posizione processuale della vittima e i relativi poteri nel procedimento penale occorre sottolineare un non lieve paradosso. Da un lato, infatti, il nostro pro-cesso penale riformato non ha fatto che confermare attenzione alla persona offesa de-dicandole un intero titolo e in perfetta sintonia con il tradizionale potere di esercizio dell’azione civile in sede penale, potere negato nella tradizione processuale anglossas-sone. Dall’altra, però, mentre noi siamo rimasti “al palo” della considerazione formale verso la vittima, proprio nei paesi anglossasoni l’impossibilità per quest’ultima di svolgere un ruolo processualmente attivo ha generato regole multiformi destinate a precisare il diritto ad essere informata da parte del prosecutor o/e della polizia sugli sviluppi dell’indagine, il diritto ad usufruire di sale d’attesa separate da quella dell’imputato o dei suoi parenti nonché la prevalenza, a certe condizioni, del diritto alla riservatezza sulla libertà di stampa29. In particolare il diritto all’informazione fin

27 Mariavaleria del Tufo, La tutela della vittima…, 890 28 Su questo tema ci sono inchieste interessanti. Si vedano i lavori di Francesco Carrer, L’anziano e il suo habitat, sicurezza e qualità della vita, Ediesse, Roma, 1998 e Sicurezza in città e qualità della vita, Editrice Libertà, Roma, 2000 29 Per una sintesi si veda Uberto Gatti, M. Ida Marugo, Verso una maggiore tutela dei diritti delle vit-time: la giustizia riparativa al vaglio della ricerca empirica, in Rassegna italiana di criminologia, n. 4,

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dai primi atti d’indagine rappresenta la via maestra per accedere, all’estero, ai pro-grammi di risarcimento e di assistenza psicologica e ad un sistema, dunque, di limita-zione dei danni prodotti dalla microcriminalità30. La vera novità italiana è comunque rappresentata dal ruolo della vittima nel processo penale che si celebra davanti al giudice di pace. Infatti nel giudizio per i reati di competenza di questo giudice onorario la persona of-fesa ha la possibilità di adire direttamente il giudice attraverso un ricorso. La vittima, sia pure per un numero limitato di reati non gravi, ha uno strumento aggiuntivo alla tradizionale querela e, attraverso il ricorso, può superare le inerzie della pubblica ac-cusa che si dimostri disinteressata alle richieste di punizione avanzate dai privati offe-si da un reato. In questo modo la persona offesa assume le vesti di un vero e proprio contitolare dell’esercizio dell’azione penale a fianco del pubblico ministero tanto che è legittimata ad agire anche agli effetti penali in tutte le ipotesi in cui è ammessa im-pugnazione da parte del pubblico ministero (art. 38, d.l.vo 28.8.2000, n. 274)31. I poteri della persona offesa sono confermati da una serie di disposizioni che le rico-noscono una sorta di diritto di veto tutte le volte che l’accusato voglia beneficiare di soluzioni “indulgenziali”. Infatti la definizione del processo sia per irrilevanza del fat-to che per le attività riparatorie compiute dal responsabile del reato può essere ostaco-lata dalla persona offesa che voglia opporsi alla dichiarazione di estinzione del reato o che si dichiari insoddisfatta della riparazione. Ma più in generale tutta le legge è informata al principio della tendenziale soddisfa-zione della vittima. Le stesse sanzioni, miti sia nella quantità che nella qualità, assu-mono significato solo nella prospettiva della ricerca di utilità d’interesse per la perso-na offesa, sia essa un privato cittadino, la collettività o lo Stato. Certamente la sanzio-ne pecuniaria, la permanenza domiciliare e i lavori di pubblica utilità possono regi-strare dei risvolti afflittivi: si tratta, tuttavia, proprio di risvolti caratterizzati anche dalla preoccupazione di non nuocere alla posizione sociale attiva del condannato. La stessa condanna alla permanenza domiciliare e ai lavori di utilità sociale sono nego-ziabili nelle loro concrete modalità esecutive al punto che il condannato può chiedere di svolgere dei lavori socialmente utili in luogo della “detenzione” presso la sua abita-zione. In sostanza domina un profilo utilitaristico della pena perché prevalgono net-tamente degli obblighi di fare e di tollerare spodestando così il tradizionale criterio della sofferenza, del pati: e il fare, il tollerare, l’astenersi sono strettamente funzionali ad un obiettivo riparatorio del danno e dell’allarme risentito dal singolo individuo o dalla comunità. Non vi è dubbio che la giustizia di pace realizza un deciso passo in avanti nella ridefi-nizione dei paradigmi sanzionatori del sistema penale italiano attraverso la riscoperta normativa della funzione della vittima32. Infatti, mentre la pena classica, attraverso il 1994, pp. 487-515; ma per una rassegna completa si legga R.I. Mawby, S. Walklate, Critical Victimo-logy, SAGE, London-Thousands Oaks-New Delhi, 1994 30 Tutti diritti puntualmente ripresi dalla decisione quadro, più volte citata, del Consiglio dell’Unione europea del 15 marzo 2001 31 Ovviamente il potere attribuito alla persona offesa di intentare un processo penale chiamando l’accusato a rispondere direttamente davanti ad un giudice senza indagini né iniziativa da parte della pubblica accusa ha sollevato non poche perplessità di fronte alla previsione costituzionale dell’obbligatorio esercizio dell’azione penale tradizionalmente riservata al pubblico ministero (art. 112). Proprio al fine di evitare ogni sorta d’incompatibilità tra l’iniziativa privata e quella pubblica per i reati perseguibili a querela si è riconosciuto al pubblico ministero il potere di essere messo a cono-scenza della presentazione del ricorso privato riservandogli la potestà di formulare l’imputazione (sia pure nella veste puramente formale della semplice conferma di quella già predisposta dalla persona of-fesa). 32 Tralasciando l’elaborazione più risalente della scuola positiva si ricordano i numerosi contributi dia-lettici affacciati nel dibattito teorico sulla funzione della vittima: dal meno recente – ma ancora attualis-

