Come se tu, senza volerlo, mi toccassi per dire qualche...

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Come se tu, senza volerlo, mi toccassi per dire qualche mistero, improvviso ed etereo, che neppure sapevi dovesse esistere. Così la brezza dice sui rami senza saperlo un’imprecisa cosa felice. Fernando Pessoa, Fu un momento

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Come se tu,senza volerlo,

mi toccassiper dire

qualche mistero,improvviso ed etereo,

che neppure sapevidovesse esistere.

Così la brezzadice sui rami senza saperlo

un’imprecisacosa felice.

Fernando Pessoa, Fu un momento

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un’imprecisa cosa felice

Prologo

Un attimo prima tutto fila nel verso giusto, il cielo dipinge un tramonto da cartolina, dopo una bella giornata di sole. Si ride di quello e di quell’altro, sorseggiando insieme succo di mirtillo in cucina, ricordando aneddoti bizzarri sulla vicina di casa scontrosa o sulla cassiera dell’autola-vaggio, quella che si dice mangi rane anche a colazione. E un attimo dopo succede, così, senza preavviso.

Appoggia il bicchiere sul tavolo, si alza sbuffando un po’ e si congeda con poche parole: «Devo assolutamente cambiare la lampadina in bagno prima che faccia buio. Aspettami, prendo la scala e in un baleno sono da te».

Dopo pochi minuti un tonfo, seguito da un rumore di vetri rotti e oggetti che cadono, ti fa trasalire. Urli: «Tutto bene?», correndo in direzione del frastuono. Apri la porta del bagno e trovi il corpo a rovescio, le gambe all’aria, la testa nel secchio del mocio vileda e tutt’intor-no detersivi, rotoli di carta igienica, saponette, flaconi di bagnoschiuma e shampoo. Lo specchio sopra il lavabo in frantumi, ma solo al centro, dove è evidente, in un di-segno circolare quasi perfetto, la sua capocciata, precisa come un tiro a segno.

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Oppure è alla stazione ad aspettare il treno. Ha un certo languorino. A pochi metri c’è un distributore automatico. Infila le monete, pigia il tasto 21 ma la merendina non scende. Strattona un po’ la macchina. Niente, lo snack è in bilico. Strattona più forte e più forte ancora. Si innervosisce. Torna indietro, prende la rincorsa e, con una mossa da karateka improvvisato, sferra un calcione al distributore. Quello prima on-deggia, va indietro poi avanti, prendendo una velocità inaspettata, rincula ancora, e infine si schianta al suolo. Lui sotto, un rivolo di sangue dall’orecchio destro, stec-chito. La merendina spappolata sulla camicia, altezza ombelico, sottile come un foglio, tra lui e il distributore assassino.

O magari falcia allegramente il prato a cavalcioni sul suo nuovo tagliaerba a motore. Su per la collinetta azzarda una curva maldestra, perde il controllo, ruzzola giù e finisce sotto le lame arrotate. I capelli perfettamen-te tosati al centro della nuca, come un frate francescano, la giugulare recisa che zampilla a fontana.

Oppure ancora, mentre fa la cacca dietro un cespu-glio durante una gita solitaria per funghi, viene morso da una vipera. Si alza di scatto urlando, le mutande anco-ra calate e un bruciore inverecondo alla chiappa destra. Crepa di paura, per il veleno o perché, inciampando nel-le braghe, casca e batte la testa su una pietra aguzza.

