Come ti vedi fra 5 anni?

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Cinque anni di vita in cinque episodi resi vivi da una scrittura schietta e appassionante, che si alterna brillantemente tra momenti esilaranti, epifanici, disarmanti, avvilenti, riflessivi e di gustosa crudezza. E' la storia di un giovane come tanti emigrato dal Mezzogiorno a Milano. Un antieroe senza nome che sogna di dare una svolta alla propria vita. Cinque anni durante i quali le speranze idealizzate di dare un futuro avvincente alla propria vita si scontrano con una realtà che, fatta di precarietà non solo nel lavoro ma soprattutto negli affetti, diventa terreno fertile per l'alienazione dei sentimenti. Un percorso sulla paura di crescere, di maturare, sempre in bilico sul filo del difficile equilibrio tra la superficiale ricerca di un facile edonismo e il desiderio di vincere la solitudine vivendo emozioni autentiche, che rischia di precipitare in un'involuzione piena di cinismo.

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ISBN 978-88-6332-162-3

“Percorsi d’Autore”Narrativa

Domenico Grimaldi

Come ti vedi fra

cinque anni?

Giorni di ordinaria precarietà

Edizioni Miele

PRIMI TRE MESI A MILANOVenerdì sera

Io non ho orari, non è stabilito da nessuna parte a cheora io debba uscire di qui, quando sia il momentogiusto per alzarmi da questa sedia, senza il timore diessere considerato un ladro che sta sgattaiolando viadall’open space. Non ho un contratto che definisca lamia giornata lavorativa. La logica vorrebbe che me nevada appena finiti i compiti della giornata e li ho giàterminati un paio di ore fa, ma seguire questo criterio,in quest’ambiente, è come ostentare blasfemia in unluogo sacro. Bisogna sempre mostrarsi occupati. Nelcaso ti venga posta la domanda “Tu come sei messo?Sei preso?”, mai rispondere “Sì sono così libero chemi sto annoiando” ma tergiversare in modo evasivodicendo di star monitorando, verificando, analizzando,ma che volendo si può procrastinare se ci sono altrepriorità. Questo stolto agire è il comportamento piùintelligente qui. Un uomo seduto a una scrivania di unufficio non può essere libero, è in ogni caso occupato,è sempre sul pezzo, come dicono da queste parti.Sono le 18, chi ha un contratto se ne sta andando,quindi potrei decidere di levare le tende anche io. Maè meglio fare prima una verifica. Imposto il mio cellu-lare per fare chiamate in anonimo e telefono all’internodell’ufficio del mio responsabile diretto. Suona avuoto, deve essere già uscito. Per fortuna di venerdìdifficilmente fa straordinari. Bene! Cercare sempre diandare via dopo chi ti controlla.Mi appoggio contento al pannello dell’ascensore,

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mentre tiro un sospiro di sollievo già con le cuffiedell’Ipod nelle orecchie.Saluto con un cenno alcuni colleghi in fila davanti allamacchinetta del badge che mi guardano con uno stranosorriso che fa trasparire un po’ di paradossale invidiaper la mia libertà, anche se solo formale, di non doverquotidianamente registrare il mio tempo in quellamacchinetta.Finalmente via, non si respira più aria d’ufficio e nonfa niente che sento le polveri sottili anche sui vestiti, ilfine settimana mi si apre davanti e l’aria ha comunqueil gusto della libertà.Un’altra settimana di lavoro da schiavetto si è trascinatavia. Il termine schiavetto non è proprio quello piùindicato, meglio dire una settimana di lavoro “usa egetta”, ossia da tirocinante o per fare i fighi stageur.Compenso di 700 euro al mese e devo ritenermi for-tunato, tanto fortunato che ricevo una paga.Ti pagano poco, davvero poco, però così fai esperienza,dovresti essere grato, dovresti essere tu a pagare loro,i prodighi che ti beneficiano nel trasmetterti il loroprezioso know-how. Dopo il termine dei sei mesi,forse ti rinnovano la convenzione, fai altri sei mesi daultima ruota del carro e poi, finalmente, ti assumono.Ma questo se sono dei fessi, dei veri e propri idioti.Molto più concreta è l’ipotesi di essere scaricato nelcesso come un pezzo di carta igienica usata. Perché,con tutta sincerità, per il lavoro che faccio occorronotre settimane di esperienza per imparare e intendopartendo da zero. Gli anni all’università sono stati soloun continuo inzupparsi di inutile teoria per arrivare adun pezzo di carta. Quindi, è molto più fruttuoso nonassumere il vecchio stagista e prenderne uno nuovo.

