Collana Thrales – Linea Magenta · Il 3 è un numero sacro per molte culture ed è presente nella...

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© 2014 – Marzia Bosoni e Alessandro CaselliCollana Thrales – Linea Magenta

[email protected]

Le illustrazioni all’interno del libro sono state realizzate da Anna Lizeth Dosi

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Ai miei figli Sara, Simone e David.A mio marito Alessandro, e ad Alex.

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MARZIA BOSONI

UNA VITADI CARTA

THRALES

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Introduzione alla collana Thrales

Il 3 è un numero sacro per molte culture ed è presente nella

simbologia e nella mistica di popoli lontanissimi fra loro per posizione

geografica e per pensiero; simbolo di vita e di creazione, nasce dalla

fusione degli opposti e rappresenta la perfezione.

I libri della Collana Thrales, contrazione di “THRee tALES”, raccolgono

perciò tre racconti alla volta per consegnare al lettore una sintesi

“perfetta” dell'argomento trattato.

La Collana Thrales prevede naturalmente tre differenti linee,

contraddistinte dai tre colori primari: giallo, ciano e magenta.

Partendo da un foglio bianco, nemesi di ogni scrittore, i nostri tre

colori consentono di fissare tonalità diverse per creare qualunque

immagine; allo stesso modo, le nostre tre linee danno spazio ad ogni

sfumatura di pensiero per regalare letture più vivide.

La Linea Giallo raccoglie i libri per bambini.

La Linea Ciano i racconti fantastici.

La Linea Magenta riguarda i testi di narrativa.

Un triplice viaggio nella fantasia, nella realtà e in quello che c'è oltre, i

sogni.

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INTRODUZIONE

Molti anni fa lessi per la prima volta le opere di Anthony de Mello.

Come il piccolo seme di un’antica parabola, i suoi scritti lavorarono a

lungo nelle profondità del mio cuore e il seme diede infine vita ad una

giovane ma robusta pianta. Per altri anni ancora, la mia pianta ha

tratto vita ed energia dalle persone che ho incontrato, dai libri che ho

letto, dalle mie riflessioni e da ogni cosa che i miei sensi afferravano e

portavano alla mente e al cuore. Uno alla volta, dalla mia pianta sono

nati alcuni frutti, oggi maturi. Il loro sapore è un po’ acidulo e certo

risulterà sgradevole ad alcuni, ma spero che altri lo sappiano ricono­

scere ed apprezzare. Io ve li offro per rispettare il saggio proverbio in­

diano secondo cui “tutto ciò che non viene donato, va perduto”. In

tutto sono sei frutti, sei racconti semplici e… pronti da consumare.

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CAPITOLO I

Oggi c’è la New Age, centinaia di volumi sugli angeli, sulla crescita

spirituale, sui cammini iniziatici… Una moda.

Come i centri di Yoga, le conclamate conversioni al Buddismo, la spi­

ritualità orientale.

E quando la moda passerà? Che nutrimento trae la nostra anima da

tutte queste meditazioni tra profumi d’incenso e candele?

Un benessere passeggero, un alito di aria fresca in una stanza che re­

sta chiusa. Noi restiamo chiusi. Parliamo, lavoriamo, andiamo, tornia­

mo, possediamo oggetti ed abbiamo amici. E la vita ci sfugge via.

Perché non sappiamo fare, dire e percepire le cose vere.

Ci impossessiamo avidi di bellezza e saggezza, che nelle nostre mani

divengono vuoti giocattoli senza senso.

Prendiamo una parola che custodisce una verità e ne facciamo LA no­

stra Verità. Con la nostra arroganza cancelliamo da quella parola ogni

traccia di verità e poi, presuntuosi e prepotenti, la diamo agli altri,

anzi la imponiamo. Perché ciò che è vero per noi deve essere vero per

gli altri. E nessuno è risparmiato dal nostro zelo “evangelista”! Proprio

come in questi duemila anni.

Se uno ha una sola Verità, è monoteista.

Se uno ne ha molte, è politeista.

Se dice di non avere più Verità, è ateo.

Se non gliene importa granché, è agnostico.

Abbiamo una parola per tutto.

E purtroppo il tutto per noi è solo una parola.

E se per un giorno restassimo senza parole?

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QUANDO IL MONDO RESTO’ SENZA PAROLE

La mamma si alzò prima quella mattina.

Era Aprile, un bell’Aprile tiepido e profumato, ma la mamma aveva

poco tempo per gustarsi quel bel cielo striato di colori impossibili: il

papà aveva una riunione importante in azienda (i grandi fanno sem­

pre tante riunioni e sono sempre tutte importanti) e lei doveva prepa­

rargli la colazione, un bigliettino affettuoso da nascondergli nella vali­

getta e poi c’erano i vestiti dei bambini da preparare, le loro colazioni,

e le merende… Insomma, era una mamma e non aveva tempo da per­

dere.

Accese il televisore automaticamente e si mise a scrivere il biglietto.

Poche righe, sorrise sapendo che il papà avrebbe pensato che era ter­

ribilmente infantile e ripose il biglietto tra le anonime carte del papà.

Si alzò per preparare il caffè e, passando davanti al televisore, si ac­

corse che non c’era l’audio. Alzò il volume: nulla. Alzò ancora un po’,

ed ancora, ma quei tizi continuavano a muovere le labbra inutilmente.

Uno dopo l’altro provò i vari canali: inutile, era rotto.

Poi vide la scritta: Edizione Straordinaria del TG.

Accanto al giornalista con l’espressione imbarazzata e sorpresa com­

parve in sovrimpressione un breve comunicato. Tutto il mondo era

senza parole. Letteralmente.

La mamma non capì cosa significasse quello strano messaggio che

meritava addirittura un’edizione speciale a quell’ora del mattino e,

quasi avesse sentito i suoi pensieri, il giornalista provò a parlare, si

toccò la gola e scosse impotente la testa. Ma che scherzo era mai

quello! Questo pensiero fu formulato ad alta voce, o almeno così cre­

deva la mamma. Perché la sua gola non emise un suono. Non uno.

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Riprovò a parlare, poi ad urlare. Il solo rumore era il ronzio basso del

televisore e i primi cinguettii dei passeri. Dimenticò immediatamente

il telegiornale e pensò di essere diventata muta. Corse a chiamare il

papà che, svegliato bruscamente da strattoni e spinte non si accorse

che i suoi brontolii erano solo silenzio.

Dieci minuti dopo quasi tutti i canali trasmettevano messaggi simili al

primo, ma sia la mamma che il papà non prestavano la minima atten­

zione: affacciati alla finestra stavano cercando, a grandi gesti, di co­

municare il loro stupore alla gente che nonostante l’ora era già scesa

in strada per capire cosa stava succedendo.

L’ora successiva trascorse tra mille gesti più o meno incomprensibili,

qualche lacrima d’isterismo della mamma e il folle e del tutto inutile

tentativo di capire qualcosa leggendo i messaggi televisivi. Il mondo,

quello umano, aveva perso la voce. Tutto qua.

Di lì a poco sarebbe cominciata l’insensata processione di professori

ed esperti che, digitando lentamente e goffamente su tastiere di enor­

mi schermi alle loro spalle, avrebbero finito con l’essere ancora più

noiosi, se possibile, di quanto non fossero i loro soliti discorsi.

Ma era tardi! Il papà aveva una riunione.

Scartata l’idea di telefonare per dire che non avrebbe partecipato (più

che un telefono ci sarebbe voluto un telegrafo!) decise di andare per­

ché magari quella bizzarra magia non aveva colpito proprio tutti e in

tal caso come avrebbe potuto motivare la sua assenza da una riunio­

ne così importante? (I grandi sono fatti così: stanno sempre a preoc­

cuparsi di cosa la gente potrebbe pensare se per un attimo non si

comportassero esattamente come il loro ruolo esige.)

La mamma restò sola con un pensiero fisso: come avrebbero reagito i

bambini? E non solo i suoi, ma tutti i bambini del mondo!

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Certo si sarebbe aspettata di tutto – lacrime, paura, curiosità, per­

plessità, persino che non reagissero in alcun modo, ma sicuramente

non quella pazza ed incontenibile allegria ed ilarità che si impossessò

di loro (e di quasi ogni altro bambino) quando compresero cosa stava

accadendo. Cominciarono a ridere, o meglio ci provarono, e questo

scatenò un’ilarità ancora più irrefrenabile perché stare lì, con la bocca

spalancata che non produceva nemmeno il minimo suono, era davve­

ro troppo per non riderne!

