Compositi epossidici nanostrutturati basati su nanotubi di carbonio Compositi epossidici...

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Università degli studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di ingegneria Corso di Laurea in Ingegneria dei Materiali Cattedra di Scienza e Tecnologia dei materiali aeronautici e aerospaziali Compositi epossidici nanostrutturati basati su nanotubi di carbonio Candidato Giovanni De Bellis Matricola 784416 Anno Accademico 2006/2007 Relatore Correlatore Prof. Gilberto Rinaldi Dott. Stefano Bellucci

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Università degli studi di Roma “La Sapienza”

Facoltà di ingegneria

Corso di Laurea in Ingegneria dei Materiali

Cattedra di Scienza e Tecnologia dei materiali aeronautici e aerospaziali

Compositi epossidici nanostrutturati basati su nanotubi di carbonio

Candidato

Giovanni De Bellis

Matricola 784416

Anno Accademico 2006/2007

Relatore Correlatore

Prof. Gilberto Rinaldi Dott. Stefano Bellucci

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Alla mia famiglia

e a tutti coloro che hanno creduto

in me, restandomi vicini

con il bello e il cattivo tempo

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Indice

Introduzione I

Capitolo 1. Dal Macro al Nanomondo

1.1 Materiali compositi 1

1.1.1 Breve storia dei materiali compositi 1

1.1.2 Tipi di compositi e fillers 2

1.1.3 Proprietà generali dei compositi 7

1.2 Nanotecnologia e nanostrutture 22

1.2.1 Introduzione alle nanotecnologie 22

1.2.2 Nanostrutture 26

1.2.3 Proprietà dei nanomateriali 28

1.2.4 Applicazioni dei nanomateriali 38

1.3 Nanotubi di carbonio 49

1.3.1 Introduzione 49

1.3.2 Allotropi del carbonio 50

1.3.3 Struttura dei nanotubi di carbonio 55

1.3.4 Difetti dei nanotubi di carbonio 60

1.3.5 Metodi di sintesi dei CNTs 63

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1.3.6 Meccanismi di crescita dei nanotubi 66

1.3.7 Metodi di purificazione e funzionalizzazione 71

1.3.8 Proprietà dei CNT 74

1.3.9 Applicazioni dei nanotubi di C 80

1.3.10 Caratterizzazione dei CNTs 88

Capitolo 2. Parte sperimentale

2.1 Materiali utilizzati 100

2.1.1 Resina epossidica 100

2.1.2 Indurente 102

2.1.3 Grafite 104

2.1.4 Nanotubi di carbonio 104

2.2 Sintesi dei nanotubi di carbonio 108

2.2.1 Scarica ad arco di plasma 108

2.3 Realizzazione dei provini 118

2.3.1 Preparazione dei provini per test di trazione 124

2.3.2 Preparazione dei provini per test di resilienza 127

2.4 Risultati e discussione 128

2.4.1 Caratterizzazione dei nanotubi 128

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2.4.2 Prove di trazione 136

2.4.3 Prove di resilienza 160

2.4.4 Prove di durezza 166

Capitolo 3. Conclusioni e prospettive future

Conclusioni 169

Prospettive future 171

Bibliografia 173

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Introduzione

Lo studio dei nanocompositi costituisce un campo di recente interesse,

grazie al successo che l’avvento delle nanotecnologie ha avuto sulla comunità

scientifica e industriale. Fullereni, nanotubi di carbonio e nanostrutture in genere,

sono stati e sono tuttora utilizzati nei più disparati campi, in virtù delle loro

peculiari caratteristiche, come “cariche” di materiali più convenzionali, quali

resine termoplastiche e termoindurenti, materiali metallici e ceramici avanzati. I

compositi polimerici sono importanti materiali commerciali con applicazioni che

includono elastomeri caricati per lo smorzamento (damping), isolanti elettrici,

conduttori termici e compositi per aeromobili ad alte prestazioni. Per creare

compositi con proprietà ad hoc, vengono scelti materiali con caratteristiche

sinergiche; ad esempio, le fibre di carbonio ad alto modulo elastico ma

intrinsecamente fragili, vengono aggiunte a polimeri con basso modulo di Young

per creare compositi leggeri, di elevata rigidità e con una certa tenacità.

.

Tuttavia, negli ultimi anni sono stati raggiunti i limiti di ottimizzazione

delle proprietà dei compositi caricati con i tradizionali fillers micrometrici, perché

le proprietà raggiunte comportano in genere dei compromessi (ad es. la rigidità

può venire sacrificata in favore della tenacità). Inoltre, i difetti macroscopici

presenti nelle regioni a bassa o alta frazione volumetrica del riempitivo, portano

spesso al degrado, se non alla rottura del manufatto. Recentemente, si è aperta

un’ampia finestra di opportunità per supplire alle limitazioni dei tradizionali

Fig. 1 Modello della molecola del C60 (Fullerene)

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Introduzione

II

compositi polimerici a carica micrometrica, grazie all’introduzione dei compositi

a matrice polimerica con filler nanometrici, nei quali il riempitivo presenta

dimensioni <100nm (nanometri) lungo almeno uno degli assi.

Sebbene alcuni compositi nanocaricati (come i polimeri caricati con

carbon black e fumi di silice) siano stati utilizzati per più di un secolo, soltanto

negli ultimi anni si è avvertita la forte crescita della ricerca e sviluppo dei

nanocompositi, questo per diverse ragioni. Innanzitutto, in alcuni nanocompositi è

stata osservata una combinazione di proprietà senza precedenti. Ad esempio,

caricando una resina epossidica con una frazione volumetrica del solo 0.04% di

MCT (mica-type silicates), si ottiene un aumento del modulo elastico del 58% al

di sotto della Tg, e del 450% nella regione al di sopra della temperatura di

transizione vetrosa. La seconda ragione per il grande aumento delle ricerche e

degli sforzi per lo sviluppo, è stata la scoperta nel 1991 dei nanotubi di carbonio.

Sebbene un’analisi più approfondita, abbia mostrato che in realtà i nanotubi di

carbonio erano già stati osservati negli anni ’60, è stato solo nella metà degli anni

’90 che essi furono prodotti in quantità adatte alla valutazione delle proprietà dei

compositi [1]. Le proprietà dei nanotubi di carbonio, in particolare la loro

resistenza e le proprietà elettriche, sono sensibilmente diverse da quelle della

grafite ed offrono possibilità enormi per i nuovi materiali compositi. In ultima

analisi, lo sviluppo di tecniche inerenti alla chimica di produzione di

nanoparticelle e nanocompositi, ha portato a un controllo senza precedenti sulla

morfologia di questi ultimi, come pure l’abilità quasi infinita nel controllo

dell’interfaccia tra matrice e filler. Nonostante la comunità scientifica abbia fatto

progressi nella lavorazione dei nanocompositi, stiamo soltanto cominciando a

mettere insieme i gruppi interdisciplinari per comprenderne, adattarne ed

ottimizzarne le proprietà. Tuttavia è stata acquisita la capacità di cambiare forma

dimensione, frazione volumetrica, interfaccia e grado di dispersione o

aggregazione. Quando i supporti teorici e sperimentali avranno messo insieme

abbastanza informazioni da guidare ulteriori sviluppi, potranno aprirsi infinite

opportunità.

Una domanda importante che bisogna porsi adesso, è: “Cos’è che rende

uniche le nanocariche rispetto alle tradizionali cariche micrometriche, e come si

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Introduzione

III

relazionano i nanocompositi con le loro controparti macroscopiche?” La

differenza più ovvia è la piccola dimensione delle cariche. Ad esempio le piccole

dimensioni significano che le particelle non creano elevate concentrazioni di

sforzi e quindi non compromettono la duttilità del polimero.

La piccola dimensione delle nanocariche può anche portare a proprietà

uniche delle particelle stesse. Ad esempio i nanotubi a parete singola sono

essenzialmente molecole prive di difetti e presentano un modulo elastico di circa 1

TPa e carichi di rottura che possono arrivare a 500 GPa. In aggiunta all’effetto

delle dimensioni sulle proprietà delle nanoparticelle, la piccola taglia delle cariche

porta ad una superficie all’interfaccia nei compositi eccezionalmente estesa. In

figura 2 è mostrata la variazione dell’area superficiale per unità di volume in

funzione della dimensione delle particelle, nel caso in cui queste ultime siano

sferiche e con l’ipotesi di dispersione ideale. E’ evidente l’enorme aumento

dell’area superficiale sotto i 100 nm. L’interfaccia controlla l’entità

dell’interazione tra il filler ed il polimero, determinando le proprietà finali del

composito. Ne consegue immediatamente che la maggiore sfida nello sviluppo dei

nanocompositi, potrebbe essere imparare a controllare la regione interfacciale,

cioè “quella regione che comincia nel punto della fibra, in cui le proprietà

differiscono da quelle della carica in bulk, e termina nel punto della matrice in cui

le proprietà divengono uguali a quelle della matrice in bulk” [2]. Può essere una

Fig. 2 Andamento del rapporto dell'area superficiale/volume unitario, in funzione

della dimensione delle particelle sferiche, nel caso di dispersione ideale

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Introduzione

IV

regione dalla struttura chimica alterata, o nella quale è alterata la mobilità delle

catene polimeriche, il grado di reticolazione o ancora la cristallinità. L’estensione

della regione interfacciale può variare dai 2 ai 50 nm circa. Per migliorare le

proprietà dei nuovi nanocompositi, risultano cruciali i metodi di processamento

che portano al controllo della distribuzione dimensionale, della dispersione e delle

interazioni interfacciali. Le tecniche di lavorazione dei nanocompositi sono

diverse da quelle utilizzate per i compositi con fillers micrometrici; ecco perché

tra le ragioni del recente successo troviamo i nuovi sviluppi nei nanocompositi.

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Capitolo 1

Dal Macro

al

nanomondo

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Capitolo 1

1.1-Materiali compositi

1.1.1-Breve storia dei materiali compositi

I primi compositi, ottenuti miscelando paglia e argilla (o fango), furono

utilizzati fin dall’antichità per la produzione di mattoni per le abitazioni: la paglia

costituiva il rinforzo mentre l’argilla, o il fango, costituiva la matrice. In tempi

meno remoti, possiamo ricordare che il cemento rinforzato con i tondini metallici

è ormai comunemente utilizzato da più di 150 anni nella costruzione di edifici,

ponti, come anche di statue e opere d’arte. Nello sviluppo di tutti questi prodotti

ha giocato un ruolo fondamentale l’orientamento delle fibre e la disposizione del

rinforzo in genere. Oggi ciò che rappresenta lo “stato dell’arte” nei compositi è la

scelta delle giuste fibre con la matrice opportuna e la valutazione della posizione e

dell’orientamento delle prime per ottimizzare il prodotto. Se l’uomo ha cercato di

dire la sua già in epoche molto antiche, non si può dire che la natura sia stata da

meno. Tra i compositi “naturali” possiamo, infatti, annoverare strutture

eccezionali come le ossa o il legno. Nelle ossa la struttura di base è composta di

una “rete” di collagene, costituente il rinforzo, immersa in una matrice di

idrossiapatite, formata da Calcio, Sodio, Fosforo, Magnesio e Fluoro. Entrambi i

materiali contribuiscono a caratterizzare il comportamento meccanico delle ossa,

poiché le fibre di collagene resistono ai carichi di trazione, mentre la matrice

Fig. 1 Struttura delle ossa

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resiste ai carichi di compressione. Analogamente alle ossa, anche il legno

costituisce un brillante esempio di composito naturale, formato da un rinforzo di

fibre di cellulosa orientate prevalentemente in direzione longitudinale, contenute

in una matrice di lignina. La disposizione fortemente orientata di tali fibre

comporta un’elevata anisotropia delle caratteristiche meccaniche del legno nelle

diverse direzioni di sollecitazione. Al giorno d’oggi con il termine “composito” o

materiale composito, ci si riferisce ad una combinazione matrice-rinforzo

altamente ingegnerizzata, espressamente ideata per rispondere alle specifiche di

un mercato sempre più esigente.

1.1.2-Tipi di compositi e fillers

Un materiale composito è la combinazione, su scala macroscopica, di due

o più materiali distinti e insolubili, aventi un’interfaccia ben individuabile. I

compositi non sono utilizzati soltanto per le loro caratteristiche meccaniche, ma

anche per quelle elettriche, termiche, tribologiche e ambientali. I moderni

materiali compositi sono generalmente ottimizzati per raggiungere un particolare

bilanciamento di diverse proprietà, in un dato range di applicazioni. Non è

agevole dare una definizione semplice ed univoca di materiale composito, dato il

gran numero di materiali che possono essere considerati tali e l’ampio spettro di

campi di applicazione entro i quali essi possono venir sviluppati. Tuttavia, come

definizione pratica comunemente accettata, la parola “composito” indica

Fig. 2 Micrografia SEM e struttura del legno.

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prevalentemente quei materiali contenenti una matrice continua, che lega insieme

un array di rinforzi più rigidi e resistenti, garantendone la forma [3]. Il composito

ottenuto presenta caratteristiche meccaniche superiori ad entrambi i suoi

costituenti, presi singolarmente, risultante da un meccanismo di “load-sharing”.

Nonostante i compositi ottimizzati per altre proprietà funzionali (al di là

dell’efficienza strutturale) possano essere prodotti a partire da diverse

combinazioni dei costituenti di base, che si accordino alla precedente definizione

“strutturale”, si è visto che quelli sviluppati per applicazioni strutturali

garantiscono prestazioni interessanti anche nelle altre aree funzionali. Ecco perché

la semplice definizione data in precedenza ben si adatta a gran parte degli attuali

compositi funzionali. I compositi contengono generalmente una fase fibrosa o

particellare che è più rigida e resistente della matrice continua. Molti tipi di

rinforzi mostrano spesso anche una buona conducibilità elettrica e termica, un

coefficiente di espansione termica inferiore a quello della matrice ed una buona

resistenza all’usura. Ci sono tuttavia delle eccezioni che possono ancora essere

considerate compositi, come ad esempio le gomme modificate, nelle quali la fase

discontinua, più duttile della matrice polimerica, provoca un incremento di

tenacità. Analogamente i fili di acciaio sono stati utilizzati come rinforzo delle

ghise colate nei freni degli autoarticolati.

Esistono diversi metodi per classificare i materiali compositi. Un primo metodo è

quello secondo il quale i compositi sono contraddistinti in base al tipo di matrice

presente. Secondo questa classificazione, essi vengono distinti in :

Compositi a matrice metallica (MMC);

Compositi a matrice ceramica (CMC);

Compositi a matrice polimerica (PMC).

In ognuno di questi sistemi la matrice costituisce una fase continua attraverso tutto

il componente. Nei compositi “metallici” e “polimerici”, essendo la matrice già di

per sé duttile, il compito del riempitivo è in genere quello di conferire rigidità al

materiale finale, nonché caratteristiche specifiche a seconda della particolare

applicazione. Nei compositi a matrice ceramica invece, essendo quest’ultima

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generalmente fragile, il compito del filler è quello di aumentarne la tenacità, che

rimane comunque sostanzialmente modesta, al massimo di poco superiore a quella

di una buona ghisa (~20 MPa 𝑚).

Il secondo tipo di classificazione fa invece riferimento al tipo ed alla forma del

riempitivo utilizzato. Stando a questa classificazione i possibili rinforzi si

distinguono in (Fig. 3):

particellari;

a fibre corte;

a fibre lunghe;

Whiskers;

Per ottenere un sostanziale incremento delle proprietà nel composito finale, il

rinforzo deve essere aggiunto in frazioni volumetriche almeno dell’ordine del

10%. Tale rinforzo è considerato “particellare” se le sue dimensioni sono

all’incirca uguali lungo tutti gli assi. In questa categoria rientrano quindi anche i

fiocchi, le sfere e qualsiasi altra forma che garantisca una certa equiassialità. I

whiskers presentano, al contrario, una elevata orientazione, con rapporti tra

lunghezza e diametro (aspect ratio) dell’ordine dei 20-100. I whiskers e le

particelle sono generalmente considerati dei rinforzi di tipo discontinuo, a meno di

non arrivare a frazioni volumetriche che garantiscano la formazione di un network

continuo all’interno della matrice. Quando le particelle sono utilizzate come

riempitivo, con finalità che vanno dalla riduzione dei costi all’ottenimento di

compositi antistatici, piuttosto che come rinforzo (come avviene ad esempio in

molti compositi a matrice polimerica) si parla di “fillers”, o semplicemente

cariche. Malgrado ciò, si può ottenere un rinforzo strutturale con l’utilizzo di

fillers, anche quando questi vengono aggiunti per altri scopi, quali il ritardo di

fiamma, la riduzione dei ritiri o l’aumento di conducibilità elettrica e termica.

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Fig. 3 Materiali compositi: (a), a particelle disperse; (b), a fibre corte disperse, (c) a fibre

lunghe.

Analizzando più nel dettaglio la distinzione fatta sopra, possiamo dire che:

• I compositi a particelle disperse, come l’allumina, presentano normalmente un

comportamento isotropo. L’efficacia di un simile rinforzo dipende fortemente

dalle proprietà dei componenti:

-Con una matrice fragile, si utilizzano particelle duttili per avere una resistenza

comunque elevata e guadagnare deformabilità.

-Con una matrice duttile, invece, si preferiscono rinforzi estremamente

resistenti e fragili, per accrescere la resistenza, pur mantenendo la tenacità. È il

caso della diffusione di allumina (ossido di alluminio, Al2O3) in una matrice di

alluminio (Al). Le proprietà risultanti, come sempre per i compositi, variano al

variare delle percentuali di matrice e rinforzo.

• I compositi a fibre sono molto diffusi, perché presentano caratteristiche notevoli,

in particolare la resistenza elevata e il basso peso. Molti materiali sono

resistentissimi quando si trovano sotto forma di rinforzo: il vetro, per esempio,

considerato normalmente fragile e poco resistente, ha Rm=170 MPa nella forma

“classica”, ma arriva a 3500 MPa in fibre di diametro inferiore ai 100 μm. Allo

stesso modo si comportano la grafite e il carbonio. Le fibre tuttavia non

sopportano carichi di compressione, di conseguenza serve un materiale che funga

da matrice per distribuire le sollecitazioni sul rinforzo uniformemente e che

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protegga le fibre dal contatto con ambienti aggressivi. Le fibre, a seconda della

dimensione, possono essere:

-Corte, con ø = 1÷10 μm, L = 10÷100 ø, sia disposte casualmente che

orientate. I compositi a fibre corte disperse sono, come i compositi a particelle,

isotropi. Quelli a fibre allineate invece sono anisotropi, in particolare spesso sono

orto tropi, ossia presentano due direzioni di orientazione preferenziali, ortogonali

tra di loro.

-Lunghe, allineate fra loro: un caso naturale sono le fibre di cellulosa nella

lignina, che conferiscono resistenza elevata ma solo nella direzione delle fibre,

mentre in tutte le altre la resistenza rimane molto bassa.

• Laminati: i compositi a fibre lunghe vengono sovente combinati per uniformare

la resistenza nelle diverse direzioni, realizzando sovrapposizioni di strati (lamine)

con le fibre orientate diversamente e ottenere un laminato con proprietà simili in

tutta una giacitura. Un problema frequente di queste strutture è la delaminazione,

cioè il distacco di uno o più strati, che si può equiparare a un difetto puntuale, o

una cricca microscopica, che si propaga su una direzione preferenziale nel

materiale. La frattura può avanzare fra due diversi strati, che si separano come

fogli di carta, o perpendicolarmente alle fibre: il risultato dipende dal

comportamento della fibra, che può sfilarsi dalla matrice, o restare intatta e unire

le due parti, nel caso in cui la frattura si sia propagata alla superficie di interfaccia

fra i due componenti.

Fig. 4 Struttura di un laminato

con diverse orientazioni delle

singole lamine: (a) Laminato con

disposizione unidirezionale delle

singole lamine; (b) Laminato

crossplied con lamine

disorientate di 45° l’un l’altra e

comportamento quasi-isotropo.

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• Sandwich: sono formati da strati di compositi a fibre, frapposti ai quali si

trovano strati di elementi a nido d’ape o spugne rigide, per ottenere una buona

compensazione delle rigidezze. Applicazioni caratteristiche sono quelle dei

paraurti d’automobile e delle ali degli aeromobili civili.

1.1.3-Proprietà generali dei compositi

Non è possibile definire in modo univoco le proprietà dei compositi, senza

subordinarle al particolare tipo di matrice che viene utilizzato come continuum.

Ciononostante è possibile elencare le proprietà che generalmente si cerca di

ottenere dall’unione di due materiali con caratteristiche chimico-fisiche diverse.

Alcune di esse sono:

Fig. 5 Struttura di un pannello sandwich

"a nido d'ape"

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Resistenza meccanica

Rigidità

Resistenza alla corrosione

Resistenza all’usura

Peso

Vita a fatica

Isolamento termico

Conducibilità termica-elettrica

Isolamento acustico

Prestazioni ad alta-bassa temperatura

Naturalmente queste proprietà non possono venire incrementate tutte

contemporaneamente, tanto più che alcune di esse sono in conflitto, come ad

esempio l’incremento di conducibilità termica e di isolamento termico. Tornando

alle diverse tipologie di matrice utilizzate, possiamo brevemente richiamare le

caratteristiche di base di ognuna di esse, tenendo presenti i compiti generali che le

accomunano, quali il trasferimento degli sforzi al filler, la protezione del filler

dall’ambiente esterno ed il supporto dello stesso. Generalmente la matrice

presenta densità, resistenza e rigidezza inferiori dei rinforzi o whiskers inglobati.

Tuttavia, la combinazione di matrice e rinforzo può presentare le stesse

caratteristiche di resistenza e rigidezza, pur conservando un peso contenuto.

Matrici polimeriche. Le tre principali classi di polimeri strutturali sono:

le gomme;

i termoplastici;

i termoindurenti.

Le gomme sono polimeri reticolati, che presentano una struttura

sensibilmente semicristallina, soltanto al di sotto della temperatura ambiente. I

termoplastici sono polimeri che formano legami ramificati, ma generalmente non

reticolano. Essi possono essere portati a fusione per semplice riscaldamento e

solidificati mediante raffreddamento. Ne sono esempi il polietilene, il

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polipropilene, il nylon, il policarbonato, i polisolfoni ed i più recenti

polietereterchetoni (PEEK). E’ bene tener presente, che alcuni di questi polimeri,

quali ad esempio il polietilene, hanno temperature di rammollimento che al

massimo arrivano a 300°C, con Tg molto inferiori, nonché una bassa rigidità e

resistenza, a causa dei deboli legami secondari tra le catene, per cui poco si

prestano agli impieghi strutturali dei materiali compositi [4]. I termoindurenti

sono invece polimeri che hanno reagito chimicamente finché quasi tutte le

molecole sono irreversibilmente reticolate in un network tridimensionale

infusibile. Una volta che il termoindurente si è consolidato, non è più possibile

variarne la forma. Esempi classici di polimeri termoindurenti sono le resine

epossidiche e le poliesteri insature.

Matrici metalliche. Le matrici metalliche conferiscono al composito la possibilità

di poter operare a temperature più elevate rispetto a quelli a matrice polimerica.

La maggior parte dei compositi a matrice metallica è stata sviluppata per

l’industria aerospaziale e automobilistica, anche se non mancano applicazioni in

altri campi. Anche gli MMC (Metal Matrix Composites), possono venire

rinforzati con differenti geometrie del filler, sia esso in forma di fibre continue,

fibre corte discontinue o particelle. I metalli utilizzati per le matrici degli MMC

(a) (b) (c)

Fig. 6. Differenti tipi di catene polimeriche: (a) lineari; (b) con ramificazioni laterali; (c) a

legami incrociati.

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sono spesso Al, Ti e leghe Ni-Cr. Date le maggiori temperature di fusione, si ha

un cambiamento delle tecniche di lavorazione degli MMC rispetto ai PMC: tra le

più utilizzate troviamo il diffusion bonding e il riscaldamento, seguito da

infiltrazione sotto vuoto.

Matrici ceramiche. Le matrici ceramiche sono quelle che presentano le più

elevate temperature di fusione, con limiti di utilizzo intorno ai 1800°C, sebbene

nelle applicazioni pratiche le massime temperature raggiunte siano inferiori. I

materiali utilizzati per le matrici dei CMC (Ceramic Matrix Composites) sono in

genere ossidi come l’Allumina (Al2O3), nitruri (AlN, Si3N4), carburi (SiC, TiC,

WC) e vetroceramici come l’alluminosilicato di litio [5].

Le tecniche di produzione dei compositi a matrice ceramica, come

l’infiltrazione chimica da vapore (CVI), la pirolisi da precursori polimerici o la

più classica sinterizzazione, possono risultare costose e complesse, proprio a

causa delle elevate temperature di fusione di questi materiali. I rinforzi utilizzati,

in forma di particelle, fibre o whiskers, hanno la principale funzione di mitigare la

fragilità intrinseca delle matrici ceramiche. In particolare l’aggiunta dei whiskers

come rinforzo, porta ad un aumento consistente della tenacità, pur conservando

una tecnica di formatura relativamente poco costosa.

I CMC rinforzati con fibre vengono generalmente progettati in modo da

avere un rapporto Ef / Em>1 (cioè un modulo elastico della fibra superiore a quello

della matrice), di modo che sia la fibra ad assorbire gli stress che tenderebbero ad

aprire e far propagare la cricca. La caratteristica più interessante nei CMC

Tab. 1. Temperature limiti di esercizio (approssimative) delle diverse

matrici

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rinforzati con fibre è l’elevato pull out, cui si assiste prima della rottura, dovuto

agli sforzi tangenziali relativamente bassi all’interfaccia fibra-matrice, nonché ad

un basso modulo di Weibull delle fibre stesse [6].

Materiali per le fibre. Generalmente i rinforzi sotto forma di fibre

provengono da composti di elementi leggeri, quali B,C,Si,O, contenenti legami

covalenti che impartiscono maggiore resistenza e rigidezza rispetto ai legami

metallici e ionici. Questi composti vengono lavorati fino all’ottenimento di fibre o

filamenti con microstruttura altamente allineata e direzionale, in modo da

garantire le massime prestazioni (in termini di σ ed E) lungo l’asse della fibra

stessa. Tra le fibre più utilizzate vi sono sicuramente le fibre di vetro, carbonio,

boro e le aramidiche (Kevlar).

Fibre di vetro. Grazie al loro basso costo e alle discrete caratteristiche,

sono in assoluto le fibre più utilizzate tra i prodotti di largo consumo, e quelle che

hanno beneficiato del più lungo periodo di sviluppo. Esse vengono prodotte

miscelando a secco sabbia di silice, calcare, acido borico ed altri ingredienti,

portando poi la miscela a fusione a circa 1260°C e filando in forma di fibre, con

struttura interna amorfa. Come tutte le altre fibre per rinforzi di compositi, le fibre

di vetro vengono ricoperte con un sottile strato di coating, chiamato appretto, il

quale gioca diversi ruoli nel composito finale, quali la formazione di un legame

tra la fibra e il materiale di matrice, l’aumento di lavorabilità e la protezione delle

fibre all’interno del composito da alcuni effetti ambientali [7].

Le fibre più utilizzate nel campo dei compositi sono sicuramente le fibre di

vetro E, le fibre di vetro S ad alta resistenza e quelle ultrapure. La densità di

queste fibre varia dai 2,15 g/cm3 ,fino ai 2,54 g/cm

3 delle fibre di vetro E. Le

temperature di utilizzo variano invece tra i 500 °C dei vetri E, fino ai 1050°C delle

fibre di vetro alla silice / quarzo.

Fibre aramidiche. Vengono generalmente classificate in base al modulo

elastico nei tre tipi LM (Low Modulus), IM (Intermediate Modulus) e HM (High

Modulus) , queste ultime meglio note sotto il marchio Kevlar. La densità varia tra

1,39g/cm3 delle LM, fino a 1,47g/cm

3 delle HM. Il carico di rottura e il modulo

elastico variano invece rispettivamente tra 3000 MPa e 70 GPa delle LM, fino ai

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12

3500 MPa e 179GPa delle HM. Le fibre aramidiche presentano inoltre un elevato

modulo specifico e temperature di esercizio anche di 160°C [3].

Fibre di carbonio. Esistono cinque tipi di fibre di carbonio: a modulo

standard (SM), ad alto modulo (HM), a modulo ultraelevato (UHM), alta

resistenza-tenacità (HT) o a modulo intermedio (IM) e a basso modulo (LM). La

densità di tali fibre varia tra gli 1,74g/cm3 delle HT ai 2,18g/cm

3 delle UHM. Le

fibre di carbonio ad alta tenacità presentano i più elevati valori di resistenza (7,1

GPa) e resistenza specifica (0,398 Mm) di tutte le fibre da rinforzo conosciute. Le

fibre di carbonio UHM, presentano invece il più elevato modulo elastico (966

GPa) e il maggiore modulo specifico (45,2 Mm), proprietà, quest’ultima, di

fondamentale importanza nell’industria aeronautica e aerospaziale.

La locuzione “fibra di carbonio”, si riferisce a fibre il cui contenuto in C

sia di almeno il 92%. La loro struttura può essere cristallina, amorfa o

parzialmente cristallina. La forma cristallina presenta la struttura della grafite,

costituita da atomi di C, ibridati sp2, arrangiati in un reticolo bidimensionale con

struttura a nido d’ape a celle esagonali (Fig. 7). Nonostante i legami tra gli atomi

di carbonio all’interno del singolo piano di grafite siano prevalentemente

covalenti, i legami tra un piano e l’altro sono di tipo van der Walls e ciò rende

possibile lo scorrimento dei vari piani l’uno sull’altro. Questa differenza tra i

legami dentro e fuori il singolo piano è responsabile dell’alto modulo elastico

Fig. 7. Struttura cristallina della grafite

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della grafite, parallelamente al piano e del basso modulo presentato

ortogonalmente. La grafite è quindi un materiale altamente anisotropo.

Da dove deriva quindi l’alto modulo elastico delle fibre di carbonio? Nelle

fibre di carbonio l’elevato modulo di Young è il risultato dell’allineamento di

piani di carbonio, parallelamente all’asse della fibra, con formazione della

cosiddetta texture (tessitura). Ne risulta un modulo elastico in direzione parallela

all’asse della fibra maggiore che in direzione ortogonale [8]. Le fibre di carbonio

sono inoltre, elettricamente conduttrici e possono sostenere temperature di 500°C

in ambienti ossidanti. Le fibre di carbonio vengono ottenute a partire da precursori

differenti, quali il PAN (PoliAcriloNitrile, polimero termoplastico), il rayon e la

pece.

Fibre di carborundum. Sono fondamentalmente fibre di SiC, contenenti un

anima di carbonio, ottenute mediante la tecnica della CVD (Chemical Vapour

Deposition) attraverso la decomposizione di diversi gas come metano, idrogeno e

trimetilsilano su una fibra di carbonio pirolitico parzialmente grafitizzato.