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Finché il mercato tira così tanto, pieno di disperati,giovani neolaureati, così felici d’imparare per pochieuro al mese o anche gratis, coi poveri genitoricostretti a mantenere i loro cari parassiti anche dopogli studi, perché assumere? Poi c’è la possibilità di farfirmare un bel contratto a progetto o a tempo deter-minato, non altro che uno stage un po’ più retribuito.Si ha, così, l’onore di entrar a far parte della foltissimama ininfluente lobby dei milleuristi. Purtroppo, c’è unproblema per i cari dirigenti d’azienda, che hannodiritto a campar anche loro, così competenti nelperseguire l’imperativo venale di mostrare agli azio-nisti o soci, quanto siano sottomessi nel venerare ilprofitto dell’azienda. Il contratto a tempo determinato,ingiustificatamente, obbliga, dopo un limite di rinnovi,all’assunzione a tempo indeterminato. So bene che imiei dirigenti sono tipi più che dritti e che tra tre mesinon avrò maggior valore di una carta di pura cellulosaal 100%, quella che non irrita. Dovrei sentirmi incaz-zato, ma il random del lettore mp3 ha beccato unadelle mie canzoni rock preferite, quelle che mi gasanocosì tanto da farmi svalvolare in una rabbia che hasolo qualità positive. Una vecchina, che mi ha notatoavanzare canticchiando tutto infoibato per il fragoredelle schitarrate noise che sento scaricare nelle orec-chie, mi osserva timorosa per capire se io sia o no unelemento pericoloso. Allora la fisso sorridendo ecanto strillandole in faccia “Sonica!!!”Che mi frega del lavoro, che andassero tutti sotto untram, io sono giovane e il futuro è tutto per me.Ma l’umore mi cala in modo proporzionale nel discen-dere nel sottosuolo per prendere la metro. Ogni gradinoè una coltellata al mio morale. Niente mi ammorba di

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più del precipitare in quel buco verso il quale tutti corrono presi chi sa da quale fretta e non se ne com-prende il motivo, visto che a quell’ora di punta passaun treno ogni pochi minuti. Che sono tre minuti inuna vita dove si passano ore davanti al PC o dietro auno sportello o ad assistere i clienti in un negozio?Eppure mi trovo anche io a correre come un matto,contagiato da quella frenesia.Che esperienza è prendere la metro a Milano il venerdìsera alle 18.30. I vagoni sono capsule fitte di gente cheha appena terminato la propria settimana lavorativa,ma che per tornar finalmente a ritrovare la libertà delfine settimana sono costretti a passare quegli ultimitragici minuti a contatto con altre persone completa-mente uguali a loro: figure stressate, visi lunghi e tristi,che cercano di non guardarsi tra di loro per nonriconoscersi. Questa visione è terrificante e perciòtutti hanno lo sguardo basso, sprofondato in riviste olibri o perso nel vuoto ascoltando musica da lettorimp3.Non ricordo chi ha detto che la metropolitana è lafogna umana, di certo non si sbagliava. Guadagno lospazio vitale all’interno del vagone e anche io diventouna molecola di quella massa informe, cercando unpo’ goffamente di non perdere l’equilibrio o di esseretrascinato fuori durante le osmosi di gente ad ogninuova fermata. Dall’Ipod parte una canzone deiKaiser Chiefs, troppo allegra non me la sento addosso.Ne faccio partire un'altra e si alza il canto lugubre diNick Cave, troppo triste, mi ci vuole qualcosa dimedio. Il terzo tentativo è quello giusto, un bel pezzoconsolante e pieno di elettro-carezze degli Air.A casa, accomodatomi in mutande, decido di cenare

