Consiglio di Amministrazione Presidente SOMMARIO … · Il Prof. Orazio Cancila, Ordinario di...

80
CITTÀ DI MARSALA Centro Internazionale Studi Risorgimentali-Garibaldini Complesso Monumentale San Pietro Consiglio di Amministrazione Presidente Franco Della Peruta Vice-Presidente Luigi Giustolisi Segretario Salvatore De Simone Tesoriere Elio Piazza Consiglieri Cristina Vernizzi - Romano Ugolini - Maurizio Signorello - Ignazio Caruso - Gregorio Caimi Comitato Scientifico Salvatore Costanza - Santi Fedele - Giuseppe Galasso - Giuseppe Giarrizzo - Angelo Varni Direttore Responsabile Tommaso Spadaro Comitato di Redazione Gregorio Caimi - Ignazio Caruso - Franco Della Peruta Salvatore De Simone - Luigi Giustolisi - Elio Piazza Maurizio Signorello - Romano Ugolini - Cristina Vernizzi Segretaria di Redazione Anna Corsetti Direzione e Redazione Complesso Monumentale San Pietro 91025 Marsala (TP) - Via L. Anselmi Correale Tel. 0923.718739/718741 - Fax 0923.718740 Copyright Centro Internazionale Studi Risorgimentali - Garibaldini Fotocomposizione e Stampa Centro Stampa Rubino 91025 Marsala (TP) - Via Trapani, 150 Registrazione N. 123/1-2000 del 16/02/2000 del Tribunale di Marsala SOMMARIO Questo numero è stato chiuso in tipografia il 15 marzo 2004 In copertina: Lo Sbarco a Marsala (G. Titone - Museo del Risorgimento - Milano) Nota del direttore pag. 3 Presentazione pag. 7 di Romano Ugolini La viticoltura tra il Medioevo ed Età Moderna pag. 9 di Orazio Cancila Vino e sviluppo economico nell’area jonica - etnea pag. 19 di Enrico Iachello Sviluppo della viticoltura ed enologia nell’area del trapanese nel XVIII e nel XIX secolo pag. 27 di Rosario Lentini Produzioni e sviluppo della viticoltura nei primi decenni post-unitari pag. 35 di Giuseppe Astuto Vino e protezione cardiovascolare pag. 47 di Gregorio Caimi Garibaldi militare pag. 51 di Lucio Ceva Il secondo esilio di Giuseppe Garibaldi (1849-1854) pag. 61 di Phillip K. Cowie Anno IV - n. 3 - Marzo 2004

Transcript of Consiglio di Amministrazione Presidente SOMMARIO … · Il Prof. Orazio Cancila, Ordinario di...

CITTÀ DI MARSALA

Centro InternazionaleStudi Risorgimentali-Garibaldini

Complesso Monumentale San Pietro

Consiglio di AmministrazionePresidente

Franco Della PerutaVice-Presidente

Luigi GiustolisiSegretario

Salvatore De SimoneTesoriere

Elio PiazzaConsiglieri

Cristina Vernizzi - Romano Ugolini - MaurizioSignorello - Ignazio Caruso - Gregorio Caimi

Comitato Scientifico

Salvatore Costanza - Santi Fedele - GiuseppeGalasso - Giuseppe Giarrizzo - Angelo Varni

Direttore ResponsabileTommaso Spadaro

Comitato di RedazioneGregorio Caimi - Ignazio Caruso - Franco Della Peruta

Salvatore De Simone - Luigi Giustolisi - Elio PiazzaMaurizio Signorello - Romano Ugolini - Cristina Vernizzi

Segretaria di RedazioneAnna Corsetti

Direzione e RedazioneComplesso Monumentale San Pietro

91025 Marsala (TP) - Via L. Anselmi CorrealeTel. 0923.718739/718741 - Fax 0923.718740

CopyrightCentro Internazionale

Studi Risorgimentali - Garibaldini

Fotocomposizione e StampaCentro Stampa Rubino

91025 Marsala (TP) - Via Trapani, 150

RegistrazioneN. 123/1-2000 del 16/02/2000

del Tribunale di Marsala

S O M M A R I O

Questo numero è stato chiuso in tipografia il 15 marzo 2004

In copertina: Lo Sbarco a Marsala (G. Titone - Museo del Risorgimento - Milano)

Nota del direttore pag. 3

Presentazione pag. 7di Romano Ugolini

La viticoltura tra il Medioevoed Età Moderna pag. 9di Orazio Cancila

Vino e sviluppo economiconell’area jonica - etnea pag. 19di Enrico Iachello

Sviluppo della viticolturaed enologia nell’areadel trapanese nel XVIIIe nel XIX secolo pag. 27di Rosario Lentini

Produzioni e sviluppodella viticolturanei primi decenni post-unitari pag. 35di Giuseppe Astuto

Vino e protezionecardiovascolare pag. 47di Gregorio Caimi

Garibaldi militare pag. 51di Lucio Ceva

Il secondo esiliodi Giuseppe Garibaldi (1849-1854) pag. 61di Phillip K. Cowie

Anno IV - n. 3 - Marzo 2004

Marzo 2004

3

In questo numero pubblichiamo gli Atti del

Convegno su “La coltura della Vite e del Vino

prima e dopo l’Unità d’Italia”, tenuto il 15

dicembre 2001 nella sala conferenze del

Complesso Monumentale San Pietro, nonché il

testo di due conferenze realizzate nell’ambito

delle nostre attività.

Il nostro Centro Studi, dalla sua fondazione nel

1997, ha organizzato numerosi convegni su varie

problematiche risorgimentali e sui protagonisti

della storia nazionale e locale.

Quello di cui ora pubblichiamo gli atti ha avuto

per oggetto uno degli aspetti più rilevanti del substrato economico ed in particolare

ha affrontato l’impatto avuto dalla viticoltura sulla evoluzione della nostra storia tra

l’Ottocento ed il Novecento.

Come appare dalle testimonianze storico-artistiche presenti nell’Isola da tempo

immemorabile, la vite rappresenta nella società della Sicilia, fin dalle origini degli

insediamenti umani, un elemento di forte rilievo.

Il Prof. Orazio Cancila, Ordinario di Storia Moderna all’Università di Palermo, ha

relazionato su “La viticoltura tra il Medioevo ed Età Moderna” ed ha fornito, con

una minuziosa ricerca sull’espansione della vite nelle campagne siciliane, un quadro

esauriente dello sviluppo di questa coltura dalla metà del ‘400 fino ai giorni nostri.

Egli ha seguito l’estendersi della coltivazione da Palermo e dalla sua fascia costiera,

fino a Trapani ed a Marsala, e la successiva espansione verso Messina, Catania e

Siracusa: processo e vicissitudini che hanno fatto della Sicilia una “terra nella quale

da sempre la vita e la cultura si intrecciano con la vite e la sua coltura”.

Il Prof. Enrico Iachello, Ordinario di Storia Moderna alla Facoltà di Lettere

dell’Università di Catania, ha trattato “Vino e sviluppo economico nell’area jonica-

etnea”. Egli ha seguito lo sviluppo sempre crescente della vite nell’area ionica e pede-

montana, con la conquista delle nuove terre disboscate e delle colline fino alle zone

Nota del Direttore

montuose dell’Etna, dove il clima permetteva la coltivazione. Ha descritto le difficoltà

del contadino per conquistare le zone laviche e le caratteristiche del vino nero di

Giarre e Riposto, ha relazionato sulla conquista dei mercati nazionali ed esteri, e sulla

nascita del Comune di Riposto, da borgo, diventato un centro commerciale con un

importante porto.

L’intervento del Dott. Rosario Lentini, Saggista di Storia Economica, ha riguardato

lo “Sviluppo della viticoltura e dell’enologia nell’area del trapanese nel XVIII e nel

XIX secolo”. Si è trattato di un’indagine sull’economia vitivinicola marsalese, con

cenni sui mercanti inglesi Woodhouse, Ingham e Whitaker, sulla loro fortuna e sullo

sviluppo economico da loro determinato a Marsala e in tutta l’area del trapanese.

Gli inglesi avevano capito le potenzialità commerciali dei vini locali e si adoperaro-

no per migliorarne la qualità, selezionando i vitigni, fornendo consigli sui metodi di

coltivazione e sulla potatura, sulla raccolta dell’uva e la relativa pigiatura, sulla con-

servazione del mosto e infine sulla commercializzazione. Presto, infatti, i vini del tra-

panese conquistarono i mercati europei e varcarono l’Atlantico verso le Americhe.

In seguito i Florio, sulla scia degli inglesi, crearono uno stabilimento vinicolo all’a-

vanguardia, e, oltre al vino marsala, si cimentarono nella produzione del cognac e

dei vini da pasto.

“Produzione e sviluppo della viticoltura nei primi decenni post-unitari” è l’argo-

mento trattato dal Prof. Giuseppe Astuto, Docente di Istituzioni Politiche presso

l’Università di Catania.

E’ un’analisi completa dei dati e delle statistiche elaborati nel corso dell’Inchiesta

Jacini, dalla Commissione coordinata da Abele Damiani. Essi forniscono un quadro

della realtà vitivinicola in Sicilia negli anni successivi all’Unità d’Italia. Astuto ha docu-

mentato i profondi cambiamenti nella destinazione produttiva della superficie agra-

rio-forestale dell’isola. Si registrarono, infatti, variazioni molto significative soprattut-

to per quel che riguardava il settore delle colture specializzate, nell’ambito delle quali

il vigneto prendeva il sopravvento su tutte le altre produzioni.

Nel volgere di pochi decenni l’agro marsalese diventava un’estensione di vigneti, e

il contadino, per meglio accudire la coltivazione si trasferiva in campagna, per restar-

ci tutto l’anno. Spuntavano nuovi protagonisti e numerosi furono i proprietari sorti

in seguito alle nuove leggi adottate dallo stato unitario sulla vendita dei beni dema-

niali e la censuazione delle terre ecclesiastiche. L’enfiteusi ed i contratti a miglioria

incrementarono la coltivazione specializzata e fornirono un reddito più adeguato.

La relazione ha riservato spazio anche a diverse vicende concomitanti con lo svi-

luppo della viticoltura: il diffondersi della fillossera, la crisi agraria, la guerra com-

merciale tra la Francia e l’Italia, l’arrivo sui mercati italiani del vino spagnolo, diverse

crisi economiche.

Ha concluso il convegno la relazione “Vino e protezione cardiovascolare” del Prof.

Studi Garibaldini

4

Marzo 2004

Gregorio Caimi, titolare della Cattedra di Semeiotica e Metodologia Medica

all’Università di Palermo.

Da medico, Gregorio Caimi ha messo in evidenza le positive conseguenze, per la

nostra salute, dell’assunzione di quantità modiche di vino rosso, associata alla dieta

mediterranea: cereali, pesce, legumi, olio di oliva, frutta e verdura. Insieme contri-

buiscono significativamente a ridurre la mortalità cardiovascolare.

Oltre agli “Atti” del Convegno, pubblichiamo in questo fascicolo due articoli, frutto

di altrettante conferenze, tenute, rispettivamente, dal Prof. Lucio Ceva, docente di

Storia delle Istituzioni Militari alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia,

e dal Prof. Phillip Kenneth Cowie, lettore di lingua inglese presso l’Università di

Messina, Facoltà di Scienze Politiche, Istituto di Studi Internazionali e Comunitari, già

membro del nostro Comitato Scientifico.

La relazione di Ceva “Garibaldi Militare” dimostra l’infondatezza della tesi secon-

do cui Garibaldi sarebbe stato, per usare una definizione più benevola, un semplice

“guerrigliero”, o, addirittura, un “pirata”, un “contrabbandiere”, un “capo di masse”,

e illustra i momenti più belli dell’attività militare di Garibaldi e la tecnica da lui uti-

lizzata in varie battaglie, dove a sprezzo della sua vita, combattè sempre a favore degli

oppressi e dei bisognosi.

Diversa, ma pure di grande interesse, la conferenza del Prof. Cowie “Il secondo esi-

lio di Giusepe Garibaldi, 1849-1854”.

Un minuzioso esame di documenti e di ricerche, molte fatte in America del Sud ed

in Estremo Oriente (il Prof. Cowie è nato e si è laureato in Australia), mette in luce un

periodo oscuro della vita di Giuseppe Garibaldi: i sei anni trascorsi in America del

Nord come fabbricante di candele, in America Centrale, come negoziante itinerante,

e in America del Sud, come capitano di navi mercantili che lo portarono in Oceania,

a Cuba, in Cina, fino al 1854, quando una nave lo ricondusse in Europa.

Garibaldi, come scrive Cowie, parlò poco di quegli anni: “il soggiorno peruviano,

punto centrale del suo secondo esilio, fu il periodo più cupo, più sofferto, più cru-

dele di tutta la sua vita travagliata, e lasciò un segno nel suo animo sino alla fine

dei suoi giorni”.

Fu accusato finanche di essere un negriero, ma Cowie dimostra la infondatezza di

questa accusa, e conferma l’integrità degli ideali umanitari per i quali la sua figura ha

assunto un ruolo carismatico presso le masse.

Tommaso Spadaro

5

Studi Garibaldini

6

Marzo 2004

7

La letteratura mon-diale, dall'età classicaalla medievale, dallamoderna fino alla con-temporanea, è ricca diriferimenti e di afferma-zioni relative al vino.Citiamo ad esempioOrazio, che nella primadelle Odi scrive: "Nuncvino pellite curas" edErnest Hemingway, ilquale nel romanzoMorte nel pomeriggioconsidera "il vino unodei maggiori segni diciviltà nel mondo".

Capita poi sempre più spesso di assiste-re, su canali televisivi di ambito nazionaleo locale, a trasmissioni di argomentogastronomico, con ampi spazi riservati aisommeliers, attenti e precisi nell'indicarevirtù e pregi della bevanda. Il vino, però,come ci dimostrano abbondantemente eproficuamente gli "Atti" del convegnotenuto il 15 dicembre 2001 nella sala con-ferenze del Complesso monumentale SanPietro, ha un peso ed una rilevanza diffi-cilmente trascurabili non solo nella storiadel gusto, ma anche nella storia economi-ca e sociale di ogni epoca.

Se è vero che la viti-coltura ha avuto unposto di riguardo nellaevoluzione della storiatra XIX e XX secolo, èpur vero, come prova ladettagliata ricerca diOrazio Cancila, che essaha avuto una crescitacostante dalla metà delQuattrocento ed ancoraoggi rappresenta unavoce primaria nell'eco-nomia dell'isola.

Le relazioni di EnricoIachello e di Rosario

Lentini hanno gettato lo sguardo sullasituazione in due diverse aree, quella ioni-ca-etnea e quella trapanese, offrendo datied indicazioni essenziali sull'ampliamentoe sulla specializzazione delle coltivazioni,capaci di conquistare, grazie alla qualitàdei prodotti, i difficili mercati inglesi edamericani.

Giuseppe Astuto, dal canto suo, inmaniera mirata ha guardato ai risultatidelle indagini compiute da Abele Damianinel corso dei lavori della "Inchiesta Jacini".Nella relazione viene posta in luce la posi-tiva metamorfosi segnata dalla viticolturanegli anni posteriori al 1860 e le trasfor-

Presentazionedi Romano Ugolini

mazioni avutesi nelle campagne marsalesicon la nascita di una più attenta classe diproprietari.

Gregorio Caimi, da medico, ha confu-tato nel suo intervento la demonizzazio-ne subita dal vino, facendo rilevare glieffetti salutari di un uso modico dellabevanda.

A riprova del posto occupato da talecoltura è da citare l'ordine del giorno, pre-sentato alla Camera nel dicembre del1905 da 16 deputati, tra i quali i sicilianiPasqualino-Vassallo e Pipitone, in occasio-ne del dibattito sul modus vivendi com-merciale concluso con la Spagna, in baseal quale i vini iberici si giovavano in Italiadi una riduzione del dazio doganale del

40%. La bocciatura dell'intesa, come sap-piamo, portò alla caduta del primo mini-stero Fortis. I parlamentari, nel respingerel'accordo, sostenevano che "la Camera [è]convinta che il paese vuole un indirizzo diGoverno risolutamente liberale e demo-cratico e che la politica doganale nonintralci il risorgimento del Mezzogiorno,interesse di tutta la nazione".

Il Convegno ha destato un ampio inte-resse come ha dimostrato l'alta affluenzadi partecipanti ai suoi lavori; i suoi Atti sioffrono ora all'interesse di un pubblicopiù vasto, con la speranza di suscitare unanuova stagione di studi su un tema digrande importanza economica e sociale,oltre che di grande valenza culturale.

Studi Garibaldini

8

Marzo 2004

9

Nella seconda metàdel Quattrocento, la viti-coltura appare abbastan-za sviluppata nelle cam-pagne di Palermo e allefalde del Monte S.Giuliano, alle porte diTrapani; risulta general-mente diffusa anche inprossimità dei centri abi-tati, in piccoli appezza-menti dove raramenteperò si superavano lepoche migliaia di ceppi.Mancavano i grandivigneti e appaiono per-ciò delle eccezioni il vigneto di 25.000ceppi che Bartolomeo Tagliavia impiantònel 1469 a Pietra di Belice; le 80.000 viti traBagheria e Ficarazzi, che Antonio e PietroCampo divisero tra loro nel 1489; le 14.000vendute da un ebreo nel 1492 in contradaLenze di Monte S. Giuliano.

L’incremento demografico già in attoprovocava però un aumento dei consumi acui la produzione era chiamata a far fronte,soprattutto in prossimità delle maggioricittà dell’isola. La maggiore richiesta e lacontemporanea crisi dell’industria dellozucchero determinarono perciò, anche interreni tradizionalmente adibiti alla coltiva-

zione di cannamele(canne da zucchero), unmutamento colturale afavore delle vite. La zonatra Palermo e Monreale,nei primi decenni delCinquecento, apparericca di vigneti e oliveti,che guadagnavano rapi-damente terreno un po’in tutte le contrade attor-no alla città, a dannoappunto della canna dazucchero di cui non sitrova più traccia: attornoalla metà del secolo nel

loco di Ambrogio Panicola, in contrada S.Lorenzo (oggi periferia di Palermo), vegeta-vano “più di septanta migliara di vigni trali fruttanti et chianti di zappa e di arato”,“grandissima quantità di arburi di auliviet ogliastri”, 200 mandorli, altrettanti peri etanti alberi da frutto.

Notevole era già l’espansione della viti-coltura nelle campagne a sud-est diPalermo, nei territori degli attuali comuni diBagheria, Casteldaccia, Santa Flavia, dovegli enti ecclesiastici assegnavano grandi lottidi terreno da trasformare a vigneto agliesponenti più in vista del patriziato paler-mitano. Si trattava di terreni abbastanza fer-

La viticoltura tra il Medioevoed Età Modernadi Orazio Cancila

tili e lo dimostra il canone piuttosto eleva-to: 15 tarì a salma (ettari 2.23) o la decimasulla produzione di uva e frutti. Nel 1513ben 12 salme di terra (ettari 26.76) nelfeudo dell’Accia, territorio del Ciandro,furono concesse dal ciandro del RegioPalazzo di Palermo, don Giovanni Sanchez,al fratello Girolamo, banchiere che falliràqualche anno dopo attorno al 1517. Nel1509 nel feudo di Solanto, pressoBagheria, esisteva un vigneto di 65.000 vitie un altro di circa 100.000 nel feudodell’Accia (forse quello già appartenuto aGirolamo Sanchez) veniva venduto nel1522. Si tratta di grandi vigneti, la cui pro-duzione veniva assorbita molto probabil-mente dal mercato palermitano.

La viticoltura si diffondeva un po’ dap-pertutto. A Messina si bonificò il pantanodel Faro e vi si impiantarono vigneti, men-tre contratti agrari a lungo termine preve-devano la costituzione di nuovi grandivigneti e oliveti. E’ probabile che sia diquegli anni la diffusione in tutto ilValdemone del contratto enfiteutico dimetateria perpetua per l’impianto divigneti e oliveti, che poi si è esteso ancheall’impianto di gelseti. Le spese di impian-to e di coltivazione gravavano interamen-te sull’enfiteuta, mentre al proprietariodel terreno andava annualmente una metàdel raccolto, ossia un canone ben piùpesante della decima pretesa dagli entiecclesiastici del palermitano.

L’espansione viticola interessava anche iterreni dell’interno dell’isola: i monaci delmonastero di S. Giovanni degli Eremiti diPalermo nel 1501 obbligavano gli albanesiche si erano stabiliti nel casale diMezzoiuso a piantare almeno una salma di

terra a vigneto (ettari 2.23) per ogni fami-glia, “per farci una vigna di dechi jorna-ti et mectirila in testa ben vignata etfructanti, et quilla cultivari et augumen-tari comu si divi”.

La richiesta di enormi quantitativi divino siciliano per il presidio spagnolo diTripoli dovette stimolare altre iniziative econvincere il monastero di S. Martino delleScale presso Palermo a intensificare l’e-spansione della viticoltura verso l’interno,già avviata nel 1510 con la cessione in enfi-teusi di grossi lotti di terreno incolto e “sel-voso” a Sagana e a Borgetto, tra Monreale ePartinico, a patto che in 3-6 anni vi siimpiantassero vigneti e oliveti. Il canonevenne stabilito in 8 tarì per ogni salma diterra, oppure - a scelta del monastero - ladecima sull’uva e i frutti, oltre il terraggioconsueto sul terreno non ancora migliora-to a vigneto o a oliveto e pertanto utilizza-to per la semina; raccolto delle olive ametà. Gli enfiteuti avevano inoltre l’obbli-go di recintare il terreno e non potevanocederlo al fisco, a feudatari e a persone“privilegiate”.

La possibilità di scelta tra il canone indenaro e quello in natura garentiva imonaci dall’aumento dei prezzi e dallasvalutazione monetaria, due fenomeniche avrebbero presto ridotto a valori irri-sori i censi in denaro. Per quanto riguardala scelta tra la decima e il canone in dena-ro sui terreni a vigneto, ritengo fosse sem-pre più conveniente per il monastero pre-tendere la decima e mi pare che da talescelta i monaci non defletteranno mai. Peri terreni seminativi la scelta invece andavaponderata quasi di anno in anno. Nel1510-13, quando avvennero le concessio-

Studi Garibaldini

10

Marzo 2004

ni del terreno, al monastero convenivapretendere il terraggio equivalente a1,233 hl di grano/ha, piuttosto che il cano-ne in denaro col quale avrebbe acquistatograno per 0,68 hl/ha, con una perdita dioltre mezzo ettolitro per ettaro.

Tra l’agosto 1510 e il dicembre 1513vennero concesse 39 salme in dodici lottida ettari 2.23 a 13.38. I due lotti maggiori,per una estensione pari al 43% della super-ficie censita, li ottennero dei palermitani,uno dei quali era il famoso scultore mae-stro Antonio (Antonello) Gagini, “marmo-raro”. Due lotti di media estensione finiro-no a due monrealesi, mentre gli altri settelotti, che costituivano il 45% della superfi-

cie censita, furono ripartiti a un calabrese(due lotti) e a altri immigrati provenientidalla Sicilia centro-orientale: Catania,Randazzo, Piazza Armerina, Nicosia, S.Mauro Castelverde. Ad eccezione di que-st’ultimo paese, un borgo feudale delleMadonie a 1100 metri di altitudine dove laproprietà era ancora saldamente nellemani del feudatario e il più vicino, dopoMonreale e Palermo, ai terreni concessi, glialtri quattro centri da cui provenivano glienfiteuti erano grossi comuni demanialidella Sicilia orientale, da cui evidentemen-te la popolazione cominciava a emigrareverso l’ovest ancora spopolato.

Successivi atti di cessione, con il consen-

11

so del monastero, di alcuni dei terreni cen-siti dimostrano che i vigneti venneroimpiantati soltanto parzialmente: probabil-mente l’estensione era eccessiva per le pos-sibilità di alcuni enfiteuti e perciò la ricon-versione colturale ne soffrì. Forse lo stessomonastero era convinto che la trasforma-zione integrale non sarebbe mai avvenuta eperciò si era riservato il diritto al terraggiosulla parte non migliorata. E d’altra parte ilterreno era più adatto alla coltivazionedegli ulivi che delle viti. Comunque glienfiteuti si preoccuparono di piantareanche alberi e canneti e talvolta dotaronol’appezzamento anche di un magazzino edi un “tugurio”.