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Le chiamano morti tragicomiche. Comiche per chi non ne è travolto, chi le sente raccontare come barzellette dal burlone in fila alle poste, chi ne legge distratto il trafi-letto sul giornale, e sogghigna divertito. Tragiche per chi subisce lo strappo da vicino, nel cuore, nella pancia, ne-gli occhi increduli. Partenze stupide e improvvise, senza ritorno e stupide, stupide e senza spiegazioni. Perché la morte di quelli a cui vuoi bene già di per sé è una gran brutta bestia che ti afferra alla gola e ti sbrana fin nelle viscere, ti dimezza il respiro e ti porta giù fino all’inferno degli abbandonati. Figuriamoci se chi muore lo fa in un modo ridicolo, grottesco, assurdo come dovrebbe succe-dere solo nei cartoni animati, dove poi nessuno muore davvero. Nella vita reale si crepa anche così. E la disgra-zia è smisurata perché non puoi, davvero non sei capace di fartene una ragione.

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La mamma di Nino morì stecchita per un colpo al cuore. Metaforico. A Marisa toccò una fine ancora più assurda. Una stupidissima morte idiota che inabissò Marta ed Ernesto in un dolore inconsolabile e infilò nei loro petti una nostalgia grassa che non andò più via, come una tos-se cronica, indebellabile.

Parte prima

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Marta

Con quella manciata di chili tutta nervi da portarsi ap-presso, Marta dimostrava sì e no quindici anni, non certo ventuno. Stretta nella sua t-shirt slabbrata, le mani af-fondate nelle tasche dei jeans, camminava avanti e indie-tro con lo sguardo fisso a terra di uno che ha perso qual-cosa. O qualcuno. Erano i primi di luglio del 1993, l’aria frizzante, a dispetto del periodo dell’anno. La strada al limitare del paese grigia e deserta, poche case attorno, e neanche una finestra accesa.

Una folata di vento scompigliò i suoi capelli già decisamente arruffati. Scostò il ciuffo dalla fronte, poi sfilò dalla tasca posteriore dei jeans penna e bloc-notes e si sedette sul marciapiede sotto l’unico lampione acceso. Alitò sulla punta della Parker a sfera edizione limitata (il suo preferito, tra tutti i regali che le aveva fatto Ma-risa negli anni), e si mise a disegnare. I tratti uscivano magri e disordinati; erano per lo più scarabocchi. Nulla che avesse una forma o un senso. Tracciò una riga ner-vosa sul foglio, poi tanti piccoli ghirigori tutt’intorno e, a caratteri cubitali, scrisse “Merda!”, forte come un urlo.

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In quel momento una macchina passò a tutta velocità, inchiodò pochi metri dopo e tornò indietro in retromar-cia, frenando davanti a lei. Si alzò di scatto, come spa-ventata, e rimase immobile. Al posto di guida un uomo sulla cinquantina, la barba lunga di settimane e i capelli talmente unti da riflettere la luce del lampione.

Quello abbassò il finestrino e disse, strascicando le parole: «Cosa fai qui tutta sola a quest’ora?»

Lei si avvicinò e sentì arrivare una puzza come di stalla, mista all’odore forte dell’alcol.

«Niente, aspetto», rispose sicura. «Cosa?», ribatté lui grattandosi la pancia. Era così

sporgente che i bottoni della camicia sembravano sul punto di saltare via.

«Aspetto e basta, che te ne frega?», fece lei spavalda. «Dai, salta su che ci facciamo un bicchierino».

Mimò il gesto del bere con pollice e mignolo alzati e le indicò il sedile del passeggero.

Marta indietreggiò, si guardò intorno, prima a de-stra e poi a sinistra. Nessuno all’orizzonte. Allora urlò con tutta la voce che aveva: «Taxi! Taxi!» Alle sue spalle un cespuglio si mise a ondeggiare e, un attimo dopo, da un gomitolo di foglie, sbucò scodinzolando un cagnoli-no bianco con le orecchie nere. Lei aprì la portiera e lui si fiondò dentro. Salì a sua volta e disse a Taxi: «Vieni in braccio, su, da bravo»; quello le saltò sulle gambe, dopo aver leccato a lungo la mano dell’uomo appoggiata al cambio, e si accucciò.

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«Ma che ci hai fatto qui dentro, cos’è questa puzza infernale?», chiese Marta all’uomo.