Da un lato sollevata, dall’altro ancora più perplessa, la mamma li in­

citò a gesti e segni a vestirsi e mangiare: era ora di andare a scuola.

In realtà capiva perfettamente l’inutilità di portarli a scuola come se

nulla fosse, ma era solo una scusa per vedere altra gente – genitori,

insegnanti, chiunque – nella speranza di trovare una spiegazione logi­

ca. Ma, ahimè, questa era anche la speranza di tutti gli altri.

In giro non c’erano praticamente macchine, ma ovunque si vedevano

silenziosi e frenetici capannelli che si formavano e disfacevano conti­

nuamente: le persone si fermavano qualche istante ad osservare i ge­

sti e la mimica di uno o dell’altro, poi ricominciava il forsennato muli­

nare delle braccia per esprimere consenso, disaccordo o, più frequen­

temente, solo confusione.

La mamma puntò dritto alla scuola cercando tuttavia di cogliere il

maggior numero possibile di “commenti” mimati. Per un attimo un

pensiero divertente le attraversò la mente: chissà come si sentivano

frustrate tutte quelle persone che non potevano inveire ad alta voce (e

nemmeno a bassa voce, se è per questo) contro lo Stato e l’America

che senz’altro c’entrava qualcosa in tutto questo! E la mamma, d’un

tratto, si sorprese a ridere e a congratularsi con l’autore di quello

scherzetto.

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Ma poi la sua responsabilità di mamma riprese il sopravvento. Un bel­

lo scherzo dura poco.

Batté le mani per attirare l’attenzione dei bambini che, vedendo tutti

quegli adulti così sconvolti avevano avuto un’altra crisi di allegria.

Arrivata alla scuola vide che la situazione era quasi uguale: genitori

ed insegnanti cercavano di calmarsi gli uni gli altri con il solo effetto

di aumentare l’apprensione. Alcune madri, visibilmente isteriche, te­

nevano stretti i figli che cercavano continuamente di divincolarsi e

correre con gli altri. La maggior parte dei bambini, infatti, stava gio­

cando nel grande giardino accanto alla scuola che terminava, ben

protetto, proprio in riva al fiume.

Col passare del tempo tutti si calmarono un po’: gli adulti palesemen­

te esasperati da quella incomunicabilità in cui erano bloccati; i picco­

li, al contrario, più attenti e curiosi. Adesso erano quasi tutti vicino al

parapetto che separava il giardino dall’argine del fiume silenzioso. O

almeno silenzioso era sembrato fino a quel giorno, coperto dalle urla

dei bambini (e degli insegnanti) e dal traffico delle strade vicine.

Ma oggi, in quel silenzio incantato, il fiume poteva parlare. I bambini

lo guardavano, le bocche semiaperte di stupore e gli occhi sereni: il

fiume cantava. Ed i bambini si lasciarono stregare dalla sua ritmica

canzone: da quanto tempo il fiume cantava per loro senza che lo sa­

pessero?

Anche qualche genitore si unì a loro e perfino un’insegnante. Quello

che accadde in quel momento a tutte quelle persone, uomini, donne e

bambini seduti ad ascoltare il fiume, non deve essere narrato perché

una magia svelata non è più tale. Ma furono attimi bellissimi e a qual­

cuno (pochi in verità) questi attimi cambiarono la vita o forse sola­

mente il loro atteggiamento nei confronti della vita.

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Chi prima chi dopo, tornarono tutti a casa: era l’ora di pranzo e le

vecchie abitudini sono dure a morire. Ma il resto della giornata la

mamma lo trascorse in modo davvero insolito. La televisione e la radio

giacevano lì, completamente inutili e, in fondo, per nulla rimpiante.

Poiché la riunione del papà sembrava prolungarsi ancora, la mamma

passò buona parte del pomeriggio al parco con i bambini. Ci andava­

no spesso in quel parco perché era tutto recintato e così i bambini po­

tevano giocare e scatenarsi senza che la mamma dovesse sorvegliarli

continuamente. Generalmente si sedeva sulle panchine e chiacchiera­

va per ore degli argomenti più svariati con le altre mamme. Ma oggi

non sarebbe andata così; accantonata un po’ a malincuore l’idea delle

chiacchiere, la mamma si lasciò convincere a esplorare il boschetto

che si trovava nella parte orientale del parco. I bambini c’erano già

stati con gli amici e furono orgogliosi di mostrare alla mamma i sen­

tieri, i nidi abbandonati, il muschio verde e tutti i piccoli segni che te­

stimoniavano la loro familiarità con quel posto. In quel silenzio pieno

di musica il piccolo boschetto sembrava appartenere ad un altro mon­

do e ad un altro tempo. La mamma pensò con rammarico a tutte le

volte che i suoi piccoli selvaggi l’avevano pregata di seguirli nelle loro

scoperte e lei aveva rifiutato per non essere scortese e lasciare le ami­

che. Quanto più scortese era stata con i suoi figli che non chiedevano

altro che renderla partecipe del loro regno verde.

Scacciò via decisa la tristezza: era felice per ogni cespuglio che i bam­

bini le indicavano e si lasciò contagiare dal loro crescente entusiasmo.

E per un attimo, nuovamente, fu grata all’autore di quello che ora non

considerava più uno scherzo, bensì un dono.

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La riunione del papà era finita. Uscendo nell’aria fresca del pomerig­

gio inoltrato, il papà meditò sulla stranezza di quella giornata: non

tanto su quell’inspiegabile ed improvvisa afonia che pareva aver colpi­

to davvero tutti, ma piuttosto sugli effetti inaspettati che aveva pro­

dotto. Ripensò alla riunione appena conclusa. Era cominciata molto

tardi perché quasi tutti si erano attardati per strada cercando di veni­

re a capo di quella storia e quando poi si erano ritrovati tutti nella

sala riunioni avevano passato quasi due ore a gesticolare inutilmente

per chiedere, spiegare, ipotizzare, accusare… Alla fine il presidente

aveva richiamato l’attenzione e, sempre a gesti, aveva fatto capire che

era sua ferma intenzione rispettare l’ordine del giorno di quella impor­

tante assemblea e che confidava nella preparazione e nella maturità

dei presenti per portare a compimento quell’impresa tutt’altro che fa­

cile. (O almeno questa era l’interpretazione che il papà aveva dato a

tutto quel gesticolare composto ed autoritario!).

L’avvio dei lavori non era stato dei più incoraggianti: i punti da discu­

tere erano solo cinque e i presenti nemmeno una decina. Tutti aveva­

no l’ordine del giorno e conoscevano i termini delle questioni, il pro­

blema era discuterne… a gesti. Quando era arrivata l’ora della pausa

per il pranzo non avevano combinato proprio nulla: erano ancora al

punto primo e, tra malintesi, gestacci e confusione, attorno a quel

grande tavolo otto paia d’occhi esasperati ad accusatori si fissavano

l’un l’altro in ostile ma inevitabile silenzio.

A pancia piena si ragiona meglio e forse questo aveva contribuito a

cambiare l’atteggiamento dei presenti e l’impostazione dei lavori.

Quando erano tornati in sala riunioni, infatti, qualcuno aveva cercato

di far capire che era inutile sedersi al tavolo perché così distanti l’uno

dall’altro e per di più mezzo nascosti dal tavolo stesso era ancora più

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difficile capirsi. Gli altri avevano capito e così si erano spostati tutti

verso le grandi finestre e ora sembravano proprio uno di quei piccoli

capannelli che per tutto il giorno avevano affollato le strade. La secon­

da intuizione geniale era venuta al papà. Stava tirando fuori dalla sua

ventiquattr’ore gli appunti per dibattere il primo punto ancora in so­

speso quando era caduto il bigliettino della mamma. Con non poco

imbarazzo l’aveva raccolto pensando molto male di quella sciocca abi­

tudine della mamma di nascondere sempre bigliettini per ogni occa­

sione. Ma prima di cacciarlo in tasca gli aveva dato una rapida oc­

chiata e, benché il contenuto non fosse poi molto diverso da tanti altri

bigliettini che la mamma gli aveva scritto in precedenza, questa volta

era stato colpito da qualcosa.