La fibra di carborundum è quindi una fibra composita, e proprio per

questo motivo presenta dimensioni trasversali maggiori delle fibre di vetro e

carbonio, con diametri medi tra i 100 e 180 µm. Essa viene utilizzata

principalmente con matrici metalliche a base di leghe di Al e Ti. Le fibre di SiC

presentano inoltre, interessanti valori di resistenza a trazione (3,45 GPA) e

modulo di Young (400 GPa), a fronte di un peso specifico piuttosto contenuto (3

g/cm3) [4].

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Tab. 2. Alcune proprietà di materiali comunemente utilizzati come fibre di rinforzo.

Fibre di boro. Anch’esse sono ottenute tramite CVD, utilizzando come

supporto un filamento di tungsteno. Per questo motivo anche le fibre di B

presentano diametri rilevanti, che possono raggiungere decimi di mm. Il peso

specifico di tali fibre varia in un ampio intervallo tra 2,4 e 7,6 g/cm3, mentre il

modulo di Young e la resistenza a trazione rientrano rispettivamente negli

intervalli 360-440 GPa e 2,3-2,8 GPa.

Per quanto riguarda le proprietà meccaniche dei materiali compositi

partcellati, diversi studi hanno mostrato che tanto il modulo elastico quanto il

carico di rottura del composito finale, variano entro un limite massimo teorico ed

uno minimo, in dipendenza dalle frazioni volumetriche dei materiali costituenti

secondo la ben nota Regola delle miscele. Il modulo di Young di un composito a

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fibre lunghe, sollecitato parallelamente a queste ultime si ottiene come

combinazione dei moduli elastici delle fibre (Ef) e della matrice (Em):

𝐸𝐶∥ = 𝑉𝑓𝐸𝑓 + (1 − 𝑉𝑓)𝐸𝑚 (1.1)

Dove Vf rappresenta la frazione in volume della fase fibre. Il modulo elastico

della stessa struttura, ma sollecitata ortogonalmente alla direzione di allineamento

delle fibre risulta inferiore ed è espresso da:

𝐸𝐶⊥= 𝑉𝑓

𝐸𝑓 +

1−𝑉𝑓

𝐸𝑚 −1

(1.2)

I moduli elastici E∥ed 𝐸⊥ per uno stesso composito con, ad esempio, il 50% in

volume di fibre, differiscono sensibilmente; un composito uniassiale (in cui le

fibre risultano allineate tutte nella stessa direzione), risulta notevolmente

anisotropo. Utilizzando però delle fibre intrecciate ortogonalmente (Fig. 8), è

possibile rendere uguali i moduli elastici nelle direzioni 0° e 90° (rispetto alla

sollecitazione), pur rimanendo molto bassi i moduli a 45°. Un comportamento

approssimativamente isotropo si può ottenere, come visto precedentemente,

sovrapponendo lamine con direzioni delle fibre sfalsate di 45°, ottenendo un

laminato a fibre del tipo “plywood” [9].

Fig. 8 (a) Se sollecitate lungo la direzione

di allineamento delle fibre, la matrice e le

fibre di un composito a fibre continue

subiscono eguale deformazione; (b)

caricando invece il composito in direzione

ortogonale all’asse delle fibre, sia le

matrice che le fibre stesse, subiscono

all’incirca la stessa sollecitazione; (c) un

laminato 0°-90° presenta delle direzioni di

alto e basso modulo elastico.

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Resistenza a trazione e lunghezza critica della fibra. Molti compositi a

fibre lunghe sono costituiti da fibre resistenti ma fragili e da una matrice

polimerica duttile. La curva sforzo-deformazione per tali compositi è del tipo

mostrato in Fig. 9. La curva risulta avere andamento lineare , con pendenza pari

ad E (equazione 1), fin quando non si ha il cedimento della matrice, dopodiché il

carico in più viene supportato dalle fibre, le quali continuano a deformarsi

elasticamente fino a rottura. Quando avviene la rottura delle fibre, il carico si

riporta ai valori del carico di snervamento della matrice finché, con la rottura di

quest’ultima, non si ha il completo cedimento del composito. In qualsiasi

applicazione strutturale, ciò che interessa è il carico massimo, poiché in

Fig. 9 Curva sforzo-deformazione di un comune composito a

fibre lunghe (linea marcata), e relative curve dei costituenti

separati (tratto leggero). Lungo i picchi le fibre sono sul

punto di cedere.

Fig. 10 Variazione del carico massimo con la

% in volume di fibre.

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corrispondenza di esso le fibre sono sul punto di rompersi, mentre la matrice ha

già ceduto, cosicché il carico è dato dal carico di snervamento della matrice 𝜎𝑦𝑚 e

dal carico di rottura delle fibre 𝜎𝑅𝑓, combinate secondo la regola delle miscele:

𝜎𝑇𝑆 = 𝑉𝑓𝜎𝑅𝑓

+ 1 − 𝑉𝑓 𝜎𝑦𝑚 (1.3)

Questo comportamento è mostrato sulla linea crescente a destra in Fig. 10. Una

volta che le fibre si sono rotte, il carico giunge ad un secondo massimo,

determinato dal carico di rottura della matrice (𝜎𝑅𝑚 ):

𝜎𝑇𝑆 = 1 − 𝑉𝑓 𝜎𝑅𝑚 (1.4)

Questa fase è mostrata dalla linea decrescente sulla destra di Fig. 10. Dalla figura

si vede anche come l’aggiunta di troppo poche fibre possa risultare, oltre che

inutile, addirittura dannoso. Per ottenere un effettivo incremento di resistenza

bisogna raggiungere per lo meno il valore di soglia critico 𝑉𝑓𝑐𝑟 della frazione in

volume di fibre. Se le fibre sono troppo poche, esse si rompono prima del

raggiungimento del picco, riducendo la resistenza finale del composito. In molte

applicazioni non è necessario l’utilizzo di fibre lunghe: fibre corte tagliate

possono essere convenientemente utilizzate conducendo a valori di resistenza

simili ai compositi a fibre lunghe, qualora la lunghezza della fibra superi un valore

minimo detto lunghezza critica della fibra. Consideriamo il carico massimo

sopportabile da un composito a fibre corte tagliate, costituito da una matrice con

un carico di snervamento di taglio pari a 𝜎𝜏𝑚 (𝜎𝜏

𝑚 ≈1

2𝜎𝑦𝑚 ). La Fig. 11 mostra che

la forza assiale elementare trasmessa ad un elementino di fibra di diametro d,

lungo un tratto di lunghezza 𝛿x è pari a:

𝛿𝐹 = 𝜋𝑑𝜎𝜏𝑚𝛿𝑥 (1.5)

La forza applicata sulla fibra cresce quindi dal valore zero in corrispondenza

dell’estremità, fino al valore

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𝐹 = 𝜋𝑑𝑥

0𝜎𝜏𝑚d𝑥 = 𝜋𝑑𝜎𝜏

𝑚𝑥 (1.6)

a distanza x dall’estremo. La fibra si romperà, allorché tale forza raggiungerà il

valore

Fig. 11. Il trasferimento del carico dalla matrice alla fibra fa sì che la sollecitazione di

trazione risulti massima al centro della fibra. La fibra giunge a rottura se la

sollecitazione supera il carico di rottura della fibra stessa.

𝐹𝐶 =𝜋𝑑2

4𝜎𝑅𝑓 (1.7)

Eguagliando le due precedenti espressioni, troviamo che la fibra si romperà ad

una distanza dall’estremità pari a:

𝑥𝐶 =𝑑

4

𝜎𝑅𝑓

𝜎𝜏𝑚 (1.8)

Se la lunghezza della fibra è inferiore a 2xc la fibra non si romperà, ma non

supporterà il carico che le sarebbe possibile sopportare. Se, d’altra parte, la

lunghezza della fibra è molto superiore a 2xc, non si ottiene alcun miglioramento

di resistenza dalla lunghezza eccedente il valore ottimale di 2xc, il quale risulta

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oltretutto quello cui corrisponde la maggiore efficienza. La sollecitazione media

sostenuta da una fibra è semplicemente pari alla metà del suo carico di rottura

mentre il massimo di resistenza è pari a

𝜎𝑇𝑆 =𝑉𝑓𝜎𝑅

𝑓

2+ 1 − 𝑉𝑓 𝜎𝑦

𝑚 (1.9)

cioè ad oltre la metà della resistenza di un composito a fibre lunghe (eq. 1.3), o

proprio il valore dato dalla 1.3 nell’ipotesi che le fibre siano tutte allineate nella

stessa direzione, ipotesi che ovviamente non è rispettata in un composito a fibre

corte.La resistenza a compressione dei compositi è inferiore a quella che essi

presentano in trazione, poiché le fibre sono soggette ad inginocchiamento o, con

accezione ormai comunemente accettata, subiscono il fenomeno del buckling.

Tenacità. La tenacità Gc di un composito rappresenta, come per ogni altro

materiale, l’energia assorbita per unità d’area della cricca. Se la cricca si

propagasse in modo rettilineo attraverso la matrice (di tenacità 𝐺𝑐𝑚) e le fibre

(tenacità 𝐺𝑐𝑓), potremmo aspettarci che la tenacità del composito sia ottenuta dalla

semplice applicazione della regola delle miscele:

𝐺𝐶 = 𝑉𝑓𝐺𝑐𝑓

+ 1 − 𝑉𝑓 𝐺𝑐𝑚 (1.10)

Purtroppo in genere ciò non avviene.

Si è già avuto modo di costatare che, se la lunghezza delle fibre è inferiore

a 2xc, esse non arriveranno a fratturarsi, ma piuttosto dovranno subire, durante

l’apertura e avanzamento della cricca, il fenomeno del pull out (Fig. 12),

aumentando di conseguenza il lavoro di frattura e quindi la tenacità. Se la

resistenza al taglio della matrice è, come visto in precedenza, 𝜎𝜏𝑚 , allora il lavoro

necessario per sfilare la fibra dalla superficie di frattura (ossia il lavoro di pull

out), è dato approssimativamente da:

𝐹d𝑥𝑙

2

0= 𝜋𝑑𝜎𝜏

𝑚𝑥d𝑥𝑙

2

0= 𝜋𝑑𝜎𝜏

𝑚 𝑙2

8 (1.11)

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Essendo il numero di fibre per unità d’area della cricca pari a 4𝑉𝑓 𝜋𝑑2

(poiché la frazione volumetrica è proporzionale alla frazione di area in un piano

perpendicolare alle fibre), il lavoro di frattura totale per unità d’area della cricca

sarà pari a:

𝐺𝑐 = 𝜋𝑑𝜎𝜏𝑚 𝑙2

4𝑉𝑓

𝜋𝑑2 =𝑉𝑓

2𝑑𝜎𝜏𝑚 𝑙2 (1.12)

Nella precedente relazione, si assume che l sia inferiore alla lunghezza

critica. In caso contrario, se cioè risultasse l >2xc, le fibre si romperebbero invece

di subire il pull out. Quindi l’optimum di tenacità si ottiene nel caso l =2xc, che

sostituita nella precedente ci dà:

𝐺𝑐 =2𝑉𝑓

𝑑𝜎𝜏𝑚𝑥𝑐

2 =2𝑉𝑓

𝑑𝜎𝜏𝑚

𝑑

4

𝜎𝑅𝑓

𝜎𝜏𝑚

2

=𝑉𝑓𝑑

8

𝜎𝑅𝑓

2

𝜎𝜏𝑚 (1.13)

Dall’equazione si vede che, per avere una elevata tenacità, è necessario

utilizzare fibre resistenti in una matrice più debole (nonostante una matrice debole

porti a una minore resistenza). Questo meccanismo fa sì che i compositi rinforzati

a fibre di carbonio (CFRP) e di vetro (GFRP), presentino una tenacità (dell’ordine

dei 50 KJ/m2) di molto superiore sia a quella della matrice (~ 5 KJ/m

2) che delle

Fig. 12. Fenomeni di pull out (sfilamento della fibra) e debonding (scollamento della

fibra dalla matrice), durante la propagazione di una cricca.

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fibre (~ 0,1 KJ/m2); senza questo meccanismo nessuno dei due materiali potrebbe

essere utilizzato per scopi ingegneristici.

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1.2-Nanotecnologia e nanostrutture

1.2.1-Introduzione alle nanotecnologie

Il termine “nanotecnologie” sta acquistando sempre maggiore popolarità:

esso è, infatti, impiegato per descrivere una varietà di campi di ricerca e sviluppo,

spesso di carattere interdisciplinare, entro i quali ci si confronta con strutture

aventi dimensioni caratteristiche inferiori a 100 nm. Si potrebbe dire che riguarda

lo studio e la manipolazione di “oggetti piccoli”, con dimensioni comprese

grossolanamente tra 0.1 a 100 nm. La scala spaziale caratteristica delle

nanotecnologie è allora il nanometro (un milionesimo di millimetro, tre ordini di

grandezza inferiore rispetto al micron che è l‟unità di riferimento tradizionale per

la microelettronica).

Per dare un‟idea si consideri che 1nm (= 10-9

m) è confrontabile con la

larghezza del DNA (circa 2.5 nm) ed è la lunghezza di una catena lineare

costituita da 6 atomi di carbonio. La scala nanometrica può anche essere illustrata

con un semplice esempio (Fig.1): se il diametro di un pallone da calcio (~30 cm =

3×10-1

m), viene ridotto di 10.000 volte, raggiungiamo il diametro di un capello

piuttosto fine (~30 µm = 3×10-5

m). Riducendo il diametro del capello dello

stesso fattore, arriviamo al diametro di un nano tubo di carbonio (~3 nm = 3×10-9

m).

(a) (b) (c)

Fig. 1. Confronto tra differenti oggetti del macro e del nano mondo: (a) un pallone da calcio con

diametro di ~30cm (3×10-1m); (b) un capello umano con diametro di ~30µm (3×10-5m), qui posizionato su

un microchip; (c) il diametro di un nanotubo di carbonio (nella micrografia posizionato sopra degli elettrodi metallici) è 10.000 volte inferiore al diametro di un capello, ossia ~3nm (3×10-9m)

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Il “nanomondo” è allora popolato da oggetti come atomi, molecole,

“macchine molecolari” come il ribosoma (un organo cellulare che produce

proteine nel corpo umano) che possono opportunamente essere assemblati in

nanostrutture: gli obiettivi principali delle nanotecnologie sono appunto

realizzare,studiare e sfruttare le nanostrutture.

L‟intuizione che si potesse giungere a manipolare e posizionare addirittura

singoli atomi e molecole a questa “nanoscala” risale storicamente al fisico teorico

Richard Feynman, quando, nel 1959, espose una famosa relazione dal titolo

“There’s Plenty of Room at the Bottom” [10] (ovvero “C‟è abbondanza di spazio

là sotto”) al congresso annuale dell‟American Physical Society. In quell‟occasione

affermò che “i principi della fisica non sono contro la possibilità di manipolare le

cose, un atomo alla volta…è un qualcosa che può essere fatto”, e per illustrarne

l‟impatto proponeva di scrivere l‟intero contenuto dei 24 volumi

dell‟Enciclopedia Britannica sulla punta di uno spillo!

Tuttavia è solo negli anni‟80 che si registra il vero impulso alle

nanotecnologie con l‟invenzione del primo microscopio a effetto tunnel (STM,

Scanning Tunneling Microscope) da parte di Binnig e Rohrer mediante il quale la

risoluzione arrivò alla scala atomica. Nel 1989, si attualizza quanto prefigurato da

Feynman quando alcuni ricercatori dell‟IBM riescono a “scrivere” il logo

aziendale impiegando un AFM, per trascinare dei singoli atomi di xenon su un

substrato di nichel [11].

È stato peraltro sottolineato come lo sviluppo delle nanotecnologie abbia

tratto la sua forza dall‟evoluzione delle tecnologie microelettroniche a carattere

top-down, caratterizzata dalla legge di Moore, che ha portato a una

miniaturizzazione sempre più spinta dei circuiti integrati. Esse sono giunte ormai

alla soglia delle nanotecnologie: infatti, il continuo miglioramento delle tecniche

fotolitografiche ha consentito di realizzare dispositivi con dimensioni minime

anche inferiori a 100 nm, tanto che spesso sono state conglobate sotto il nome di

nanoelettronica.

Lo scenario delle nanotecnologie è molto ampio: esso abbraccia le

tecnologie a stato solido, le biotecnologie e le tecnologie fisico-chimiche, e vi

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s‟intravede la potenzialità di rivoluzionare sia le modalità con cui sono realizzati i

materiali e i prodotti derivanti sia le funzionalità che si possono ottenere. Le

tematiche d‟interesse comprendono allora:

tecniche di fabbricazione e lavorazione su scala inferiore a 100

nm;

aspetti delle tecnologie realizzative dei dispositivi elettronici,

compresi laser a pozzo quantico e circuiti integrati su silicio e

arseniuro di gallio, nei quali le dimensioni minime siano inferiori a

100 nm;

microscopia a sonda di scansione e relative applicazioni, sia a

scopo di caratterizzare i materiali sia per la loro

nanomanipolazione;

materiali innovativi per i quali, almeno in una dimensione, la

struttura sia definita su una scala inferiore a 100 nm;

strutture molecolari auto assemblanti o auto organizzanti,

comprendendo in esse anche i sistemi biologici e biomedici.

Cercare di fabbricare e interagire con strutture sempre più piccole

migliorando la risoluzione e le prestazioni degli apparati macroscopici per la

manipolazione dei materiali è un primo approccio che storicamente è stato

condotto dall‟industria microelettronica per la realizzazione di circuiti integrati a

sempre più elevata complessità. La parola chiave in questo contesto è stata, infatti,

Fig. 2. Gli ormai famosi 35 atomi di xenon depositati nel 1989 dagli scienziati della IBM

su un substrato di nickel.

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“scalabilità”, definendo così una metodologia prettamente di tipo top-down, per

ottenere la quale si è lavorato soprattutto sulla progressiva riduzione della

lunghezza d‟onda della luce incidente nella tecnica fotolitografica, nonché sul

miglioramento dei relativi materiali e dell‟intero processo tecnologico. Si tratta di

un tipico approccio ingegneristico che tende a produrre strutture molto definite,

stabili, regolari e tipicamente planari, e che, allo stato attuale, facendo uso di

radiazioni ad alta energia (raggi X, ioni o elettroni), può consentire di realizzare

nanostrutture a stato solido. In questo contesto, gli strumenti delle nanotecnologie

basati sui microscopi a sonda di scansione hanno consentito di sviluppare tecniche

nano litografiche a carattere complementare in grado di supportare questa

metodica.

Dal punto di vista concettuale, infatti, la maggior parte di queste tecniche

sono basate sulla rimozione spazialmente selettiva di un polimero o mediante una

deposizione/formazione locale di molecole nelle zone desiderate. Un esempio

significativo è la cosiddetta dip pen nanolithography [12], nella quale si sfrutta la

punta di un microscopio a forza atomica (AFM, Atomic Force Microscope), che

viene ricoperta da molecole come i tioli, in grado di reagire chimicamente con una

superficie di oro formando forti legami covalenti con essa. Controllando il

movimento della punta sulla superficie si può sfruttare una goccia d‟acqua come

canale per far migrare le molecole dalla punta al campione, ottenendo un processo

analogo alla scrittura con una penna a inchiostro.

All‟interno delle nanotecnologie esiste, però, una metodologia alternativa

che sta sempre più emergendo negli ultimi anni e che di fatto è quella più

caratterizzante: costruire dal basso verso l‟alto (bottom-up). Rappresenta il

tentativo di costruire entità complesse sfruttando le capacità di auto assemblaggio

o di auto organizzazione dei sistemi molecolari. È pertanto un approccio di tipo

chimico o biologico, potenzialmente in grado di creare strutture tridimensionali

complesse a basso costo e in grande quantità. Nelle tecnologie di tipo bottom-up

rientrano in particolare strutture molecolari a base di carbonio, come nanotubi e

fullereni ed i nanowires.

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1.2.2-Nanostrutture

Secondo una classificazione dovuta a Gleiter [13] i materiali

nanostrutturati o NSMs (Nano Structured Materials), vengono distinti, in base alla

forma o alla composizione chimica dei cristalliti. Stando alla classificazione

riguardante la forma, abbiamo rispettivamente: cristalliti con forma planare (layer-

shaped), a barrette ed infine cristalliti equiassiali. In relazione invece alla

classificazione basata sulla composizione chimica, si hanno quattro principali

famiglie di NSMs: nella prima famiglia rientrano i cristalliti e le interfacce con

stessa composizione chimica (ad esempio nei metalli puri nanostrutturati); nella

seconda famiglia rientrano i NSMs con diversa composizione chimica; nella terza

famiglia troviamo i NSMs con variazioni di composizione tra i cristalliti e le

interfacce (ad esempio leghe nelle quali atomi di una specie si trovano segregati ai

bordi dei grani); infine nella quarta famiglia sono compresi i cristalliti nano

dimensionati, immersi in una matrice di diversa composizione chimica. Non è

necessario che tutti gli elementi strutturali dei NSMs abbiamo struttura cristallina:

ad esempio i grani della matrice possono trovarsi in fase vetrosa. I NSMs possono

anche contenere dei componenti quasi-cristallini.

Come si vede i NSMs presentano un ampio spettro di variazioni nella

composizione, fase e microstruttura, che ne fanno i candidati ideali per la

soddisfazione dei più disparati aspetti della tecnologia del prossimo futuro. Le

famiglie di NSMs sopra menzionate, consistono di “mattoncini elementari”

(building blocks) nanodimensionati, delimitati da interfacce. Dal momento che

questi materiali possiedono una elevata energia libera immagazzinata lungo le

interfacce, cosa che li porta ben lontani dall‟equilibrio termodinamico, essi sono

stati definiti come NSMs di non-equilibrio. Di conseguenza anche i metodi di

preparazione saranno basati su processi di non-equilibrio, cambiando i quali si

avrà una variazione della nano struttura finale e delle sue proprietà. E‟ proprio

controllando opportunamente le procedure di lavorazione, che si può manipolare

la struttura e proprietà dei NSMs, ottenendo una infinita varietà di combinazioni e

caratteristiche. Allo stesso tempo però, l‟ampia possibilità di variazioni, genera il

problema del controllo, della stabilità e della riproducibilità delle singole

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proprietà: è questo la sfida maggiore che attende i ricercatori nella ottimizzazione

delle future tecniche di preparazione dei nanocristalli [14].

In realtà, secondo alcuni autori [15], è possibile distinguere tra

nanostrutture e nanofasi o nanoparticelle, intendendo con i primi, materiali in bulk

costituiti da grani di dimensioni nanometriche e, per quanto riguarda gli ultimi,

semplici nanoparticelle disperse.

Fig. 3. Nanofilamenti di GaN cresciuti per CVD su substrato di ossido di Al e Li (a), e di ossido

di Mg (b).

Confinamento quantistico. Un parametro fondamentale nello studio dei

nanomateriali, è il rapporto tra superficie/interfaccia e volume, ossia quello che

generalmente viene indicato come “sviluppo superficiale”. La grande quantità di

atomi in superficie, produce un gran numero di fenomeni legati alle dimensioni.

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La dimensione finita delle particelle confina la distribuzione spaziale degli

elettroni, dando luogo a livelli energetici quantizzati , dovuti all‟effetto

dimensionale. L‟effetto di confinamento quantistico trova applicazioni nel campo

dei semiconduttori dell‟optoelettronica e dell‟ottica non lineare. I nanocristalli

costituiscono uno strumento ideale per comprendere gli effetti quantistici in un

sistema nanostrutturato, dandoci l‟opportunità di ottenere enormi sviluppi nel

campo della fisica dello stato solido.

1.2.3-Proprietà dei nanomateriali

Nel precedente paragrafo si è accennato a come le piccole dimensioni dei

nanomateriali possano influire sulle loro proprietà finali. Questa variazione è

l‟effetto di due meccanismi principali, che vanno sotto il nome di effetti da

dimensione quantistica. In effetti nei singoli nanocristalli i livelli energetici

risultano quantizzati, come per gli elettroni dei singoli atomi e non continui, come

invece avviene nel materiale in bulk. A questo fenomeno è stato attribuito il nome

di quantum confinement e conseguentemente i nanocristalli, in cui tutte e tre le

dimensioni sono nel campo dei nanometri, sono spesso indicati come quantum

dots, sistemi zero (o quasi-zero) dimensionali e particelle quantizzate (o Q-

particelle) [16].

Per quanto riguarda il secondo meccanismo, bisogna osservare che le

tipologie di atomi che costituiscono la struttura di un solido, sono essenzialmente

due: atomi interni ed atomi di superficie. La quasi totalità delle proprietà di un

corpo solido dipendono dalla natura degli atomi presenti nella percentuale più

elevata. Essendo in questi fenomeni coinvolta esclusivamente la superficie del

corpo, il comportamento del materiale dipenderà totalmente da quello degli atomi

di superficie. La quantità di atomi di superficie presenti in un solido massivo,

anche se micrometrico o lievemente sub-micrometrico, è assolutamente

trascurabile rispetto agli atomi interni ed il suo comportamento risulterà pertanto

dettato esclusivamente da quello di un sistema collettivo di atomi interni.

Tuttavia, quando la dimensione del corpo scende sotto il limite dei cento

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nanometri, la percentuale di atomi di superficie rispetto al numero totale di atomi

diviene via via più significativa, fino a predominare su quella degli atomi interni

quando la dimensione è assai prossima al nanometro.

Quindi, quando le dimensioni del solido divengono veramente piccole le

proprietà del materiale cambiano, in quanto mutano in quelle proprie di una

collettività di atomi di superficie. Le proprietà degli atomi di superficie sono

profondamente diverse da quelle degli atomi interni per ragioni principalmente

legate all'insaturazione del loro numero di coordinazione. Difatti solo gli atomi

interni sono coordinativamente saturi, in quanto circondati dal massimo numero

possibile di atomi, gli atomi di superficie a seconda che si trovano su un piano

basale, su uno spigolo o in un vertice del cristallo risulteranno circondati da un

numero di atomi che risulta rispettivamente poco o molto inferiore al numero di

coordinazione degli atomi interni. Essere coordinativamente insaturo non

comporta esclusivamente una maggiore reattività chimica, ma significa anche

avere proprietà chimico-fisiche totalmente diverse. Il fatto di essere 'affacciati'

all'esterno dell'edificio cristallino comporta per gli atomi una maggiore libertà

vibrazionale da cui nuovi valori delle funzioni termodinamiche (energia interna,

entropia, energia libera, ecc.) e nuove caratteristiche fisiche (polarizzabilità

elettrica, capacità termica, conducibilità termica, ecc.).

Il fatto che gli atomi di superficie, parzialmente insaturi, si trovino in uno

stato energetico diverso dagli atomi presenti nel volume del materiale, può essere

evidenziato con una semplice relazione, che mette subito in luce l‟effetto delle

dimensione sull‟importanza relativa degli atomi superficiali e di volume.

Se infatti consideriamo un solido di volume V e superficie esterna S,

possiamo scrivere il suo contenuto energetico totale per unità di volume, come:

𝐸𝑡

𝑉= 𝑒𝑖 +

𝑆

𝑉 𝑒𝑠

Dove

Et = contenuto energetico totale del solido;

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ei = energia interna per unità di volume;

es = energia superficiale per unità di volume.

Il ruolo dell‟energia superficiale diviene preponderante quando il rapporto

S/V diviene dell‟ordine dei 106÷10

7 cm

-1 [18]. Questo fa sì che quando le

particelle hanno dimensioni comprese tra 1 e 10 nm, esse risultano costituite da un

numero finito di atomi, dell‟ordine dei 10-1000 e conseguentemente risultano

variate, rispetto al materiale in bulk, le proprietà chimico-fisiche. Un esempio

evidente è la drastica diminuzione della temperatura di fusione di alcuni materiali

al diminuire delle dimensioni, come nel caso delle nanoparticelle di CdS, per cui è

stata riportato un calo della temperatura di fusione di ben 800°C riducendo il

diametro delle nanoparticelle da 4 a 1 nm [19], o dell‟oro [20], per il quale tale

relazione è nota da diversi decenni (Fig. 4).

Fig. 4. Temperatura di fusione di nanoparticelle di Au in funzione del diametro.

Analizziamo adesso le proprietà specifiche dei nanomateriali e relative

applicazioni:

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Proprietà chimiche. Come è stato sottolineato in precedenza, una delle

caratteristiche più rimarchevoli dei nanomateriali è il loro elevatissimo sviluppo

superficiale, cui consegue notevole aumento di reattività chimica. Questa

peculiarità, rende i nanomateriali particolarmente adatti all‟utilizzo come

catalizzatori, ad esempio per l‟eliminazione di gas tossici e nocivi (come CO, o gli

NOx,) nelle marmitte catalitiche degli autoveicoli, o usati negli apparati di

generazione dell‟energia, prevenendo l‟inquinamento causato dall‟utilizzo di

petrolio e carbone.

La tecnologia delle celle a combustibile è un altro campo riguardante

l‟applicazione di nanoparticelle di metalli nobili come catalizzatori. Allo stato

attuale, i catalizzatori delle celle a combustibile sono basati su metalli del gruppo

del platino, comunemente indicati come PGM (platinum group metals), tra i quali

sono molto utilizzate leghe del Pt e Pt-Ru. L‟utilizzo di questi metalli ha inciso

pesantemente sul costo delle celle a combustibile, tanto da limitarne lo sviluppo.

Le nanoparticelle bimetalliche offrono una concreta possibilità di produrre

catalizzatori economici.

Proprietà elettriche. I nanomateriali possono avere contenuti energetici

molto più elevati dei materiali convenzionali, grazie alla grande estensione dei

bordi di grano. Sono materiali nei quali è possibile introdurre una banda di

assorbimento ottico, o in cui si può alterare una banda esistente tramite il

passaggio di corrente o mediante applicazione di un campo elettrico.

La miniaturizzazione dei dispositivi rompe i principi fondamentali della

fisica classica, basati sul movimento delle particelle. Diventano fondamentali i

fenomeni della meccanica, quali la quantizzazione dei livelli energetici degli

elettroni, l‟interferenza tra le funzioni d‟onda degli stessi, l‟effetto di tunneling

quantistico tra due livelli energetici corrispondenti a nanostrutture adiacenti e la

discretizzazione dei portatori di carica (ad esempio nel caso di conduzione ad

opera di un solo elettrone).

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I dispositivi quantistici si basano sull‟effetto tunnel, attraverso le barriere

di potenziale, proibite dalla “teoria classica”. Tramite l‟instaurazione di un

opportuno voltaggio tra due nanostrutture, si ha la “risonanza” del tunnel, con la

conseguenza di ottenere un brusco aumento della “corrente di tunneling”.