A Borgetto, le lottizzazioni ripresero nel1543, ma a un canone assai più pesanterispetto all’inizio del secolo, onza 1 persalma (30 tarì), con un aumento nominaledel 275%. In valori reali, si passa da uncenso annuo pari a 0,68 hl di grano/ha diterra nel 1510-13 a 1,6 hl/ha nel 1543.Siamo in presenza quindi di un appesanti-mento reale dei canoni enfiteutici, chenon è tanto giustificato da un forte incre-mento dei prezzi dell’uva, il cui aumento èdi poco superiore al 50%, né da un con-temporaneo aggravamento della renditafondiaria reale dei latifondi, che invece nelfrattempo era diminuita e stentava a segui-re il contemporaneo aumento dei prezzi,quanto piuttosto dal contemporaneo rad-doppio della rendita fondiaria sui piccoli emedi lotti coltivati dai terraggieri.Evidentemente, nel 1510-13 il terreno nonaveva alcun valore e poteva essere acqui-stato soltanto per le trasformazioni chel’uomo col suo lavoro riusciva a compier-vi. Dopo trent’anni di incremento demo-

grafico, nel 1543, la situazione apparemodificata: il lavoro dell’uomo, ormai nonpiù raro, vale assai meno che nel passato ela terra acquista più valore, vale in quantoterra, indipendentemente dai migliora-menti. A parte il diverso canone, i con-tratti di enfiteusi presentano le solite clau-sole con la precisazione del terraggio inragione di uno (= 1,233 hl di grano/ha) incaso di semina e con la solita possibilità discelta a favore del monastero.Diversamente che nel 1510-13, nel 1543 almonastero conveniva riscuotere il censo indenaro che avrebbe consentito l’acquistodi 1,6 hl di grano per ettaro, con un gua-dagno di 0,367 hl/ha sul censo in natura.

I sei lotti di terra concessi nel 1543-44equivalevano a 20 salme (ettari 44.6). Unlotto pari al 30% della superficie censita fuconcesso a tale Antonio Traina di ignotaprovenienza; gli altri a due di Carini (25%),un borgo feudale tra Borgetto e Palermo, adue di Palermo (35%) e infine a uno diPartinico originario di Monterosso Almo inVal di Noto (10%). Quest’ultimo è il soloproveniente dalla Sicilia orientale: ormaianche l’ovest si era popolato, riducendo lospazio alla emigrazione interna, e Borgettoera diventata, e lo sarà ancor più nelSeicento, zona di colonizzazione dei paesilimitrofi, Carini soprattutto.

Nella seconda metà del Cinquecento, ilmonastero sospese le censuazioni: risultaper il 1550 una concessione di 7 salme diterreno a Borgetto, già parzialmente avigneto, a un palermitano, il quale si impe-gnava a pagare in quattro anni onze 44 peril vigneto già esistente, oltre all’annuocanone in ragione di onza una a salma diterra. Si trattava evidentemente di un lotto

Studi Garibaldini

12

Marzo 2004

già bonificato da un precedente enfiteuta eritornato al monastero, che adesso loriconcedeva senza maggiorazione di cano-ne, ma con il rimborso a suo favore, anchese ratealmente, della spesa di impianto delvigneto. Per effetto dell’aumento del prez-zo del grano, un canone di un’onza persalma di terra nel 1563 equivaleva a 1,19 hldi grano/ha, cosicché sui seminati ritornavaa essere più conveniente per il monasteroil pagamento in natura, che equivalevacome sappiamo a 1,233 hl/ha.

Più che Sagana e Borgetto, nella secondametà del Cinquecento l’espansione dellaviticultura interessò la vicina Partinico, i cuiterreni erano certamente più adatti e dovesembra che parte del bosco nel 1557 fossegià trasformata in vigneto, la cui produzio-ne riforniva la flotta e il mercato diPalermo. Altre zone dove la coltura dellavite si era sviluppata sono la piana diTaormina, la piana di Catania, Castiglione,Partanna, Terranova, mentre nella attualeprovincia di Trapani, dove predominavanogli allevamenti dei bovini, era scarsamentepresente, con l’eccezione delle campagnedi Trapani e di Marsala, da dove modestiquantitativi di vino si erano esportati anchea Tunisi e a Tripoli.

Il gran numero di vigneti che si rilevadalla lettura degli atti notarili della primametà del Cinquecento e le tante censuazio-ni di terreno per la trasformazione invigneto fanno pensare alla vite come allaseconda grande coltura dell’isola, dopo icereali, e lasciano ipotizzare che, tranneforse a Palermo, dove attorno al 1540-50 siaveva un consumo medio annuo pro capi-te di 104 litri, la produzione di vino fossecomplessivamente aumentata più veloce-

mente della popolazione e che la quotapro capite a disposizione dei siciliani, giànotevole negli ultimi secoli del medio evo,fosse ulteriormente cresciuta.

L’espansione della viticultura continuòancora intensamente nella seconda metàdel secolo e nelle campagne di Palermo sirisolse addirittura in una ecatombe di ulivi:il monastero di S. Cita nel 1559 ottennedall’arcivescovo di Monreale l’autorizzazio-ne a estirpare gli ulivi di un luogo in con-trada Gabriele, tra Palermo e Monreale, perimpiantarvi un vigneto; il censo veniva con-vertito in tarì 12 l’anno o nella decima del-l’uva, a scelta dell’arcivescovo. Analoghetrasformazioni a danno degli uliveti siebbero ancora a fine secolo, perché lapopolazione palermitana era cresciuta piùin fretta della produzione di vino, tantoche il consumo annuo pro capite nel 1570-1600 risulta diminuito a 85 litri: a parte ilfatto che in una zona a coltura intensival’incremento dell’una avviene necessaria-mente a danno dell’altra, alla base dellariconversione colturale c’era il problemadel costo dei trasporti che incideva pesan-temente sul prezzo di olio e vino, ma inmaniera differente, cosicché i prezzi dell’u-va da vino (e quindi anche del vino) aPalermo aumentavano più rapidamente deiprezzi dell’olio. E’ noto che il consumo procapite di olio è di gran lunga più basso diquello del vino e che di contro l’olio ha unprezzo molto più alto del vino. Ora, impor-tare il vino da zone lontane significava tra-sportare notevoli quantitativi, sul cui bassoprezzo il costo di trasporto aveva una inci-denza rilevante; importare olio significavainvece trasportare quantitativi assai piùlimitati, sul cui alto prezzo il costo del tra-

13

sporto aveva una incidenza modesta.Insomma, il costo del trasporto facevanotevolmente aumentare il prezzo delvino, sino a ridurne anche il consumo; e dicontro provocava un modesto aumento delprezzo dell’olio. Per quanto possibile sitendeva perciò a produrre il vino in loco el’olio si importava dalla fascia costiera traCefalù e Milazzo, nel cui entroterra sierano già costituiti estesi uliveti.

L’espansione viticola interessò anche lemasserie più interne dell’arcivescovato diMonreale, verso Contessa Entellina eCorleone, già anteriormente alla metà delCinquecento, e successivamente soprattut-to verso Alcamo. Gli enfiteuti delle masse-rie chiedevano l’autorizzazione per impian-ti di vigneti, per i quali nel 1530 si impe-gnavano a pagare canoni aggiuntivi di tarì12 per salma e nel 1541-65 di tarì 24 persalma, un canone quest’ultimo più basso diquello preteso contemporaneamente daimonaci di S. Martino delle Scale per i ter-reni di Borgetto (30 tarì), forse perché gra-vava su terreni più distanti dal mercatopalermitano. L’impianto dei vigneti all’in-terno delle masserie non avveniva a dannodei terreni seminativi, per i quali gli enfi-teuti continuavano a pagare i soliti canoniin natura, bensì a danno dei pascoli, cheappartenevano all’arcivescovo o agli abi-tanti di Monreale nei feudi soggetti agli usicivici. La riduzione dei pascoli fu bloccatanei feudi Valle Corta e Caputo, traMonreale e Palermo, dagli stessi monreale-si, che nel 1516 temevano di perdere l’e-sercizio degli usi civici di pascolo per l’e-spansione viticola; altrove invece generava

contese tra pastori e possessori di vigneto,i quali uccidevano i cani provocando undanno notevole anche all’arcivescovato,perché “è chiara cosa che la bestiame nonsi può guardare senza cani, e mancando licani mancano li arbitrij (aziende pasto-rali), e per conseguenza ne risulta dannoalla Chiesa”. Nel 1537, l’arcivescovo-feuda-tario ordinava perciò “che non sia personaalcuna che debbia né presuma ammazza-re, né far ammazzare cane nisciuno diguardia di bestiame, sotto pena di pagareonza una al padrone delli cani e di onzequattro d’applicarsi alla Cameradell’Illustrissimo e Reverendissimo SignorArcivescovo, ed altre pene reservate adarbitrio del Signor Governadore”.

A confermare il grande sviluppo dellaviticultura nel corso del Cinquecento,credo valga considerare che a Partinicoall’inizio del Seicento esistevano vigneti di200.000 ceppi, anche se di recente impian-to, e che nel 1618 il territorio di Siracusa“era scarso di seminerio per essere nellamaggior parte di quello piantate vigne”.1

Nel 1635 nel territorio di Castelvetrano sicontavano ben 18.000 migliaia di viti, capa-ci di una produzione annua di 64.000 etto-litri di mosto. La necessità di incrementarela diffusione della viticoltura aveva spinto,sin dalla seconda metà del Cinquecento, ilfeudatario di Castelvetrano a numeroseconcessioni enfiteutiche in lotti da 20 a 50ettari, tanto che la rendita annua che essefornivano era passata da onze 66 nel 1557-58 a onze 390 alla fine del secolo. La lottiz-zazione di terra fu intensificata nelSeicento e attorno al 1732 la rendita dei

Studi Garibaldini

14

1 - Cit. in S. Russo, Vincenzo Mirabella cavaliere siracusano, Palermo-Siracusa, Lombardi, 2000, p. 23.

Marzo 2004

censi risulta salita a onze 1559, anche senon esigibile interamente perché intantonon pochi enfiteuti avevano abbandonato icampi. Nella vicina baronia di Berribaida,che nel 1628 passerà al principe di

Castelvetrano, le censuazioni cominciaro-no attorno al 1604 e verso il 1732 forniva-no una rendita annua di ben 2075 onze.

La viticoltura si espandeva anche nellavicina Marsala, dove da tempo il demanio

15

comunale era soggetto a numerose usurpa-zioni, poi legalizzate, di lotti di terreno, sucui venivano impiantati vigneti. Nel 1632l’università cominciò a cedere con regolarecontratto di enfiteusi le terre comuni costi-tuite da sciare in contrada Gazzarella e S.Giuliano, ponendo le premesse della nasci-ta dei borghi di Petrosino e Strasatti, comeha ben evidenziato in suo studio del 1984l’avv. Caruso. Complessivamente, in dueanni, furono lottizzate 298 salme di terra(ha 998) a 150 enfiteuti, per un canoneannuo inferiore a un’onza per salma (pariall’8% del valore capitale), che tuttavianumerosi concessionari non riuscivano apagare, cosicché pochi anni dopo (nel1641) l’università procedette alla reincor-

porazione di molti lotti, in alcuni dei qualierano già stati impiantati dei vigneti. Altreterre comuni negli “strasatti delliVintrischi” furono concesse, a cominciaredal 1652, dai gesuiti di Palermo, che le ave-vano sottratte alla stessa università diMarsala, alla quale, in occasione della terri-bile carestia del 1647, avevano concesso unprestito che non era stato più rimborsato.Erano 167 salme (ha 559,45) “inculte,piene di fiumare, piccole rocche”, al confi-ne con il territorio di Mazara e con altreterre comuni della stessa Marsala: la super-ficie venne divisa in strisce (almeno quat-tro) ripartite ulteriormente in modo dacostituire 83 appezzamenti dell’estensionemedia di ha. 6.74. Gli enfiteuti si impegna-

Studi Garibaldini

16

Marzo 2004

vano a pagare un canone irredimibile ditarì 22 per salma di terre “xiarae et gerbae”(ha. 3.35), oltre l’8% del valore di eventua-li benfatti preesistenti la quotizzazione, e adissodare il terreno entro quattro anni. Nel1671, l’università di Marsala ne ottenne laparziale restituzione, ma si trattava ormaidel solo dominio eminente, perché il pos-sesso della terra rimase nelle mani deglienfiteuti, parecchi dei quali, come risultada atti di ricognizione, vi avevano impian-tato vigneti, scavato pozzi, costruito case,palmenti e muri di recinzione. Per effettodelle massicce censuazioni del Seicento,l’università di Marsala nel 1714 percepivacosì dai canoni enfiteutici una renditaannua di onze 1122, a fronte delle onze753 del 1624.

Se la produzione dei piccoli vigneti dellezone dell’interno dell’isola, dappertuttoormai assai numerosi, serviva essenzial-mente al consumo locale, quella dei grandivigneti che si erano già costituiti o comin-ciavano a costituirsi a fine Cinquecento aPartinico, Castelvetrano, Marsala, Catania,soprattutto alle falde dell’Etna, era destina-ta al consumo cittadino e all’approvvigio-namento dei militari. Palermo, ad esempio,nel quinquennio 1601-1605 importò inmedia, soprattutto da Trapani, Marsala,Mazara e Agrigento, 5.000 ettolitri di vinol’anno, i 2/3 dei quali servivano ad approv-vigionare la città.

Le tecniche di coltivazione non eranoallora diverse da quelle in uso in Siciliasino alla metà del nostro secolo. Nel paler-mitano, le viti venivano zappate tre volte:entro gennaio “lu primu conczu” o “primaczappa”, che nel 1441 veniva pagata un tarìal giorno; entro il 15 marzo “lu secundu” o

“lu refundiri” a tarì 1,25 al giorno; entro il15 aprile “lu terczu” o “lu retriczari”, a tarì1,50 al giorno. Alcuni notai precisanoanche come dovevano effettuarsi le tre zap-pature: “zappare cruciate et postea zappa-re ad planum et refodere totam vineam”.Talvolta, molto raramente, però le zappatu-re potevano essere anche quattro: “zappa-re, rifundere, retervare et quartiare”. Neivigneti con un sesto più largo, tra i cui fila-ri si coltivavano ortaggi e soprattutto cipol-le, le zappature erano sostituite da una tri-plice o quadruplice aratura (“cultivare dic-tas terrars de quattuor passatis de ara-tro”), che a volte si effettuava addiritturacon pariglie di buoi.

Sul sesto del vigneto abbiamo pochissi-me notizie e quasi tutte indirette: sappia-mo che a Monte S. Giuliano, a fineDuecento, si impiantò un vigneto di 8.000viti “ad sextum quinque palmorum decanna”, cioè con un sesto di metri 1,29,mentre a Marsala nel 1526 si sarebberodovute piantare 1.000 viti al sesto di seipalmi (m. 1,56), che è poi quello dei vigne-ti di Castelvetrano all’inizio del Seicento. APalermo, nei vigneti di aratro, a fineCinquecento è molto probabile che il sestofosse di palmi 6,5 (m. 1,677).

La potatura corretta (“li viti boni et fortia dui ochi clari et li viti xabili et tristi a luiustu”) richiedeva competenza, perché daessa dipendeva la vita futura del vigneto; iproprietari si cautelavano imponendo agliaffittuari la scelta di esperti potatori. Altreoperazioni riguardavano la “roncatura”, lasistemazione delle canne di sostegno e rela-tiva legatura con ampelodesmo (“cumdisis”), la raccolta dei sarmenti, la “spurga-tura” (potatura verde), la propagginazione.

17

Le operazioni colturali del vigneto - aparte le date che potevano essere diversesecondo l’altitudine e la vicinanza almare - sono in fondo le stesse in tutta l’i-sola. Anche a Messina i conduttori aveva-no l’obbligo di “zappare di tre zappe,potare, impalare, spurgare et e fare tuttii servizi necessari, congrui e opportuni atempo debito, come un buono e diligen-te padre di famiglia”. E così era aTrapani, dove i “conci necessari” consi-stevano in una triplice zappatura o aratu-ra (la prima anteriormente a Natale) enegli altri lavori indicati.

Non sembra che il vigneto venisse conci-mato se non forse nei primissimi anni divita, né che si ricorresse all’innesto. A metàdel Cinquecento, il vigneto di tale Panicolaalla periferia di Palermo aveva dei lotti(partenze) in cui si coltivava una solavarietà di uva: “quattro partenzi di musca-telli et certi altri partentii di chimminiti,cumioli (corniola?), durachi et barbirus-si”, segno che cominciavano ad apprezzar-si i vantaggi della fabbricazione di vini sele-zionati. La qualità di uva più diffusa inSicilia appare comunque il mantònico,mentre rari erano i legnaggi (moscatello,calabrese, guarnaccia, malvasia).

Nel palermitano la vendemmia comin-ciava nei primi giorni di settembre del vec-chio calendario, e quindi attorno al giorno10 del nostro calendario, come avvieneancor oggi nelle zone di marina. La pigia-

tura spesso si effettuava nella stessa azien-da, utilizzando o il palmento o una tina(“tina di pistari rachina”), da dove ilmosto colava in un tinello (apparaturi). Levinacce si sottoponevano poi allo strettoiodi legno, che però possedevano soltantopochissime aziende.

Il tasso di vinificazione dell’uva a metàdel Cinquecento veniva valutato in 7,5-8botti di vino per ogni mezzo migliaro diuva, che corrisponderebbero a quasi 60litri di vino per ogni quintale di uva, ma ipochi dati reali di cui disponiamo ci dannovalori più bassi: 6-7 botti, ossia circa 50litri per quintale. Non erano tassi alti, maneppure disprezzabili e saranno comun-que superati nel secolo successivo. Si hal’impressione che il prodotto non mante-nesse a lungo la conservazione, tanto cheogni comune, per paura che col tempoandasse a male, si affrettava a richiedere ilprivilegio di poter vietare, nell’ambito delproprio territorio, qualsiasi importazionese prima non fosse stata smaltita la produ-zione locale.

Le notizie sulle rese per ceppo o perettaro di vigneto sono scarse, ma ci con-sentono di ritenere che esse fossero piut-tosto basse, se a fine Cinquecento unvigneto della Conca d’Oro, una delle zonepiù fertili dell’isola, forniva rese di appenamezzo chilogrammo di uva per ceppo o di19 quintali/ettaro e di 1/3 di litro di vinoper ceppo o di 12 etto-litri per ettaro.

Studi Garibaldini

18

Marzo 2004

Mi soffermerò breve-mente sulle vicende dellaviticoltura sul versanteorientale etneo, temaverso il quale mi sonoorientato molti anni fa inoccasione della mia tesidi dottorato nel tentativodi individuare modalitànuove di lettura dellevicende economiche sici-liane troppo spesso letteall’interno della catego-ria dell’arretratezza e del-l’assenza: la storia sicilia-na sarebbe stata priva di trasformazioni,sarebbe stata avulsa dalle grandi correnti ditrasformazione europea, sarebbe priva diuna vera borghesia. Inutile continuare unelenco di presupposti e pregiudizi chepoco hanno giovato alla ricostruzione dellastoria siciliana.

La coltura del vino lungo le pendicietnee si intreccia alle rappresentazionilegate alle strategia di convivenza con ilvulcano. Essa ha prodotto nei secolo unimmaginario più o meno colto, nutritosoprattutto dal mito della prodigiosa ferti-lità del suolo lavico coniugato con l’opero-sità dell’uomo. Il “titanismo” del vulcano siaccompagna così, nella descrizione del

paesaggio etneo e degliinsediamenti di popola-zione sparsa che l’hannocaratterizzato sempre piùnel corso del XVIII seco-lo, al “titanismo” dell’uo-mo pronto a sfruttare leopportunità offerte dalgigante buono.

A questi elementi rin-via ad esempio uno deisimboli più evocati nelledescrizioni etnee: il casta-gno dei cento cavalli.A questi elementi fa anco-

ra riferimento agli inizi del nostro secolo ilgeografo francese Vidal de la Blanche, cheosservava come sull’ Etna “l’homme a bienvite appris quelles forces bienfaisantesrecelait, sous son apparence terrifiante dedestruction, la montagne … Et si … il voitarriver ... la coulée incandescenteechappée de ses flancs, il sait aussi que deces laves désagrégées sort un principe iné-puisable de renouvellement et de vie”.

Accompagnata e sorretta da questa mito-logia, si è svolta nel versante orientale traAcireale e Fiumefreddo, l’antica contea diMascali, sino a metà Settecento possedi-mento del Vescovo di Catania, l’intensaopera di trasformazione del paesaggio

19

Vino e sviluppo economiconell’area jonica - etneadi Enrico Iachello

agrario da silvo-pastorale a vigneto.Lasciamo la parola alla descrizione del piùattento e infaticabile studioso settecente-sco della regione etnea, il canonicoGiuseppe Recupero: “Viene tutta quellagran superficie, scrive, tagliata in infinitisegmenti di figure diverse per le bassemura che dividono una porzione dall’al-tra. Ognuno di questi segmenti è piantatodi vigna, circondato di alberi fruttiferi edanimato da alcune fabbriche che servonodi ricovero ai possessori”. E’ una efficacerappresentazione del “giardino mediterra-neo” colto nei suoi tratti peculiari: murettidivisori a secco, piantagioni arboree edarbustive, appezzamenti irregolari. Ciò cheRecupero osserva è il risultato di unaimmensa opera di trasformazione favoritadalle concessioni enfiteutiche (i contrattiad meliorandum) che prevedevanoappunto l’impianto della vigna.

Il vigneto aveva scalzato boschi e pasco-li, si era impossessato dei terreni “scapoli”e aveva risalito le pendici delle colline edella montagna sin dove le condizioni cli-matiche lo permettevano. “Il più mirabilesi è, scrive il naturalista catanese, che finoal principio del corrente secolo decimot-tavo questa gran costa (cioè la collina) eparte della bassa pianura era un foltoimpenetrabile bosco… al più non altroeravi che qualche mandra ed appena unpezzo di campagna”.

Il processo era stato però meno rapidodi quanto riteneva Recupero. Esso si ori-gina a partire dal XVI secolo per intensi-ficarsi nel secolo successivo, quandohanno luogo in modo più consistente leconcessioni enfiteutiche da parte dellaMensa Vescovile di Catania, e si fanno più

frequenti le usurpazioni da parte deglistessi enfiteuti.

Nell’arco di due secoli il paesaggio agra-rio originario era scomparso per far postoa quello viticolo attraverso un massicciodisboscamento. Ancora Recupero osserva-va che “non si possono più considerarecome boschi i terreni della regione pie-montese, perché è perduta in essi l’ideaproprio dei boschi, per li quali comune-mente s’intende un tratto di terra che nonè posseduto da alcune persone particola-ri”. Prima ancora della scomparsa fisica diquerce, cerri ..., è “l’idea” del bosco che èscomparsa attraverso la privatizzazione.I muretti di cui parla Recupero, sino aglianni ’30 del XIX secolo più che un sistemadi colture a terrazze sottolineano la “clau-sura”, cioè la privatizzazione del campo e laprotezione della vite dal bestiame. La con-vivenza del vigneto con quest’ultimo eradel resto praticamente impossibile, e giànel 1558 quando il Vescovo decise di farsipromotore dell’inevitabile processo di tra-sformazione, i capitoli dell’accordo tra laMensa vescovile e gli “abitatori della terradi Mascali”, penalizzavano fortemente lapastorizia.

Nel 1844, alla fine delle operazioni delcatasto borbonico, nella Contea le “bosca-te” mancano del tutto. Per quel che riguar-da il bestiame, il medico giarrese Mercurio,autore di una preziosa descrizione topo-grafica del territorio etneo, nel 1852 nota-va che “la pastorizia lungi dal poter pro-sperare… è prossima alla totale estinzio-ne. Dapoiché essendo le nostre terre nellamiglior parte coperte da vigneti, non pos-sono le greggi trovar pascoli”. Secondo idati del catasto borbonico il vigneto era

Studi Garibaldini

20

Marzo 2004

presente in quasi tutto ilterritorio della Conteacon percentuali superiorial 50%, e nelle zone dipianura e collina la per-centuale si elevava al 70%.

Le tecniche d’impiantoe la gestione della vignasi adattano alle condizio-ni climatiche e geografi-che della zona.L’agronomo toscanoDomenico Sestini, chesoggiornò a lungo aCatania negli anni ’70 del‘700 alle dipendenze delprincipe di Biscari, offreinformazioni preziosesulla peculiarità locali deimodi di conduzione dellavigna. “Comecché le terre- osserva - sono mescolateper lo più di una quan-tità di grosse pietre olave, non si possono inqueste piantare le vignesecondo la maniera dellenostre parti, e far le fosse lunghe, a forzadi zappone, o marza, alla profondità chesi richiede, per passare a piantarvi o col-locarvi i maglioli, ma ciò vien supplitodall’industria dei vignaioli col voltare erivoltare previamente la terra a forza diarato, per indi passare alla piantagionedei magliuoli”. La tecnologia dell’aratro silega quindi alla conformazione del suolo,coperto di pietre e lave. Era la lava, ineffetti, il primo ostacolo che l’agricoltoresi trovava di fronte nell’impiantare unavigna e per rimuoverlo si ricorreva innan-

zitutto all’esplosivo e poi al lavoro del pic-coniere che sminuzzava a colpi di mazzale grosse pietre, utilizzate poi per chiude-re il campo e in seguito, a partire daglianni ’40 dell’Ottocento, per sistemare lacoltura a terrazza.