“Io credo in te. Sii te stesso. Ti amo.”

(La mamma sapeva che in quella riunione il papà aveva un ruolo im­

portante e che, quindi, tutto doveva andare bene, ma soprattutto che

lui non doveva sbagliare).

Quasi fulminato il papà aveva delicatamente riposto il biglietto nella

tasca interna della giacca (quella che poggia proprio sul cuore, per in­

tenderci), aveva platealmente strappato i suoi appunti per il dibattito

e, con gesti semplici e chiari quanto possibile, aveva cercato di far ca­

pire quanto inutili fossero i loro appunti, pieni di giri di parole e di

complesse considerazioni che mai avrebbero potuto essere illustrati

da gesti, espressioni del viso e posture del corpo. La trasformazione fu

lenta, ma notevole e, agli occhi di un osservatore esterno che per for­

tuna loro non c’era, certo impressionante. Gli otto manager seri e ri­

flessivi sparivano poco a poco, lasciando il posto a otto mimi goffi ed

incerti che nessun circo avrebbe mai assunto. Ma funzionò. Certo

ogni decisione richiedeva almeno il doppio di tempo del normale, ma,

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limitati i gesti all’essenziale, accantonate le formalità e i tabù del con­

tatto fisico ed utilizzando poche frasi scritte su fogli solo per comuni­

care i passaggi più difficili da mimare, non solo riuscirono a “discute­

re” tutti i punti e giungere a decisioni più o meno soddisfacenti ma

provarono, inconfessato e ben celato nelle pieghe dell’animo, un pia­

cere insolito. Essere costretti ad utilizzare le espressioni di un viso da

troppi anni irrigidito in un’unica, seria e molto professionale espres­

sione, dover osservare con attenzione il viso, le mani e perfino il corpo

degli altri senza limitarsi ad ascoltarli distrattamente, ricuperare l’an­

cestrale ed universale alfabeto dei gesti… Certo non tutti si erano la­

sciati coinvolgere volentieri; i più irrecuperabili cercavano ugualmente

di tenere lunghi discorsi incomprensibili e si sforzavano di mantenere

la loro distaccata ed uniforme espressione, ma alla fine si accorsero

che le loro opinioni erano state scarsamente considerate nella decisio­

ne finale, forse perché nessuno le aveva comprese. Tutti, però, che lo

sapessero o meno, avevano ricevuto qualcosa da quella stranissima

esperienza.

Mentre camminava per strada il papà ripensò a quant’erano verdi gli

occhi dell’avvocato che stava alla sua sinistra: strano che non ci aves­

se mai fatto caso, perché un verde così intenso non si vede tutti i gior­

ni. E aveva anche un modo di gesticolare molto elegante. Così come lo

aveva molto colpito il sorriso aperto e fresco dell’anziano dottore (in

cosa poi non lo sapeva proprio) che generalmente sedeva all’altro capo

del grande tavolo. Era troppo distante per notarlo, pensò il papà. Ma

oggi quell’uomo era stato proprio davanti a lui e l’intensità del suo

sguardo mentre con pochi gesti netti e sicuri spiegava le sue idee ave­

va fatto sì che, per la prima volta, il papà non provasse irritazione per

le idee antiquate del vecchio che non erano mai, ma proprio mai, con­

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cordanti con le sue. Prestò invece molta attenzione al vecchio mana­

ger che lo fissava dritto negli occhi senza alcuna ostilità mentre illu­

strava opinioni ancora una volta opposte alle sue.

Il papà camminava immerso in queste felici riflessioni e lo strano si­

lenzio della città era interrotto solamente dalle rare macchine; tra la

ditta e casa sua c’erano quasi quaranta minuti di strada che al papà

piaceva percorrere chiuso nei suoi pensieri. Ma d’un tratto gli sembrò

di udire qualcosa in lontananza: possibile che qualcuno avesse ritro­

vato la voce? Valeva la pena deviare un po’ dal suo percorso e dai suoi

pensieri ed andare a vedere. Dopo poche decine di metri aveva già ca­

pito di cosa si trattasse in realtà; non erano voci, bensì musica, dove­

va essere uno di quei gruppi etnici che a volte si mettono a suonare

per strada. Benché non fosse minimamente interessato a questo tipo

di musica, decise di andare ugualmente a vedere, in fondo la deviazio­

ne era irrilevante: avrebbe raggiunto casa da un’altra strada, tutto

qua. Il gruppo in questione era composto da quattro persone vestite

alla moda andina che suonavano i loro strumenti – percussioni, due

flauti di Pan e chitarra – in una piazzetta chiusa al traffico e molto an­

tica. C’erano già varie persone ferme ad ascoltare la musica un po’

eterea dei flauti che evocava immediatamente vestiti dai colori accesi,

donne con grandi cappelli da uomo, rovine di città misteriose e, im­

mancabilmente, pubblicità di caffè. Una musica magica che cela

sempre un richiamo, una voce che chiama ed invita a seguirla fino a

perdersi in essa. Anche il papà si fermò e, forse per la prima volta,

ascoltò. Con la mente e col cuore. Quei ritmi di popoli lontani, sconfit­

ti eppur tenaci, gli entrarono dentro e sentì il suo corpo e perfino il

suo cuore che, impercettibilmente, si muovevano come fossero parte

stessa della musica triste e bella. Capì cose che non avrebbe mai po­

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tuto dire a parole e capì l’inutilità di provarci. Un balenio nella mente,

un pensiero scomparso prima di poterlo formulare: aveva dovuto per­

dere la voce per poter ascoltare. Non per ascoltare gli altri partecipan­

ti alla riunione, e nemmeno quei ragazzi che suonavano. Per ascoltare

se stesso. Per sentire il suo cuore che suonava la stessa musica. Per

sentire lo stomaco contrarsi e la mente riempirsi di ricordi non suoi.

Si guardò intorno. Conosceva quella piazzetta, sapeva che era una

delle più antiche della città e che, nel limite del possibile, avevano cer­

cato di mantenerla intatta. Provò inspiegabilmente una grande tristez­

za per tutti gli uomini che nel corso dei secoli erano passati in quella

piazza, pieni di parole e sordi alla vita, proprio come lui e come tutti

quelli fermi ad ascoltare la musica che ora forse, nel silenzio della loro

stessa mente, avevano avuto un’intuizione, l’irragionevole e confuso

impulso di ascoltare.

Purtroppo era già tardi e il papà era un po’ preoccupato per come la

mamma se l’era cavata con i bambini. Comprò due CD dai ragazzi che

stavano facendo una pausa, si complimentò con loro e cercò di far ca­

pire che stava facendo loro i suoi migliori auguri per il futuro. Ripose i

CD nella valigetta e, con una fitta di dolore, seppe che non sarebbe

mai stato uguale, che l’incanto di quel momento non si sarebbe ripe­

tuto inserendo semplicemente un CD nello stereo. Ugualmente, voleva

quella musica: sarebbe stato il ricordo di un momento magico e parti­

colare della sua vita che mai avrebbe potuto spiegare ad altri.

Con passo lento e l’eco della musica ancora accesa nel cuore, si in­

camminò. Un quarto d’ora dopo era a casa. I bambini, non ancora

stanchi di quella novità, lo accolsero con profondi inchini ed ampi ge­

sti delle braccia e lo condussero fino dalla mamma, come se stessero

introducendo un nobile visitatore al cospetto di una regina. Pochi ge­

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sti bastarono a capire che tutto era andato bene, sia in casa, sia in

ufficio. Ma qualcosa aleggiava nell’aria, una timidezza, un imbarazzo

strano fra mamma e papà. I bambini, però non volevano rinunciare al

loro papà che non vedevano dalla sera prima e così lo trascinarono in

camera a giocare con loro; stranamente, il papà non fece alcuna resi­

stenza e, nonostante un po’ di stanchezza, si lasciò coinvolgere nei

loro giochi silenziosi ed inesauribili. La mamma fu sollevata di non

dover sostenere lo sguardo del papà (non si era accorta che nemmeno

lui riusciva a guardarla tranquillamente), ma quella sensazione sgra­

devole non l’aveva abbandonata: era la prima volta, da quando aveva

ascoltato la canzone del fiume insieme ai bambini, che si sentiva a di­

sagio e sapeva perfettamente il perché. Avrebbe voluto raccontare an­

che al papà le scoperte che aveva fatto quel giorno e ciò che aveva ca­

pito da quando la sua stessa voce e quella degli altri avevano cessato

di essere i soli suoni che la sua mente registrava. Ma come poteva?