«Quale puzza?», fece lui risentito. «Allora, il bicchierino?» «Guarda dietro. Dovrebbe esserci ancora una bot-

tiglia piena». Lei si girò con tutto il corpo allungandosi verso i

sedili posteriori: erano pieni di bottiglie di liquore spar-pagliate a caso.

«Guarda che queste te le sei scolate tutte, non c’è nessuna cazzo di bottiglia piena».

«Ehi, bambina, non provare a parlarmi ancora così, altrimenti…»

«Cosa, mister alcolista neanche troppo anonimo?» Lui impugnò il volante di scatto, mise in moto e

partì con una sgommata da film americano. Taxi guaì. «Ehi, dove cazzo mi porti? Fammi scendere!» L’uomo non rispose, guardava la strada davanti a

sé, con gli occhi stretti di chi sta per scoppiare a piange-re. Marta si accorse che gli tremava il mento e non parlò più finché, dopo una buona mezz’ora, lui disse: «Lo vuoi ancora il bicchierino?»

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Il regalo più bello della mia vita me lo fece papà il giorno del mio ventunesimo compleanno, il 30 ottobre del 1991. Lo chiamavo il “bugigattolo delle cianfrusaglie”. In real-tà non mi regalò proprio il bugigattolo, ma il permesso di lavorarci dentro come un padrone. Era una specie di cubo trasparente, piazzato tra il binario uno e il binario due della stazione di Galletta; vicino al binario tre, che era anche l’ultimo, c’era un distributore automatico di be-vande e merendine. Vendevo un po’ di tutto: portachiavi, penne, accendini, cornini e cornetti rossi, pupazzetti di peluche, mascotte delle squadre di calcio, braccialetti di corda e souvenir, quelle cose divertenti tipo la chiesa di Santa Giuditta dentro una boccia di vetro che se la giri e la rigiri ci nevica su.

Quelli che aspettavano il treno o lo perdevano ca-pitavano sempre davanti al mio gabbiotto e toccavano tutti quegli oggetti e oggettini; li guardavano, li studia-vano e poi li compravano. Costavano poco. Solo il por-tamatite a forma di carota costava qualche spicciolo in più. La cosa che andava per la maggiore erano le corna

Nino

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rosse da tenere in tasca, misura piccola (perché c’erano anche quelle medie da appendere allo specchietto della macchina e quelle belle grosse da attaccare sopra la te-stiera del letto). A chi le poggiava sul bancone e tirava fuori il portafogli per pagarle chiedevo gliele incarto? E tutti dicevano no. Erano buffi, perché se le infilavano nella tasca interna della giacca con gli occhi bassi di chi ha comprato una rivista porno e gli viene la vergogna.

Io le compravo le riviste porno, anzi, no, non è vero, non le compravo: me le regalava mio cugino At-tilio dopo che aveva fatto i ritratti. Lui era un pittore, non solo il fattorino sfigato di Bortolo, come diceva mia madre. Dipingeva i corpi delle persone mentre facevano quelle cose là, e, visto che non trovava nessuno che po-sasse per lui (anche perché è difficile stare fermi in certe posizioni), faceva la copia della foto dei giornaletti. Era bravo, prima o poi qualcuno se ne sarebbe accorto e gli avrebbe fatto fare una mostra. Una in realtà la fece, in garage. Io lo aiutai.

Staccammo tutti i poster con i pesci e le canne da pesca (lui era anche un grande pescatore) dalle pareti, passammo lo straccio per terra e appendemmo i suoi quadri con dei chiodi. Poi mettemmo un tavolino in un angolo e io stavo seduto là con la penna in mano e un blocco di carta per segnare i titoli venduti. Lui stava in piedi e spiegava i quadri alla gente, ma di gente non ce n’era molta, diciamo sei sette persone, e non ne vendem-mo neanche uno. Ma ne regalammo due, uno a un vec-chino che fumava la pipa e faceva tanti complimenti, e

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uno a me, cioè Attilio me ne regalò uno per ringraziarmi dell’aiuto.

