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Come in un canto, il Kerygma è "l'acuto" di ogni catechesi Nella prima predica di Avvento, padre Cantalamessa esorta a far risaltare l'annuncio di Cristo morto e risorto per i nostri peccati, quale "momento germinativo della fede" di Salvatore Cernuzio L’Anno della Fede, il 50° anniversario del Concilio Vaticano II e il Sinodo per la nuova Evangelizzazione. Tre “grazie” che la Chiesa cattolica sta vivendo in questo anno, che sono lo spunto di riflessione per le prediche proposte da padre Raniero Cantalamessa per il tempo d'Avvento. Nella prima, il predicatore della Casa Pontificia si sofferma sull’Anno della Fede e, quindi, sul tema “vasto come il mare” della fede. In particolare, concentrandosi sulla lettera Porta fidei di Benedetto XVI, Cantalamessa approfondisce la “calda” esortazione del Papa “a fare del Catechismo della Chiesa Cattolica lo strumento privilegiato per vivere fruttuosamente la grazia di questo anno”. Non è una spiegazione delle parole del Pontefice, precisa il cappuccino, piuttosto uno sforzo a “mostrare come fare perché questo libro, da strumento muto, come un violino di pregio posato su un panno di velluto, si trasformi in strumento che suona e scuote i cuori”. Ricordando la visione di Ezechiele “della mano tesa che porge un rotolo” (Ez 2,9-3,3) , padre Cantalamessa mostra che è il Papa, in quest’anno, “la mano che porge di nuovo alla Chiesa il Catechismo della Chiesa Cattolica, dicendo a ogni fedele: 1 / 17

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Come in un canto, il Kerygma è "l'acuto" di ogni catechesi

Nella prima predica di Avvento, padre Cantalamessa esorta a far risaltare l'annuncio diCristo morto e risorto per i nostri peccati, quale "momento germinativo della fede"

di Salvatore Cernuzio

L’Anno della Fede, il 50° anniversario del Concilio Vaticano II e il Sinodo per la nuovaEvangelizzazione. Tre “grazie” che la Chiesa cattolica sta vivendo in questo anno, che sono lospunto di riflessione per le prediche proposte da padre Raniero Cantalamessa per il tempod'Avvento.

Nella prima, il predicatore della Casa Pontificia si sofferma sull’Anno della Fede e, quindi, sultema “vasto come il mare” della fede. In particolare, concentrandosi sulla lettera Porta fidei diBenedetto XVI, Cantalamessa approfondisce la “calda” esortazione del Papa “a fare delCatechismo della Chiesa Cattolica lo strumento privilegiato per vivere fruttuosamente la graziadi questo anno”.

Non è una spiegazione delle parole del Pontefice, precisa il cappuccino, piuttosto uno sforzo a“mostrare come fare perché questo libro, da strumento muto, come un violino di pregio posatosu un panno di velluto, si trasformi in strumento che suona e scuote i cuori”.

Ricordando la visione di Ezechiele “della mano tesa che porge un rotolo” (Ez 2,9-3,3), padreCantalamessa mostra che è il Papa, in quest’anno, “la mano che porge di nuovo alla Chiesa ilCatechismo della Chiesa Cattolica, dicendo a ogni fedele: 

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Prendi questo libro, mangialo, riempitene le viscere”.

Che significa mangiare un libro? Vuol dire “assimilarlo" come il cibo – dice il Predicatore - quindi“non solo studiarlo, analizzarlo, memorizzarlo ma farlo carne della propria carne e sangue delproprio sangue”. Bisogna “trasformarlo da fede studiata in fede vissuta” – aggiunge -  e ciò èpossibile farlo solo cogliendo “il cuore pulsante del Catechismo”, che non è “un dogma, o unaverità, una dottrina o un principio etico, ma una persona: Gesù Cristo!”.

Nella prima parte del Catechismo dedicata alla fede si ricorda, infatti, il grande principio di sanTommaso d’Aquino secondo cui “l’atto di fede del credente non si ferma all’enunciato, maraggiunge la realtà”. Questa realtà è “certamente Dio”, ribadisce padre Raniero, “non, però, undio qualsiasi che ognuno si raffigura a suo gusto e piacimento, ma il Dio che si è rivelato inCristo”.