Era tutto così strano, così infantile quello che le era successo! Ovvia­

mente questi erano gli stessi pensieri che turbavano anche il papà,

ma lei non poteva certo saperlo.

Durante la cena accesero il televisore per sapere se c’erano novità:

stessi comunicati, stesse facce attonite, stessi ‘esperti’ confusi e con­

traddittori. E nuovamente il televisore fu spento senza alcun rimpian­

to.

I bambini andarono a letto presto quella sera, stremati e felici per

quell’incredibile giornata e pregustando un’altra giornata insolita e

tutta per loro.

Anche mamma e papà, ancora divisi da quell’imbarazzo insormonta­

bile, si prepararono per andare a letto; la mamma stava sistemando i

vestiti che, come al solito, il papà gettava scompostamente in fondo al

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letto, quando vide i CD nella ventiquattr’ore aperta. Li prese e li osser­

vò come se non avesse mai visto un CD e, d’altronde, aveva ragione:

quando mai al papà era venuto in mente di comprare un CD musica­

le? E, soprattutto, di musica etnica?!?

Il papà, uscendo dal bagno, la trovò così, con i CD in mano ed un’e­

spressione quasi sconvolta in viso. Nessuno dei due sapeva cosa dire

(e d’altra parte non avrebbero comunque potuto dire nulla). Fu quan­

do si decisero a guardarsi dritti negli occhi che capirono. Ognuno

scorse la verità negli occhi dell’altro, scorse la stessa verità. Insieme

sorrisero. Ed insieme avrebbero riso, se avessero potuto. Ma insieme

risero i loro cuori e, senza saperlo, pensarono entrambi ai bambini. Il

papà capì perché ragazzi venuti da tanto lontano si fermavano a suo­

nare nelle strade. E la mamma capì perché i bambini ridevano tanto,

quel giorno.

Si addormentarono domandandosi cosa sarebbe successo il giorno

dopo e chiedendosi, senza saper rispondere, se dovevano augurarsi di

riavere la voce oppure no.

Il mattino arrivò e col mattino anche il fastidioso suono della sveglia.

La mamma si alzò come al solito, ma non accese la televisione e non

provò a parlare. Non sapeva se ci sarebbe riuscita e forse non lo vole­

va nemmeno sapere. Quando il papà si alzò a sua volta ed entrò in

cucina dove il caldo profumo del caffè lo avvolse, guardò la mamma,

ma non disse una parola. Si sorrisero e fecero colazione. Poi, improv­

visamente, udirono un grido in strada e poco dopo altri seguirono:

urla di gioia, di liberazione, di vittoria. Il silenzio forzato era finito e

così come era arrivato, furtivo nella notte, se n’era andato. Ma portan­

dosi via che cosa? Un ladro non se ne va a mani vuote.

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La mamma guardò il papà con un pizzico di dispiacere negli occhi; il

papà le fece una carezza e ricambiò il suo sguardo con tenerezza, ma

nessuno dei due sprecò parole. Qualcuno sapeva cosa si era portato

via quello strano silenzio e loro erano due dei derubati. E ne erano

contenti, addirittura grati.

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CAPITOLO II

Quando guardiamo un film, fin dalle prime immagini stabiliamo chi è

il bravo, chi dovrà morire e con chi farà coppia la bella protagonista

alla fine. E, nove volte su dieci, ci prendiamo. Certo, spesso i film

sono banali, scontati e noi affrontiamo la vita con lo stesso sentimen­

to di ovvietà. Ci crediamo smaliziati perché sappiamo bene “come va il

mondo”. Guardiamo la vita. E non la vediamo affatto. Perché in realtà,

ciò che vediamo è la nostra personalissima ricostruzione, dove tutto

ha un senso ed ognuno è al suo posto. Secondo noi.

Perciò, il marocchino che parla con una ragazza sta certamente cer­

cando di venderle qualcosa. (Mentre era lei che lo aveva fermato per

chiedergli l’ora) La mamma che accompagna il figlio cerebroleso a

scuola, poveretta, ha certo una bella croce da portare. (Mentre la don­

na ringrazia quel figlio “diverso” per tutto ciò che le ha insegnato) La

ragazza col fisico mozzafiato e il passo sicuro che attraversa la piazza

e fa voltare tutti gli uomini… mah, è un’oca o comunque una ragazza

un po’ facile. (Mentre lei pensa a sua nonna che l’aspetta alla casa di

riposo, come ogni giorno)

Nove volte su dieci ci prendiamo. Già.

Ma la verità più grande della vita sta tutta in quella decima volta che

ci ostiniamo ad ignorare.

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IL TAVOLINO VICINO ALLA VETRINA

L’orologio del palazzo vescovile segnava le dieci e quaranta; erano

quasi due ore che giravo per il centro e cominciavo a desiderare una

sedia e qualcosa di caldo da bere. Avevo sbrigato quasi tutte le com­

missioni e a casa non mi aspettava nessuno quel giorno, quindi decisi

di infilarmi in una grande tavola calda ancora semi-vuota.

Presi il vassoio con la mia ordinazione e mi avviai verso il fondo del lo­

cale lentamente, data la mia assoluta mancanza di equilibrio che mi

ha sempre portato ad osservare i camerieri che trasportano quattro o

cinque piatti alla volta destreggiandosi fra sedie, clienti e tavoli senza

nemmeno traballare come se si trattasse di numeri di magia.

Raggiunsi il tavolino più isolato e mi sedetti dando le spalle alla pare­

te, comportamento talmente evidente nel suo significato da non aver

neppure bisogno di uno psicologo per essere spiegato: da quella posi­

zione potevo osservare tutto e passare, all’occorrenza, alquanto inos­

servata e, ad ogni modo, ero certa di avere le spalle coperte.

Cominciai a mangiare e, durante la mia esplorazione visiva del territo­

rio circostante, mi soffermai a guardare quattro persone che chiac­

chieravano allegramente ad un tavolo appoggiato contro una delle ve­

trine della tavola calda. Per l’esattezza si trattava di due coppie, così

diverse fra loro che cominciai, con grande maleducazione, ad osser­

varle attentamente.

La prima coppia sembrava uscita da una pubblicità (una qualunque,

tanto lì le coppie sono sempre bellissime, allegre e piene di vita): lei

era abbastanza alta, aveva capelli castano-rossicci ed occhi verde

mare (dovetti alzarmi due volte con la scusa di andare a prendere del­

le bustine di zucchero per vedere il colore degli occhi di tutti e quat­

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tro!). Aveva un sorriso aperto e simpatico ed un fisico, appunto, da

pubblicità. Il suo compagno era indubbiamente alla sua altezza. Era

moro e aveva gli occhi scuri, labbra carnose e grandi mani; ogni cosa

in lui emanava forza e armonia. Sì, era decisamente bello.

Anche la seconda coppia poteva venire da una pubblicità, una di

quelle del tipo “Voi prima della cura – Voi dopo la cura”. Questi due,

ovviamente, erano il “prima”. Lei era una biondina con occhi di un in­

credibile blu profondo, separati da un naso troppo grande e piuttosto

aquilino. Era di statura media e decisamente sovrappeso. Lui aveva

capelli castani striati di grigio ed un inizio di calvizie alle tempie; i pic­

coli occhi chiari sembravano sul punto di essere inghiottiti dalle innu­

merevoli piccole rughe che si dipanavano a raggiera dagli angoli. Gli

mancava un braccio e l’altro non era del tutto sviluppato.

Due coppie diversissime che sembravano unite da un profondo lega­

me; pensai con tristezza alla banalità e superficialità umana: i belli

con i belli, i brutti o gli storpi con i brutti. Una specie di insano e con­

torto “a ognuno il suo”. Ricordai quello che mi aveva detto un giorno

una persona: che le ragazze brutte non possono aspettarsi di essere

ricercate e desiderate come le belle e che, in fondo, devono acconten­

tarsi di quello che trovano ed esserne contente. Certo lui non era sta­

to così esplicito, ma, dietro gli eufemismi e i giri di parole, il significa­

to era proprio quello. Ed io avevo avuto voglia di piangere per tutte le

bellissime persone brutte condannate ad una vita solitaria. Pensai al

mio amico, relegato nella bruttezza da una malattia senza speranza,

pensai al suo meraviglioso cuore, alla sua bontà e generosità. Un gior­

no l’avevo paragonato al muschio, che dona a chiunque il suo profu­

mo inebriante e non si rende nemmeno conto di quanto è prezioso.