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riferimento all’unità di misura della detenzione giornaliera, soddisfa esigenze di gene-ralità ed astrattezza, la valorizzazione dei sentimenti della vittima riporta, non solo il reato, ma anche l’eventuale reazione sanzionatoria su un piano di individualità e con-cretezza33. Della rinnovata considerazione della vittima si tende a sottolineare l’importanza del momento risarcitorio, se non quello puramente pecuniario: visto che la pena classica non serve né al reo né all’incoscio collettivo - si osserva – che serva, almeno, alla vittima! Si trascura invece il ruolo capitale che la vittima ricopre in ter-mini di senso del crimine e, dunque, di legittimazione della risposta sanzionatoria pubblica. La possibilità di dare espressione alla vittima acquista il suo significato più consistente proprio in relazione ai delitti più comuni e ripetuti, meno gravi singolar-mente considerati. Qui la soddisfazione o meno dell’offeso, più che l’asettica valuta-zione del risarcimento materiale, a seguito dell’attivazione del colpevole, dovrebbe essere il criterio fondamentale per stabilire la persistenza o meno dell’interesse pub-blico a punire. 3 La riparazione 3.1 La riparazione: i principi giuridici Il concetto di riparazione – a differenza degli “istituti” della mediazione e della conci-liazione – è ben conosciuto nel diritto penale e viene espressamente utilizzato per premiare il comportamento di chi, dopo il fatto, si sia prodigato per risarcire il danno, per restituire il maltolto o si sia adoperato spontaneamente e efficacemente per elimi-nare o ridurre le conseguenze dannose del reato o l’allarme sociale (art. 62 n. 6 c.p.). La scommessa di alcuni orientamenti più recenti nel diritto penale è però di utilizzare la riparazione come “misura” autonoma capace di emanciparsi dalla sua radice civili-stica fino al punto da ridisegnare confini e finalità dell’apparato sanzionatorio. 3.2 La rivalutazione della riparazione A dire il vero l’uso del risarcimento del danno come sanzione autonoma nel diritto penale non costituisce una scoperta della fine del novecento. Un tempo l’incriminazione per debiti o, all’inverso, la possibilità di liberarsi dalla re-sponsabilità penale per offese criminose mediante il pagamento di una somma di de-naro erano la norma. Solo oggi la condanna penale del debitore ci appare clamorosa-mente discriminatoria in danno dei ceti svantaggiati così come la possibilità di rispon-dere di un crimine con un mero risarcimento pecuniario ci risulta un inaccettabile pri-vilegio per i benestanti. Da un punto di vista culturale, inoltre, il risarcimento in funzione penale costituisce una commistione inaccettabile tra diritto penale e diritto civile, una contaminazione tra funzioni risarcitorie e funzioni penali che rivelerebbe solo un arretramento nella concettualizzazione degli strumenti giuridici. Ma, a parte questo ricordo della cultura giuridica di un passato non sufficientemente evoluto da riconoscere la necessaria differenza tra sfera privata e sfera pubblica dei

simo, Giorgio Del Vecchio, Sul fondamento della giustizia penale e sulla riparazione del torto, Giuffré, Milano, 1958 fino a Claus Roxin, Risarcimento del danno e fini della pena, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1987, pp. 3-23, Claus Roxin, La posizione della vittima nel sistema penale, in L’indice penale, 1989, pp. 5-18, Adelmo Manna, Il risarcimento del danno fra diritto civile e diritto penale, in L’indice penale, 1991, pp. 591-605, Carlo Enrico Paliero, Metodologie de lege ferenda…. p. 510 e Mario Romano, Risarcimento del danno da reato. Diritto civile, diritto penale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1993, pp. 865-888 che vede, invece, nella prospettiva risarcitoria del dirit-to penale una delegittimazione del sistema criminale; 33 Mi permetto di rinviare a Marco Bouchard, Vittime e colpevoli: c’è spazio per una giustizia ripara-trice?, in Questione Giustizia, n. 4, 1995, pp. 886-915, ma particolarmente p. 913.

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comportamenti illeciti, dobbiamo ricordare come – tra la fine dell’ottocento e l’ inizio del novecento34 – la scuola positiva abbia considerato il risarcimento del danno come una vera e propria sanzione penale. Anche se quelle indicazioni non vennero recepite nel codice del 1931, esse incisero nella particolareggiata disciplina del risarcimento del danno e delle restituzioni (art. 185 e ss. c.p.) intesi come sanzioni civili. Ciò che distingue, tuttavia, l’orientamento dei positivisti dalle attuali aspettative per una giustizia riparatoria è la natura del risarcimento del danno: mentre allora veniva configurato come sanzione “aggiuntiva”, oggi si sottolinea la sua portata “sostitutiva” della tradizionale pena privativa della libertà personale35. Dunque, più che di una scoperta si tratta di una riscoperta. Questa riscoperta ha trovato un terreno di fertile elaborazione teorica e normativa so-prattutto in Germania36. Secondo un primo orientamento il risarcimento dovrebbe costituire non solo una nuo-va sanzione penale ma anche un vero e proprio “nuovo paradigma” per risolvere la profonda crisi del diritto penale. Tutte le volte che la soddisfazione risarcitoria della vittima coincide con la cessazione dell’allarme sociale (e, dunque,tendenzialmente, nei reati meno gravi o con danni di modesto valore) la pena tradizionale dovrebbe es-sere sostituita da misure di natura riparatoria37. A favore di una simile soluzione si schiererebbero le stesse vittime il cui bisogno di punizione si assopirebbe di molto – come dimostrano ricerche effettuate negli Stati Uniti e in Giappone – di fronte al ri-sarcimento dei danni subiti in occasione dei reati. Per un secondo orientamento il risarcimento o in senso lato la riparazione non può rappresentare una pena aggiuntiva perché equivarrebbe a dire che la condanna civile al risarcimento del danno costituisce, nel suo contenuto sostanziale, una pena. Non e-siste alcuna via – si sostiene – che possa ricondurci ad una privatizzazione del diritto penale e ad una contestuale penalizzazione del diritto privatistico al risarcimento. Il risarcimento del danno, secondo l’elaborazione di Roxin, non individua neppure un fine ulteriore della pena, autonomo e diverso da quello retributivo o preventivo: anzi, esso rientra perfettamente nelle esigenze tradizionali della prevenzione generale e del-la prevenzione speciale. Egli afferma che il risarcimento del danno assolve ad una particolare funzione specialpreventiva perché l’alternativa al carcere può essere avver-tita come giusta dallo stesso autore del reato che si riconcilierebbe così con il diritto stesso. Roxin impiega espressamente il termine di prevenzione “integratrice” per descrivere l’effetto pacificatore dell’azione positiva (risarcimento) dell’autore del rea-to sia rispetto alla vittima che rispetto alla collettività38. In sostanza secondo Roxin la introduzione del risarcimento nel diritto penale, per quanto essenziale, non comporta una sua privatizzazione, non diventa una modalità