La riflessione di Cantalamessa si sofferma quindi sulla distinzione tra kerygma e didaché. Ilprimo, spiega, “riguardava l’opera di Dio in Cristo Gesù, il mistero pasquale di morte erisurrezione”. La didaché, invece, indicava “l’insegnamento successivo alla venuta della fede, la formazione completa delcredente”.

“Si era convinti che la fede, come tale, sbocciasse solo in presenza del kerygma – riferisce ilcappuccino -. Esso non era un riassunto della fede o una parte di essa, ma il seme da cuinasce tutto il resto”. “Anche i quattro Vangeli furono scritti dopo per spiegare il kerygma” aggiunge. E lo stesso Credo,nel suo nucleo primitivo, metteva al centro Cristo e la Sua componente umana e divina.

Poichè eredi di un processo di “sviluppo della dottrina cristiana” secondo la definizione delbeato Newman, tutti noi - “in primo luogo vescovi, predicatori e catechisti" –  siamo dunquechiamati a far risaltare il carattere “a parte” del kerygma quale momento “germinativo dellafede”.

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Come in un canto, il Kerygma è "l'acuto" di ogni catechesi

Come nel cantato di un’opera lirica dove ci sono gli ‘acuti’ che “scuotono l’uditorio e provocanoemozioni forti, a volte anche brividi”, il kerygma “è l’acuto di ogni catechesi”.

Dopo questa splendida metafora padre Cantalamessa, però, ammonisce: “La nostra situazioneè tornata ad essere la stessa del tempo degli apostoli: essi avevano davanti a sé un mondoprecristiano da evangelizzare, noi abbiamo davanti un mondo post-cristiano darievangelizzare”. Dobbiamo, quindi, “ritornare al loro metodo, riportare alla luce ‘la spada delloSpirito’ che è l’annuncio di Cristo morto per i nostri peccati e risorto per la nostragiustificazione”.

Rievocando l'immagine del kerygma come “acuto della catechesi”, padre Raniero chiarisce che“per produrre questo acuto non basta alzare il tono della voce”, ma occorre un altro elementofondamentale: “l’unzione”.

Autore di questa “unzione” è, secondo molti Padri della Chiesa, lo Spirito Santo, il Paraclito, loSpirito di verità che “insegna ogni cosa”. Coloro, però, “che lo Spirito non istruisce internamente– scriveva Sant’Agostino – se ne vanno via senza avere nulla appreso”. C’è, dunque, bisognoanche “di istruzione dall’esterno - assicura Cantalamessa - c’è bisogno di maestri; ma la lorovoce penetra nel cuore solo se ad essa si aggiunge quella interiore dello Spirito”.

In virtù di questa “si passa dalle enunciazioni di fede alla loro realtà” afferma il frate. Inoltrel’unzione della fede - aggiunge - produce “un effetto collaterale” nell’annunciatore: trasformal’evangelizzazione "da incombenza e dovere, in onore e motivo di vanto”. La “lieta notizia”,infatti, “prima ancora che chi la riceve, rende lieto chi la reca”.

L'ultimo pensiero è dedicato, infine, a Maria. È Lei, conclude il predicatore della Casa Pontificia,“il modello di ogni evangelizzatore e di ogni catechista”, perché “insegna a riempirci di Gesù perdarlo poi agli altri”.

 

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 7 dicembre 2012 ( ZENIT.org ) –

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http://www.zenit.org/article-34380?l=italian

 

L' ANNO DELLA FEDE,

E IL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

fra RANIERO CANTALAMESSA

prima predica di avvento 2012

7 dicembre 2012

 

1. Il libro “mangiato”

Nella predicazione alla Casa Pontificia, cerco di farmi guidare, nella scelta dei temi, dalle grazieo dalle ricorrenze speciali che la Chiesa vive in un dato momento della sua storia. Di recenteabbiamo avuto l’apertura dell’anno della fede, il cinquantesimo anniversario del concilioVaticano II e il Sinodo per l’evangelizzazione e la trasmissione della fede cristiana. Ho pensato

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perciò di svolgere in Avvento una riflessione su ognuno di questi tre eventi.