Volevo piangere per lui che non conoscerà mai la dolcezza di un bacio

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appassionato. Perché lui è brutto. E pensai ad una DJ che conoscevo

da bambina: aveva un nome dolcissimo fatto apposta per lei, ma era

troppo grassa perché i ragazzi potessero trovarla interessante.

Tornai ad osservare i quattro seduti vicino alla vetrina; ogni tanto

esplodeva una risata e dal modo con cui si guardavano l’un l’altro e si

sfioravano la mano o il braccio a vicenda, capii che c’era davvero una

sorta di silenziosa intesa fra di loro.

Pensai (con quanta stupidità e meschinità lo compresi solo alla fine)

che la coppia “brutta” doveva essere felice di avere per amici due che,

evidentemente, non erano belli solo fuori. Quando si alzarono per an­

darsene mi alzai anch’io e mi incamminai verso l’uscita; lì mi bloccai

fulminata.

Fulminata per la mia stupidità, per la mia piccolezza d’animo, blocca­

ta dalla vergogna per tutti i pensieri formulati. Trattenni inconscia­

mente il respiro, sentivo il viso bruciare e la gola secca, il mio io pre­

suntuoso e onnisciente veniva ammutolito ed umiliato dalla scena che

avevo davanti. Perché i quattro si erano salutati e le due coppie si in­

camminavano in direzioni opposte: la bella ragazza alta e slanciata

sfiorava con le labbra il collo del suo uomo che, con il suo unico brac­

cio semi-sviluppato, la stringeva a sé. Mentre la biondina grassoccia

con gli occhi color della notte cercava calore nella mano di lui che le

sorrideva con gli occhi innamorati. Parecchie ragazze, passandogli ac­

canto, lo guardavano insistentemente (era davvero impossibile non

notarlo), ragazze carine e ragazze bellissime, ma nessuna di loro pote­

va lontanamente paragonarsi alla sua compagna perché quando lui la

guardava vedeva una bellezza sconosciuta di cui era l’unico testimo­

ne.

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A fatica recuperai la capacità di muovermi e mi diressi verso casa

camminando dietro la prima coppia. Quanti uomini si giravano a

guardare la splendida ragazza davanti a me! Ma lei, la testa ancora

appoggiata alla spalla del suo uomo, non poteva vederli: i suoi occhi

erano persi in un sogno troppo bello per loro.

La mia gola era ancora secca e la vergogna profonda, ma gli occhi,

unica parte di me che non so comandare, avevano cominciato a scio­

gliere lacrime silenziose di gioia e riconoscenza. Ora capivo qual era la

loro segreta intesa ed ora, finalmente, anch’io potevo vedere quelle

quattro persone per come erano realmente, tutte quante: belle, pro­

fondamente belle nell’amore che le avvolgeva e le illuminava.

Quel giorno Bellezza e Amore erano stati seduti vicino a me, in una

tavola calda del centro.

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CAPITOLO III

Sappiamo fare ben altro che battere sui tasti di un computer, atten­

dendo che parole, immagini o colori appaiano su uno schermo che os­

serviamo con occhi sempre più spenti.

Le nostre mani sono state create per ben altro!

Ho visto inerti mani di vecchi divenire agili e giovani intagliando pezzi

di legno per creare una rosa o un viso di donna…

E ho visto giovani mani ansiose di donare al mondo nuova bellezza,

rimanere imprigionate da catene di paura e silenzio.

Abbiamo un così grande potere!

Abbiamo il potere di dare la luce o sommergere di oscurità, d’insegna­

re a volare o di costringere a strisciare. Basta una nostra parola, un

gesto soltanto per portare un raggio di sole nella vita di chi ci sta ac­

canto. Eppure preferiamo distruggere piuttosto che creare, deridere

piuttosto che amare, imporre piuttosto che educare. E ciò che è più

grave, è che spesso ci comportiamo così per superficialità. Provochia­

mo dolore senza neppure accorgercene.

Forse Dio non avrebbe dovuto donarci un simile potere. Ma lo ha fatto

ed insieme ad esso ci ha dato il dovere d’imparare ad usarlo.

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SOGNI DI MAGNOLIA

Il bambino corse in casa felice; aveva le guance arrossate dal freddo

perché era quasi un’ora che se ne stava seduto fuori ad osservare le

stelle e benché di giorno i raggi del sole riuscissero già a scaldare la

terra, di notte il freddo e la nebbia che saliva dal fiume facevano pen­

sare che l’inverno non se ne sarebbe andato tanto presto.

“Matteo, quante volte ti ho detto di non stare fuori così a lungo? Ti

prenderai una polmonite!”

“Mi è venuta un’idea fantastica! Voglio colorare il cielo notturno.”

L’entusiasmo del bambino era grande.

“Avanti, siediti qui e scaldati” – disse Silvia indicando una sedia vicino

al termosifone.

Matteo obbedì distrattamente, nei suoi occhi brillava la luce di mille

costellazioni. “Ero là fuori – proseguì con enfasi il bambino – e guar­

davo tutte quelle stelle: come sono belle, loro stanno lì, in silenzio, e

tu non ti senti più solo. Però quando non ci sono che tristezza: nessu­

no con cui parlare, nessuno che ti ascolti, nessuno. E così voglio colo­

rarlo, il cielo. Capisci, per quando non ci sono le stelle. Ma non voglio

fare solo le stelle normali, anche le comete e le stelle cadenti. E di tut­

ti i colori perché magari a qualcuno il giallo non piace. Voglio fare

stelle rosa e comete verde chiaro e voglio metterci anche qualche nu­

voletta bianca o azzurra!”.

Matteo aveva continuato a parlare, sognante, mentre Silvia gli toglieva

le scarpe, andava a riporle in bagno e tornava con le calde pantofole

che gli aveva comprato pochi giorni prima.

“Che idea – commentò lei preparandogli una camomilla – colorare il

cielo. Di notte, poi. E chi vuoi che lo guardi il tuo cielo di notte? Qual­

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che balordo, così pieno di alcolici o di droga che lo vedrebbe colorato

comunque, il cielo, senza bisogno delle tue stelle verdi o blu. Qualche

prostituta, che ha ben altro da fare che guardare il cielo. Oppure

quelli che escono dalle discoteche e loro il cielo è meglio che non lo

guardino troppo e tengano d’occhio la strada. Mah, non so proprio per

che razza di gente lo coloreresti ‘sto cielo…

Dai, vieni che la camomilla va bevuta calda.”

A mano a mano che Silvia parlava le mille costellazioni negli occhi del

bambino si erano spente una dopo l’altra.

Succedeva sempre così.

Anche qualche giorno prima, quando Matteo aveva fatto irruzione in

casa gridando che voleva aiutare il mondo, Silvia, senza nemmeno di­

stogliere gli occhi dal giornale, gli aveva domandato “Aiutarlo a far

che? E quale mondo? Ce ne sono tanti ormai.”

Per il bambino era tutto talmente evidente e semplice – la gioia che fi­

nalmente provava dentro, quella sensazione di importanza, di essere

‘grande’, la voglia di darsi da fare per qualcosa che valeva davvero la

pena – che non riusciva proprio a comprendere lo scetticismo di Sil­

via.

Alla fine erano giunti ad un accordo: lei gli aveva dato tempo fino alla

domenica successiva per decidere cosa voleva fare. E quella notte, a

letto, Matteo aveva ringraziato Dio perché Silvia era stata così com­

prensiva e paziente con lui, che ancora non sapeva bene come doveva

aiutarlo il mondo. E si era addormentato con la certezza che avrebbe

trovato ogni risposta.

Ma adesso, mentre sorseggiava controvoglia la camomilla, si sentiva

stanco e tradito. Ed erano passati solo quattro giorni.

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Con lo sguardo implorante ed accusatorio di un cucciolo ferito dalla

mano che ama, Matteo si rivolse a Silvia trattenendo le lacrime per or­

goglio: “Dai, sii seria. Non sto scherzando. A te non va mai bene nien­

te di quello che decido.”