Comunque, dicevo, dopo che le usava lui, le riviste passavano a me. Io le sfogliavo sempre dietro il banco, al bugigattolo, alla ricerca di ragazze da ritagliare per il mio quaderno delle facce. Al contrario di mio cugino, che lui le facce non le dipingeva proprio, io guardavo solo quelle, poi ritagliavo le mie preferite e le incollavo sul quaderno.

Attilio me lo diceva stai attento a non farti beccare al negozietto che leggi i giornalini, che la gente poi ti guarda male. Allora un po’ mi vergognavo perché magari qualcuno si avvicinava e mi chiedeva quanto costa que-sto, quanto costa quello, e io ero lì col giornaletto sotto il naso e scattavo come se mi avessero beccato a rubare e mettevo subito tutt’e due le mani sul bancone dicendo dei numeri a caso e un po’ mi tremava la voce. Però il bancone era molto alto e stavo appollaiato su uno sga-bello che non era della misura giusta, così mi usciva solo la testa e nessuno vedeva là sotto se nascondevo segreti.

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Entrarono in un piccolo bar luminoso con Taxi al segui-to. L’uomo si appoggiò al bancone e ordinò due whisky.

«Lo vuoi liscio?» «Sì», rispose lei. Si sedettero a un tavolo sotto la finestra che dava

sul retro. Oltre la collina, i campi sembravano una pel-licola in bianco e nero, il buio spezzato dalla luce della luna. Marta bevve un sorso e tossì. Lui sorrise di un sor-riso spento.

«Come te la passi, zio?», chiese Marta per riempire un silenzio che si stava facendo imbarazzante.

«Non hai una domanda di riserva?», rispose Erne-sto, e tracannò un lungo sorso.

«E tu, me lo vuoi dire cosa ci facevi là tutta sola?» «Niente, aspettavo un passaggio da qualcuno per

arrivare da queste parti», rispose Marta. «Qualcuno è passato». «Dai, zio, lo sai che tu non sei qualcuno. Sono con-

tenta di vederti; al casolare non passi da mesi». «Se incontro tua madre mi viene l’orticaria».

Marta

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Lei sorrise. Disse: «È migliorata un casino, sai? L’altro giorno è anche andata al cimitero a metterle i fiori sulla tomba».

Lui fece un’espressione di disgusto, rovesciò gli an-goli umidi della bocca e disse: «Ipocrita di merda; l’avrà fatto solo per farsi bella ai tuoi occhi». Con un lungo sorso finì il bicchiere. Fece cenno al barista, che armeg-giava al bancone, di portargliene un altro.

«Sarà, però sta cambiando. È più simpatica». «Simpatica tua madre? È evidente che si tratti di

uno scambio di persona. Con chi l’hai barattata? Con-fessa!»

«No, davvero zio, è come se le avessero impiantato un umore diverso. Non vorrei esagerare, ma è diventa-ta una persona allegra. Soprattutto quando Luigi è nei paraggi. Ma anche in generale, rompe le palle più per abitudine che per necessità».

Il ragazzo appoggiò sul tavolo il bicchiere pieno, prese quello vuoto e tornò dietro il bancone. Lo zio non disse neanche grazie. Urlò: «Quella fighetta dell’avvoca-to?» Si accorse del volume della sua voce, abbassò il tono e aggiunse: «Tutto cravattino, pulitino e precisino?»

«Giudice, zio, è giudice», lo corresse Marta. «Ancora peggio, brutta razza quelli là. Come i po-

liziotti». «Ma no, dai, è bravo. Un po’ vecchio stampo, ma

stravede per la mamma. Le ha fatto la proposta e lei ha detto sì. Si sposano a febbraio».

Lui si accese una sigaretta e ne offrì una a Marta.