 

Comincio con l’anno della fede. Per non smarrirmi in un tema, la fede, che è vasto come ilmare,  mi concentro su un punto della lettera “Porta fidei” del Santo Padre, precisamente làdove esorta caldamente a fare del  Catechismo della Chiesa Cattolica (di cui, tra l’altro, ricorrequest’anno il ventesimo anniversario di pubblicazione) lo strumento privilegiato per viverefruttuosamente la grazia di questo anno. Scrive il papa nella sua lettera:

 

“L’Anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoperta e lo studio dei contenutifondamentali della fede che trovano nel Catechismo della Chiesa Cattolica la loro sintesisistematica e organica. Qui, infatti, emerge la ricchezza di insegnamento che la Chiesa haaccolto, custodito ed offerto nei suoi duemila anni di storia. Dalla Sacra Scrittura ai Padri dellaChiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre unamemoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progressonella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede”[1].

 

Non parlerò certo del contenuto del CCC, delle sue ripartizioni, criteri informativi; sarebbe comevoler spiegare la Divina Commedia a Dante Alighieri.  Piuttosto vorrei sforzarmi di mostrarecome fare perché questo libro, da strumento muto, come un violino di pregio posato su unpanno di velluto, si trasformi in strumento che suona e scuote i cuori. La passione secondoMatteo di Bach rimase per più di un secolo una partitura scritta, conservata in archivi musicali,finché nel 1829 Felix Mendelssohn  ne allestì a Berlino una esecuzione  magistrale e da quelgiorno il mondo seppe che melodie e cori sublimi erano racchiusi in quelle pagine rimaste finoallora mute.

 

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Sono realtà diverse, è vero, ma qualcosa del genere avviene con ogni libro che parla della fede,compreso il CCC: si deve passare dalla partitura all’esecuzione, dalla pagina muta a qualcosadi vivo che fa vibrare l’anima. La visione di Ezechiele della mano tesa che porge un rotolo ciaiuta a capire cosa si richiede perché questo avvenga:

 

“Io guardai, ed ecco una mano stava stesa verso di me, la quale teneva il rotolo di un libro; losrotolò davanti a me; era scritto di dentro e di fuori, e conteneva lamentazioni, gemiti e guai.Egli mi disse: «Figlio d’uomo, mangia ciò che trovi; mangia questo rotolo, e va’ e parla alla casad’Israele». Io aprii la bocca, ed egli mi fece mangiare quel rotolo. Mi disse: «Figlio d’uomo,nùtriti il ventre e riempiti le viscere di questo rotolo che ti do». Io lo mangiai, e in bocca mi fudolce come del miele” (Ez 2,9-3,3).

 

Il Sommo Pontefice è  la mano che, in quest’anno, porge di nuovo alla Chiesa il CCC, dicendo aogni cattolico: “Prendi questo libro, mangialo, riempitene le viscere”. Che significa mangiare unlibro? Non solo studiarlo, analizzarlo, memorizzarlo, ma farlo carne della propria carne esangue del proprio sangue, “assimilarlo”, come si fa materialmente con il cibo che mangiamo.Trasformarlo da fede studiata in fede vissuta.

 

Questo non è possibile farlo con tutta la mole del libro, e con tutte e singole le cose in essocontenute. Non è possibile farlo analiticamente, ma solo sinteticamente. Mi spiego. Bisognacogliere il principio che informa e unifica il tutto, insomma il cuore pulsante del CCC. E cos’èquesto cuore? Non è un dogma, o una verità, una dottrina o un principio etico; è una persona:Gesù Cristo! “Pagina dopo pagina –scrive il Santo Padre a proposito del CCC, nella stessalettera apostolica – si scopre che quanto viene presentato non è una teoria, ma l’incontro conuna Persona che vive nella Chiesa”.