34 Enrico Ferri, Il diritto di punire come funzione sociale, in Archivio psich. scienze pen., 1882, II, p. 76 e R Garofalo, Riparazione alle vittime del delitto, 1887, 42 35 Adelmo Manna, Il risarcimento del danno tra diritto civile e diritto penale, in Indice penale, 1991, 595 36 K. Kessar, Schadenswiedergutmachung in einer künftigen Kriminalpolitik, in Festschrift für H. Lefe-renz, 1983; 37 K. Sessar, Schadenswiedergutmachung in einer künftigen Kriminalpolitik, in Festschrift für H. Lefe-renz, 1983, 145 e ss. riportato da Mario Romano, Risarcimento del danno da reato, diritto civile, dirit-to, penale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1993, 872, nonché K. Sessar, A. Beurskens, K. Boers, Wiedergutmachung als Konfliktregelunsparadigma?, in Kriminal journal, 1986, 86 e ss. 38 Questa tesi si sposa singolarmente con delle argomentazioni intervenute successivamente in sede criminologia da parte di uno studioso australiano, John Braithwaite, che individua nella vergogna (shame) reintegrativa, ovvero nel senso di contrizione del colpevole verso la comunità, il dispositivo sul quale innestare dei programmi di reintegrazione sociale anziché lo schema classico della esclusione sanzionatoria della pena detentiva. Si veda John Braithwaite, Shame and modernità, in British Journal of Criminology, XXXIII (1993), 1-18

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sanzionatoria autonoma e non introduce un nuovo fine nella pena. Tuttavia il risarci-mento del danno dovrebbe innalzarsi a sanzione autonoma, composta da tratti civili-stici e penalistici, in grado di compensare il danno subito dalla vittima e, al tempo stesso, di valorizzare gli sforzi risarcitori del responsabile del fatto anche attraverso, in caso di incapienza, lavori di utilità sociale. Si teorizza, anche qui, una sorta di terzo binario che si sviluppa non sul piano finalistico ma su quello strumentale: accanto alla pena tradizionale e alla misura di sicurezza si collocano, così, le misure risarcitorie per realizzare appieno, mediante la soddisfazione delle vittime, le finalità tradizionali della pena. 3.3 Le diffidenze italiane verso il principio riparatorio L’accoglienza di queste elaborazioni in Italia è stata decisamente tiepida. Va detto subito che la resistenza non è stata certo opposta dalla cultura giuridica civi-listica che, negli ultimi tempi, ha partecipato ad una evoluzione “sanzionatoria” dell’illecito civile in particolare nella costruzione della componente non patrimoniale del danno. Infatti, il danno non patrimoniale è riconosciuto solo (quasi esclusivamen-te) quale conseguenza di un fatto reato (artt. 2059 c.c. e 185 c.p.) e, in quanto non commisurato ad una perdita economica, finisce con lo svolgere una tipica funzione sa-tifattoria della “sofferenza” della vittima e, corrispondentemente, affittiva per il re-sponsabile del danno. I punti di contatto tra risarcimento del danno non patrimoniale e logica affittiva sono evidentissimi nella riparazione pecuniaria prevista per la diffamazione a mezzo stam-pa dall’art. 12 l. 47/1948. Il suo ammontare è infatti stabilito in ragione della gravità dell’offesa e della diffusione dello stampato. In alcuni casi giurisprudenziali sono stati registrati dei tentativi39 di collegare il risarcimento del danno non patrimoniale alla gravità della colpevolezza. Ancora alla gravità della colpa fa riferimento l’art. 18, 6° co. della l. 349/1986 per determinare l’ammontare del danno ambientale. Se si consi-derano o, addirittura, si privilegiano dei criteri soggettivi, riferiti ovviamente all’autore, per la determinazione del danno è inevitabile l’affermarsi di una prospetti-va più punitiva che economica. Non si tratta più, semplicemente, di ritrasferire dei be-ni economici incamerati illecitamente: si punisce l’autore dell’illecito, anche oltre i suoi effettivi guadagni, mediante un risarcimento economico che possiede inequivo-cabili tratti afflittivi. E’ stata questa d’altra parte la logica sottostante i cd. “punitive” o “exemplary damages” che nell’esperienza nordamericana hanno portato al paga-mento di somme astronomiche a titolo di risarcimento da danni da prodotto o per gli atti lesivi commessi per mezzo della stampa40. L’ingresso dell’idea risarcitoria nel diritto penale come finalità della reazione penale non è stata accolta positivamente soprattutto dalla cultura penalistica. Le rassicurazio-ni dei giuristi tedeschi sulla funzionalità preventiva di un modello risarcitorio di dirit-to penale non ha suscitato alcun entusiasmo. Anzi, si è controbattuto, che se il risar-cimento dovesse sostituire la sanzione tradizionale verrebbe meno qualsiasi funzione specialpreventiva o generalpreventiva nella pena: per il ladro non ci sarebbe mai nulla da perdere e tutto da guadagnare se dovesse scontare solo la restituzione del maltolto; per i cittadini il semplice rischio del risarcimento non rappresenterebbe più una remo-ra a cimentarsi almeno una volta nell’illecito41. In una tale prospettiva l’idea risarcito-ria si confonde con l’abbandono della pena e non a caso essa è stata coltivata dagli abolizionisti.