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Tirò una lunga boccata e disse: «Oddio che miele. Vo-mito». Scolò tutto d’un fiato il secondo bicchiere.

Dopo poco ricominciò a ondeggiare con la testa. Si alzò dal tavolo e sembrava che stesse per stramazzare in terra. Poi ritrovò l’equilibrio; guardò Marta e scoppiò a ridere. Lei si guardò intorno, appena imbarazzata. Il ragazzo e un paio di clienti al banco li osservavano. Af-ferrò per un braccio lo zio che ancora ghignava e disse: «Andiamo a farci un giro?»

«Dove ti porto di bello, mia principessa?» «Perché non andiamo a trovarla?» «Ottima idea, Stecco», rispose lui. «Non chiamarmi Stecco!» «Ok, zerozerotette!» Lasciò sul tavolo una banconota, e uscì dal locale.

Marta dietro. Taxi dietro a Marta.

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Io a scuola prendevo sempre insufficiente o quasi suffi-ciente. Dopo che mi bocciarono due volte in terza media (la prima ero appena sufficiente, ma mi avevano beccato coi giornalini sotto il banco e non fui ammesso all’esame, l’anno dopo niente giornalini, ma ero molto insufficien-te), mia madre mi disse con te ci rinuncio, basta scuola, adesso ti metti a lavorare così almeno porti due lire a casa invece di scaldare la sedia, che tanto scemo sei e sce-mo rimani. E mi portò con lei a vendere uova al mercato.

Non mi piaceva tanto quel lavoro, perché in realtà le uova le vendeva solo lei. Io non avevo nemmeno il permesso di parlare con le clienti, tranne che per salutare le sue amiche, se passavano a fare la spesa e si fermavano al banco. Il mio compito era incartare, ma non è bel-lo incartare le uova perché primo hanno un colore non allegro, troppo da uova, secondo la carta era quella di giornale che neanche lei è tanto colorata. Quindi, anche se a me piace incartare, con le uova era una cosa triste. Ma non dicevo niente perché ero contento di aiutare la mamma. Mi sentivo importante.

Nino

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Poi però un giorno, dopo cinque anni che impac-chettavo, lei mi mandò via. Sei un porco uguale a tuo padre!, mi disse, prendendomi a calci nel sedere per spingermi fuori dalla bancarella. Era un sabato mattina prestissimo, l’ora in cui tutte le anziane del paese escono per arrivare per prime al mercato, così trovano le cose migliori perché c’è ancora tanta scelta. Che certe volte a fine giornata rimangono poche uova e solo quelle picco-le con il guscio scagazzato.

Quella mattina, prima di raggiungere mia madre, andai come sempre al bar di Gino, che mi teneva da par-te i giornali del giorno prima, e in cambio gli portavo una frittata con gli spinaci o con i funghi o con il for-maggio. La serranda però era giù, anche se lui di soli-to apriva quando faceva ancora buio. Bussai ma niente. Bussai ancora e niente ancora. Allora andai a casa sua, che era dietro l’angolo, e suonai al citofono. Non rispo-se nessuno. E adesso come incarto le uova?, pensai. La mamma mi ucciderà.

Senza i giornali, mi incamminai al mercato e vidi mia madre circondata da vecchiette starnazzanti, chi voleva sei uova, chi dodici, chi una gallina intera. Viva. Muoviti, scemo, guarda quanta roba devi incartare, ve-loce!, urlava. Mi sedetti nel mio angolino e impacchettai le prime due dozzine di uova con un paio di fogli di giornale avanzati dal giorno prima. Altre quattro uova le arrotolai nel fazzoletto di stoffa che avevo in tasca. Per fortuna non era tanto sporco, mi ci ero soffiato il naso soltanto una volta. Non sapevo più con cosa incartare

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le altre uova che mia mamma mi metteva davanti senza guardarmi neanche in faccia, e avevo paura di chiederle come faccio adesso?