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subito. Sono affamato, ma riesco a saziarmi con duecotolette che ho comprato in offerta al super mercato.Un euro e novantanove centesimi per duecento gram-mi di pollo impanato. Sono tre mesi che faccio laspesa in quel supermercato e sono sempre in offerta:misteri della grande distribuzione che mi hanno sempre affascinato. Sono passati già tre mesi, da quandosono andato via dal mio paesotto bello e addormentatonel meridione, dove pascolavo pago, tranquillo e accu-dito dall’amore e dalla cucina di mammà, per emigrarea Milano, motore economico e puttanaio a cielo aper-to del Paese. E in tutto questo tempo avrò mangiatoquelle cotolette una sera su tre, accompagnate da tan-tissima insalata del tipo più scadente, dell’ecoplastica,ma innaffiata, anzi, affogata in dell’ottimo e costosis-simo aceto balsamico di Modena, uno dei pochissimilussi di cui non riesco a privarmi. Mi sono trasferito aMilano dopo la laurea per fare esperienza mal pagatain un’azienda. La pura verità non è la possibilità di fareesperienze lavorative, quella è tutta una facciata,nient’altro che un alibi. Io volevo assaggiare final-mente come fosse la vita in una grande città,conoscere gente nuova, scappare dalle facili comoditàfamiliari, che sono convinto mi tengano sprofondatoad annegare nelle paludi di una vita mediocre. Non nepotevo più del mio paese inutile, abitato da genteancora più inutile, ma soprattutto del Sud Italia, dovec’è sì il sole, l’aria fresca del mare e l’affetto dimammà, ma io sognavo la pioggia, la polvere e il grigio di Londra, gli stenti e le avventure di una vita allimite del barbonaggio e la mia nuova famiglia sarebbestata composta da altri individui sognatori, mezzipazzi come me, fuggiti per scappare dalle mie stesse

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ossessioni. Londra è rimasta un sogno, mi sono,comunque, accontentato di Milano. Lo smog c’è, lozingaraggio un po’ meno, tanto col passare degli annimi è passato il capriccio e tra lo stipendio da stagista e i soldi da casa riesco a cavarmela abbastanzadignitosamente. Mi manca solo di conoscere genteinteressante e a dir la verità, mi capita di sentirmiincollata addosso una tristezza da solitudine più fre-quente di quanto non avrei mai immaginato.Nonostante tutto, riesco a non precipitare nella nos-talgia, risollevando il mio morale pensando a tutte levolte che mi sono sentito così o peggio, anche quandoero circondato dal mio humus d’amici e famigliari.Ore 21. Arriva, puntualissima, la quotidiana chiamatadi mia madre:“Tesoro! Come stai?”“Bene.”“Hai una voce strana, non è che sei raffreddato?”“Sto bene, ho detto.”“Ti copri quando esci? Ti metti il berretto e la sciarpa?Se ti ammali lì su, come fai? Chi ti cura?”“Sto attento, mamma.”“Hai lasciato qui tutte le canottiere di lana, vuoi che tifaccia un pacco, te le spedisco?”“No, ce l’ho” mento.“Hai cenato?”“Sì.”“Cosa hai cucinato?”“Cotolette e insalata.”“E la frutta?”“Una mela”. Bugia. Non compro frutta, spero che illoro apporto di vitamine sia compensato dall’ ACEche bevo la mattina, così comodo e veloce. Odio