Silvia si sedette vicino a lui, gli passò una mano nei capelli, con dol­

cezza e amore. “Non è così. Io voglio aiutarti e proprio per questo non

voglio che ti imbarchi in imprese che ti porterebbero solo delusione e

rabbia. Se proprio vuoi, coloralo il cielo, ma la verità è questa: a chi

importa che di notte il cielo sia colorato. La notte è buia perché di

notte si dorme e al cosiddetto ‘popolo della notte’ del cielo non è mai

importato nulla, figuriamoci se noterebbero che tu l’hai colorato!” Il

tono di Silvia era sincero e carico di amore e preoccupazione per quel

bimbo sognatore, ma non riuscì ugualmente a lenire il dolore che l’e­

spressione distaccata ed indifferente del viso di lei aveva provocato

pochi minuti prima, mentre con poche parole ben mirate distruggeva

un altro sogno, ed un’altra stella spariva dal cielo, silenziosa e sola.

Il mattino dopo tutto sembrava dimenticato; Silvia, allegra e tranquil­

la come al solito, stava versando il tè per Matteo quando il bambino

entrò nella cucina invasa dai raggi del sole. Aveva un’espressione se­

rena, ma un occhio allenato, quale Silvia forse non aveva, avrebbe

certo notato che la serenità sul viso del bimbo assomigliava tanto ad

una maschera sottile che avrebbe potuto spezzarsi da un momento al­

l’altro. Non aveva chiuso occhio quella notte, perché l’idea di colorare

il cielo gli sembrava ancora fantastica e sentiva davvero che sarebbe

stato importante farlo, anche se certo non sapeva perché. Ma, come

sempre, voleva dare retta a Silvia che si comportava così per il suo

bene, perché lui era un bambino e non sapeva ancora quali erano le

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cose importanti e quelle no. E non voleva assolutamente addolorarla

mostrandosi ancora triste come la sera precedente.

“Cosa vuoi fare, oggi?” La voce di Silvia era fresca come l’acqua e così

l’idea gli venne sul momento.

“Andrò sul fiume – rispose il bambino. – Non so come ho fatto a non

pensarci prima: lui ha visto tante di quelle cose che sicuramente sa­

prà darmi l’idea giusta. Sì, voglio proprio chiedere il suo consiglio.”

“Ah – disse Silvia dando una scorsa ai titoli del giornale tra i quali tro­

neggiava un articolo sull’inquinamento dei mari – per i posti che devo­

no attraversare oggigiorno i fiumi, più che di boschi e di montagne il

tuo fiume sarà un esperto di acque di scarico e ciminiere!”

Matteo strinse le labbra e il sottile velo di serenità volò via, lasciando

il posto alla pesante cappa dello sconforto. Si alzò senza finire il tè,

sperando di riuscire ad uscire di casa prima che Silvia potesse ag­

giungere altro. Ma lei aveva già trovato un articolo più interessante

sugli accordi fra banche e governo e si limitò a gridargli, mentre lui

usciva: “Stai attento a non bagnarti, mi raccomando”.

Le giornate sul fiume erano sempre entusiasmanti per il bambino: lì

c’era tutto un mondo da scoprire ed osservare e nessuno che distur­

basse la pace e l’armonia di quel luogo. Indubbiamente era il più bel

luogo del mondo per Matteo. Parlò per ore con il fiume che paziente lo

ascoltò e per altrettante ore il bambino ascoltò rispettoso i mille consi­

gli e racconti, le favole vere e la saggezza che ogni fiume porta con sé

fino al mare. Una volta aveva letto che, tanto tempo prima, un altro

bambino che si chiamava Giovanni si era seduto in riva ad un grande

fiume placido circondato da ondeggianti pioppi simili a fantasmi e si

era fatto raccontare tutte le fiabe belle che il fiume sapeva e poi le

aveva scritte nei libri ed aveva così fatto sognare centinaia di bambini

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per tanti e tanti anni. Anche Matteo aveva sognato con quelle storie

ed aveva imparato a rispettare il fiume.

D’un tratto balzò in piedi, gli occhi scintillanti come la sera prima, ma

non erano più le stelle a brillare in loro, bensì i mille riflessi e lucci­

chii che il fiume coglie chissà dove e restituisce tutti insieme nel guiz­

zo di un pesce o in un mulinello della corrente. “Grazie! Ero certo che

mi potevi aiutare. Grazie, fiume.” E Matteo corse via, sulle ali di un al­

tro sogno e di un’altra stella.

Quando lo vide arrivare a casa molto prima del tramonto del sole, Sil­

via spense il televisore sapendo che ben presto Matteo l’avrebbe tra­

volta di parole e agitazione.

Il bambino sembrava sul punto di scoppiare: voleva dire tutto in una

volta, perché quell’idea era davvero super.

“Il fiume – cominciò senza un briciolo di fiato – il fiume mi ha dato

un’idea incredibile...”

“No, no, con calma. Prima ti siedi e riprendi fiato. Tanto è ancora pre­

sto e hai tutto il tempo per dirmi ogni cosa. Vuoi qualcosa da mangia­

re, intanto?”

Matteo fece cenno di no con la testa mentre cercava di recuperare fia­

to e di riordinare i pensieri. Non voleva che Silvia avesse dubbi, sta­

volta e quindi bisognava essere chiari, convincenti e completi.

“Allora, hai presente la grande magnolia che cresce in quel giardino

della villa abbandonata, vicino al fiume? Bene, quando metterà i fiori

io li coglierò – non ti preoccupare, prima di venire a casa sono passato

là e le ho chiesto il permesso e lei è perfettamente d’accordo – poi

metterò una goccia di rugiada dentro ogni fiore ed un piccolo cuore di

carta di colore diverso per ogni fiore. Infine li affiderò alla corrente del

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fiume che li porterà con sé per donarli a chiunque voglia un fiore ed

un po’ di affetto.”

Matteo osservò con ansia il volto di Silvia: l’idea era semplice e chia­

rissima, non poteva avere obiezioni. “Che ne dici, non ti sembra un’i­

dea stupenda?” chiese impaziente.

Lei abbozzò un sorriso compiacente e disse: “I fiori della magnolia? E

immagino che dovrai arrampicarti sull’albero per prenderli. Potrebbe

essere molto pericoloso. E poi, guarda che il fiume non scorre mica

sempre così tranquillo. Non farti ingannare, le sue correnti sono im­

prevedibili. Secondo me le tue belle barchette non farebbero dieci chi­

lometri prima di essere inghiottite dalla corrente. E se non fosse pro­

prio il fiume ad affondarle, ci penserebbero le barche: sai quante ce

ne sono?”

L’entusiasmo sul volto del bambino stava combattendo una dura bat­

taglia per non essere scacciato. “Ma se uno pensa sempre così in ne­

gativo non farà mai nulla nella vita. Lo so che ci sono dei rischi, ma il

fiume si impegnerebbe a proteggere i fiori perché arrivino a destina­

zione.”

“E quale sarebbe la loro destinazione? Il mare, dove si perderebbero

tra gli scarichi e le onde e nessuno li vedrebbe?” Silvia sembrava cer­

care disperatamente di conciliare la realtà dei fatti con i sogni senza

ferire troppo il bambino.

“Ma no! Questi fiori sono destinati a chi li sta aspettando!” Tutto era

sempre così ovvio per Matteo che provava rabbia a dover spiegare

cose così evidenti.

“Matteo, sii serio. Cosa ne sai se qualcuno sta aspettando fiori di ma­

gnolia con un cuore dentro. E la goccia di rugiada, poi! Si sciogliereb­

be subito, non capisci? Prendi quei fiori e regalali ad una signora an­

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ziana, magari. Così almeno sarai sicuro che li riceva. Ma sul fiume…”

L’espressione di Silvia diceva tutto. Diceva che l’idea, che la sua bella

idea, era stupida e irrealizzabile e che non valeva nemmeno la pena di

parlarne.

Matteo, stanco di sentirsi addosso lo sguardo colmo di compassione e

affetto di Silvia, decise di farsi una doccia, per lavarsi via quella sen­

sazione di sconfitta e sfiducia che nuovamente tornava ad assalirlo. E

proprio mentre si infilava nella doccia sentii da qualche parte la voce

di un altro bambino provenire dal passato “Oh, fiume le tue storie

sono bellissime, ma la mamma dice che sono solo sciocchezze così ho

pensato di scriverle sul mio quaderno personale e quando poi sarò

grande le pubblicherò e tutti si divertiranno con le tue favole vere. Ti

prego, raccontamene ancora…” Forse anche lui avrebbe dovuto aspet­

tare di diventare grande, ma un adulto può fare barchette di fiori e

cuori di carta?