L‟elettronica a singolo elettrone, utilizza l‟energia richiesta per il trasporto di un

solo elettrone per ottenere uno switch, un transistor o un elemento di memoria.

Questi nuovi effetti non solo fanno sorgere nuove questioni fondamentali

nel campo della fisica, ma aprono anche ulteriori sfide verso i nuovi materiali. Ci

sono due problemi principali nei materiali. Il primo è la scelta dei nanocristalli

adatti alla nanoelettronica. Il secondo, nei dispositivi che operano con elevate

densità di corrente, è la realizzazione di interconnessioni che minimizzino la

Fig. 5. Immagine panoramica e in sezione di un SET

a singolo elettrone, in cui la connessione tra drain e

source è assicurata da un solo CNT.

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dissipazione di calore, presentino elevate caratteristiche meccaniche e resistenza

alla migrazione elettronica. La sfida maggiore è comunque rappresentata dalla

manipolazione delle nanostrutture nell‟assemblaggio dei dispositivi, problema non

soltanto ingegneristico ma scientifico, date le piccole dimensioni delle

nanostrutture.

Proprietà magnetiche. Generalmente la forza di un magnete è misurata dai

valori del suo campo coercitivo e della magnetizzazione di saturazione. Poiché tali

valori crescono al diminuire delle dimensioni dei grani e all‟aumentare dello

sviluppo superficiale, è evidente che i nanomateriali presentano ottime qualità

anche in questo campo. Le differenze di comportamento tra le nanoparticelle

magnetiche e i materiali in bulk sono dovute principalmente a due effetti. Il

primo, ossia l‟elevata superficie specifica vista sopra, comporta ambienti

localmente diversi per gli atomi superficiali durante l‟interazione/accoppiamento

magnetico con gli atomi vicini.

A differenza dei materiali ferromagnetici in bulk, che sono in genere

costituiti da domini magnetici multipli, alcune nanoparticelle ferromagnetiche

possono essere costituite da un singolo dominio magnetico. In quest‟ultimo caso

si ha la comparsa di un fenomeno noto come superparamagnetismo, caratterizzato

dalla distribuzione casuale della magnetizzazione delle singole particelle, le quali

risultano allineate solo durante l‟applicazione di un campo magnetico, rimosso il

quale si ha la scomparsa dell‟allineamento. Nei dispositivi di immagazzinamento

dati ultra-compatti, ad esempio, è la dimensione dei domini a determinare la

densità di immagazzinamento. Alcune eterostrutture metalliche multistrato,

costituite di strati alternati ferromagnetici ed amagnetici, come Fe-Cr e Co-Cu,

hanno mostrato di possedere una enorme magnetoresistenza (GMR ossia Giant

Magnetoresitance), una elevata variazione della resistenza elettrica quando la

corrente fluisce parallelamente agli strati sotto applicazione di un campo

magnetico esterno. Il fenomeno appena mostrato trova importanti applicazioni

nella sensoristica e nel data storage.

Proprietà ottiche. Anche le proprietà ottiche dei nanocristalli differiscono

notevolmente dalle corrispettive del bulk. Contributi fondamentali in questo

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campo vengono da fattori quali il confinamento quantistico dei portatori di carica

entro le nanoparticelle, l‟efficiente trasferimento di carica ed energia entro la

nanoscala ed, in molti sistemi, il ruolo molto importante delle interfacce.

Mentre la tecnologia di questi materiali cresce, aumenta la necessità di

comprendere in dettaglio le basi in vista delle applicazioni in optoelettronica e

nano fotonica. Tanto le proprietà ottiche lineari di questi materiali, che le non

lineari, possono essere adattate finemente controllando le dimensioni dei cristalli e

la chimica delle superfici.

I plasmoni superficiali (PS) sono all‟origine del colore nei nanomateriali.

Un PS non è che la naturale oscillazione del gas di elettroni all‟interno di una data

nanosfera. Se la sfera ha dimensioni piccole rispetto alla lunghezza d‟onda della

luce, e la luce ha una frequenza prossima a quella del plasmone, quest‟ultimo

assorbirà energia. La frequenza del PS dipende dalla funzione dielettrica del nano

materiale e dalla forma della nano particella. Ad esempio per una particella sferica

di Au, la frequenza è circa 0,58 volte la frequenza di plasma del materiale in bulk,

cosicché, anche se quest‟ultima cadesse nel campo degli UV, la frequenza del PS

sarebbe nel visibile. Supponendo di avere delle nanoparticelle in sospensione in

un liquido e di applicare un‟onda luminosa, il campo elettrico locale può venire

incrementato enormemente dalla risonanza del PS.

Applicazioni. Colle contenenti nanoparticelle presentano proprietà ottiche

interessanti per l‟utilizzo in optoelettronica. Rivestimenti contenenti

nanoparticelle utilizzate in dispositivi elettronici, come i computer, costituiscono

sistemi di schermatura migliorati contro le interferenze elettromagnetiche.

Proprietà meccaniche. Grazie alle dimensioni nanometriche, molte delle

proprietà meccaniche dei materiali convenzionali vengono modificate, come ad

esempio la durezza, il modulo elastico, la tenacità a frattura, la resistenza ai graffi

e all‟abrasione e la vita a fatica. La realizzazione di componenti in scala

nanometrica influenza la dissipazione di energia, l‟accoppiamento meccanico tra

componenti in serie e le non linearità di origine meccanica. Questo approccio

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include anche l‟interpretazione di comportamenti meccanici insoliti (ad esempio il

raggiungimento di resistenze prossime ai limiti teorici) e l‟esplorazione di nuovi

modi per integrare diverse classi di materiali nanometrici meccanicamente

funzionali.

Le caratteristiche più interessanti introdotte dalle dimensioni

nanometriche, derivano dal grado di perfezione strutturale di questi materiali. Le

piccole dimensioni possono influire in diversi modi: si può arrivare alla totale

eliminazione di imperfezioni strutturali, come dislocazioni e precipitati di

impurezze; se invece sono presenti difetti di vario tipo ed impurezze, il loro scarso

numero non è sufficiente a causare una cedimento meccanico. Possedendo poi, le

imperfezioni nanometriche un elevato contenuto energetico, operando una

ricottura esse migreranno in superficie per ridurre il loro surplus di energia,

purificando il materiale e lasciando strutture perfette all‟interno di quest‟ultimo.

Inoltre, anche le superfici esterne del nanomateriale saranno esenti o quasi da

difetti e, se confrontate con lo stesso materiale in bulk, presenteranno un

incremento delle proprietà meccaniche [22].

Applicazioni. Utensili da taglio composti da nanomateriali, come i carburi

di tungsteno, tantalio e titanio, presentano durezza, resistenza all‟usura e durata

molto superiore agli stessi materiali con struttura convenzionale (a grani non

nanometrici). Inoltre, poiché per la miniaturizzazione dei circuiti nella

microelettronica, sono richiesti microtrapani con resistenza all‟usura molto

elevata, vengono attualmente utilizzati carburi nanocristallini con maggiore

durezza e resistenza all‟usura.

Nel campo automobilistico, si prevede l‟utilizzo dei nanomateriali nei

sistemi di accensione (candele) grazie alla loro durezza, resistenza all‟abrasione e

all‟usura. Inoltre, dato che nelle automobili i motori dissipano grandi quantità di

energia, con conversione in energia termica, si prevede di ricoprire i cilindri del

motore con materiali ceramici nanocristallini, come zirconia o allumina, che

trattengono il calore con efficienza molto superiore, col risultato di una completa

ed efficiente combustione.

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Una delle proprietà fondamentali richieste ai componenti degli aeromobili

è la loro resistenza a fatica, che diminuisce con l‟età del componente, ma aumenta

al diminuire delle dimensioni dei grani del materiale. I nanomateriali offrono una

riduzione delle dimensioni del grano così ampia rispetto ai materiali

convenzionali, da produrre un allungamento della vita a fatica anche del 200-

300%. Nei veicoli spaziali, una caratteristica cruciale è la resistenza dei materiali

alle alte temperature, dato che diversi componenti, come i motori a razzo o gli

ugelli di spinta, operano a temperature e velocità molto più elevate che nei comuni

aeromobili.

Nonostante i materiali ceramici siano solitamente duri, fragili e di difficile

lavorazione anche ad elevate temperature, con la riduzione della dimensione dei

grani si ha un drastico cambiamento delle loro proprietà. I ceramici nanocristallini

possono essere pressati e sinterizzati a temperature molto inferiori. Ad esempio, la

Zirconia, che è generalmente un materiale duro e fragile, è stata resa superplastica

con la struttura nanocristallina, potendo arrivare a deformazioni del 300%, rispetto

alle sue dimensioni iniziali. Materiali ceramici nanostrutturati, basati su nitruri e

carburi di silicio, sono stati utilizzati in applicazioni auto motive, come nelle

molle ad alta resistenza o nei cuscinetti a sfere, grazie alla loro elevata lavorabilità

e formabilità, unite a eccellenti proprietà fisiche, chimiche e meccaniche.

Gli aerogel sono materiali nanocristallini porosi estremamente leggeri, con

la capacità di sopportare pesi anche 100 volte superiori al proprio. Attualmente

vengono utilizzati come isolanti termici e acustici nelle case e negli uffici;

cominciano però, ad essere utilizzati anche per la realizzazione di finestre

intelligenti, che si opacizzano quando sono esposte ad elevate intensità di luce e si

schiariscono alle basse intensità.

Altre possibili applicazioni dei nanomateriali possono aversi sia nel campo

“nano”, come i nano risonatori meccanici (Fig. 5), i sensori di massa, nano pinze e

punte per le sonde dei microscopi elettronici, sia in campo “macro” come rinforzi

strutturali nei materiali polimerici o in materiali leggeri ad alta resistenza.

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Fig. 5. Micrografia al SEM di un risonatore, realizzato con un nanowire in sospensione.

Proprietà termiche. Lo studio delle proprietà ottiche dei nanomateriali ha

incontrato diversi problemi, in parte dovuti alla difficoltà di misurare

sperimentalmente e controllare il trasporto termico in scala nanometrica. Il

microscopio a forza atomica, o AFM, è stato introdotto per misurare il trasporto

termico delle nanostrutture, tramite l‟alta risoluzione spaziale della scala

nanometrica. Si può aggiungere che le simulazioni e le analisi teoriche sul

trasporto termico delle nanostrutture, sono ancora nella fase embrionale. I diversi

approcci teorici disponibili, tra cui le soluzioni numeriche dell‟equazione di

Fourier, il calcolo computazionale basato sull‟equazione del trasporto di

Boltzmann e le simulazioni di dinamica molecolare, presentano delle limitazioni.

Una difficoltà ancora più importante riguarda il problema della definizione

della temperatura, quando le dimensioni arrivano alla scala nanometrica. Nei

sistemi materiali non metallici, l‟energia termica viene principalmente trasportata

dai modi fononici, i quali presentano grande variabilità nelle frequenze e nel

cammino libero medio (clm). I fononi che trasportano calore hanno spesso degli

elevati vettori d‟onda e un clm dell‟ordine del nanometro a temperatura ambiente,

cosicché le dimensioni delle nanostrutture risultano paragonabili al clm e alle

lunghezze d‟onda dei fononi [23]. Tuttavia la definizione generale di temperatura

si basa sull‟energia media di un sistema in equilibrio. Per i sistemi macroscopici,

le dimensioni sono grandi abbastanza da definire una temperatura locale in ogni

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regione del materiale, la quale in genere varia da una regione all‟altra, cosicché è

possibile studiare le proprietà di trasporto termico, basandosi sulla distribuzione di

temperatura all‟interno del materiale. Per i nanomateriali non è, al contrario,

possibile definire una temperatura locale. Inoltre, risulta problematico anche l‟uso

del concetto di temperatura per i processi di non equilibrio, di trasporto termico

nei nanomateriali, creando difficoltà per l‟analisi teorica.

Nonostante le difficoltà teoriche e sperimentali, recenti scoperte hanno

mostrato che alcuni nanomateriali presentano proprietà termiche eccezionali

rispetto alle loro controparti macroscopiche. Nei sistemi nanostrutturati, alcuni

aspetti, come le dimensioni ridotte, le geometrie particolari e l‟estensione delle

interfacce fanno sì che le proprietà termiche risultino piuttosto differenti da quelle

dei materiali in bulk. Come accennato prima, col diminuire delle dimensioni,

poiché il clm e la lunghezza d‟onda dei fononi risultano comparabili con le

dimensioni in gioco, si hanno effetti di quantizzazione e confinamento sul

trasporto termico. Ad esempio, i nanowires di Si presentano conducibilità molto

inferiore al silicio in bulk [24]. Anche la particolare struttura può influire sulle

proprietà termiche, come avviene ad esempio in strutture tubolari come i nanotubi

di carbonio, in cui la conducibilità termica è molto elevata in direzione assiale pur

presentando una notevole anisotropia riguardo alla trasmissione del calore lungo

altre direzioni [25].

Anche le interfacce interne giocano un ruolo importante nella

determinazione delle proprietà termiche dei nanomateriali. Poiché, in genere, le

interfacce e i bordi di grano ostacolano i flussi termici tramite fenomeni di

scattering dei fononi, i nanomateriali nanostrutturati che presentano una elevata

densità di interfacce, dovrebbero ridurre la conducibilità termica nel materiale.

1.2.4-Applicazioni dei nanomateriali

I nanomateriali e le nanostrutture offrono infinite applicazioni nei più

disparati campi, che coprono l‟elettronica, la medicina, la meccanica, la

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sensoristica, la catalisi, etc. Nell‟impossibilità di citarle tutte, sarà presentata una

rassegna di quelle di maggiore interesse.

Elettronica. In campo elettronico grande importanza stanno guadagnando i

cosiddetti “dispositivi a singolo elettrone”. Questi dispositivi sono basati sul

cosiddetto „Coulomb blockade‟, un effetto classico che avviene in presenza di

capacità molto ridotte: il trasferimento di un elettrone in un condensatore (con una

capacità estremamente piccola, dell‟ordine dell‟attofarad) si traduce in un

corrispondente potenziale negativo che supera l‟energia termica kT (dove k è la

costante di Boltzmann e T è la temperatura espressa in kelvin). Se ad esempio,

consideriamo una nano particella sferica (Fig. 6) del diametro di 10 nm, un

elettrone in prossimità di essa, creerà un campo elettrico dell‟ordine dei 140

kV/cm, tanto intenso da impedire l‟aggiunta di un secondo elettrone, a meno di

non aumentare la differenza di potenziale di iniezione. L‟iniezione di un elettrone

in una buca quantica modifica le energie impedendo ulteriori immissioni di

elettroni. Il dispositivo è generalmente composto da una sorgente di elettroni (per

es., silicio cristallino), un pozzo per l‟uscita degli elettroni (anch‟esso fatto di

silicio cristallino) con un punto quantico nel mezzo. Il punto quantico è separato

dalla sorgente e dal pozzo da due strati di ossido estremamente sottili (che sono

isolanti e costituiscono la barriera per gli elettroni). Gli elettroni penetrano e

attraversano il punto quantico grazie all‟effetto tunnel.

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(a) (b)

Fig. 6. (a) In prossimità di una nano particella del diametro di 10 nm, un elettrone provoca un

elevato campo elettrico, che impedisce l’aggiunta di altri elettroni. (b) Schema di un transistor

a singolo elettrone.

Questo schema rappresenta, con una porta di controllo che permetta di

modificare il potenziale sul punto, la base per un transistor a singolo elettrone o

SET (Single Electron Transistor) nel quale, variando la tensione di gate, si può

controllare l‟ingresso di un elettrone alla volta [25]. Grazie alla loro elevatissima

sensibilità alla carica, questi dispositivi, che lavorano a temperature variabili tra i

20 mK e 1 K, vengono utilizzati negli elettrometri ultrasensibili (risoluzioni di

frazione di carica dell‟elettrone), nel conteggio di precisione degli elettroni e per

gli standard di capacità e corrente.

L‟invenzione delle memorie a elettrone singolo operanti a temperatura

ambiente ha rappresentato un grosso passo in avanti in microelettronica. L‟effetto

di memoria fu osservato per la prima volta in uno strato di Si policristallino dove

potevano essere immagazzinate molte cariche elettriche con l‟effetto di modificare

la tensione di soglia per la formazione del canale di conduzione. La presenza o

meno delle cariche nel polisilicio (floating gate) rappresenta l‟informazione (stati

0 e 1). Più di recente, si è dimostrato come i nanocristalli incorporati in SiO2

possano agire come floating gate in dispositivi di memoria. Il processo consiste

nel caricare il punto quantico con un elettrone mediante effetto tunnel. Il punto

quantico carico modifica la tensione di soglia per la formazione di un canale tra

una sorgente e un pozzo. Il processo generale è, in linea di principio, simile a ciò

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che accade nelle EEPROM (electrically erasable programmable read only

memory), ma in questo caso tutte le dimensioni sono estremamente ridotte. I

problemi sono relativi al trattenimento della carica, dato che una perdita

dell‟elettrone intrappolato costituisce una perdita totale dell‟informazione

immagazzinata. Quando memorie affidabili a elettrone singolo, basate su

nanostrutture, saranno disponibili in commercio, si avrà, a parità di capacità di

memoria, una drastica riduzione nelle dimensioni dei dispositivi.

Le eterostrutture a semiconduttore sono solitamente indicate come

“materiali monodimensionali strutturati artificialmente”, composti di strati con

differenti fasi e composizione. Questi materiali multistrato risultano

particolarmente interessanti quando lo spessore del singolo strato è inferiore al

cammino libero medio dell‟elettrone, dando luogo ad un sistema ideale per le

strutture a pozzo quantico (quantum wells), candidati eccellenti per la produzione

di nanodispositivi per l‟elettronica e la fotonica.

Nell‟industria della microelettronica, con la drastica riduzione delle

dimensioni dei componenti, è prospettabile un elevato incremento delle velocità

dei microprocessori, con la possibilità di effettuare calcoli anche complessi in

tempi molto ridotti. I nanomateriali possono aiutare a superare i problemi connessi

con gli elevati sviluppi di calore dovuti all‟aumento di velocità e la conseguente

diminuzione della vita media dei componenti, attraverso l‟utilizzo di materiali di

base nanocristallini ultrapuri, con migliore conducibilità termica e più duraturi.

Materiali nanocristallini come i solfuri di Zn e Cd e il seleniuro di Zn,

sintetizzati mediante la tecnica del sol-gel, sono candidati ideali per l‟incremento

della risoluzione degli schermi dei monitor. Si prevede che l‟utilizzo dei nano

fosfori, possa ridurre sensibilmente il costo di questi display, rendendo le

televisioni ad alta definizione (HDTVs) accessibili a tutti. Analogamente si

prevede una riduzione dei costi e un aumento di risoluzione degli schermi piatti

utilizzati nei computer portatili, grazie all‟utilizzo di nano fosfori, i quali inoltre,

grazie alle migliori proprietà elettriche e magnetiche, presentano luminosità e

contrasto superiori ai display convenzionali.

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Un dispositivo elettrocromatico è costituito da un materiale in cui, tramite

il passaggio di corrente o l‟applicazione di un campo elettrico, è possibile

introdurre una banda di assorbimento ottico o modificare una banda già esistente.

Materiali nanocristallini, come l‟ossido tungstico idrato (WO3•H2O) gel, sono

utilizzati nella realizzazione di display elettrocromatici di grandi dimensioni. La

reazione che governa l‟elettrocromatismo (un processo di colorazione reversibile,

che avviene sotto l‟applicazione di un campo elettrico), è la doppia iniezione di

ioni (o protoni H+) ed elettroni i quali, combinandosi con l‟acido tungstico, danno

luogo alla formazione di un bronzo al W. Questi dispositivi sono simili ai display

a cristalli liquidi (LCD), usati comunemente nei calcolatori. Al contrario di questi

ultimi, i display elettrocromatici generano l‟informazione cambiando colore sotto

l‟applicazione di un certo potenziale. La risoluzione, la luminosità ed il contrasto

di questi dispositivi dipendono tutti dalla dimensione dei grani dell‟acido di W [16

pag 2504]. Con l‟utilizzo delle nanostrutture, la variazione di colore sarà più

veloce ed uniforme.

Energia e catalisi. L‟US Department of Energy Hydrogen Plan ha stabilito

un limite inferiore per l‟assorbimento reversibile di idrogeno. Lo standard stabilito

prevede un efficienza in peso del sistema (cioè il rapporto tra il peso dell‟idrogeno

e quello del sistema) almeno del 6,5%, corrispondente ad una densità volumetrica

di 63 kg di H2/m3. Il sistema ideale per lo stoccaggio di idrogeno dovrebbe essere

leggero, compatto, relativamente poco costoso, sicuro, facile da usare e

riutilizzabile senza il bisogno di rigenerazione. Tutte le tecniche sulle quali si è

focalizzata la ricerca sino ad ora, come i sistemi a idrogeno liquido o compresso,

i sistemi metallici ibridi e i sistemi a carboni superattivi, presentano seri

inconveniente. Ad esempio, i sistemi a idrogeno liquido sono molto costosi,

soprattutto perché bisogna raffreddare l‟idrogeno a circa -252°C e inoltre perché

quest‟ultimo va tenuto a bassa temperatura per evitare che, con l‟ebollizione si

abbiano perdite. L‟idrogeno compresso è molto meno costoso dell‟idrogeno

liquido, ma anche più denso (bulkier). I problemi relativi all‟utilizzo di sistemi a

metalli ibridi, riguardano invece il peso elevato (circa 8 volte quello di un sistema

a idrogeno liquido) e il riscaldamento necessario per il rilascio dell‟idrogeno.

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43

I carboni superattivi sono alla base di un altro sistema per lo stoccaggio di

idrogeno che inizialmente sembrava avere un certo potenziale di

commercializzazione. Il carbonio superattivo è un materiale simile al carbone

attivo ad alta porosità, utilizzato nei filtri per l‟acqua, ma può tranquillamente

legare molecole d‟idrogeno, tramite fisiadsorbimento a temperature inferiori allo

zero. Il maggior inconveniente di questo sistema è il costante raffreddamento

richiesto per evitare il distacco dell‟idrogeno, a causa delle deboli forze che lo

tengono unito al carbonio.

Recentemente nella comunità scientifica hanno suscitato un certo interesse

alcune pubblicazioni riguardanti l‟assorbimento reversibile di idrogeno in

nanotubi di carbonio e piastrine di nanofibre (platelet), con applicazioni

prevedibili nel campo dei trasporti e dell‟energia (celle a combustibile). Un

gruppo della Northeastern University è riuscito per primo a immagazzinare

idrogeno in nanostrutture di carbonio stratificate, aventi un certo grado di

cristallinità (Fig. 7). Secondo i ricercatori che hanno svolto il lavoro, nelle

“piastrine” di nanofibre (con spessori di 3-50 nm) è possibile immagazzinare fino

al 75% in peso di idrogeno, ossia un rapporto C/H pari a 1/9, avendosi completo

desorbimento solo ad elevate temperature.

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44

Fig. 7. Stoccaggio di idrogeno tra piani grafitici di diversa spaziatura.

Gli stessi autori hanno recentemente sottolineato il ruolo fondamentale del

trattamento cui vanno sottoposte le nanofibre di carbonio prima dell‟assorbimento

di H2 (1000°C in gas inerte), necessario per rimuovere le eventuali molecole

gassose adsorbite chimicamente, e la drastica riduzione di H2 adsorbito nel caso in

cui tale trattamento venga meno. In questo lavoro, gli autori hanno registrato un

adsorbimento di idrogeno del 20 e 40%, eseguendo l‟esperimento a temperatura

ambiente e una pressione di H2 di 100 mbar, nonostante simulazioni successive,

da parte di altri gruppi, abbiano messo in forte dubbio i valori riportati.

Nel contempo sono stati realizzati diversi lavori sullo stoccaggio di

idrogeno, tramite nanotubi di carbonio a parete singola, riportando percentuali di

adsorbimento variabili tra l‟1 ed il 14%.

Nanomacchine. Questi sistemi rappresentano l‟evoluzione dei cosiddetti

MEMS (Micro Electro Mechanical System), che sono stati sviluppati negli ultimi

due decenni. I NEMS (Nano Electro Mechanical Systems) vengono utilizzati in

applicazioni in cui è determinante che il sistema presenti la più piccola massa

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45

possibile, come ad esempio nei sensori di forza, nei sensori chimici e biologici e

nei risonatori a frequenze ultraelevate.

I processi di fabbricazione dei NEMS sono distinti in base al tipo di

approccio utilizzato: nell‟approccio di tipo Top-down, per la produzione del

dispositivo, vengono utilizzate tecniche basate sulla litografia sub micrometrica

(come la litografia a fascio di elettroni, la convenzionale crescita dei film e

l‟attacco chimico) a partire dai materiali massivi, siano essi in forma di film sottili

o di substrati spessi; nel Bottom-up, si cerca invece di ottenere il componente

partendo direttamente dall‟assemblaggio di atomi e molecole. I NEMS di “prima

generazione” hanno usufruito sia di tecniche di produzione già utilizzate per i

MEMS e i circuiti integrati submicrometrici, sia degli stessi materiali studiati per

qusti ultimi componenti, come SiC, Si, Si3N4 e GaAs. Tale prima generazione di

NEMS include travi nano meccaniche sospese, oscillatori puddle e placchette

legate ottenute con l‟utilizzo di semplici processi di nano lavorazione su superfici

in bulk e monostrato [14].

Altre applicazioni dei MEMS e NEMS comprendono sensori di pressione,

accelerometri, giroscopi, sensori resistivi e capacitivi per diversi scopi, induttori

Fig. 8. (a) Micrografia al SEM di una serie di risonatori nano meccanici di GaAs serrati alle

estremità; (b) Confronto tra le dimensioni di un comune acaro ed una serie di nano ingranaggi.

(a) (b)

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capacitivi e dispositivi ottici per l‟immagazzinamento dati, display ad altissima

risoluzione ed attuatori di vario tipo.

Altra categoria applicativa è poi quella dei nano motori molecolari e dei

nano ingranaggi. Tra i primi sono spesso impiegate molecole già esistenti in

natura, previa manipolazione opportuna mentre tra i nano ingranaggi si possono

citare quelli realizzati dall‟unione di nanotubi di carbonio e anelli aromatici (Fig.

9).

Nanomedicina. Molte delle applicazioni sulle quali è oggi concentrata la ricerca

scientifica riguardano il campo biomedico. Esse includono:

Fig. 2. In alto a sinistra: alcuni esempi di nano motori; in

alto a destra: una nano macchina il cui funzionamento si

basa su reazioni di scambio acido-base; in basso a

destra: nano ingranaggio realizzato mediante due SWNT

i cui denti sono costituiti da anelli benzenici legati sulla

superficie esterna.

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Utilizzo di semiconduttori nanocristallini (quantum dots a differente

frequenza di emissione) nella diagnostica medica per immagini, utilizzati

al posto dei marcatori fluorescenti convenzionali, rispetto ai quali

presentano maggiore sensibilità e stabilità (oltre a consentire una minore

esposizione);

Biosensori basati su nanoparticelle per la rivelazione semplice e rapida di

batteri (E.coli) negli alimenti: nanoparticelle di silice (SiO2; 60nm)

vengono drogate con molecole di colorante fluorescente (migliaia per

nanoparticella). Anticorpi specifici per E. coli vengono poi innestati sulle

nanoparticelle, che si aggregano così a migliaia a ciascun batterio. La

fluorescenza indotta sulle nanoparticelle permette l‟individuazione del

batterio anche quando questo si presenta in basse concentrazioni;

Nanoparticelle magnetiche vengono utilizzate nella distruzione iper

localizzata di cellule tumorali attraverso un processo, noto dagli anni ‟50

come ipertermia. L‟evoluzione moderna viene comunemente indicata

come Ipertermia con fluidi magnetici (MFH) ed utilizza nanoparticelle di

ossidi di ferro o altri metalli nanostrutturati i quali, sotto l‟applicazione di

un campo magnetico variabile, provocano un innalzamento localizzato di

temperatura nelle cellule cui si sono legati, con effetti diversi che possono

arrivare alla cosiddetta termoablazione magnetica [27].

Drug delivery. Nanoparticelle polimeriche e ceramiche, micelle, libosomi,

dendrimeri e nanoparticelle magnetiche, sono state utilizzate anche come

dispositivi per il rilascio mirato dei farmaci. La maggior parte delle

nanoparticelle usate per questo scopo hanno la forma di nano capsule in

cui il farmaco è confinato in una cavità, circondata da una membrana. I

metodi di fabbricazione includono la microemulsificazione, i fluidi

supercritici, gli aerosol e la precipitazione reattiva [16].

Altre interessanti applicazioni comprendono il rilascio di farmaci

mediante l‟utilizzo di dispositivi come i NEMS, o robot nanometrici oggi

comunemente indicati come nanobots e la riparazione di tessuti danneggiati.

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Nanocompositi. Le applicazioni dei nanocompositi metallo-polimero

risultavano originariamente limitate alla preparazione di membrane catalitiche non

porose, basate su dispersioni di nanopolveri di catalizzatori eterogenei (Pd, Pt e

loro leghe) in polimeri idrofili (PVP, PVA, PEO, ecc.). Questi sistemi sono

caratterizzati da una attività catalitica superiore a quella prevedibile sulla base del

solo aumento di area di superficie (effetto supercatalitico) e di una selettività e

specificità diversa da quella caratteristica delle analoghe polveri micrometriche,

dovuta alla prevalenza del comportamento dei siti agli spigoli ed ai vertici dei

cristalli su quello relativo ai siti dei piani basali. Oggi vengono riconosciuti a

questi materiali una miriade di potenzialità applicative in svariati settori

tecnologici [28]. Tra queste particolarmente importanti sono le applicazioni nei

settori dell‟ottica, delle microonde, della sensoristica e della fotonica. Compositi a

base di polimeri caricati con nanopaticelle metalliche o nanotubi di carbonio

possono essere inoltre utilizzati per la schermatura da radiazione

elettromagnetiche e per applicazioni strutturali.

Fig. 10. Cellule tumorali contenenti nanopartcelle magnetiche.

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1.3-Nanotubi di carbonio

1.3.1-Introduzione

La storia dei nanotubi di carbonio cominciò nel 1985 con la scoperta della

terza forma allotropica del carbonio da parte di H. W. Kroto, della University of

Sussex e R. E. Smalley della Rice University [29]. Alla nuova classe di molecole

fu attribuito il nome di fullereni, in onore dell’architetto R. Buckminster Fuller,

progettista delle famose cupole geodetiche di cui questi composti richiamano la

forma, mentre il nome di Buckyball o Buckminster fullerene rimase ad indicare la

più famosa delle geometrie dei fullereni, il C60, costituito da 60 atomi di carbonio

disposti a formare 20 facce esagonali e 12 pentagonali. La scoperta dei nanotubi

di carbonio si deve invece a Sumio Iijima dei NEC Labs di Tsukuba in Giappone

il quale, nel 1991, osservando al TEM il prodotto di una scarica ad arco mirata

alla produzione di fullereni, notò la presenza di “microtubuli di carbonio

grafitico” che divennero in seguito noti come nanotubi di carbonio a parete

multipla o MWNT (Multi Wall carbon NanoTubes), poiché costituiti da più pareti

cilindriche concentriche [30].