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sbucciare, ci metto un casino di tempo e mi vene malee poi trovo che le banane, il frutto più comodo, costitroppo.“Qui io ho cucinato la parmigiana.”“Buona” rispondo, cercando di rimanere monocorde.Non posso permettermi di mostrare a mia madre chesolo sentire quella parola ‘‘parmigiana’’, mi ha fattotornare la fame. Oh Dio! Che darei per un po’ diparmigiana, ma è una questione d’orgoglio, io ho 25anni e non ho più bisogno di mia madre.“Tu sai fare la parmigiana?”“No.”“Non ci vuole niente, prendi le melanzane…”“Mà! Non ora, quando scendo giù m’insegni.”“E quando è che scendi?”“A Pasqua.”“A Pasqua! Ma non puoi scendere prima?”“Ho il lavoro.”“Torna un fine settimana.”“È stressante andare e tornare col treno in due giornie l’aereo un po’ meno, ma costa troppo.”“Aspetta, che ti chiamo tuo padre” Cinque secondi disilenzio. “Tuo padre ti saluta.”“Ricambio. Va bene mamma, ciao, ci sentiamodomani”“Un attimo che ti devo dire una cosa importante.Quando torni ti faccio conoscere Lorella” dice miamadre, con un sorprendente tono ruffianesco. Negliultimi tempi, non mi rompe solo per la salute e il cibo,ma si è anche messa in testa di trovarmi una fidanzata.Tutta colpa di quel citrullo di mio cugino, che si èsposato all’età per me ancora adolescenziale di 27anni. Dal giorno dopo la cerimonia, mia madre mi ha

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tormentato chiedendomi quando gli avrei presentatola sua futura nuora. È una bambina viziata che chiedeun giocattolo: una bella nuora da portarsi in giro e dapresentare alle amiche.“E chi è questa?” Dico, scocciato.“Ma come? È la figlia della mia amica Flora.”“Scusa, ma Flora non è anche tua cugina?”“Sì, ma che c’entra? Alla lontana, mi è cugina di sec-ondo grado. Ma non te la ricordi? Una volta è venutaa mare con noi, quando eravate bambini, tu l’hai fattamettere a piangere tirandole la sabbia.”“Uhm, non ricordo.”“Le ho incontrate tutte e due dal parrucchiere. Lorellasi è lasciata da poco. Se la vedessi, come è bella con deiricci biondi, una così brava ragazza, laureata ingiurisprudenza con 110, e poi stanno bene a soldi, ilmarito di Flora ha un’azienda di pelati, se ti prendiLorella il posto in fabbrica l’hai assicurato, torni final-mente a casa e sarai subito vicepresidente.”“Va bene mamma, ne parliamo quando torno, ora tilascio che sono stanco e voglio riposare.”“Ciao, mi raccomando indossa il pigiama pesante.”“Ok, ciao ciao”. E anche oggi il supplizio è finito.Meglio acconsentire per telefono alle improbabili ideee proposte di quell’asfissiante di mia madre, ribattereavrebbe solo allungato il quotidiano supplizio post-cena.Più passa il tempo e più mia madre mi stressa. Giàprevedo le sue insidie durante le tanto attese vacanzedi Pasqua. Con terrore m’immagino lei che si affac-cenda per la sua “Operazione Lorella”. Di sicuro, faràin modo d’invitare a casa lei e la madre. Senza dubbio,studierà e non so come fisserà l’appuntamento, un

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giorno e in un momento della giornata in cui io sonoinchiodato in casa. Per fortuna che nella settimana diPasqua il campionato è fermo, se no, ci giurerei, mipotrebbe pizzicare durante le partite. Lei sa troppobene che se me lo dice in anticipo scappo via, mi doalla macchia. Già sento il suo urlo dabbasso per chia-marmi che c’è Flora e Lorella che mi voglionosalutare. Poi le presentazioni: ecco qui il dottore, il mioprimogenito, vedi come si è fatto grande e bello, epensa te, non ha ancora la fidanzata. E il livello d’im-barazzo sale. Questa è Lorella, vedi che bella ragazza,dai siediti vicino a lei, parlale di Milano, io intanto fac-cio vedere la casa a Flora. E il livello d’imbarazzo s’impenna.Questa scenetta nella mia mente è come un incubo.Mia madre è stata sempre una maestra nel farmiimbarazzare, fin da quando ero bambino. Se passeg-giavo per strada con lei mi veniva la tremarella per lapaura di incontrare una compagna d’asilo, elementari,medie o liceo. Non potevo salutare nessuna che miamadre, con un sorrisino ebete ed insopportabile infaccia, partiva con l’affliggermi:“Tesoruccio, chi è questa bella bambina?”“Una mia compagna di scuola, mamma.”“È la tua fidanzatina?”“No mamma, compagna di scuola.”“Va bene a scuola? È una brava bambina?”“Sì mamma.”“E i genitori che lavoro fanno?”.La successiva risposta era molto importante nelprosieguo dell’inquisizione: figlia d’imprenditore o dilibero professionista o di commerciante profittevoledava come risultato il faccione tutto sorriso di mia