39 Mario Romano, Risarc…cit. 868 40 Adelo Manna, Il risarcimento del danno… cit., 592 41 Claus Roxin, Risarcimento del danno e fini della pena, in Rivista italiana di diritto e procedura pe-nale, 1987, 8

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Le critiche sono state severe e puntuali: esse non si sono tanto appellate né al princi-pio di eguaglianza né a quello della rieducazione del condannato che verrebbero messi in discussione da un sistema che favorisce le capacità reddituali dei ceti più ricchi e le loro maggiori opportunità di reintegrazione sociale. Una obiezione forte riguarda l’impossibile rispetto del principio “nulla poena sine le-ge”42. Quale sarebbe, infatti, - per il doveroso rispetto del principio di predeterminazione le-gale della pena – il limite del risarcimento del danno non patrimoniale o della ripara-zione pecuniaria da fissarsi legislativamente oltre il danno effettivamente subito? E anche a voler ammettere la possibilità di una predeterminazione concreta – tra un mi-nimo e un massimo – di questo ‘surplus’ risarcitorio, a quale titolo potrebbe essere giustificato questo arricchimento della vittima? Tale obiezione inoltre non riguarda solo il risarcimento del danno ma anche la versio-ne speculare della riparazione a mezzo lavori di utilità sociale o a vantaggio della vit-tima. Anche qui – si sostiene – oltre alle difficoltà di commisurazione tra danno e du-rata della prestazione si riproporrebbe la difficile giustificazione di quelle utilità ulte-riori ricavate dalla vittima o dalla collettività (e superiori al danno effettivamente sof-ferto) grazie all’attività volontaria resa dal colpevole. Seconda obiezione: un modello penalistico fondato sul risarcimento non potrebbe pre-scindere da un rigoroso accertamento patrimoniale e fiscale posto che “ogni irroga-zione di un risarcimento del danno/riparazione pecuniaria intesi come pena che pre-scindesse da criteri di trasparenza sulle capacità economiche e reddituali del con-dannato rischierebbe di porsi come fonte di ingiustizie e… accentuerebbe verosimil-mente pericolose rivendicazioni intersoggettive”43 Quest’ultima obiezione non coglie certamente nel segno se si considera che questi problemi già esistono oggi, ad esempio, per una corretta applicazione del gratuito pa-trocinio. Ciò non impedisce il mantenimento e il miglioramento di un istituto a garan-zia del diritto di difesa. L’obiezione dovrebbe a maggior ragione farsi carico della cor-rispondenza a giustizia dell’attuale sistema carcerario e dimostrare che esso lungi dall’essere criminogeno è perfettamente in grado nonostante il suo sovraffollamento di rispondere all’imperativo costituzionale della rieducazione del condannato. In realtà la vera obiezione è di natura ideologica perché l’introduzione – comunque – di una pena risarcitoria, attraverso la fine della distinzione tra danno civile e offesa penale, determinerebbe una delegittimazione della pena criminale, “una svalutazione del momento comminatorio di una pena pubblica, alla radice della quale è opportuno che sia sempre presente un giudizio di speciale disvalore etico-sociale del tipo di condotta incriminata”44. Inoltre “la decisione se punire o meno, implicando freddezza e distanza critica, deve prescindere il più possibile dalla singola vittima e dedicare invece un’attenzione primaria all’autore del reato”45. Ciò non significa affatto negare al risarcimento del danno una profonda funzione positiva all’interno del diritto penale: ma esso non può – secondo l’analisi di Romano – emanciparsi da una funzione secon-daria e servente la valutazione complessiva del delitto commesso e della personalità del suo autore (ai fini della quantificazione della pena, del riconoscimento di attenuan-ti o di benefici in sede di esecuzione della pena stessa). Tra le aperture interessanti verso una valorizzazione di un modello riparatorio va se-gnalato l’auspicio per un impiego del risarcimento in chiave di depenalizzazione.