(a) (b) (c)

Due anni più tardi i nanotubi di carbonio a parete singola o SWNT

(Single Wall carbon NanoTubes), furono scoperti in contemporanea dal gruppo di

Iijima e da quello di Donald Bethune dell’IBM Almaden Research Center in

Fig. 1. (a) Il “padre” dei nanotubi di carbonio, Sumio Iijima; (b) la molecola del C60; (c) cupola

geodetica di Buckminster Fuller.

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California. Da allora la ricerca su queste affascinanti strutture è proseguita senza

sosta, investendo i più svariati campi.

1.3.2-Allotropi del carbonio

Il carbonio può combinarsi con se stesso o altri elementi attraverso tre tipi

d’ibridazione: su questa caratteristica si basa il gran numero di composti che il

carbonio può formare allo stato solido, la chimica organica e la vita stessa.

Con una configurazione elettronica esterna del tipo 2s22p

2, con 4 elettroni

di valenza che possono partecipare alla formazione di legami, il carbonio ha la

possibilità di formare 3 tipi di orbitali ibridi:

Nell’ibridazione di tipo sp3 si ha la formazione di 4 orbitali ibridi

2sp3 equivalenti, orientati secondo un tetraedro intorno all’atomo di

carbonio (Fig.2), con la possibilità di formare 4 legami σ identici,

per sovrapposizione con gli orbitali di un altro atomo;

Nell’ibridazione di tipo sp2 si formano invece 3 orbitali ibridi

identici giacenti sullo stesso piano e orientati a circa 120° tra di

loro, che hanno la possibilità di formare legami σ con atomi vicini,

mentre il terzo orbitale p non partecipa all’ibridazione e può

soltanto formare legami π con altri atomi.

L’ibridazione sp1 è caratterizzata dalla formazione di 2 orbitali

ibridi 2sp1 lineari (disposti a 180° l’uno dall’altro), mentre 2

orbitali 2p rimangono inalterati. I legami σ sono originati dalla

sovrapposizione degli orbitali 2sp1 ibridi degli atomi circostanti,

mentre si formano 2 legami π con la sovrapposizione di orbitali

non ibridizzati di due atomi di carbonio.

Nel legame aromatico carbonio-carbonio, di cui è un esempio la molecola

del benzene (C6H6), gli atomi di C si trovano legati tramite legami sp2 σ a formare

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un esagono regolare. Gli orbitali π originari sono tutti orbitali di legame,

completamente occupati; la grande delocalizzazione degli elettroni contribuisce

alla stabilità della molecola.

Grafite. E’ la forma allotropica più comune del carbonio. Gli atomi di C

formano un network esagonale con struttura a nido d’ape e con i singoli piani

impilati secondo la sequenza ABAB (Fig. 3). La distanza tra atomi primi vicini

(ac-c) entro il piano è pari ad 1,421 Å, con costante reticolare a0=2,462 Å, mentre

la costante reticolare sull’asse c è c0=6,708 Å con distanza interplanare pari a

c0/2=3,354 Å [31]. Entro ogni piano di grafite (detto grafene), gli atomi di C sono

legati da 3 legami covalenti forti di tipo σ, generati dalla sovrapposizione di una

coppia di orbitali atomici ibridi di tipo sp2 e da un legame π delocalizzato

originato dalla sovrapposizione laterale di orbitali atomici di tipo p aventi assi di

simmetria perpendicolari al piano reticolare (cioè a quello dei legami σ); i vari

piani sono invece tenuti assieme dalle deboli forze di Van der Waals. La

delocalizzazione dei legami π rende conto dell'elevata conducibilità elettrica della

grafite lungo una qualunque direzione che giaccia nel piano reticolare e della

bassa conducibilità in direzioni perpendicolari ad esso.

Il tipo di grafite più utilizzata commercialmente è la cosiddetta HOPG

(Highly Oriented Pyrolytic Graphite), la quale viene sintetizzata mediante pirolisi

di idrocarburi a temperature superiori ai 2000°C e successivamente ricotta a

3300°C. L’HOPG presenta proprietà meccaniche, termiche ed elettroniche molto

simili a quelle di un cristallo ideale di grafite, grazie alla struttura fortemente

Fig. 2. Le tre diverse possibilità di ibridazione del carbonio: (a) sp1; (b) sp2; (c) sp3.

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orientata: questa caratteristica la rende adatta all’utilizzo come cristallo

monocromatore per diffrazione a raggi X e ai neutroni.

Ciò che differenzia la grafite dal diamante è la struttura della cella

cristallina elementare che è esagonale e piana nella grafite mentre è tetraedrica e

spaziale nel diamante. Ne consegue che, mentre il diamante ha un comportamento

essenzialmente isotropo ossia, con caratteristiche meccaniche identiche in tutte le

direzioni, la grafite, al contrario, ha un comportamento fortemente anisotropo,

ossia essa esibisce una grande resistenza meccanica (soprattutto a trazione) nel

piano in cui si sviluppano i cristalli, mentre risulta estremamente debole se

sottoposta a trazione in direzione ortogonale a tale piano giacché i vari piani

cristallini sono legati tra loro solo da deboli legami di Van der Waals.

Diamante. Il diamante costituisce la seconda forma stabile del carbonio.

Esso è un esempio tipico di cristallo covalente, in cui ogni atomo di carbonio è

legato attraverso un legame covalente di tipo σ ad altri quattro atomi, secondo una

distribuzione tetraedrica, dando origine ad un reticolo tridimensionale (Fig. 4). La

forza di questi legami fa del diamante il materiale più dure esistente in natura. In

questa struttura gli angoli di legame C-C-C sono tutti 109,5° e ciascun atomo di

carbonio utilizza per la formazione del legame, orbitali ibridi sp3.

Fig. 3. Struttura della grafite con cella unitaria

indicata.

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Il diamante esiste sia nella forma cubica che in quella esagonale

(Lonsdaelite). Nella più comune forma cubica ogni atomo di C è legata ad altri

quattro atomi di C da altrettanti legami σ con ibridazione sp3, dando origine ad

angoli di legame C-C-C di 109,5° e lunghezza di legame pari a 1,544 Å. La

struttura cristallina è del tipo della zincoblenda (cfc), mentre per la forma

esagonale la struttura è quella della wurzite, con una distanza di legame pari a

1,52 Å. Entrambi i tipi di diamante presentano una densità di 3,52 g/cm-3

a fronte

dei 2,26 g/cm-3

della grafite grazie alla maggiore densità atomica, nonostante le

distanze di legame siano maggiori che in quest’ultima.

(a) (b)

Fullerene. Una terza forma allotropica del carbonio, artificiale,

cineticamente (ma non termodinamicamente) stabile, è costituita dai fullereni.

Questi rappresentano una delle più notevoli scoperte della chimica dell'ultimo

decennio. La scoperta avvenne per caso nel Settembre del 1985 da parte di Harold

W. Kroto dell'Università del Sussex (Inghilterra) di Richard E. Smalley e di

Robert F. Curl, i quali nel 1986 ricevettero, grazie ad essa, il premio Nobel per la

Chimica. Kroto stava cercando di riprodurre in laboratorio le molecole che sono

presenti nello spazio interstellare ed invece scoprì che il carbonio formava

Fig. 4. (a) Diamante nella forma cubica della zincoblenda e (b) con il reticolo esagonale della wurzite.

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molecole con 60 atomi in grande quantità quando si raccoglieva la fuliggine

prodotta da un arco elettrico fra due barrette di grafite. Studi teorici e sperimentali

hanno mostrato che la forma più stabile per cluster di carbonio formati al massimo

da 10 atomi, è quella di una catena lineare [32]. Per cluster costituiti da un numero

di atomi di C variabile tra 10 e 30, la forma più stabile risulta invece essere quella

d anello [33]. La genesi di cluster formati da un numero di atomi di C compreso

entro i 30-40 risulta invece improbabile [34], mentre al di sopra dei 40 atomi si ha

la formazione di strutture chiuse a gabbia.

I fullereni sono costituiti da cluster di atomi di carbonio, che formano una

struttura chiusa, cava all'interno, con un numero di atomi che sembra possa

arrivare fino a 540. In particolare, la molecola C60 è un icosaedro tronco con

diametro variabile tra i 7 e i 15 Å e le facce costituite da 12 pentagoni e 20

esagoni in accordo con il teorema di Eulero per i poliedri:

𝑓 + 𝑣 = 𝑒 + 2 (1.3.1)

in cui f, v ed e sono rispettivamente il numero delle facce, dei vertici e degli

spigoli del poliedro.

La distanza media tra atomi primi vicini è ac-c= 1,44 Å , quasi uguale al

valore trovato per la grafite. Ogni atomo di C è legato con geometria trigonale ad

Fig. 5. Molecola del C60 o Buckyball.

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altrettanti atomi di C mediante gli orbitali ibridi sp2, anche se la curvatura del C60

comporta la presenza di qualche orbitale ibrido sp3 caratteristico del diamante con

configurazione tetraedrica, ma assente nella grafite [35]. Altre forme stabili del

fullerene sono il C70, C78, C80, etc. I fullereni vengono prodotti artificialmente con

un sistema di vaporizzazione del carbonio ad alta temperatura, ma sono stati

ritrovati in minime percentuali anche nella miniera di carbone Yinpingland, in

Cina.

1.3.3-Struttura dei nanotubi di carbonio

Un nanotubo di carbonio, o più semplicemente CNT (Carbon NanoTube),

può essere considerato come un cilindro cavo, ottenuto arrotolando su se stesso un

foglio di grafene (ossia un singolo piano di grafite, Fig. 6).

Il legame all’interno dei CNT è essenzialmente di tipo sp2, anche se, a

causa della curvatura circolare, ha luogo un effetto di confinamento quantistico,

con reibridazione degli orbitali σ-π e ottenimento di tre legami σ leggermente

fuori dal piano; per compensazione gli orbitali π si troveranno maggiormente

delocalizzati all’esterno del tubo. Il meccanismo descritto dona ai CNT maggiore

resistenza meccanica, conducibilità elettrica e termica, reattività chimica e

biologica, rispetto alla grafite, oltre a far sì che difetti topologici, come ettagoni e

Fig. 6. Arrotolando un foglio di grafene si ottiene un nanotubo a parete singola (SWNT).

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pentagoni, siano incorporati nel network esagonale, per formare CNT chiusi,

piegati, di forma toroidale o ad elica; tutto ciò avviene mentre gli elettroni

vengono localizzati nei pentagoni ed ettagoni, a causa della ridistribuzione degli

elettroni sugli orbitali π. Per convenzione un CNT che consista del solo network

esagonale viene detto privo di difetti, mentre esso viene considerato difettivo se

contiene anche difetti topologici, come ettagoni e pentagoni, o altri difetti di tipo

chimico e strutturale [36].

In base al numero di cilindri presenti nella struttura è possibile distinguere

tra nanotubi a parete singola (SWNTs) e a parete multipla (MWNTs).

SWNTs. Un SWNT (Single Wall NanoTube) può essere descritto come un

foglio di grafene arrotolato su se stesso e chiuso alle estremità da due emisferi di

fullerene. Un nanotubo è generalmente caratterizzato dal diametro dt e dall’angolo

chirale θ (0 ≤ 𝜃 ≤ 30°) (Fig. 7).

Fig. 7. Definizione della cella unitaria di un nanotubo di carbonio.

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57

Il vettore chirale Ch, che descrive la circonferenza del nanotubo, è definito

tramite i due interi (n,m) ed i vettori di base del foglio di grafene:

𝐶ℎ = 𝑛𝑎1 + 𝑚𝑎2 ≡ (𝑛,𝑚) (1.3.2)

L’angolo chirale θ è l’angolo compreso tra il vettore chirale Ch e la

cosiddetta direzione di “zigzag” (n,0). Gli interi (n,m) determinano dt e θ:

𝑑𝑡 =𝑎

𝜋 𝑛2 + 𝑚2 + 𝑛𝑚 , sin 𝜃 =

3 𝑚

2 𝑛2+𝑚2+𝑛𝑚 (1.3.3)

Arrotolando semplicemente il foglio di grafene nella direzione del vettore

chirale Ch si ottiene un nanotubo del tipo (n,m). Classi particolari di nanotubi sono

rappresentate dai cosiddetti CNT “armchair” nei quali n = m ed indicati quindi dal

binomio (n,n), ed i nanotubi a “zigzag” per i quali invece è nullo uno dei due

indici chirali, ad esempio (n,0). Tutti gli altri tipi di nanotubi sono detti

semplicemente chirali con indici (n,m), essendo n ≠ m and m ≠ 0 (Fig.8).

Fig. 8. Differenti geometrie dei nanotubi ottenute variando i due

indici chirali (n,m).

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La cella unitaria del nanotubo, traslabile in una sola direzione, è definita

dal rettangolo formato dal vettore chirale Ch e dal vettore di traslazione T, definito

da:

𝑇 = 𝑡1𝑎1 + 𝑡2𝑎2, dove 𝑡1 =2𝑚+𝑛

𝑑𝑅 e 𝑡2 = −

2𝑛+𝑚

𝑑𝑅 (1.3.4)

dove dR è il massimo comun divisore di (2n + m, 2m + n). Il vettore di

traslazione T rappresenta il più piccolo vettore reticolare, che sia perpendicolare al

vettore chirale.

Nonostante il SWNT più piccolo che possa essere chiuso da due metà di

un fullerene C60, risulti avere un diametro di 6.78 Å, sono stati riportati nanotubi

con diametri inferiori ai 4 Å [37, 38].

La chiralità o elicità (ossia il vettore chirale) del nanotubo determina il suo

comportamento da metallo o da semiconduttore (Fig. 8):

Se 𝑛−𝑚

3= 𝑘 ⇒ Metallico

Se 𝑛−𝑚

3≠ 𝑘 ⇒ Semiconduttore con 𝑘 ∈ ℕ

Soltanto un terzo dei CNT è metallico, mentre i rimanenti 2/3 sono

costituiti da semiconduttori. Generalmente i SWNT si trovano riuniti in fasci

(bundles), all’interno dei quali essi sono tenuti assieme da deboli legami di Van

der Waals.

Fig. 9. Rappresentazione dei principali indici chirali, sul piano di grafene, per la

determinazione di CNT zig-zag ed Arm-chair.

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MWNTs. I nanotubi a pareti multiple sono costituiti da più fogli di grafene

annidati uno dentro l’altro, a formare un insieme di cilindri coassiali (Fig. 10).

Possono essere presenti dei legami tra le varie pareti (lip-lip interactions)

che pare stabilizzino la crescita di questi nanotubi (Fig. 11). Il diametro dei

MWNT è di norma maggiore di quello dei SWNT, e cresce con il numero di

pareti, potendo arrivare fino alle centinaia di nanometri.

Fig. 10. Le immagini registrate il microscopio elettronico a trasmissione ad alta risoluzione (HRTEM), mostrano MWNTs con differenti diametri e numero di pareti.

Fig. 11. L’elaborazione al computer mostra MWNTs con evidenziate

le lip-lip interactions.

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60

Il confine tra i nanotubi a pareti multiple e i nanofilamenti non è molto ben

definito, e un MWNT di grandi dimensioni può essere considerato come un caso

particolare di fibra tubolare. L'eventuale presenza di un grande numero di difetti

strutturali o di interazioni tra pareti all'interno del tubo rende ancora più labile

questa separazione. A causa del raggio di curvatura, nei MWNT non sono

possibili impilaggi di tipo AAB o ABC. Stando ai calcoli teorici la distanza tra

due cilindri del tubo dovrebbe essere di 3,39 Å, leggermente maggiore della

distanza interplanare nella grafite, mentre l’osservazione delle micrografie al

TEM ha permesso di stabilire che tale interspazio è esattamente di 3,4 Å. Le

lunghezze riportate per i CNT possono arrivare fino a 4 [39] o anche 10 cm [40] e

sembrano essere limitate dalle sole dimensioni del forno utilizzato.

1.3.4-Difetti nei nanotubi di carbonio

I nanotubi di carbonio presentano principalmente tre tipi di difetti:

1. Difetti da legami insaturi: dovuti a mancato legami degli atomi di

C con gli atomi circostanti e comportano la presenza di vacanze,

dislocazioni ed atomi in posizione interstiziale o di sostituzione

(impurezze di boro e azoto);

2. Difetti topologici: consistono soprattutto di pentagoni ed esagoni

presenti nella struttura a celle esagonali, propria del reticolo

“perfetto” e possono portare a deformazioni e variazioni di chiralità

del nanotubo (Fig. 12). In questa categoria rientrano anche i

cosiddetti difetti di Stone-Wales, consistenti nella presenza di due

coppie di pentagoni ed eptagoni, opposti gli una agli altri, generati

da una rotazione di 90° di uno dei legami nel reticolo esagonale

[Smalley], i quali provocano piccole variazioni locali del diametro,

senza variare la chiralità (Fig. 13).

3. Difetti di reibridazione: provengono dalla presenza di una linea di

elementi ibridati sp3, all’interno di un reticolo con ibridazione di

tipo sp2.

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I difetti nei CNT possono essere introdotti in diversi modi: ad esempio

attraverso il bombardamento di ioni ad alta energia o mediante trattamenti termici

ad elevate temperature; l’introduzione di tali difetti comporta un ampliamento

dello spettro di applicazioni e proprietà di queste nanostrutture. La presenza di

Fig. 12. Differenti tipi di difetti topologici.

Fig. 13. Difetto topologico di tipo Stone-Wales.

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difetti implica spesso una variazione delle proprietà dei nanotubi: ad esempio la

rigidità diminuisce all’aumentare dei difetti topologici, mentre aumenta con il

grado di funzionalizzazione. La generazione e crescita dei difetti possono essere

osservate durante la deformazione e la frattura dei CNT. La presenza di difetti è

inoltre indispensabile per la creazione di giunzioni tra CNT metallici e

semiconduttori, come anche per la creazione di giunzioni ad Y.

All’interno dei diversi tipi di difetti, quelli di Stone-Wales giocano un

ruolo fondamentale, permettendo riorganizzazione degli atomi su larga scala, nei

network a struttura esagonale grafitica. Una volta formatisi, gli eptagoni e

pentagoni da cui tali difetti sono costituiti, possono muoversi lungo la struttura

dando vita a centri di dislocazione, sia in zone a curvatura Gaussiana positiva che

negativa, comportando, alla fine, la chiusura della struttura. Inoltre i difetti di

Stone-Wales si trovano al centro di importanti trasformazioni strutturali che danno

luogo, ad esempio, alla coalescenza tra CNT e fullereni, alla formazioni delle

suddette giunzioni intramolecolari per dispositivi nano elettronici, nonché al

comportamento plastico o fragile dei CNT sottoposti a deformazione meccanica.

Nonostante la loro importanza e ai numerosi lavori teorici di cui sono stati e sono

tuttora oggetto, l’identificazione sperimentale dei difetti di S-W ha fornito

soltanto prove indirette.

I difetti possono comparire durante la crescita e purificazione dei CNT, o

in seguito, ad esempio durante la lavorazione del dispositivo o del composito. Essi

possono inoltre essere introdotti deliberatamente, mediante trattamento chimico o

irraggiamento, raggiungendo la funzionalizzazione desiderata, col fine di

aumentare ad esempio l’adesione tra CNT e matrice all’interno di un composito a

matrice polimerica, incrementandone le caratteristiche meccaniche.

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1.3.5-Metodi di sintesi dei CNTs

Scarica ad arco: E’ stato il primo metodo utilizzato per la produzione dei

CNT nel 1991. Nella scarica ad arco, gli atomi di carbonio vengono fatti

evaporare per mezzo di un plasma, utilizzando come gas generalmente He o Ar: il

plasma ha origine dalle elevate correnti che vengono fatte passare tra i due

elettrodi di grafite. Con questa tecnica è possibile produrre CNT di elevate qualità

e purezza, sia del tipo SWNT che MWNT. I MWNT possono essere ottenuti

controllando le condizioni di crescita, come la pressione del gas inerte e la

corrente tra gli elettrodi. Per la prima volta nel 1992, Ebbesen ed Aiayan

ottennero MWNT di elevata qualità e purezza, in quantità dell’ordine dei grammi,

dando grande risalto a questa tecnica di sintesi [41]. In genere i MWNT prodotti

con la scarica ad arco presentano lunghezze dell’ordine della decina di µm e

diametri tra i 5 e i 40 nm e si trovano legati insieme a formare bundles (fasci),

grazie a forti interazioni di van der Waals: la loro forma rettilinea deriva

dall’elevata cristallinità. Sulle pareti dei MWNT ottenuti con tale tecnica si

trovano difetti quali pentagoni ed eptagoni. I prodotti secondari sono costituiti

principalmente da particelle grafitiche multistrato di forma poliedrica, che sono

tuttavia eliminabili mediante semplice ossidazione termica (in ambiente di

ossigeno),a causa della quale si ha però anche la scomparsa delle pareti esterne dei

CNT. Al termine della sintesi i MWNT si trovano concentrati, sotto forma di

deposito, sulla superficie dell’elettrodo di grafite, costituente il catodo.

Per la crescita dei SWNT è invece necessario un catalizzatore, costituito

generalmente da un metallo di transizione, come Ni, Co o Y. Il primo successo

nella produzione di SWNT, mediante scarica ad arco, in quantità apprezzabili, fu

riportato da Bethune et al. nel 1993 [42], utilizzando un anodo di C, contenente

una piccola percentuale di Co. A differenza dei MWNT, I SWNT vengono

raccolti dalle pareti interne della camera di sintesi.

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Ablazione laser: E’ una tecnica molto simile alla scarica ad arco,

utilizzando anch’essa un bersaglio costituito da un elettrodo di grafite fu utilizzata

per la prima volta nel 1996 dal gruppo guidato da R. Smalley [43]. Con tale

tecnica si dimostrò che i CNT possono essere prodotti all’interno di un tubo

orizzontale di quarzo, all’interno del quale viene fatto fluire un gas inerte a

pressione controllata. In tali condizioni, mentre il tubo è riscaldato a 1200°C per

mezzo di una fornace, un impulso laser colpisce un bersaglio costituito da una

miscela di grafite e metalli di transizione, provocandone la sublimazione. Il gas

inerte, oltre a stabilizzare la temperatura di vaporizzazione, veicola il materiale

prodotto durante il processo di sintesi su di un collettore raffreddato, situato al di

fuori della zona riscaldata dalla fornace.

Uno dei parametri fondamentali per il controllo del tasso di produzione dei

CNT è la stabilità richiesta per la temperatura del collettore e del bersaglio. Anche

con questo metodo di sintesi si ha la presenza di prodotti secondari carboniosi nel

deposito ottenuto sul collettore, nonostante le percentuali di CNT ottenuti siano

pari al 60-70%. Uno degli svantaggi di tale tecnica è comunque la bassa quantità

di nanotubi ottenibili [44].

Fig. 14. Schema di un apparato per la sintesi dei CNT mediante ablazione

laser.

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Deposizione chimica da fase vapore. Questa tecnica, comunemente nota

con l’acronimo di CCVD (Catalytic Chemical Vapour Deposition) ha soppiantato

negli ultimi anni i metodi di sintesi precedentemente utilizzati, grazie alla

possibilità di produrre grandi quantità di nanotubi, nonché a quella di orientarli e

ottenerli secondo geometrie predefinite. Il metodo di sintesi si basa sulla

decomposizione termica di idrocarburi, in presenza di catalizzatori metallici. La

CVD è una tecnica più versatile delle precedenti, grazie ad una serie di vantaggi,

come ad esempio la possibilità di far crescere i CNT su un substrato che può

essere, all’occorrenza, sagomato secondo geometrie specifiche che si riflettono

sulla direzione di crescita. I parametri principali di questo tipo di sintesi sono la

natura e le dimensioni del catalizzatore, il tipo di substrato e la sua interazione con

le specie metalliche, nonché parametri fisici quali la pressione e temperatura di

processo e le specie utilizzate come sorgente di carbonio (idrocarburi, alcooli,

derivati organici complessi).

L’apparato per la CVD può inoltre essere facilmente modificato per

operare in modalità PECVD (Plasma Enhanced CVD) o mediante l’utilizzo di

microonde come MWCVD (Micro Wave CVD). La presenza del catalizzatore,

utilizzato per decomporre le molecole ricche di C (generalmente derivanti da

idrocarburi), consente un notevole abbassamento della temperatura di processo

rispetto alle tecniche precedentemente citate, con valori ben al disotto dei 1000°C,

mentre la pressione può variare dai pochi Torr alla pressione atmosferica. I

catalizzatori metallici utilizzati sono generalmente in forma solida, come Fe, Ni,

Co, Pt, Pd, e in fase vapore, come ad esempio il ferrocene. Tra i substrati vengono

invece utilizzati Si, silicio poroso, Allumina, Quarzo, Silice e in taluni casi anche

zeoliti. In genere i MWNT vengono prodotti utilizzando come fonte di C,

acetilene, etilene o metano, mentre per la sintesi dei SWNT ci si affida, oltre che

ai suddetti, anche al benzene.

Lo schema generale della sintesi con CVD, comprende il flusso di un

idrocarburo gassoso all’interno di un tubo di quarzo, in cui è presente il

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catalizzatore, posizionato sul substrato, che viene riscaldato a temperature tra i

600 e i 1200 °C, provocando la decomposizione dell’idrocarburo.

Come si è già detto, uno dei principali vantaggi di questo metodo è

l’elevata quantità di CNT producibili, come ad esempio quelle riportate dai gruppi

guidati da E. Costeau [45] e R. Smalley [46] per la produzione rispettivamente di

MWNT (100g/die) e SWNT (10g/die).

1.3.6-Meccanismi di crescita dei nanotubi

Il meccanismo di crescita dei nanotubi di carbonio è ancora una questione

fortemente dibattuta: una delle principali ragioni di questo dibattito è che le

condizioni che consentono la crescita dei nano filamenti di C sono molto diverse,

implicando differenti meccanismi di crescita. Per un dato set di condizioni è

probabile che il reale meccanismo sia una combinazione, o un compromesso, tra i

vari proposti. Un’ulteriore ragione risiede nel fatto che i fenomeni che hanno

luogo durante la crescita sono piuttosto rapidi e difficili da osservare “in situ”.

Tuttavia è opinione comune che la crescita avvengo in modo da minimizzare i

legami liberi per ragioni energetiche.

Crescita in assenza di catalizzatore: La crescita di nanotubi di C multi

parete mediante la tecnica di scarica ad arco è un raro esempio di crescita di nano

filamenti di C senza l’utilizzo di un catalizzatore. La forza motrice di questo

processo è il campo elettrico, ossia il trasferimento di carica da un elettrodo

all’altro, attraverso le particelle contenute nel plasma. Non è ancora chiaro in che

modo si formi il nucleo dei MWNT ma, una volta formato, sembra che si abbia

l’incorporamento di specie C2 nel reticolo primario del grafene, come dimostrato

da recenti misure sulla concentrazione dei radicali C2, che evidenziano come la

concentrazione di tali specie cresca passando dall’anodo che si consuma, al catodo

in crescita [47].

Crescita con catalizzatore: Secondo diversi studi sembra che i parametri

più importanti in questo caso siano quelli termodinamici (in particolare al

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temperatura), la dimensione delle particelle di catalizzatore e la presenza di un

eventuale substrato. La temperatura costituisce un fattore critico e rende conto

delle discrepanze tra i metodi basati su sorgenti solide di carbonio e la CCVD.

Processi a bassa temperatura: La crescita a bassa temperatura viene

utilizzata comunemente nella tecnica CCVD, in cui i CNT vengono prodotti a

temperature ben al di sotto dei 1000°C. Se il catalizzatore è un solido cristallizzato

la crescita comporta un meccanismo di tipo VLS (Vapore-Liquido-Solido) in tre

fasi:

1. Assorbimento e decomposizione delle particelle (moieties) gassose

contenenti C sulla superficie del catalizzatore;

2. Dissoluzione e diffusione delle specie carboniose attraverso il

catalizzatore con formazione di una soluzione solida;

3. Ri-precipitazione del C solido sotto forma di pareti dei nanotubi.

La tessitura risulta quindi determinata dall’orientamento delle facce,

relativamente all’asse del nanotubo.

Se le condizioni sono tali che il catalizzatore sia in forma di particella

liquida, a causa dell’alta temperatura o perché si utilizza un catalizzatore basso

fondente, allora si può ancora avere un meccanismo simile al suddetto, che risulta

realmente di tipo VLS (dove V=specie C gassose, L=catalizzatore fuso,

S=grafeni), ma non si hanno ovviamente le facce cristalline da orientare

preferenzialmente con i grafeni “rigettati”. La minimizzazione dell’energia

comporta che i fogli di grafene crescano concentrici e paralleli all’asse del

nanotubo.

Con catalizzatori di dimensioni maggiori (o in assenza di un substrato), il

meccanismo suddetto seguirà generalmente uno schema del tipo “tip growth”

(crescita dalla punta, Fig. 15a): mentre il catalizzatore procede in avanti, il

carbonio espulso forma il nanotubo dietro, indipendentemente dalla presenza di

un substrato. In tal caso è probabile che una delle estremità rimanga aperta.

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D’altro canto, quando le particelle di catalizzatore depositate sul substrato

sono abbastanza piccole (nanoparticelle) da poter essere mantenute in loco dalle

semplici forze di interazione col substrato, il meccanismo di crescita seguirà uno

schema di tipo “base growth” (crescita dalla base), in cui i CNT crescono

allontanandosi dal substrato, lasciando le particelle di catalizzatore attaccate a

quest’ultimo (Fig. 15b).

Risulta quindi chiaro che per ognuno dei meccanismi visti, ad ogni

particella di catalizzatore corrisponde un nanotubo. Ciò rende conto del fatto che,

nonostante sia possibile produrre SWNT mediante CCVD, il controllo delle

dimensioni delle particelle di catalizzatore è fondamentale, giacché influenza la

crescita dei CNT. Ad esempio, per la crescita di SWNT con la tecnica CCVD, si

possono utilizzare soltanto nanoparticelle con diametro <2nm, dal momento che

(a)

(b)

Fig. 15. I due differenti meccanismi di crescita dei CNT, secondo i modelli

“tip growth” (a) e “base growth” (b).

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nanotubi a parete singola di diametri maggiori non sono energeticamente favoriti.