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madre e previsione di sicuri tentativi di stabilireun’amicizia coi genitori. Nel caso di figlia d’impiegatoo d’insegnate (come mia madre) o piccolo commer-ciante, faccia neutra, proseguimento dell’inchiesta conaltre domande sul rendimento scolastico, ma nientetentativi di legare future amicizie. Se si trattava, però,di figlia d’operaio, muratore o artigiano di qualsiasigenere: faccia delusa, espressione delle labbra indicantidisprezzo e fine inesorabile del terzo grado.Una soluzione, però, c’è per evitare quello straziopasquale: presentare Anna a mia madre. Anna è laragazza che ho frequentato durante i sei mesi prece-denti al mio sbarco, carico di speranze e meraviglie perle mie sicure nuove intrepide esperienze in terramilanese. Anna è - con tutta sincerità per me cosainspiegabile - innamoratissima di me. Ha sempreacconsentito ai miei assalti sessuali in quei sei mesi,nonostante soffrisse da morire per il fatto che nonavessi la minima intenzione di mettermi con lei e che,cinico senza scrupoli, ad ogni suo ti amo rispondessi:“Io ti voglio un gran benone, amica mia.” Le ho sem-pre ripetuto che per mettermi assieme ad una ragazzaio devo esserne innamorato, che in giro è pieno dicoppie false ed ipocrite, dove tra entrambi o almenoper uno dei due non c’è amore, ma solo desiderio dinon essere soli, o di dare soddisfazione alle rispettivevoglie sessuali; che i ragazzi cedevano a questaipocrisia per la paura di rimanere senza sesso, leragazze per vergogna. “Io queste cose le faccio solocon chi è il mio ragazzo”. È un ritornello molto invoga tra le ragazze delle mie parti, un vero tormen-tone. Non è la prima volta che mi capita una storia delgenere, ma le altre resistevano al massimo un mese,

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poi mi lasciavano. Anna, invece, inspiegabilmente, misopporta. A differenza delle altre, riesce a superare ilmio dichiarare apertamente che per me lei è solo sessoe che non speri che col tempo mi innamori, se non èsuccesso in sei mesi non c’è più alcuna possibilità. Poicon la mia partenza per Milano, si è coronato, final-mente, il mio sogno di vivere via dai genitori e in unacittà che vedo come terreno fertile per vivere la vita,avere le ragazze e gli amici che ho sempre desiderato.Lei di certo non mi poteva trattenere. L’idea di perder-la per me non ha rappresentato un ostacolo alla miafuga. Neanche 800 km di distanza l’hanno fatta, però,ravvedere. Mi ha ripetuto che mi ama troppo, che nonpotrà mai amare più nessun altro, quindi, anche sesono lontano, non mi devo preoccupare, lei sarà unamonaca di clausura, nonostante io le abbia rispostoche per me poteva fare quel che voleva, a me noninteressava, doveva ficcarselo in testa che non erava-mo una coppia.Io a Milano non avrei cercato d’avere storie, ma se micapitavano non avrei certo rifiutato. Qui ho mentitoed è la prima volta che l’ho fatto con lei, ma, in quelmomento, mi è sembrato troppo crudele dirle che unodei motivi che mi ha spinto al Nord è quello di trovarefinalmente una ragazza con la quale non sia solo sesso,senza, però, rinunciare agli inizi alle facili avventureche di certo mi sarebbero capitate in una metropolidel genere. Non potevo dirle che non ce la facevo più,che avevo troppa voglia di stare con una di cui erofinalmente innamorato. Non potevo dirle che una sanainvidia m’intristisce troppo, quando osservavo le cop-pie vere, dove riconosco il legame di un sinceroamore. Ma a Milano, finalmente, avrei trovato la ragaz-