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Se tutta la Scrittura, come afferma Gesù stesso, parla di lui (cf. Gv 5,39), se essa è gravida diCristo e si riassume tutta quanta in lui, potrebbe essere diversamente per il CCC che, dellastessa Scrittura, vuole essere una esposizione sistematica, elaborata dalla Tradizione, sotto laguida del Magistero?

 

Nella Parte prima, dedicata alla fede, il CCC ricorda il grande principio di san Tommasod’Aquino secondo cui “l’atto di fede del credente non si ferma all’enunciato, ma raggiunge larealtà” (Fides non terminatur ad enunciabile sed ad rem”)[2]. Ora, qual è la realtà, la “cosa”ultima della fede? Dio, certamente! Non, però, un dio qualsiasi che ognuno si raffigura a suogusto e piacimento, ma  il Dio che si è rivelato in Cristo, che si “identifica” con lui al punto dipoter dire: “Chi vede me vede il Padre” e “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che èDio, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18).

 

Quando diciamo fede “in Gesù Cristo” non stacchiamo il Nuovo dall’Antico Testamento, nonfacciamo iniziare la vera fede con la venuta in terra di Cristo. Se così fosse, escluderemmo dalnumero dei credenti lo stesso Abramo che chiamiamo “nostro padre nella fede” (cf. Rom 4,16).Identificando il Padre suo con “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” (Mt 22, 32) e  con ilDio “della legge e dei profeti” (Mt 22, 40), Gesù ha autenticato la fede ebraica, ne ha mostrato ilcarattere profetico, affermando che è di lui che essi parlavano (cf. Lc 24, 27. 44; Gv 5, 46). Èquesto che rende la fede ebraica diversa, agli occhi dei cristiani, da ogni altra fede e chegiustifica la statuto speciale di cui gode, dopo il Concilio Vaticano II, il dialogo con gli ebreirispetto a quello con altre religioni.

 

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2. Kerygma e didachè

All’inizio della Chiesa era chiara la distinzione tra kerygma e didaché. Il kerygma, che Paolochiama anche “il vangelo”, riguardava l’opera di Dio in Cristo Gesù, il mistero pasquale di mortee risurrezione, e consisteva in formule brevi di fede, come quella che si deduce dal discorso diPietro il giorno di Pentecoste: “Voi l’avete crocifisso, Dio l’ha risuscitato e lo ha costituitoSignore” (cf. Atti 2, 23-36), oppure: “Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore eavrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato” (Rom 10,9).

 

La didaché indicava invece l’insegnamento successivo alla venuta alla fede, lo sviluppo e laformazione completa del credente.  Si era convinti (Paolo soprattutto) che la fede, come tale,sbocciava solo in presenza del ker ygma. Esso non era un riassunto della fede o unaparte di essa, ma il seme da cui nasce tutto il resto. Anche i 4 Vangeli furono scritti dopo,precisamente per spiegare il kerygma.

 

Anche il più antico nucleo del credo riguardava Cristo, di cui metteva in luce la duplicecomponente, umana e divina. Un esempio di esso è ritenuto il versetto della Lettera ai Romaniche parla di Cristo “nato dalla stirpe di Davide secondo la carne,  dichiarato Figlio di Dio conpotenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti” (Rom 1,3-4). Ben prestoquesto nucleo primitivo, o credo cristologico, venne inglobato in un contesto più ampio, come ilsecondo articolo del simbolo di fede. Nascono, anche per esigenze legate al battesimo, isimboli trinitari giunti fino a noi.

 

Questo processo fa parte di quello che Newman chiama “lo sviluppo della dottrina cristiana”; èun arricchimento, non un allontanamento dalla fede originaria. Sta a noi oggi –in primo luogo aivescovi, ai predicatori, ai catechisti – far risaltare il carattere “a parte” del kerygma come

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momento germinativo della fede. In un’opera lirica, per riprendere l’immagine musicale, c’è ilrecitativo e c’è il cantato e nel cantato ci sono gli “acuti” che scuotono l’uditorio e provocanoemozioni forti, a volte anche brividi.  Ora sappiamo qual è l’acuto di ogni catechesi.