42 Mario Romano, Risarc…, cit., 878 43 ibidem 44 ivi, 882 45 ivi, 883

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Il risarcimento potrebbe infatti trovare “proficua utilizzazione per quei beni giuridici per i quali non risulti comunque consigliabile la tutela penale, e ciò in base ai noti principi di proporzione, sussidiarietà, effettività della protezione penale, ai quali ap-pare opportuno aggiungere altresì quello, collegato alla stretta legalità, relativo all’esigenza di “afferrabilità” dell’interesse leso”46. Il campo elettivo del risarcimen-to del danno in chiave sostitutiva della protezione penale potrebbe essere quello dei beni della personalità. Diffamazione e ingiuria, infatti, da tempo in altri ordinamenti costituiscono dei meri illeciti civili ancorché protetti da quelle pene esemplari (“e-xemplary damages”) che hanno dimostrato una notevole efficacia deterrente. 3.4 Riparazione come pena o come alternativa alla pena? Negli anni più recenti il tema della riparazione penale è stato trattato in un corposo confronto tra l’esperienza italiana e quella tedesca con un’attenzione particolare al Progetto tedesco sulla misura alternativa del risarcimento del danno (Alternativ-Entwurf Wiedergutmachung) poi sfociato con notevoli cambiamenti nella legge del 28 ottobre 199447. L’idea originaria del Progetto tedesco erigeva il risarcimento del danno a vera e pro-pria sanzione autonoma: più precisamente si manteneva la qualifica punitiva, “crimi-nale” ad una sanzione connotata tuttavia, in quanto riparatoria, da una struttura non criminale. “In altri termini: si conserva l’involucro rassicurante offerto dalla tutela penale, svuotando però questa del suo significato proprio, al fine di rispondere, oltre che alle istanze di deflazione penale, a quelle derivanti dall’accresciuta sensibilità sociale nei confronti della “vittima” del reato”48. Questa prospettiva è stata però marchiata con un giudizio di improponibilità perché una contraddizione così patente potrebbe trovare soluzione giuridica non certo asse-gnando ad una misura civilistica il segno della penalità (sia pure al fine di non perdere la sua forza deterrente) ma riconoscendo alla condotta riparatoria l’effetto di assurgere a causa di esclusione della punibilità. E, infatti, si è osservato come questa sia stata proprio la strada intrapresa dalla legge tedesca del 1994. La riparazione, a questo punto, però, anziché individuare una nuova forma di penalità ne diventa la sua negazione49. Fatte salve le difficoltà di inquadrare la riparazione tra le cause estintive del reato o le cause sopravvenute di non punibili-tà50 si è osservato51 come il nostro ordinamento conosca ben definite ipotesi in cui il comportamento dell’autore successivo al reato è idoneo a far venir meno l’antigiuridicità del fatto: la ritrattazione delle false dichiarazioni, l’adempimento del-le obbligazioni economiche nell’insolvenza fraudolenta, varie fattispecie di condono in materia fiscale e edilizia. Peraltro la possibilità che dilaghi una tendenza legislativa diretta ad escludere la ri-sposta sanzionatoria, a fronte di comportamenti considerati sintomatici di una volontà contraria – ancorché tutta strumentale – a quella che ha caratterizzato l’azione illecita, è vista con preoccupazione. Questa tendenza sarebbe solo il segno di una progressiva e irreversibile scissione tra reato e punibilità52 che trasformerebbe il diritto penale in mezzo per conseguire finalità del tutto incongruenti con la prevenzione e la repressio- 46 Adelmo Manna, Il risarcimento …cit., 599 47 Désirée Fondaroli, Illecito penale e riparazione del danno, Giuffré, Milano, 1999 48 ivi, 433 49 ivi, 436 50 La legge sulle competenze penali del giudice di pace sembra aver fatto una scelta netta qualificando, già nel titolo, “l’attività riparatoria” come una causa estintiva del reato. Ma la dottrina, da subito, non ha voluto seguire quell’indicazione formale. 51 Désirée Fondaroli, Illecito penale…, 439 52 ivi, 440

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ne dei reati. Il proliferare di costruzioni legali che conservano l’intervento punitivo so-lo in via astratta ma che, in realtà, ammettono l’esenzione da pena a fronte di variega-te condotte restitutorie e riparatorie, costituirebbe la fine del diritto penale, emarginato in una funzione niente più che simbolica. Per contrastare questa degenerazione non resterebbe, pertanto, che accettare una ri-nuncia della potestà punitiva dello stato solo “in ipotesi dettagliatamente individuate e determinate da precise ragioni di politica criminale”53. Molto meno timorose e di tutt’altro respiro sono state invece le proposte contenute nella relazione della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale istitui-ta con decreto ministeriale 1° ottobre 1998 (commissione Grosso). Il progetto Grosso si preoccupa, infatti, di modulare delle risposte penali in funzione di comportamenti successivi al reato per favorire la reintegrazione di interessi non an-cora irrimediabilmente pregiudicati. Nel caso in cui la riparazione intervenga tempe-stivamente, entro un dato termine e, comunque, con piena soddisfazione della vittima si presenterebbero gli estremi per delineare delle vere e proprie cause di non punibili-tà; superato quel termine e in assenza di soddisfazione per la vittima non si dovrebbe andare oltre la previsione di circostanze attenuanti. Le cause di non punibilità dovrebbero essere collegate – per non alterare la funzione socialpreventiva della sanzione – a condotte di riparazione dell’offesa realizzate entro limiti temporali che assicurino una reintegrazione ‘utile’ perché tempestiva dell’interesse offeso dal reato. Di qui il problema della disciplina del recesso attivo che oggi consente una semplice diminuzione di pena mentre la commissione Grosso si dichiara disponibile – in linea con altre legislazioni europee – ad ammetterlo tra le cause di non punibilità. In questo modo, si osserva, le cause di non punibilità perde-rebbero quel carattere eccezionale che oggi le contraddistingue. In questo senso il ravvedimento operoso prima che la pubblica autorità abbia notizia del fatto ovvero la disponibilità all’integrale risarcimento entro un termine prefissato potrebbero rappre-sentare le condizioni su cui costruire un istituto generale altamente innovativo per il nostro diritto penale. Per contro le condotte riparatore tardive non dovrebbero – secondo la relazione citata – suggerire reazioni diverse da una mera diminuzione di pena. Questa impostazione confermerebbe l’esistenza di un principio riparatorio come diret-tiva generale dell’ordinamento penale sia pure nei limiti delle circostanze che attenua-no la pena. Essa ha, per l’appunto, un solido fondamento normativo nell’art. 62 n. 6 c.p. I dubbi (anzi le ostilità) riguardano la possibilità di definirlo come causa generale di esclusione della pena (tradizionale) o addirittura come nuova figura generale sanzio-natoria. In effetti alcune obiezioni sono serie, soprattutto quelle che evidenziano la difficile tipizzazione del comportamento riparatorio (sia che lo si voglia ricostruire come nuova sanzione sia che lo si voglia inquadrare tra le cause di non punibilità) nonché gli ostacoli che si frappongono alla conservazione della proprorzionalità tra fatto illecito e riparazione. In altri termini: come è possibile stabilire l’adeguatezza, la congruità della riparazione al fatto in difetto di criteri chiari che evitino al giudice un intervento totalmente discrezionale se non addirittura arbitrario? Eppure è altrettanto evidente il bisogno di individuare un principio che assegni al di-ritto penale contemporaneo una funzione reintegrativa, di promozione del legame so-ciale che superi l’anacronistico percorso che si dipana dalla rigorosa separazione tra vittima e autore e che si conclude con dei dispositivi di esclusione del condannato. Se il diritto penale del futuro non si attrezza secondo una funzione reintegratrice è fa-cilmente preconizzabile una sua involuzione all’insegna di una esasperazione delle di- 53 ivi, 443