Dopo una notte agitata che non gli diede alcun conforto, il giorno

dopo Matteo decise che, per correttezza, doveva andare dal fiume e

dirgli che dei fiori non se ne poteva fare nulla. Temporeggiò tutta la

mattinata, trovò mille commissioni e faccende da sbrigare, poi, nel po­

meriggio, quando Silvia si coricò per un sonnellino, raccolse il corag­

gio a due mani e si incamminò a passi lenti verso il fiume. Fu tremen­

damente difficile spiegare perché quella bella idea non era realizzabile,

dal momento che lui per primo non ne era assolutamente convinto,

ma il fiume non fece storie. Per la precisione non disse proprio nulla,

si limitò a scivolare via in silenzio. E Matteo si sentì ancora più triste.

Si trovò un angolino nascosto dove, sicuro di non essere visto da nes­

suno, si lasciò finalmente andare al pianto facendo rotolare brucianti

lacrimoni in un’ansa tranquilla del fiume che, fresco e vivace, rabbri­

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vidì al contatto con quel dolore cocente. Il bambino non si mosse per

tutto il pomeriggio, sopraffatto dallo sconforto, la mente presa d’as­

salto da cento pensieri tristi e brutti. Alla fine il fiume ebbe compas­

sione di tanta disperazione e pensò che al bambino serviva il consiglio

di qualcuno più saggio; se la foce fosse stata più vicina gli avrebbe

detto di chiedere al mare, Maestro di ogni saggezza, ma il mare dista­

va un centinaio di chilometri e al bambino serviva un aiuto subito.

Così gli sussurrò di rivolgersi al vento, più lunatico ed imprevedibile

dell’eterno mare, ma indubbiamente saggio e sempre pronto ad aiuta­

re un bambino triste. Matteo sollevò due occhi gonfi e rossi, abbozzò

un sorriso sincero di gratitudine e promise che il giorno dopo si sareb­

be rivolto al vento, mentre in cuor suo già sentiva rinascere la speran­

za di farcela. Perché domani sarebbe stato sabato e Matteo non aveva

più molto tempo.

Forse qualcuno lassù provò un poco di compassione per Matteo e gli

regalò un sabato caldo e sereno, con un bel cielo terso spazzato da un

vento fresco e travolgente. Matteo lo giudicò un buon segno e decise

che, per parlare con il vento, era meglio avvicinarsi al cielo per segna­

lare al vento la sua intenzione di scambiare due parole con lui. C’era

a poca distanza da casa una collinetta, in realtà niente più che un

rialzo erboso con qualche grosso albero qua e là; il bambino di sedette

sotto al platano che dominava la collinetta e si abbandonò al sole e al

vento. Fu proprio una bella giornata: l’idea prendeva forma lentamen­

te ma Matteo non se ne preoccupava, intento a gustarsi ogni momen­

to di quella deliziosa comunione con la terra. Ma prima che giungesse

la sera l’idea era lì, chiara nel suo cuore e nella sua mente, l’idea più

grandiosa, eccitante e importante che avesse mai avuto. Matteo si

prese ancora un po’ di tempo e, come un attore, provò e riprovò il mo­

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mento in cui avrebbe detto tutto a Silvia, conscio del fatto che quella

era la sua ultima possibilità, ma altrettanto consapevole che fra tutte

le idee avute, quella era la più attaccabile proprio perché la più fanta­

stica. Ormai si sentiva sicuro e così si avviò verso casa. Prima ancora

di entrare si rese conto che quello non era il momento più adatto per

parlare e decise di rimandare tutto al giorno dopo; Silvia, infatti, visi­

bilmente arrabbiata, stava stendendo fuori alcuni panni e, appena lo

vide, gli disse bruscamente: “Finalmente sei tornato. Si è rotta la lava­

trice ed ha allagato mezza casa: un disastro! Non sapevo più cosa

fare. Mi è toccato rilavare tutta questa roba, devo ancora asciugare

tutto il bagno e in più quell’affare resterà rotto per chissà quanto.

Sono distrutta, Matteo.” Il bambino ripose in fondo al cuore tutta la

sua dirompente gioia, abbracciò Silvia per consolarla un po’ e infine si

rassegnò ad asciugare il bagno: d’altronde era stato fuori tutto il gior­

no ed era giusto che facesse qualcosa.

La domenica mattina fu interamente occupata dalle faccende dome­

stiche extra che la rottura della lavatrice aveva provocato e così fu

solo verso metà pomeriggio che Matteo poté finalmente comunicare a

Silvia la sua ultima grande idea. Lo fece con la voce un po’ tremante,

perché quell’inatteso incidente domestico aveva reso Silvia nervosa e

questo ovviamente non deponeva a favore di Matteo.

“Ascoltami bene e, ti prego, rifletti bene sull’importanza di quanto sto

per dirti prima di lanciare giudizi. So che inizialmente potrà sembrarti

un po’ strano, ma vedrai che poi anche tu comprenderai quanto è fan­

tastico.

Allora, ieri ho parlato col vento; ero sulla collinetta, quella qui vicino,

hai presente? – Matteo non aspettò la risposta. Era nervoso, non era

così che aveva stabilito di cominciare dopo tutte quelle prove che ave­

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va fatto il giorno prima. – Mi ha detto tante cose, è stato gentile e così

gli ho spiegato il mio problema e gli ho chiesto un consiglio. Ed a un

certo punto lui ha avuto questa idea, così, semplicemente. Perché,

vedi, in effetti è un’idea semplice e bellissima. Ed è una cosa impor­

tante, sai. Molto importante.

L’inverno sta per finire e il vento va in giro per boschi e giardini per

avvertire le piante e i fiori che la primavera sta per arrivare e che loro

si devono preparare. Perché il vento mi ha spiegato che ogni anno ci

sono un sacco di piante così distratte che non si accorgono nemmeno

che è arrivata la primavera e lasciano passare del tempo prima di

mettere i germogli. E lo stesso vale per molti fiori. E allora sta a lui av­

vertirli perché comincino per tempo i preparativi. Capirai che è un la­

voro lungo e faticoso perfino per il vento perché non basta passare so­

pra un giardino e urlare ‘Ehi, arriva la primavera’. No, bisogna dirlo

fiore per fiore, pianta per pianta per essere sicuri che tutti abbiano il

messaggio. E così il vento ha avuto l’idea: – il momento era magico,

ora glielo avrebbe detto e tutto sarebbe dipeso dalla reazione di Silvia.

Il cuore gli faceva male e doveva continuamente deglutire per riuscire

a parlare, ma l’idea era così bella che non avrebbe potuto fallire. – mi

ha chiesto di aiutarlo in questo compito. Voglio dire che io mi dovrei

occupare dei giardini qui intorno, quelli sulla riva del fiume. Dovrei

andare in un giardino e sussurrare a ogni fiore e pianta che è in arri­

vo la primavera e che quindi è ora che preparino getti e boccioli. È un

compito importante, vero? Sai, sono molto lusingato che il vento l’ab­

bia chiesto a me. Non ho mai sentito nessuno che ha potuto lavorare

insieme al vento.

Non è bellissimo? Non dirmi che non ti piace. Il vento ha detto che po­

trei cominciare domani.”

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Silvia lo osservò per qualche secondo, chiuse gli occhi e fece un pro­

fondo respiro. E il mondo intero crollò sulle spalle del bambino. Non

era necessario che Silvia parlasse. L’idea non le piaceva. Peggio, la

trovava stupida. Matteo lo sapeva e sentì le lacrime bruciargli gli oc­

chi. Voleva fermarla, dirle di non parlare, ma era troppo tardi: glielo

aveva chiesto lui un parere.

“Matteo, di tutte le idee che hai avuto… No, lasciami parlare, ti prego.

Non è che non apprezzi i tuoi sforzi, ma questa storia del vento… è a

dir poco ridicola. Mi spieghi come faresti a raggiungere tutti, dico tutti

i fiori e le piante dei giardini qui attorno? Hai un’idea di quante piante

ci saranno? E che ne sai tu del linguaggio dei fiori? No, Matteo, qua­

lunque altra idea, ma non questa. Credimi, lo dico per te: non ha sen­

so!”