 

La nostra situazione è tornata ad essere la stessa del tempo degli apostoli. Essi avevanodavanti a sé un mondo precristiano da evangelizzare; noi abbiamo davanti a noi, almeno percerti versi e in certi ambienti, un mondo post-cristiano da ri-evangelizzare. Dobbiamo ritornareal loro metodo, riportare alla luce “la spada dello Spirito” che è l’annuncio, in Spirito e potenza,di Cristo morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione (cf. Rom 4,25).

 

Il kerygma non è però solo l’annuncio di alcuni fatti o verità di fede ben precisi; è anche un certoclima spirituale che si può creare qualunque cosa si dica, uno sfondo sul quale tutto si colloca. Sta all’annunciatore, mediante la sua fede, permettere allo Spirito Santo di creare questaatmosfera.

 

Qual è allora, ci chiediamo, il senso del CCC? Lo stesso di quello che nella chiesa apostolicaera la didachè: formare la fede, darle un contenuto, mostrarne le esigenze etiche e pratiche,portare la fede a rendersi “operante nella carità” (cf. Gal 5,6). Lo mette bene in luce unparagrafo dello stesso CCC. Dopo aver ricordato il principio tomistico che “la fede non terminanelle formulazioni, ma nella realtà”, esso aggiunge:

 

“Tuttavia, queste realtà noi le accostiamo con l’aiuto delle formulazioni della fede. Esse ci

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permettono di esprimere e di trasmettere la fede, di celebrarla in comunità, di assimilarla e diviverne più intensamente”[3].

 

In questo appare l’importanza della terza “C” del titolo “Catechismo della Chiesa Cattolica”, cioèdell’aggettivo “cattolica”. La forza di alcune Chiese non cattoliche è di puntare tutto sulmomento iniziale, la venuta alla fede, l’adesione al kerygma e l’accettazione di Gesù comeSignore, visto come un “nascere di nuovo”, o come “seconda conversione”. Ma questo puòdivenire un limite se ci si ferma ad esso e tutto continua a ruotare intorno ad esso.

 

Noi cattolici abbiamo da imparare qualcosa da tali chiese, ma abbiamo anche tanto da dare.Nella Chiesa cattolica tutto ciò è l’inizio, non la fine della vita cristiana. Dopo quella decisione, siapre il cammino verso la crescita e la pienezza della vita cristiana e, grazie alla sua ricchezzasacramentale, al magistero, all’esempio di tanti santi, la chiesa cattolica è in una situazioneprivilegiata per condurre i credenti alla perfezione della vita di fede. Scrive il papa nella citatalettera “Porta fidei”:

 

“Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hannoattraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesaha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nellaloro vita di fede”.

 

3. L’unzione della fede

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Ho parlato del kerygma come dell’”acuto” della catechesi. Ma per produrre questo acuto nonbasta alzare il tono della voce, occorre altro. “Nessuno può dire: ‘Gesù è il Signore!’ [è questol’acuto per eccellenza!] se non nello Spirito Santo” (1 Cor 15,3). L’evangelista Giovanni fa unaapplicazione del tema dell’unzione che si rivela particolarmente attuale in questo anno dellafede. Scrive:

 

“Quanto a voi, avete ricevuto l’unzione dal Santo e tutti avete conoscenza […]. L’unzione cheavete ricevuta da lui rimane in voi, e non avete bisogno dell’insegnamento di nessuno; masiccome la sua unzione vi insegna ogni cosa ed è veritiera, e non è menzogna, rimanete in luicome essa vi ha insegnato” (1 Gv 2, 20.27).

 

L’autore di questa unzione è lo Spirito Santo, come si deduce dal fatto che altrove la funzione di“insegnare ogni cosa” è attribuita al Paraclito come “Spirito di verità” (Gv 14, 26). Si tratta, comescrivono diversi Padri, di una “unzione della fede”: “L’unzione che viene dal Santo –scriveClemente Alessandrino – si realizza nella fede”; “L’unzione è la fede in Cristo”, dice un altroscrittore della stessa scuola[4].