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suguaglianze: un diritto penale debole verso i potenti che beneficeranno delle mille scorciatoie legate al trattamento della criminalità economica e finanziaria e un diritto penale sempre più forte con gli emarginati impossibilitati a negoziare sia il reato che la pena. Vale pertanto la pena tentare uno sforzo per verificare, davvero, se non esistono i pre-supposti teorici per fondare – anche nel nostro ordinamento positivo – un principio ri-paratorio capace di ulteriori sviluppi oltre quelli estremamente timidi intravisti con la legge sulle competenze penali del giudice di pace. 3.5Prove di elaborazione per delineare un principio riparatorio nell’ordinamento penale italiano Il riferimento normativo che individua un principio riparatorio ad efficacia diminuente la pena (art. 62 n. 6 c.p.) si coniuga, ormai, con un principio riparatorio ad efficacia estintiva del reato stesso (art. 35 d. l.vo 274/00). L’efficacia estintiva del reato ricono-sciuta alla condotta riparatoria apre decisamente la strada per l’affermazione di un principio generale applicabile a qualsiasi tipologia di reati e con il limite esclusivo della competenza per materia del giudice di pace. Insomma: il principio riparatorio diventa un principio generale del nostro ordinamento penale in relazione a tutto il di-ritto penale “minore” che disciplina le contravvenzioni più lievi e più semplici nonché tutta l’area della cd. micorconflittualità. Siamo quindi in grado, oggi, di apprezzare, contro ogni significato riduttivo del termi-ne, tutta l’ampiezza del concetto di riparazione. Le disposizioni appena enunciate, proprio per la loro sovrapponibilità concettuale, ci consentono non solo di affermare l’esistenza di un principio generale ma anche di ap-profondire il suo fondamento e il suo contenuto. Ci consentono anche un’analisi filo-logica dell’idea riparatoria nel diritto penale. Le due disposizioni, nell’esigere il risarcimento del danno, le restituzioni, l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, prendono in conside-razione il complesso delle conseguenze offensive del reato: sia quelle che attengono il danno risarcibile, sia quelle che attengono la cd. offesa criminale. Sul piano soggettivo, riparatori sono pertanto quei comportamenti che incidono posi-tivamente sulle aspettative sia dei soggetti danneggiati dal reato sia di coloro che a ri-gore devono essere considerati persone offese. Come è noto, normalmente v’è piena coincidenza tra chi patisce il danno in conse-guenza di un reato e chi deve essere considerato persona offesa in quanto “titolare del bene protetto dalla norma penale”. Questa coincidenza, tuttavia, viene meno quando il reato danneggia soggetti diversi e ulteriori rispetto a quelli che la norma penale intendeva tutelare. Non c’è esempio mi-gliore dell’omicidio per illustrare l’importanza di questa distinzione: solo la vittima dell’omicidio possiede la qualità di persona offesa mentre i congiunti possono riven-dicare i danni che ad essi sono stati cagionati dalla perdita del loro caro54. Questa distinzione è importante non solo dal punto di vista della dogmatica penale e per poter individuare correttamente i poteri, le facoltà e i diritti che spettano rispetti-vamente alla persona offesa e al danneggiato. La distinzione è ricca di implicazioni anche nella prospettiva della giustizia cd. riparatoria. Riparare, infatti, significa innanzitutto corrispondere agli obblighi civilistici che di-scendono dalla commissione di un reato; ogni reato – recita l’art. 185 c.p. – obbliga alle restituzioni chi ha commesso il fatto e obbliga al risarcimento del danno tanto 54 In realtà il codice di procedura ammette in questo caso (ma è una conferma della distinzione teorica) i parenti della persona offesa deceduta ad esercitare le facoltà e i diritti attribuiti dalla legge alla perso-na offesa in generale, e sempre che il decesso sia conseguenza del reato (art. 91, 3° co. c.p.p.)