Dissodato il suolo si procedeva, scriveancora Sestini a “situare il sesto”, a sceglie-re cioè i punti in cui fare i buchi (“allaprofondità di 3 in 4 circa”) dove collocarei maglioli, riempiendoli di terra “latina”,cioè non vulcanica, “più grassa”. I magliolivenivano così piantati “in perfetta quadra-

21

tura” alla distanza l’un l’altro di “palmi 4 e3/4”. Nel corso del primo anno si rivoltavaperiodicamente la terra con l’aratro perliberarla dalle erbacce. Nel secondo anno sipreparava la “conca”, una fossa attorno almagliolo che viene adattato ad una piccolacanna “per legarvi i novelli germogli”.

Contemporaneamente si seminavanofagioli ed altri legumi “per percepire dalterreno qualche utilità” perché il fruttodella vigna sino al terzo anno “è di pocaconseguenza” e solo all’ottavo anno “sipuò dir di essere molto abbondante e frut-tifera in maniera adeguata”. La cura dellavigna proseguiva incessantemente per tuttigli altri mesi con continue arature “per illungo e per il traverso dei filari”, dopo lapotatura a metà gennaio. Nel mese di giu-gno tutto il terreno veniva appianato con lezappe per difendere le barbe delle viti dairaggi solari troppo forti e per togliere leerbacce. Alla fine di settembre si arrivavainfine alla vendemmia. Si tratta di unagestione che richiede, nella prevalenteconduzione a salariati che caratterizza lacoltura, una consistente manodopera perla frequenza dei lavori e ciò spiega in partel’insediamento sparso alle pendici orienta-li dell’Etna.

L’uva, raccolta in grosse ceste, venivaportata al palmento per la pigiatura. Unmanoscritto degli anni ’50 del secolo scor-so, opera di un acese proprietario di vigne-ti nella Contea, Diego Costarelli, fornisceuna dettagliata descrizione della tecnica diproduzione del vino, una tecnica rudimen-tale, ma strettamente legata alle esigenzedel mercato. Nel “palmento spazioso chechiamiamo il pista” si attivano “i pigiatoriche di numero sono il quarto o al più il

quinto di quelli de’ vendemmiatori”; prov-veduti di scarpe solide spremono intera-mente il mosto, e ancora (il che non nuocealla buona qualità del vini e della sua con-servazione) il tannino della medesima buc-cia e del raspo. “... Venuta la sera si pigia-no le uve state pigiate nel giorno sin chela buccia tutta si svuoti degli acini, e vi siversa sopra del solfato di calce da frescocalcinato”.

La “razionalità” di questa pratica è con-nessa alla modalità del trasporto del vino(via mare) e alle richieste dei consumatori: ilvino deve essere atto alla navigazione,“robusto”, alcolico, dolciastro. Non eracerto un vino per palati fini, ma i suoi mag-giori consumatori erano, soprattutto a parti-re dal primo decennio dell’Ottocento, i sol-dati della flotta inglese nel Mediterraneo. Inrealtà il vino etneo affronta e risolve, siapure con tecniche diverse, lo stesso proble-ma del vino marsalese: la resistenza allanavigazione. L’obiettivo del commerciante èquello di disporre di un vino di poco prez-zo, capace di non guastarsi nel corso del tra-sporto. I trafficanti ripostesi, nelle cui maniera il commercio del vino, erano riusciti adinserire stabilmente questo prodotto nelmercato internazionale e ponevano ognicura a che i produttori non ne mutassero lecaratteristiche.

L’ossessione che le testimonianze dell’e-poca mostrano per il colore del vino, “vio-letto scuro” o nero, è legata appunto alconsumatore cui ci si rivolgeva.

“Offrite ai negozianti di Riposto, osser-va Costarelli, un liquido nero ... semprecomprano, offrite un vino limpido, aro-matico, alcolico, ma un po’ meno nero,rifiutano”. Sia la tecnica di fermentazione

Studi Garibaldini

22

Marzo 2004

che di conservazione del vino è guidata daquesta attenzione per il colore.

Le vasche in cui veniva fatto fermentareerano di “poca profondità e molta gran-dezza” in modo da consentire l’evapora-zione dell’acido carbonico, impedendocambiamenti di colore. Le botti in cui ilvino veniva conservato, ci informa un altroproprietario giarrese della prima metàdell’Ottocento, erano “fatte di legno dicastagno, e questa qualità di legno contri-buisce pure a far che i nostri vini riescanoneri, come pure non poco contribuiscono imolti ferri coi quali sono connessi i diver-si pezzi della botte”.

Dai proprietari di Acireale che possede-vano molte vigne nel territorio dellaContea proviene costantemente la polemi-ca contro questo modo di fare il vino chetuttavia si guardano bene dal modificarenel timore di perdere gli acquirenti.

Il citato Diego Costarelli nella sua pole-mica contro i commercianti ripostesi riveladel resto chiaramente il motivo reale delsuo rancore: il vino prodotto non passa perAcireale che invano tenta di ottenere finan-ziamenti per la costruzione di un porto aCapo Mulini, ma da Riposto, un centro chenasce alla fine del Settecento proprio sullaspinta del commercio marittimo del vino.Così come la vigna ha scalzato i boschi, ilcommercio del vino travolge nel corsodella prima metà dell’Ottocento gli equili-bri territoriali spostando l’asse di gravita-zione verso il mare, appunto verso il luogodopo si ripostavano (da qui il nome alnostro centro) i vini della Contea in attesache le imbarcazioni maltesi e genovesivenissero a caricarli. Nel 1841 dopo un’a-spra contesa con Giarre, da cui dipendeva,

Riposto ottiene l’autonomia comunale.Attorno ai traffici è cresciuta una élite com-merciale a cui la Contea ha affidato neglianni della crisi seguita alla fine delle guer-re napoleoniche ed alla conseguente par-tenza dei militari inglesi, il proprio destino.Sono i trafficanti ripostesi che raccolgono icapitali per costruire le imbarcazioni, perassicurare il carico e partire alla ricerca diun compratore, forzando, come gli inglesidi Marsala, il mercato, cercando nuovedestinazioni e nuovi compratori. Anche inostri trafficanti, pur nella preminenza delcommercio vinicolo, diversificano i carichidelle loro imbarcazioni, andando di portoin porto alla ricerca di nuovi clienti. Anchea Riposto non mancano consistenti fortunecommerciali, come ad esempio i Fiamingo(presenti, tra l’altro, tra gli azionisti dellaSocietà dei battelli a vapore siciliani diFlorio ed Ingham), sia pure di scala ridottarispetto ai grandi imprenditori di Marsala,ma la caratteristica del traffico ripostese èla sua coralità, la vasta mobilitazione degliabitanti nell’avventurosa impresa di armarele navi, caricarle di vino ed altro e mandar-le in giro per il mondo. Nel 1820 a Ripostosorge una scuola nautica per formare ilpersonale che le imbarcazioni deve con-durre; nel giro di un ventennio la fisiono-mia sociale dei marinai e capitani di barcacambia: la scuola ha un effetto di promo-zione sociale evidente.

La forte identità vitivinicola della zona sitraduce così nelle classi dirigenti localiottocentesche in una imprenditorialitàcapace di tutelarla e promuoverla. Così sifronteggiano non solo le congiunture delmercato internazionale, ma anche le diffi-coltà legate alle malattie della vite che a

23

metà dell’Ottocento ne minacciano l’esi-stenza. Commercianti (ripostesi) e proprie-tari (molto spesso acesi), pur in polemica ein competizione, sembrano fare a gara pergarantire il successo di quest’area, ecomunque nell’attribuirsene il merito.

Negli anni ’50 sono i proprietari acesi arivendicare un ruolo di primo piano.

Una fase difficile era stata causata inquegli anni dall’apparizione della crittoga-ma che minacciava di distruggere i vigneti.La vicenda è raccontata nel 1856 dalSegretario dell’Accademia di Scienze,Lettere ed Arti di Acireale, Mariano Grassi.

“Trovasi di fatto la maggior parte deilatifondi di questo territorio e della vastaed ubertosa Contea di Mascali – scrive –ridotti in vigneti, sicché il vino forma laprecipua derrata di queste campagne. Colvenir meno la fruttificazione delle vigne”sarebbe stata la catastrofe e “sarebbesi spe-rato invano... l’avviamento ad altra colti-vazione con pari profitto della vite”. Masopraggiunge la crittogama: “la fatalmalattia manifestossi in queste campagneed in quelle della Contea di Mascali nel1852... Sopravvenuto l’anno 1853 ritornòil morbo ad appalesarsi con maggiore pre-cocità e forza. Cominciò nel mese di giu-gno ad assalire ogni specie di uva, diven-ne di giorno in giorno più generale”. Dopovari ed inutili tentativi “al volger de’ pri-mordi del 1854 perveniva ad Aci il BuonGiardiniere, Almanacco di Parigi perdetto anno, il quale raccomandava lospargimento di fior di zolfo a secco, pre-sentando figurati i soffietti abbisognevo-li... Fu allora che una mano di intelligentiproprietari, facendosi superiore all’opi-nione popolare che attribuiva allo zolfo

una potenza per così dire venefica allavegetazione… diedesi alacremente conbella e lodevole operosità a far eseguireda abili artisti i soffietti”.

Manca però il “fior di zolfo” e allora gli“operosi proprietari si volsero a far pol-verizzare lo zolfo in pane e con bel con-cetto addissero a ciò i così detti trappeti,ossia macinatoi che adoperansi alla tri-turazione dell’ulivo. Triturato e ridottoin polvere bisognava venire alla vaglia-tura dello stesso. Inventaronsi all’uopode’ congegni economici e speditivi. Fuesso passato per entro una macchina cheavendo due tramezzi di seta da crivellopoco distanti, operava in una volta duecrivellature e riduceva lo zolfo ad uncerto grado di fino da potersi mobilizza-re e spargere coll’impulso dell’ aria delsoffietto”. Si iniziano le prove ad Acireale,Riposto, Giarre, Fiumefreddo, Mascali daparte di alcuni proprietari tra cui il citatoDiego Costarelli. Ma un altro ostacolo sipara davanti la diffidenza dei “villici”. “Nétacer debbo, continua il Grassi, che i cen-nati proprietari dovettero vincere nonsolo le difficoltà sopraindicate ma lagagliarda ritrosia dei villici, ostinatinella credenza che lo spargimento diquel polverizzato minerale gravi danniminacciasse alla salute loro; mentretorna utile l’avvertire che tranne un lievebruciore agli occhi, massime nelle oreserotine, nulla di male si appalesò negliindividui addetti alla solforazione”.

La pratica ha effettivamente successo alpunto che il “Giornale di Catania” nel 1856riferisce che “i risultati che si ebbero l’an-no scorso dalla triplicata insolforazionedelle viti furono così felici che dall’estero

Studi Garibaldini

24

Marzo 2004

se ne è domandato ragguaglio e nell’altraparte de’ Reali Domini va ad adottarsi,chiamando i nostri viticoltori per lo spar-gimento dello zolfo. Difatti la prima spe-dizione di essi in numero di 40 sappiamoessersi eseguita nel distretto di Acirealepel continente con lo strumento o manticeall’uso di inzolforare. Questi solerti viti-

coltori che furono i più perseveranti nel-l’esperimento a fronte delle voci scorag-gianti, vanno già a farsi maestri nella pro-pagazione di un rimedio contro la critto-gamapatia”.

L’esaltazione dell’operosità dei proprie-tari assume così i toni epici di una guerracontro il morbo ma anche contro i pregiu-

25

Studi Garibaldini

26

Bibliografia di riferimento essenziale

E. IACHELLO, Il vino e il mare. “Trafficanti” siciliani tra ‘700 e ‘800 nella Contea di Mascali,

Catania, Maimone,1991.

dizi contadini e la vittoria lirende esempio per “gli esteri”.Dal racconto emerge non solola capacità di far fronte ai pro-blemi che via via si ponevano,ma una forte consapevolezza,mista ad orgoglio, di questacapacità imprenditoriale, cele-brata come forte identità bor-ghese.

Grazie ad essa la rotta delvino consente al nostro terri-torio, per tutta la prima metàdell’Ottocento, ma ancorasino agli anni ’80, una produt-tività crescente e profitti eleva-ti. Giuseppe Recupero cheesaminò i libri delle decimedel mosto della Contea a fine‘700, calcolava la produzionemedia annua in 160 milasalme (110 mila ettolitri).Quasi negli stessi anni Sestiniconferma il dato rilevandouna produzione annua di 170-200 mila salme. Il nipote diRecupero nel 1815 riporta unaproduzione di mezzo milione disalme. Nel ’59 Costarelli porta il dato a circaun milione di salme.

Contemporaneamente cresce la popola-zione sparsa nei numerosi “quartieri” (così si

chiamavano qui le frazioni, oggi in alcuni casi,comuni autonomi, come Milo e S. Alfio) diquesto versante etneo e la ricchezza com-plessiva dell’area.

Marzo 2004

Nel 1842 si pubblicava aNapoli la Guida per laSicilia della scienziata fran-cese Jeannette Villepreuxche si firmava però colnome del marito, il mercan-te irlandese James Power.In lingua italiana, ditaglio ed impostazionemoderni, quella diGiovanna Power, così nelfrontespizio, se non laprima è tra le prime chesiano state pubblicate. Ilvolume comprendeva,fra l’altro, una Carta della Sicilia diBenedetto Marzolla, uno dei più importan-ti cartografi dell’800, stampata presso laReale Litografia Militare di Napoli.1

Accanto al toponimo di Marsala, nellaCarta si segnalavano gli “Stabilimenti de’vini”. A quella data, le fattorie enologiche,di Woodhouse, di Corlett e Gill, diIngham-Whitaker, di Florio, non eranonumerose come qualche decennio dopo,ma erano sicuramente molto rinomate sepersino per la Power l’informazione eradegna di indicazione cartografica. NellaCarta non si ritrovano informazioniriguardanti altri opifici o grandi complessimanifatturieri siciliani.

Nel testo della Guidasi precisava che il territo-rio marsalese produceva“un vino di tal perfettaqualità che da ognidove è ricercato” e cita-va il Woodhouse per leiniziative a beneficiodella città.

Non è dato sapere sela Villepreux sia stata aMarsala, tuttavia, al di làdella conoscenza direttadei luoghi, la Powerritenne importante con-

fermare ed aggiornare la precedenteindicazione cartografica dello Smyth,risalente alle rilevazioni compiute neglianni 1814-1816, che riguardava l’EnglishWine Establishment di Woodhouse, l’uni-co esistente e già da due decenni piena-mente attivo.2

Come fu possibile che Marsala raggiun-gesse un risultato industriale e commercia-le così importante e significativo, già ametà dell’Ottocento? La risposta non èsemplice e non basta fare riferimento atutte le circostanze e congiunture favore-voli interne ed internazionali se non sitiene conto di un dato oggettivo: la capa-cità degli inglesi di comprendere la realtà

27

Sviluppo della viticoltura e dell’enologianell’area del trapanese nel XVIII e nel XIX secolodi Rosario Lentini

locale e di valutarne le potenzialità per finimercantili e, di contro, la risposta favore-vole dei marsalesi, prima, a considerareJohn Woodhouse un mercante con il qualefare buoni affari, poi, a riconoscerne sulcampo la superiorità imprenditoriale.

Prima dell’arrivo dei mercanti inglesi, inlinea con la tendenza che si era rilevata unpo’ dovunque in Sicilia, il ‘700 aveva segna-to anche per Marsala un periodo di cre-scente diffusione dei vigneti rispetto adaltre colture. La stessa cosa non potevadirsi per l’arte di fare il buon vino che sten-

tava a liberarsi da pratiche e metodi moltoempirici e diversi da zona a zona. Lo avevanotato già Domenico Scinà riferendosi allecontrade palermitane: “Si rimescola ognisorta d’uva, sia matura o immatura e silascia fermentare ad arbitrio del rozzocontadino”.3 Analoghe considerazioni svol-geva l’economista Paolo Balsamo nel 1808:“Chiunque dicesse che in Sicilia la metàdei vini intorbidano ed inforzano dentrol’anno ed hanno cattivo odore e saporeper difetto di acconcia conservazione, nonandrebbe sicuramente lontano dal vero”.4

Studi Garibaldini

28

Marzo 2004

Tale diffusa imperizia sembrerebbe tantoradicata e persistente in Sicilia che, ancoranel 1894, Jessie White Mario così scrivevariferendosi agli usi prevalenti nell’Isola:“L’uva vendemmiata gettata nei palmentisporchi dell’anno precedente era pigiataalla meglio, poi di nuovo spremuta incestoni sporchi e il mosto gettato in tiniincrostati”.5 Nella campagna marsalese l’in-curia dei viticultori venne lentamente com-battuta, sin dai primi decennidell’Ottocento, grazie anche agli interventidi un altro negoziante-banchiere di Leeds(Yorkshire), Benjamin Ingham, mediantecircolari, istruzioni scritte e promemoriainviati ai nipoti che si avvicendarono alladirezione del baglio marsalese e all’agentelocale, l’abate Vincenzo Canale, perdisporre la massima cura e attenzione nellaselezione delle uve, da effettuarsi con pro-pri fiduciari che avrebbero dovuto recarsinelle campagne. Woodhouse, per esempio,inseriva nei contratti di anticipazione stipu-lati coi viticoltori locali delle clausole conle quali si prevedeva che “la puta dellevigne dovesse farsi a piacere e col consen-so di un perito” da lui nominato.

Cominciava, cioè, a farsi strada l’idea cheper ottenere i migliori risultati non bastas-se soltanto comprare mosti e manipolarlicon alcol dentro lo stabilimento, ma anchestabilire e mantenere un rapporto costantecon i produttori viticoli, migliorare leconoscenze enologiche, organizzare le can-tine, creare delle riserve.

A Marsala, dopo l’arrivo degli inglesi,oltre metà della popolazione si trasferìfuori della città, per insediarsi nelle variecontrade dove veniva richiesto l’interventoumano sempre più consistente e perma-

nente, per assecondare la domanda dimosti o di vino da parte dei mercanti stra-nieri. Ciò spiega il forte incremento dellasuperficie vitata nella prima metà del XIXsecolo. Si pensi che nel 1860, secondo ilmarsalese Lodovico Anselmi, il comunecontava 31.000 abitanti ed un territorio dicirca 11.500 salme, (salma equivalente a1,746 ettari), metà delle quali ricoperte daquasi 26 milioni di viti; la restante metà eradestinata alla semina, e alla pastorizia. Sistimavano 20.000 ulivi e molti meno albe-ri di agrumi. Il compilatore della statisticasottolineava inoltre che fino a 20 anni

29

prima la pastorizia “gareggiava colla pro-sperità della vite”.6

Inizialmente, gli inglesi si limitavano adaggiungere alcol prima di procedere all’im-barco delle botti. Si rileva implicitamentein una lettera del 1816 di BenjaminIngham da Palermo al socio John LeeBrown che dirigeva la fattoria marsalese: “Ilnostro commercio consiste nel comprare ilmiglior vino che possiamo trovare emigliorarlo più presto che possiamo perun mercato estero; e non voglio occupar-mi d’altro”.7 D’altronde, Ingham non risie-deva a Marsala, né si occupava esclusiva-mente della sua fattoria enologica; aPalermo egli era un affermatissimo ban-chiere, tanto ricco quanto influente.

Diversamente da lui, Woodhouse rivol-geva maggiore cura ed attenzione all’invec-chiamento dei vini.

Ancora nei primi decenni dell’Ottocentoil Marsala era privo di identità e per impor-lo nei mercati esteri, Woodhouse e poi glialtri, lo presentavano come vino “ad uso diMadera” o “ad uso di Jérez”. Non a caso,infatti, ad inizio Ottocento, nel Dizionariouniversale francese curato da Lenormand,Payen ed altri, i vini siciliani particolarmen-te menzionati erano il Moscato di Siracusae la Malvasia delle Eolie.

Verso la fine degli anni Ventidell’Ottocento, Ingham decise di orientarele proprie esportazioni verso l’America delNord, i cui mercati erano in grande espan-sione, a New York, Philadelphia, Baltimorae, soprattutto, a Boston. Il Marsala di CasaIngham non era migliore di quelloWoodhouse (più invecchiato), tuttavia conuna politica dei prezzi molto aggressiva, siaffermò dalla metà degli anni Trenta in poi.

Inoltre, Ingham, ben documentato e infor-mato sui gusti di quei mercati, avviò la pro-duzione di un vino poco pregiato e partico-larmente economico, dal sapore dolciastroe non rinforzato con alcol, il “Colli Wine”.

Se si volesse rappresentare un graficodella viticoltura nell’area marsalese, sidovrebbe tener conto del seguente anda-mento: la crescita moderata e costante dellaseconda metà del Settecento, il ritmo piùsostenuto dei primi decenni dell’Ottocento,per arrivare al picco di ulteriore crescitadegli anni Ottanta dell’Ottocento. La primagrande turbolenza provocata dalla diffusio-ne della fillossera in Francia, determinò laforte richiesta a partire dal 1879 di rilevantiquantità di vino meridionale.

Si verificò una straordinaria espansionedella viticoltura in Sicilia e in Puglia.

Nel 1880, in provincia di Trapani, si con-tavano18 stabilimenti enologici per la pro-duzione di vino Marsala e quindici annidopo sarebbero diventati 45.

Il mercato del Marsala subì l’invasionedelle cosiddette marche di concorrenza,cioè di prodotti di qualità infima, privi diinvecchiamento, addizionati con alcol dicontrabbando, “gessati” senza criterio.

L’arrivo della fillossera anche in Sicilia, edal 1893 nel Trapanese, ebbe effetti deva-stanti come nel resto d’Europa. La distru-zione dei vigneti dell’Isola si trascinò l’in-tera economia della provincia, provocandoil crollo dei profitti dei viticultori e deglistabilimenti enologici e l’impennata deicosti di produzione e dei prezzi di listinodel Marsala di tutte le case. Ovviamente lacrisi dell’ultimo ventennio venne amplifica-ta dal modesto progresso che la viticolturae l’enologia avevano compiuto in Sicilia,

Studi Garibaldini

30

Marzo 2004

nonostante l’incremento delle rendite edei profitti dei proprietari terrieri e deiproduttori di vino negli anni precedentiavrebbe potuto consentire l’avvio di un piùincisivo e generalizzato processo di moder-nizzazione che, invece, riguardò solo unaminoranza di essi. Nel 1900, ad esempio, ilMondini lamentava il fatto che ancora sifaceva poco ricorso al vitigno americano

per frenare l’avanzata della fillossera e rico-stituire il patrimonio viticolo.8

I grandi produttori del Marsala si difese-ro diversificando e ricercando nuovi spazinei mercati esteri caratterizzati da una con-correnza sempre più agguerrita e dal cam-biamento dei gusti e delle mode.

Il cognac Florio, prodotto anch’essonello stabilimento di Marsala, dopo innu-

31

merevoli esperimenti e cospicui investi-menti, venne presentato all’Esposizionenazionale di Palermo del 1891-92, racco-gliendo consensi unanimi da parte degliintenditori e dei giurati.

Nel 1892 venne avviata a Marsala, anco-ra da Casa Florio, una nuova fabbrica per laproduzione dei vini da pasto quasi con-temporaneamente ad un’altra in costruzio-ne a Balestrate, affidata alla direzione del-l’enologo francese Laménery per metterein commercio vini da pasto.9

Dall’esame dei registri di Casa Ingham-Whitaker emerge anche un altro aspettodelle strategie imprenditoriali delle grandiaziende e cioè la volontà e la determinazio-ne a migliorare la qualità della produzioneenologica. Nel 1909 al fiduciario NicolòAlmanza che dirigeva una rete di bagli-suc-cursale della Casa anglo-siciliana, daAlcamo a Castellammare, Balestrate, ecc.,l’amministratore dei Whitaker, Alex Smyth,inviò un memorandum “strettamente confi-denziale” intitolato “Esperimenti da farsiper ottenere una buona vinificazione”.10

Vi era un problema antico irrisolto o malrisolto dall’empirismo dei produttori loca-li: quello dell’intorbidamento del vino cau-sato per lo più da una rapida e tumultuosafermentazione (cui taluni ovviavano conchiarificatori come il sangue bovino), che iWhitaker intendevano superare essendoormai ritenuti impresentabili i vini torbidinei più esigenti mercati europei o nelle piùimportanti piazze enologiche italiane.

Gli esperimenti indicati nei sei punti delmemorandum prevedevano l’aggiunta disolfito di calcio oppure di fosfato di calcio oancora di gesso e l’osservazione degli effettidi tali aggiunte nella fermentazione.

L’elemento di novità non consisteva nellagessatura dei mosti, pratica antica e larga-mente diffusa, bensì nel rigore scientificoche la sperimentazione avrebbe dovutoavere per stare entro i limiti fissati dallalegge riguardo alla presenza di solfato potas-sico. Ad un esame effettuato presso la sta-zione chimico-agraria di Palermo nel 1891,solo in due tipi su 24 differenti qualità divini Woodhouse, Ingham e Florio, i valoririscontrati rispettavano il limite consentitodel 2 per mille (Marsala delle Dame dellaIngham-Whitaker e Malvasia della Florio).