 

Nel suo commento, Agostino rivolge, a questo proposito, una domanda all’evangelista. Perché,dice, hai scritto la tua lettera, se quelli ai quali ti rivolgevi avevano ricevuto l’unzione cheinsegna ogni cosa e non avevano bisogno che alcuno li istruisse?  Perché questo stesso nostroparlare e istruire i fedeli? Ed ecco la sua risposta, basata sul tema del maestro interiore:

 

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“Il suono delle nostre parole  percuote l’orecchio, ma il vero maestro sta dentro […] Io ho parlatoa tutti, ma coloro dentro i quali non parla quell’unzione, quelli che lo Spirito non istruisceinternamente, se ne vanno via senza avere nulla appreso […]. È dunque  interiore il maestroche veramente istruisce; è Cristo, è la sua ispirazione ad istruire”[5].

 

C’è dunque bisogno di istruzione dall’esterno, c’è bisogno di maestri; ma la loro voce penetranel cuore solo se ad essa si aggiunge quella interiore dello Spirito. “Noi siamo testimoni diqueste cose e anche lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli ubbidiscono” (Atti 5, 32).Con queste parole, pronunciate davanti al sinedrio, l’apostolo Pietro non solo afferma lanecessità della testimonianza interiore dello Spirito, ma indica anche qual è la condizione perriceverla: la disponibilità a obbedire, a sottomettersi alla Parola. È l’unzione dello Spirito che fapassare dalle enunciazioni di fede alla loro realtà. È un tema caro all’evangelista Giovanniquello del credere che è anche conoscere: “Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore  che Dioha per noi” (1 Gv 4,16). “Noi abbiamo conosciuto e creduto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 69).“Conoscere”, in questo caso, come in genere in tutta la Scrittura, non significa quello chesignifica per noi oggi e cioè avere l’idea o il concetto di una cosa. Significa sperimentare,entrare in relazione con la cosa o con la persona [6]. L’affermazione della Vergine: “Nonconosco uomo”, non voleva certo dire non so cos’è un uomo …

 

Fu un caso di evidente unzione della fede quello che Pascal sperimentò nella notte del 23Novembre 1654 e che fissò con brevi frasi esclamative in uno scritto trovato dopo la mortecucito all’interno della sua giacca:

 

“Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza.Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo […]. Lo si trova soltanto per le vie del Vangelo.[…]. Gioia, gioia. Gioia, lacrime di gioia. […] Questa è la vita eterna, che essi conoscano te,

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solo vero Dio e colui che hai mandato: Gesù Cristo”[7].

 

L’unzione della fede avviene di solito quando, su una parola di Dio o su una affermazione difede, cade improvvisamente l’illuminazione dello Spirito Santo, accompagnata di solito da unaforte emozione. Ricordo che un anno, nella festa di Cristo Re, ascoltavo nella prima lettura dellaMessa la profezia di Daniele sul Figlio dell’uomo:

 

“Io guardavo, nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figliod’uomo; egli giunse fino al vegliardo e fu fatto avvicinare a lui; gli furono dati dominio, gloria eregno, perché le genti di ogni popolo, nazione e lingua lo servissero. Il suo dominio è undominio eterno che non passerà, e il suo regno è un regno che non sarà distrutto” (Dan7,13-14).

 

Il Nuovo Testamento, si sa, ha visto realizzata la profezia di Daniele in Gesù; lui stesso davantial sinedrio la fa sua (cf. Mt 26, 64); una frase del testo è entrata perfino nel credo (“cuiusregnum non erit finis”). Io conoscevo, dai miei studi, tutto questo, ma  in quel momento era un’altra cosa. Era comese la scena si svolgesse lì, sotto i miei occhi. Sì, quel figlio dell’uomo che si avanzava eraproprio lui, Gesù. Tutti i dubbi e le spiegazioni alternative degli studiosi, che pure conoscevo, misembravano, in quel momento, semplici pretesti per non credere. Sperimentavo, senza saperlo,l’unzione della fede.