Altro aspetto caratteristico della CCVD, e del relativo meccanismo di crescita, è

che il processo può avvenire lungo tutta la zona isoterma della fornace, essendo

questa rifornita continuamente da una fonte ricca di carbonio, generalmente in

eccesso, con composizione e flusso costante: in particolare, più è lunga la zona

isoterma (in condizioni di eccesso di C gassoso), più lunghi risulteranno i CNT,

affermazione che rende conto della maggiore lunghezza dei CNT prodotti con tale

tecnica rispetto a quelli sintetizzati a partire da sorgenti solide.

Processo ad alta temperatura: Alte temperature vengono solitamente

raggiunte nei processi che utilizzano sorgenti solide di carbonio, come la scarica

ad arco, l’ablazione laser e la sintesi con forno solare. Le elevatissime temperature

in gioco (migliaia di °C) atomizzano sia la sorgente di C che il catalizzatore.

Ovviamente i SWNT, basati su catalizzatore, non si formano nelle zone con le

temperature più elevate (al contrario dei MWNT nella scarica ad arco); il mezzo è

costituito da una miscela di atomi e radicali, alcuni dei quali è probabile che

ricondensino nella stessa particella liquida da cui si sono formati. A una certa

distanza dalla zona di atomizzazione, il mezzo è quindi costituito da goccioline di

leghe metallo-carbonio e specie secondarie, che vanno da C2 a molecole di C di

ordine superiore, come il corannulene, formato da un pentagono centrale,

circondato da 5 esagoni. La formazione di tali molecole può essere spiegata

mediante la suddetta associazione di atomi di C a formare pentagoni: tale strada

risulta più veloce (e a minor costo energetico) per limitare i legami insaturi,

fornendo inoltre un sito di associazione per altri atomi di C (e molecole C2);

questi, a loro volta, tendono a chiudere la struttura con geometrie anulari, in

particolare esagoni (dal momento che pentagoni adiacenti non sono favoriti

energeticamente), sempre con il fine di limitare i legami insaturi: queste molecole

sono considerate i precursori dei fullereni.

Una volta raggiunta la saturazione in C delle goccioline di lega metallo-

carbonio, quest’ultimo in eccesso precipita al di fuori della particella, a causa

dell’effetto del gradiente termico, decrescente nel reattore, che comporta una

riduzione di solubilità di C. Una volta che gli atomi di C interni hanno raggiunto

la superficie del catalizzatore, incontrano gli atomi “esterni”, i quali

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contribuiscono a chiudere i nanotubi in fase di crescita. Una volta formatisi e

chiusi, i nanotubi possono proseguire la loro crescita sia mediante il meccanismo

di tipo VLS proposto da Saito et al. [48] tramite gli atomi esterni, sia mediante il

meccanismo ad atom proposto da Bernholc et al. [49], secondo il quale atomi di C

del mezzo circostante il reattore si trovano a contatto con l’interfaccia nanotubo-

catalizzatore, favorendone il successivo inglobamento nella base del tubo.

Il meccanismo di crescita segue quindi principalmente lo schema di tipo

“base growth”; tuttavia, una volta che le estremità del CNT sono chiuse, qualsiasi

molecola di tipo C2 che incontri il CNT in crescita, in una zona lontane

dall’interfaccia con il catalizzatore, può entrare a far parte del nanotubo sia sulla

punta che sulle pareti laterali, dando luogo eventualmente a difetti di tipo S-W.

Un’altra differenza fondamentale tra la crescita ad alta e bassa

temperatura, come si ha nella CCVD, è che nel primo caso si possono generare

molti nanotubi da una singola particella di catalizzatore, di diametro relativamente

elevato (10-50 nm), cosicché la distribuzione dimensionale non risulta un fattore

critico (nonostante particelle di dimensioni troppo elevate possono indurre la

formazione di gruppi poliaromatici, piuttosto che di CNT): è per questo motivo

che i diametri dei SWNT cresciuti ad alta temperatura, risultano molto più

omogenei di quelli cresciuti con tecniche di CVD. La regione per la quale il

diametro medio più frequente è di 1,4 nm, è di tipo energetico: SWNT con

diametro > 2,5 nm non risultano energeticamente stabili. D’altro canto la

distorsione del legame C-C cresce al diminuire del raggio di curvatura: il diametro

“ottimo” di 1,4 nm dovrebbe quindi corrispondere al miglior compromesso

energetico.

Altra differenza importante con i processi a “bassa” temperatura di tipo

CVD, è che nella sintesi ad alta temperatura sono elevati anche i gradienti termici

e la composizione della fase gassosa che circonda il catalizzatore varia molto

velocemente: ciò rende conto della minore lunghezza e quantità dei CNT prodotti

mediante scarica ad arco rispetto a quelli prodotti per CCVD. Con quest’ultima

tecnica, la particella metallica può agire da catalizzatore per tutto il tempo nel

quale le condizioni sono mantenute costanti. Nel secondo caso invece, le

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condizioni al contorno variano molto rapidamente e la finestra per una catalisi

efficace risulta molto stretta. La riduzione dei gradienti di temperatura che si

hanno nei processi a sorgente di C solida, come la scarica ad arco, potrebbe quindi

incrementare la produzione e lunghezza dei SWNT.

1.3.7-Metodi di purificazione e funzionalizzazione

Purificazione: In genere il materiale di sintesi contiene una miscela di

SWNT, MWNT, carbonio amorfo e particelle metalliche di catalizzatore; il

rapporto tra i costituenti varia da processo a processo e dipende dalle condizioni

di crescita. I metodi di purificazione sono stati sviluppati al fine di rimuovere i

componenti indesiderati, ottenendo la più alta produttività di CNT, senza

danneggiarli. I metodi di purificazione comprendono l’ossidazione controllata, i

trattamenti chimici, la filtrazione e altre procedure tutte con i propri vantaggi e

svantaggi. Il primissimo metodo utilizzato consisteva nel bruciare il deposito

“grezzo” in presenza di aria, sfruttando il fatto che i residui grafitici e amorfi sono

meno resistenti dei CNT all’ossidazione. Nonostante questo metodo producesse

un residuo di CNT relativamente pure, esso comportava un danneggiamento delle

pareti e delle punte dei CNT, con una perdita di materiale fino al 99% [54]. Con

l’utilizzo di agenti superficiali (surfactanti) e successiva filtrazione è possibile

conservare una percentuale di tubi molto maggiore. Un metodo di separazione in

fase liquida di CNT e nanoparticelle è stato eseguito filtrando una dispersione

colloidale stabile, costituita dal materiale carbonioso in una soluzione si acqua e

agente superficiale, consentendo l’estrazione dei CNT dalla sospensione, mentre

le nanoparticelle rimangono nel filtrato. Un più elevato grado di purificazione è

stato raggiunto con il controllo dimensionale attraverso la flocculazione

controllata della dispersione: con questo processo sono state ottenute produttività

del 90%, dopo la fase di separazione finale, senza alcun danneggiamento alle

pareti e punte dei CNT [31 pag 330]. La fig. 16 mostra il residuo della

separazione, contenente come prodotto secondario una grande quantità di

nanoparticelle poliedriche di carbonio con forma “a cipolla” (onion like).

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Funzionalizzazione: La funzionalizzazione viene utilizzata sui CNT con

finalità diverse, tra le quali possiamo menzionare il miglioramento dell’adesione

con la matrice nei compositi, l’utilizzo come sensori chimici e biologici e

l’assorbimento di elementi specifici come l’idrogeno. Le tipologie di

funzionalizzazione si distinguono in base al tipo di legame formato tra gruppo

funzionale e il nanotubo:

Funzionalizzazione covalente: I trattamenti che producono legami

covalenti comportano la rottura di legami sulla superficie dei CNT,

distruggendo il legame delocalizzato π e rompendo il legame σ, in

Fig. 16. Deposito subito dopo la sintesi con scarica ad arco, in seguito a centrifugazione (foto in alto);

il prodotto secondario ottenuto, formato da nanoparticelle di C di forma “onion like” (in basso a sinistra);

i CNT dopo il processo di purificazione (in basso a destra).

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modo da permettere l’incorporazione di altre specie chimiche sulla

superficie. L’introduzione di difetti sulla superficie dei CNT può

alterarne significativamente le proprietà ottiche, elettriche e

meccaniche, comportando la diminuzione delle “prestazioni” dei

compositi in cui siano utilizzati come filler [57]. Il vantaggio di

questo tipo di modificazione risiede nella possibilità di migliorare

l’adesione tra il nanotubo e la matrice, nel materiale composito, in

modo da incrementare il trasferimento degli sforzi da quest’ultima

ai CNT, ottenendo in definitiva un miglioramento delle proprietà

meccaniche.

Funzionalizzazione non-covalente: Nonostante i metodi che

implicano questo tipo di modificazione superficiale non

comportino la distruzione della struttura sp2 del grafene,

preservando quindi le proprietà dei CNT, lo svantaggio in questo

caso consiste nelle deboli interazioni tra le molecole funzionali e i

CNT che si ripercuotono sule trasferimento di sforzi suddetto, tra i

CNT e l’eventuale matrice.

La modificazione chimica della superficie può comunque migliorare la

dispersione dei CNT in un dato solvente, come anche l’omogeneità e stabilità di

tale dispersione nel composito finale.

Tra i metodi di funzionalizzazione chimica più utilizzati troviamo il

trattamento con HNO3 e H2SO4, il quale dà luogo alla comparsa, sulla superficie

dei CNT, di gruppi OH e SO3− [55], oltre a tecniche che comportano il legame dei

CNT con gruppi carbossilici e carbonilici. Altri metodi prevedono la

funzionalizzazione con gruppi amminici (partendo da una TETA), con incremento

della resilienza dei compositi realizzati con questo tipo di CNT modificati [56].

La letteratura scientifica riporta anche tecniche più inusuali, come l’utilizzo di

plasma a radio frequenza, con ottenimento di gruppi funzionali contenenti

ossigeno, idrogeno o fluoro, attraverso la variazione del gas di partenza [58].

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1.3.8-Proprietà dei CNT

Proprietà elettriche: Una delle proprietà più interessanti dei CNT è

sicuramente quella di poter assumere un comportamento da metalli o

semiconduttori a seconda della loro chiralità: più precisamente i nanotubi

metallici presentano solitamente una struttura di tipo ”arm-chair” e costituiscono

circa un terzo dei nanotubi sintetizzati, essendo i rimanenti due terzi costituiti da

CNT semiconduttori. Nello stato metallico la conducibilità elettrica dei nanotubi

risulta molto alta: è stato calcolato che i CNT possono arrivare a trasportare

correnti dell’ordine dei 109 A/cm

2, mentre il rame fonde a 10

6 A/cm

2 a causa

dell’elevato surriscaldamento per effetto Joule [62, pag121]. Una delle ragioni di

questa elevatissima conducibilità è che ci sono pochi difetti per dar luogo a

scattering elettronico, la qual cosa risulta in una resistenza molto bassa. Altra

differenza rispetto al rame è la capacità dei CNT di trasportare correnti, anche

elevate, senza surriscaldarsi, grazie ad un fenomeno chiamato “conduzione

balistica”. Nel 1998, Frank et al. eseguirono misure sulla conducibilità elettrica

dei nanotubi facendo uso, attraverso un SPM (Scanning Probe Microscope) una

superficie di Hg per i contatti. I risultati mostrarono che i CNT agiscono da

conduttori balistici con un comportamento di tipo quantistico. La conducibilità dei

MWNT presentava incrementi di 1G0 allorché tubi diversi venivano toccati dal

Fig. 17. Prova sperimentale della quantizzazione della conducibilità dei CNT.

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mercurio. Il valore trovato per G0 è pari a 1/12,9 kΩ-1

, dove G0= 2e2/h. Si scoprì

anche che il coefficiente del “quanto” di conduttanza poteva assumere sia valori

interi che non interi, come 0,5 G0 [50].

Il gap di banda per un SWNT semiconduttore con diametro di circa 1 nm

può variare tra 0,7 e 0,9 eV. Per un nanotubo metallico di tipo non armchair, con

diametro < 1,5 nm, la reibridazione σ-π può portare alla comparsa di un piccolo

gap dell’ordine dei 0,002 eV [36]. Quando si analizzano fasci di SWNT o un

MWNT, bisogna tenere conto degli effetti di accoppiamento tra i diversi tubi, i

quali possono portare alla comparsa di un piccolo gap per i CNT metallici o ad

una sua riduzione (~40%) per tubi semiconduttori in un fascio di SWNT. Giacché

gli effetti di accoppiamento diminuiscono all’aumentare del diametro del tubo, per

i MWNT questi effetti sono rilevabili solo nei tubi di diametro inferiore. Tutti i

tubi semiconduttori nei MWNT tendono ad essere semi-metallici come la grafite,

grazie alla riduzione del gap energetico per i tubi di diametro maggiore, mentre i

piccoli gap, a volte riportati negli esperimenti, sono attribuiti alla presenza di

difetti o ad una barriera nei contatti elettrici.

Proprietà chimiche (adsorbimento gas): Le proprietà chimiche d’interesse

dei CNT comprendono l’apertura dei tubi, la bagnabilità, il riempimento,

l’adsorbimento, il trasferimento di carica ed il drogaggio. Le relative applicazioni

includono invece la separazione chimica, la purificazione, la sensoristica e

rilevazione, lo stoccaggio energetico e l’elettronica.

Apertura: Le estremità di un CNT sono molto più reattive delle pareti laterali e

questo a causa della presenza di pentagoni, della grande curvatura e dell’eventuale

catalizzatore residuo della sintesi. Per l’apertura dei nanotubi sono stati utilizzati

vari metodi, quali l’ossidazione termica, l’attacco al plasma e reazioni chimiche

con utilizzo di acidi, come HNO3. Le estremità aperte terminano in genere con

alcuni gruppi funzionali come i carbossilici, carbonilici, fenolici, etc. L’apertura è

indispensabile per talune applicazioni, come il riempimento.

Bagnabilità e riempimento: I CNT sono idrofobici e non sono bagnati dalla

maggior parte dei solventi acquosi. Diversi studi hanno mostrato che i CNT

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possono essere bagnati da vari solventi organici, da HNO3, S, Cs, Rb, Se e da vari

ossidi come Bi2O2 e gli ossidi di Pb. Dato che i CNT mostrano una pressione

capillare proporzionale ad 1/D, i solventi organici possono essere guidati per

riempirli attraverso l’applicazione di tale pressione. E’ inoltre possibile riempire i

CNT con agenti non bagnanti, applicando una pressione maggiore della pressione

capillare. Un’alternativa efficace è l’utilizzo di agenti bagnanti come il succitato

acido nitrico per “assistere” il bagnamento per opera di agenti non bagnanti.

Adsorbimento e trasferimento di carica: Sperimentalmente è stato

osservato un forte adsorbimento e trasferimento di carica dall’ossigeno ai CNT a

temperatura ambiente. La capacità di adsorbire specie gassose e il trasferimento di

carica dipendono dal numero di siti e dal tipo di molecola gassosa. I siti sui quali

una molecola gassosa può essere adsorbita comprendono interstizi tra fasci di

CNT, scanalature nei vuoti tra due CNT vicini, nano pori entro il tubo e la

superficie di un singolo tubo. Le distanze di equilibrio calcolate tra le molecole di

gas ed il CNT più vicino variano tra 0,193 nm per NO2 a 0,332 per l’Ar, le energie

di adsorbimento tra 30,6 kJ/mol per il C8N2O2Cl2 a 1 kJ/mol (per l’Ar), mentre le

cariche parziali variano tra 0,212 per C8N2O2Cl2 a 0,01 per l’azoto: tali valori

risultano a metà tra quelli misurati comunemente per l’adsorbimento fisico e

chimico. Gas come l’O2 o NO2 mostrano un comportamento da accettore,

presentando una carica negativa ottenuta dal CNT, mentre altri gas si comportano

da donori, caricandosi positivamente. Per le applicazioni di tipo “sensoristico”

bisogna però tener conto della variazione di conducibilità elettrica dei CNT

allorché essi vengono in contatto con alcune molecole gassose.

Drogaggio, intercalazione, stoccaggio energetico: Il primo approccio

utilizzato per il drogaggio dei CNT è stato quello di utilizzare atomi “di

sostituzione” come boro e azoto, in modo da creare CNT di tipo p ed n. Tuttavia

l’adsorbimento di molecole gassose, discusso in precedenza, fornisce un

approccio più semplice e “non-covalente” per trasformare un CNT in un tipo p,

mediante adsorbimento di O2 e acqua, o in un tipo n, utilizzando ad esempio

C6H12. D’altra parte per aumentare la conducibilità elettrica di nanotubi metallici,

si usa l’intercalazione con metalli alcalini, mentre gli alogenuri sono utilizzati per

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immagazzinamento di carica e stoccaggio energetico. Osservazioni sperimentali e

calcoli teorici hanno mostrato che questi agenti d’intercalazione entrano negli

spazi tra i tubi o nei difetti di superficie, incrementando le potenzialità

elettrochimiche, come anche il trasferimento di carica e lo stoccaggio di energia,

permettendo ai CNT di presentare elevate potenzialità elettrochimiche quando

sono utilizzati come elettrodi. Le reazioni di riduzione e ossidazione che hanno

luogo negli elettrodi, producono un flusso di elettroni che consente la generazione

e lo stoccaggio di energia, oltre a produrre un segnale utilizzabile per la

rilevazione di agenti chimico-biologici. Nelle batterie convenzionali, gli elettrodi

di grafite o di altri materiali, consentono lo stoccaggio reversibile di un solo ione

Li+ ogni sei atomi di carbonio, mentre nei CNT tale capacità risulta raddoppiata.

Studi teorici hanno mostrato come le estremità aperte dei CNT facilitino la

diffusione degli atomi di Li nei siti interstiziali.

Proprietà meccaniche: I nanotubi di carbonio devono le loro eccellenti

proprietà meccaniche alla presenza di soli legami σ, ossia i legami più forti

esistenti in natura. I risultati di calcoli teorici e misure sperimentali convergono

nel confermare che i CNT sono rigidi almeno quanto il diamante, presentando i

più alti moduli elastici e resistenze a trazione conosciuti. La maggior parte dei

calcoli teorici sono eseguiti su CNT privi di difetti, dando risultati coerenti. La

tabella 1 riporta il modulo di Young la resistenza a trazione teorica per un SWNT

(10,10), un bundle di SWNT, un MWNT ed il relativo confronto con altri

materiali.

Tab. 1. Modulo di Young e resistenza a trazione “teoriche” di alcuni tipi di CNT, in confronto

con le relative proprietà per l’acciaio e la grafite.

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I risultati sperimentali mostrano invece elevate discrepanze, soprattutto per

i MWNT, a causa del fatto che questi contengono differenti percentuali di difetti,

derivanti da diversi meccanismi di crescita. In generale i diversi tipi di CNT

perfetti, ossia privi di difetti, risultano più resistenti della grafite, grazie

soprattutto al fatto che la componente assiale del legame σ risulta assai accresciuta

quando un foglio di grafite è arrotolato su se stesso a formare una struttura

cilindrica. Il modulo elastico non dipende dalla chiralità del tubo, mentre dipende

dal suo diametro, presentando il valore più elevato, pari a 1 TPa, per un diametro

tra 1 e 2 nm. All’aumentare del diametro del tubo, oltre questi valori, si va verso i

valori riscontrati nella grafite, mentre diametri inferiori sono affetti da instabilità

meccanica. Quando differenti diametri coesistono in un MWNT (che possiamo

vedere come formato da tanti SWNT concentrici), il modulo di Young assumerà il

valore competente al SWNT più rigido più un contributo dovuto alle interazione

di accoppiamento tra i vari tubi coassiali (lip-lip interactions di tipo van der

Waals). Il modulo di Young per un MWNT risulterà quindi più elevato che per un

SWNT, (tipicamente 1,1 e 1,3 TPa) come determinato sia teoricamente che

sperimentalmente. D’altra parte quando molti SWNT si trovano riuniti in bundles

o ropes, le deboli forze di van der Waals inducono delle forti tensioni di taglio tra

i nanotubi impacchettati, portando ad una diminuzione del modulo elastico. E’

stato dimostrato sperimentalmente che il modulo di Young decresce da 1 TPa a

100 GPa, quando il diametro di un fascio di SWNT aumenta da 3 a 20 nm.

Al pari delle proprietà viste, anche la risposta dei CNT alle deformazioni è

eccellente. Mentre la maggior parte dei materiali rigidi arriva a rottura con

deformazioni dell’1% (a causa della propagazione di dislocazioni e difetti vari), i

CNT hanno dimostrato di poter raggiungere deformazioni del 15% prima di

giungere a rottura, la qual cosa implica, assumendo un modulo elastico di 1 TPa,

che la resistenza a trazione può essere di 150 GPa. Un allungamento a rottura così

elevato viene attribuito al buckling elastico, attraverso il quale si ha un rilascio

delle tensioni. Il buckling elastico interviene anche nella torsione e nel

piegamento dei CNT, tanto che i nanotubi possono essere ripetutamente di 90°

senza rompersi. Un comportamento così elastico è dovuto alla re-ibridazione degli

orbitali sp2, attraverso cui si ha il rilascio delle tensioni. Questo meccanismo di re

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ibridazione porta tuttavia ad una modifica delle proprietà elettroniche dei CNT:

calcoli teorici hanno mostrato che i CNT chirali o asimmetrici (0°<θ<30°)

subiranno una variazione delle proprietà elettroniche sia sotto deformazioni

torsionali che di trazione, mentre i CNT simmetrici di tipo arm-chair o zig-zag

possono o meno subire tale variazione. Nei CNT asimmetrici entrambi i

meccanismi di deformazione suddetti portano alla re ibridazione del legame sp2,

mentre per i CNT simmetrici l’effetto di una deformazione sulle proprietà

elettroniche non è così diretto. Il più interessante di tali effetti è la transizione

metallo-isolante prevista dalla teoria. Nonostante i CNT di tipo armchair siano

intrinsecamente metallici, in presenza di una deformazione torsionale si assiste

alla comparsa di un gap tra la banda di valenza e quella di conduzione. Alcuni tipi

di CNT zig-zag subiranno lo stesso effetto per deformazioni di trazione, mentre

CNT metallici chirali, come si è già detto, faranno lo stesso per entrambe le

deformazioni [36].

Proprietà magnetiche: Anche in questo caso ci sono discrepanze nelle

misure sperimentali, sebbene esse risultino qualitativamente compatibili con le

analisi teoriche. Analogamente al comportamento “elettromeccanico” dei CNT,

precedentemente illustrato, calcoli teorici portano a prevedere che anche sotto

applicazione di un campo magnetico parallelo all’asse del tubo, si possa avere la

transizione metallo-isolante (semiconduttore) e la variazione del gap di banda.

Una risposta simile si può avere anche quando il campo magnetico risulta

perpendicolare all’asse del tubo. Una delle caratteristiche più interessanti di questa

teoria è che la variazione del gap di banda sia oscillatoria. Nel caso di

applicazione di un campo magnetico il comportamento suddetto è detto effetto di

Aharonov-Bohm. Il comportamento oscillatorio è stato osservato

sperimentalmente, misurando la variazione di resistenza di un MWNT sottoposto

ad un campo magnetico parallelo al suo asse [36].

Proprietà termiche: Date le elevate capacità termiche e i calori specifici

della grafite e del diamante, proprietà termiche simili sono da aspettarsi per i CNT

a elevate temperature e a temperatura ambiente, mentre c’è da aspettarsi un

comportamento inusuale a temperature inferiori ai 100 K a causa dell’effetto di

quantizzazione dei fononi. Sia la teoria che le misure sperimentali hanno mostrato

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un debole accoppiamento (termico) tra i CNT presenti in fasci di SWNT e nei

MWNT, per temperature superiori ai 100 K. Risultati sperimentali hanno messo in

luce la dipendenza del calore specifico dei MWNT dalla temperatura, in

concordanza con le deboli interazioni tra i vari tubi coassiali. A temperature > 100

K sia i SWNT che i MWNT, come anche fasci di SWNT, seguono l’andamento

del calore specifico della grafite, pari a circa 700 mJ/g*K, mentre a temperature

più basse interviene l’effetto di confinamento quantistico. Ad esempio, la capacità

termica vale 0,3 (mJ/g*K) per un SWNT (10,10), circa 0 per un fascio di SWNT e

per la grafite, mentre varia tra 2 e 10 per un MWNT o un fascio di essi [51,52].

Sia per I SWNT che per i MWNT la conducibilità termica dovrebbe

riflettere la struttura fononica sul tubo, indipendentemente dall’accoppiamento tra

tubi diversi. Misure sperimentali di conducibilità termica hanno mostrato un

comportamento simile alla grafite per i MWNT, ma un comportamento piuttosto

differente per i SWNT, i quali mostrano una dipendenza lineare da T alle basse

temperature, in concordanza con la monodimensionalità dei modi fononici: la

conducibilità termica, come la elettrica, risulta monodimensionale per i CNT.

Anche in questo caso le misure forniscono un ampio range di risultati, che variano

dai 200 W/mK ai 6000 W/mK, dipendendo fortemente dalla qualità e

dall’allineamento dei CNT utilizzati. La teoria e le misure sperimentali hanno

mostrato che la conducibilità termica per fasci di SWNT e per i MWNT a

temperatura ambiente, può variare tra 1800 e 6000 W/mK, mentre un valore

superiore ai 3000 W/mK è stato confermato da misure effettuate su un singolo

MWNT [53, 36].

1.3.9-Applicazioni dei nanotubi di C

Applicazioni basate sull’emissione di campo: L’emissione di campo è un

fenomeno quantistico utilizzato come sorgente di elettroni, in competizione con

l’effetto termoionico. L’emissione si basa sull’applicazione di un campo elettrico

opportuno, attraverso il quale gli elettroni che si trovano al di sotto del livello di

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Fermi, possono superare la barriera di potenziale, tramite un fenomeno detto

tunneling quantistico. Per le applicazioni tecnologiche è bene che il materiale

emettitore di elettroni presenti una bassa tensione di “accensione” ed una grande

stabilità ad elevate densità di corrente. Per l’utilizzo nei display a cristalli liquidi,

o FED (Field Emission Display) è necessaria una densità di corrente emessa pari a

1-10 mA/cm2, mentre per gli amplificatori a microonde sono richiesti almeno 500

mA/cm2. Poiché il cosiddetto fattore di amplificazione del campo (field

enhancement factor) aumenta al diminuire del raggio di curvatura della punta

emettitrice, i CNT si trovano rispondere in pieno alle caratteristiche necessarie per

creare dei buoni emettitori, presentando un diametro nanometrico e un’elevata

conducibilità elettrica. In rapporto agli emettitori convenzionali I CNT presentano

un campo elettrico di soglia inferiore, come mostrato in tabella 2.

Tra le applicazioni più interessanti di questo fenomeno c’è l’utilizzo nei

sistemi di illuminazione a raggi catodici. Con l’utilizzo di schermi di materiali

fosforescenti diversi, stampati nella parte interna del bulbo di vetro, è possibile

ottenere l’emissione di vari colori (Fig. 17): la luminescenza degli schermi al

fosforo basati sui CNT, misurata lungo l’asse del tubo è pari a 6,4*104 cd/cm

2 per

la luce verde, con una corrente anodica di 200 µA, cioè pari a circa il doppio della

luminescenza dei tubi a raggi catodici convenzionali (CRT), di tipo termoionico, a

parità di condizioni operative.

Tab. 2. Campo elettrico di soglia per una densità di corrente emessa pari a 10mA/cm2, per diversi materiali.

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Altra applicazione di grande risalto sono i già citati FED: essi sono dei

display a schermo piatto, che utilizzano CNT come emettitori di elettroni. Un

prototipo basato su tale principio, messo a punto dalla Northwestern University

negli USA, consiste di strisce di CNT- resina epossidica depositate sul vetro

catodico e da un vetro anodico ricoperto di strisce di ITO (ossidi di stagno e indio)

coperte di fosforo (Fig. 18a): i pixel si formano all’intersezione tra le strisce

catodiche e anodiche. Con una distanza catodo-anodo di 30 µm, sono richiesti 230

V per ottenere la densità di corrente emessa, necessaria a pilotare il display a

diodi. Recentemente la Samsung ha realizzato un prototipo FED da 4,5 pollici,

basato sull’utilizzo di strisce di SWNT sul catodo e strisce di ITO, ricoperte di

fosforo, all’anodo in posizione ortogonale alle prime.

Fig. 18. Sorgenti luminose basate sull’emissione di campo, con l’utilizzo di nanotubi di carbonio come catodo (prodotte dalla Ise Electronic Co, Giappone).

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Stoccaggio energetico: Per l’immagazzinamento e la produzione di

energia i CNT costituiscono la nuova frontiera della ricerca, grazie alle loro

piccole dimensioni e alla specificità della superficie, dal momento che si trovano

esposti soltanto i piani basali della grafite. La velocità di trasferimento di elettroni

negli elettrodi di carbonio determina l’efficienza delle celle a combustibile: essa

dipende da diversi fattori, come la struttura e morfologia del materiale carbonioso

utilizzato per gli elettrodi. Diversi esperimenti hanno dimostrato che, rispetto ai

convenzionali elettrodi di C, nei CNT la cinetica di trasferimento degli elettroni è

più veloce. Elettrodi realizzati con nanotubi sono stati usati con successo in

reazioni bio-elettro-chimiche, mostrando prestazioni superiori ad altri elettrodi di

C, in termini di velocità di reazione e reversibilità. MWNT puri o depositati con

catalizzatori metallici (come Pt, Pd e Ag) sono stati usati per “elettro-catalizzare”

una reazione di riduzione con ossigeno, importante per le celle a combustibile.

Altro settore di interesse è quello delle batterie ricaricabili a ioni di litio, il

cui funzionamento è basato sull’intercalazione e de intercalazione elettrochimica

(a) (b)

Fig. 19. (a) Prototipo di FED basato su CNT, ideato dalla Northwestern University; (b) Il FED da

4,5 pollici, realizzato dalla Samsung.

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del Li tra due elettrodi. Nelle batterie al Li si usano convenzionalmente dei catodi

costituiti da ossidi di metalli di transizione, mentre come anodi vengono utilizzati

materiali a base di C, come grafite o carbonio amorfo. La capacità energetica di

queste batterie è determinata dalla saturazione nella concentrazione di Li dei

materiali costituenti gli elettrodi. Per la grafite la concentrazione di equilibrio di

saturazione è pari a 372 mAh/g, mentre per i SWNT sono stati riportati valori di

400-650 mAh/g per la capacità reversibile e 1000 mAh/g per quella irreversibile,

valore raggiunto dalla prima qualora i nanotubi vengano sottoposti a macinazione

mediante mulini a sfere [31].

I maggiori sforzi della ricerca nel settore dell’immagazzinamento

energetico basato sui CNT sono stati rivolti allo stoccaggio di idrogeno, campo

nel quale i diversi studi hanno dato risultati contrastanti. Ricerche differenti hanno

comunque mostrato lo straordinario e reversibile assorbimento di idrogeno in

materiali contenenti SWNT e GNF (nanofibre di grafite); alcuni dei risultati sono

mostrati in tabella 3.