Da ciò si comprende perché, ancora nel1909, il problema dell’intorbidamento edella gessatura rimanevano al centro del-l’attenzione delle case enologiche.L’Almanza probabilmente non prese moltosul serio il memorandum dell’amministra-tore Smyth tanto che questi non esitò amanifestare la propria irritazione: “Nelvostro rapporto voi accennate superficial-mente alla maggiore o minore tumultuosafermentazione osservata, senza precisarnela durata e senza per nulla interessarvidella maggiore o minore limpidità, delcolorito e della quantità dei depositi diogni singolo tino che a voi del mestierenon doveva sfuggire. Una tale osservazio-ne costituiva il perno principale per stabi-lire con scienza e coscienza quale deidiversi metodi esperimentati avesse datorisultato migliore”.11

Questo documento particolarmente pre-zioso, ben oltre il merito dell’esperimento,evidenzia che quanto sostenuto daSalvatore Mondini ad inizio ‘900, non eradel tutto corrispondente al vero: gesso esolfati non venivano, infatti, aggiunti solonei palmenti delle varie contrade dalle

Studi Garibaldini

32

Marzo 2004

quali provenivano i mosti, ma anche neglistabilimenti in modo più o meno scriteria-to, più o meno rigoroso.

Gessatura a parte, la visione di un rap-porto costante da intrattenere e manteneretra enologi e viticoltori appartenne davveroalla tradizione inglese e a pochi altri pro-duttori locali. Al profilarsi di una nuovaondata di peronospera e dell’oidio nellecampagne marsalesi, Whitaker raccoman-dava ad Almanza: “E’ molto opportunoricordare e far capire ai viticultori che imali si prevengono per restarne immuni eche è un grave errore attenderne lo svilup-po per iniziarne la cura. Incoraggiateli a

fornirsi in tempo utile dello zolfo, del sol-fato di rame e della calce per prevenire idue mali”.12

Le ragioni che ostacolavano il radica-mento di una cultura (viticola ed enologi-ca) razionale e moderna impongononecessariamente l’approfondimento ditutta un’altra serie di questioni, qui nontrattate, che si collocano però nel cuoredei rapporti tra proprietari terrieri e col-tivatori (enfiteuti, coloni, mezzadri osemplici “iurnateri”) e che dovrebberoformare oggetto di un’altra specifica gior-nata di studio.

33

Studi Garibaldini

34

1 G. POWER, Guida per la Sicilia, Napoli, 1842, ristampa anastatica, a cura di Michela D’Angelo,

Messina, Perna, 1995.2 W. H. SMYTH, The Hydrography of Sicily, Malta and the adjacent islands, London, 1823.3 D. SCINÀ, Topografia di Palermo e dei suoi contorni, in A. Buttitta, Il vino, Palermo, Sellerio,

1977, p.38.4 P. BALSAMO, Memorie inedite di pubblica economia ed agricoltura, introduzione di Giuseppe

Giarrizzo, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia, 1983, tomo II, p. 141.5 J. WHITE MARIO, “Prodotti del suolo e viticoltura in Sicilia”, in Nuova Antologia, Roma, 1894, vol.

LI, fasc. XII, p. 649.6 L. ANSELMI, “Sunto del quadro sinottico di agricoltura, industria e commercio della città di

Marsala a tutto dicembre 1861”, in Indirizzo della città di Marsala a S. M. Vittorio Emanuele II re

d’Italia, Marsala 1862, doc. 11.7 Archivio Ingham-Whitaker di Marsala (presso le Cantine Pellegrino di Marsala), Copialettere serie

Inghilterra, vol. I, 328, Palermo 2-10-1816, in A. LISCIANDRELLO, “Effetti nell’economia e nel territorio

marsalese dell’attività degli Ingham-Whitaker”, in Nuove Prospettive meridionali, Fondazione

Culturale Lauro Chiazzese, Palermo, anno VI-1996, n. 16, p. 23.8 S. MONDINI, Il Marsala, Palermo, 1900, p. 3, ristampa anastatica, Marsala, 1981.9 R. LENTINI, “Una nuova cultura del vino”, in L’economia dei Florio. Una famiglia di imprendi-

tori borghesi dell’800, Palermo, Sellerio, 1990, pp. 71-86.10 Archivio Ingham-Whitaker di Marsala, registro Almanza, lettera “strettamente confidenziale”,

Palermo, 30-9-1909, fogli 33-34.11 Idem, Palermo 3-12-1909, fogli 44-45.12 Idem, foglio 294.

Marzo 2004

“Sarebbe superfluodimostrare l’importan-za dell’industria enolo-gica in Sicilia, ove moltecontrade ritraggono lasussistenza unicamentedalla vite, che costitui-sce una fra le principalisorgenti di ricchezza del-l’isola. La singolare ric-chezza proverbiale intalune zone, l’attitudinea produrre vini svaria-tissimi, le qualità delterreno, il clima, tuttoinsomma contribuisce a far credere che laSicilia potrebbe divenire un grande empo-rio vinifero dell’Europa” (Atti Giunta, vol.XIII, T. I, f. I, p. 15).

Questa tesi è formulata da AbeleDamiani nella relazione finale della suainchiesta agraria in Sicilia, ultimata a metàdegli anni ottanta dell’Ottocento, metten-do a confronto i dati raccolti dai funziona-ri del ministero di Agricoltura, che hannocollaborato ai lavori dell’inchiesta (LuigiBodio e Giovanni Patané), con quelli delcatasto borbonico compilato alla vigilia del-l’unificazione.

Dalle rilevazioni compiute dal marchese

Mortillaro, responsabileregionale per la compila-zione del catasto borbo-nico nel 1853, si hannole seguenti percentualirelative alle colture prati-cate: l’84% della superfi-cie agrario–forestale ècostituita da seminativisemplici e da pascolipermanenti, e solo il9,3% da culture arbusti-ve. Nel complesso i semi-nativi semplici e i pascolirappresentano poco

meno dei 4/5 della superficie agrario-fore-stale. Tuttavia, sono presenti alcuni segniinnovativi che fanno sperare in una tra-sformazione dell’economia agricola. Sitratta della presenza di aree destinate allecolture arbustive che occupano il 9,3%della superficie agrario-forestale, pari adettari 222.959. All’interno di queste è ilvigneto ad avere un posto prevalente: etta-ri 145.760, pari al 6% dell’intera superfi-cie. Certo, sono estensioni assai modesteche si concentrano in poche e limitatezone, generalmente nei più immediati din-torni dei centri abitati (fra queste spiccal’area del Marsalese).

Tuttavia, i pochi dati sull’ammontare

35

Produzioni e sviluppo della viticolturanei primi decenni post-unitaridi Giuseppe Astuto

delle esportazioni per gli anni precedentil’unificazione ci consegnano un quadrosignificativo dell’importanza che alcuneproduzioni agricole stanno assumendo. Seil grano è ormai utilizzato per il consumointerno, altre voci (gli agrumi, il vino esoprattutto lo zolfo) interessano il com-mercio estero. Secondo le valutazioni diRosario Romeo, per gli anni 1834 e 1837-40 si ha questa media dei valori riguardan-ti le esportazioni all’estero: zolfo,1.671.000 ducati (il 19,9% del totale); vino,1.399.000 ducati (il 16,7%). Inghilterra,Stati Uniti, Impero Austriaco, Stati Sardi eFrancia sono i principali clienti dei prodot-ti agricoli siciliani. Lo zolfo siciliano è ilprodotto che domina incontrastato sulmercato mondiale. Ma accanto a questo sisegnala il vino, la cui esportazione apparevitale e tende via via ad aumentare a segui-to dell’iniziativa inglese nel settore.

Le modificazioni intervenute nella strut-tura del commercio di esportazione costi-tuiscono una spia del volto che va assu-mendo l’economia agricola dell’isola. Siintravedono quei tratti che l’unità italiana,accelerando il processo di integrazioneeconomica dell’isola con le altre regioniitaliane ed europee, renderà più marcati:da una parte, zone la cui produzione èancorata a sistemi colturali profondamentearretrati e, dall’altra, zone che si specializ-zano nella coltivazione di prodotti orto-frutticoli, alla cui sorte per molti aspettisarà legato l’avvenire dell’economia isola-na. Gli anni successivi all’unificazionevedranno mutare, infatti, con una rapiditàche non ha riscontro in altri periodi, il pae-saggio agrario siciliano. Gran parte dellacosta cambierà fisionomia: attraverso un

duro lavoro di bonifica si dissodano e sonomesse a coltura arborea terre tradizional-mente adibite a seminativo e pascolo.Sicché, alla svolta degli anni ottanta, ladistribuzione delle colture si presentadiversa rispetto a quella esistente almomento dell’unificazione.

Senza sottovalutare le difficoltà e leimprecisioni delle fonti dell’epoca, l’esamecomparativo tra le rilevazioni del 1853 e idati raccolti da Damiani, in occasione del-l’inchiesta agraria “Jacini”, documentaprofondi cambiamenti nella destinazioneproduttiva della superficie agrario-forestaledell’isola. Rispetto ai dati del 1853 si regi-strano delle variazioni molto significativesoprattutto per quel che riguarda il settoredelle colture specializzate, che aumenta inestensione e in percentuale. I dati sono lar-gamente approssimativi e fondati su valuta-zioni non omogenee; eppure la significati-va diversità fra gli anni cinquanta e gli inizidegli anni ottanta indica che le colture spe-cializzate hanno conosciuto nel trentennioun’espansione di notevoli proporzioni.

Il settore delle colture specializzateoccupa 502.208 ettari (il 19,6% della super-ficie agrario-forestale). Rispetto ai dati delcatasto borbonico si registra un aumentodel 110%, pari ad ettari 263.072.All’interno di questo settore si sono note-volmente accresciuti il vigneto, "la trasfor-mazione facile", l’agrumeto, "la trasforma-zione difficile", e l’oliveto. I vigneti sidiffondono dovunque: da 145.770 ettari sipassa a 321.718, con un incremento di165.375 ettari, pari al 105,8%. I dati disag-gregati per provincia ci permettono dicompiere altre considerazioni. In alcuneprovince l’estensione della superficie desti-

Studi Garibaldini

36

Marzo 2004

nata alle colture arbustive tende a rivaleg-giare con quella tradizionale a cereali:122.486 ettari di terreno sono destinati allecolture arbustive contro 238.096 a cerealinel Catanese; 63.331 ettari contro 71.794nel Messinese. Lo stesso fenomeno si regi-stra anche per le province di Siracusa eTrapani. Solo nelle province di Palermo,Agrigento e Caltanissetta le percentuali simantengono ad un livello più basso rispet-to ai valori regionali. Si accentua, quindi, ilfenomeno della specializzazione culturale:la vite nel Trapanese, nel Siracusano e incerte aree del Catanese, gli agrumi nelPalermitano e nel Messinese.

Una febbrile attività investe l’isola, tantoda rendere entusiasti dei suoi progressieconomici anche i più scettici. La produ-zione del vino passa da 4.246.363 ettolitrinel quinquennio 1870–74 a 7.750.471 del1879–83. Dal 1870 al 1882 l’esportazionedel vino triplica: da 113.000 ettolitri a516.000, con un aumento del 360% circa. Ilvino si esporta da tutte le province sicilia-ne, ma i centri principali sono Catania,Messina, Siracusa e Trapani. Sul totale delleesportazioni del Regno, nel 1872 la Siciliavi contribuisce per un quarto. Ma neglianni successivi il suo concorso aumentaancora: il 35% nel 1880, il 36% nel 1881 eil 39% nel 1882. Nell’esportazione la Siciliaha precorso le altre province italiane e,nonostante i vini del continente abbianoguadagnato una certa influenza, mantienenegli anni ottanta una posizione dominan-te. Le condizioni del mercato hanno avutostimoli favorevoli sulla viticoltura siciliana.Mentre nei vecchi vigneti la produzione divino per ogni migliaio di viti è di due o trebotti, nei nuovi la produzione sale a otto.

Anche se in modo limitato, le industrie ditrasformazione del vino registrano qualcheprogresso. Si tratta però di casi assai limita-ti; infatti, fra i vini esportati quelli da tagliosono dominanti. Il problema dell’industriaenologica, che per il momento è avvertitosoltanto dai settori più dinamici del cetoproprietario e dai tecnici, si porrà condrammatica urgenza in occasione della rot-tura commerciale con la Francia, quando siaprirà una crisi profonda nel settore.

Chi sono i protagonisti dei cambiamentiavvenuti nell’agricoltura siciliana? La novitàè rappresentata dai nuovi proprietari che sisono formati in seguito alle nuove leggiadottate dallo Stato unitario sulla venditadei beni demaniali e sulla censuazionedelle terre ecclesiastiche (in base alla leggeCorleo che riguarda solo la Sicilia). Glistudi recenti per la Sicilia e per ilMezzogiorno (Montroni, Adragna) lascianointravedere il medesimo processo: adappropriarsi dell’ingente patrimonio(un’estensione di terreni pari a quellamessa in vendita nel dopoguerra in seguitoalla riforma agraria) sono prevalentementele forze locali, colla drastica riduzione deltravaso della rendita verso le capitalid’Ancien Régime. Certo gran parte di que-ste terre finisce nelle mani dell’aristocrazia(circa il 50%). Ma il restante, che peraltroriguarda i terreni meglio coltivati, è acqui-stato da operatori di estrazione sociale“intermedia” (pochi sono i contadini).

Attraverso quali meccanismi il ceto pro-prietario, vecchio e nuovo, realizza i cam-biamenti? Anche se cospicui capitali sonoimpiegati (e ciò è documentato dalla cre-scita del credito ipotecario), l’elementodecisivo per lo sviluppo del vigneto sarà il

37

lavoro dei contadini, allacui cultura tecnica il pro-prietario si affida. La formache assume il rapporto dilavoro fra proprietari e con-tadini è quello dei contrattimiglioratari, ai quali si ricor-re per incrementare le col-ture specializzate che, difronte alla domanda delmercato in costante aumen-to, forniscono redditi supe-riori a quelli ricavabili dallacoltivazione dei cereali. Sitratta di forme contrattualinon sconosciute in Sicilia.Negli anni successivi all’uni-ficazione, però, conosconouna maggiore diffusione,che si spiega sia con la richiesta di vino siacome necessità di sostituire l’enfiteusi, isti-tuto soppresso dal codice civile del 1865.

Con il contratto a miglioria, infatti, ilproprietario consegna un terreno nudo alcontadino senza ricevere alcun estaglio peri primi tre anni, durante i quali gli alberinon avranno produzione. Negli anni suc-cessivi si esige una prestazione, in denaro oin natura (la metà, un terzo o un quartosecondo la fertilità del terreno), e, al termi-ne del contratto, al contadino è indenniz-zata una parte dei miglioramenti apportati,se la durata non supera i nove anni; non siricorre all’indennizzo, quando questa èsuperiore. Esiste, comunque, una serie divarianti nelle zone agrarie dell’isola, per lequali si rinvia al lavoro insuperabile diSonnino. Non manca la coltivazione in eco-nomia del proprietario, frequente nellelocalità ove la proprietà ha assunto, dietro

le sollecitazioni del mercato, un caratterepiù dinamico. Lo stretto intreccio tra ren-dita e profitto, come è stato sottolineato dastudi recenti, caratterizza la gestione dellegrandi tenute.

Ciò si riscontra nelle aziende “moderne”del marchese Antonio di Rudinì nelSiracusano. Il futuro presidente delConsiglio è il difensore del latifondo, con-trastando ogni riforma sia quando è pro-posta dai sovversivi dei Fasci sia quando èpresentata in parlamento da FrancescoCrispi. Secondo le logiche produttiveseguite da molti proprietari terrieri, ilatifondisti siciliani impiegano la renditafondiaria proveniente dalla cerealicolturaper investirla nella trasformazione delleterre più adatte alle colture arbustive.Questa prassi è seguita anche dal baroneGiuseppe Luigi Beneventano che, dopoaver allargato notevolmente le sue pro-

Studi Garibaldini

38

Marzo 2004

prietà nella zona del Lentinese con l’acqui-sto delle terre ecclesiastiche, applica pattiagrari assai pesanti per i coltivatori e, con-temporaneamente, utilizza le rendite perl’impianto di vigneti e agrumeti.

Molte zone di recente trasformazioneseguono questo processo: il vigneto occu-pa una parte dell’azienda, che è strutturatain modo tale da prevedere anche il semi-nativo, il pascolo e l’oliveto. Non esistonorelazioni tra queste colture: l’unica che siriscontra consiste nel flusso della renditaproveniente dal settore cerealicolo che sidirige verso quello arbustivo per realizzarele trasformazioni o per ammortizzare leperdite nelle cattive annate. Le grandiaziende dei Lanza di Trabia e dei Lanza diScalea nella Conca d’Oro, dei Colonna diCesarò nella pianura peloritana diFrancavilla, dei Carnazza sulle pendicidell’Etna si basano su queste interdipen-denze produttive: la viticoltura conosceun’accelerazione dinamica, ma non rappre-senta un’alternativa al latifondo. Gli studidi Cancila, infatti, hanno dimostrato chel’aumento della rendita fondiaria nel setto-re più arretrato in età postunitaria è la chia-ve di volta del processo della trasformazio-ne: la rendita cresce negli anni 1860-75 e simantiene alta anche durante la crisi agraria(in Sicilia, caso unico in Italia), riprenden-do ad aumentare nella nuova fase espansi-va successiva al 1896.

La storiografia è ormai concorde sullecause che hanno favorito le trasformazioniagrarie e la rapida espansione della viticol-tura nel primo ventennio. Questi processisono strettamente legati alla rivoluzione deitrasporti, alle politiche di integrazione com-merciale con i più avanzati paesi europei,

attuate dal nuovo Stato liberale, e alla con-giuntura favorevole, caratterizzata dalladomanda di derrate alimentari e dallacostante ascesa dei prezzi. Nonostante chele colture specializzate siano aumentate,non si può parlare, di un corrispondenteprogresso nella vinificazione. Escludendol’area del Trapanese, con la sua industriad’avanguardia del “Marsala”, impiantata daattivi imprenditori stranieri e locali, “ingentiquantità di vino sono preparate pessima-mente e vendute a vili prezzi”. È in genereun pessimo vino “da taglio”, destinato adelevare la gradazione alcolica dei vini euro-pei e francesi in particolare. Di ciò è consa-pevole il commissario Abele Damiani, ilquale nella già citata inchiesta pone l’accen-to sulle arretratezze nella vinificazione.

Il giudizio di Damiani nei confronti delleculture specializzate non è quello di accet-tazione acritica di un modello: per lui l’e-spansione del vigneto non prefigura di persé un rinnovamento agricolo, se non èaccompagnato da un contemporaneo svi-luppo dei sistemi di trasformazione deiprodotti, e quindi dell’industria vinicola edel commercio. Certo, le esportazioni delvino siciliano si sono notevolmente accre-sciute, in special modo da quando i vignetifrancesi sono stati colpiti dalla fillossera.Questa situazione, si chiede Damiani, potràdurare a lungo? Che cosa accadrà quandola vite in America sarà cresciuta e la Franciaavrà distrutto o domato la fillossera?"Allora la Sicilia, e purtroppo possiamodire l’Italia, non potrà consumare il vinoottenuto dai suoi vigneti; la produzioneaumenterà ogni anno ed accrescerà quin-di la calamità, se i produttori non riesco-no a vendere il vino direttamente ai con-

39

sumatori; ciò che non conseguirannogiammai se non pensano seriamente aconfezionare buoni vini da pasto, nonsecondo il gusto del produttore, ma secon-do quello del consumatore" (Atti Giunta,vol. XIII, T. I, f. I, p. 174).

Non giova, quindi, estendere la viticoltu-ra, se non è accompagnata da cambiamen-ti nei sistemi di trasformazione del prodot-to e dalla preparazione di buoni vini dapasto capaci di trovare una collocazionenel mercato. Damiani ha sottolineato ledebolezze strutturali della viticoltura sici-liana, ma ha anche indicato il modello mar-salese come la via per risolvere i problemi.Qualche anno dopo dirà: "Ora un po’ dimerito mi dovette essere riconosciuto, e inmodo tale da costituire un’autorità inmio favore, per la inchiesta sulle condi-zioni dei lavoratori dei campi, della pro-prietà e dei proprietari in Sicilia. Oraquando dopo qualche tempo ebbi l’occa-sione di visitare la Sicilia, dovetti compia-cermi del mio lavoro, e sapete dove?Specialmente a Marsala. Una volta, par-lando ai contadini di Petrosino, dissi così:voi avete risoluto la questione sociale inmodo tale da fare invidia a Stati che sonopiù avanti di noi in siffatte questioni e chene fanno argomento di perenne lavoro[...]. Voi, dissi allora, avete risolto unagrandissima parte della questione sociale,perché nelle nostre campagne i lavoratori,in grande maggioranza, sono pure pro-prietari delle campagne stesse; e questasete di proprietà ha proporzioni tali dafar sperare che in avvenire non lontano lacampagna debba in grandissima parteessere restituita nel lavoro a quelli chesono chiamati dalla natura e dalla posi-

zione sociale ad esserne i naturali padro-ni" (Damiani, 1907, p. 13). Damiani, cheauspica la modernizzazione dell’agricoltu-ra, riprende l’immagine fornita dai viaggia-tori e dagli autori di altre inchieste per deli-neare un programma di trasformazionevalido per altri luoghi, e perché no pertutta l’isola.

Bonfadini, nella prima inchiesta parla-mentare, aveva esaltato la zona delMarsalese come quella che aveva raggiuntoi maggiori progressi nella lavorazione deivini: "Il tipo industriale dell’enologia sici-liana fu meravigliosamente raggiuntodalle fabbriche di Marsala e continueràprobabilmente per lunghissimo tempo adominare il mercato e foggiare la produ-zione dell’isola. Ai due antichi stabilimen-ti inglesi dei signori Ingham e Woodhousesi è aggiunto trent’anni fa in Marsala unaltro non meno grandioso stabilimento

Studi Garibaldini

40

Abele Damiani

Marzo 2004

del signor Florio, che occupa a quest’orapiù di 300 operai. Da alcuni anni in poiquesta industria è in continuo progresso.Altre fabbriche sociali sorgono a Trapani,a Marsala, ad Acireale, ed altri tipi si ten-tano coi vini di Siracusa e collo Zucco che,aiutato dal nome illustre del suo fabbrica-tore, comincia a trovare in Francia un pro-prio mercato. Su codesta questione dei vinisiculi vi sarebbe del resto a fare più lungodiscorso. Vi sarebbe a discutere se non siatroppo curata la quantità a scapito dellaqualità; vi sarebbe a studiare perché si tro-vino oscillazioni così notevoli di prezzo frale città e la campagna; vi sarebbe ad esa-minare se veramente giovi alla produzioneed al commercio dei vini quel contrattocolonico, così comune nelle zone vinifereprincipali, per cui tutto il prodotto rimaneal proprietario ed il colono non presta l’o-pera sua che come giornaliero stipendiato"(ACS, Inchiesta, 1969, p. 1054).

Mentre Bonfadini lodava i progressi del-l’industria enologica marsalese, Sonnino,nella sua inchiesta privata, riconosceva ilruolo dell’enfiteusi e dei contratti a miglio-ria nel favorire la trasformazione agraria, esi stupiva per la prevalenza della "gestionediretta" delle aziende e per la forte presen-za della popolazione rurale che abitava ingran parte nelle campagne. "Il comune diMarsala, scriveva lo studioso, oltre l’altoonore di aver dato il nome al vino sicilia-no più conosciuto in Europa, presenta laparticolarità di essere uno dei due solimunicipi di tutta la parte occidentale del-l’isola, dove la popolazione rurale abiti ingran parte sparsa nelle campagne. La solaMarsala ha, su 34.202 abitanti, una popo-lazione sparsa maggiore (16.536) che non

quella (10.836) delle due province diPalermo e Girgenti riunite. […] Se daMarsala si procede nella direzione diSalemi, allontanandosi in linea retta dalmare, si cammina per tre o quattro migliasempre in mezzo alle vigne; queste poi ces-sano a un tratto, e uno si trova di nuovonelle solitudini dei latifondi senza case esenza alberi, e in mezzo agli sterminaticampi a grano, a pascolo, o a maggese.Tutto quel tratto di marina che è ricca-mente coltivato a vigne, è, nel territorio diMarsala, diviso in una infinità di piccoleproprietà, che nella grande maggioranzasono enfiteusi di origine antichissima enon per anco affrancate. Tra queste le piùminute sono possedute dagli stessi conta-dini che le coltivano, e i quali s’impieganoinoltre come vigneri, o vignaiuoli nellevigne prossime che appartengono a pro-prietari di condizione più agiata. VersoMazzara la proprietà dei vigneti non ètanto frantumata, e vi si usa più dai pro-prietari la coltivazione per mezzo di sala-riati a giornata. Così pure nei pressi diTrapani sono rare le piccole vigne, e sisuole tenere nei vigneti un curatolo, chericeve un salario annuo; lavora egli stessoalle viti e sorveglia i lavoranti giornalieri.A Marsala, invece, il vignere prende l’im-presa di tutti i lavori della vigna a esta-

glio, ossia a un tanto, ordinariamente 24lire, per ogni 1000 piante. Egli deve faredue arature fra le viti, la potatura, e ognialtro lavoro, prendendo per suo conto igiornalieri necessari: la spesa di vendem-mia però è a metà col padrone. A un con-tadino che abbia due o tre ragazzi infamiglia si affiderà circa una salma diterra a vigna, ossia circa 12.000 piante. In

41

ogni vigna, che non sia piccolissima, evviuna casetta, che ha generalmente unprimo piano oltre quello terreno. L’aspettodi tutte queste casette è sorridente, e dàun’impressione di benessere dei contadi-ni, forse anche maggiore della realtà, poi-ché l’abitazione vera del contadino èquasi sempre ristretta a una stanza, e ilresto della casa è riservato esclusivamen-te al proprietario della vigna, che va astarvi durante la vendemmia. La condi-zione però della classe dei vigneri sembraessere veramente un po’ migliore chealtrove. Anche pei giornalieri il lavoro èpiù continuo e i salari generalmenteabbastanza alti, oscillando intorno alle1,50 lire, compreso sì e no un litro di vino"(Sonnino, 1974, pp. 60–62).