Il telefono squillò in quel momento e risparmiò ulteriori colpi al bam­

bino con le spalle piegate e gli occhi spenti che non si sarebbero più

riaccesi. Una stella moriva e di fronte a quell’agonia senza voce l’uni­

verso intero sembrava indifferente.

Finita la telefonata, Silvia si sedette sul tavolino davanti al divano

dove era abbandonato Matteo e, con voce dolce, gli chiese: “Allora,

Matteo, cosa farai domani?”

L’uomo si alzò lentamente dal divano, la testa abbassata e le spalle

curve e con voce spenta rispose: “Domani è lunedì: devo andare in uf­

ficio.”

Al funerale di Matteo-bambino non c’era nessuno e mentre la cassa

veniva calata nella terra ghiacciata si sentiva solo il lamento sordo del

bimbo che dentro la bara piangeva.

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Poco tempo dopo, passò di lì una prostituta. Una sera aveva pregato

tanto per un segno nel cielo che le ridesse la capacità di sperare e lot­

tare per un futuro migliore; aveva alzato gli occhi per scorgere qualco­

sa, qualunque cosa, ma quella sera non c’erano stelle e nessun bam­

bino aveva colorato il cielo con le sue stelle rosa e verde chiaro. E la

ragazza aveva riabbassato gli occhi per non alzarli mai più. Ed anche

le stelle del suo cielo, poche stelle rade che ancora sopravvivevano,

erano scomparse per sempre. E così, passando accanto alla tomba del

piccolo Matteo, aveva lasciato cadere un pezzetto di specchio, di quelli

che si tengono nella borsetta, perché il bambino con quel piccolo

triangolo potesse catturare il riflesso di mille stelle e non si sentisse

solo.

Poi passò una signora, gli abiti ancora bagnati. Era seduta sulla

sponda del fiume, un giorno, e pensava con tristezza alla sua vita già

vissuta per metà: era stata una vita triste, segnata dalla bruttezza e

dall’isolamento. Prima di abbandonarsi alla corrente aveva pensato

che nessuno in vita sua le aveva mai regalato un fiore, nemmeno pic­

colo piccolo. Ecco, le sarebbe bastato un fiore per vivere ancora un

po’. Ma sul fiume, quel giorno, non scivolavano i fiori di magnolia con

la goccia di rugiada ed il cuore di carta colorata che un bambino vole­

va fare. E la donna si era lasciata andare al fiume che dolcemente l’a­

veva cullata e portata con sé. Ed ora quella donna, davanti alla tomba

del bambino, lasciò cadere un bel fiore di magnolia, grande e profu­

mato come il cuore di Matteo-bambino.

Infine passò un vecchio, morto anche lui ormai. Da tempo sapeva di

dover morire e non ne era particolarmente dispiaciuto: aveva vissuto

tanto e fatto tante cose. Era vecchio, ma aveva il cuore di un giovane

poeta e così aveva avuto un solo desiderio per morire felice: arrivare a

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vedere i nuovi getti sui rami della quercia che aveva piantato suo non­

no un secolo prima. Ma la vecchia quercia, ahimè, era una pianta

molto distratta e non si era accorta che la primavera era già arrivata

ed i suoi rami pendevano moribondi e nudi fuori dalla finestra del

vecchio uomo. E nessun bambino era passato a sussurrargli di prepa­

rarsi per il grande evento della primavera. Così il vecchio era morto

con la primavera attorno, ma senza il conforto di vedere i suoi amati

nuovi getti. Per questo lasciò cadere sulla tomba un ramoscello della

quercia che, finalmente, aveva messo nuovi germogli; così altrettante

nuove vite sarebbero spuntate e il bimbo avrebbe avuto un po’ di

compagnia.

Poi la piccola processione si allontanò e Matteo restò solo. Solo nel

suo cuore.

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Prossime uscite nella collana Thrales

Alessandro Caselli e Marzia Bosoni

UN ANNO CON MELISSA – parte 1

Se non credete che i gatti possano parlare la lingua degli uomini, allora potete chiudere questo libro e riporlo sullo scaffale da cui l'avete preso o – forse dovrei dire – spegnere il vostro e-reader e riporlo nella sua custodia. Se invece credete nella fantasia, nella magia che si rivela anche attraverso i piccoli gesti quotidiani e sugli effetti che può avere anche su un mondo in cui viene pian piano sostituita dalla tecnologia, allora potete continuare nella lettura. Scoprirete come magia e tecnologia si fondano per accompagnare Melissa nel suo viaggio alla conoscenza dell'ecologia.

Marzia Bosoni

I RACCONTI DELLA QUERCIA – parte 1

C’era una volta un grande bosco, dove crescevano centinaia di alberi: abeti, larici, castagni, olmi, platani, aceri. Al centro di esso si trovava un grande spiazzo a forma di mezza luna, dove il suolo era coperto solo da una tenera e bassa erbetta e disseminato qua e là da rocce e massi. Nel punto più largo viveva un’enorme, vecchissima quercia.

Nel corso degli anni, la vecchia quercia al centro del bosco fu testimone di infinite storie che amava raccontare alle creature che la abitavano e a quei rari visitatori che si spingevano fino alla radura, senza farsi spaventare dalla barriera di cespugli e rami che la circondava. E se ora fate silenzio ed ascoltate, potrete sentire alcune delle sue storie…

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Libri fuori collana

Marzia Bosoni

UN MONDO PER SHARONAutopubblicato, 2014

Sharon ha tredici anni e la sua vita è fatta di musica, litigate con i genitori e sogni di libertà; l'improvvisa perdita della madre, però, spalanca davanti a lei un abisso di rabbia nel quale né il silenzio straziato del padre, né la ruvida comprensione della signora Teresa possono raggiungerla. E in quell'abisso Sharon rischia di perdere anche il fratellino Davide, rimasto disperatamente aggrappato al mondo fantastico inventato per loro dalla madre.

Forse l'abbraccio bizzarro di quel mondo e degli strampalati personaggi che lo abitano potrà aiutare i due fratelli a ritrovarsi nel buio del dolore, ma per farlo Sharon dovrà affrontare tutti i suoi demoni. E dovrà riportare Davide a casa.

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Marzia Bosoni

LA LUNA NEL FIUMEEditrice Zona, 2012

Queste storie parlano di persone che si sono fermate, magari senza volerlo. Si sono fermate, si sono sedute in silenzio lungo il loro fiume e, improvvisamente, hanno visto la luna. Hanno visto il suo riflesso, l’hanno sentito dentro di loro. In un attimo hanno compreso la natura di quella luce riflessa e la sua provenienza e quella consapevolezza è divenuta parte di loro. E quando infine si sono rialzati ed hanno proseguito il cammino, la luna è rimasta nel fiume e la sua luce li ha accompagnati.

Sei storie di uomini e donne comuni che, inaspettatamente, si trovano coinvolti nella straordinarietà della vita. Gli eventi che li vedono protagonisti hanno il potere di cambiare la loro vita perché, in verità, cambiano il loro modo di percepire l'esistenza. Ogni racconto inizia con il nome del personaggio principale per comunicare un fatto molto semplice, ma essenziale: i protagonisti siamo noi, ognuno di noi.

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Della stessa autrice Marzia Bosoni la saga edu-fantasy

IL MONDO DI YESOD

ARIA TERRA ACQUA

Yesod è un mondo formato da quattro regni, che prendono nome e sono caratterizzati ciascuno dai quattro elementi primordiali: Aria, Terra, Acqua, Fuoco. Quattro regni sull'orlo di una guerra fratricida a causa della scomparsa dell'antico Potere, la magia che li teneva uniti, rubato da un Nemico già una volta battuto, ma mai definitivamente sconfitto.

Quattro giovani prescelti, uno per ogni regno, dovranno partire alla ricerca delle Chiavi del Potere, i leggendari talismani che permetteranno loro di aprire le porte della fortezza di Ataf, dove era custodito il Potere, che ora giace chiusa e spenta. Avir, Karka, Mayim ed Esh, tra avventure e pericoli, vivranno un percorso di formazione, impareranno a conoscersi e capiranno che la vittoria e la salvezza sono date dall'unione di forze e differenze.

A breve in uscita i prossimi e ultimi capitoli della saga: “FUOCO” e “ATAF”