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za giusta per me. Non so il perché di questa mia convinzione. Non credo di avere una ragazza ideale,anzi penso che siano stupidi quelli che pensanod’averla. Secondo me, alcune ragazze ti colpiscono piùdelle altre perché ti stupiscono con quel qualcosa inpiù che non saresti mai riuscito, manco vagamente adidealizzare. Ho pensato che una volta raggiunte quellelibertà che solo una vita indipendente e metropolitanami può dare, sarei finalmente riuscito ad essere chivolevo, ad uscire dal baco e quindi finalmente trovaredi chi innamorarmi.Oppure, magari, è meglio fregarsene di essere semprecosì fottutamente integro e mettermi con Anna. Chem’interessa se non sono innamorato? Se a lei andavabene così. Tanto io sono qui a Milano, posso farequello che mi pare, tradirla senza problemi e quandofinalmente incontrerò il vero amore la lascerò.Soffrirà, certo. Ma che colpa ne ho io? Le ho datomille possibilità per farle capire che con me sarebberostati solo dolori. Presentando Anna, mia madrefinirebbe di rompermi. Farà la faccia storta, delusaperché Anna si è fermata alla Ragioneria, lavora saltuariamente come barista e il padre è solo unimbianchino. Sfoggerebbe tanti falsi sorrisi di fintocompiacimento, però, poi potrebbe superare la de-lusione. Finalmente per la prima volta le presento qualcuna che è la mia ragazza. Oppure no, come misaltano in mente queste idee assurde? Perché devopiegarmi a quest’ipocrisia? Devo solo essere paziente,aspettare, addirittura, forse, anche vedere prima ques-ta Lorella. Chissà, magari è una bella porca. Ne hodavvero bisogno. Una scopata mi urge al più presto.Quando torno giù, certo, per scopare c’è Anna, ma ho

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anche voglia di cambiare figa. Credo che si debbadavvero essere innamorati alla follia per accettare lamonogamia.La follia, o cos’altro, può vincere la consapevolezzache ogni ragazza ha un modo tutto suo di scopare.Andare a letto con una ragazza diversa è come fareconoscenza ogni volta con una nuova cultura, unnuovo mondo. È troppo alettante la voglia di provarecom’è con un'altra, è come farlo di nuovo per la primavolta. Cazzo però! È da quando sono partito che nonscopo. Tre mesi! Qui a Milano la cosa non è facilecome prevedevo. Quelle libertine nordiche che te ladanno subito! Certo, è più facile conoscere fregna, quice n’è tanta in giro. Ma non so, forse sono stato sfigato,ma in tre mesi sono riuscito ad uscire solo con unatipa, una siciliana, che ha fatto l’università a Milano eormai ha rinnegato le sue origini ed è diventata piùbauscia delle meneghine pure. Conosciuta in disco,ero sicuro di scoparmela al primo appuntamento.Cosa che non mi è mai capitata, è stata lei che mi haapprocciato, quindi ero sicuro di piacerle moltissimo.Il primo appuntamento andò benissimo, scoprimmodi avere gli stessi interessi: musica, libri, voglia di scap-pare e andare all’estero Quindi non credo di esserleapparso noioso. Poi la facevo ridere facilmente, perciòil touch-down mi sembrava assicurato quella sera,dovevo solo trovare il momento giusto per il contattofisico. E lì furono guai, mi trovai a disagio, mi resiconto che avevo sempre sfruttato l’auto per il primoapproccio. Era così semplice in quella scatoletta dellamia auto: intimità, le luci soffuse, soffici e invitanti delcruscotto, che tagliano quanto basta l’ideale oscurità epoi naturalmente la giusta musica, che per me voleva