 

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Un’altra volta (credo di aver condiviso già in passato questa esperienza che però aiuta a capire)assistevo alla Messa di Mezzanotte presieduta da Giovanni Paolo II in San Pietro. Arrivò ilmomento del canto della Kalenda, cioè la solenne proclamazione della nascita del Salvatore,presente nell’antico Martirologio e reintrodotta nella liturgia natalizia dopo il Vaticano II:

 

“Molti secoli dalla creazione del mondo…

Tredici secoli dopo l’uscita dall’Egitto…

Nella centonovantacinquesima Olimpiade,

Nell’anno 752 dalla fondazione di Roma…

Nel  quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Augusto,

Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, essendo stato concepito per opera delloSpirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce a Betlemme di Giudea dalla Vergine Maria, fattouomo”.

 

Giunti a queste ultime parole provai una improvvisa chiarezza interiore, per cui ricordo chedicevo tra me: “È vero! È tutto vero questo che si canta! Non sono soltanto parole. L’eternoentra nel tempo. L’ultimo avvenimento della serie ha rotto la serie; ha creato un “prima” e un“dopo” irreversibili; il computo del tempo che prima avveniva in relazione a diversi avvenimenti(olimpiade tale, regno del tale), ora avviene in relazione a un unico avvenimento”: prima di lui,

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dopo di lui. Una commozione improvvisa mi attraversò tutta la persona, mentre potevo solo dire:“Grazie, Santissima Trinità, e grazie anche a te, Santa Madre di Dio!”.

 

L’unzione dello Spirito Santo produce anche un effetto, per così dire, “collaterale”nell’annunciatore: gli fa sperimentare la gioia di proclamare Gesù e il suo Vangelo. Trasformal’evangelizzazione da incombenza e dovere, in un onore e un motivo di vanto. È la gioia checonosce bene il messaggero che reca a una città assediata l’annuncio che l’assedio è statotolto, o l’araldo che nell’antichità correva avanti a portare al popolo l’annuncio di una vittoriadecisiva ottenuta sul campo dal proprio esercito. La “lieta notizia”, prima ancora che chi lariceve, rende lieto chi la reca.

 

La visione di Ezechiele del rotolo mangiato si è realizzata una volta nella storia in senso ancheletterale e non solo metaforico. È stato quando il rotolo delle parole di Dio si è racchiuso in unasola Parola, il Verbo. Il Padre l’ha porto a Maria; Maria lo ha accolto, se ne è riempita, anchefisicamente, le viscere, e poi l’ha dato al mondo, lo ha “proferito” partorendolo. Lei è il modellodi ogni evangelizzatore e di ogni catechista. Ci insegna a riempirci di Gesù per darlo agli altri.Maria ha concepito Gesù “per opera dello Spirito Santo” e così deve essere anche di ogniannunciatore.

 

Il Santo Padre conclude la sua lettera di indizione dell’anno della fede con un richiamo allaVergine: “Affidiamo, scrive, alla Madre di Dio, proclamata “beata” perché “ha creduto” (Lc 1,45),questo tempo di grazia”[8]. A lei chiediamo di ottenerci la grazia di sperimentare, in questoanno, tanti momenti di unzione della fede. “Virgo fidelis, ora pro nobis”. Vergine credente, pregaper noi.

 

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Page 16: Come in un canto, il Kerygma è 'l'acuto' di ogni catechesi · Tommaso d’Aquino secondo cui “l’atto di fede del credente non si ferma all’enunciato, ma raggiunge la realtà”.

Come in un canto, il Kerygma è "l'acuto" di ogni catechesi

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

[1] Benedetto XVI, Lett. apost. “Porta fidei”, n.11

[2] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, 1,2,ad 2; cit. in CCC, n.170.

[3] CCC, n. 170

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Come in un canto, il Kerygma è "l'acuto" di ogni catechesi

[4] Clemente Al. Adumbrationes in 1 Johannis (PG 9, 737B); Homéliies paschales (SCh 36,p.40): testi citati da  I. de la Potterie, L’unzione del cristiano con la fede, in Biblica 40, 1959,12-69.

[5] S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni 3,13  (PL  35, 2004 s).

[6] Cf. C.H. Dodd, L’interpretazione del Quarto Vangelo, Brescia, Paideia1974, pp. 195 s.

[7] B. Pascal, Memoriale, ed. Brunschvicg.

[8] “Porta fidei”, nr. 15.

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