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l’autore del fatto quanto coloro (i responsabili civili) che ricoprono una funzione di garanzia per i terzi rispetto ai danni causati dall’illecito. L’obbligo di restituire e di risarcire non esaurisce tuttavia la portata della funzione ri-paratoria. E’ vero che nella cultura giuridica contemporanea il risarcimento del danno non s’identifica più con una valutazione puramente economicistica delle conseguenze dannose di una condotta contraria alle regole della convivenza. L’invenzione del dan-no biologico ha rotto gli schemi della ripartizione tradizionale tra danno patrimoniale e danno morale (non patrimoniale) e assicura, accanto al ristoro dei danni materiali, una tutela piena della persona e, in particolare, della salute della vittima. Il progresso nella concezione della protezione risarcitoria non può tuttavia non tradursi – eccezion fatta per le restituzioni – in una “monetizzazione” del danno. Riparare vuol anche dire corrispondere ad una esigenza di contenimento dell’allarme individuale e sociale generato dal reato. L’allarme individuale e sociale o, per usare un termine oggi più frequentato, la sicurezza degli individui considerati singolarmente e collettivamente (la comunità) non è ripagata – di per sé – dalle restituzioni e dal ri-sarcimento del danno per quanto spesso (e in particolare nei reati perseguibili a quere-la) esse siano sufficienti per fare rientrare il senso di esposizione a pericolo. La norma penale non custodisce solo dei beni definibili vuoi nella loro fisicità vuoi nel loro ap-prezzamento economico (e nella valutazione economica rientrano anche beni immate-riali e sentimenti): la norma penale, infatti, costituisce anche una garanzia a protezio-ne delle aspettative di sicurezza della persona e della comunità. Questa esigenza ripa-ratoria – che scaturisce da qualsiasi reato – è particolarmente evidente negli illeciti senza vittima: laddove manca un danno risarcibile perché la norma non contempla una vittima (si pensi allo spaccio di sostanze stupefacenti o alla guida in stato di ebrezza55) o perché il fatto non ha causato alcun danno, non viene meno questo secondo profilo riparatorio che coincide con una esigenza di sicurezza. Una delle espressioni tipiche di questo secondo aspetto della riparazione la si ritrova nell’opera spontanea ed efficace dell’autore del reato “per elidere o attenuare le con-seguenze dannose o pericolose del reato”: quest’opera da titolo – in generale come si è già visto – ad una diminuzione della pena (art. 62 n. 6 c.p.) e – per i reati di compe-tenza del giudice di pace ma a condizione che le conseguenze negative siano state e-liminate e non semplicemente attenuate – addirittura all’estinzione dell’illecito (art. 35 d. l.vo 274/00). Mentre all’obbligo di risarcire e restituire corrisponde la possibilità di riparare il dan-no all’obbligo di eliminare o ridurre gli effetti negativi della condotta criminosa corri-sponde la possibilità di riparare il fatto. 3.6Riparazione del danno e riparazione del fatto Riparazione del danno e riparazione del fatto sono dunque due concetti distinti che possono aiutarci nella comprensione dell’idea riparatoria applicata al sistema penale.

55 Non si comprende perché Sandro Guerra, L’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, in a cura di Adolfo Scalfati, Il giudice di pace, un nuovo modello di giustizia penale, CEDAM, Padova, 2001, 513 sostenga che vi sia incompatibilità ontologica tra la modalità di estinzione prevista dall’art. 35 d. lg.vo 274/00 e i reati di pericolo astratto quali sono la guida in stato di ebrezza o sotto l’influenza di sostanze stupefacenti. L’assenza di danni risarcibili o di conseguenze dannose o pericolose “naturali-stiche” non impedisce di apprezzare condotte – quali il volontariato a favore di gruppi alcolisti o il ver-samento di somme di denaro – di cui è innegabile il profilo riparatorio in quanto si prestano ad essere verificabili tanto per la consistenza quanto per la autenticità dell’intervento riparatorio.

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Il dovere risarcitorio può essere soddisfatto in via oggettiva, anche da terze persone, senza pregiudicare il diritto dell’autore del fatto a beneficiare dei vantaggi (diminu-zione o esclusione del reato) che l’ordinamento accorda al risarcimento del danno56. L’onere riparatorio in senso stretto è invece difficilmente separabile da una valutazio-ne soggettiva. Già nella disciplina del delitto tentato ritroviamo, tanto nell’ipotesi di chi desiste dall’azione criminosa quanto in quella di chi non si limita a recedere ma impedisce l’evento delittuoso, l’elemento fondamentale della volontarietà nel contra-stare e contenere gli effetti della condotta illecita. Il peso di una tempestiva resipi-scenza assicura l’impunità se l’azione non arriva a compimento (art. 56, 3° co. c.p.) e garantisce uno sconto fino alla metà della pena prevista per il delitto tentato se l’autore di un fatto, ormai perfezionatasi la condotta criminosa, impedisce l’evento. E’ dunque la volontarietà, la libera decisione di chi prende le distanze dall’attività il-lecita compiuta ad essere decisiva nella valutazione del comportamento riparatorio del fatto-reato. Certamente può trattarsi di una volontà del tutto utilitaristica e priva di au-tentica resipiscenza. D’altra parte se si vuol conservare al diritto penale la sua laicità e la sua indipendenza da spinte moralistiche – per non dire ideologiche o religiose – oc-corre ammettere che la riparazione trova una sua giustificazione non in quanto sia specchio di una trasformazione psichica dell’autore di un reato bensì in quanto gli in-dividui e la comunità colpiti dal reato si ritengano “ripagati” dal comportamento del responsabile successivamente al fatto. La legge sulle competenze penali del giudice di pace, improntata a concepire un dirit-to penale “reintegrativo”, si è posta seriamente questa prospettiva e si è interrogata sulla correttezza di un modello che liberasse l’autore di un reato da una qualsiasi rea-zione sanzionatoria per il solo fatto di aver risarcito e riparato. La risposta è stata ne-gativa per un duplice ordine di ragioni. Da un lato si è voluto sottrarre l’imputato da un possibile uso capriccioso di un eventuale potere di veto della persona offesa che, insoddisfatta della riparazione ricevuta, intendesse impedire – con atti di puro arbitrio – la dichiarazione di estinzione del reato. Dall’altra si è voluto evitare che il meccani-smo riparatorio fomentasse una monetizzazione della responsabilità penale. A queste preoccupazioni si è cercato di rispondere riconoscendo al giudice “il potere di valuta-re la congruità e l’effettività delle condotte riparatorie”57. Tuttavia questo potere di controllo è stato affidato al giudice di pace con una formula che testimonia paradossalmente una certa sfiducia verso il meccanismo riparatorio e soprattutto verso le potenzialità insite nella riparazione del fatto. Il legislatore ha infat-ti preteso che il giudice vagliasse congruità ed efficacia delle condotte riparatorie alla luce delle esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione. Cosa siano que-ste esigenze ce lo illustra la relazione governativa al decreto legislativo n. 274/00: es-se rispondono all’obiettivo di prevenzione generale e speciale del sistema penale. In-somma il giudice è tenuto a controllare gli effetti delle attività riparatorie attraverso il filtro della “retribuzione e della prevenzione”58. La validità del sistema riparatorio viene dunque fatta dipendere dall’applicazione di criteri di verifica che si fondano sui principi opposti della retribuzione e della prevenzione. Un conto, infatti , è affermare che la riparazione debba svolgere nel sistema penale una funzione marginale e com-plementare a quelle tradizionali e principali della retribuzione e del trattamento; altro 56 Un precedente orientamento che assegnava alla circostanza attenuante prevista dalla prima parte dell’art. 62 n. 6 c.p. natura soggettiva è stato superato dalla sentenza della Corte costituzionale 23 aprile 1998 n. 138, Cass. pen. 1998, 2297 che ha invece attribuito piena efficacia al risarcimento compiuto da un ente assicurativo 57 Relazione allo schema di decreto legislativo recante “Disposizioni in materia di competenza penale del giudice di pace” approvato dal Consiglio dei Ministri del 25 agosto 2000 pubblicata ne Il codice del giudice di pace, La Tribuna, Piacenza 2001, 131 58 ivi, 133