Tuttavia, il viaggiatore toscano non èdisponibile più di tanto a lasciarsi condi-zionare da una rappresentazione a tintetroppo rosee. Sonnino, a conclusione, notale non felici condizioni dei contadini e ipatti speculativi praticati dagli Inglesi: "Ipiccoli censuari e proprietari sono tuttiindebitati; spesso se l’annata è cattivanon giungono a rimborsare col prodottodella vigna le anticipazioni ricevute.Allora il residuo debito vien rimesso alraccolto futuro, e quasi sempre senzaaggiunta di frutti. Gli stabilimenti com-prano o l’uva, o il mosto, secondo ladiversità dei loro bisogni; spesso nel farele anticipazioni si riservano il diritto difare essi stessi la vendemmia, e nei giorniche a loro piacerà; ne ritraggono il van-taggio di cogliere l’uva più matura colritardare la vendemmia, il che migliora laqualità del vino, ma ne diminuisce laquantità a scapito del proprietario"

(Sonnino, 1974, p. 63). E poi ancora sotto-lineava gli inconvenienti della monocoltu-ra: "Evvi sempre il grande inconvenientedella unicità di coltura, che sottopone laclasse agricola a gravi sofferenze ad ognicrisi che avvenga per ragioni qualsiasi nelcommercio di quell’unico prodotto princi-pale. Così col ribasso del prezzo del vino,quest’anno (1876) i salari dei giornalierisi sono ridotti quasi alla metà, e manca illavoro" (Sonnino, 1974, p. 62).

Sonnino ha ragione, perché al momentodella crisi agraria l’industria marsalese nonsarà risparmiata. Anche il settore più dina-mico non sarà insensibile alle variazionidella congiuntura. Eppure il boom dell’e-sportazione e dei prezzi del vino continuafino alla fine degli anni ottanta, quando giài prezzi di altri prodotti (ad esempio ilgrano) sono in flessione. Secondo i datiforniti dal ministero di Agricoltura, e ripre-si da Cancila, a partire dal 1880 l’esporta-zione del vino italiano raddoppia: da536.000 ettolitri a 1.076.581, di cui quasi700.000 ettolitri sono utilizzati in Franciacome vino da taglio. Da allora si mantienesempre su una media di due milioni diettolitri l’anno, sino al 1887, quando se neesportano oltre tre milioni e mezzo, di cuiquasi tre milioni solo in Francia.

Sono anni di grande euforia. In aumen-to è anche l’esportazione del vino liquoro-so. Proprio negli anni ottanta nelTrapanese sorgono ben sei stabilimentivinicoli, a fronte dei cinque impiantati nelventennio precedente, che si aggiungonoagli antichi stabilimenti inglesi, attivi giàanteriormente all’unificazione. Le richiestedel mercato e gli alti prezzi incoraggianoulteriormente i siciliani a impiantare nuovi

Studi Garibaldini

42

Marzo 2004

vigneti, a danno soprattutto di uliveti, dicarrubeti e di agrumeti. A seguito di questenuove trasformazioni la produzione di vinonel 1886 balza a 8.370.966 ettolitri, perassestarsi negli anni successivi sempre al disopra dei sei milioni di ettolitri. In realtà, lavitivinicoltura siciliana sta sfruttando, inquesta fase, la diffusione della distruttivaepidemia della fillossera nei vigneti france-si e ungheresi, che costringe l’industriaenologica di quei paesi ad approvvigionar-si laddove gli impianti sono ancora sani ein piena produzione, cioè in Italia.Nell’espansione del vigneto si cumulanodunque gli impulsi di fondo del progressoeconomico ottocentesco, destinati a scon-volgere anche questa remota periferiamediterranea, e le tensioni assai più con-giunturali e (come affermarono gli stessicontemporanei) "speculative", dovute aun’irrepetibile condizione di vantaggiomercantile.

La fillossera compare anche in Italia, epartendo dalla Sicilia orientale comincianel 1880 un’opera di distruzione dei vigne-ti allora esistenti, che si dimostrerà presso-ché totale. Intanto i concorrenti ricostrui-scono i loro impianti e, contemporanea-mente, si vanno affermando in tutt’Europaspinte verso il protezionismo agricolo,destinate a frenare sul breve periodo lo svi-luppo degli scambi, e sul medio periodo amutare gli assi fondamentali delle relazionicommerciali. Nel 1887 si verifica la "guerra"commerciale tra Italia e Francia che pena-lizza soprattutto l’esportazione vinicolasiciliana e pugliese. Sul tavolo del presi-dente del Consiglio, Francesco Crispi, arri-vano le richieste per l’adozione di provve-dimenti a favore della viticoltura. Prefetti,

Camere di commercio, comizi agrari invo-cano agevolazioni fiscali, facilitazioni neitrasporti e soprattutto nuovi trattati com-merciali. Anche la corporazione marsalesesi muove, attraverso l’intervento di Florio,per modificare la tassa sugli alcool.

Tollerata fino a quando la congiunturaera stata positiva, questa tassa, che diventapiù pesante nel 1889 a seguito delle esi-genze finanziarie, esclude il rimborso per ivini che hanno un’alcolicità inferiore ai15%. "Accordare, scrive Florio al presiden-te del Consiglio, oltre ai 15 gradi il benefi-cio di drawback per gli alcools di cui sifatturano i nostri vini onde renderli ser-bevoli è un desolante errore, che chiuderàalla nostra produzione la via dei mercatistranieri, dove non si potrebbe trovare,nel prezzo del vino, il compenso del daziograve che andrebbe perduto per la man-canza di una restituzione equa, la qualese poteva considerarsi un po’ protettricedegli 11 gradi non potrebbe sorpassarequella dei 13 gradi che è la vera mediadella alcoolicità dei vini siciliani, i qualipure in Italia sono i più vigorosi che siproducono. […] Colla proposta nostra l'il-lecita speculazione di spedire vini pernatura fortemente alcoolici onde ottenereil rimborso di somme che non furono real-mente pagate, sarà resa impossibile. Noidi Marsala non faremo guadagno adanno delle Finanze, ma otterremo che lanostra industria non venga schiacciata"(PC 1890, f. 48, Florio a Crispi, Palermo, 27dicembre 1889).

Le pressioni provenienti dalle zone vita-te attenueranno il rigore che ha ispirato ildecreto governativo. Poi arriveranno inuovi trattati con la Germania, l’Austria e la

43

Svizzera. Non basteranno per riparare idanni provocati dalla guerra commercialecon la Francia. Fillossera e crisi commercia-le sono alla base del decremento sia dellaproduzione sia della superficie vitata. Per ilperiodo 1890-94 la superficie vitata dellaSicilia scende a ettari 280.000 (si è quasidimezzata). E dopo continua ancora aridursi sino ai 162.000 ettari del 1906. Laproduzione del vino, che nel 1891 si èmantenuta ancora alta (ettolitri 6.855.000),nel 1892 crolla a 3.946.000 ettolitri, perattestarsi a 3.248.000 ettolitri negli anni1901-1905. Per quel che riguarda la provin-cia di Trapani la superficie vitata si dimezzapassando da 65.000 a 35.000 ettari. Allacontrazione del vigneto corrisponde unritorno alla cerealicoltura estensiva (l’areaa frumento passa da 95.000 ettari dell’in-chiesta Damiani a 120.000 dell’inchiestaLorenzoni). Il crollo dell’esportazione vini-cola trascina alla rovina le banche popolarie il ceto mercantile, mentre la contempo-ranea crisi delle saline e della pesca delcorallo alimenta l’endemica tensione socia-

le del proletariato urbano. Gli anni novan-ta sono gli anni più bui dell’economia ita-liana. Per la Sicilia sono anni drammatici. Sispezza in tutto il Mezzogiorno e in Sicilia ilcircuito della trasformazione “facile”. Molteprovince dell’isola sono ridotte a dispera-zione. La crisi politica di fine secolo è stret-tamente legata alla grave situazione econo-mica. In Sicilia, la protesta esplode con ilmovimento dei Fasci.

La ripresa della viticoltura si avrà neldecennio giolittiano. A facilitarla saranno lanuova congiuntura favorevole a livellomondiale e la ricostruzione di parte deivigneti distrutti dalla fillossera, grazieall’impiego del vitigno “americano” piùresistente rispetto a quello “latino”. Levette degli anni ottanta non saranno piùraggiunte. Si aprono però nuovi sbocchicommerciali, più modesti ma certi; e pro-cede seppur lentamente la selezione di vinida tavola e di pregio. Nel 1903 risultanoricostruiti già 73.000 ettari di vigneto e nel1910 i 3/5 della superficie precedentemen-te vitata, grazie all’innesto dei vitigni ame-

Studi Garibaldini

44

Marzo 2004

45

Bibliografia

Abbreviazioni: ACS = Archivio Centrale dello Stato, Roma.PC = Presidenza del Consiglio.Atti Giunta = Atti della Giunta parlamentare per la inchiesta agraria e sulle condizioni della

classe agricola, vol. XIII, Roma 1885: tomo I: f. I, Parte generale; f. II, Statistica dei beni rustici pos-seduti dagli Enti morali per ciascun Ente e per ogni comune; f. III, Relazione generale; tomo II: f.IV, Descrizione per circondario delle condizioni dell’agricoltura e delle condizioni economiche,sociali e morali della classe agricola; f. V, Statistiche agrarie.

ricani sperimentati con successo dai comizie dai consorzi agrari. A sollecitare la ricosti-tuzione dei vigneti sono intervenute, oltrealla congiuntura favorevole, la fillosserache ha cominciato a decimare la viticolturaaustriaca, le concessioni ottenute dai nuovitrattati con la Germania e con l’Austria-Ungheria, a cui bisogna aggiungere la ria-pertura della frontiera francese con l’accor-do commerciale del 1898. Con nuove tec-niche e appropriate scelte produttive laviticoltura siciliana si prepara faticosamen-te a sostenere la concorrenza agguerrita deivini francesi e spagnoli, cercando di evitaregli scossoni che hanno caratterizzato glianni ottanta e novanta.

L’esportazione ritorna a crescere, ma abeneficiare di questa ripresa sono i gran-di proprietari che hanno avuto spiritoimprenditoriale e disponibilità finanzia-ria per coprire le notevoli spese di reim-pianto e per ammodernare l’industriaenologica. Ancora l’inchiesta Lorenzonici dimostra come i vigneti razionali e glistabilimenti enologici siano opera deimaggiori agrari siciliani: Rudinì aPachino, Florio a Marsala, Camporeale aSan Giuseppe Jato, Tasca-Lanza aPalermo sono i protagonisti della ristrut-turazione viticola attraverso l’uso razio-

nale degli innesti e il perfezionamentodei sistemi di vinificazione.

Soltanto nel 1904-1906 ricompare lacrisi di sovrapproduzione per il mancatoassorbimento da parte dell’Austria, dovenel frattempo sono stati ricostruiti i vigne-ti, e per la rinnovata concorrenza dei vinispagnoli. Nonostante la restrizione deglisbocchi europei e la flessione dei prezzi,l’esportazione dei vini siciliani riprendevigore negli anni successivi, almeno finoal 1912, soprattutto per la costante tenutadei mercati americani. Per soddisfare ladomanda di vino proveniente dal conti-nente americano si costituisce nel 1910l’industria “Vini Marsala” che vede impe-gnati il gruppo D’Alì Staiti e il baroneGiovanni Chiaramonte Bordonaro.Proprio nello stesso periodo nasce lasocietà di navigazione “Sicula Americana”con lo scopo di esercitare le linee transo-ceaniche e verso Stati Uniti, Brasile eArgentina.

Il quadro economico relativo alla viticol-tura, ma anche di altri settori, è caratteriz-zato da una lenta, ma costante ripresa. Laguerra mondiale, però, troncherà moltedelle relazioni commerciali avviate, ponen-do in senso assai diverso i temi dello svi-luppo agricolo siciliano.

Studi Garibaldini

46

A.C.S, Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875-76), a cura di S.CARBONE E R. GRISPO, con introduzione di L. Sandri, voll. I-II, Bologna 1969; si veda soprattutto la rela-zione di R. BONFADINI, vol. II, pp. 1037-1183.

V. ADRAGNA, L’alienazione dell’asse ecclesiastico in provincia di Trapani (1867–1891), in"Trapani", 12 (1967), n. 6, pp. 19-25.

G. ASTUTO, Agricoltura e classi rurali in Sicilia (1860-1880), in "Annali del Dipartimento diScienze storiche", Facoltà di Scienze politiche di Catania, 1 (1980), pp. 177–253.

G. ASTUTO, Abele Damiani e la Sicilia post-unitaria, Catania 1986.G. BARONE, La cooperazione agricola dall’età giolittiana al fascismo, in Istituto Regionale per il

Credito alla Cooperazione, Storia della cooperazione siciliana, a cura di O. Cancila, Palermo 1993,pp.227–304.

O. CANCILA, Variazioni e tendenze dell’agricoltura siciliana a cavallo della crisi agraria, in Aa.Vv., I Fasci siciliani, vol. II, Bari 1976, pp. 237–296.

O. CANCILA, La Sicilia nel primo quarantennio post–unitario: aspetti socio–economici, in IstitutoRegionale per il Credito alla Cooperazione, Storia della cooperazione siciliana, cit., pp. 29–66.

A. DAMIANI, Discorso agli elettori di Marsala il 5 settembre 1895, in Marsala ad A. Damiani, Marsala1907.

L. FRANCHETTI-S. SONNINO, Inchiesta in Sicilia, Firenze 1877. L’opera è stata ristampata nel 1974dall’editore Vallecchi, con una nota storica di Z. Ciuffoletti.

G. GIARRIZZO, La Sicilia e la crisi agraria, in Aa. Vv., I Fasci siciliani, vol. I, Bari 1975, pp. 7–80.E. IACHELLO, Stato unitario e disarmonie regionali. L’inchiesta parlamentare del 1875 sulla

Sicilia, Napoli 1987.Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nella

Sicilia, vol. IV, Sicilia, t. I, Relazione del delegato tecnico Giovanni Lorenzoni, Roma 1910.S. JACINI, I risultati dell’inchiesta agraria. Relazione pubblicata negli Atti della Giunta per la

inchiesta agraria, ristampa a cura e con introduzione di G. Nenci, Torino 1976.G. LO GIUDICE, Le conoscenze agrarie e la loro diffusione in Sicilia tra l’800 e il ’900. L’Istituto

Agrario Castelnuovo, Napoli 1998.S. LUPO, Il giardino degli aranci. Il mondo degli agrumi nella storia del Mezzogiorno, Venezia

1990.F. MAGGIORE-PERNI, Sulle condizioni economiche agrarie della Sicilia in rapporto alle altre regio-

ni italiane, in "Giornale della Regia Commissione di agricoltura e pastorizia per la Sicilia", serie VIII,Palermo 1877, f. I.

Maic (Ministero Agricoltura Industria e Commercio), Relazione intorno alle condizioni dell’agri-coltura nel quinquennio 1870-74, 3 voll., Roma 1876.

D. MARUCCO, L’amministrazione della statistica nell’Italia unita, Bari 1996.G. MONTRONI, Società e mercato della terra, Napoli 1983.V. MORTILLARO, Notizie economico-statistiche ricavate sui catasti di Sicilia, Palermo 1854.F. RENDA, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. I, I caratteri originari e gli anni della unifi-

cazione italiana, Palermo 1984.R. ROMEO, Il Risorgimento in Sicilia, Bari–Roma 1950.A. SIGNORELLI, Tra ceto e censo. Studi sulle élites urbane nella Sicilia dell’Ottocento, Milano 1999.V. STRINGHER, Note sulla coltivazione dei cereali in Sicilia, Atti Giunta, vol. XIII, f. III, pp. 96-113.V. STRINGHER, Notizie sull’Italia agricola, in L’iniziativa del Re d’Italia e l’Istituto internazionale

di Agricoltura. Studi e documenti, Roma 1905.SVIMEZ, Statistiche sul Mezzogiorno d’Italia, 1861–1953, Roma 1954.

Marzo 2004

47

Dopo la seconda guer-ra mondiale, si è avutoun notevole aumentodella produzione vinicolaed attualmente l’Italia,assieme al Portogallo,detiene il primato euro-peo del consumo di vino.Infatti, sebbene la quotaconsumata si sia ridottadi oltre il 50% a favore dialtre bevande alcolichequali la birra, il numerodi coloro che bevono abi-tualmente vino risultaaumentato, peraltro con una riduzionesignificativa degli episodi di abuso. Sipotrebbe quindi, a buon diritto, ritenere lanostra una nazione dai consumi intelligen-ti, eppure l’Italia si trova in coda, tra lenazioni europee, per quanto attiene ladocumentazione in materia di “vino e salu-te”. In Spagna, ad esempio, la metà deimedici consiglia ai propri pazienti il regola-re consumo di modiche quantità di vino,mentre in Italia la percentuale è del 3%.

Qualche anno fa, un sondaggio commis-sionato dall’ Istituto Regionale della Vite edel Vino della Sicilia in oltre 2600 soggettiabitanti in 460 comuni italiani, ha riportatoche il 24% degli intervistati beve quotidia-

namente vino: di questi il35% ha dichiarato diconoscere i benefici car-diovascolari del modera-to consumo di vino.

Dal punto di vista bio-chimico, il vino si com-pone per la maggiorparte di acqua (75-90%).Una quota variabile dal 4al 16% è rappresentatadall’etanolo mentrecomposti fenolici, vita-mine, sali minerali enumerose altre sostanze

coprono il rimanente 10-15%.L’ Organizzazione Mondiale della Sanità

raccomanda, per gli adulti di sesso maschi-le, una assunzione giornaliera di 40 g dialcool puro (per ottenere i grammi occorremoltiplicare il grado alcolico della bevan-da per 0,79). Tale quota andrà progressiva-mente ridotta (fino al 50%) col progrediredell’età e nei soggetti di sesso femminile.

Già nel 1974 Klatsky e colleghi segnala-vano una significativa relazione inversa traconsumo di bevande alcoliche ed inciden-za di infarto miocardico, con un picco dimortalità tra gli astemi. Lo stesso autoredimostrava che i benefici del consumo dialcool erano eguagliati solamente da alme-

Vino e protezione cardiovascolaredi Gregorio Caimi

Studi Garibaldini

48

no 5 anni di regolare esercizio fisico. Circa20 anni dopo, Renaud e de Lorgeril pub-blicavano i dati relativi all’ormai famoso“Paradosso Francese”, mostrando come lapopolazione francese, nonostante unanotevole assunzione di grassi, avesse unamortalità cardiovascolare tra le più bassed’Europa. Il consumo di vino, soprattuttorosso, unitamente ad un regime alimentarepiù simile a quello mediterraneo, potevaspiegare questa osservazione. Non dobbia-mo infatti dimenticare che, oltre al vino, ilconsumo di alimenti quali pesce, cereali,legumi, olio d’oliva, frutta e verdura (tipi-camente combinati nella dieta mediterra-nea) contribuisce significativamente allostato di salute cardiovascolare. In Spagna,ad esempio, nel periodo compreso tra1966 e 1990, è stata osservata una signifi-cativa riduzione della mortalità dovuta adeventi cerebro- e cardiovascolari, nono-stante nello stesso periodo sia aumentato ilconsumo di carne e formaggi e diminuito,invece, l’apporto di olio d’oliva e cibi ricchidi carboidrati. Questo fenomeno, cono-sciuto come “Paradosso Spagnolo”, è statospiegato con la riduzione del fumo di siga-retta e con l’aumentato consumo di pescee frutta. Infatti, nelle regioni mediterraneedella stessa nazione, caratterizzate da unminore consumo di pesce e vino, la morta-lità per cardiopatia ischemica è più elevatache in altre zone della Spagna.

La relazione inversa esistente tra con-sumo di vino e morbidità/mortalità car-diovascolare è stata ampiamente confer-mata nella letteratura scientifica interna-zionale e la spiegazione dei benefici deri-vanti dal consumo di vino risiede neinumerosi effetti che esso esplica a livello

di assetto lipidico e lipoproteico, stressossidativo, parametri coagulativi e aggre-gazione piastrinica.

Per quanto attiene all’assetto lipidico, èdimostrato che il vino aumenta l’HDL-Colesterolo (in particolare la subfrazioneHDL3) e riduce il colesterolo LDL. Talieffetti sono per lo più ascrivibili alla quotanon alcolica del vino ed, in particolare, aipolifenoli di cui, nel vino, esistono oltre100 varietà, tutte dotate di attività antiossi-

Marzo 2004

dante. E’ infatti dimostrato che i polifenoli(maggiormente presenti nei vini rossirispetto ai bianchi) inibiscono, più dellavitamina E, l’ossidazione delle LDL cheriveste, come è noto, un ruolo chiave nelprocesso aterogenetico. L’ossidazione coin-volge la quota proteica (apo B) delle LDL ene impedisce la rimozione dal circolo. Tra ipolifenoli, il resveratrolo si è dimostrato ingrado di ridurre l’ossidazione degli acidigrassi poliinsaturi normalizzando la rimo-zione delle LDL.

Il vino influenza anche la coagulazione.Esso, infatti, riduce i livelli di fibrinogeno edantitrombina III (AT III) notoriamente coin-volti nei processi trombotici. Ne consegueche il vino, diversamente da birra e liquori iquali, a distanza di 24-48 ore dall’assunzio-ne possono essere causa di eventi ischemici,non mostra alcun effetto rebound.

La protezione cardiovascolare si realizzaanche attraverso gli effetti del vino sull’ag-gregazione piastrinica. Si ritiene che l’as-sunzione quotidiana di 3 bicchieri di vinorosso inibisca significativamente l’attivitàpiastrinica proteggendo così l’albero coro-narico dagli eventi trombotici. Rispetto adaltre bevande (tra cui il succo d’uva) il vinorosso si è dimostrato maggiormente ingrado di inibire l’aggregazione piastrinica,influenzando anche la sintesi di trombossa-no B2, dotato di attività protrombotica.Queste osservazioni hanno portato apostulare un’azione “aspirino-simile” delvino e sebbene, anche dopo studi supazienti infartuati, gli effetti dell’aspirina edel vino sulla funzione pistrinica duranteeventi coronarici acuti rimangono contro-versi, l’argomento assume particolare inte-resse soprattutto se consideriamo che ano-

malie della coagulazione ed uno stato pro-trombotico sono associati ad un rischiomaggiore di eventi ischemici.

Occorre comunque ribadire che gli effet-ti del vino vanno inseriti, più correttamen-te, nell’ambito più ampio di un regime ali-mentare nutrizionalmente bilanciato. Inquesto senso, la dieta mediterranea mostrauna netta superiorità nei confronti di altrimodelli alimentari. Esistono, infatti, nume-rosi dati che confermano la stretta relazio-ne esistente tra fattori dietetici e coagula-zione per cui l’attività del fattore VIII vieneridotta da una dieta, quale la mediterranea,ricca di fibre e carboidrati e povera di gras-si mentre il consumo quotidiano di cipollepotenzia l’attività fibrinolitica.

Il regolare consumo di olio d’oliva, nutrien-te cardine del modello alimentare mediterra-neo, aumenta i livelli di HDL-colesterolo, ridu-ce le LDL ossidate, svolge azione antitromboti-ca (grazie all’acido oleico) e stimola la vasodi-latazione endotelio-mediata, grazie ad un suocomponente, l’oleuropeina, che potenzia laproduzione di nitrossido.