Allora mi venne in mente che nel cassetto degli elastici e delle forbici e dello scotch, qualche giorno pri-ma avevo nascosto un giornaletto che mi aveva dato At-tilio per i momenti morti, quando le clienti vanno via e allora posso pensare ai fatti miei, mentre la mamma chiude i conti. Strappai con cura la copertina e poi stac-cai le pagine e ne feci una piccola pila. Quanti colori! Non c’era paragone con la carta di giornale! Perché non ci avevo pensato prima, in tutti quegli anni?

Quando una vecchina cacciò un urlo e quasi sven-ne, non appena vide le sue uova avvolte con la carta del giornaletto, mia madre prima la soccorse, poi guardò il pacchetto, poi guardò me, e alla fine, con gli occhi arrab-biati come una valanga, iniziò a prendermi a calci.

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Fendendo la notte con gli abbaglianti, imboccarono a passo d’uomo il viale di cipressi che conduceva al cimi-tero. Lo scricchiolio delle gomme sulla ghiaia spezzava un silenzio surreale.

Il cancello d’ingresso era serrato con un grosso catenaccio. Ernesto afferrò le sbarre e le strattonò con forza. Il frastuono svegliò il guardiano, che fece capolino dalla finestra del suo gabbiotto con aria stralunata.

«Che diavolo succede, chi è là?» «Hola, señor, siamo venuti a trovare mia moglie

Marisa, ma non ci apre. Forse dorme», fece Ernesto ri-volto al guardiano.

Quello lo guardò nella penombra, prima sbigottito, poi irritato.

«Di notte il cimitero è chiuso!» «È una questione di vita o di morte! Suvvia, señor,

apra il cancello!», ribatté lui, autocompiacendosi del suo senso dell’umorismo.

Marta rideva a pochi metri di distanza, allegra per il whisky.

Marta

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Il guardiano non si lasciò corrompere e urlò: «Tor-nate domani», e rientrò sbattendo le ante della finestra. I vetri tintinnarono un po’, poi il silenzio tornò di piombo.

Ernesto si avvicinò a Marta ridacchiando e disse: «Che gran coglione, sembra l’avvocatello di tua madre!»

«Giudice, zio!» Rientrarono in macchina e stettero un po’ seduti a

rimuginare. Poi Marta tirò fuori il bloc-notes e la penna e disse: «Scriviamole un telegramma».

«Scriviamogliene due, uno a testa», propose lui. Cominciò lei.

Cara zia. Stop. Vita procede sempre uguale. Stop. Morte è migliore? Stop. Scrivo con penna che mi hai regalato tu. Stop. Inchiostro ha tuo odore. Stop. Tuoi occhi belli mancano. Stop. Da impazzire. Stop. Ti decidi a venire a trovarmi in sogno? Stop. Marta.

«Ho finito, ecco la penna». L’altro telegramma faceva così:

Amore mio. Stop. Vita senza te è una merda molle. Stop. Come te la passi con angeli? Stop. Scopo qual-che donna ma pancia non va giù. Stop. Parto per tournée domani. Stop. Ti penso sempre. Mi pensi un po’ anche tu? Stop. Ernesto.

Si scambiarono i fogli. Lei lesse quello dello zio ridacchiando. Poi si arrestò di colpo.

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«Davvero parti? Non avevi smesso?» «Già. Ho bisogno di tirare su un po’ di grana. Sono

a secco». «Portami con te. Come ai vecchi tempi!» «Non ci penso neanche». «E dai, zio, lo sai che non ce la faccio più a starme-

ne rintanata in questo paesino di merda!» «No, no, no! Non se ne parla. Starò via due mesi,

tutte le notti in giro per locali: immagino già tua madre che ci manda dietro un investigatore…»

«Mia madre può anche andare a farsi fottere…» «Dall’avvocatello». «Quella fighetta», aggiunse lei. «Allora, partiamo

insieme, zio?»