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dire un bel pezzo remixato dei made for the lust, imitici Depeche Mode con i bassi al massimo. Ma aMilano, per gli inizi, non potevo permettermi diportare su l’auto. ‘‘E ora come si fa?’’ mi chiedevo.Provai con una passeggiata, ma niente l’inaspettatodisagio non scompariva, anzi gradualmente aumenta-va. Intorno al locale dove eravamo stati c’era un fiumedi gente nonostante l’ora tarda. Alla fine, lei, forsescocciata, disse che era stanca e così chiamammo untaxi. Tornai a casa deluso ma non sfiduciato, per laseconda uscita sarei stato più sicuro di me, e quando iltaxi sarebbe arrivato a casa sua, in modo deciso sareisceso anch’ io e ci avrei provato sotto la porta di casasua. Anche se un po’ mi scocciava l’idea che avreidovuto pagare un altro taxi per tornare a casa, la tipameritava il rischio della spesa, poi non era mica tantoremota l’ipotesi che sarei rimasto a dormire da lei.Così, per il secondo appuntamento andai a prenderlaa casa. Lei voleva prendere un taxi anche all’andata,verso il locale, ma io le dissi ridendo che era inutilechiamare un taxi a Milano quando ci sono ancoraautobus e metro che girano. Per arrivare al locale bas-tava prendere solo un bus. Ma lei insisteva perchéquella sera aveva messo i tacchi alti e la fermata del-l’autobus era a cento metri da casa sua e non sapeva-mo a che altezza era il locale, e quindi poi forse c’eraaltro da camminare. Io non cedevo, per quella seraprendere due taxi era già un grosso sacrificio per lemie scarne risorse monetarie, un terzo sarebbe statoun dissanguamento. Lei avrebbe sicuramente detto divoler dividere la spesa, ma era solo retorica, avrebbeaccennato a mettere mano alla borsetta, ma poi sape-vo, dannata cavalleria, che com’era stato per il primo

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appuntamento, avrei pagato tutto io. Alla fine, l’avevoavuta vinta, ma lei si rabbuiò in viso e mi parve infas-tidita. Nonostante, per fortuna, l’autobus ci lasciò pro-prio nei pressi del locale, lei si mostrò fredda durantetutta la serata. Era un’altra persona rispetto alla primauscita. Stava con me, ma si vedeva palesemente cheavrebbe preferito essere altrove.Tutto ciò cancellò la mia sicurezza e così quella seraabbandonai i miei progetti. Almeno risparmiai i soldidel secondo taxi. La richiamai un paio di volte perrivederci, ma dopo la seconda scusa, decisi di rinunciaree mi dichiarai sconfitto. L’orgoglio mi precluse ognivoglia di piegarmi a ulteriori tentativi e non l’ho richia-mata più. È già passato un mese, ma quella storia con-tinua a farmi sentire un po’ abbattuto e sfiduciato.Non so se sia il caso o no di uscire questa sera. Ho unavoglia matta di un bel locale, una discoteca, anche seodio andarci, è il posto giusto per conoscere qualcunacon la quale, me l’auguro, potrei essere più fortunato.Io odio andare a ballare, ho il disgusto per quellamusica, detesto la gente da discoteca. I tipi da privé egli splendidi PR li manderei tutti su un’isola deserta.Ma se voglio conoscere ragazze, quelli sono i postiideali. Se non trovo una ragazza, c’è il rischio di finircon le puttane, quelle di professione, per fare dis-tinzione. Dalle mie parti non vado mai a ballare, nonce n’ è bisogno. Basta attendere una buona pesca nellarete scopereccia dell’università ed è una fortuna, per-ché da dove vengo è molto più difficile conoscereragazze in discoteca. Il livello d’ostilità delle ragazze ètanto alto che i pali che si prendono sono così indi-gesti, che mi fanno preferire la vigliaccheria alla possi-bilità di ferire il mio enorme orgoglio. Forse perché

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