Il vino protegge l’apparato cardiovasco-lare anche in maniera indiretta in quanto,come dimostrato da uno studio di grandiproporzioni (oltre 46000 soggetti) esisteun’associazione inversa tra il consumo dibevande alcoliche ed il rischio di andareincontro alla malattia diabetica. Infatti, l’as-sunzione regolare (almeno 5 giorni a setti-mana) di 2 bicchieri di vino, riduce del 36%il rischio di ammalarsi di diabete.

Quindi si può concludere che il regolareconsumo di moderate quantità di vino, nel-l’ambito di un regime alimentare corretto,riduce significativamente la morbidità e lamortalità cardiovascolare.

49

Bibliografia essenziale

KLATSKY AL, FRIEDMAN GD, SIEGELAUB AB.Alcohol consumption before myocardial infarction. Results from the Kaiser-Permanente epide-

miologic study of myocardial infarction.Ann Intern Med 1974; 81:294-301.

RENAUD S, DE LORGERIL M.Wine, alcohol,platelets and the French paradox for coronary beart disease.Lancet 1992;339:1523-1526.

SERRA-MAJEM L, RIBAS L, TRESSERRAS R, NGO J, SALLERAS L.How could changes in diet explain changes in coronary heart disease mortality in Spain? The

Spanish paradox.Am J Clin Nutr 1995; 61(6 Suppl): 1351S-1359S.

RODRIGUEZ ARTALEJO F, BANEGAS JR,GARCIA COLMENERO C, DEL REY CALERO J.Lower consumption of wine and fish as a possibile explanation for higher ischaemic heart disea-

se mortality in Spain’s Mediterranean region.Int J Epidemiol 1996 ; 25(6):1196-1201.

FREMONT L,GOZZELINO MT,LINARD A.Response of plasma lipids to dietary cholesterol and wine polyphenols in rats fed polyunsatura-

ted fiat diets.Lipids 2000;35: 991-999.

SEREBRUNY VL, LOWRY DR;GUSTO-III PLATELET STUDY.Take an aspirin or have a drink: antecedent aspirin and moderate alcohol consumption simi-

larly affect baseline platelet characteristics in patients with acute myocardial infarction.Thromb Haemost 2000; 84: 933-934.

VISIOLI F, BELLOSTA S, GALLI C.Oleuropein, the bitter principle of olives, enhances nitric oxide production by mouse macropha-

ges.Life Sci 1998; 62: 541-546.

CONIGRAVE KM, HU BF, CAMARGO CA JR, STAMPFER MJ, WILLET WC, RIMMEB.A prospective study of drinking patterns in relation to risk of type 2 diabetes among men.Diabetes 2001; 50: 2390-2395.

Studi Garibaldini

50

Marzo 2004

Definire impropria laconsiderazione di Garibaldicome “capo di partigiani” èsolo un eufemismo.

Si sa che questa e con-simili definizioni (daquella più benevola di“guerrigliero” al crescen-do di “pirata”, “contrab-bandiere”, “capo dimasse, di canaglia qua elà raccozzata” hannointento sempre svalutati-vo quando non diffama-torio quali che siano leragioni e sia che provengano da CarloPisacane o da pulpiti assai meno prestigio-si ed anche attuali.1 Tuttavia questi intentisvalutativi non erano diffusi in tutto l’eser-cito italiano come già si era visto nel seco-lo scorso (Agostino Ricci, Nicola Marselli) ecome è sentito, si può dire, coralmente neiconvegni di studi avvenuti nel 1982 inoccasione del centenario.2

Non perdiamo tempo a ribadire che ladefinizione di “capo partigiano” è in sétutt’altro che disonorevole e che probabil-mente Garibaldi sarebbe stato un ottimocapo partigiano e può darsi (non ho stu-diato abbastanza per dirlo) lo sia magaristato nella sua fase “americana”. Dico solo

che nella sua fase italo-europea (1848-1871) eglinon ebbe mai occasionedi esserlo mentre com-batté sempre da genera-le, chiamiamolo così,“regolare”.

Non tratterò il punto seegli sia stato un “buongenerale”: fra l’altro per-derei tempo perché misembra che i risultati parli-no per lui. Mi interessasolo verificare se abbiaavuto occasioni di combat-

tere da guerrigliero e se lo abbia mai fatto.Definiamo la guerriglia, o come allora

più spesso si diceva “guerra per bande”,tanto un’insurrezione generale popolare(quella ipotizzata da Carlo Bianco doJorioz, per intenderci) quanto e soprattut-to una lotta combattuta da effettivi volon-tari di scarsa consistenza fatta di colpi dimano, razzie, cattura di prigionieri e bot-tino, agguati soprattutto intesi a rendereinsicure le comunicazioni avversarie, conl’appoggio tacito della popolazione ed inconcomitanza, vicina o lontana, ai movi-menti di eserciti regolari aventi lo stessonemico (come i corpi inglesi in Spagnadurante le guerre napoleoniche o quelli

51

Garibaldi militaredi Lucio Ceva

francesi nella seconda fase della guerra1870–1871). Quando mai Garibaldi fecetutto ciò? Mi limito a pochi esempi:

1848

In questa prima campagna ove Garibaldiguida forze piccole e variabili (oscillaronotra i 200, i 1500 e i 3700 uomini) dipen-denti dal Governo provvisorio lombardo,egli sperò certamente di combattere ancheuna guerra per bande, ma non fu possibile.

Il primo ordine ricevuto dal comandopiemontese (gen. A. Olivieri, commissarioregio) di accorrere verso Milano per mole-stare il fianco e le spalle del nemico che l’e-sercito sardo intendeva affrontare alleporte della capitale lombarda, non è certoun ordine di carattere partigiano.3

Ma anche dopo l’armistizio Salasco,mentre Mazzini si era affrettato a dichiara-re “è finita la guerra regia e incominciaquella di popolo”, Garibaldi, pur auspi-cando anche una “guerra per bande”, fasempre conto sulla ripresa di una guerraregia (l’armistizio doveva essere rinnovatodi mese in mese e la situazione internadell’Impero lasciava sperare che rinnovinon ve ne sarebbero stati o sarebbero statipochi). Scriverà più tardi nelle sue memo-rie che gli era nata la speranza di porta-re i concittadini nostri a quella guerra dibande (che potrebbe preludiare almenoall’emancipazione della patria).4

Prendiamo atto di quel “preludiare” chesottintende il far conto non sulla solaguerra per bande.

Sappiamo tutti come si svolse la brevecampagna dal successo di Luino fino all’e-pilogo (non tatticamente fallito) diMorazzone.

Importante è notare:- che il tentativo di guerra di popolo

(mancato come tale per la non partecipa-zione delle campagne) raggiunse comun-que dimensioni notevoli al punto da impe-gnare 6 brigate austriache;

- che esso tolse a Garibaldi anche per ilfuturo la speranza di una guerra anche di“mero popolo”;

- che egli operò sempre in vista di unaripresa della guerra regolare;

- che in tali operazioni mostrò talunedelle sue caratteristiche di generale comela ricerca della sorpresa e l’uso intelligentedella cavalleria (sul quale ritornerò)anche se per allora si trattava di poche spa-rute squadre di cavalieri.

1849

Nella notissima parte giocata daGaribaldi in difesa della RepubblicaRomana importa mettere in rilievo:

- l’accortezza operativa mostrata daGaribaldi nella vittoria sui francesi del 30aprile a porta San Pancrazio ove coordinòla propria azione mobile da fuori le muracon la difesa delle mura avvolgendo leforze di Oudinot in una trappola non sfrut-tata a fondo più che per scarsità di cavalle-ria (anche i soli 45 cavalieri di Masina inquelle circostanze avrebbero fatto molto)quanto per le remore politiche di Mazzini;

- le operazioni contro i borbonici aPalestrina (9 maggio) e a Velletri (19-20maggio) sono notevoli tentativi di portarela guerra sulle comunicazioni avversariecoronati da successi solo tattici e non salitialle soglie operativa e strategica. Il primoper il richiamo a Roma da parte di Mazzinied il secondo per l’insipienza del suo supe-

Studi Garibaldini

52

Marzo 2004

53

riore gen. Roselli che, probabilmente inge-losito, gli fece mancare i rinforzi al momen-to decisivo, permettendo ai borbonici disfuggire all’avvolgimento già imbastito.

In tutti questi casi Garibaldi mostrò dotidi prim’ ordine tendendo a portare la guer-ra fuori Roma e sulle comunicazioni nemi-che, sempre cercando l’inseguimento e losfruttamento del successo.

La difesa finale contro i francesi (3 - 29giugno) è notissima pagina di eroismo etenacia da parte di Garibaldi e dei suoi.

Più strategicamente essa appartiene aMazzini che, diversamente da Garibaldied anche da Pisacane, reputava politica-mente più importante finire in bellezzasotto le mura di Roma che non portare laguerra fuori dalla città sulle comunicazio-ni avversarie.

Quanto alla famosa ritirata (3-31 luglio)ci sembra importante notare che:

- Garibaldi lasciato libero di “proseguirela guerra nelle province con piena autoritàavuta regolarmente dai rappresentanti delpopolo” non cerca la guerra per bande,ma tenta di riunirsi ad altri centri di resi-stenza di cui aveva notizia: prima laToscana e poi Venezia;

- nella sua celebrata abilità nel districarsida quattro eserciti (in realtà non ne ebbemai contro più due per volta e soprattuttofu aiutato dalla rivalità tra francesi edaustriaci per cui, sfuggito ai primi, poté lot-tare solo contro i secondi), elementi essen-ziali l’imposizione di una disciplina ferrea(anche con fucilazioni)5 tanto più necessa-ria per l’ostilità delle popolazioni guidatedal clero e in assenza dei suoi miglioriufficiali (Bixio ed altri) e soprattutto l’ usosapiente della sua cavalleria sempre

minuscola ma comunque salita fino ad 800cavalieri soprattutto dragoni ex pontefici(tra i quali Ignazio Bueno, Emilio Müller edalcuni eccellenti capi-squadrone) dopo lafine sotto Roma di Masina e di gran partedei suoi 45 cavalieri.

Su tale uso della cavalleria rinvio aquanto scrisse in uno studio del 1984 6

uno specialista della materia, MarzianoBrignoli che per anni diresse con passionee competenza le raccolte storiche delcomune di Milano:

“La cavalleria garibaldina, circa 800cavalli, era ben montata, ma la bardatu-ra lasciava a desiderare, così come ilvestiario; non aveva alcuna nozione dimanovra d’insieme cosicché malamenteavrebbe tenuto l’urto di una cavalleriaregolare in campo aperto”. Gli uomini“erano però in media buoni cavalieri edarditi”, particolarmente addestrati al ser-vizio di “esplorazione e requisizione”. I(resti dei) “lancieri” di Masina, che eranofra i più capaci, fornivano “quasi sempre lascorta al generale ed allo Stato Maggiore”.

Durante questa ritirata condotta in“situazioni spesso drammatiche” rifulserole doti “di Garibaldi quale comandante dicavalleria”. In marcia per esempio distac-cava pattuglie di cavalleria 4 o 5 km“avanti l’avanguardia”. Ove possibilealtre pattuglie fiancheggiavano la marcia sustrade parallele. In alcune circostanze lepattuglie di cavalleria incaricate dell’ esplo-razione e della sicurezza “si spinsero fino a15 km dalle proprie fanterie che si muove-vano protette dallo schermo della cavalle-ria la quale osservava senza essere osser-vata”. Dunque un perfetto impiego dell’ar-ma a cavallo in quell’ importantissimo “ser-

Studi Garibaldini

54

Marzo 2004

vizio dell’osservazione, di cui era così sol-lecito il grande Napoleone, che definiva lepattuglie di cavalleria occhi dell’ esercito”.

“Con abili stratagemmi, marce nottur-ne, false informazioni propalate ad arte,Garibaldi riuscì a giocare gli avversari ”.In particolare:

“(…) non lasciò mai inattiva la caval-leria. Talvolta anzi le richiese sforzi sup-plementari come l’8 luglio quando, giuntocon le truppe a Terni, staccava pattuglie dicavalleria a Todi (30 km), a Colle Lambro(15 km), a Spoleto (20 km),a Borghetto sulTevere (30 km) nonché ad Acquasparta(15 km)”.

Così anche durante la sosta ad Arezzo il23 luglio, “le pattuglie di cavalleria sorve-

gliarono tutta la zona circostante per unraggio di 20 km” e, alla partenza dalla cittàtoscana, una “ricognizione di cavalleria sispinse fino a Borgo San Lorenzo a circa 30km da Arezzo”.

Qui vorremmo osservare che, anche infatto di cavalleria, il “guerrigliero” Garibaldidava dei punti ai regolarissimi generali pie-montesi. I reggimenti di cavalieri, prima pie-montesi e poi italiani, erano infatti moltovalorosi ma a condizione di essere impiega-ti come avvenne troppo di rado. Possiamoricordare solo le azioni di pattuglia nelleprime fasi della campagna del ’59, le carichedegli squadroni di “Monferrato” e “Novara”a Montebello di Alessandria.

Ma si pensi allo sciupío fatto da La

55

La battaglia di Calatafimi (Museo del Risorgimento - Milano)

Marmora dei bellissimi dodici reggimenti(con 62 squadroni) di cavalleria italiana aCustoza il 24 giugno 1866.

Lasciamo parlare un “generale regola-re”, Giuseppe Covone eroe della Crimea,di San Martino e Custoza:

“(….) Il 20 giugno era stata inviata ladichiarazione di guerra. Il 23 giugno fortidistaccamenti nostri si impadronivano deiponti sul Mincio, non distrutti né contesidal nemico; il giorno stesso una fortissimama non seria ricognizione della nostracavalleria si avanzava a pochi chilometridal Mincio senza spingersi fin alla lineaesterna dei forti, senza irradiare per ognidove le sue punte e non trovava nella pia-nura nemici. Ciò bastava a far senz’altro

ritenere sgombro da ogni minaccia tutto ilpaese fino all’Adige. Eppure le ultime noti-zie che si avevano del nemico datavanoda due giorni e bastavano due tappe perportarlo sul nostro fronte!” (c.vo mio).

E l’indomani mattina, giorno della batta-glia:

“(...) a gruppi slegati e distanti, coi car-riaggi del treno borghese, pericolosoingombro, frammischiati alle truppe com-battenti, con la cavalleria, occhio dell’e-sercito, seguente dietro la fanteria, senzaistruzioni sufficienti che valessero ad assi-curare ai vari comandanti l’accordo neglisforzi ed il reciproco appoggio e senza unquartier generale cui si potesse far capoper la disposizione d’insieme, l’esercito

Studi Garibaldini

56

“... impavido combattente, sempre pronto a condurre di slancio i propri uomini all’assalto ...”

Marzo 2004

57

principale la mattina del 24 avanzava spen-sieratamente entro il formidabile scacchie-re delle fortezze austriache e si dirigeva adoccupare le colline che a levante diPeschiera chiudono a nord il piano diVillafranca”7.

Se Garibaldi fosse stato al posto di LaMarmora la ricognizione di cavalleria sareb-be arrivata fino all’Adige e a Pastrengo conla conseguenza che la sorpresa di Custoza(e forse la stessa battaglia) non vi sarebbe-ro state.

Senza soffermarci su tutte le impresegaribaldine, ricordiamo soprattutto quantosegue.

Nella guerra del 1859, la campagna deiCacciatori delle Alpi (simile casomai auna guerra di colonne leggere settecente-sche non certo a una guerriglia partigianaper la quale in ogni caso mancava l’ap-poggio delle popolazioni di campagna)diede luogo anche a veri e propri attac-chi frontali (come quello, quasi “cador-niano”, di San Fermo il 27 maggio 1859dove, con altri valorosi, cadde Carlo deCristoforis) e conseguì il notevole succes-so di attirare a sé ben sette brigateaustriache che mancarono a Magenta con-tro i francesi (4 giugno).

Nel 1860 basta considerare tre casi(Calatafimi, Palermo, Volturno) per vederecome Garibaldi si sia trovato di fronte aproblemi di guerra grossa e come li abbiarisolti da generale:

- A Calatafimi (scaramuccia finché sivuole ma tale fu anche Maratona che deci-se della storia dell’ umanità più di Waterlooe di Rossbach) abbiamo: la manovra cioèl’attesa dell’attacco nemico; il contrattaccoimmediato con gravitazione sulla destra

dove il terreno era meno ripido; il tempe-stivo impiego della riserva (battaglioneBixio). E infine la ricerca ostinata e costosadell’evidenza del successo per la necessitàpolitica di guadagnarsi il favore delle popo-lazioni dopo le tiepide accoglienze diMarsala e di Salemi.

- A Palermo l’assalto diretto di una piaz-zaforte, sia pur preceduto da intelligentifinte e ruse de guerre per sviare il nemico,non ci sembra azione da guerriglieri.

Interessante è poi il rapporto con laguerriglia che in Sicilia coinvolgeva anchele campagne. Garibaldi, non solo aPalermo ma in tutta la guerra insulare,coordinò i propri movimenti con l’ azionedelle squadre, senza mai stemperare il suocrescente e ben ordinato corpo di spedi-zione nel mare incontrollabile delle rivol-te. Di rado egli usò solo gli insorti peringrossare il corpo stesso. Adoperò l’uno eprofittò degli altri come strumenti distintiarmonizzandoli quando possibile senzaperò fonderli.

- E chi mai potrà parlare di guerriglia aproposito della battaglia del Volturno (ilpiù grande urto terrestre sostenuto in tuttoil Risorgimento da una forza militare soloitaliana) combattuta su un fronte di oltreventi chilometri con impiego di decine dimigliaia di uomini e decine di cannoni. Frai meriti di Garibaldi si annovera giustamen-te quello di sapersi scegliere i collaborato-ri. Qui infatti Cosenz (il futuro primo capodi S.M. dell’ esercito italiano) ebbe, nell’or-ganizzare lo schieramento dell’esercitomeridionale, una parte che “dimostra lamano di un generale esperto: una linea dicapisaldi opportunamente rinforzati conlavori campali, un ben articolato sistema

di avamposti per escludere ogni possibi-lità di sorpresa, una adeguata riserva col-locata in posizione centrale”.8 E grande fuil merito di Garibaldi nel preparare consicura freddezza la battaglia che si profilavain un momento difficile per vari aspetti: loscacco di Caiazzo (19-21 settembre); i fer-menti di rivolta anti-garibaldina sobillata oguidata dal clero che serpeggiavano inCampania; l’inaridirsi del flusso dei volon-tari (solo 800 volontari napoletani parteci-parono alla battaglia che impedì il ritornoborbonico). Si aggiunga, a proposito digenerali “regolari”, che al Volturno, se l’e-sercito napoletano (truppa e ufficiali) sibatté assai bene, mancarono invece pro-prio l’alto comando ed i generali (primotra tutti il Ritucci) pure allievi anch’essi, al

pari di Cosenz, della giustamente celebrataAccademia della Nunziatella. Un valentecomando borbonico non avrebbe dappri-ma ritardato la battaglia lasciandosi sfuggi-re l’attimo fuggente della crisi garibaldinaed in ogni caso l’avrebbe poi spinta afondo con prolungata ostinazione forsetale da aver ragione di un esercito privo dibasi di alimentazione e rinforzo paragona-bili a Gaeta e Capua.9

Nel 1870-71, Garibaldi, accorso in aiutodella repubblica francese, è inizialmenteconvinto che il governo lo impiegherà inoperazione di guerriglia tanto che detta lefamose “istruzioni” (incidentalmente untesto-modello per questo tipo di guerra).Tuttavia da fine ottobre le sue forze (ini-zialmente “corpo d’armata della armata dei

Studi Garibaldini

58

Assalto alle barricate di Roma - 12 Giugno 1849 (Museo del Risorgimento - Milano)

Marzo 2004

Vosgi” e poi “armata dei Vosgi”) sono impe-gnate in azioni assolutamente estranee allaprevista attività da franc-tireurs… A gen-naio 1871 la sua cosiddetta “armata” di 16-18.000 uomini, suddivisi in 4 piccole bri-gate di fanteria (Bossac-Huke, Delpech poiLobbia, Menotti e Ricciotti Garibaldi), con4 batterie pari a qualche decina di pezzi piùl’11° reggimento di cavalleria misto su 4squadroni e formazioni minori, 3 compa-gnie di genio, impegna a Digione la forte

colonna tedesca su variabile numero di bri-gate. Il nemico infatti deve proteggere danord l’armata Manteuffel diretta all’annientamento di quella di Bourbaki. Intre giorni di combattimento (21-23 gen-naio 1871) Garibaldi difese vittoriosamenteDigione costringendo alla ritirata il nemicoe conquistando una delle due bandiereperse dalla Germania nell’intera guerra:quella del 61° reggimento di Pomerania.10

Proprio un’ azione da guerrigliero?

59

Studi Garibaldini

60

1 Senza pretesa di completezza: C. PISACANE Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849Genova G. Pavesi 1851; Carl von Schönals in Memorie della guerra d’ Italia 1848-49 di un vetera-no austriaco trad. it. Milano Guglielmini 1852 oltre a numerose affermazioni del giornalista stori-cheggiante Indro Montanelli.

2 Ricordiamo gli interventi di militari in Garibaldi generale della libertà Roma SME UfficioStorico 1982.

3 JESSIE WHITE MARIO Garibaldi e i suoi tempi Milano 1887 p.212. L’ ordine è questo:“Italia libera. Ministero della Guerra. Milano 3 agosto1848. Primo anno dell’ indipendenza italia-

na – al generale Garibaldi. L’ esercito regio è concentrato sopra Milano: formerà un campo trincera-to fuori delle mura della città sul lato della Porta Romana. Noi per conseguenza cerchiamo di con-centrare tutte le forze di cui possiamo disporre, per resistere al nemico. Io nella mia qualità di rap-presentante del re vi prego di dirigere addirittura tutte le truppe sotto i vostri ordini, verso Milano,ben sicuro che il gran talento militare che vi distingue vi suggerirà i mezzi migliori per molestare ilnemico al fianco e alle spalle, visto che esso per ora molesta la nostra avanguardia sulle strade con-ducenti a Lodi. Il comandante generale: fto: A.Olivieri “

4 Memorie Bologna Edizione Nazionale 1932 I p.166 (passo scomparso dall’ edizione definitiva).

5 Decreto 5 luglio 1849: “ Chiunque si renderà colpevole di furto per un oggetto di qualsiasi valo-re e natura, si renderà passibile della pena di morte ” eseguito in alcuni casi: Piero Pieri Storia mili-tare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni Torino Einaudi 1962 p.438.

6 MARZIANO BRIGNOLI (cur.) Le carte Missori “Raccolte Storiche del Comune di Milano ” 1984 pp.XIII e ss.

7 Umberto Covone Il Generale Giuseppe Covone. Frammenti di memorie Torino Bocca 1929p.205

8 Così gen. ORESTE BOVIO L’ arte militare di Giuseppe Garibaldi in “Garibaldi generale dellalibertà” cit.p.32

9 Vedi P.Pieri op.cit. pp. 701-711.

10 Vedi, fra gli altri, gen. AMBROGIO VIVIANI 1870 - L’ultima campagna di Garibaldi in MuseoNazionale del Risorgimento Italiano (Cur.Alessandro Galante Garrone e Cristina Vernizzi) “Garibaldidopo i Mille” Torino Palazzo Carignano 1983 pp.51-76. L’altra bandiera era stata quella del 16° fan-teria conquistata dai francesi il 16 agosto 1870 alla battaglia di Vionville-Mars La Tour.

Marzo 2004

Sono anni che tanto sidice e si scrive su GiuseppeGaribaldi. Quasi nulla,invece, si sente sul periododella sua vita, tra il 1849 e il1854, quando vagava per ilmondo, lavorando inAmerica del Nord comefabbricante di candele, inAmerica Centrale comenegoziante itinerante, ed inAmerica Meridionale comecapitano di una nave mer-cantile peruviana.

Quegli anni di esiliofurono un periodo triste della sua vita, unperiodo di fondamentale cambiamento nelsuo modo di vedere i problemi della sogna-ta unificazione d’Italia. Nel 1854, al suoritorno in Italia, non era più mazzinianocome quando era partito nel 1849, masostenitore dell’idea di mettere con fiducianelle mani del Re Vittorio Emanuele II diPiemonte il compito di unire tutti gli italia-ni in uno stato indissolubile.

La cosa che più mi stupisce è come maigli storici italiani garibaldini si siano inte-ressati così poco a questo periodo crucia-le della sua vita. Alla mia domanda inmerito, mi sono state date quasi sempre lestesse risposte:

a) tutto ciò che riguar-da il suo Secondo Esilio ègià stato scritto, perciò èinutile arare un campogià arato;

b) c’è una tale mancan-za di documentazione suquesto periodo della suavita che non vale la penaoccuparsene.