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è concepire delle misure-monstre pronte ad assolvere funzioni tra loro inconciliabili. Nelle mani di giudici non professionali, pronti a seguire un modello di giustizia sog-gettiva piuttosto che quello formalistico-burocratico dei giudici ordinari, tali misure si presteranno a soddisfare le bizzarrie dei codici culturali di cui ogni magistrato è per-sonalmente portatore, ivi comprese le aspirazioni retibuzioniste manifestate sotto for-ma di applicazioni della pura legge del contrappasso. Questa contraddizione è stata colta dai primi commentatori alle disposizioni sulle competenze penali del giudice di pace. Si è infatti osservato che la riparazione non è in grado di svolgere una funzione di prevenzione generale e speciale perché l’efficacia intimidativa è propria del contenuto affittivo della sanzione, mentre la riparazione non consiste in un pati, “ma nella ricostituzione della situazione precedente al fat-to…[M]entre la pena ha un contenuto privo di scopo che, proprio perché senza utili-tà, consente di perseguire scopi preventivi, le sanzioni diverse dalle punitive, come quelle riparatorie, hanno un contenuto utilitaristico che non permette di perseguire scopi preventivi”59. La gravità della commistione tra finalità riparatorie, preventive e retributive è stata censurata perché attribuisce al giudice un enorme potere discrezionale60 e, soprattutto, perché consente una estensione in malam partem delle esigenze di riprovazione e di prevenzione61. Ma l’aspetto maggiormente inaccettabile risiede nell’incomparabilità tra finalità che disegnano i tratti della sanzione – come avviene per soddisfare le esi-genze retributive e preventive – e finalità che tratteggiano comportamenti che presup-pongono l’assenza, se non la negazione, della sanzione – come avviene per soddisfare esigenze riparative. Addirittura nel sistema architettato per le competenze penali del giudice di pace le attività riparatorie si collocano dogmaticamente tra le cause che e-stinguono il fatto62. La contraddizione normativa contenuta nell’art. 35 d. l.vo 274/00 non appare in realtà sanabile da una interpretazione in grado di superare i significati configgenti della di-sposizione. Non resta che rimarcare, oltre le contaminazioni lessicali di quella norma, le potenzialità di una autonomia concettuale della riparazione sia pure nella sua strut-tura complessa: diretta, cioè, ad assicurare, da un lato, la soddisfazione della aspettati-ve civilistiche dei danneggiati dal reato e, dall’altro, le aspettative di chi ha subito un’offesa penale irriducibile ad un mero danno risarcibile. Bisognerebbe inoltre tener conto che, di volta in volta, i reati possono palesare danni risarcibili ma non conseguenze dannose naturalistiche riparabili o viceversa oppure entrambe le eventualità: verificare congruità ed efficacia delle condotte riparatorie a fronte di questa complessa casistica è opera già sufficientemente articolata e discre-zionale da non richiedere ulteriori e spuri criteri di verifica quali sono le esigenze di riprovazione e di prevenzione. In conclusione: dobbiamo ammettere che oggi esista, nell’ordinamento italiano un principio riparatorio e che esso vive in tutti i dispositivi che assicurano una funzione reintegratrice del diritto penale. Tale principio non coincide con una nuova figura san-zionatoria né con una nuova caratterizzazione della struttura del reato che inglobi

59 Roberto Bartoli, Estinzione del reato per condotte riparatorie, in a cura di Glauco Giostra a Giulio Illuminati, Il giudice di pace nella giurisdizione penale, Giappichelli, Torino, 390 60 Sandro Guerra, L’estinzione del reato…, 522 61 Roberto Bartoli, Estinzione del reato…., 391 62 Milita a favore di un diverso inquadramento giuridico Sandro Guerra, L’estinzione del reato conse-guente a condotte riparatorie, in a cura di Adolfo Scalfati, Il giudice di pace, un nuovo modello di giu-stizia penale, CEDAM, Padova, 2001, 504. Le cause di estinzione del reato prescindono – osserva l’autore – dal comportamento del soggetto agente mentre le cause di esclusione della punibilità (soprat-tutto quelle premiali) si fondano su una condotta antagonistica al fatto del responsabile e implicano condotte omogenee sul piano dell’offesa nel senso di attenuarla o di eliminarla

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l’esigenza della meritevolezza della sanzione, né con una causa generale estintiva del reato, né – ormai – con una circostanza attenuante della sanzione. Tale principio opera attraverso i diversi strumenti del diritto sostanziale e processuale penale che realizza-no la predetta funzione reintegrativa.