Tab. 3. Stoccaggio gravimetrico di H2 per diversi materiali carboniosi.

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I dati resi disponibili dalle varie ricerche mostrano capacità di stoccaggio

variabili tra il 4-5% in pero di H2 per SWNT “aperti” tramite ossidazione termica,

fino al 14-20% riportato tra 20 e 400°C in sistemi composti da CNT intercalati

con metalli alcalini, suggerendo che i CNT siano le strutture di carbonio con le

capacità di immagazzinamento più elevate.

Nanosonde e sensori: L’utilizzo di un singolo MWNT attaccato alla punta

di un SPM (Scanning Probe Microscope) è già stato dimostrato e data la loro

conducibilità, i CNT possono essere utilizzati sia negli AFM (Atomic Force

Microscope) che negli STM (Scanning Tunneling Microscope). Il vantaggio

nell’utilizzo dei CNT some sonda per i suddetti microscopi, risiede ancora una

volta nelle loro piccolissime dimensioni, grazie alle quali si ha la possibilità di

ottenere immagini di particolari molto piccoli, altrimenti praticamente non

sondabili con le comuni punte di Si o metalliche.

L’ulteriore vantaggio dei CNT, rispetto agli altri tipi di punte, è quello di

non subire danneggiamenti dovuti a contatti accidentali, i quali provocano

soltanto il buckling del nanotubo. Le punte con CNT possono anche essere usate

per la nanomanipolazione. E’ stato dimostrato che se due CNT vengono

(a) (b)

Fig. 20. (a) Schema mostrante l’utilizzo di un MWNT, inserito sulla sommità di una fibra di

carbonio, come sonda per un AFM; (b) Immagine SEM di una CNT cresciuto sulla superficie

di una punta piramidale.

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appropriatamente posizionati sulla punta di un AFM, possono essere utilizzati

come delle “nano-pinzette” per manipolare nanostrutture sulle superfici.

Poiché le punte di CNT possono essere modificate chimicamente tramite

l’attaccamento di diversi gruppi funzionali, i CNT possono anche essere utilizzati

come sonde molecolari, con applicazioni sia in chimica che in biologia.

Altra applicazione è quella nel campo degli attuatori elettromeccanici. E’

stato dimostrato che SWNT sotto forma di fogli (intercalati con un polimero)

subiscono grandi deformazioni sotto applicazione di un piccolo voltaggio

(qualche Volt), mimando il comportamento dei muscoli naturali [59]. Gli attuatori

basati su CNT risulterebbero superiori ai dispositive basati su polimeri

“conduttivi”, giacché per i primi non c’è bisogno dell’intercalazione con ioni.

Infine la caratteristica dei CNT di variare la propria conducibilità elettrica

quando sono esposti ad ambienti gassosi contenenti molecole come NH3, NO2 ed

O2 ne rende possibile l’applicazione come sensori chimici di elevata sensibilità

[31].

Elettronica: Il fatto che i CNT possano essere ottenuti come metalli o

semiconduttori ha ispirato la fantasia di molti scienziati che, già nel 1995,

proposero la possibilità di realizzare un diodo raddrizzatore mediante una etero-

giunzione, ottenuta congiungendo un SWNT metallico con uno semiconduttore. I

CNT possono inoltre essere utilizzati per la realizzazione di transistor a effetto

campo (FET), attaccando un SWNT semiconduttore tra due elettrodi (source e

drain), depositato su di un substrato isolante che funzioni da elettrodo di gate (Fig.

20): tramite l’accoppiamento di due FET si questo tipo è possibile ottenere un

invertitore di voltaggio.

Nonostante queste applicazioni risultino affascinanti e molto promettenti, è

necessario ancora un certo progresso prima di poter realizzare dei circuiti integrati

basati su CNT, che possano essere prodotti su larga scala. Un dei problemi

principali è la possibilità di preparare selettivamente CNT metallici o

semiconduttori, cosa che a tutt’oggi non risulta ancora possibile su larga scala,

nonostante sia stato proposto un metodo per eliminare selettivamente SWNT

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metallici da fasci di nanotubi indifferenziati. Sarebbe inoltre necessario produrre

nanotubi privi di difetti, possibilità legata ad una sfida ancora maggiore, ossia

l’essere in grado di fabbricare circuiti integrati comprendenti componenti

nanodimensionati (visualizzabili solo attraverso tecniche sofisticate come l’AFM)

su scala industriale.

Nanoutensili e nanodispositivi: Grazie all’abilità del grafene di espandersi

quando viene caricato elettricamente, è stato scoperto che i CNT possono essere

utilizzati come attuatori. Sono state realizzate nano pinze capaci di afferrare e

manipolare e rilasciare nano oggetti, come anche di misurarne le proprietà

elettriche: ciò è stato possibile semplicemente depositando due rivestimenti di Au,

non interconnessi, in una micro pipetta di vetro e connettendo in seguito due

MWNT (o due fasci di SWNT) di circa 20-50 nm di diametro ad ognuno degli

elettrodi d’oro. L’applicazione di un piccolo voltaggio (0-8,5 V) tra i due

elettrodi, comporta l’apertura e chiusura reversibili delle punte dei tubi in modo

controllato. Un esperimento simile, è consistito nel montare due strisce basate su

Fig. 21. Schema di un FET realizzato utilizzando un canale costituito da un

SWNT.

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SWNT (bucky-paper) su entrambe le facce di un nastro isolante. Le due strisce di

bucky-paper erano state caricate in precedenza con ioni Na+

e Cl- rispettivamente

in modo che, con l’applicazione di una ddp di 1 V tra di esse, nonostante

entrambe si espandessero, l’intero sistema era costretto a flettersi, poiché

l’espansione della striscia caricata con Na+ risultava lievemente maggiore.

Nonostante sia stato ottenuto in un ambiente liquido, questo comportamento ha

suggerito il futuro impiego di tali sistemi nei “muscoli artificiali”.

Un altro esempio di questi affascinanti nano utensili è costituito dal nano

termometro, proposto da Gao et al. [60], ottenuto tramite un MWNT riempito

parzialmente con del gallio liquido. Il funzionamento si basa sul fatto che le

variazioni di temperatura nel campo 50-500°C, causano il movimento reversibile

del Ga lungo la cavità del nanotubo a livelli riproducibili, rispetto ai valori di

temperatura da misurare [47].

.

1.3.10-Caratterizzazione dei CNTs

La scoperta dei nanomateriali ha comportato inevitabilmente la necessità

di sviluppare metodologie in grado di consentire l'analisi delle strutture su

dimensioni nanometriche. La caratterizzazione di un campione di materiale

nanostrutturato necessita, infatti, di estrema sensibilità e di altissima risoluzione.

Il microscopio ottico non possiede risoluzione sufficiente, poichè il potere

risolutivo risulta inversamente proporzionale alla lunghezza d'onda della

radiazione impiegata. La scoperta della possibilità di trattare gli elettroni come

una radiazione di lunghezza d'onda molto piccola ha suggerito l'impiego di fasci

di elettroni per ottenere poteri risolutivi assai elevati. Pertanto, si utilizzano per

l'analisi delle nanostrutture microscopi elettronici in grado di soddisfare la

richiesta di risoluzione a livello nanometrico, se non a livello atomico, con

ingrandimenti che possono superare i 106×.

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Tra questi si annoverano il microscopio a scansione elettronica (SEM -

Scanning Electron Microscopy) e il microscopio a trasmissione elettronica

(TEM – Trasmission Electron Microscopy).

Microscopio a scansione elettronica. Il microscopio a scansione elettronica

utilizza un fascio di elettroni per produrre informazioni sulla morfologia dei

campioni analizzati. Si fa uso di elettroni in quanto particelle cariche facilmente

ottenibili da vari materiali tramite diverse tecniche di emissione, in grado di essere

deflesse tramite campi o lenti magnetiche e di essere rese visibili facilmente

attraverso l'uso di uno schermo fluorescente.

Inoltre la piccola massa degli elettroni permette loro, da un lato, di non

causare danni ai campioni, dall'altro, di risentire considerevolmente

dell'interazione con le particelle che incontrano.

Fig. 22. Rappresentazione schematica dei diversi componenti

presenti in un SEM.

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Generalmente la fonte di elettroni consiste in un filo di tungsteno o

esaboruro di lantanio, riscaldati fino a permetterne l’emissione per effetto

termoionico. Gli elettroni, emessi con energie comprese tra poche centinaia di eV

e 100 KeV, vengono fatti convergere tramite l'uso di lenti magnetiche, in un

sottilissimo fascio la cui sezione varia tra 0.4 nm e 5 nm. Il fascio,

opportunamente deflesso da bobine di scansione, viene indirizzato sulla superficie

del campione.

L'interazione con gli atomi della superficie provoca lo scattering degli

elettroni del fascio, che comporta una modifica della loro traiettoria e, in alcuni

casi, perdita di energia. Distinguiamo,infatti, due tipi di scattering: elastico e

anelastico.

Lo scattering elastico si verifica quando l'elettrone interagisce con il

nucleo atomico: la sostanziale differenza di massa tra i due produce un

trasferimento di energia pressoché nullo.

Quello anelastico, invece, è accompagnato da perdita di energia

dell'elettrone incidente, trasferita agli elettroni dell'atomo coinvolto, con

conseguente eccitazione di essi.

Tali interazioni danno vita a differenti processi che costituiscono l'oggetto

di analisi:

elettroni secondari: quando l'energia trasferita in uno scattering

inelastico, tra elettrone primario e elettrone di valenza dell'atomo investito dal

fascio, è sufficiente, dalla superficie del campione vengono estratti ed emessi

elettroni con energia minore di 50 eV;

elettroni retrodiffusi: si tratta degli elettroni del fascio primario che

vengono scatterati all'indietro per interazione elastica con i nuclei degli atomi del

campione, mantenendo, pertanto, l'energia di partenza;

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raggi-x: essi vengono emessi quando un elettrone dopo aver

acquistato energia, in una collisione con il fascio primario, la rilascia ricadendo

nello stato iniziale.

Ognuno di questi tre processi fondamentali gioca un ruolo essenziale

nell'analisi del campione: gli elettroni secondari forniscono informazioni sulla

morfologia e la topologia del materiale analizzato, la retrodiffusione dipende

fortemente dal numero atomico e contiene, quindi, le informazioni sul numero

atomico medio e sulla struttura cristallina; i raggi-x rivelano la composizione

elementare del campione.

Tutte queste informazioni si ottengono raccogliendo i prodotti delle

interazioni tramite opportuni rivelatori che trasformano il segnale fornendo

l'immagine ingrandita dell'oggetto analizzato.

La risoluzione spaziale di un SEM, tipicamente di 2-5 nm, dipende dal

diametro del fascio, a sua volta determinato dal sistema ottico costituito da lenti e

bobine. Le dimensioni del fascio risultano generalmente maggiori della distanza

interatomica, pertanto il potere risolutivo del SEM non consente di ottenere

l'immagine dei singoli atomi, come è invece possibile tramite l'uso del TEM.

Microscopio a trasmissione elettronica. Il microscopio a trasmissione

elettronica è costituito da una struttura simile a quella del SEM per quanto

riguarda la pistola di elettroni e il sistema ottico, ma utilizza metodi diversi per

produrre e ingrandire le immagini da analizzare. Un'ulteriore differenza

fondamentale tra i due strumenti sta nel fatto che nel TEM gli elettroni del fascio

vengono accelerati verso il basso tramite l'applicazione di alti voltaggi e

raggiungono energie massime di 300 KeV, molto più elevate rispetto a quelle

tipiche del SEM.Poichè la lunghezza d'onda è legata all'energia E dalla

relazione di de Broglie

𝜆 =ℎ

2𝑚𝐸 (1.3.5)

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(dove h è la costante di Planck e m è la massa della particella) si ottiene,

accelerando gli elettroni, la riduzione della lunghezza della radiazione, che

permette di aumentare il potere risolutivo. Questo rende il TEM uno strumento

d'analisi molto più potente del SEM, capace di fornire informazioni sulla struttura

interna del campione analizzato.

Il fascio di elettroni prodotto come nel SEM e accelerato viene fatto

passare attraverso il dispositivo magneto-ottico e inviato sul materiale in esame, il

cui spessore deve essere opportunamente sottile da permettere ad alcuni elettroni

di attraversarlo. Tali elettroni sono in parte assorbiti dal campione, in parte deviati

irregolarmente, diffratti.

Fig. 23. Rappresentazione schematica di un apparato TEM.

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Dopo il campione è posta una sequenza di lenti - obiettivo, intermedia e

proiettore – che rispettivamente focalizzano il fascio uscente dall'oggetto, lo

allargano e lo proiettano su uno schermo fluorescente. Sia gli elettroni diffratti che

quelli trasmessi senza subire deviazioni passano attraverso le lenti e vanno a

formare sullo schermo l'immagine, contribuendo con diverso contrasto, ovvero

con intensità differenti che permettono di distinguere sullo schermo le diverse

parti dell'immagine. E` possibile intervenire selezionando per la formazione

dell'immagine solo il fascio diretto o solo quello diffratto. I due metodi di

visualizzazione sono rispettivamente detti bright field imaging mode, e dark field

imaging mode.

Attraverso i fenomeni di contrasto è dunque possibile analizzare gli spettri

di diffrazione e ottenere informazioni sulla struttura cristallina del campione,

visualizzando possibili difetti e imperfezioni del reticolo che causano la

diffrazione. L'analisi consente di ricavare anche la misura della distanza

interatomica, utilizzando la legge di Bragg

𝑛𝜆 = 2𝑑 sin 𝜃 (1.3.6)

dove:

n è l'ordine di diffrazione

è la lunghezza d'onda del fascio di elettroni

è l'angolo formato dal fascio incidente con il piano cristallino.

Si osserva sperimentalmente che l'angolo tra la direzione incidente e quella

diffratta è 2 .

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Approssimando per angoli piccoli (sin ) e considerando il primo

ordine di diffrazione (n=1) riesce

𝜆 = 2𝑑𝜃 (1.3.7)

Fig. 24. Rappresentazione della diffrazione del fascio incidente secondo la legge di Bragg.

Fig. 25. Diffrazione del fascio nella camera del TEM.

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𝑅

𝐿= tan 2𝜃 ≈ 2𝜃 (1.3.8)

Da cui

𝑑 =𝜆𝐿

𝑅 (1.3.9)

dove R è il raggio dell'anello di diffrazione e L la lunghezza della camera.

Il prodotto L è detto costante di camera dello strumento.

Microscopia SPM. La microscopia SPM (Scanning Probe Microscopy)

comprende sia i microscopi a effetto tunnel (STM), sia i microscopi a forza

atomica (AFM): entrambi fanno uso di una sonda molto sottile per la scansione di

una superficie 2D ed entrambi utilizzano un servomeccanismo per alzare o

abbassare la punta, in modo da mantenere costante la corrente di tunneling o le

forze tra punta e superficie, fornendo in tal modo una immagine topografica della

superficie scansionata. Entrambi i microscopi sono inoltre capaci di manipolare

singoli atomi o molecole, costituendo il punto di partenza per l’assemblaggio di

macchine o nanostrutture, atomo per atomo. Il principio di funzionamento di base

di questi strumenti è presentato in Fig. 25 (a) e (b).

Con un STM è possibile raggiungere la risoluzione atomica, come

mostrato in Fig.26, la quale mostra un rendering 3D di un SWNT, mediante il

quale è possibile la misura della chiralità del nanotubo. Il principio di

funzionamento di un STM si basa sul fenomeno del tunneling quantistico, che ha

luogo allorché la funzione d’onda di un atomo sulla superficie della punta di

scansione si sovrappone alla funzione d’onda di un atomo della superficie da

scansionare. Nel caso ideale queste funzioni d’onda decadono esponenzialmente

in funzione di distanze caratteristiche, dell’ordine del raggio di Bohr, intorno a 0,1

nm. Con una distanza di decadimento così piccola, un singolo atomo della punta

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può farsi carico di quasi tutta la corrente osservata sperimentalmente. Se la

funzione d’onda su quell’atomo rappresenta, ad esempio, un orbitale di legame

diretto, la risoluzione spaziale può risultare estremamente elevata, come a volte è

possibile osservare.

Le velocità massime di scansione e campionamento sono in gran parte

determinate dalle frequenze di risonanza della struttura di supporto, della punta e

dell’elemento piezoelettrico xyz sul quale quest’ultima è montata. Nei migliori

strumenti il limite superiore di tali frequenze è intorno a 1 MHz.

L’AFM è più complicato. La rilevazione della forza tra la punta e la

superficie avviene attraverso la misura della deflessione della levetta (cantilever)

sulla quale è montata la punta, per mezzo della deflessione di un fascio laser,

puntato sulla superficie superiore del cantilever, oppure attraverso le variazioni di

resistenza con la deflessione di un apposito cantilever di tipo piezoresistivo. I

primi strumenti rilevavano la deflessione del cantilever dalla variazione della

corrente di tunneling tra il sostegno della punta ed il sensore di deflessione a

(a) (b)

Fig. 26. (a) Schema di funzionamento di un microscopio STM; (b) Schema di principio di un AFM.

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molla. A “grandi distanze” la forza tra la punta e il campione è di tipo attrattivo

(regime di van der Waals), mentre per piccole distanze la forza diventa repulsiva.

Anche mediante l’AFM sono state riportate immagini con risoluzione atomica,

nonostante siano più difficili da ottenere che con l’STM [61]. In Fig 27 sono

riportate alcune immagini di CNT acquisite mediante AFM.

Fig. 27. Imaging di un SWNT mediante microscopia STM con ottenimento di risoluzione dei

singoli atomi.

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(a)

(b)

Fig. 28. (a) Immagine AFM di MWNT (area di scansione

741x741 nm); (b) bundle formato da due SWNT (area di scansione 2,8x2,8 µm).

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Spettroscopia Raman. La spettroscopia Raman è una tecnica

spettroscopica usata sopratutto in chimica per lo studio dei materiali. Dallo

spettro della luce diffusa da materiali illuminati da radiazione coerente e

monocromatica (tipicamente nel visibile) infatti, è possibile ottenere informazioni

sui moti vibrazionali (e rotazionali per i gas) delle molecole. Se una molecola

viene investita da luce proveniente da laser, gran parte dei fotoni è diffusa

elasticamente senza perdita di energia, cioè alla stessa frequenza della radiazione

incidente (diffusione elastica o Rayleigh); parte viene invece diffusa

anelasticamente cedendo (diffusione Raman Stokes) o acquisendo (diffusione

Raman anti-Stokes) energia nell'interazione con la molecola. L'intensità della luce

diffusa è tipicamente 10-3

-10-5

dell'intensità incidente per lo scattering elastico, 10-

7-10

-10 per lo scattering anelastico, e lo spettro risulta caratteristico delle molecole

investite dalla radiazione.

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Capitolo 2

Parte sperimentale

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Capitolo 2- Parte sperimentale

2.1-Materiali utilizzati

2.1.1-Resina epossidica

Le resine epossidiche costituiscono una classe di polimeri reticolati,

preparati tramite un processo di polimerizzazione in due stadi. Il primo stadio

porta all’ottenimento dei prepolimeri, o meglio dei pre-oligopolimeri, ed è basato

sulla reazione di polimerizzazione di un epossido alchilenico, contenente un

gruppo funzionale, con un nucleofilo bi o polifunzionale, attraverso il quale si

ottengono prepolimeri formati da due gruppi terminali epossidici. Nel secondo

stadio della preparazione i prepolimeri tetra funzionali (almeno) ottenuti vengono

curati (cured) con l’indurente opportuno.

La coppia di monomeri più utilizzata per la preparazione del prepolimero

epossidico è costituita da bisfenolo A (2-2'-bis 4-idrossifenil propano) ed

epicloridrina (Fig. 1).

Fig. 1. Sintesi del DGEBA a partire dalla reazione di policondensazione tra Bisfenolo A ed epicloridrina in presenza di una base (nel caso in figura, soda caustica).

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La formazione del prepolimero deriva da una reazione di

policondensazione dei due componenti suddetti. Il polimero ottenuto, detto

diglicidil-etere del bisfenolo A, presenta un certo numero di gruppi -OH- nella

catena principale insieme ad alcuni gruppi epossidici alle estremità (generalmente

due)(Fig. 2 ).

(a)

(b)

Al crescere del peso molecolare Mw, ossia della lunghezza della catena di

atomi di C (indicata dal valore di n), si osserva l’incremento di viscosità del

polimero, che passa dallo stato di liquido poco viscoso, fino a quello di solido

(anche se ancora fusibile, data la linearità della catena). Con l’aggiunta

dell’indurente, e la conseguente reazione di curing, si ha la reticolazione delle

catene lineari, catalizzata dall’eventuale aumento di temperatura, con il

raggiungimento dello stato di solido infusibile.

Il tipo di resina epossidica utilizzata nei nostri test è un prodotto

commerciale della Shell Chemicals, denominata Epon 828, le cui caratteristiche

sono riportate in Tab. 1:

Fig. 2. (a) Struttura del monomero del diglicidil-etere del bisfenolo A (DGEBA) e (b) gruppo epossidico presente alle estremità.

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Tabella 1. Caratteristiche chimico-fisiche della resina utilizzata.

Viscosità 100÷150 Pa s a 25°C

Equivalenti epossidici 182÷194

Peso specifico 1,16 g/cm3

La resina si presenta come un liquido a viscosità medio-bassa a

temperatura ambiente ed è induribile mediante reazione di curing con poliammine.

L’indurimento a temperature superiori ai 70°C dona alla resina finale le migliori

caratteristiche.

2.1.2-Indurente

Partendo da una comune TEPA (Tetra-Etilen Pentammina) è stato ottenuto

un prodotto modificato mediante reazione con formaldeide (CH2O):

+

TEPA

Formaldeide

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La reazione di modificazione risultante è del tipo “ad addizione”,

con inserimento di un gruppo alchilolico (-CH2OH) su uno degli atomi di azoto

della catena:

Questo tipo di prodotto è già stato sperimentato come indurente per resine

epossidiche del tipo DGEBA. Per la preparazione dell’indurente ad 1 mole di

TEPA ( 189 cm3) viene aggiunta lentamente (goccia a goccia) 1 mole di

formaldeide (in soluzione acquosa al 36%). Durante l’aggiunta, per evitare

reazioni di condensazione di due molecole di TEPA ad opera della formaldeide

aggiunta, la temperatura deve essere mantenuta al di sotto dei 50°C. Al termine

dell’aggiunta, la miscela di reazione viene gradualmente scaldata fino a 110°C e

mantenuta a tale temperatura per circa 3-4 h in modo da eliminare l’acqua

aggiunta con la formaldeide e far avvenire la completa addizione con formazione

della molecola poliammino-alchilolica. Per maggiore sicurezza, una volta

completata l’eliminazione dell’acqua, il prodotto viene portato per breve tempo a

150°C. La fase finale comporta il soggiorno della miscela a 110°C per 24 h.

La tabella seguente riporta le caratteristiche chimico-fisiche dell’A1:

Peso molecolare crioscopico 510

Peso specifico 1,02 g/cm3

Viscosità (a 25°C) 0,21 Pa*s

Num H attivi 12

Pot life 45 min

Phr (rispetto a Epon 828) 23

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2.1.3-Grafite

La grafite utilizzata è costituita da una polvere micrometrica con le

caratteristiche riportate nella tabella seguente:

Densità 2,24 g/cm3

Granulometria < 20 µm

Purezza 99,99 %

2.1.4-Nanotubi di carbonio

Per i test sono stati utilizzati sia CNTs sintetizzati in laboratorio sia

commerciali, questi ultimi acquistati da due diversi produttori e di differenti

tipologie. Le tabelle seguenti presentano una rassegna dei CNT utilizzati, divisi

sia per produttore che per caratteristiche, unitamente alle micrografie SEM e

TEM degli stessi (Fig.3,4,5):

MWNTs prodotti dalla Sigma-Aldrich

Densità 1,7÷2,1 g/cm3 a 25°C

Lunghezza 5÷9 µm

Diametro 110÷170 nm

Metodo di sintesi Chemical Vapour Deposition

Purezza 90 %

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SWNT prodotti dalla Sigma-Aldrich

Densità 1,7÷1,9 g/cm3 a 25°C

Lunghezza 0,5÷100 µm

Diametro 1÷2 nm

Metodo di sintesi Chemical Vapour Deposition

Composizione C amorfo ~ 3%, SWNT > 50%, altri

nanotubi ~ 40%

Area superficiale (BET) 400 m2 / g

Fig. 3. Micrografia TEM dei nanotubi multi parete prodotti dalla Sigma-Aldrich.

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SWNT prodotti dalla Heji

Densità apparente 0,3 g/ cm3 a 25°C

Lunghezza 10÷20 µm

Diametro 1÷2 nm

Metodo di sintesi CVD

Composizione Purezza > 95% con SWNTs > 90%

Area superficiale (BET) 400 m2 / g

Modulo di Young ~ 1000 GPa

Resistenza a trazione ~ 150 GPa

Fig. 4. Micrografia TEM dei nanotubi a parete singola prodotti dalla

Sigma-Aldrich.

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MWNTs prodotti dalla Heji

Densità reale 2,1 g/cm3

Densità apparente Tipo 1 0,07 g/cm3

Densità apparente Tipo 2 0,05 g/cm3

Lunghezza 0,5÷200 µm

Diametro Tipo 1 8÷15 nm

Diametro Tipo 2 20÷40 nm

Metodo di sintesi CVD

Composizione Contenuto di MWNTs > 95%

Area superficiale (BET) 40÷600 m2 / g

Modulo di Young ~ 1200 GPa

Fig. 5. Micrografia TEM dei nanotubi a parete singola prodotti dalla Heji.

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Resistenza a trazione ~ 150 GPa

Entrambi i tipi di MWNTs prodotti dalla Heji, sono stati utilizzati anche

nella versione “funzionalizzata”, contenente rispettivamente gruppi funzionali OH

o COOH (~ 5% in peso).

Sono stati infine utilizzati nanotubi sintetizzati nei Laboratori Nazionali di

Frascati, dei quali si parlerà nel prossimo paragrafo.

2.2-Sintesi dei nanotubi di carbonio

2.2.1-Scarica ad arco di plasma

Il metodo da noi seguito è basato sull’innesco di un arco elettrico in

presenza di un gas inerte: è quindi opportuno fare un breve cenno ai plasma.

Fig. 6. Micrografia TEM dei nanotubi a pareti multiple prodotti dalla Heji.

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Plasma. Nella metà del diciannovesimo secolo, il fisiologo Ceco Jan

Evangelista Purkinje introdusse per primo la parola greca “plasma” (che significa

“forma” o “stampo”), per indicare il fluido chiaro, rimanente dopo la rimozione di

tutti i corpuscoli materiali dal sangue. Mezzo secolo dopo, lo scienziato

americano Irving Langmuir avanzò l’ipotesi che gli elettroni, gli ioni e gli atomi

neutri in un gas ionizzato, potessero allo stesso modo, essere considerati come i

corpuscoli materiali intrappolati in un qualche mezzo fluido, e chiamò questo

mezzo fluido “plasma”. Secondo la definizione odierna, un plasma è un sistema

quasi-neutro costituito da un gran numero di particelle cariche, esibenti un

comportamento comune: esso è ordinariamente indicato come il quarto stato di

aggregazione della materia, essendo gli altri tre costituiti rispettivamente dallo

stato solido, liquido e gassoso. I campi elettrici e magnetici agiscono sul plasma

proprio tramite le particelle cariche e la relativa densità dei portatori è valutata

attraverso un parametro, noto come grado di ionizzazione, definito dalla relazione

𝛼 =𝑛𝑒

𝑛𝑔+𝑛𝑒=

𝑛+

𝑛𝑔+𝑛+ (2.1)

dove ne, n+, ng, rappresentano rispettivamente il numero di elettroni, di

ioni a carica unitaria positiva e di atomi neutri. Normalmente se α < 10-4

si parla

di plasma debolmente ionizzato ed è proprio l’elevato o il basso grado di

ionizzazione a dare al gas presente il comportamento rispettivamente di

conduttore o isolante.

Il metodo di sintesi della scarica ad arco si basa essenzialmente sul

trasferimento di energia dal gas ionizzato, costituito da una miscela di vapori di

carbonio ed elio gassoso, agli elettrodi. La sublimazione cui si assiste è la

conseguenza di questo trasferimento di energia dall’arco all’anodo, costituito da

un elettrodo di grafite. Poiché il grado di erosione dell’anodo dipende da

parametri diversi, come la potenza dell’arco e dalle altre condizioni sperimentali,

è bene sottolineare che un’elevata erosione anodica non comporta

necessariamente un’alta produzione di nanotubi [47].

L’apparecchiatura per la sintesi con scarica ad arco consiste

essenzialmente di una camera cilindrica di acciaio inossidabile, ad asse verticale o

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orizzontale. All’esterno della camera sono presenti diverse espansioni con tenuta

ad alto vuoto (fatte di gaskets in rame) con varie funzioni, quali: l’innesto delle

valvole per l’ingresso dell’elio nella camera e il raccordo con la pompa da vuoto,

l’inserimento di manometri analogici e pressure gauges; è inoltre presente una

finestra di quarzo per l’ispezione dall’esterno. Il controllo del processo avviene

tramite un manipolatore lineare, che permette lo spostamento di uno degli

elettrodi durante la sintesi in modo da mantenerne costante la distanza al

procedere dell’erosione dell’anodo.

In fase di sperimentazione è stata utilizzata una camera di sintesi con

elettrodi di grafite puri al 99,997% di forma cilindrica, con diametro di circa 6

mm per il catodo e 10 mm per l’anodo e lunghezza di 150 mm, disposti in

posizione orizzontale (Fig. 7 ). Ai fini dell’ottenimento del cosiddetto plasma

caldo si rende necessario l’utilizzo di un gas inerte: in tal caso è stato utilizzato

l’elio. Prima dell’innesco dell’arco è inoltre opportuno creare un determinato

livello di vuoto entro la camera, con il fine di ridurre al minimo il rischio di

combustione e ossidazione degli elettrodi di grafite.

Fig. 7. Gli elettrodi di grafite utilizzati nella camera al plasma.

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La tabella seguente riporta i parametri di sintesi utilizzati:

Pressione vuoto ~10-4

mbar

Pressione He 700 mbar

Voltaggio 22-24 V

Corrente 110 A

Durata arco ~3' 30''

La camera utilizzata per la sintesi (schema e foto in Figg. 9 e 10) è

costituita da una struttura cilindrica in acciaio inossidabile del diametro di circa 25

cm e lunga 40 cm. La camera presenta sei raccordi con le seguenti funzioni:

2 raccordi per l’alloggiamento degli elettrodi;

1 raccordo a T per l’ingresso dell’He e l’inserimento del pressure

gauge;

1 raccordo per il collegamento della pompa da vuoto;

1 raccordo per il manipolatore lineare esterno del sostegno

catodico;

1 finestra di quarzo per l’ispezione interna.