La prima risposta èfalsa: più studio questoperiodo, ed è da oltrevent’anni che ad esso midedico, più vedo che

quanto è stato scritto non solo è assoluta-mente lacunoso, ma anche superficiale. Illavoro già fatto dagli altri, sebbene inbuona fede, devo dire, è tutto da disfare erifare, seriamente e umilmente.

Circa la seconda risposta, sulla mancanza didocumentazione, ho trovato, nell’Archivio diStato di Torino, nella Biblioteca Civica diBergamo e nell’Archivio Storico dellaPropaganda Fide di Roma, documenti ineditiche sono disponibili ai ricercatori da oltrecent’anni, ma che nessuno ha mai visti2. Dopoalcuni miei soggiorni in Inghilterra, usando lerisorse del Public Record Office di Kew, aLondra, del Museo Britannico, del MuseoMarittimo di Greenwich e dell’Università di

61

Il secondo esilio di Giuseppe Garibaldi(1849-1854)1

di Phillip K. Cowie

Cambridge, ho trovato tanti documenti nuoviche, con il materiale già visto in Italia, contri-buiscono a cambiare totalmente l’interpreta-zione quasi sempre accettata su tutto quelperiodo della vita di Garibaldi.

So che la storia d’Italia, tragica e com-plessa com’è, presenta grandi problemi e,al confronto, le visite di Garibaldi nei variporti dell’America del Sud o dell’EstremoOriente non sembrano avere alcunché diinteressante da offrire; ma sostengo chenon si può essere così presuntuosi. Sevogliamo seriamente cercare la ragione diquel grande cambiamento cui ho accenna-to sopra, per spiegare il successivo com-portamento di Garibaldi in Italia, dobbia-mo per forza aprire una vasta ricerca neigrandi archivi dell’Europa e delleAmeriche. Ho provato a farlo e proveròancora; ma trovo che, dopo oltre vent’annidi studio, ripeto, non vedo che la cima del-l’iceberg.

La storia del Secondo Esilio di Garibaldidovrebbe essere letta come una mappamarina dell’Africa dei tempi di Enrico ilNavigatore: i continenti e le coste sonoconosciuti appena, ma i dettagli sono anco-ra immersi in un mare pieno di scogli.

*

Dopo la caduta della RepubblicaRomana (1849), la fuga verso l’Adriatico ela tragica morte della amatissima Anita,Garibaldi si trovò bandito dalla sua terra, ilRegno di Sardegna. La sua presenza neiRegi Stati procurava forte imbarazzo alGoverno di Torino, ancora in lutto per lamorte di quel triste Re che fu CarloAlberto, perché le elezioni per la Camera

dei Deputati, a cui Garibaldi era stato elet-to qualche tempo prima, erano troppo vici-ne. Pagato per allontanarsi, Garibaldi andòprima a Tunisi dove il Bey “protetto” fran-cese non gli permise di sbarcare dal piro-scafo. Poi andò alla Maddalena, ai confinidel Regno Sardo, mentre il GovernoCentrale, a Torino, negoziava il suo destinocon l’Ambasciatore inglese presso la CorteSabauda. Dopo un mese di riposo, fragente generosa e fraterna, andò aGibilterra dove, con estremo imbarazzoper il Governatore inglese, rimase per alcu-ni giorni. Poi partì per Tangeri, semprecolla speranza di rimanere vicino all’Italiacosì che, in caso di un qualsiasi moto libe-ratorio o insurrezionale, contro quei gover-ni che egli considerava nemici della suapatria, potesse facilmente ritornare inpatria. Qui, ospite del Console sardoGiovan Battista Carpeneti, per sette mesi siriposò, andando a caccia ed a pesca, passa-tempi che amava molto. Incominciò a scri-vere le sue “Memorie”: diverse pagine sulsuo passato in America del Sud e sugliamici morti a Roma durante il perfidointervento delle truppe francesi mandatedal Presidente repubblicano della Francia,il cittadino Napoleone, per distruggere laRepubblica di Roma.

A Tangeri, nell’ozio che gli tormentaval’animo, aveva incominciato a formularepiani con un amico genovese, FrancescoCarpaneto, per inaugurare un serviziomercantile trasportando passeggeri e cari-chi diversi fra Genova e New York. Nondimentichiamo che, in quel periodo,Garibaldi era disoccupato e finanziaria-mente alle strette; perciò decise di cercarein qualche modo come potersi guadagnare

Studi Garibaldini

62

Marzo 2004

da vivere con la forza delle sue bracciasenza dover chiedere aiuto ad alcuno: erainfatti un tipo fondamentalmente orgo-glioso ed indipendente.

Nel giugno del 1850 partì da Liverpool,in Inghilterra, per New York, dove giunseil 30 luglio, dopo una tempestosa traversa-ta su un “pacchetto” a vela statunitense.Soffriva di reumatismi tanto che lo sbarca-rono, scrisse nelle “Memorie”, “come unbaule”. Gli Italiani, i Tedeschi ed i Francesidi fede repubblicana, volevano offrirgli unbanchetto di benvenuto, ma lui, uomo fon-damentalmente semplice, rifiutò, anche acausa del malanno di cui soffrirà per tuttala vita. Si ritirò in campagna, a StatenIsland, per alcuni mesi, e non si mosse,tranne che per andare qualche volta a cac-cia con amici.

Nel novembre dello stesso anno s’im-barcò sul “Giorgia”, un piroscafo del servi-zio statunitense, da New York all’Havanaed al fiume Chagres (Panama), e ritorno.3

Ma sembra che la sua collaborazione con il“Post Office” americano sia stata breve:circa un mese. Essa non fu più continuata,non si sa niente del perché.

Nel gennaio-febbraio del 1851 lavoròpresso una piccola fabbrica di candele delsuo amico ed ospite a Staten Island,Antonio Meucci, esule fiorentino, invento-re di professione ed uno dei primi speri-mentatori della filo-trasmissione dei suoni.Garibaldi vi rimase fino alla fine dell’apriledel 1851, quando, con il falso nome di“Joseph Anzani”, partì con due amici geno-vesi, Francesco Carpaneto e Edoardo Reta,per un viaggio di affari nell’AmericaCentrale, visitando il Regno di Mosquito, ilNicaragua ed El Salvador.4 Pare che la loro

idea fosse di proseguire per la California alfine di comprare a buon prezzo qualchenave abbandonata nel porto di SanFrancisco. In America Centrale si perdonole tracce dell’Eroe, anche perché continua-mente cambiava nome per “scansarecuriosi e molestie poliziesche”, come scriveegli stesso nelle “Memorie”.

Garibaldi rimase in Nicaragua per quat-tro mesi, finché dovette lasciare precipito-samente il paese a causa di un colpo distato organizzato dai militari e, pare anche,dal Vescovo di León; sarebbe stato più pru-dente per lui allontanarsi per un certotempo.5 Partì per il Perù perché una nave,di proprietà dell’amico Carpaneto, dovevaarrivare nel porto di Callao in quei giornicon un carico dall’Europa per i porti prin-cipali del Pacifico, Valparaiso, Lima, LaUnion, San Francisco, e essi speravano ditrovarla lì, per poter poi ritornare inAmerica Centrale, continuare i loro affari epossibilmente andare anche in California.

L’arrivo di Garibaldi a Callao, il 5 otto-bre del 1851, fu un momento splendido.I repubblicani italiani a Lima, sapendo delsuo arrivo, mandarono una delegazione alporto per riceverlo e portarlo trionfalmen-te nella capitale. Alla fine del mese il disoc-cupato Garibaldi fu assunto da un certoDon Pedro Denegri che gli diede il coman-do di una sua nave, la Carmen, un vecchiobrigantino, comprato poco prima a SanFrancisco. Alla fine di ottobre ebbe la citta-dinanza peruviana e la licenza di capitanoperuviano, cose abbastanza difficili da otte-nere per uno straniero, e probabilmenteottenute per le pressioni di suoi conoscen-ti sul Governo locale.

Prima della sua partenza per l’Oriente,

63

Studi Garibaldini

64

Garibaldi operaio nella fabbrica di Meucci a Staten Island (1851)

Marzo 2004

Garibaldi ebbe uno scontro con il franceseCharles Ledos, provocatore e litigioso nato.Ledos, giornalista e scrittore, noto a Limaper i suoi studi sulla cultura del caffè e del-l’indaco nelle zone costiere del Perù,6

aveva insultato Garibaldi pubblicamente7

(notiamo che in quell’epoca, a causa deglieventi di Roma nel 1849 Garibaldi non sti-mava molto la razza gallica) ed il nostroeroe, furibondo, lo ferì alla testa. La storia,raccontata nelle “Memorie”, merita d’esse-re letta. Per qualche giorno fra le duecomunità, italiana e francese, ci fu ostilità.Il Console francese residente a Lima pre-tendeva che Garibaldi presentasse le suescuse, al che lo stesso dichiarò: “...a’Francesi, chiunque sia, non ricorrerò conloro se nonché a via di fatto, e credo asso-lutamente indegno di me qualunque paro-la verbale o scritta che potesse esprimerela benché minima idea di ritrattazione”.8

Ma dopo un po’ di tempo, specialmenteper l’intervento del Console GeneraleSardo, Giuseppe Canevaro, il buon senso ela calma prevalsero. Il 10 gennaio 1852Garibaldi partì per la Cina, capitano dellanave Carmen. Arrivò ad Hong Kong il 14aprile 1852; poi andò a Canton e quindinel porto di Amoy sulla costa nord-orienta-le, dove vendette il suo carico di guano. Virimase per tutto il mese di maggio, facendoriparare la vecchia nave nella locale darse-na.9 Amoy era il porto più infame della Cinaper il suo commercio di schiavi cinesi, icosiddetti “coolies”, che i mercanti ameri-cani ed inglesi mandavano attraverso ilPacifico persino nelle piantagioni di Cuba.Là, senza dubbio, Garibaldi vide centinaiadi cinesi aspettare la partenza delle navi,tutti insieme come bestie, nudi, con una

“P”, una “S” o una “C” stampate sul petto:lettere che significavano la loro destinazio-ne, rispettivamente Perù, SandwichIslands, California.10

Al suo ritorno a Canton nel giugno 1852,egli incontrò l’inglese Anthony Enright,capitano del clipper Chrysalite, un velierovelocissimo che trasportava tè inInghilterra.11 I due passarono quasi unmese aspettando i loro rispettivi mercanti-li. Entrambi frequentarono il Club doveandavano tutti i capitani stranieri e tutti imercanti ivi residenti.12

A tale periodo appartiene la seguentebuffa storia che apprendo da A. V. Vecchi(Jack La Bolina), figlio di C. A. Vecchi, caroamico di Garibaldi e suo ex-combattente:

“Il General Garibaldi aveva compratometà dell’isola di Caprera ed un cutteringlese chiamato “Emma”. [...] Giunse ungiorno a Sturla ... e ... trasportò il babboe me da Sturla a Genova a bordo del cut-ter... Scendemmo a terra e col Generale cirecammo dal suo amico Coltelletti e làtrovammo il dottor Bertani che visitòuna gamba del Generale, gamba che lofaceva soffrire per quei dolori artriticiche sì lungamente lo tormentaronoanche in seguito.

Garibaldi - come tutti sanno - usavabiancheria finissima, ed avendo mio padreosservato il tessuto delle sue mutande, cidisse che le aveva fatte fare a Canton inCina e che, avendo dato per modello unpaio di mutande vecchie, le quali avevanonella parte inferiore un rammendo, il sartocinese aveva messo quel rammendo lì atutte le mutande che aveva tagliate e cucite:ed il Generale lo mostrava infatti nel paioche aveva indosso”.13

65

A luglio Garibaldi partì da Canton conun carico per Manila, da dove ritornò inagosto, portando, tra altro, la posta e i gior-nali per Hong Kong.14 Essendo pronto ilcarico a Canton, tessuti, cineserie, ... partìper Lima il 4 settembre. Dopo dodici gior-ni di navigazione, il 16 settembre 1852,ancora nel Mare Cinese vicino alla costadelle Filippine, la Carmen si trovò coinvol-to in un terribile maremoto (la città diManila fu distrutta quello stesso giorno dauno spaventoso terremoto), seguito imme-diatamente da un tifone con una intensitàmai vista prima. Garibaldi, per la sua abi-tuale reticenza, purtroppo non ci ha lascia-to alcuna descrizione di questo tifone.15

François Dabadie, un francese residente aLima, parlò successivamente con l’uomoche fu il “Secondo” a bordo della Carmen,forse tale Giovanni Battista Fontanarosa, eci ha lasciato una descrizione terrificante.Dabadie è stato quasi sempre accusato diesagerazione romantica, ma basta aprirequalsiasi giornale dell’epoca di Hong Kong(in lingua inglese) per avere varie descri-zioni del fatto e leggere della fortuna cheebbero alcuni capitani di trovare un portovicino o di resistere in mezzo al mare allafuria della tempesta, come Garibaldi.

Circa il ritorno a Lima, abbiamo unabellissima pagina scritta da Garibaldinelle sue Memorie. Dico “bellissima” per-ché la descrizione di quell’isola vicino allaTasmania, dove approdò per rifornirsid’acqua, è veramente una pagina di poe-sia. Possiamo capire allora perché, piùtardi, egli volesse avere un’isola tutta sua,e perché, qualche anno dopo, comprassemetà dell’isola di Caprera. Su quell’isolatasmaniana ebbe uno dei momenti più

indimenticabili della sua vita:“Isola deserta dell’Hunter Islands!

Quante volte tu m’hai deliziosamente sol-leticato l’immaginazione quando stufo diquesta civilizzata società, sì ben fregiatada preti e sbirri, io mi trasportavo coll’i-dea verso quel tuo grazioso seno, oveapprodando per la prima volta fui ricevu-to da uno stormo di bellissime pernici edove tra secolari piante di alto fusto mor-morava il più limpido e più poetico ruscel-lo, in cui ci dissetammo piacevolmente econ abbondanza fecimo la necessariaprovvista d’acqua per il viaggio”.

Ritornò a Lima attraverso il Pacifico delSud. Era già l’inizio dell’estate australe,con lunghi giorni di sole. Anni dopo, nel“Poema autobiografico”, scrisse come sisentiva in mezzo al grande Oceano delSud, solitario, piccolo, fra un Continentee l’altro:

“… il giornoQuasi alla notte non far luogo io vidiLa prima volta, e la stupenda, immensa,Meravigliosa vastità del padre degliOceani”. 16

Prima della fine del viaggio, a bordodella Carmen vi fu una situazione dramma-tica: la fame e, secondo Dabadie, la minac-cia di un ammutinamento. Di tutto ciòGaribaldi non disse alcunché; anzi, nellaprima stesura delle Memorie, scrisse laco-nicamente che “negli ultimi giorni comin-ciavano a scarseggiare i viveri”; ma, dopola pubblicazione dei fatti raccontati dal suoPilota di bordo a Dabadie, aggiunse qual-cosa di più alla sua storia. Lo fece, congrande parsimonia, non parlando di alcuna

Studi Garibaldini

66

Marzo 2004

minaccia di ammutinamento, come sefosse una bugia o un insulto, degni di nes-sun commento: “Negli ultimi giorni si

scarseggiò di viveri, per cui si mise lagente alla razione per prevvidenza...”.17

Circa la sua seconda sosta in Perù si sa

67

Diploma di pilota rilasciato a Garibaldi il 30 ottobre 1851

poco: arrivò a Callao il 24 gennaio 1853 evi rimase cinque settimane prima di riparti-re per l’America del Nord il primo marzodello stesso anno.

“Si partì in zavorra, cioè, senza carico,per Valparaiso”, scrisse Garibaldi nella suaautobiografia, “ove giungendo, si noleggiòla Carmen per un viaggio dal Chilì aBoston con rame. Approdammo in variporti della costa di Chilì: Coquimbo,Guasco, Herradura, e si terminò il caricocon lana sopra il rame, a Islay (Perù).Partimmo da Islay; veleggiammo a mezzo-giorno per il capo di Horn; e dopo una tra-versata molto tempestosa nelle alte latitu-dini, giunsimo a Boston”.

Questo è il breve resoconto datoci daGaribaldi, a cui possiamo aggiungere unanostra osservazione. La nave salpò daIslay il 25 maggio 1853, con direzioneSud. Garibaldi descrisse che la traversa-ta fu molto tempestosa, ma non ci infor-ma che, al Sud del ContinenteAmericano, era già incominciato il severoinverno australe. Portare una qualsiasinave in quegli ingannevoli mari, conimpetuose burrasche e venti gelidi,durante quel periodo dell’anno, per dop-piare Capo Horn, era un’impresa da capi-tano di lunga esperienza e coraggio.Garibaldi si guadagnò così un onorevolenome fra i capitani che hanno affrontatoe superato il temibile Capo.

Il suo arrivo nell’America del Nord, il 6settembre 1853, mise in euforia i repubbli-cani ed in imbarazzo il Nunzio ApostolicoMons. Gaetano Bedini che in quei giornivisitava gli Stati Uniti, prima di proseguireper il Brasile. Il destino volle che Mons.Bedini fosse il prolegato della città di

Bologna quando gli Austriaci, i governatoridi fatto della città, uccisero il sacerdote bar-nabita Ugo Bassi, fervido seguace diGaribaldi. In America gruppi anti-cattolicied altri si servirono dell’occasione per daretutta la colpa al Bedini. Dovunque andasse,Baltimora, Detroit, New York, Cincinnati, cifu sempre qualche manifestazione di osti-lità. Si era persino formato un complottoper assassinarlo.

All’arrivo di Garibaldi, Bedini scrisse allaSanta Sede del suo timore:

“I pugnali dei congiurati son semprepronti... Per giunta si è annunziato neifogli l’arrivo a Boston dal Perù del famosoGaribaldi: ecco altri eroi ed ecco altra pol-vere alle lotte che si preparano! Gran Dio!Quando finirò di rischiare la mia poveravita servendo la S. Sede nei due mondi?”.18

Ma pare che Garibaldi non si mescolòai manifestanti. Infatti il 14 ottobre Mons.Bedini scrisse, quasi con un sospiro disollievo:

“Quando io ero a New York, che distapoche ore da Boston, trovavasi colà ilfamoso Garibaldi; nulla però di rimarcoavvenne in questa coincidenza. Eglilasciò Boston prima di me, facendo velacol suo bastimento pieno di mercanziediverse....”.19

Garibaldi ritornò molto cambiato daisuoi viaggi, come si può facilmente vederedalle sue lettere dell’epoca.

Ai vecchi amici repubblicani di NewYork parlava di pace e cercava di metterlid’accordo perché tutti fratelli della stessagrande famiglia anche se separati da lotteideologiche:

“Avendo trovato (cosa assai frequente)delle dissenzioni tra gl’Italiani, mi son

Studi Garibaldini

68

Marzo 2004

permesso di trasmettere conciliazione...”.20

Garibaldi cercò di convincere tutti cheper “fare l’Italia” non si doveva ricorrerealle piccole rivoluzioni impopolari di tipomazziniano, ma che le speranze dell’Italiaerano riposte nel Piemonte:

“Circa all’idea manifestatavi di conci-liazioni tra gl’Italiani, ho scritto a varide’ più influenti proponendo per pro-gramma: rannodarsi intorno alla ban-diera italiana del Piemonte qualunquesia stata la convinzione del sistema per ilpassato, e francamente, non avendoaltra meta che quella di riunir l’Italia aquel governo, combattendo tutti gli stra-nieri che l’opprimono. Io propagherò lastessa idea altrove, a tutta possa, convin-to di far bene”.21

Nel frattempo, dall’America del Sudarrivò una lettera dell’armatore dellaCarmen, Denegri, che, influenzato daqualcuno ostile a Garibaldi, gli scrisse“alcuni rimproveri..., che mi sembrò nonmeritare, per cui lasciai il comando didetto legno”. Senza dubbio questa meschi-na faccenda, assieme allo stato d’animodell’eroe, lo rese più disilluso che mai, e,secondo me, si spiega perché in seguito siritirò quasi completamente dal mondo escelse di stabilirsi nella solitudine su un’i-sola brulla e difficile da raggiungere, qualè Caprera.

Tuttavia la storia ha un finale lieto: unvecchio amico, il Capitano Figari, “essendogiunto nel porto [di New York], ... conintenzione di comprare un bastimento, mipropose di comandarlo per condurlo inEuropa. Io accettai, e fummo col capitanoFigari a Baltimora, ove si acquistò la nave‘Commonwealth’. Si caricò di farina di

grano e veleggiai per Londra, ove giunsi infebbraio del ’54”.

A Londra Garibaldi incontrò Mazzini edanche il grande scrittore e rivoluzionariorusso Aleksandr Herzen. “Convinto di farbene”, ripeté le sue idee all’amico Mazzinie cercò di fargli accettare il nuovo modo diaffrontare il grande problema dell’unifica-zione dell’Italia:

“Appoggiarci al governo piemontese èun po’ duro, io lo capisco, ma lo credo ilmiglior partito, ed amalgamare a quelcentro tutti i differenti colori che ci divi-dono; comunque avvenga, a qualunquecosto. Rannodare i brani al maggior pezzodi tronco”.22

Così, il 26 febbraio 1854, a Londra, scris-se a Mazzini.

Mazzini non apprezzò queste parole,poiché voleva affidare a Garibaldi ilcomando di una spedizione rivoluzionariain Sicilia, progetto che aveva covato e pre-parato, a Londra, da due o tre anni.Possiamo dire che, da quel momento, l’a-micizia fra i due uomini si incrinò.Garibaldi continuò a rispettare Mazzinicome un uomo dedicato alla sua causa,l’Indipendenza d’Italia, ma ritenne che imetodi scelti dall’amico per raggiungerequella meta erano sbagliati.

Lasciando Londra, il Commonwealthsalpò per Newcastle-on-Tyne per prende-re un carico di carbone fossile perGenova, dove arrivò il 7 maggio 1854.Garibaldi, ancora ammalato di reumati-smi, fu trasportato in casa di un suoamico, il Capitano Paolo Augier, doverimase per due settimane, prima di rag-giungere la sua piccola famiglia in Nizza.Il suo Esilio era finito.

69

Dopo questa breve descrizione delSecondo Esilio Garibaldino, appare chia-ro che studiarlo è un’ enorme impresa.Non solo per il suo vagare per tutti i con-tinenti; ma anche per studiare ogni suasosta, a Tangeri, a New York, inNicaragua, a Lima, in Cina e nei Mari delSud. Il ricercatore non può trattaresuperficialmente i pochi fatti che ha a suadisposizione, servendosi delle Memorie equalche altra rara fonte, ma deve cercarenegli archivi e nelle biblioteche, un po’dovunque, per capire ed illustrare ilclima politico, sociale e umano di ogniluogo che offriva ospitalità allo sfortuna-to esiliato, anche se per poco tempo.

Ben poco si conosce circa la sua visita aCuba nel novembre del 1850. Ciò nonimpedisce a certi giornalisti e storici didire che Garibaldi si recò all’Havana e sipresentò a certi patrioti cubani per orga-nizzarvi una cellula di resistenza control’amministrazione coloniale spagnola.All’inizio del ‘900, un vecchio cubano dinome Juan Arnau, veterano-patriota, lasciòper iscritto la sua testimonianza della visi-ta, ad un’incontro di rivoluzionariall’Havana, di uno straniero (più tardiidentificato come Giuseppe Garibaldi) ilquale li incitava alla resistenza rivoluziona-ria, promettendo la sua attiva partecipa-zione.23 Seri storici cubani, come Fernando

Studi Garibaldini

70

Il giornale “Correo de Lima” con un violento articolo contro Garibaldi

Marzo 2004

Ortiz, non esitarono a dire che Garibaldiera un “mambis”, cioè un “freedom figh-ter”, oppure “guerrigliero” per i diritti del-l’indipendenza cubana.24 Ai nostri tempiuno scrittore italiano, Salvatore Loi, riela-borò la storia, scrivendo di Garibaldiall’Havana per compiere una ‘missionesegreta’ mirata ad incitare i cubani allarivoluzione.25 Così abbiamo una rappre-sentazione dell’Eroe conforme alla figuramilitante e rivoluzionaria dell’uomo cheognuno di noi conosce dalle tradizioni sto-riche, ma che non rispecchia fedelmentegli aspetti veri della sua ‘visita’ a Cuba.Garibaldi si trovò lì per due “fine-settima-na”, e si sa che lavorava su un piroscafodelle Poste Americane, il Giorgia. Direiche in quattro giorni non si può organiz-zare una cellula terroristica né compiereuna ‘missione segreta’.

Circa la sua visita in Nicaragua, nel 1851,per capirla bene si deve andare oltre ilresoconto datoci da Garibaldi nelleMemorie. Un’attenta ricerca dev’esserefatta sul clima politico di quel Paese in quelparticolare momento della sua violenta sto-ria, ricerca mai fatta, o fatta superficialmen-te, nel passato. Così abbiamo scoperto, dadocumenti giacenti al Public Record Officedi Londra, che mentre si trovava nella cittàdi Leon, conosciuto da tutti come“Capitano Elizaldo”, facendo affari com-merciali con l’amico Carpaneto e probabil-mente qualche volta andando a caccia sullecolline circostanti la città, scoppiò un ‘pro-nunciamiento’ militare ed ecclesiasticocontro il governo che provocò la partenzaprecipitosa dell’Eroe, chiamandosi ora“Capitano Joseph Ansaldo”, e del suoamico Carpaneto per Lima.

E la Cina: terra piena di leggende emalintesi che, attraverso gli anni, hannoalimentato ampiamente la foga degli stu-diosi in interminabili discussioni.

La storia della battaglia navale, vista daGaribaldi al suo arrivo presso il fiume Pearla Canton nell’aprile del 1852, fu racconta-ta per la prima volta tre anni dopo.26 Nel1933 l’inglese Lubbock, scrittore di libripopolari marinari, descrisse la battaglia edimostrò, anche, come gli Americani furo-no coinvolti.27 La stessa battaglia ha cosìinfluenzato storici seri che ora, a dichia-rarla inventata, si rischierebbe di divenireattaccati da tutte le parti. Non importadimostrare che non vi fu alcuna battagliasul fiume Pearl prima del 185428 (anno, sinota, del rientro di Garibaldi in Italia allafine del suo esilio quinquennale). Il fattoora fa parte integrale della gloriosa tradi-zione garibaldina. Calza assai bene conl’immagine dell’Eroe che combatté inAmerica del Sud, in Italia, in Francia … eanche in Cina!

Considerando questo periodo cinese,mi riferisco ad un altro mito, o piuttosto,un malinteso linguistico. Nel suo libro, Lavita e le gesta di Giuseppe Garibaldi,Vittorio Augusto Vecchi, amico diGaribaldi e figlio di un garibaldino, narròdi una visita a Lima che egli, da biografo,fece nel 1865, e cioè quattordici annidopo quella di Garibaldi nel 1851. LìVecchi frequentò la casa dell’armatoreDenegri e sentì con le sue orecchie dallostesso, che lodava le capacità del CapitanoGaribaldi, la seguente testimonianza:

“M’ ha sempre portato cinesi nelnumero imbarcato e tutti grassi e inbuona salute perché li trattava come

71

uomini e non come bestie. Mai un recla-mo di marinai contro di lui”.29

Per più di un secolo, questo riferimentoa “cinesi” a bordo del vascello di Garibaldiha imbarazzato i suoi biografi e fatto salta-re di gioia i suoi nemici. Con questa incon-testata informazione quest’ultimi poteronoprocedere a denigrare la figura dell’Eroe,chiamandolo “negriero” e “schiavista”,dato che all’epoca della sua visita inOriente esisteva fra la Cina ed il Perù unesteso traffico di schiavi, i cosiddetti “coo-lies”, e Garibaldi, per dichiarazione suanelle Memorie, andò al porto di Amoy, diinfame reputazione, come abbiamo visto. Iprimi, invece di ricercare la verità, nonhanno chiarito l’argomento, forse perpaura di trovarsi di fronte a risultati sco-modi.

La mia ricerca ha dimostrato, però, che ilVecchi si sbagliò di molto. A Lima Vecchinon capì perfettamente la lingua localeusata in casa Denegri e nel suo ambiente,un curioso misto di Spagnolo coloniale,Genovese, Italiano e Quechua, la linguadegli Incas. “I cinesi” per Denegri eranopersone peruviane di sangue misto, “loschinos” nel linguaggio comune. Gli schiaviorientali, invece, venivano chiamati “colo-nos chinos”, espressione che Denegri nonusò parlando con il Vecchi.30

Esiste una documentazione che elencatutti i vascelli che portavano gli schiaviorientali in Perù, ma non vi figura il nomedel vascello di Garibaldi.31 Esiste, anche,una lista della merce che Garibaldi portòdalla Cina.32 Ma il mito di schiavi a bordodella Carmen è duro a morire, ed i bio-grafi continuano a ripetere la vecchia sto-ria sbagliata.

Il punto principale sullo studio delSecondo Esilio resta il periodo peruviano.Nelle molte biografie di Garibaldi, cheseguono la falsariga tratta dalle sueMemorie, appare solo una minima partedella vera storia. In altre parole Garibaldi,abile nel mascherare particolari della suastoria con ingenua penna, ha condizionatomolto i suoi biografi. In realtà il periodoperuviano è un groviglio di diversi interes-si e passioni. La sua descrizione lo presen-ta come un quadro splendido. Vi è unacomunità italiana forte e tranquilla, un sot-tofondo vero, con, in primo piano, iseguenti protagonisti: un generoso patrio-ta, Pietro Denegri, ricco armatore che, disua spontanea volontà, gli dà il comando diuna sua nave per compiere diversi viaggiintercontinentali, ed un Console Generaleitaliano, Giuseppe Canevaro, che risolve iproblemi creati da uno sfortunato scontrodel nostro Eroe con un francese riottoso,Charles Ledos... Così la storia di tutto que-sto periodo peruviano porta con sé unalone di vero trionfo, illuminato dal solesplendente di una primavera tropicale.

Pino Fortini, nel suo studio di 50 anni fasu Garibaldi marinaio, fondamentale lavo-ro, anche se con forti limitazioni nel campoche abbiamo scelto di indagare, fece accen-no ad un lato negativo del periodo, unaccenno purtroppo non accolto né svilup-pato dalle ricerche degli studiosi successi-vi. Fortini scrisse, affidando la sua acutaosservazione ad una delle note a chiusuradel capitolo n.° 5: “E’ evidente che ilConsole Canevaro non era ben dispostoverso Garibaldi ”.

Come possiamo commentare, anziampliare, questa asserzione?

Studi Garibaldini

72

Marzo 2004

Negli ultimi vent’anni, ricercando, hotrovato alcuni particolari che rendono lastoria tradizionale un po’ meno piacevole:particolari concernenti le figure centrali,già citate, come Giuseppe Canevaro e suocognato, Pietro Denegri, ed in più ilmedico David Emanuele Solari ingiusta-mente dimenticato dalla storia e, permotivi a noi sconosciuti, dimenticatoanche da Garibaldi.

Chi era Canevaro? La vera storia dellasua carriera è ancora da scrivere. Genovesedi Zoagli, nella vecchia provincia diChiavari, di umile famiglia, il ConsoleGenerale del Regno di Sardegna presso laRepubblica Peruviana, abile opportunista,era repubblicano in Perù e monarchico difronte agli occhi di Torino, per i propriinteressi. Uomo piccolo di statura, così daprocurargli il soprannome de “Il Picin”lungo tutte le coste del Pacifico33, fu quelloche gli inglesi descrivono come “a self-made man”, e ne possedeva tutti le carat-teristiche: ambizione, operosità e grinta.Probabilmente questo è un esempio di“transfert”: essere piccolino, lo rendevaarrogante ed infaticabile. Marinaio in gio-vane età, al suo arrivo nel Perù quasi qua-rant’anni prima dell’arrivo di Garibaldi,34

aveva aperto un negozio di cappelli. Poi,come si dice oggigiorno, incominciò adiversificare. Diventò mercante, negozian-te, importatore, fino ad avere interessi neltraffico del guano, prezioso materiale d’e-sportazione nazionale. In poco tempo, perla sua abilità, si fece una posizione sicuranella società poliglotta della capitale.Diventò Console Generale dopo il licenzia-mento di Luigi Baratta per irregolarità nelgestire gli affari finanziari del suo Ufficio.

Non arrivò all’alta carica di rappresentantediplomatico del Regno Sardo per le suedoti intellettuali e per nascita: vi arrivòinvece perché Torino si accorse che facol-tosi uomini d’affari negli scali dell’Americadel Sud bramavano prestare i loro serviziall’amata e lontana patria senza alcuno sti-pendio statale:35 bastava loro la gloria, il“kudos” che si accompagnava all’incarico,ed il potere che il posto comportava con lapossibilità di avere i sigilli diplomatici.Così, ben presto, Canevaro si trovò elevatoal rango di quella classe eletta chiamata ininglese “merchant consuls”. L’AmmiraglioCarlo Pellion, Conte di Persano, che loincontrò durante il suo soggiorno a Limanell’aprile del 1844, dando la sua adesioneper la sua nomina alla direzione delConsolato, disse di lui: “’E ben vero che èdi bassa origine e di pochi o nessun talen-to d’istruzione; ma gode presso il GovernoLimeño di una certa tal quale considera-zione per le sue ricchezze e per la sua fer-mezza di carattere; e, pel momento, le ric-chezze e la fermezza di carattere fannotutto in questi paesi di nessun ordine”.36 Aquesta sua “fermezza di carattere”, dob-biamo aggiungere la sua capacità di odiareviolentemente. Era un uomo dai forti odi,uno di quelli che non perdonano mai, cosìda provocare violente antipatie e crearsinemici. Provò un forte imbarazzo per lapresenza di Garibaldi a Lima, perché i suoinemici di fede repubblicana, fra gli italianinella città, gli fecero pesare di più la pre-senza dell’Eroe.

Odiava visceralmente il medico-chirur-go David Emanuele Solari. Questi, nato aChiavari, cugino di Giuseppe Mazzini perparte materna, repubblicano accanito e

73

nemico dichiarato della corona Sabauda,era capace di schernire il Regio Console inogni occasione possibile; con i suoi amici,tutti di fede repubblicana e nemici del-l’uomo che consideravano opportunista evendicativo, contraccambiava il suo odio:“occhio per occhio”... Solari, che sin dallasua partenza da Genova per il Perù eranoto alla polizia dello Stato Sardo per lesue idee politiche,37 andò con Baratta, ilprecedente console sardo, per svolgerel’attività di Professore di Patologia eTerapeutica presso il Collegio “LaIndependencia” di Lima, aperto nel 184138

e fece una rapida carriera nel Perù. Suocugino Mazzini lo descrisse come uomopieno di “savoir faire in estremo grado”.39

C’era anche Pietro Denegri, cognato delCanevaro e socio in affari del Dottor Solari,come si vede dai documenti tenutinell’Archivio di Stato di Torino.40 Il Denegriera un ricco mercante, ma nell’opinione delsuo parente d’acquisto, Canevaro, era unuomo insignificante. Una volta Canevaroscrisse a Torino: “Questo soggetto per quan-to apparisce tiene una cospicua fortuna,forma una famiglia peruviana distinta, habastante capacità nei suoi affari mercanti-li; manca d’influenza nella scelta società,e di spirito...”.41 Secondo le Memorie diGaribaldi, fu Denegri che gli affidò ilcomando della sua nave Carmen. Ma unrapporto ufficiale scritto dal Canevaro emandato a Torino dimostra che non l’hafatto per sua volontà, ma perché il socioSolari lo ha voluto. Canevaro scrisse, cer-cando come sempre di mettere Solari incattiva luce davanti agli occhi di Torino:“Nell’interesse delle parti il prefato Sig. Dr.Solari fece che dal Sig. Pietro Denegri venis-

se dato a comandare al Garibaldi unbarco che certo Cap. Luigi Camogli perconto ecc. aveva comprato in SanFrancesco di California...”.42 In realtà,Denegri non dovrebbe godere della fama diuomo generoso che diede lavoro aGaribaldi, anche se le Memorie dicono intutt’altro modo. E’ chiaro che il meritodovrebbe andare a Solari.

Molto prima dell’affare Ledos,Canevaro, ansioso di liberarsi di questouomo rude, impulsivo ed incomodo, com-binò con il cognato un lungo viaggio inCina per il suo indesiderato ospite, inmodo da levarselo d’attorno nella manie-ra più garbata possibile.

In Perù Garibaldi, in quel periodo didisillusione e sofferenza personale, si trovòbuttato in mezzo ad una situazione intolle-rabile di odi, di vendette ed affarismi, congente ipocrita e litigiosa. Il ConsoleCanevaro lo fece spiare, per poi informareTorino dei suoi movimenti, in modo daingraziarsi i potenti del regno, cosa cheregolarmente avveniva.43 Ci si meraviglia,poi, che Garibaldi parlò poco del suo sog-giorno peruviano considerando che queglianni furono i più tristi della sua esistenzaterrena. Negli anni seguenti non spiegòmai un perché, non nominò mai alcunapersona... Nelle sue Memorie, con destrez-za da vecchia volpe, scrisse il motivo delsuo brutale licenziamento quale Capitanodella Carmen, spiegandosi ambiguamente:“...un Tersite, parassita che s’era introdot-to in casa sua (di Denegri), era pervenutoa mettermi in sospetto col principale”,lasciando così la vera storia dei suoi rap-porti peruviani ed il loro scioglimento inuna zona d’ombra.

Studi Garibaldini

74

Marzo 2004

Io so bene che la mia lettura degli avve-nimenti peruviani provocherà delle reazio-ni ostili da parte di certi storici che leggo-no come verità ciò che Garibaldi scrisseanni dopo nelle sue Memorie. Il periodoperuviano del Secondo Esilio è semprestato considerato un episodio degno della”Gloria Italiana” nel Nuovo Mondo. Possoassicurarvi, con tutta serietà, che la miainterpretazione ha basi solide e può esseredifesa, se necessario, con riferimento alledocumentazioni ed a certe contemporaneetestimonianze circostanziali .

Ripeto ancora: il soggiorno peruviano diGaribaldi, punto centrale del suo SecondoEsilio, fu il periodo più cupo, più sofferen-te, più crudele di tutta la sua vita travaglia-ta, che lasciò un segno nel suo animo sinoalla fine dei suoi giorni.

Al suo ritorno a New York, nel 1853, edopo il licenziamento da parte dell’arma-tore della Carmen, un atto che lui ritenneingiusto, scrisse all’amico Candido AugustoVecchi, padre di Vittorio Augusto, dalprofondo del suo animo lacerato e disgu-stato: “Che vi dirò dell’errante mia vita,mio caro Vecchi? Io ho creduto la distanzapoter scemare l’amarezza dell’anima, ma

fatalmente non è vero, ed ho trascinataun’esistenza assai poco felice, tempestosaed inasprita dalle memorie. [...]

... Mio buon Vecchi, gli uomini come voimi riconciliano alquanto coll’umanitàche più ogni giorno mi sembra dispregevo-le ed odiosa”.44 Due giorni dopo scrisse adun altro vecchio amico, Giovan BattistaCuneo: “... oggi sono diventato insoffribilea me stesso ed a chi mi circonda. Unavolta mi studiavo ricercar l’affetto degliuomini, oggi non me n’importa, e se potes-si staccarmi totalmente dal loro consor-zio, mi crederei felice”.45

Certo è chiaro che il Secondo Esilionon fu un periodo della sua vita privo diinteresse né fu senza calore umano. Maritengo che egli avrebbe potuto lasciarcimolto di più nei suoi scritti invece di unoscarno resoconto a volte poco accurato edinesatto. Certamente fu un periodo dicupa sofferenza, indignazione e disillusio-ne per il comportamento di certe personeche egli aveva considerato amiche. Perquesto, dico che negli anni successivi eglidecise di porre su tutto la pietra tombaledel silenzio.

75

1 Per questa relazione io uso l’edizione delle Memorie di G. Garibaldi considerata la “definitiva”,

quella del 1872, pubblicata a Bologna, 1932: cap. X del 2° Periodo: Esilio.2 Materiale, proveniente dall’Archivio Storico della Propaganda Fide di Roma, si trova nella mia

relazione Garibaldi in Oriente,aprile-settembre 1852, in Garibaldi, Mazzini e il Risorgimento nel

risveglio dell’Asia e dell’Africa, a cura di GIORGIO BORSA e PAOLO BEONIO BROCCHIERI, Milano, Franco

Angeli, 1984, pp. 327-356, e pp. 423-432. 3 Per il viaggio della “Giorgia”, vedi: ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO [ASP], Giornale di bordo

del bastimento “Giorgia”, comp. da Giuseppe Garibaldi e Giovanni Basso: Misc. Arch. 1. N. 202.4 Per la partecipazione di Reta alla partenza da New York, vedi: ISTITUTO MAZZINIANO, Genova,

documento n° 26/3081. Nel giornale NEW YORK COMMERCIAL ADVERTISER, 29 aprile 18551, p. 1,

col. 8, il nome J. Anzani appare nella lista dei passeggeri in partenza sul piroscafo “Prometheus”.5 PHILLIP K. COWIE, Garibaldi in Nicaragua e nel Regno di Mosquito nell’agosto-settembre 1851,

in Rassegna storica del Risorgimento, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Anno

LXXI, 1984, pp. 13-35.6 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO [ASV], Segreteria di Stato, Anno 1853, Rubrica 292, p. 32r.

Ledos fu l’autore del libro Tratado que comprende el cultivo del café y del añil, la cria des abejas,

horticultura, instrumentos aratorios, etc. etc. Escrito para los agricultores peruanos, pubblicato a

Lima da J. Bailly, [1847], di pagine 224. Interessante quest’altro testo, elencato nel National Union

Catalogue, Pre-1956 Imprints, del Library of Congress, Washington, USA: “FORO NACIONA - Causa

celebérrima seguida entro Mr. Charles Ledos ... y ... D. Juan Espinosa... sobre derecho de pernage,

en la cual se trata de la pierna y sus accidentes en les tiempos feudales”, pubblicato a Lima,

dall’Impr. de “El Mercurio” nel 1865 (di pagine 59).7 Il giovedì 4 dicembre 1851, Ledos pubblicò un articolo sul giornale El correo de Lima col titolo

Heroes de pacotilla, firmandolo Un gallo, in cui descrisse Garibaldi come uomo ebete, pigmeo e

codardo. Il giorno dopo, sul giornale rivale, El comercio, fu pubblicata la seguente informazione:

“El articulo que rejistra el ‘Correo’ de anoche contra el jeneral Garibaldi es de Carlos Ledos que

vive en la Calle de las Mantas, Bazar N° 255”. La sera di sabato, il 6 dicembre 1851, ‘armato’ col-

l’indirizzo del francese ed un leggero bastone da passaggio, Garibaldi andò per fargli visita. Il segui-

to fu la rissa fra lui, Ledos, ed un amico del secondo, il dentista-dottore Dunglas.8 GIUSEPPE GARIBALDI, Epistolario, vol. III : lettera a Luigi Coltelletti, Lima, 7 dicembre 1851.9 Questi lavori non venivano fatti a Canton, come scrive Garibaldi nelle Memorie. Vedi ASP,

Giornale di bordo della “Giorgia”, cit., p. 58 (la penultima).10 PUBLIC RECORD OFFICE [PRO], Kew, Londra, Foreign Office [FO] 228, vol. 134, p. 46 et seq.11 BASIL LUBBOCK, The China clippers, Glasgow, Brown & Ferguson, 2nd. ed., 1946 (repr. 1957),

pp. 79-80. (La prima edizione del libro fu pubblicata nel 1919)12 MUSEO CENTRALE DEL RISORGIMENTO, Roma [MCRR], Busta 48 / 9 (3): “Debe: En China,

Julio 2: por gasto de un Guìa Comercial y por el Club ... $ 5--.”

Studi Garibaldini

76

Marzo 2004

77

13 A.V. VECCHI, Al servizio del mare italiano, Torino, Paravia, 1928, pp. 47-48.14 OVERLAND FRIEND OF CHINA (giornale), Victoria (Hong Kong), 24 agosto 1852, p. 58, col.1.15 F. DABADIE, Episode inédit de la via de Garibaldi, in Revue Française, 10 juillet 1859.16 Cit., Bologna, Zanichelli, 1911, p. 108.17 La prima citazione viene da Le memorie di Garibaldi in una delle redazioni anteriori alla defi-

nitiva del 1872, Bologna, L. Cappelli Editore, 1932, p. 226; la seconda dal testo “definitivo” citato

nella nota n° 1 di questa relazione.18 ASV, Segreteria di Stato, Anno 1854, Rubrica 251, fasc. 2, p. 88r, data 22 settembre 1853.19 Id., p. 109, data 14 ottobre 1853.20 GIUSEPPE GARIBALDI, Epistolario, vol. III (1850-1858), Roma, Istituto per la storia del

Risorgimento italiano, 1981, p. 54: lettera n° 721, Boston, 21 settembre 1853, indirizzata ad

Alessandro Gavazzi.21 Ivi, p. 55-56: lettera n° 723, Boston, 22 settembre 1853, indirizzata a Giuseppe Valerio.22 Ivi, p. 62: lettera n° 734, [Londra], 26 febbraio 1854, indirizzata a Giuseppe Mazzini.23 F.F. FALCO, La cultura latina - evocaciones de tradición mambísa: recuerdos de fraternidad

italo-cubana, Roma, Imprenta “L’Universale”, 1927, p. 56.24 FERNANDO ORTIZ, Italia y Cuba: publicado por acuerdo del “Comité Cubano Pro-Italia” 1897-

1917, Habana, Imp. y pap. “La Universal de Ruiz y Ca.”, 1917, pp. 9-13. 25 SALVATORE LOI, Garibaldi per la libertà e l’indipendenza di Cuba, in Hiram. Revista masso-

nica, Roma, n.° 2-3, 1982, p. 53. 26 W.C.HUNTER, Bits of old China, Kegan Paul, Trench & Co., London, 1855.27 BASIL LUBBOCK, The opium clippers, Glasgow, Brown & Ferguson, 1933, pp. 325-327.28 Per attività bellica sul Fiume Pearl, vedi GEORGE HENRY PREBLE, Rear admiral in the U.S.N.,

The opening of Japan: a diary of discovery in the Far East, 1853-1856, ed. by Boleslaw Szczesniak,

Norman, University of Oklahoma Press, 1962, pp. 247, 249, 274, 295, 298, 300, settembre 1854-feb-

braio 1855. Per i primi attacchi contro gli Americani in Cina, vedi JAMES HARRISON WILSON, China:

travels and investigations in the “Middle Kingdom”; a study of its civilization and possibilities,

with a glance at Japan, New York, D. Appleton and Company, 1887 (repr. 1972), p. 336. 29 VITTORIO AUGUSTO VECCHI [JACK LA BOLINA], cit., Bologna, Zanichelli, 1882, pp. 94-95.30 La mia ricerca riguardante questo argomento venne pubblicata con il titolo Contro la tesi di

“Garibaldi negriero”, in Rassegna storica del Risorgimento, Roma, Anno LXXXV, 1998, pp. 389-397.31 Si trova nella Memoria que presenta a las camaras de 1853, Lima, E. Aranda, 1853, appendice

n° 16.32 Si trova nel giornale limeño, El comercio, 25 gennaio 1853, p. 2, col. 1.33 ARCHIVIO DI STATO DI TORINO [AST], Consolati nazionali: Panama, 1 mazzo, 1851-1858:

rapporto del 5 giugno 1852.34 AST, Consolati nazionali: Lima, 1 mazzo, 1840-1859, fascicolo 1844-1849, rapporto del 7 giu-

gno 1844: “Giuseppe Canevaro, nativo di Zoagli, Provincia di Chiavari, Ducato di Genova, da

trent’anni e più assente dalla Patria...”.35 AST, Corrispondenza impieghi diversi - Miscellanea, 1850-1851, documento n° 85252: in data

19 settembre 1850 (letter n° 938), il Vice Presidente della Camera di Commercio di Genova scrive al

Ministero degli Affari Esteri di Torino sui Consolati nazionali in America.36 AST, Corrispondenza impieghi diversi - Miscellanea, 1845, documento n° 22527: Valparaiso, 26

gennaio 1845.37 AST, Consolati nazionali: Milano, rapporto del 25 agosto 1831. Vedi, anche, AST, Materie poli-

tiche, Gabinetto di Polizia, 1831: Cartella 12a: lettera della Direzione di Polizia Generale al Seg. di

Stato per gli Affari Esteri, 25 agosto 1831.38 AST, Consolati nazionali: Lima, rapporto del 7 giugno 1844: “Solari David Emanuele, nativo

della Città e Provincia di Chiavari, Ducato di Genova, Dottore in medicina, Professore di Patologia

e Terapeurica nel Collegio dell’Independenza di Lima...”.39 GIUSEPPE MAZZINI, Scritti editi ed inediti..., vol. XIX, Epistolario, vol IX, Imola, Paolo Galeati,

1927, p. 151: poscritto alla lettera MCCLXIII, del 3 giugno 1840.40 AST, Consolati nazionali: Lima, rapporti del 7 giugno 1844, e del 10 settembre 1853. Solari

morì a Lima il 27 agosto 1853.41 ARCHIVIO STORICO DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI (La Farnesina), Roma: Consolato

di Lima: 1855-1861, pacco n° 255: allegato al rapporto del 10 maggio 1860.42 AST, Consolati nazionali: Lima, rapporto del 8 novembre 1851.43 AST, Consolati nazionali: Lima, rapporto del 8 ottobre 1851.44 G. GARIBALDI, Epistolario, vol. III (1850-1858) cit., p. 51: lettera n° 716, Boston, 19 settembre

1853.45 Ivi, p. 53: lettera n° 720, Boston, 21 settembre 1853

Studi Garibaldini

78