All’interno della camera sono presenti due porta-elettrodi in ottone,

calettati su passanti in rame per l’adduzione di corrente. L’elettrodo di grafite

costituente il catodo è solidale con il manipolatore esterno e può essere traslato

durante la sintesi, in modo da mantenere costante il gap tra gli elettrodi e

stabilizzare i parametri di processo durante l’avanzamento della scarica. Sulla

superficie esterna si trovano infine saldate le tubature in rame per il

raffreddamento della camera, mediante H2O corrente. Le tenute da vuoto sono

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costituite da due O-rings in Viton per le piastre basali e da gasket in rame per le

restanti flange e raccordi.

La tipica procedura di sintesi si compone delle seguenti operazioni:

1. Creazione del grado di vuoto desiderato entro la camera mediante

pompa bi stadio;

2. Pulizia del condotto di adduzione dell’He, per eliminare l’aria

rimasta eventualmente intrappolata;

3. Riempimento della camera con He fino alla pressione desiderata;

4. Innesco dell’arco mediante generatore esterno in c.c. e regolazione

della distanza tra gli elettrodi, in modo da stabilizzare i parametri;

5. La sintesi (Fig. 11) procede per 3-4 min durante i quali è opportuno

provvedere ad un adeguato raffreddamento delle pareti della

camera;

Al termine della sintesi, dopo aver atteso il tempo necessario al

raffreddamento della camera, si provvede ad aprirla e ad estrarre il catodo. Sulla

superficie di quest’ultimo (Fig. 8 ), si possono individuare due zone chiaramente

distinguibili:

Una zona periferica di colore grigiastro con riflessi metallici,

costituita principalmente da carbonio amorfo e grafite;

La zona più interna, costituita da un vero e proprio “tappeto” di

nanotubi di carbonio di elevata purezza (~85%) disposti secondo

dei cluster di forma approssimativamente circolare.

Dopo aver estratto il catodo i nanotubi, questi devono essere “grattati” via

dalla superficie mediante un taglierino di precisione. Una volta ottenuto il

prodotto di sintesi si procede alla pesata mediante bilancia analitica. Il peso del

prodotto ottenuto da una singola scarica varia tra 1 e 3 mg (misure effettuate

mediante bilance analitiche Mettler Toledo AB54-S e AE240 Dual Range).

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Fig. 8. Il deposito catodico, così come appare dopo l’estrazione dalla camera di sintesi.

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114

Fig. 9. La camera a scarica ad arco utilizzata per la sintesi dei nanotubi di carbonio

nei laboratori dell’INFN.

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Fig. 10. Schema della camera di sintesi utilizzata all’INFN di Frascati in differenti prospetti.

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(a)

(b)

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117

(c)

(d)

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118

2.3-Realizzazione dei provini

Ai fini dell’ottenimento di provini adatti alle prove meccaniche e

compatibilmente con la disponibilità di materiale (nanotubi, resina epossidica e

indurente) sono stati preparati provini di forme diverse per i test di trazione e

resilienza, realizzati medianti due tipi differenti di stampi in ottone (Fig. 12).

(e)

Fig. 11. Diverse fasi della sintesi dei CNT con il metodo della scarica ad arco: (a)

Allineamento degli elettrodi prima della fase di innesco; (b), (c) due momenti dell’innesco dell’arco

riprese rispettivamente senza e con l’utilizzo di un filtro; (e) la fase immediatamente successiva allo

spegnimento dell’arco, nella quale si nota la luminescenza residua della durata di qualche secondo; (e)

gli elettrodi come appaiono dopo la conclusione della sintesi: si noti la presenza del deposito scuro sulla

superficie del catodo (elettrodo di sinistra).

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(a)

(b)

Fig. 12. (a) Forma e (b) stampo utilizzato per la sintesi dei provini di forma parallelepipeda

a sezione costante per i test di impatto.

Fig. 13. Stampo utilizzato per la realizzazione dei provini di

forma Dog-bone, secondo la norma ASTM D638.

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120

Per entrambi i tipi di provini si è adottata una procedura di

preparazione diversa per i campioni prodotti con e senza l’aggiunta della seconda

fase (nanotubi o grafite micrometrica); le procedure utilizzate sono costituite dalle

seguenti fasi (Fig. 14):

1. Degasaggio della sola resina (Epon 828) sotto vuoto a circa 1-3 mbar per 12-

14 h, per eliminare l’aria intrappolata all’interno;

2. Dopo breve riscaldamento della resina (5-10 min a 80°C), lenta miscelazione

della stessa con 20% in peso di indurente (A1), cercando di prevenire la

formazione di bolle d’aria;

- Nel caso si preveda l’aggiunta della seconda fase, quest’ultima deve essere

dispersa per evitare la formazione di agglomerati; a tal fine la fase 2 è

preceduta dalla dispersione dei nanotubi (o della grafite) in alcol

isopropilico con successiva immersione in bagno ad ultrasuoni per circa 1h

30';

- Segue la miscelazione del propanolo, contenente i nanotubi dispersi, con la

resina epossidica (precedentemente riscaldata per diminuirne la viscosità)

e successiva evaporazione dell’alcol in forno a 140-150°C per 2h, per

evitare che parte del solvente rimanga intrappolato nel composito finale in

forma di bolle;

- E’ necessario ricorrere nuovamente all’utilizzo del bagno ad ultrasuoni per

circa 1h 30', con il fine di disperdere omogeneamente i nanotubi nella

matrice epossidica;

3. Una volta miscelata la resina (eventualmente contenente la seconda fase) e

l’indurente nelle opportune proporzioni, si procede al colaggio della miscela

ottenuta negli stampi tenendo conto della continua diminuzione di lavorabilità

dovuta alla ridotta pot life della miscela;

4. La procedura di curing prevede, dopo il colaggio, che i provini vadano tenuti

circa 20' in aria e poi 1 h a 40°C per rimuovere le eventuali inclusioni

aeriformi presenti in superficie;

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121

5. La cura continua con circa 20÷24 h in aria, seguite da ulteriori 6 h a 80°C..

(a)

(b)

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122

(c)

(d)

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123

Lo stampo utilizzato per il colaggio deve inoltre essere accuratamente

pulito e sgrassato prima della suddetta fase; per facilitare la rimozione dei provini

dallo stampo è stato utilizzato un distaccante della Henkel (Frekote HMT-2) a

base non acquosa.

La seguente tabella riporta un elenco delle differenti miscele utilizzate, con

le relative percentuali di nanotubi o grafite incluse:

(e)

Fig. 14. Diverse fasi della preparazione dei provini per test di trazione: (a) Degasaggio

delle resine epossidiche in camera da vuoto; (b) operazione di pesata dopo dispersione dei nanotubi

in propanolo mediante bagno ad ultrasuoni; (c) miscelazione della resina contenente i nanotubi (dopo

evaporazione del solvente) con l’indurente; (d) colaggio nello stampo; (e) estrazione del provino

finito.

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124

Seconda fase\

Percentuale1

0,1% 0,5% 1%

Grafite × × ×

MWNT

Aldrich

× × ×

SWNT

Aldrich

× × ×

CNTs Lab.2 ×

MWNT

HEJI

× × ×

MWNT

HEJI funz.

× × ×

SWNT HEJI × × ×

1 Percentuale in peso di seconda fase, valutata in rapporto al peso di resina utilizzata

secondo le proporzioni Resina:20 % indurente:% rinforzo.

2 Nanotubi sintetizzati con scarica ad arco, nei laboratori dell’INFN.

2.3.1-Preparazione dei provini per test di trazione

Dopo aver estratto i provini dagli stampi, avendo cura di evitare tensioni

residue che potrebbero falsare le prove, si è proceduto alla lavorazione

superficiale mediante carte abrasive con mesh variabili tra 150, per le espansioni

alle estemità, e 600-800 per il tratto utile sul quale vanno applicate le strain gages.

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125

Una volta finiti superficialmente i provini, sono state applicate delle strain

gages elettriche di due tipi diversi, prodotte dalla Vishay, con resistenze nominali

rispettivamente di 120 e 350 Ω. Infine si è passati al cablaggio, saldando due fili

di rame argentato, come mostrato in Fig. 15, in cui sono inoltre riportati i diversi

stadi dell’intera procedura.

(a)

(b)

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126

(c)

(d)

Fig. 15. (a), (b), (c), (d): le diverse fasi dell’applicazione delle strain gages

ai provini, fino alla saldatura dei filini di rame argentato con l’ottenimento

del campione pronto per la fase di testing.

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127

2.3.2-Preparazione dei provini per test di resilienza

Anche in questo caso dopo l’estrazione dallo stampo, dal quale vengono

ricavati due provini, si procede con la lavorazione con carta abrasiva fino a 400

mesh. Terminata questa fase si deve procedere alla creazione dell’intaglio a V,

della profondità di 2 mm, necessario per l’esecuzione della prova Charpy: un

esempio di provino finito è mostrato in Fig. 17.

Fig. 17. Provino per prova di resilienza Charpy pronto per essere testato.

Fig. 16. I due diversi tipi di strain gages utilizzate, in

confronto diretto con le dimensioni di una monetina da 5

Euro cent.

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128

Sezione 2.4-Risultati e discussione

2.4.1-Caratterizzazione dei nanotubi

Come detto nel capitolo 1.3, per la caratterizzazione dei CNT sintetizzati

nei Laboratori Nazionali di Frascati sono state utilizzate tecniche di microscopia

elettronica e tecniche spettroscopiche.

Microscopia SEM. Le analisi al microscopio elettronico a scansione sono

state effettuate utilizzando un microscopio (modello ISI ABT-DS 130S, Fig. 1) ad

emissione termoionica con filamento di tungsteno, lavorando ad un potenziale

accelerante di 20 kV.

Una volta rimosso il catodo dalla camera di sintesi, è stata tagliata la parte

terminale contenente il deposito ed incollata su uno stub di Al, mediante un nastro

biadesivo conduttore. Le immagini seguenti costituiscono alcune delle

Fig. 1. Il microscopio a scansione elettronica utilizzato per la caratterizzazione morfologica dei CNT prodotti.

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129

micrografie acquisite sui campioni sintetizzati in laboratorio mediante la tecnica

della scarica ad arco (le prime due immagini sono state acquisite in campo ottico):

(a)

(b)

Fig. 2. (a) Immagine al microscopio ottico (circa 20x) del deposito

catodico, come appare una volta estratto l’elettrodo al termine della

sintesi; (b) particolare della parte centrale del deposito, sul quale

risultano visibili delle "isole” costituite da grovigli di CNT.

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130

(a)

(b)

Fig. 3. (a) Micrografia SEM del bordo esterno sulla

superficie del catodo, in cui è possibile notare la differente

morfologia tra la zona periferica, formata da carbonio

amorfo (di colore argenteo in campo ottico), e la zona più

interna, costituita da un vero “tappeto” di CNT (53x); (b)

Particolare a 310 ingrandimenti della zona interna, in cui

risulta evidenziata l’organizzazione in “isole” dei CNT.

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131

(b)

Fig. 4. (a) Dettaglio a 5000x di una delle “isole”, in cui sono

chiaramente distinguibili i singoli tubi, formanti un network

intricato. (b) Immagine a 15000x in cui si possono notare le

particelle di carbonio amorfo presenti soprattutto nei punti

in cui si intersecano CNT diversi.

(a)

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132

Dalle micrografie delle pagine precedenti (Figg. 2, 3, 4) è possibile notare

i differenti aspetti topografici presentati dalla superficie del catodo, al variare

della zona osservata. Nel campo ottico la parte esterna, costituita da carbonio

amorfo, appare di colore argenteo mentre, andando verso la zona centrale, si nota

dapprima una regione con una aspetto “vellutato” e poi, nell’area centrale, un’area

“ad isolotti”, visibile con maggior dettaglio al SEM. L’analisi al SEM (Figg. 3,4)

permette di apprezzare ancora meglio l’organizzazione dei CNT nelle diverse aree

e dettagli come la lunghezza ed il diametro medio, per i quali sono stati trovati

rispettivamente valori di poche decine di µm e di 20-60 nm. Ad ingrandimenti

medio-alti è possibile apprezzare il grado di purezza dei CNT di sintesi, che

presentano impurezze costituite soprattutto da carbonio amorfo concentrato in

particolare nelle aree d’intersezione di più CNT. Dalle micrografie è possibile

estrapolare un grado di purezza superiore all’80% in CNT.

Microscopia TEM. Le analisi mediante microscopia elettronica in

trasmissione sono state effettuate presso il Centro Interdipartimentale Grandi

Strumenti di Modena, utilizzando un microscopio JEOL JEM 2010 (Fig. 5)

equipaggiato con un sistema per la microanalisi Link Inka 100, attraverso il quale

è possibile ottenere uno spettro relativo agli elementi presenti nella zona in

osservazione.

Fig. 5. Il TEM

Jeol JEM 2010

utilizzato per

l’analisi in

trasmissione dei

CNT di sintesi.

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133

I campioni sono stati preparati disperdendo i CNT di sintesi in alcool

isopropilico e sonicando il tutto per qualche minuto. Una goccia della sospensione

è stata poi depositata su di una griglia di Cu con 400 mesh e si è proceduto

all’evaporazione del propanolo. Le immagini seguenti sono state acquisite sotto

un potenziale di accelerazione di 200 keV.

(a)

(b)

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134

(c)

Fig. 5. (a) Immagine TEM in cui è possibile notare la

distribuzione dei diametri dei nanotubi multi parete in

presenza di particelle di carbonio amorfo legate alle pareti

esterne. (b) Singolo nanotubo multi parete con diametro

esterno di circa 20 nm e interno di circa 10 nm. Da queste

immagini è possibile sincerarsi dell’effettiva presenza del

canale interno, il quale distingue i nanotubi dalle nanofibre.

(c) Micrografia TEM della parte terminale di un CNT che, a

causa della presenza di difetti topologici, non presenta la

punta arrotondata, caratteristica dell’emifullerene.

Fig. 6. Spettro X-EDS

su un campione di CNT

di sintesi. I picchi

mostranti la presenza

di rame sono relativi

alla griglia utilizzata

per l’analisi al TEM. Le

impurezze di silice

provengono invece

dall’anodo di grafite

utilizzato per la

sintesi.

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135

Dalle immagini precedenti è possibile verificare l’effettiva presenza di

nanotubi di carbonio, segnalata dall’esistenza del canale centrale che li differenzia

dalle nanofibre. La Fig. 5 (c) mette in luce la presenza di una punta “aguzza”

all’estremità di un CNT, effetto della presenza di difetti topologici nella parte

terminale che ne fanno discostare la morfologia da quella ideale, costituita da una

semisfera di Fullerene. La Fig. 6 mostra invece lo spettro ai raggi X a dispersione

di energia, ottenuto tramite i microanalizzatore Link Inca 100, nel quale, oltre ai

picchi relativi al Cu dovuti alla griglia utilizzata per l’analisi, si notano i picchi

relativi al silicio e all’ossigeno, presenti come impurezze negli elettrodi utilizzati

come sorgenti di C per la sintesi dei CNT.

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136

2.4.2-Prove di trazione

Per le prove meccaniche di trazione è stata utilizzata una macchina Lloyd,

modello T20000 con cella di carico da 5 kN (FIg. 1). I dati relativi al carico

applicato sono stati rilevati utilizzando una centralina estensimetrica esterna della

HBM, modello Spider 8, dotata di 8 canali, interfacciata con la macchina

attraverso l’uscita del plotter. Gli estensimetri, come detto nel precedente capitolo,

sono prodotti dalla Vishay, ed hanno resistenze nominali di 120 e 350 Ω, relative

rispettivamente ai modelli EA-06-031DE-120 e EA-13-062AQ-350.

Per la compensazione termica si è scelto di utilizzare un altro campione,

realizzato con la stessa formulazione epossidica di prova, ma non soggetto a sforzi

di alcun tipo, realizzando in tal modo la configurazione detta ad “un quarto di

ponte” (Fig. 2), in cui l’elemento attivo (il provino soggetto al carico di trazione e

alla conseguente deformazione) occupa soltanto un ramo del ponte di Wheatstone.

Fig. 2. Macchina utilizzata per la valutazione del

carico di rottura e del modulo elastico dei

nanocompositi.

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137

La cella di carico è stata tarata, utilizzando la centralina estensimetrica, ottenendo

una sensibilità di 2mV/N. Per la valutazione della deformazione percentuale si è

utilizzata la relazione relativa al quarto di ponte, ossia:

𝑉0 ≈ 𝐸𝐾𝜀

4 (2.2)

in cui

V0 è la tensione misurata ai capi del ponte;

ε è la deformazione che intendiamo misurare;

E è la tensione di alimentazione del ponte;

K è il fattore di ponte, variabile nel nostro caso tra 2,01 e 2,145.

I dati relativi al carico ed alla deformazione vengono quindi acquisiti, sulla

stessa base dei tempi, dalla centralina e mostrati in output sotto forma di mV per il

carico e di mV/V per la deformazione, ottenendo direttamente la curva di carico

relativa al campione testato.

Con lo stesso tipo di prova è stato possibile ottenere sia il carico di rottura

che il modulo di Young dei campioni testati. Le prove sono state eseguite, in

accordo alla norma ASTM D 638 Tipo V, utilizzando una velocità di

allontanamento dalle traverse di 1 mm/min. Ai fini della determinazione dello

sforzo dai dati relativi al carico applicato è stata effettuata la misura di tre sezioni

per ogni provino lungo il tratto utile, sul quale sono state applicate le strain gages.

Fig. 3. Ponte di wheatstone nella configurazione ad un quarto di ponte utilizzata nelle prove di trazione.

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138

In accordo alla norma suddetta, lo sforzo a rottura è stato valutato sulla

base della sezione minima, tra le tre precedentemente misurate. Per ogni tipo di

CNT, con esclusione quelli di sintesi (per il quali è stato possibile realizzare

soltanto la formulazione contenente lo 0,1% in peso) sono stati prodotti provini

contenenti rispettivamente lo 0,1%, 0,5% e 1% in peso di nanotubi, percentuali

relative al peso di resina epossidica utilizzata. Per ogni specifica formulazione

sono state eseguite almeno tre prove su altrettanti provini identici ed è stata

valutata la semidispersione λ dei risultati ottenuti, ricavata mediante la relazione:

𝜆 =𝑋𝑀𝑎𝑥 −𝑋𝑚𝑖𝑛

2 (2.3)

nella quale:

λ rappresenta la semidispersione;

XMax la misura più elevata ottenuta;

Xmin la misura minore.

Analogamente è stata valutata la deviazione standard, anche se meno

significativa rispetto alla semidispersione, dato il ridotto numero delle misure.

Grazie a queste prove è stato possibile valutare l’influenza sullo sforzo a

rottura e sul modulo di Young di diversi parametri, quali:

Il diametro medio dei tubi e la conseguente estensione

dell’interfaccia con la resina;

L’effetto della funzionalizzazione superficiale dei CNT e la

conseguente adesione all’interfaccia CNT-matrice;

La diversa polarità dei gruppi funzionali utilizzati.

Nella Fig. 4 della pagina seguente sono riportate alcuni immagini relative

ai diversi stadi della prova di trazione.

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139

La tabella alla pagina seguente riporta i risultati delle prove effettuate, inerenti la

determinazione del carico di rottura. La grafite è stata utilizzata come controllo.

(a) (b)

(c)

Fig. 4. Provino “dog-bone” tra le ganasce della pressa, prima (a) e

dopo la rottura (b); (c) particolare della zona di rottura.

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140

1: Formulazione epossidica non caricata, che ha subito lo stesso trattamento di diluizione

con propanolo e conseguente evaporazione in forno, per migliorare la confrontabilità dei risultati.

2: Nanotubi prodotti nei laboratori dell’INFN mediante scarica ad arco.

Nella pagina successiva è riportata un’analoga tabella, relativa alla

determinazione del modulo di Young.

Composizione Sigma medio

(MPa)

Dev st

Sigma

Semid

Sigma

N° provini

σ

Epon 828 con alcool1 56.65 10.21 12.46 5

Epon 828 74.91 0.72 0.51 2

MWNT Aldr 0,1% 60.22 5.59 5.48 3

MWNT Aldr 0,5% 61.22 19.49 17.60 3

MWNT Aldr 1% 66.26 11.76 11.73 3

SWNT Aldr 0,1% 56.08 10.68 12.16 4

SWNT Aldr 0,5% 59.37 7.23 6.96 3

SWNT Aldr 1% 64.34 2.98 2.98 3

MWNT Heji 0,1% 54.02 2.35 2.35 3

MWNT Heji 0,5% 49.00 3.65 3.65 3

MWNT Heji 1% 63.45 4.73 4.42 3

MWNT Heji -OH-

0,1% 62.76 1.42 1.42 3

MWNT Heji OH

0,5% 69.13 4.86 3.44 2

MWNT Heji OH 1% 62.30 3.52 3.28 3

MWNT Heji -

COOH- 0,1% 59.09 8.27 9.43 4

MWNT COOH 0,5% 58.64 13.05 14.93 4

MWNT COOH 1% 67.06 3.25 3.22 3

Grafite 0,1% 57.96 7.04 4.98 2

Grafite 0,5% 67.40 2.87 2.03 2

Grafite 1% 65.99 2.57 2.56 3

CNT 0,1%2 76.35 6.23 7.23 4

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141

1: Per i CNT prodotti in laboratorio è stato possibile effettuare soltanto un test per la

determinazione del modulo elastico

Nelle pagine seguenti sono invece riportate le variazioni % di sforzo a

rottura e modulo elastico rispetto alla matrice non caricata.

Composizione E medio (GPa) Dev st E Semid E N° prov E

Epon 828 con alcool 2.45 0.49 0.56 4

Epon 828 2.81 0.27 0.26 2

MWNT Aldr 0,1% 2.62 0.04 0.04 3

MWNT Aldr 0,5% 2.78 0.18 0.16 3

MWNT Aldr 1% 2.72 0.10 0.10 3

SWNT Aldr 0,1% 2.87 0.25 0.18 2

SWNT Aldr 0,5% 2.73 0.16 0.16 3

SWNT Aldr 1% 2.81 0.21 0.21 3

MWNT Heji 0,1% 2.48 0.07 0.06 3

MWNT Heji 0,5% 2.83 0.51 0.50 3

MWNT Heji 1% 2.91 0.19 0.19 3

MWNT Heji -OH-

0,1% 2.81 0.21 0.21 3

MWNT Heji OH

0,5% 2.58 0.17 0.12 2

MWNT Heji OH 1% 2.56 0.20 0.19 3

MWNT Heji -

COOH- 0,1% 2.84 0.17 0.17 4

MWNT COOH 0,5% 2.55 0.26 0.27 4

MWNT COOH 1% 2.83 0.11 0.10 3

Grafite 0,1% 2.57 0.21 0.15 2

Grafite 0,5% 2.57 0.16 0.12 2

Grafite 1% 2.47 0.04 0.04 3

CNT 0,1%1 3.00 - - 1

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144

Dagli istogrammi delle pagine precedenti si può notare che, mentre tutte le

formulazioni caricate presentano un incremento del modulo di Young, la stessa

cosa non può dirsi per quanto riguarda lo sforzo a rottura: in quest’ultimo caso,

alcune miscele mostrano un miglioramento, altre (tre) addirittura un

peggioramento di questo parametro. Ai fini di una maggiore chiarezza nella

visualizzazione dei risultati ottenuti, le pagine seguenti riportano un confronto

diretto, riportato sotto forma di istogrammi, tra i diversi tipi di filler a parità di %

in peso. I primi tre istogrammi riguardano lo sforzo a rottura, mentre gli ultimi tre

si riferiscono al modulo elastico.

56.65 60.22 56.08 54.0262.76 59.09 57.96

76.35

0

10

20

30

40

50

60

70

80

Epon 828

con

alcool

MWNT

Aldr

0,1%

SWNT

Aldr

0,1%

MWNT

Heji

0,1%

MWNT

Heji OH

0,1%

MWNT

Heji

COOH

0,1%

Grafite

0,1%

CNT

0,1%

Sfr

ozo

(MPa

)

Tipo di filler

Sigma a rottura con lo 0,1% in peso di filler

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145

56.6 61.2 59.449.0

69.158.6

67.4

0

10

20

30

40

50

60

70

Epon 828

con alcool

MWNT

Aldr 0,5%

SWNT Aldr

0,5%

MWNT

Heji 0,5%

MWNT

Heji OH

0,5%

MWNT

COOH

0,5%

Grafite

0,5%

Sfr

ozo

(MPa

)

Tipo di filler

Sigma a rottura con lo 0,5% in peso di filler

56.666.3 64.3 63.4 62.3 67.1 66.0

0

10

20

30

40

50

60

70

Epon 828

con alcool

MWNT

Aldr 1%

SWNT

Aldr 1%

MWNT

Heji 1%

MWNT

Heji OH

1%

MWNT

COOH 1%

Grafite

1%

Sfr

ozo

(MPa

)

Tipo di filler

σR con l'1% in peso di filler

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146

2.452.62

2.87

2.482.81 2.84

2.57

3.00

2.0

2.2

2.4

2.6

2.8

3.0

3.2

Epon

828 con

alcool

MWNT

Aldr

0,1%

SWNT

Aldr

0,1%

MWNT

Heji

0,1%

MWNT

Heji OH

0,1%

MWNT

Heji

COOH

0,1%

Grafite

0,1%

CNT

0,1%

E (Gpa

)

Tipo di filler

Modulo di Young con lo 0,1% wt di filler

2.45

2.78 2.732.83

2.58 2.55 2.57

2.2

2.3

2.4

2.5

2.6

2.7

2.8

2.9

Epon 828

con alcool

MWNT

Aldr 0,5%

SWNT

Aldr 0,5%

MWNT

Heji 0,5%

MWNT

Heji OH

0,5%

MWNT

COOH

0,5%

Grafite

0,5%

E (Gpa

)

Tipo di filler

Modulo di Young con lo 0,5% wt di filler

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147

Dagli istogrammi riportati si evincono andamenti contrastanti per le

diverse formulazioni caricate. In particolare, per quanto riguarda lo sforzo a

rottura, si rilevano incrementi significativi per le seguenti miscele:

MWNT della Aldrich all’1% in peso, ossia i CNT con il maggior

diametro in assoluto tra quelli presi in analisi, per i quali

l’incremento rilevato rispetto alla sola matrice è del 16,97%, con

un valore medio di 66,3 MPa;

SWNT della Aldrich all’1% in peso, con i minori diametri in

assoluto tra i CNT analizzati, mostranti un incremento del 13,57%

rispetto alla resina di partenza, con un valore medio del σR pari a

64,3 MPa;

2.45

2.722.81

2.91

2.56

2.83

2.47

2.2

2.3

2.4

2.5

2.6

2.7

2.8

2.9

3.0

Epon 828

con alcool

MWNT

Aldr 1%

SWNT Aldr

1%

MWNT

Heji 1%

MWNT

Heji OH

1%

MWNT

COOH 1%

Grafite 1%

E (Gpa

)

Tipo di filler

Modulo di Young con l'1% wt di filler

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148

MWNT della Heji (allo 0,5% in peso),funzionalizzati con gruppi

ossidrilici, per i quali si riscontra un aumento del 22,04% rispetto

alla matrice non caricata, con un valore dello sforzo a rottura medio

pari a 69,1 MPa;

MWNT prodotti dalla Heji (all’1% in peso),funzionalizzati con

gruppi carbossilici, con un valore dell’incremento del 18,38% ed

un valore assoluto di 67,1 MPa;

CNT sintetizzati nei laboratori dell’INFN di Frascati per i quali a

fronte della esigua frazione ponderale dello 0,1% in peso, si è

rilevato un incremento di ben il 34,77% sulla resina di partenza,

con un valore medio di 76,35 MPa;

c’è da segnalare anche il comportamento della polvere

micrometrica di grafite nelle percentuali in peso dello 0,5 e dell’1

%, per la quale si rilevano incrementi rispettivamente del 18,97% e

del 16,9%, relativi ai valori registrati di 67,4 MPa e 66 MPa.

Una significativa riduzione dello sforzo a rottura si rileva invece, per la

formulazione contenente lo 0,5% di MWNT della Heji, per la quale il decremento

percentuale relativo alla resina non caricata è pari al 13,51%, con un valore medio

dello sforzo a rottura di soli 49 MPa.

Diverso è invece l’effetto apportato sul modulo di Young, per il quale tutti

i filler utilizzati riportano aumenti, più o meno lievi. Gli incrementi maggiori si

rilevano in tal caso per le miscele seguenti:

SWNT della Aldrich allo 0,1% e 1% in peso, con aumento del

modulo elastico rispetto alla matrice “sola”, rispettivamente del

17,12% e del 14,72%, con valori medi pari a 2,87 GPa e 2,81 GPa;

MWNT della Heji non funzionalizzati, con frazioni ponderali dello

0,5% e 1%, per i quali gli incrementi relativi sono rispettivamente

del 15,44% e del 18,73%, con valori assoluti pari a 2,83 e 2,91

GPa;

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149

MWNT Heji funzionalizzati con COOH, introdotti nella matrice

allo 0,1% in peso, determinanti un aumento del modulo del

14,88%, con valore medio pari a 2,81 GPa;

MWNT Heji funzionalizzati con gruppi carbossilici, nelle

percentuali in peso dello 0,1% e dell’1%, per i quali si ottiene un

miglioramento, nei riguardi della resina, rispettivamente del

15,75% e del 15,46%, con valori medi di 2,84 GPa e 2,83 GPa;

anche in questo caso, l’incremento maggiore è stato rilevato per i

CNT sintetizzati nei laboratori dell’INF, con un incremento di ben

il 22,45% a fronte dell’aggiunta alla resina di solo lo 0,1% in peso

di nanotubi: il valore di 3 GPa è stato però rilevato mediante

un’unica misura, e non può essere considerato ripetibile;

Per l’interpretazione e discussione dei risultati ci riferiremo invece ai tre

parametri precedentemente accennati, ossia all’influenza sulle proprietà discusse

rispettivamente: del diametro, della funzionalizzazione e del grado di adesione tra

matrice e CNT.

Effetto del diametro medio sullo sforzo a rottura. L’influenza dei diversi

diametri è stata valutata prendendo in considerazione tre tipi diversi di CNT, e

precisamente:

SWNT Aldrich, con diametri compresi tra 1 e 2 nm;

MWNT Heji con diametri medi nell’intervallo 20-40 nm;

MWNT Aldrich con i maggiori diametri medi tra quelli testati, con

valori compresi tra 110 e 170 nm (dati del produttore).

Ai fini di una più immediata visualizzazione si riporta l’andamento dello

sforzo a rottura dei tre CNT analizzati, al variare della loro frazione ponderale

nella resina epossidica.

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150

Dal diagramma riportato si osserva che, mentre i CNT Aldrich, (sia a

pareti singole che multiple) mostrano un costante aumento dello sforzo a rottura

all’aumentare della % in peso, la stessa cosa non può dirsi per i MWNT Heji (con

diametro intermedio tra i due suddetti), per i quali si osserva un evidente calo del

σR allo 0,5% in peso. Tale comportamento può essere imputato a due diversi

aspetti, ossia: alla peggiore dispersione dei MWNT Heji (Fig. 5) rispetto agli

Aldrich ed alla lunghezza media inferiore, caratteristica questa, molto influenzata

dal processo di sonicazione utilizzato per migliorarne la dispersione (Fig. 6).

56.0859.37

64.34

54.02

49.00

63.4560.22

61.22

66.26

45.00

50.00

55.00

60.00

65.00

70.00

0.0% 0.2% 0.4% 0.6% 0.8% 1.0%

Sfo

rzo

(MPa

)

% in peso di CNT

Effetto del diametro su σR

SWNT Aldrich

MWNT Heji

MWNT Aldrich

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151

Fig. 5a. Micrografie acquisite mediante microscopio SEM a emissione di campo (Enea

Frascati): nella foto in alto (10.000x) è mostrata la superficie di frattura di un

campione di resina caricata con lo 0,5% di MWNT Heji, rotto per trazione; il

particolare in basso (~30.000x) mostra degli agglomerati di CNT, indicativi di una

dispersione non ottimale.

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152

Fig 5 b. La micrografia SEM in alto (2.000x) è relativa ad un

campione contenente l’1% in peso di MWNT Aldrich, rotto per

flessione dopo immersione in azoto liquido. Dalla foto si apprezza

l’omogeneità di dispersione di questo tipo di CNT nella matrice

epossidica; in basso, immagine acquisita mediante FE-SEM

(~83.000x) in cui è invece mostrato un particolare della superficie

di un campione rotto in trazione con lo 0,5% di MWNT Aldrich; sono

evidenti il debonding e il pull out di alcuni CNT le cui tracce sono

rivelate dai fori nella matrice.

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153

Fig. 6. Le micrografie, acquisite mediante un FE-SEM, mostrano MWNT Heji prima

(immagine in alto a 100.000x) e dopo 4 h di sonicazione (in basso a 126.000x):

l’impressione è che ci sia una riduzione della lunghezza media dei tubi, senza

peraltro ottenere la dispersione sperata.

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154

Dai tre andamenti riportati a pag. 150, si nota che le differenze tra i vari

CNT si mantengono coerenti all’aumentare delle percentuali utilizzate, eccezion

fatta per i MWNT Heji allo 0,5%, i quali mostrano una netta diminuzione di

resistenza rispetto alle altre formulazioni parimenti caricate. Ciò può essere

imputabile, come sottolineato da alcuni autori, alla presenza di una soglia

(riguardante il quantitativo in peso di CNT utilizzati) a ridosso della quale si

risente maggiormente degli effetti della cattiva dispersione e della formazione di

zone ricche di agglomerati. Al di sotto di tale soglia, mediante sonicazione, si

riesce ad avere una ragionevole dispersione mentre, al di sopra di essa, le zone

depauperate dai CNT diminuiscono, con l’effetto di riportare a un nuovo

incremento della resistenza a trazione.

Effetto della funzionalizzazione (e polarità dei gruppi funzionali) sullo

sforzo a rottura. Per la valutazione dell’influenza dell’aggiunta di gruppi

funzionali sulla superficie dei CNT, sono stati presi in considerazione solo i CNT

prodotti dalla Heji, poiché omogenei nelle dimensioni, in modo da eliminare il

contributo del fattore dimensionale. In particolare l’analisi è stata svolta su:

MWNT prodotti dalla Heji non funzionalizzati;

MWNT della Heji, funzionalizzati mediante l’aggiunta di gruppi

ossidrilici (circa 5% in peso);

MWNT della Heji, funzionalizzati con gruppi carbossilici (circa

5% in peso).

L’analisi può essere fatta a partire da un diretto confronto della variazione

dello sforzo a rottura tra i tre tipi di CNT, all’aumentare della loro frazione

ponderale nella matrice epossidica: nella pagina seguente sono riportati i tre

diversi andamenti.

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155

In questo caso la funzionalizzazione superficiale dei CNT apporta un

incremento del σR per entrambi i tipi (COOH ed OH), rispetto all’utilizzo dei soli

CNT non trattati, soltanto per le percentuali dello 0,1% e dello 0,5%. All’1% in

peso la funzionalizzazione con gruppi ossidrilici non sembra avere effetto, mentre

l’attaccamento dei gruppi COOH ai CNT comporta un lieve incremento dello

sforzo a rottura. Il valore medio più alto si riscontra comunque con l’aggiunta

dello 0,5% in peso di CNT con gruppi funzionali OH.

La spiegazione di un tale comportamento può essere data ancora una volta

ipotizzando l’esistenza di una “regione di soglia” a ridosso della quale, per

meccanismi contrastanti, l’omogeneità di dispersione raggiunge un minimo (Fig.

7).

62.76

69.13

62.3059.09

58.64

67.06

54.02

49.00

63.45

45.00

50.00

55.00

60.00

65.00

70.00

75.00

0.0% 0.2% 0.4% 0.6% 0.8% 1.0% 1.2%

Sfo

rzo

a r

ottu

ra (M

Pa)

% in peso di CNT

Effetto della funzionalizzazione su σR

MWNT OH

MWNT COOH

MWNT non funz

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156

Inoltre il maggior incremento dell’effetto di rinforzo dei gruppi OH

rispetto ai COOH (con polarità maggiore) nelle percentuali in peso dello 0,1% e

0,5%, può essere spiegata dall’eccessiva adesione di questi ultimi alla matrice,

unitamente alle difficoltà di dispersione accennate. In particolare, come già detto,

l’effetto di rinforzo risulta molto elevato allo 0,5% in peso di CNT con gruppi

OH, con un incremento del 22,04% rispetto alla resina non caricata e addirittura

del 41% rispetto agli stessi MWNT non funzionalizzati. All’1% in peso la

tendenza si inverte decisamente, verosimilmente a causa dell’esistenza di

un’analoga regione di soglia per i MWNT OH, ma spostata a percentuali più alte.

Fig. 7. Micrografia acquisita con FE-SEM sulla superficie di frattura di un campione rotto a

trazione, contenente lo 0,5% in peso di CNT funzionalizzati con COOH (8.460x). Ancora

una volta saltano all’occhio le eterogeneità in fase di dispersione nella resina, evidenziate

da zone totalmente prive di CNT ed altre (segnalate dalle frecce) in cui sono presenti

agglomerati.

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157

Una possibile ipotesi è che al crescere della % di CNT, da un lato la dispersione

risulti sempre più difficoltosa e dall’altro che ci sia un contemporaneo aumento

della superficie di contatto con la matrice, fenomeno che gioca a favore

dell’effetto di rinforzo.

Passiamo adesso alla valutazione dell’influenza dei parametri appena visti,

sul modulo di Young.

Effetto del diametro medio su E. L’influenza del diametro medio dei CNT

(e della conseguente estensione dell’interfaccia CNT-matrice) sul modulo elastico

è stata valutata relativamente ai tre tipi di CNT, già visti per lo sforzo a rottura.

Nel diagramma seguente sono riportati gli andamenti del modulo con le %

aggiunte alla resina per i tre tipi di CNT.

2.62

2.78

2.72

2.87

2.73

2.81

2.48

2.83

2.91

2.45

2.5

2.55

2.6

2.65

2.7

2.75

2.8

2.85

2.9

2.95

0 0.002 0.004 0.006 0.008 0.01 0.012

E (GPa

)

% in peso di CNT

Influenza del diametro medio su E

MWNT Aldrich

SWNT ALdrich

MWNT Heji

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158

Il diagramma mostra che, a basse frazioni ponderali, i SWNT comportano

la maggiore rigidità. Seguendo la ben nota regola delle miscele (Cap . 1.1) ci si

sarebbe aspettati un modulo maggiore per i campioni contenenti CNT a pareti

multiple, data la loro comprovata rigidità già riportata in letteratura. In realtà però,

a basse percentuali in peso, sembra prevalere la maggiore estensione

dell’interfaccia dei SWNT con la matrice, grazie all’elevatissimo aspect ratio di

questi CNT (che può raggiungere valori di 100.000, tre ordini di grandezza più

alto del corrispettivo valore, pari a 100, per i MWNT della Aldrich).

All’aumentare della percentuale di CNT aggiunti le tendenze si invertono, fino a

vedere, all’1% in peso, il prevalere della rigidità impartita dai MWNT della Heji

con diametri intermedi tra i due della Aldrich. Ciò indica che, a percentuali più

elevate, prevale la rigidità dei singoli tipi di CNT sull’effetto impartito

dall’estensione della zona interfacciale.

Effetto della funzionalizzazione dei CNT sul modulo elastico. Per la

valutazione di quest’ultimo parametro il confronto è stato effettuato sulle stesse

famiglie di CNT, viste per lo sforzo a rottura. Di seguito (pagina seguente) sono

riportati i rispettivi andamenti del modulo di Young all’aumentare delle quantità

di CNT aggiunti alla matrice epossidica. Per percentuali aggiunte dello 0,1% in

peso, l’effetto della funzionalizzazione risulta molto marcato, tanto da portare ad

aumenti di rigidità (rispetto alla resina caricata con CNT non trattati) del 14,51% e

del 13,3%, relativi rispettivamente ai MWNT con gruppi COOH e a quelli con

gruppi OH. Allo 0,5% in peso la tendenza sembra invertirsi nettamente e sono i

MWNT non funzionalizzati a dare i risultati migliori. Alle maggiori percentuali la

differenza tra i MW funzionalizzati con COOH e i non funzionalizzati, rientra

nella incertezze sperimentali, mentre rimane ancora netta la differenza dei MW

con OH rispetto agli altri. La spiegazione di ciò può essere ricercata, come

osservato in relazione al carico di rottura, nel raggiungimento del valore di soglia

per la concentrazione dei MW con gruppi ossidrilici.

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159

2.81

2.58 2.56

2.84

2.55

2.83

2.48

2.83

2.91

2.45

2.50

2.55

2.60

2.65

2.70

2.75

2.80

2.85

2.90

2.95

0.0% 0.2% 0.4% 0.6% 0.8% 1.0% 1.2%

Mod

ulo

di You

ng

% in peso di CNT

Effetto della funzionalizzazione sul modulo di Young

MWNT OH

MWNT COOH

MWNT non funz

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160

2.4.3-Prove di resilienza

La resilienza è definita come la parte dell’energia a rottura del campione,

che viene assorbita in campo elastico sotto l’azione di una sollecitazione

impulsiva. Essa corrisponde quindi grossomodo all’area sottesa dal primo tratto

(quello elastico) di una curva di carico. In realtà essa viene determinata mediante

prove di impatto utilizzando magli con pesi differenti a seconda del materiale in

prova.

Per i test di impatto ci si è riferiti alla prova Charpy, utilizzando provini

con un intaglio a V in posizione centrale, profondo 2 mm. La macchina utilizzata

è una CEAST, con maglio da circa 0,5 kg (Fig. ).

Fig. 8. La macchina CEAST utilizzata per le prove d’impatto con provini di tipo Charpy.

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161

La norma di riferimento è la ASTM E 23. La prova di tipo Charpy prevede

che il provino sia ancorato alle estremità e che il maglio a pendolo, munito di

coltello con bordi smussati, colpisca il provino nel centro, dal lato opposto rispetto

a quello su cui è praticato l’intaglio.

Per le prove di resilienza sono stati preparati soltanto campioni contenenti

lo 0,1 e lo 0,5% di CNT: questo a causa del “peso elevato” dei campioni utilizzati,

che avrebbe richiesto (anche solo con l’1% in peso) l’utilizzo di una quantità di

CNT troppo elevata rispetto alle disponibilità. I CNT utilizzati in questo caso sono

stati solo quelli commerciali (oltre alla grafite, utilizzata come controllo) per il

motivo suddetto, e precisamente:

SWNT prodotti dalla Heji Company;

MWNT prodotti dalla Heji Company;

MWNT funzionalizzati con COOH prodotti dalla Heji Company.

Per ogni tipo di formulazione sono stati testati dai 4 ai 6 provini dello

stesso tipo. Poiché la macchina per le prove d’impatto forniva i risultati in kgf*cm

è stato necessario convertire il lavoro di frattura in kJ/m2, riferendosi alla reale

sezione resistente. Nella seguente tabella sono riportati i risultati delle prove

effettuate, ciascuna con il rispettivo numero di provini sottoposti al test.

Composizione

Media misure

(kJ/m2) Dev. Standard Semidispersione N° provini

Epon+20%A1 1.39 0.26 0.30 5 MWNT COOH

0.1% 1.89 0.16 0.18 4 MWNT Heji

0.1% 2.32 1.22 1.58 6 SWNT Heji

0.1% 1.98 0.53 0.50 5

Grafite 0.1% 1.88 0.99 1.09 5

COOH 0.5% 1.15 0.32 0.30 3 MWNT Heji

0.5% 1.44 0.01 0.01 3 SWNT Heji

0.5% 1.60 0.60 0.74 4

Grafite 0.5% 2.47 0.01 0.01 5

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162

I due istogrammi seguenti riportano invece un confronto diretto tra i valori

medi delle misure e la variazione della resilienza (espressa in punti percentuali)

rispetto alla formulazione epossidica di partenza non caricata, per i vari filler:

Come si può notare dall’istogramma in basso, grosso modo tutti i tipi di

riempitivi utilizzati allo 0,1% in peso apportano un incremento dell’energia

0.00

0.50

1.00

1.50

2.00

2.50

1.391.89

2.321.98 1.88

1.151.44 1.60

2.47

Resilienz

a (kJ

/mq)

Tipo e % in peso di filler

Media misure (kJ/m2)

-20%

0%

20%

40%

60%

80%

MWNT

COOH

0.1%

MWNT

Heji

0.1%

SWNT

Heji

0.1%

Grafite

0.1%

COOH

0.5%

MWNT

Heji

0.5%

SWNT

Heji

0.5%

Grafite

0.5%

35.76%

66.79%

41.85%34.86%

-17.70% 3.63%15.11%

77.44%

Variazione

%

Tipo e % in peso di filler

Variazione % di resilienza rispetto alla resina non

caricata

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163

assorbita nella prova d’impatto. Gli incrementi registrati vanno dal 34,86% con lo

0,1% in peso di grafite al 66,79%, relativo, com’era da prevedersi, allo 0,1% di

MWNT funzionalizzati con gruppi carbossilici. Più complessa risulta l’analisi del

comportamento riguardante le formulazioni contenenti lo 0,5% in peso di filler: in

questo caso è la polvere grafitica a mostrare l’incremento maggiore, mentre la

miscela contenente lo 0,5% in peso di MWNT funzionalizzati con gruppi COOH,

porta addirittura a un peggioramento del 17,7% dell’energia assorbita

nell’impatto, rispetto alla formulazione di partenza non caricata. Questo

comportamento può essere giustificato attraverso due osservazioni:

Come già citato per i provini rotti a trazione, bisogna tener conto della

differente dispersione dei CNT e della grafite nella resina utilizzata; questa

differenza risulta evidente nelle micrografie al SEM delle superfici di frattura,

riportate in Fig. 9: la tendenza dei CNT, rispetto alla grafite, ad agglomerarsi

risulta evidente;

D’altro canto è bene considerare che, se da un lato la funzionalizzazione

dei CNT porta ad un incremento dell’energia di adesione di questi ultimi con la

matrice, dall’altro un’adesione troppo elevata può essere deleteria per il corretto

trasferimento degli sforzi di taglio dalla matrice al rinforzo (la frazione dello 0,5%

sembra essere a ridosso della zona di soglia già evidenziata nel paragrafo

precedente).

La dispersione dei CNT nella resina è limitata da diversi fattori, come ad

esempio il drastico aumento che si osserva nella viscosità e la riduzione del pot

life, dovuto all’amplificazione dell’effetto esotermico del cross-linking, causato

dalla grande conducibilità termica dei CNT. Tutti questi fattori concorrono nel

giustificare la riduzione della resilienza, per tutti i campioni contenenti le %

maggiori di CNT, per i quali la lavorabilità è risultata molto difficile.

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164

(a) (b)

(c) (d)

Fig. 9. (a) Micrografia SEM (330x) sulla superficie di frattura di un provino Charpy, rotto

durante le prove d’impatto, contenente lo 0,5% in peso di MWNT: si può notare il cattivo grado di

dispersione dei CNT e la presenza di un agglomerato di circa 50x80µm; (b) dettaglio a 3300x

dell’agglomerato mostrato in (a), in cui sono chiaramente distinguibili i CNT; (c) superficie di

frattura di un provino contenente lo 0,5% in peso di grafite micrometrica a basso ingrandimento

(63x) in cui è visibile la zona d’innesco della frattura (in alto a sx) a ridosso della zona intagliata

(più chiara in alto nella foto); (d) particolare a 360x del campione contenente grafite in cui è

apprezzabile la dispersione omogenea delle particelle di grafite.

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165

L’elevata adesione dei MWNT funzionalizzati con la resina è risentita

particolarmente allo 0,5% in peso di carica: in questo caso l’adesione è talmente

alta da non permettere lo scorrimento delle macromolecole di polimero in

condizioni di carico impulsivo. Ne risulta che gran parte dei CNT si fratturano in

corrispondenza della superficie di frattura, piuttosto che contribuire all’incremento

dell’energia a rottura, attraverso meccanismi quali il debonding ed il pull-out.

Questa ipotesi è suffragata dalle analisi al SEM che hanno permesso di rilevare

questi meccanismi, per i campioni contenenti gli stessi CNT non funzionalizzati,

mentre non è stato addirittura possibile osservare i MWNT con gruppi carbossilici

(Fig. 10), segnale della netta frattura senza alcuno sfilamento.

Fig. 10. Micrografia SEM a 20000x di un campione contenente lo 0,5% di

MWNT non funzionalizzati. La bontà del meccanismo di dispersione

dell’energia di frattura è dimostrato dalla presenza di fenomeni quali lo sfilamento di alcuni tubi e lo scollamento di altri dalla matrice.

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166

2.4.4-Prove di durezza

Le prove di durezza sono state effettuate utilizzando un durometro Shore

D, il quale permette la valutazione di questa proprietà attraverso la misura della

profondità di penetrazione di un indentatore costituito da un cono di acciaio con

angolo al vertice di circa 30° (Fig.11). La norma di riferimento è la UNI EN ISO

868

Per la rilevazione della durezza sono stati utilizzati gli stessi provini usati

nelle prove di resistenza all’impatto: la preparazione supplementare è consistita

semplicemente nel sincerarsi della planarità della superfici da sottoporre a

indentazione e di quelle di appoggio. Per tutti i campioni lo spessore era di 10mm.

Fig. 9. Durometro Shore D utilizzato per le prove di durezza dei nanocompositi.

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167

Per ogni tipo di formulazione sottoposta alla prova di durezza, sono stati

testati dai 4 ai 6 provini diversi, effettuando 3 misurazioni (in altrettanti punti

sulla superficie del campione) per ognuno di essi. I risultati sono riassunti nella

tabella seguente, nella quale vengono anche indicate la deviazione standard e la

semidispersione delle misure effettuate.

Dall’analisi dei risultati mostrati emerge, come era prevedibile, che tutti i

filler utilizzati aumentano la resistenza all’indentazione della formulazione

epossidica di base, nonostante gli incrementi siano modesti. In tal caso,

diversamente da quello analizzato nel paragrafo precedente, l’elevata adesione tra

CNT funzionalizzati e matrice, non inficia la durezza, che invece sembra

beneficiare del maggior consolidamento superficiale. Gli istogrammi alla pagina

seguente mostrano un confronto diretto tra i valori medi ottenuti per le diverse

miscele, insieme alle variazioni percentuali di tali valori rispetto al valore medio

della durezza per la matrice priva di filler.

Composizione Media misure Semidisperisione

Deviaz.

Standard N° Provini

Epon+20%A1 82.69 2.42 1.71 6

MWNT

COOH 0.1% 85.14 0.42 0.31 6

MWNT Heji

0.1% 85.39 1.08 0.70 6

Grafite 0.1% 84.58 1.67 1.18 6

SWNT Heji

0.1% 84.53 0.92 0.84 6

SWNT Heji

0.5% 84.71 0.42 0.34 4

COOH 0.5% 85.70 0.67 0.55 5

Grafite 0.5% 85.14 0.50 0.36 6

MWNT Heji

0.5% 84.33 2.33 2.24 4

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168

8181.5

8282.5

8383.5

8484.5

8585.5

86

82.69 85.14 85.39 84.58 84.53 84.71 85.70 85.14 84.33Dur

ezz

a

Tipo e % in peso di filler

Durezza Shore D

2.96% 3.27%2.29% 2.23% 2.45%

3.64%2.97%

1.99%

0.0%

0.5%

1.0%

1.5%

2.0%

2.5%

3.0%

3.5%

4.0%

MWNT

COOH

0.1%

MWNT

Heji 0.1%

Grafite

0.1%

SWNT

Heji 0.1%

SWNT

Heji 0.5%

COOH

0.5%

Grafite

0.5%

MWNT

Heji 0.5%

Variazion

e %

Tipo e % in peso di filler

Variazione % di durezza rispetto a resina

non caricata

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Capitolo 3

Conclusioni

e

prospettive future

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169

Conclusioni

Lo scopo di questa tesi era la valutazione dell’integrità meccanica di

nanocompositi a matrice epossidica caricati con nanotubi di carbonio, da applicare

come rivestimento di circuiti per impieghi (EMI Shielding) in ambiente

aerospaziale.

Per quanto concerne le variazioni di resistenza meccanica e rigidità, si

sono riscontrate differenze relative ai diversi CNt utilizzati:

1. CNT non funzionalizzati: tra tutti i tipi sperimentati, i migliori sono

risultati essere i MWNT prodotti dalla Sigma-Aldrich, per i quali si

è riscontrato un deciso incremento del valore della resistenza a

trazione al crescere della percentuale aggiunta; altrettanto si può

dire per il modulo elastico, il quale tuttavia presenta il valore

massimo quando aggiunto allo 0,5% nella matrice epossidica. I

MWNT prodotti dalla Heji Company, con diametro intermedio tra i

due tipi della Sigma-Aldrich analizzati, presentano un valore di

ragionevole incremento all’1% in peso, mentre in quantità inferiori,

determinano un indebolimento della resina, anche se, per il modulo

elastico, si ha un buon incremento.

2. MWNT funzionalizzati (prodotti dalla Heji): Rispetto alla resina

non caricata, l’inserimento di CNT funzionalizzati comporta un

incremento sia della resistenza meccanica che della rigidità; la

funzionalizzazione con gruppi OH però, fornisce un valore

massimo di σR con l’aggiunta dello 0,5% in peso, mostrando tutta

via buoni incrementi dello sforzo a rottura anche per le altre

percentuali; l’aumento del modulo di Young allo 0,1% in peso,

risulta invece sensibilmente migliore che per le altre frazioni in

peso; per quanto riguarda la funzionalizzazione con gruppi

carbossilici, la migliore combinazione di sforzo a rottura e modulo

elastico si ottiene per una percentuale in peso dell’1%, nonostante

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170

il nano composito presenti un ottima rigidità anche con lo 0,1%: in

genere comunque, per quest’ultimo tipo di filler, quantitativi

inferiori all’1%, non forniscono risultati particolarmente affidabili.

3. CNT sintetizzati nei LNF: Per questo tipo di CNT non si hanno

ancora risultati definitivi; tuttavia l’aggiunta di solo lo 0,1% in

peso alla matrice epossidica, ne determina un forte incremento

nella resistenza a trazione (+34,77%); dai primi test effettuati, lo

stesso andamento sembra potersi estendere al modulo elastico.

Questo risultato sembra indicare che il trattamento di sintesi con la

tecnica della scarica ad arco fornisca risultati migliori rispetto alla

crescita dei nanotubi, tramite CVD: tale miglioramento è

ascrivibile alla minore densità di difetti topologici dei CNT

prodotti al plasma, rispetto a quelli cresciuti per deposizione

chimica; come riportato da alcuni autori [63] la loro minore

tendenza ad intricarsi, potrebbe migliorarne la dispersione. Altro

punta loro favore è il miglioramento (con solo lo 0,1% di aggiunta

alla resina), rispetto all’aggiunta dello 0,5% di MWNT

funzionalizzati con gruppi OH (secondo miglior risultato): questo

comportamento è ancora spiegabile con la minor difettosità dei

CNT di sintesi rispetto ai funzionalizzati; questi ultimi infatti, per

raggiungere un alto grado di purezza e, ai fini dell’attaccamento dei

gruppi funzionali, hanno subito diversi trattamenti chimici, che

hanno sicuramente introdotto difetti.

In conclusione, per quanto concerne le caratteristiche meccaniche, i

migliori risultati possono essere ottenuti con nanotubi prodotti mediante la tecnica

della scarica ad arco.

Il primo stadio della ricerca, volta all’identificazione del tenore e del tipo

di nanotubi da inserire nella resina epossidica senza comprometterne le

caratteristiche meccaniche, si può considerare concluso; rimane, naturalmente, da

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sperimentare l’efficacia della capacità di schermatura alle EMI (Electro Magnetic

Interference), di un film di resina e CNT di sintesi.

E’ tuttavia da prendere in considerazione il fatto che, a fronte del miglior

comportamento i “nostri CNT” presentano un inconveniente: la tecnica utilizzata

consente di ottenerne solo piccoli quantitativi, per cui un successivo stadio della

ricerca dovrà riguardare l’ottimizzazione del processo di sintesi.

Prospettive future

Preso atto dei problemi rilevati nella sintesi dei nanocompositi, la ricerca

futura dovrà essere volta alla soluzione dei seguenti punti:

Ottimizzazione del processo di dispersione, che si è mostrato molto

difficoltoso, soprattutto ai maggiori tenori di CNT aggiunti: oltre

alla sonicazione ed in dipendenza dalla viscosità della resina

utilizzata, dovrà prevedersi uno stadio di miscelazione ad alta

velocità ed alti sforzi di taglio, che è sembrata dare buoni risultati

in esperimenti riportati in letteratura;

Miglioramento della fase di degassaggio della resina, in modo da

minimizzare l’inclusione di vuoti d’aria;

Minimizzazione delle fasi “manuali” del procedimento di

realizzazione dei nanocompositi, in modo da incrementare la

riproducibilità del processo e limitare le incertezze correlate al

“fattore umano”.

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Bibliografia

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Ringraziamenti

La realizzazione di questo lavoro è stata lunga e non priva di ostacoli ma è

soprattutto grazie al costante sostegno di coloro che hanno creduto in me, nella

mia passione e caparbietà se questa tesi oggi è qui. Nell’impossibilità di

menzionare tutti coloro che hanno contribuito al raggiungimento di questo

obiettivo, (stimolandomi nella ricerca, consigliandomi nei metodi e soprattutto

sostenendomi moralmente nei momenti difficili) sento di dover dire Grazie…

Grazie a tutti voi.

In particolare ringrazio:

Il Prof. Gilberto Rinaldi, per avermi guidato e consigliato nel superamento dei

numerosi ostacoli di natura pratica.

Il Dott. Stefano Bellucci, per avermi dato la possibilità di vivere questa bellissima

esperienza nel mondo della ricerca e per aver fatto il possibile (e a volte anche

l’impossibile) per supportarmi con la strumentazione necessaria.

Al Signor Livio Bettinali Persona di incommensurabile esperienza e perizia

tecnica, per avermi gentilmente instradato alla soluzione di diversi problemi di

natura tecnica e per avermi iniziato all’Arte dell’estensimetria.

Al Prof. Giancarlo De Casa, vero Deus ex Machina delle prove di trazione, per

avermi assistito ed essersi ingegnato nella soluzione di situazioni fortemente

critiche.

La mia amata Folletta, per avermi sopportato e supportato in tutti i modi possibili

in questo lunghissimo anno. A lei devo anche la realizzazione del progetto a colori

della camera di sintesi, nonché la revisione grammaticale ed artistica di questa

tesi. Devo inoltre ringraziarla per i continui stimoli, che non sono mai venuti

meno, nenche nei momenti più difficili. Grazie di cuore!!!

Al Dott. Francesco Celani ed al suo tecnico Vincenzo per avermi supportato nelle

lavorazioni meccaniche dei provini per trazione e per i buoni consigli dati.

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Ad Antonio Grilli (tecnico INFN), per le interminabili ore passate a girovagare al

SEM e per i preziosi consigli.

Al personale dell’officina: Giovanni Bisogni, Mauro e Alessandro, per la

realizzazione dei primi stampi.

Al Sig. Alvaro Ceccarelli (Lab. Metrologlia INFN): per i primi test di trazione

A Monks, per essermi stato vicino in tutti questi anni di autentica amicizia ed

avermi spronato nei momenti più bui, riuscendo a strapparmi sempre e comunque

un sorriso.

Al Dott. Balasubramanian, per le lunghe e costruttive discussioni in materia di

CNT e per il supporto morale da grande amico.

Ai colleghi del laboratorio: Alessandra, Roberto, Federico, Imma e Andrey, per

aver reso piacevole e costruttiva la mia esperienza all’INFN, dimostrandomi

sempre gentilezza e disponibilità e per non essersi mai tirati indietro quando è

stato necessario.

Al Dott. Simone Bini, per l’aiuto di carattere tecnico e soprattutto per la

metallizzazione dei provini.

Al Dott. Benjamin Robouch per le sue perle di saggezza e per avermi fatto

conoscere il prezioso Bettinali.

Gerundio per avermi dimostrato di non essere solo in questa valle di lacrime!!!

Pollo, per avermi aiutato nella preparazione degli ultimi esami.

I miei zii: zio Antonio, zia Titti, zio Luciano, zia Annamaria ed i cuginetti, per

avermi ospitato nei primi anni di questo lungo viaggio e per non aver mai cessato

di credere in me.

A Nina, per il prezioso supporto negli ultimi esami e per avermi aiutato nella

revisione del primo capitolo.

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Alle mie sorelle: Gabriella, Barbara e Simona, per essermi sempre state vicine

nonostante le oggettive distanze geografiche e per aver capito la mia sbadataggine

degli ultimi tempi.

Ai miei AMICI: Don’Z, Donna W, Aleska, per i bei momenti passati insieme.

…ed infine ai miei genitori, i veri “sponsor” di tutto questo lavoro! Nonostante

tutti i piccoli intoppi di questo lungo percorso, mi hanno sempre spronato e

sostenuto con piccoli e grandi sacrifici. Grazie di cuore!